Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Osservatorio legislativo e parlamentare
Altri Autori: Avvocatura
Titolo: La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 4
Data: 29/05/2008
Descrittori:
DIRITTI DELL'UOMO   RATIFICA DEI TRATTATI


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

 

 

AVVOCATURA - SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

 

 

 

La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 4

 

 

29 maggio 2008


Il presente dossier è stato redatto congiuntamente dall’Avvocatura della Camera e dal Servizio Studi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

file: OR002.doc

 


INDICE

Introduzione   1

1. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ fondamentali (CEDU)3

1.1. I contenuti della Convenzione e dei protocolli5

1.2. Ratifica ed esecuzione della CEDU   8

1.3. Le competenze delle Commissioni permanenti in ordine alla CEDU   9

2. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo  12

3. I rapporti tra la CEDU e le fonti del diritto interno nella piu’ recente giurisprudenza costituzionale e di cassazione  16

3.1. Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007 e nn. 39 e 102 del 2008 e n. 129 del 2008  16

3.2. Il seguito delle sentenze della Corte costituzionale  29

3.3. Le prospettive alla luce del Trattato di Lisbona  38

Normativa di riferimento   41

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali43

Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, emendato dal Protocollo n° 11  56

Protocollo n° 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e della Libertà fondamentali, che riconosce ulteriori diritti e libertà fondamentali rispetto a quelli già garantiti dalla Convenzione e dal primo Protocollo addizionale alla Convenzione, emendato dal protocollo n° 11  58

Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, emendato dal Protocollo n. 11  60

Protocollo N. 12 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali63

Protocollo n. 13 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza  65

Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, emendante il sistema di controllo della convenzione  67

L. 4-2-2005 n. 11 Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari.     Art. 16-bis.73

L. 9 gennaio 2006, n. 12 Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo  75

Giurisprudenza costituzionale   77

Sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 24 ottobre 2007  79

Sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 24 ottobre 2007  110

Sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 27 febbraio 2008  129

Sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 15 aprile 2008  135

Sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 30 aprile 2008  193

Lettere della Presidenza della Camera dei deputati205

Lettera del Presidente della Camera dei deputati, on. Gianfranco Fini, ai Presidenti delle Commissioni permanenti, in data 28 maggio 2008  207

Lettera del Presidente della Camera dei deputati, on. Fausto Bertinotti, al Presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in data 31 ottobre 2006  211


Dottrina  213

CICCONETTI S.M., Creazione indiretta del diritto e norme interposte, in www.associazionedeicostituzionalisti.it215

PINELLI C., Sul trattamento giurisdizionale della CEDU e delle leggi con essa configgenti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it277

ZANGHI’ C., La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione. Le sentenze n. 347 e 348 del 2007, in www.giurcos.org  303

 

(per ulteriori articoli di dottrina si veda il dossier pdf)

 


Introduzione

 


 

1. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ fondamentali (CEDU)

La Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU) è stata elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa e firmata a Roma il 4 novembre 1950. In conformità alla disposizione dell’articolo 59 della Convenzione stessa, che ne prevedeva l’entrata in vigore in seguito al deposito di almeno dieci strumenti di ratifica, la CEDU è entrata in vigore nel settembre 1953 e il relativo sistema di protezione dei diritti raccoglie, ad oggi, 47 Stati. L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848, entrata in vigore il 26 ottobre 1955.

Con la Convenzione si è inteso perseguire gli obiettivi del Consiglio d’Europa per la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – avendo come punto di riferimento anche le enunciazioni della Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948 – attraverso l’affermazione di diritti civili e politici e la previsione di un sistema teso ad assicurare il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi assunti con la firma della Convenzione stessa.

Tale sistema è stato inizialmente incentrato sull’istituzione di tre organi: la Commissione europea dei diritti dell’Uomo, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) e il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (Comitato dei Ministri), composto dai Ministri degli esteri, o loro rappresentanti, degli Stati membri.

Nel corso degli anni il crescente aumento delle questioni sottoposte agli organi della Convenzione ha reso necessarie alcune modificazioni attraverso l’adozione di quattordici Protocolli addizionali. Tra le innovazioni più rilevanti figurano l’aggiunta di ulteriori diritti e libertà, il riconoscimento del diritto, non solo degli Stati, ma anche degli individui, di adire la Corte, nonché la semplificazione del complessivo sistema di decisione dei ricorsi per violazione dei diritti e delle libertà.

In particolare, quanto a quest’ultimo punto, il Protocollo n. 11, entrato in vigore il 1° novembre 1998, da un lato ha rafforzato il carattere giudiziario del sistema e, dall’altro, ha comportato sia la completa abolizione  di competenze decisorie in capo al Comitato dei Ministri - al quale, attualmente, spetta il controllo sull’esecuzione delle decisioni della Corte EDU - sia una sorta di riunione delle competenze, distribuite inizialmente tra la Commissione e la Corte, unicamente presso quest’ultimo organo, continuando la Commissione la propria attività in via transitoria solo per un anno.

In considerazione del crescente aumento del carico di lavoro della Corte (cfr. paragrafo 2), a partire dal 1998, è stata avviata, nell’ambito della Conferenza svolta a Roma in occasione del 50° anniversario della Convenzione, una riflessione sulle possibili e ulteriori innovazioni del complessivo sistema. Si è così pervenuti, al fine di realizzare un più efficace funzionamento della Corte europea, alla redazione del Protocollo n. 14, aperto alla firma il 13 maggio 2004 e in quella stessa data firmato da 18 Stati tra cui l’Italia. Il Protocollo, che alla data del 13 maggio 2008 è stato ratificato da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, ad eccezione della Russia, prevede le seguenti principali innovazioni:

        per i ricorsi palesemente inammissibili, le decisioni di ammissibilità, attualmente prese da un comitato di tre giudici, verranno adottate da un singolo giudice, assistito da relatori non giudici, al fine di accrescere le capacità di filtro della Corte;

        per i ricorsi ripetitivi, che appartengono cioè ad una serie derivante dalla stessa carenza strutturale a livello nazionale, l'istanza è dichiarata ammissibile e giudicata da un comitato di tre giudici (contro l'attuale sezione, composta da sette giudici) sulla base di una procedura sommaria semplificata;

        nuovi criteri di ammissibilità: nella prospettiva di permettere alla Corte una maggiore flessibilità, la Corte potrebbe dichiarare inammissibili le istanze nel caso in cui il richiedente non abbia subito uno svantaggio significativo, purché il "rispetto dei diritti umani" non richieda che la Corte si faccia pienamente carico del ricorso e ne esamini il merito. Tuttavia, per evitare che ai ricorrenti venga negata una tutela giuridica per il pregiudizio subito, per quanto minimo questo sia, la Corte non potrà rigettare un ricorso su tali basi, se lo Stato chiamato in causa non ne prevede una tutela.

Il Comitato dei Ministri, sulla base di una decisione presa a maggioranza dei due terzi, potrà avviare un'azione giudiziaria davanti alla Corte in caso di inottemperanza alla sentenza da parte di uno Stato. Il Comitato dei Ministri avrà anche il potere di chiedere alla Corte l'interpretazione di una sentenza, facoltà di ausilio per il Comitato dei Ministri nell’ambito del compito di controllo dell'attuazione delle sentenze da parte degli Stati.

Le altre innovazioni previste nel Protocollo riguardano la modifica dei termini del mandato dei giudici, dagli attuali sei anni rinnovabili ad un unico mandato di nove anni, nonché l’introduzione di una disposizione che tiene conto dell'eventuale adesione dell'Unione europea alla Convenzione.

Il Protocollo n. 14 entrerà in vigore quando la ratifica sarà effettuata da tutti gli Stati parti della CEDU. 

1.1. I contenuti della Convenzione e dei protocolli

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali consta di 59 articoli suddivisi in due titoli:

§                       Titolo I (artt. 2-18): Diritti e libertà;

§         Titolo II (artt. 19-59): Corte Europea dei Diritti dell’Uomo;

L’articolo 1 enuncia il principio del riconoscimento, da parte delle Alte Parti Contraenti, dei diritti e delle libertà definiti al Titolo I ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione.

Nella prima parte della Convenzione sono elencati i diritti e le libertà fondamentali, mentre la seconda parte è dedicata alle attività della Corte europea e alle modalità di ricorso alla stessa.

Con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ogni Stato contraente si è pertanto obbligato - nell’ambito del proprio ordinamento giuridico nazionale ed a favore di qualunque persona, senza distinzione di alcuna specie - al rispetto dei seguenti diritti garantiti dalla stessa Convenzione:

§         alla vita (art. 2);

§         alla libertà ed alla sicurezza, compreso il diritto di risarcimento in caso di errore giudiziario (art. 5);

§         ad un equo processo davanti ad un giudice indipendente ed imparziale ed entro un termine ragionevole (art. 6);

§         al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza (art. 8);

§         alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, compresa la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo (art. 9);

§         alla libertà di espressione, che include la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee (art. 10);

§         alla libertà di riunione e di associazione, compreso il diritto di creare sindacati e di aderirvi (art. 11);

§         al matrimonio (art. 12);

§         ad un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione (art. 13).

 

L’art. 18 precisa inoltre che le restrizioni poste, in base alla Convenzione, ai diritti ed alle libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste.

 

La Convenzione enumera anche una serie di divieti per gli Stati contraenti, in particolare quelli relativi a:

§         tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 3);

§         schiavitù, servitù e lavoro forzato (art. 4);

§         imposizione di una pena senza legge (art. 7);

§         qualsiasi discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione (art. 14);

§         restrizioni all’attività politica degli stranieri (art. 16);

§         l’abuso del diritto, ovvero nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà, o porre a questi diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla Convenzione (art. 17).

 

Al testo originario della Convenzione, firmata nel 1950, sono stati aggiunti in seguito i seguenti protocolli:

 

§         Protocollo n. 1 (o Protocollo addizionale, adottato nel 1952): aggiunge alla Convenzione l'enunciazione dei diritti individuali al rispetto dei beni e della proprietà nonché all'istruzione, e sancisce l'obbligo delle Parti contraenti di organizzare periodicamente libere elezioni a scrutinio segreto;

§         Protocollo n. 2 (adottato nel 1963): conferisce alla Corte EDU la competenza ad emettere pareri consultivi su materie diverse dal rispetto dei diritti stabiliti dalla Convenzione (per i quali la Corte potrebbe invece essere investita con i ricorsi previsti dalla Convenzione stessa);

§         Protocollo n. 3 (adottato nel 1963): modifica la procedura dei ricorsi alla Commissione europea dei diritti dell’Uomo[1];

§         Protocollo n. 4 (adottato nel 1963): garantisce ulteriori diritti individuali, quali il diritto a non essere privato della libertà per il solo fatto di non essere in grado di adempiere ad un'obbligazione contrattuale; il diritto alla libera circolazione nel Paese in cui regolarmente ci si trova; il diritto alla libertà di entrare e di uscire dal proprio Stato. Esso vieta inoltre le espulsioni collettive di stranieri.

§         Protocollo n. 5 (adottato nel 1966): contiene modifiche alle norme sulla nomina dei membri della Commissione europea dei diritti dell’Uomo e della Corte EDU[2];

§         Protocollo n. 6 (adottato nel 1983): prevede l'abolizione della pena di morte in tutti gli Stati contraenti, tranne che per atti commessi in tempo di guerra o in pericolo imminente di guerra;

§         Protocollo n. 7 (adottato nel 1984): contiene garanzie contro l'espulsione dello straniero; il diritto del condannato in un giudizio penale all'appello ad una giurisdizione superiore; il diritto all'indennizzo per l'errore giudiziario e al ne bis in idem nei procedimenti penali; il principio dell'eguaglianza dei diritti tra i coniugi;

§         Protocollo n. 8 (adottato nel 1985): prevede cambiamenti nella procedura della Commissione europea per i diritti dell’Uomo, consentendo la formazione di sottocommissioni (dette "Camere") per snellire i procedimenti, prevedendo requisiti ed incompatibilità per i membri della Commissione ed altre disposizioni procedurali[3];

§         Protocollo n. 9 (adottato nel 1990): riconosce e rende effettivo il diritto del ricorrente individuale ad adire direttamente la Corte EDU;

§         Protocollo n. 10 (adottato nel 1992): modifica l’articolo 32 della Convenzione al fine di ridurre la maggioranza richiesta per le decisioni della Corte;

§         Protocollo n. 11 (adottato nel 1994), la cui entrata in vigore ha fatto decadere la validità del precedente Protocollo n. 10: opera una radicale riforma del sistema europeo di protezione dei diritti umani costituito dalla Convenzione come modificata dai successivi protocolli. I due aspetti più rilevanti introdotti sono l'eliminazione del carattere facoltativo del ricorso individuale, che si impone quindi permanentemente a tutti gli Stati parte e che colloca il ricorrente individuale sullo stesso piano dello Stato; e la soppressione del potere decisionale spettante all'organo politico del Consiglio d'Europa, il Comitato dei ministri, completando così la giurisdizionalizzazione del sistema;

§         Protocollo n. 12 (adottato nel 2000): amplia la portata del divieto di ogni forma di discriminazione, che la Convenzione del 1950 limitava alla sfera dei diritti da essa stessa garantiti;

§         Protocollo n. 13 (adottato nel 2002): estende la portata del divieto della pena di morte a qualsiasi circostanza, incluse quelle del tempo di guerra o dell’imminenza di una minaccia bellica;

§         Protocollo n. 14 (adottato nel 2004): detta norme per un più efficace funzionamento della Corte EDU e, più in generale, del sistema di controllo dell’applicazione della Convenzione del 1950.

L’insieme dei protocolli ha determinato una forza espansiva della Convenzione, unitamente alla interpretazione giurisprudenziale datane dalla Corte EDU[4].

Al paragrafo 1.3 è riportata una tabella riepilogativa dei contenuti dei singoli articoli e dei protocolli aggiuntivi della CEDU con l’indicativa segnalazione delle Commissioni permanenti della Camera competenti per materia.

1.2. Ratifica ed esecuzione della CEDU

La CEDU è stata resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955.

Quanto ai Protocolli, sono state emanate le seguenti leggi di ratifica ed esecuzione:

§         legge n. 848  del 1955 per il Protocollo n. 1;

§         legge n. 653 del 1966 per i Protocolli numeri 2 e 3, concernenti, rispettivamente, l'attribuzione alla Corte europea dei diritti dell'uomo della competenza ad esprimere pareri consultivi e la modifica degli articoli 29, 30 e 34 della Convenzione stessa;

§         D.P.R. n. 217 del 1982 per il Protocollo n. 4, che riconosce taluni diritti e libertà oltre quelli che già figurano nella detta Convenzione e nel suo primo protocollo addizionale, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963;

§         legge n. 448 del 1967 per il Protocollo n. 5, che modifica gli articoli 22 e 40 della Convenzione;

§         legge n. 8 del 1989 per il Protocollo n. 6, sull'abolizione della pena di morte;

§         legge n. 98 del 1990 per il Protocollo n. 7, concernente l'estensione della lista dei diritti civili e politici;

§         legge n. 496 del 1988 per il Protocollo n. 8, recante disposizioni volte a snellire i procedimenti;

§         legge n. 257 del 1993 per il Protocollo n. 9, che riconosce il diritto del ricorrente individuale ad adire la Corte EDU;

§         legge n. 17 del 1995 per il Protocollo n. 10, che modifica l’articolo 32 della Convenzione;

§         legge. n. 296 del 1997 per il Protocollo n. 11, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla CEDU;

§         legge n. 280 del 2005 per il Protocollo n. 14[5], sul funzionamento della Corte e, più in generale, del sistema di controllo dell’applicazione della Convenzione.

1.3. Le competenze delle Commissioni permanenti in ordine alla CEDU

La tabella che segue riporta gli oggetti dei singoli articoli e protocolli aggiuntivi della CEDU con un collegamento indicativo[6] alle Commissioni permanenti della Camera competenti per materia. Come si può rilevare, le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia sono quelle maggiormente interessate ai contenuti della Convenzione la quale, data la varietà degli argomenti trattati, investe in maniera rilevante anche la competenza di altre Commissioni (in particolare Difesa, Cultura,  Ambiente e Affari sociali).


 

Articolo della Convenzione

Oggetto

Commissione competente

1

Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo

I; II

2

Diritto alla vita

I; II; XII

3

Proibizione della tortura

II

4

Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato

I; II; IV

5

Diritto alla libertà e alla sicurezza

I; II

6

Diritto a un equo processo

I; II

7

Nulla poena sine lege

I; II

8

Diritto al rispetto della vita privata e familiare

I; II; VIII; (sicurezza nazionale, ordine pubblico: I e IV; benessere economico del paese: V; protezione della salute: XII; prevenzione dei reati (intercettazioni): II; vita di relazione anche sul lavoro: XI)

9

Libertà di pensiero, di coscienza e di religione

I

10

Libertà di espressione

I; VII

11

Libertà di riunione e di associazione

I; IV; (protezione della salute: XII)

12

Diritto al matrimonio

I; II

13

Diritto ad un ricorso effettivo

II

14

Divieto di discriminazione

I

15

Deroga in caso di stato d’urgenza

I; IV

16

Restrizioni all’attività politica degli stranieri

I

17

Divieto dell’abuso di diritto

I

18

Limite all’applicazione delle restrizioni ai diritti

I

 

 

Articolo del Protocollo 1

Oggetto

Commissione competente

1

Protezione della proprietà

I; II; VIII

2

Diritto all’istruzione

VII; I

3

Diritto a libere elezioni

I

 

 

Articolo del Protocollo 4

Oggetto

Commissione competente

1

Divieto di imprigionamento per debiti

I; II

2

Libertà di circolazione

I; II

3

Divieto di espulsione dei cittadini

I

4

Divieto di espulsioni collettive di stranieri

I

 

 

Articolo del Protocollo 6

Oggetto

Commissione competente

1

Abolizione della pena di morte

I; II

2

Pena di morte in tempo di guerra

I; II; IV

3

Divieto di deroghe

I; II; IV

4

Divieto di riserve

I; II; IV

 

 

Articolo del Protocollo 7

Oggetto

Commissione competente

1

Garanzie procedurali in caso di espulsione di stranieri

I; II

2

Diritto ad un doppio grado di giudizio in materia penale

II

3

Diritto di risarcimento in caso di errore giudiziario

II

4

Diritto di non essere giudicato o punito due volte

II

5

Parità tra i coniugi

I; II

 

 

 


2. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo

La Corte è composta da un numero di giudici pari a quello degli Stati firmatari, eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nell’ambito di una lista di tre personalità presentata dai singoli Stati. I giudici restano in carica per sei anni, sono rieleggibili ed esercitano le proprie funzioni a titolo individuale, senza vincoli di rappresentanza dello Stato di provenienza.

La Corte è organizzata in cinque sezioni, nelle quali sono istituiti comitati composti da tre giudici (per trattare le questioni manifestamente irricevibili), e camere composte da sette giudici. La Corte si riunisce altresì, nella composizione di diciassette giudici, come “Grande Chambre”, cui appartengono di diritto il presidente e il vicepresidente della Corte nonché i presidenti di sezione.

I ricorsi possono essere presentati dagli Stati firmatari o da singoli individui per la violazione, da parte di uno Stato membro, di diritti tutelati dalla Convenzione. Ogni ricorso è assegnato ad una sezione e il relatore, nominato dal presidente di sezione, valuta se l’atto debba essere esaminato da una camera o da un comitato.

Preliminare rispetto al merito è l’esame dei profili di ricevibilità dei ricorsi, salvo casi eccezionali di esame congiunto della ricevibilità e del merito. Gli atti dichiarati irricevibili – le relative pronunce hanno forma di decisione, mentre le pronunce sul merito hanno forma di sentenza – sono eliminati dal ruolo della Corte. Gli atti ritenuti ricevibili sono esaminati nel merito dagli organi cui sono stati assegnati, salvo che ritengano di rimettere il ricorso alla “Grande Chambre” quando si tratti di questioni che riguardino l’interpretazione della Convenzione o che possano condurre a decisioni diverse da altre già adottate nella stessa materia.

In linea generale, la procedura è ispirata ai principi del contraddittorio e della pubblicità. L’esame della ricevibilità avviene ordinariamente con procedura scritta, ma l’organo può decidere di tenere udienza pubblica, in tal caso pronunciandosi anche sul merito del ricorso.

L’esame del merito può richiedere supplementi di istruttoria e, nel corso del procedimento, può essere avanzata da parte del ricorrente una richiesta di decisione in via di equità, come, del resto, possono essere svolte negoziazioni finalizzate ad una composizione amichevole della controversia.

Le decisioni sono adottate a maggioranza e ogni giudice può far constare nel testo la propria opinione dissenziente. Nel termine di tre mesi dall’emanazione della decisione, le parti possono chiedere che la questione sia rimessa alla Grande Chambre - la cui pronuncia è definitiva - se vi sia un grave motivo di carattere generale o attinente all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione o dei Protocolli.

L’articolo 46 della Convenzione impegna gli Stati a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie di cui sono parti e al Comitato dei Ministri è affidato il compito di sorvegliare l’esecuzione delle sentenze. Trattandosi di un obbligo di risultato, lo Stato può scegliere discrezionalmente il modo in cui adempiervi e ad esso spetta rimuovere, se possibile, la situazione lesiva constatata dalla Corte oppure di prevenire l’insorgere di nuove.

Inoltre, l’articolo 53 CEDU dispone che “nessuna delle disposizioni della  Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i Diritti dell’Uomo e le Libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte Contraente o in base ad ogni altro accordo al quale essa partecipi”.

Nelle sue pronunce la Corte procede all’esame del diritto nazionale che riguarda la fattispecie dedotta in giudizio e valuta la sussistenza di un contrasto tra l’assetto che in sede nazionale è stato dato a quella fattispecie e il diritto della Convenzione; ove riscontri la violazione denunciata dal ricorrente, valuta altresì la possibilità di un’effettiva riparazione dei pregiudizi conseguentemente subiti.

Il diritto della Convenzione è costituito non solo dal disposto letterale delle disposizioni della CEDU, ma anche del significato normativo che se ne trae sulla base di precedenti giurisprudenziali della stessa Corte che in ogni sentenza sono ampiamente richiamati.

Occorre aggiungere che le considerazioni in diritto della Corte sono molto spesso arricchite dall’esame di atti internazionali, come il Patto internazionale dei diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, o come la Convenzione quadro per i diritti delle minoranze nazionali del 1° febbraio 1995 adottata dal Consiglio d’Europa[7]. Inoltre, la Corte, a fini istruttori, spesso si riferisce a dati derivanti da attività di organizzazioni internazionali come Amnesty International,  Human Rights Watch o di istituzioni di altri Stati, anche non appartenenti alla Convenzione[8].

Nella sua opera interpretativa del diritto convenzionale, anche attraverso il ricorso a fonti di diritto internazionale e ad attività di soggetti operanti sul piano internazionale, la Corte svolge un ruolo di “controllo europeo” sulla legge (nazionale) e le decisioni (nazionali ) che la applicano.[9]Le pronunce della Corte contribuiscono, in tal modo, alla formazione di una sorta di diritto pubblico europeo, attività, questa, nella quale sono oggetto di costante considerazione le pronunce degli organi giurisdizionali dell’Unione europea e documenti dell’Unione come la Carta per i diritti fondamentali. In considerazione di ciò, si può dire che, negli anni, il sistema convenzionale ha registrato una notevole forza espansiva del diritto della CEDU come interpretato dalla Corte EDU, la cui attività giurisprudenziale ha consentito di ascrivere alle disposizioni convenzionali, nel loro significato letterale, fattispecie sostanzialmente diverse tra loro ma riconducibili al medesimo valore da tutelare.

Come già accennato, ove riscontri la violazione denunciata dal ricorrente, la Corte, se richiesta da quest’ultimo, valuta la sussistenza di un reale pregiudizio, materiale o morale, derivante dalla violazione stessa e considera la possibilità di un’effettiva riparazione dei danni accertati da parte dello Stato convenuto in giudizio. A questo proposito si deve  notare che, ai sensi dell’art. 41 CEDU, in materia di equa soddisfazione, se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dello Stato non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte EDU accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. Ne deriva, quindi, che, a termini di Convenzione, le misure che la Corte può disporre, oltre alla previsione di equa riparazione, dovrebbero avere carattere individuale.

Tuttavia, a partire in particolare dalla giurisprudenza del 2004, si può rilevare l’orientamento della Corte di non limitarsi a disporre solo misure circoscritte alla fattispecie oggetto di giudizio, stabilendo un obbligo, o ponendo un invito, per lo Stato convenuto in giudizio, per l’adozione di misure di carattere generale, ad efficacia estesa, quindi, a tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico nazionale. La base giuridica delle sentenze che pongono direttive o vincoli conformativi agli Stati parti in causa è costituita dalla risoluzione (2004) 43 del 12 maggio 2004 del Comitato dei Ministri, con la quale tale Organo ha invitato la Corte ad indicare agli Stati le misure anche di carattere generale che sarebbe stato opportuno adottare, al fine di giungere alla piena esecuzione delle sentenze.

Il fondamento della risoluzione citata e delle sentenze della Corte che pongono misure di carattere generale è costituito dalla constatazione di violazioni seriali da parte di alcuni Stati, spesso tali da essere riconducibili all’esistenza di lacune ordinamentali. Le violazioni seriali danno luogo a numerosissimi ricorsi individuali, creando un carico di attività per la Corte tale da mettere in pericolo il funzionamento del sistema. Perciò questa tipologia di sentenze è strettamente funzionale alla garanzia dell’effettività del meccanismo stabilito dalla CEDU e, nello stesso tempo, dei valori sostanziali che quel meccanismo tutela.

 

Occorre, infine, ricordare che la Corte ha anche competenze consultive - attivabili su richiesta del Comitato dei Ministri - su questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli.

Come già accennato, l’attività della Corte ha registrato, negli anni, un andamento sempre crescente: il numero dei ricorsi presentati è aumentato di circa il 130 % tra il 1998 e il 2001 e, dalle statistiche ufficiali del 2007, risulta che nel corso dell’anno hanno trovato definizione 28.792 ricorsi, mentre ne sono stati assegnati41.700 nuovi (il 6 per cento in più rispetto al 2006)[10] su un totale di 55.100 ricorsi depositati nel 2007, di cui 2350 ricorsi relativi all’Italia.

 

 

I ricorsi sono stati definiti in 1.735 casi con sentenze e in 27.057 casi con decisioni di irricevibilità o di radiazione dal ruolo.

Nel corso del 2007 la Corte ha reso 1.503 sentenze di merito (67 relative all’Italia).

Alla fine dell’anno risultano pendenti 79.427 ricorsi, 2.907 (il 3,65 per cento) dei quali riguardanti l’Italia.


3. I rapporti tra la CEDU e le fonti del diritto interno nella piu’ recente giurisprudenza costituzionale e di cassazione

Il tema dei rapporti tra la CEDU e le fonti del diritto interno è stato oggetto di particolare attenzione, con diversi orientamenti, sia nella dottrina, sia nella giurisprudenza. Di particolare interesse appaiono gli orientamenti giurisprudenziali più recenti sia della Corte costituzionale (sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e nn. 39, 102 e 129 del 2008), sia della Corte di cassazione.

 

3.1. Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007 e nn. 39 e 102 del 2008 e n. 129 del 2008

3.1.1. I rapporti tra ordinamento interno e CEDU nelle sentenze nn. 348 e 349

Con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, in materia di espropriazione (cfr. par. 3.1.2) la Corte costituzionale è intervenuta sul tema del rango della CEDU nel sistema delle fonti interno e dei rapporti tra giudizi nazionali e Corte EDUalla luce del parametro costituito dall’art. 117, primo comma, della Costituzione, che iscrive la potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni nella cornice delineata dal rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Il riferimento a tale parametro ha indotto la Corte costituzionale a ritenere assorbiti ulteriori profili di illegittimità relativi ad altri parametri costituzionali.

A premessa della configurazione complessiva dell’assetto del rapporto tra ordinamento interno e CEDU, la Corte ha sottolineato la continuità con gli orientamenti in precedenza espressi sul punto. Ciò ha fatto ribadendo la non riferibilità alla CEDU, oltre che del parametro costituzionale offerto dall’art. 10 Cost., anche di quello costituito dall’art. 11 Cost., non essendo individuabile, ad avviso della Corte, “con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale”. Né, afferma la sentenza n. 349, “i diritti fondamentali (…) possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità”; o, afferma ancora  la medesima sentenza, il “parametro dell’art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario”.

L’esclusione della riferibilità all’art. 11 Cost. è sostenuta dalla Corte sulla base della considerazione che la CEDU, a differenza di quanto avvenuto con i Trattati delle Comunità e poi dell’Unione europea, non crea un separato ordinamento. Fatto questo che non consente la disapplicazione del diritto interno per contrasto con il diritto della CEDU, invece ammessa per il contrasto del diritto nazionale con quello comunitario. Non basta a questo fine, nel ragionamento della Corte, che la CEDU abbia previsto l’istituzione di un Giudice, Organo cui spetta assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli, con competenza estesa a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione di tali atti. Tuttavia, la specificità della Convenzione è evidenziata dalla Corte costituzionale nel fatto di avere un “suo” giudice che ne assicura l’interpretazione, “con ciò differenziandosi dalla generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, il ricorso a meccanismi  negoziali o arbitrali”. Inoltre, “il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea” (sent. n. 349, diritto, par. 6.1)

Il parametro costituzionale di riferimento è, quindi,  ad avviso della Corte,  l’art. 117 Cost. che prevede l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare gli obblighi internazionali, “con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale”.

La collocazione sistematica dell’art. 117, primo comma, non è considerata significativa dalla Corte costituzionale: in altre parole, non impedisce che tale disposizione completi “il quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”.

Ad avviso della Corte, quindi, l’art. 117, primo comma, completando tale quadro, colma una lacuna, e lo strumento che lo rende operativo è quello di un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente.

Esclusa perciò un’efficacia diretta delle norme convenzionali nell’ordinamento interno, l’assetto dei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento interno è il seguente.

I giudici nazionali sono i “giudici comuni della Convenzione”, la Corte EDU assicura uniformità di interpretazione delle disposizioni convenzionali negli ordinamenti degli Stati Parti, posto che, alla luce dell’art. 32 CEDU, le disposizioni convenzionali vivono come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Quindi i giudici nazionali debbono interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale e, ove vi sia un dubbio sulla compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, i giudici nazionali non possono disapplicare la disposizione nazionale, ma debbono investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità con riferimento al parametro dell’art. 117, per contrasto, insanabile in via interpretativa,  della disposizione nazionale da applicare con norme della CEDU.

 A questo punto subentra la delimitazione di competenze tra la Corte costituzionale e la Corte EDU.

Posta la funzione di quest’ultima, di eminente interpretazione delle disposizioni CEDU, alla prima spetta accertare il contrasto di queste ultime, come interpretate, con le disposizioni nazionali e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme convenzionali, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello assicurato dalla Costituzione italiana. Il che si traduce nell’operazione tesa a “verificare la compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione” (sent. n. 349, diritto, par. 6.2).

In questo contesto di definizione di ruoli tra Corti e giudici “comuni” nazionali, non mancano chiari riferimenti al legislatore quando si afferma: che “le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze” (sent. n. 349, par.6.1.) o che, posto il riconoscimento della tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, “il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare tali garanzie”; ancora, che “la peculiare rilevanza degli obblighi internazionali è stata ben presente al legislatore ordinario che ha provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296) [11].

Ma, ancor più stringente per il legislatore risulta l’interpretazione data dalla Corte costituzionale del riferimento agli obblighi internazionali dell’art. 117 in termini di rinvio mobile alla Convenzione, poiché tale rinvio si traduce in un vincolo di sistema per il legislatore.

Si tratta, però, di un rinvio mobile che richiede adattamenti dell’ordinamento rinviante, adattamenti effettuati non in funzione di disposizioni promananti dalla fonte cui si rinvia, ma dell’interpretazione che di tali disposizioni è data dalla Corte EDU.

Il fenomeno è di particolare evidenza nel caso delle sentenze di tale Corte che dettano misure strutturali allo Stato parte in causa, poiché l’introduzione di tali misure nell’ordinamento nazionale richiede un intervento del legislatore.

Quanto a quest’ultimo, come già segnalato, la Corte costituzionale ha preso atto dell’impegno dimostrato nel disporre procedure per l’attivazione di un circuito Governo – Parlamento sulle sentenze della Corte EDU che constano violazioni (legge n. 12/2006) e nel prevedere meccanismi sostanzialmente sanzionatori per stimolare comportamenti virtuosi da parte di soggetti di natura pubblica (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296; cfr. la nota 11).

3.1.2. La materia dell’espropriazione nelle sentenze nn. 348 e 349

Le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 riguardano la materia dell’espropriazione, affrontata dalla prima sentenza per il profilo della quantificazione dell’indennità di esproprio e, dalla seconda, per il profilo del risarcimento da espropriazione illegittima.

Occorre premettere che, in questa materia, su entrambi i profili, la Corte EDU ha espresso una consolidata giurisprudenza che ravvisa a carico dello Stato italiano violazioni dell’art. 1 del Prot. n. 1 CEDU, diritto alla protezione dei beni, nonché dell’art. 6, par. 1, CEDU, diritto ad un equo processo.

Per il profilo della quantificazione dell’indennità di esproprio, si deve ricordare la già citata sentenza Scordino c. Italia del 29 marzo 2006 della Grande Camera, che ha constatato l'incompatibilità dei criteri di computo dell'indennità di espropriazione previsti dall'articolo 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 con l'art. 1 del Prot. n. 1 CEDU. Tale incompatibilità ha condotto la Corte EDU a rilevare l’esistenza nell’ordinamento italiano di un problema su vasta scala, risultante da una disfunzione della legislazione italiana che si riverbera su una precisa categoria di cittadini, cioè quelli espropriati, per l’esistenza di un problema strutturale dell’ordinamento che richiede una soluzione legislativa. Il fatto che la violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 della CEDU constatata nella fattispecie riguardi una vasta categoria di persone e che ad essa si riferiscano numerosi ricorsi, secondo la Corte, costituisce un’aggravante quanto alla responsabilità statale ex art. 46 CEDU, nonché una minaccia per l’effettività del meccanismo convenzionale. Perciò, con tale sentenza, la Corte EDU è giunta a constatare l’esigenza dell’adozione da parte dell’Italia di misure che consentano l’eliminazione dall’ordinamento nazionale di qualsiasi ostacolo all’ottenimento di una indennità che sia in ragionevole rapporto con il valore del bene espropriato. A proposito di tale rapporto la Corte EDU ha riconosciuto l’ampio margine di discrezionalità degli Stati parti della Convenzione – conferito dall’art. 1 del Prot. 1 – nella valutazione dei mezzi per raggiungere il giusto equilibrio tra il diritto del privato al rispetto dei propri beni e l’obiettivo dello Stato di realizzare fini di utilità sociale, rilevando, però, come spetti alla Corte stessa il potere di controllare la compatibilità della soluzione in concreto data dagli Stati alle fattispecie ad essa sottoposte. Tale compatibilità, ad avviso della Corte, va valutata alla luce della possibilità di distinguere due tipologie di obiettivi di utilità sociale a cui possono essere preordinate le espropriazioni. Da un lato, obiettivi di riforma economica o sociale o di mutamento del contesto politico istituzionale; dall’altro obiettivi di utilità sociale che non si inseriscono in una prospettiva di ampia riforma e che si realizzano attraverso “espropriazioni isolate”. Mentre per la prima categoria di espropriazioni è compatibile con la CEDU un’indennità inferiore al valore venale del bene, per la seconda categoria non è giustificata un’indennità inferiore a tale valore.

Per il profilo dell’espropriazione indiretta la Corte EDU, con copiosa giurisprudenza[12], ha affermato che tale prassi tende ad interinare, cioè a conferire validità giuridica, ad una situazione di fatto derivante da illegalità commesse da parte dell’amministrazione e a regolarne le conseguenze per il cittadino e la stessa amministrazione a beneficio di quest’ultima. Secondo la Corte, che ciò avvenga in virtù di un principio giurisprudenziale o di una disposizione di legge, come l’articolo 43 del D.P.R n. 327 del 2001, non ha rilievo, non potendo costituire l’espropriazione indiretta un’alternativa ad una regolare procedura di espropriazione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 283 del 1993, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato articolo 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, aveva posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando; aveva inoltre precisato che la valutazione sull'adeguatezza dell'indennità doveva essere condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale.

Giungendo ora alle due pronunce in titolo, con la sentenza n. 348 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359. La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione, per violazione degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione, rispettivamente, all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, con riferimento alla norma che prevede che l'indennità di espropriazione dei suoli edificabili sia determinata con un criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato. Di tale criterio, successivamente trasfuso nell’attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, il suddetto articolo prevede l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. Nel giudizio da cui trae origine la questione di legittimità veniva in considerazione il criterio di quantificazione del prezzo della cessione volontaria e, quindi, dell’indennità di esproprio e le sue modificazioni nel tempo per ius superveniens.

Con la sentenza n. 349, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 5-bis, sollevate con riferimento al comma 7-bis che stabilisce che “in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato”.

Le questioni di legittimità, oggetto di ordinanze di rimessione della Corte di cassazione e della Corte d'appello di Palermo, traggono origine da giudizi per risarcimento del danno da occupazione illegittima di fondi. Alla data dell’instaurazione di tali giudizi le parti private, in virtù della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e dell’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno per l’occupazione illegittima, pari al valore venale del fondo, misura dimezzata con l’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 5 bis. Le ordinanze di rimessione prospettavano il contrasto di tale disposizione con gli artt. 111, primo e secondo comma,  e 117 , primo comma, della Costituzione, in relazione, rispettivamente, all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo n. 1  CEDU. Ciò per il fatto che, l’art. 5-bis, comma 7-bis, prevedendo “l’applicabilità ai giudizi in corso della disciplina stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato”. Inoltre, l’applicabilità ai giudizi in corso contrasterebbe anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’ art. 6 CEDU, per violazione del principio del giusto processo, sotto il profilo della parità delle parti, “da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie”.

La sentenza n. 348 ha, da un lato, constatato che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dall’art. 5-bis era divenuto definitivo ad opera dell'articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, e, dall'altro, ha rilevato che la condizione della sfavorevole congiuntura economica che aveva indotto nel 1993 (con la sentenza n. 283) la stessa Corte a ritenere le suddette disposizioni non incompatibili con la Costituzione, non poteva protrarsi all'infinito, “conferendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa”. Perciò, constatato che la vigente disciplina dell’indennità di esproprio che prevede “un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene - non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte”, la sentenza perviene alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 5-bis commi 1 e 2 del decreto-legge n. 333 del 1992, e, in via consequenziale dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.

Dalla sentenza emergono i principi che dovrebbero essere seguiti in sede di revisione della disciplina in materia di quantificazione dell'indennità di esproprio: “il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L'articolo 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la "funzione sociale”; “valuterà il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti”. Quest’ultimo rilievo si riferisce alle due tipologie di obiettivi di utilità sociale delle espropriazioni individuati dalla Corte EDU, cioè perseguimento di riforme economiche o sociali o di mutamento del contesto politico istituzionale oppure obiettivi di utilità sociale che si realizzano attraverso espropriazioni isolate: mentre per la prima categoria di espropriazioni è compatibile con la CEDU un'indennità inferiore al valore venale del bene, per la seconda categoria non è giustificata un'indennità inferiore a tale valore. In ogni caso, secondo la Corte costituzionale “criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale” e “i parametri per la determinazione dell'indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori”.

La sentenza n. 349, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, afferma che tale disposizione “non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.”

3.1.3 Le sentenze nn. 39 e 102 del 2008

La giurisprudenza espressa dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 trova conferma in successive pronunce della stessa Corte, come la sentenza n. 39 del 2008, in materia di fallimento e la sentenza n. 102 del 2008.

Nella prima pronuncia, emanata in materia di legge fallimentare (v. anche supra par. 1.4), si ricorda che “questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”.

Con la seconda sentenza vengono richiamate le pronunce nn. 348 e 349 al fine di ribadire la peculiarità della relazione in cui si pone il diritto comunitario rispetto al diritto interno in base all’art. 11 della Costituzione e gli effetti di tale sistema sull’attività del giudice comune, chiamato a valutare la compatibilità del diritto interno con quello comunitario, nonchè sul giudizio di legittimità in via principale avanti la stessa Corte costituzionale. Se da un lato questa pronuncia è di grande rilievo perché con essa la Corte ha sollevato questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, dall’altro la stessa sentenza conferma l’orientamento che limita al diritto comunitario la disapplicazione del diritto interno con esso contrastante da parte del giudice comune, restando così, ancora una volta, privo di supporto da parte della Corte costituzionale l’orientamento di parte della giurisprudenza degli ultimi anni favorevole alla disapplicazione del diritto interno ritenuto incompatibile con la CEDU[13].

 

3.1.4 La sentenza n. 129 del 2008.

Con la sentenza n. 129 del 2008, la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lett. a), del codice di procedura penale, sollevata dalla Corte d’Appello di Bologna, sez. I, con ordinanza del 15 marzo 2006, con riferimento agli articoli 3, primo comma, 10, primo comma e 27, terzo comma, della Costituzione.

La questione traeva origine dal caso relativo all’attuazione di un rapporto della Commissione del Consiglio d’Europa del 9 settembre 1998 di decisione di un ricorso presentato contro l’Italia da un soggetto condannato a tredici anni di detenzione per reati di terrorismo. Nel rapporto si rilevava la violazione dell’art. 6 CEDU non solo sotto il profilo del paragrafo 1, ma anche del paragrafo 3 d), cioè del diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico. Secondo il rapporto in questione, infatti, la condanna del ricorrente si era basata unicamente su dichiarazioni rese prima del processo da tre coimputati “pentiti” senza che il ricorrente stesso avesse potuto ottenerne l’interrogatorio.

Posto che nell’ordinamento italiano non esiste un istituto che consenta, in caso ed in conseguenza di violazione dell’art 6 CEDU accertata a Strasburgo, una riapertura di procedimenti penali chiusi con provvedimenti definitivi, il caso era stato affrontato dai giudici italiani sia sotto il profilo dell’applicabilità dell’art. 670 del codice di procedura penale, sia sotto il profilo dell’applicabilità dell’art. 630 del codice di procedura penale.

Sotto il primo profilo, occorre ricordare che la sez. I della Corte di cassazione con la sentenza n. 2800 del 2007, aveva stabilito che “il giudice italiano è tenuto a conformarsi alle sentenze pronunciate dalla [Corte EDU] e, per conseguenza, deve riconoscere il diritto al nuovo processo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura del procedimento penale, l'intangibilità del giudicato”; infatti, posto che “gli effetti della sentenza della Corte [EDU] hanno una incidenza non limitata alla sfera sovranazionale, ma sono costitutivi di diritti e di obblighi operanti anche all'interno dell'ordinamento nazionale, è consequenziale riconoscere che il diritto alla rinnovazione del giudizio, sorto per effetto di quella sentenza, è concettualmente incompatibile con la persistente efficacia del giudicato, che resta, dunque, neutralizzato sino a quando non si forma un'altra decisione irrevocabile a conclusione del nuovo processo”. Sulla base di queste premesse – nel corso delle quali vengono richiamate le sentenze  n. 25807 del 2005[14] e 32678 del 2006[15] , nonché le leggi n. 280 del 2005, recante ratifica del XIV Protocollo alla CEDU e n. 12 del 2006, recante disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea - la sentenza n. 2800 aveva affermato il seguente principio di diritto: “il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 del codice di procedura penale, l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo”.

La sentenza evidenziava la nota questione, più volte rilevata da Organi del  Consiglio d’Europa in sede di verifica dell’esecuzione dei giudicati di Strasburgo da parte dello Stato italiano, cioè quella dell’opportunità che, a livello nazionale, sia riconosciuto ai soggetti che siano stati condannati in seguito a processo giudicato non equo a Strasburgo, il diritto di richiedere la riapertura del processo, dando così effettività al diritto ad un equo processo.

Sotto il secondo profilo, la Corte d’appello, investita della richiesta di revisione del condannato ex art. 630 del codice di procedura penale, aveva sollevato, come detto, questione di legittimità costituzionale di tale disposizione.

La Consulta ha ritenuto infondata la questione con riferimento a tutti i parametri di costituzionalità invocati dal giudice rimettente, tra i quali non figura, a differenza delle ordinanze di rimessione decise dalle sentenze nn.348 e 349 del 2007, l’art. 117 Cost.

Ad avviso della Corte, è infondata la censura del contrasto dell’art. 630, comma 1, lett. a), del codice di procedura penale con l’art. 3 Cost. sollevata dal giudice rimettente, secondo il quale l’impossibilità di considerare le sentenze della Corte EDU ai fini dell’individuazione della situazione di inconcibiliabilità tra giudicati che giustifica la revisione ridonda in lesione del principio di ragionevolezza, provocando «ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili». La censura è infondata in quanto, secondo la Consulta, “il contrasto, che legittima – e giustifica razionalmente – l’istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale. Esso ha la sua ragione d’essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato “accadimento della vita” – essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa re giudicanda – può aver ricevuto all’esito di due giudizi penali irrevocabili”(diritto, par. 4.1). È così respinta la prospettazione del giudice a quo, secondo il quale il “fatto”, di cui all’art. 630 comma 1, lett a), del codice di procedura penale, non sarebbe costituito solo dal fatto storico all’origine della vicenda processuale, ma anche dall’accertamento dell’invalidità di una prova del precedente giudizio. Questo perché, secondo la Corte “nella logica codicistica – secondo una affermazione costante della giurisprudenza di legittimità – il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze” (diritto, par. 4.1).

La Corte costituzionale ha ritenuto infondato anche il prospettato contrasto con l’art. 10 Cost. (diritto, par. 4.2), asserito dal giudice a quo sulla base della considerazione che: le norme della CEDU riproducono disposizioni consuetudinarie, con ciò appartenendo a quel diritto internazionale generalmente riconosciuto cui l’ordinamento si conforma ai sensi dell’art. 10; tra le norme di diritto internazionale consuetudinario vi è la presunzione di innocenza, che comporterebbe anche il diritto alla revisione del processo ove questo si sia svolto con lesione del diritto ad un equo processo e si sia concluso con condanna. Nel respingere questa censura, la Corte ha ancora una volta affermato la propria giurisprudenza in tema di inapplicabilità dell’art. 10 Cost. alle disposizioni CEDU in quanto pattizie, giurisprudenza da ultimo ribadita con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007.

Infine, è stato considerato infondato anche il prospettato contrasto con l’art. 27 Cost., terzo comma (diritto, par. 4.3) – contrasto prospettato dal giudice a quo, perché la pena in tanto potrebbe rieducare in quanto venisse inflitta all’esito di un processo giusto – poiché, “se si assegnasse alle regole del ‘giusto processo’ una funzione strumentale alla ‘rieducazione’, si assisterebbe ad una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe – questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza” e i valori costituzionali del giusto processo e  della giusta pena sono “termini di un binomio non confondibili fra loro; se non a prezzo, come si è già accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello ‘strumento’ (il processo) nel ‘fine’ cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da essa può conseguire)”.

Queste sono, in estrema sintesi, le considerazioni della Consulta in relazione ai parametri di costituzionalità invocati dal remittente; ma di particolare interesse, dal punto di vista della funzione legislativa, sono anche le argomentazioni della stessa Corte in merito alla carenza dell’ordinamento nazionale dal punto di vista dei rimedi necessari per dare effettività all’art. 46 CEDU, che prevede l’obbligo degli Stati parti della Convenzione di conformarsi alle sentenze della Corte EDU, e della conseguente ricaduta  sul legislatore dal punto di vista degli adempimenti da porre in essere.

Occorre notare che, fin dal punto 1 del considerato in diritto, la Consulta prende atto del fatto che dopo il rapporto 9 settembre 1998, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva più volte sollecitato, senza risultato, lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie a garantire l’osservanza della pronuncia di Strasburgo; ma tali sollecitazioni erano rimaste prive di effetto. In particolare al punto 3 del considerato in diritto la Corte costituzionale rileva che “la questione di legittimità costituzionale nasce dalla assenza nel sistema processuale penale di un apposito rimedio, destinato ad attuare l’obbligo dello Stato di conformarsi (anche attraverso una eventuale rinnovazione del processo) alle conferenti sentenze definitive della Corte di Strasburgo, nell’ipotesi in cui sia stata accertata la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli”. La sentenza prende atto del fatto che sia il Comitato dei Ministri che l’Assemblea del Consiglio d’Europa “hanno stigmatizzato – con reiterate risoluzioni, risoluzioni interinali e raccomandazioni, proprio in riferimento alla vicenda del condannato nel giudizio a quo – l’inerzia dello Stato italiano nell’approntare adeguate iniziative riparatorie”, ricordando, tra i vari atti adottati dai due Organi, rispettivamente, la Risoluzione finale CM/ResDH (2007) 83 e la Risoluzione n. 1516 (2006).

Questa “evidente, improrogabile necessità che l’ordinamento predisponga adeguate misure – atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di “processo equo”, accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo” non è stata considerata dalla Consulta elemento ostativo alla decisione adottata, argomentata con riferimento ai parametri costituzionali invocati dal remittente, tra i quali non era indicato l’art. 117 Cost., invocato, invece, nelle ordinanze che hanno sollevato le questioni di legittimità che hanno dato luogo alle sentenze nn. 348 e 349 del 2007. Né, peraltro, la Corte ha ritenuto di utilizzare autonomamente tale parametro; ha invece sottolineato che la materia dei rimedi revocatori, nella quale, negli anni, si sono registrati numerosi interventi della stessa Corte e del legislatore, è materia in cui è “ampia la sfera entro la quale trova spazio la discrezionalità del legislatore”, che è, quindi, suscettibile di essere disciplinata sulla base di diverse e molteplici opzioni. Come, secondo la Consulta, dimostrano la relazione e i contenuti del disegno di legge presentato dal Governo, nella XV legislatura, AS 1797, recante, appunto, «Disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». In particolare, la sentenza n. 129 sottolinea un passaggio della relazione illustrativa al disegno di legge, in cui si fa presente che la scelta della collocazione sistematica del nuovo istituto, realizzata attraverso la previsione di un nuovo «titolo IV-bis», era «diretta, da un lato, a confermare la natura straordinaria del rimedio; dall’altro, a tenere distinto l’istituto in esame da quello della revisione della sentenza di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. E ciò per una serie di ragioni, la prima delle quali risiede nella non automaticità della rinnovazione dell’intero processo (come precisato nel successivo articolo 647-septies), quando vi sia stata una pronuncia della Corte di Strasburgo che abbia riconosciuto la cosiddetta iniquità del processo celebrato in Italia; automatismo che rimane, invece, connotato essenziale della revisione dell’attuale sistema processuale». Prosegue la sentenza rilevando l’impossibilità di pervenire ad una pronuncia additiva, anche considerata la profonda innovazione che una revisione speciale come quella che dovrebbe introdursi in  caso di accertata violazione dell’art. 6 CEDU richiederebbe in materia di utilizzo delle prove assunte nel processo in cui la violazione è avvenuta: infatti, mentre la “revisione ordinaria” - per come positivamente disciplinata dagli artt. 629 e seguenti del codice di rito - non spiega, di per sé, effetti “invalidanti” sul materiale di prova raccolto nel precedente giudizio poiché le “«nuove prove» - che devono dimostrare la necessità del proscioglimento - vanno apprezzate o da sole oppure «unite a quelle già valutate»” la “speciale revisione”, come configurata nel citato disegno di legge, dovrebbe comportare la non utilizzabilità e quindi la rinnovazione delle prove assunte nel processo giudicato non equo dalla Corte EDU.

Perciò, la sentenza n. 129 si conclude rivolgendo “al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU”.

Si deve notare che la pronuncia non contiene alcun riferimento alla sentenza n. 2800 del 2006 della Corte di cassazione, sopra richiamata, che aveva dichiarato illegittima la detenzione eseguita in base a condanna stabilita all’esito di processo non equo, invocando l’effetto diretto nell’ordinamento nazionale del diritto della Convenzione come interpretato dalla Corte EDU. Eppure, proprio tale sentenza ha un ruolo centrale nell’economia della risoluzione CM/ResDH(2007)83 – citata dalla stessa Corte costituzionale – con la quale il Comitato dei Ministri ha dichiarato chiuso l’affaire relativo all’esecuzione del rapporto della Commissione del 9 settembre 1998. La risoluzione, adottata dopo analoghi atti dello stesso Comitato che stigmatizzavano il ritardo nell’adempimento del giudicato di Strasburgo da parte dell’Italia, sottolineava le conclusioni della citata sentenza n. 2800/06, relative alla necessità urgente di un intervento del legislatore che introduca la possibilità di riaprire i processi penali a seguito di sentenze della Corte EDU, prendeva atto  del fatto che sulla materia pendeva questione di legittimità presso la Corte costituzionale italiana e invitava lo Stato italiano a ad un sollecito lavoro legislativo per introdurre tale istituto nel diritto italiano.

Perciò, se questi sono i presupposti sulla base dei quali il Comitato dei Ministri ha ritenuto di chiudere il dossier relativo all’esecuzione del rapporto del 9 settembre 1998, l’invito rivolto dalla Corte costituzionale al legislatore per colmare la lacuna dell’ordinamento giuridico assume un carattere di peculiare urgenza.

3.2. Il seguito delle sentenze della Corte costituzionale

3.2.1. Il seguito delle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 nel contesto delle attività parlamentari correlate al Consiglio d’Europa.

La consapevolezza dell’esposizione dell’Italia sul piano politico in seno al Consiglio d’Europa ha dato luogo negli ultimi anni a diverse iniziative sul piano parlamentare, tra le quali si segnalano le seguenti:

1.      l’attribuzione al Presidente della Delegazione nazionale all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di un preciso ruolo all’interno delle Camere per la trasmissione di atti della medesima Assemblea parlamentare relativi alle questioni di esecuzione delle sentenze della Corte europea;

2.      la facoltà della suddetta Delegazione di svolgere incontri con gli Uffici di presidenza delle Commissioni permanenti. Poiché sono queste le sedi di programmazione dell’attività delle Commissioni, tali incontri sono diretti ad individuare le priorità normative che nascono dalle esigenze di implementazione; permettono anche alle Commissioni parlamentari di attivare un rapporto di controllo con il ministro di settore per conoscere gli intendimenti del Governo negli specifici comparti di intervento;

3.      l’invito dei Presidenti delle Camere ai Presidenti delle Commissioni permanenti a svolgere, nell’ambito dell’istruttoria legislativa, una valutazione di compatibilità dei progetti di legge esaminati con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo;[16]

4.      l’approvazione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea. Tale atto – introducendo una modifica della legge n. 400 del 1988 in materia di attribuzioni del Presidente del Consiglio - ha sancito l’obbligo per il Governo di promuovere gli adempimenti di sua competenza conseguenti alle pronunce della Corte europea emanate nei confronti dell’Italia, di comunicare tempestivamente alle Camere tali pronunce, nonché di presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato della loro esecuzione.

Anche a livello amministrativo sono state adottate iniziative con lo svolgimento, presso l’Avvocatura della Camera dei deputati, di attività di Osservatorio sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e sulle questioni rilevanti sul piano normativo conseguenti a tali sentenze, al fine di concorrere alla conoscenza a livello parlamentare delle pronunce riguardanti l’Italia[17].

Di tutte le iniziative appena illustrate è stata data comunicazione agli Organi del Consiglio d’Europa, con un riscontro di sicuro apprezzamento, unitamente alla sottolineatura dell’esigenza che l’Italia prosegua nella via intrapresa[18].

All’indomani delle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, specifica attenzione è stata dedicata al tema dell’indennità di espropriazione. In particolare, la VIII Commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati ha approvato, il 14 novembre 2007, la risoluzione n. 7-00302, con la quale ha impegnato il Governo: “ad adottare ogni opportuna iniziativa finalizzata a pervenire ad una nuova disciplina legislativa dell'indennità di espropriazione, tenendo presenti i criteri individuati nella sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale” e “a muoversi, in questo contesto e in coerenza con la giurisprudenza costituzionale, verso una commisurazione dell'indennità di espropriazione superiore a quella fissata dalla legislazione vigente, adottando tuttavia una logica che - non potendo garantire l'integrale applicazione del valore di mercato - miri ad assicurare una maggiore prossimità di tale indennità con il valore venale del bene ablato”. Nella risoluzione si avverte che, secondo la Corte costituzionale, un'indennità “congrua, seria ed adeguata” non può “adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per attingere risultati marcatamente lontani da essa”, giungendo “sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà”.

Sulla scorta delle giurisprudenze costituzionale ed europea, la risoluzione muove dal presupposto che “il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione debba essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato” che può non esservi “coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità” ciò per “l'esigenza, avvertita anche a livello istituzionale, di non impedire, di fatto, agli enti locali di esercitare la potestà espropriativa e di non porre tali enti in condizioni di vera e propria emergenza economico-finanziaria per la corresponsione della relativa indennità”.

A seguito di tale risoluzione il legislatore è  intervenuto dettando, all’art. 2, commi 89-90, della legge n. 244 del 2007, nuovi criteri per il calcolo dell’indennità di esproprio  e del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.  Ai sensi del comma 89, che modifica le disposizioni di cui all’articolo 37, commi 1 e 2, e quelle di cui all’articolo 45, comma 2, lettera a), del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene e quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento.  Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del 10 per cento. Per le occupazioni senza titolo, anteriori al 30 settembre 1996, si prevede che “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene”. Il comma 90 stabilisce che tali disposizioni si applichino a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell’indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile.

In base alla nuova disciplina, quindi, l’indennità di esproprio va determinata sulla base del criterio del valore venale del bene espropriato; quando l’espropriazione è finalizzata alla realizzazione di interventi di riforma economico sociale, l’indennità è ridotta del 25%.  Si deve notare che la formulazione normativa  - che prevede la riduzione dell’indennizzo per gli interventi di riforma economico sociale – si giova di una clausola di carattere generico, lasciando incerta la distinzione tra i casi in cui ricorre un’esigenza di riforma economico sociale da tutti gli altri. E’ un incertezza che deriva dall’aver trasposto nella legge nazionale un criterio argomentativo – cioè la distinzione tra espropriazioni isolate  e quelle di attuazione di riforme economico sociali – utilizzato dalla Corte EDU nella sentenza G.C. Scordino c. Italia del 2006. Tale criterio, nell’ambito di questa sentenza, veniva riempito di contenuti sostanziali attraverso il richiamo a numerosi precedenti giurisprudenziali della Corte di Strasburgo riferibili a grandi riforme avvenute in differenti Stati e in diverse epoche storiche. La trasposizione tout court nell’ordinamento nazionale del criterio delle riforme economico sociali può prestarsi ad incertezze interpretative e a contestazioni da parte degli espropriati.

Occorre considerare che la sentenza n. 349/2007, sul presupposto che le ordinanze di remissione non affrontavano la questione della compatibilità con la CEDU dell’occupazione acquisitiva, si è occupata solo della ricaduta patrimoniale dell’occupazione sul proprietario, mentre è noto l’orientamento della Corte EDU, consolidato dal 2006, che ritiene contrastante l’espropriazione indiretta (la cui base giurisprudenziale è stata legittimata con l. 458 del 1988) con il principio di legalità. Alla luce di questo orientamento probabilmente resta ancora da valutare la compatibilità dell’art. 43 del T.U. espropriazioni, in particolare dell’istituto dell’acquisizione sanante e della tutela offerta dall’ordinamento nazionale al proprietario. Infatti, la più recente giurisprudenza della Corte EDU in tema di espropriazione indiretta è giunta a dettare misure strutturaliper rimediare alla disfunzione dell’ordinamento italiano derivante dalla violazione seriale del principio di legalità causata dall’espropriazione indiretta. La sentenza Scordino n. 3 c. Italia del 2007 afferma che tali misure devono: evitare che il sistema della CEDU sia compromesso da un gran numero di ricorsi derivanti dallo stesso problema; consentire una riparazione adeguata a tutti i soggetti lesi da tale violazione; prevenire la violazione stessa, non consentendo l’occupazione di fondi in mancanza sia di un progetto e di un provvedimento di espropriazione regolarmente adottati, sia dello stanziamento di risorse per un indennizzo rapido ed adeguato del proprietario; avere tenore dissuasivo e consentire l’individuazione di responsabilità delle violazioni; rendere possibile in concreto la restitutio in integrum dei fondi illegittimamente espropriati, prevedendo, in caso di oggettiva impossibilità di restituzione, la corresponsione di una somma pari al valore attuale del bene ed un risarcimento delle perdite subite.

Come segnalato nella sentenza n. 349 del 2007, misure di carattere dissuasivo erano state introdotte nel 2006 dal legislatore nell’ art. 2, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (cfr. nota 11), prevedendo un diritto di rivalsa dello Stato su regioni, province autonome di Trento e di Bolzano, enti territoriali,  altri enti pubblici e soggetti equiparati, i quali si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni CEDU per gli oneri finanziari sostenuti per dare esecuzione alle sentenze di condanna rese dalla Corte EDU  nei confronti dello Stato in conseguenza delle suddette violazioni. Così il risarcimento, riconosciuto al privato per l’occupazione illegale del suo terreno, viene imputato al bilancio dell’amministrazione interessata, la quale può rivalersi sul funzionario responsabile dell’atto illegittimo. Tuttavia tale meccanismo andrebbe vagliato nella sua effettiva potenzialità dissuasiva alla luce del fatto che l’acquisizione sanante di cui al citato art. 43 comunque presuppone l’espropriazione indiretta, così consentendole di continuare ad avere ospitalità nell’ordinamento nazionale.

Va poi ricordato che la risoluzione interinale ResDH(2007)3, intitolata “Violazioni ripetute del diritto di proprietà da parte dell’Italia mediante le “espropriazioni indirette” (adottata dal Comitato dei Ministri il 14 febbraio 2007, in occasione della 987° riunione dei Delegati dei Ministri) ha disposto che in questa materia l’Italia sia mantenuta sotto osservazione.

La risoluzione da un lato riscontra le “Informazioni fornite dal Governo italiano al Comitato dei Ministri nell’ambito del controllo dell’esecuzione delle sentenze della Corte riguardanti l’espropriazione indiretta in Italia” ove si afferma che: “Il procedimento previsto all’articolo 43 non deve costituire un’alternativa al procedimento ordinario d’espropriazione e, di conseguenza, non può avere un’applicazione generalizzata, costituendo invece una misura eccezionale, utilizzabile unicamente in presenza di un interesse pubblico particolarmente importante”; e che “ Il Governo ritiene che l’effetto diretto delle sentenze della Corte, recentemente riconosciuto dalle più Alte giurisdizioni italiane in ambiti diversi, costituisca la premessa necessaria per un'applicazione del nuovo Testo Unico in conformità alle esigenze della Convenzione. Il Governo incoraggia e sostiene il più ampio sviluppo possibile dell’effetto diretto nel diritto italiano delle sentenze della Corte”. Dall’altro, con la stessa risoluzione però il Comitato dei Ministri ha rilevato che la Corte EDU ha notato “applicazioni contraddittorie nell'evoluzione della giurisprudenza” e “ugualmente delle contraddizioni tra la giurisprudenza ed i testi di legge”, incoraggiando “le autorità italiane a proseguire gli sforzi compiuti ed ad adottare, in tempi brevi, tutte le misure necessarie per rimediare definitivamente alla prassi dell’ "espropriazione indiretta" ed a garantire la conformità al principio di legalità, come richiesto dalla Convenzione, di tutte le occupazioni di terreni da parte dell’amministrazione”; nello stesso tempo la medesima risoluzione ha invitato le autorità ad accertarsi che un meccanismo di riparazione operi in maniera rapida ed effettiva e che, inoltre, sia in grado, per quanto possibile, di sollevare la Corte dai propri compiti derivanti dall’articolo 41 della Convenzione.

Il tenore della risoluzione del Comitato dei Ministri porta a riflettere sul fatto che, se il percorso argomentativo della Corte costituzionale ha condotto ad escludere che la CEDU costituisca un ordinamento sopranazionale da cui derivano limitazioni di sovranità, d’altro canto non possono però eludersi la sorveglianza sull’esecuzione delle sentenze della Corte EDU da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – presso il quale il Governo italiano aveva sostenuto il più ampio sviluppo possibile dell’effetto diretto delle pronunce di Strasburgo - e, quindi, le responsabilità politiche che l’appartenenza al complessivo sistema del Consiglio d’Europa comporta.

Va infine segnalato che la Camera dei deputati ha approvato, nella seduta del 30 ottobre 2007, le mozioni Rigoni ed altri n. 1-00225 e Turco ed altri n. 1 – 00237 sulla promozione dei diritti umani e della democrazia nel quadro della CEDU e delle iniziative del Consiglio d’Europa.

 

3.2.2 Il seguito delle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

Il primo riferimento alle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 nella giurisprudenza civile della Corte di cassazione è nella sentenza della Sez. I, n. 14/2008[19], emanata in tema di equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001. Ai sensi di tale pronuncia “ai fini della liquidazione dell’indennizzo per durata eccessiva dei processi non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo presupposto ma solo al periodo eccedente il termine ragionevole di durata, essendo il giudice nazionale tenuto ad applicare la legge dello Stato (art. 2 legge n. 89 del 2001) e non potendo darsi alla diversa giurisprudenza CEDU diretta applicazione nell’ordinamento giuridico italiano disapplicando la normativa interna in quanto, come chiarito dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, la convenzione CEDU è configurabile come un trattato internazionale multilaterale e non produce pertanto norme direttamente applicabili negli Stati contraenti”.

La soluzione adottata in questa sentenza da un lato è conforme all’orientamento della Corte costituzionale che ha escluso che, ove vi sia un dubbio sulla compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, i giudici nazionali possano disapplicare la disposizione nazionale, ma dall’altro pone un interrogativo di conformità a tale orientamento nella parte in cui ha respinto l’eccezione di incostituzionalità del ricorrente, riferita all’art. 2, comma 3, lett. a) della legge n. 89 del 2001. L’eccezione indicava come parametro di legittimità l’art. 117, comma primo, della Costituzione come integrato dall’art. 6 CEDU, sotto il profilo del diritto ad una ragionevole durata del processo.

Nel respingere l’eccezione si è argomentato che: se è vero che le norme della CEDU vivono come interpretate dalla Corte di Strasburgo e che quella Corte, con le sentenze emanate nei confronti dell’Italia il 10 novembre 2004, ha affermato che il periodo da considerare ai fini della quantificazione del danno da eccessiva durata del processo è l’intera durata del processo stesso, tuttavia, non sarebbe l’art. 6 CEDU la disposizione da prendere in considerazione. Ciò in quanto tale articolo “individua, dunque, qual è il contenuto del diritto ad un equo processo e, conseguentemente, le modalità delle sue possibili violazioni; non disciplina certo le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro riparazione”, materia questa oggetto dell’art. 41 CEDU, sull'equa soddisfazione, e per la quale negli ordinamenti nazionali deve essere previsto un rimedio giurisdizionale ai sensi dell’art. 13 CEDU. Così la sentenza n. 14 arriva a “ritenere che sia riferibile all'art. 6 la giurisprudenza della Corte che individua i termini di durata del processo, superati i quali si verifica la violazione del termine ragionevole di durata dello stesso (ad es. riguarda certamente la interpretazione dell'art. 6 l'avere stabilito che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e quello di due anni per la durata del giudizio di secondo grado), ma non certo la giurisprudenza che individua i criteri da utilizzare per determinare l'ammontare del risarcimento, riguardando questa non la violazione del diritto all'equo processo, ma la determinazione di un'equa soddisfazione. Se così è, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), - che, nella complessiva disciplina dettata dalla legge citata sull'equa riparazione, si limita solamente ad indicare il criterio da utilizzare per determinare l'importo della riparazione dovuta per la violazione del termine ragionevole di durata del processo presupposto - non può fondatamente ritenersi - dato il campo di applicazione, che, giova ripeterlo non è quello dell'accertamento della violazione, ma quello consecutivo della sua riparazione - in contrasto con la norma interposta costituita dal predetto art. 6 della Convenzione e, quindi, con l'art. 117 Cost.

Con le decisioni del 10 novembre 2004, che qui vengono in considerazione, la Corte Europea ha solamente affermato, come detto, la inadeguatezza dell'indennizzo, che può essere liquidato dal giudice nazionale, facendo applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, senza però escludere la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001, a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, essendo stata detta attitudine riconosciuta dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, proposto da Scordino c. Italia (cfr. in tal senso cass. n. 8603 del 2005; cass. n. 8568 del 2005), ed avendo questa affermato, addirittura nella citata sentenza Zullo, che vari tipi di ricorso possono correggere la violazione in modo adeguato”.

In base a queste considerazioni, la Corte di cassazione ha ritenuto che il diverso criterio di calcolo dell'equa riparazione seguito dalla Corte EDU “produce il solo effetto di aprire, alla "vittima" della violazione, la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della CEDU sull'equa soddisfazione”, con la conclusione che “ai fini dell'indennizzo del danno non deve aversi riguardo, come pretende il ricorrente, ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata (cfr. per tutte cass. n. 21597 del 2005), essendo il giudice nazionale tenuto, nella ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto della legge n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), non potendo darsi alla giurisprudenza della CEDU, in questione, diretta applicazione nell'ordinamento giuridico italiano con il disapplicare la norma nazionale”, secondo quanto chiarito dalla Corte Costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007”.

Quest’ultimo richiamo alla giurisprudenza costituzionale, e quindi alla non praticabilità della disapplicazione della norma nazionale in omaggio alla giurisprudenza CEDU, appare problematico     poichè viene richiamata la disapplicazione del diritto interno per prevalenza della giurisprudenza CEDU pur essendosi poco prima escluso che quella stessa giurisprudenza fosse conferente nella fattispecie.

Inoltre, le sentenze del 10 novembre 2004 non avevano concluso l’iter dei relativi ricorsi avanti la Corte europea poiché l’esame delle controversie era stato rinviato, su richiesta del Governo italiano ai sensi dell’art. 43 CEDU, alla Grande Camera che si è poi pronunciata il 29 marzo 2006. Con le sentenze emesse in quella data la Corte EDUha sottolineato che: a) i rapporti annuali sull’eccessiva durata dei processi concernenti l’Italia hanno in ogni occasione stigmatizzato il fatto che il rimedio c.d. Pinto costituisce una misura puramente indennitaria, ma non provvede affatto a rimuovere il problema di fondo della lentezza dei procedimenti giudiziari ed anzi rischia di intasare ulteriormente gli uffici giudiziari e segnatamente le Corti d’appello; b) l’interim resolution n. 114 del 2005, adottata dal Comitato dei Ministri in relazione a 2183 casi di denuncia dell’Italia per l’eccessiva durata dei processi, ha rimarcato ulteriormente il fatto che la legge Pinto non introduce alcuna misura acceleratoria dei procedimenti e non garantisce neppure un efficace ristoro alle “vittime” delle violazioni. Essa ha inoltre espresso l’avviso che l’Italia sia ben lontana dal risolvere il problema in esame nel prossimo futuro e che ciò determini evidenti rischi di violazione continua del principio di legalità; c) la Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ) ha più volte segnalato che i meccanismi puramente indennitari sono troppo deboli e non stimolano adeguatamente gli Stati a risolvere in modo strutturale i problemi dei ritardi dei processi. Inoltre la Grande Camera ha rilevato che ancorché in Italia sia stato introdotto con la c.d. legge Pinto un rimedio indennitario, nulla è in realtà cambiato dal punto di vista strutturale e che, dunque, la continua violazione dell’art. 6, comma 1, CEDU costituisce una pratica oramai incompatibile con la Convenzione. Da tale situazione, secondo la Corte EDU, deriva la necessità che lo Stato interessato adotti le misure generali che ritenga adeguate per porre fine alle continue violazioni accertate giudizialmente. I giudici europei hanno inoltre evidenziato la necessità che, in base al principio di sussidiarietà, i magistrati nazionali applichino direttamente la giurisprudenza della Corte europea e che venga data maggiore diffusione e pubblicità alle sentenze della Corte europea e, in generale, al diritto CEDU[20].

Le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 sono richiamate anche in Cass. Sez. I penale n. 8990 del 2008, a proposito di una richiesta del ricorrente a supporto della quale era invocata come precedente la sentenza Bocellari e Rizza.  Il ricorrente, al quale era stata applicata una misura di prevenzione ai sensi dell’art. 4, comma sesto, della legge n. 1423 del 1956, aveva chiesto il rinvio della trattazione del procedimento ad altra data per consentirne la celebrazione in pubblica udienza sulla base dell’orientamento della Corte EDU espresso nella citata sentenza, secondo la quale, pur non avendo il principio della pubblicità delle udienze una valenza assoluta, è però essenziale ai fini di un equo processo che al soggetto interessato dal procedimento venga almeno offerta la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

La sentenza n. 8990 ha ritenuto non accoglibile l’istanza del ricorrente poiché “in mancanza di disposizioni specifiche contenute nella disciplina legislativa in materia delle misure di prevenzione, la procedura deliberativa per il ricorso per cassazione è quella scandita dal modulo camerale non partecipato (arg. ex art. 611 c.p.p.). Tale modulo, peraltro, resta valido anche di fronte al prospettato contrasto delle norme interne con i vincoli derivanti da obblighi comunitari o dalle disposizioni della CEDU”; ha inoltre aggiunto che “nel procedimento di prevenzione la garanzia del contraddittorio tra le parti è assicurata nel giudizio di merito e non appare il caso di riproporla in sede di legittimità”.

La sentenza prosegue con valutazioni in merito ai rapporti tra diritto interno e diritto comunitario e CEDU affermando che, “se è vero che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, è altrettanto vero, come ha statuito di recente la Corte costituzionale (sent. 22 ottobre 2007, n. 349), che tali principi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile (atti comunitari, atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, deroghe nazionali e norme comunitarie giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha competenze nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza del 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; Id., 29 maggio n1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente in materia di misure di prevenzione”.

Appare però problematico il riferimento al diritto comunitario per una fattispecie in  cui la disposizione internazionale di riferimento è l’art. 6 CEDU e l’organo di giustizia competente è la Corte europea e non la Corte di giustizia. Proprio la richiamata sentenza n. 349 del 2007 avrebbe dovuto condurre, invece, ad inquadrare la questione sollevata dal ricorrente nella prospettiva della CEDU e non del diritto comunitario, per valutarla secondo i criteri indicati dalla Corte costituzionale.

 

3.3. Le prospettive alla luce del Trattato di Lisbona

Posto l’assetto dato dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 ai rapporti tra CEDU e diritto interno, la conclusione del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 pone un interrogativo in merito a possibili sviluppi di questo assetto alla luce: dell’art. 6, commi 2 e 3, secondo i quali “l’Unione aderisce alla CEDU e tale adesione non modifica le competenze dell’Unione stabilite nei Trattati” e “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la  salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”; dello stesso art. 6, comma 1, secondo il quale la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati; dell’art. 52, comma 3, della stessa Carta ai sensi del quale “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la  salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione”, senza alcuna preclusione a “che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”; dell’art. 53 della stessa Carta ai sensi del quale “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”.

Alla luce di tali previsioni ci si potrebbe interrogare sulla possibilità di evoluzioni del rapporto tra l’art. 11 Cost. e la CEDU, rispetto al noto orientamento della giurisprudenza costituzionale, ribadito dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007,  secondo la quale il parametro dell’art. 11  non “può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario”.

Oltre a possibili sviluppi che potranno derivare dai dati normativi ricordati, si dovrà tener conto delle interrelazioni tra le giurisprudenze della Corte di giustizia e della Corte EDU, ben presenti in sede europea, tanto che in allegato all’Atto finale del Trattato di Lisbona, oltre alla Dichiarazione n. 1 che  afferma che “la Carta dei diritti fondamentali che ha forza giuridicamente vincolante, conferma i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU”, la Dichiarazione n. 2 sostiene che “la conferenza prende atto dell’esistenza di un dialogo regolare fra la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo; tale dialogo potrà essere rafforzato non appena l’Unione europea avrà aderito alla Convenzione”.

Probabilmente in questo rinnovato quadro di rapporti tra le Corti europee il punto di equilibrio potrebbe essere più avanzato rispetto a quello evidenziato dalla Corte EDU con la sentenza Bosphorus airlines c. Irlanda del 30.giugno 2005. Con tale pronuncia la Corte di Strasburgo ha ritenuto che “la protection des droits fondamentaux offerte par le droit communautaire est, et était à l’époque des faits, « équivalente » à celle assurée par le mécanisme de la Convention. Par conséquent, on peut présumer que l’Irlande ne s’est pas écartée des obligations qui lui incombaient au titre de la Convention lorsqu’elle a mis en œuvre celles qui résultaient de son appartenance à la Communauté européenne. Pareille présomption peut toutefois être renversée dans le cadre d’une affaire donnée si l’on estime que la protection des droits garantis par la Convention était entachée d’une insuffisance manifeste. Dans un tel cas, le rôle de la Convention en tant qu’« instrument constitutionnel de l’ordre public européen » dans le domaine des droits de l’homme l’emporterait sur l’intérêt de la coopération internationale ».

Del resto, già  nel 2002 la Corte EDU, con la sentenza Goodwin c. Regno Unito per riconoscere la violazione art. 8 e 12 CEDU, in relazione alla mancata previsione del diritto al matrimonio in casi di cambiamento di sesso, ha superato il dato letterale dell’art. 12 CEDU (che tutela il diritto al diritto matrimonio tra uomo e donna) e ha fatto riferimento all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (che tutela il matrimonio tra persone) attraverso un’interpretazione evolutiva della CEDU, constatando una lacuna nell’ordinamento nazionale in base ad una disposizione CEDU interpretata sulla base della Carta di Nizza.

Ancora, con la sentenza della Grande Camera Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia, del 19 aprile 2007, la Corte EDU è giunta ad un nuovo approccio (rispetto a quello contenuto nella sentenza Pellegrin c. Francia) alla questione dell’applicabilità dell’art. 6 CEDU  ai pubblici funzionari, anche facendo riferimento, nell’ambito delle fonti di diritti e delle pressi internazionali, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che “a codifiè la jurisprudence existante de la Cour de justice des Communautès europèennes”.

 


Normativa di riferimento

 


La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali


Firmata a Roma il 4 novembre 1950 (Testo coordinato con gli emendamenti di cui al Protocollo n. 11 firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994, entrato in vigore il 1° novembre 1998)

 

I Governi firmatari, Membri del Consiglio d'Europa;

 

Considerata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, proclamata dall'Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948;

 

Considerato che questa Dichiarazione tende a garantire il riconoscimento e l'applicazione universali ed effettivi dei diritti che vi sono enunciati;

 

Considerato che il fine del Consiglio d'Europa è quello di realizzare un'unione più stretta tra i suoi Membri, e che uno dei mezzi per conseguire tale fine è la salvaguardia e lo sviluppo dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali;

 

Riaffermato il loro profondo attaccamento a queste Libertà fondamentali che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo a cui essi si appellano;

 

Risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale.

 

hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1 - Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo.

Le Alte Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al Titolo primo della presente Convenzione.

 

TITOLO I

 

Diritti e libertà

 

Articolo 2 - Diritto alla vita

1.       Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena.

2.       La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:

a.       per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale;

b.       per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;

c.       per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.

 

Articolo 3 - Divieto della tortura.

Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

 

Articolo 4 - Divieto di schiavitù e del lavoro forzato.

1.       Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù.

2.       Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio.

3.       Non è considerato lavoro forzato o obbligatorio" ai sensi di questo articolo:

a.       ogni lavoro normalmente richiesto ad una persona detenuta alle condizioni previste dall'articolo 5 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionata;

b.       ogni servizio di carattere militare o, nel caso di obiettori di coscienza nei paesi dove l'obiezione di coscienza è riconosciuta legittima, ogni altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio;

c.       ogni servizio richiesto in caso di crisi o di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità;

d.       ogni lavoro o servizio che fa parte dei normali doveri civici.

 

Articolo 5 - Diritto alla libertà ed alla sicurezza.

1.       Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge:

a.       se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;

b.       se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o per garantire l'esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge;

c.       se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso;

d.       se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa per sorvegliare la sua educazione o della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all'autorità competente;

e.       se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;

f.         se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione.

 

2.       Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell'arresto e di ogni accusa elevata a suo carico.

3.       Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 (c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all'udienza.

4.       Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima.

5.       Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione ad une delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione.

 

Articolo 6 - Diritto ad un processo equo.

1.       Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità puO' pregiudicare gli interessi della giustizia.

2.       Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

3.       In particolare, ogni accusato ha diritto a:

a.       essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico;

b.       disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

c.       difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

d.       esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e.       farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all'udienza.

 

Articolo 7 - Nessuna pena senza legge.

1.       Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2.       Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generale di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

 

Articolo 8 - Diritto al rispetto della vita privata e familiare.

1.       Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

2.       Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.

 

Articolo 9 - Libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

1.       Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti.

2.       La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.

 

Articolo 10 - Libertà di espressione.

1.       Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.

2.       L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario.

 

Articolo 11 - Libertà di riunione e di associazione.

1.       Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d'associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi.

2.       L'esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale e per la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non vieta che restrizioni legittime siano imposte all'esercizio di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell'amministrazione dello Stato.

 

Articolo 12 - Diritto al matrimonio.

Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l'esercizio di tale diritto.

 

Articolo 13 - Diritto ad un ricorso effettivo.

Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali.

 

Articolo 14 - Divieto di discriminazione.

Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione.

 

Articolo 15 - Deroga in caso di stato di urgenza.

1.       In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.

2.       La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all'articolo 2, salvo per il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 (paragrafo 1) e 7.

3.       Ogni Alta Parte Contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario Generale del Consiglio d'Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario Generale del Consiglio d'Europa della data in cui queste misure cessano d'essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione.

 

Articolo 16 - Restrizioni all'attività politica degli stranieri.

Nessuna delle disposizioni degli articoli 10, 11 e 14 può essere considerata come un divieto per le Alte Parti Contraenti di porre restrizioni all'attività politica degli stranieri.

 

Articolo 17 - Divieto dell'abuso del diritto.

Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni più ampie di quelle previste in detta Convenzione.

 

Articolo 18 - Restrizione dell'uso di restrizioni ai diritti.

Le restrizioni che, in base alla presente Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste.

 

 

TITOLO II

 

Corte europea dei Diritti dell'Uomo

 

Articolo 19 - Istituzione della Corte

Per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti Contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi protocolli, è istituita una Corte europea dei Diritti dell'Uomo, di seguito denominata "la Corte". Essa funziona in maniera permanente.

 

Articolo 20 - Numero di giudici

La Corte si compone di un numero di giudici pari a quello delle Alte Parti Contraenti.

 

Articolo 21 - Condizioni per l'esercizio delle funzioni

1.       I giudici devono godere della più alta considerazione morale e possedere i requisiti richiesti per l'esercizio delle più alte funzioni giudiziarie, o essere dei giurisconsulti di riconosciuta competenza.

2.       I giudici siedono alla Corte a titolo individuale.

3.       Per tutta la durata del loro mandato, i giudici non possono esercitare alcuna attività incompatibile con le esigenze di indipendenza, di imparzialità o di disponibilità richieste da una attività esercitata a tempo pieno; ogni problema che sorga nell'applicazione di questo paragrafo è deciso dalla Corte.

 

Articolo 22 - Elezione dei giudici

1.       I giudici sono eletti dall'Assemblea parlamentare a titolo di ciascuna Alta Parte Contraente, a maggioranza dei voti espressi, su una lista di tre candidati presentata dall'Alta Parte Contraente.

2.       La stessa procedura è seguita per completare la Corte nel caso in cui altre Alti Parti Contraenti aderiscano e per provvedere ai seggi divenuti vacanti.

 

Articolo 23 - Durata del mandato

1.       I giudici sono eletti per un periodo di sei anni. Essi sono rieleggibili. Tuttavia, per quanto concerne i giudici designati alla prima elezione, i mandati di una metà di essi scadranno al termine di tre anni.

2.       I giudici il cui mandato scade al termine dei periodo iniziale di tre anni sono estratti a sorte dal Segretario Generale del Consiglio d'Europa, immediatamente dopo la loro elezione.

3.       Al fine di assicurare, nella misura del possibile, il rinnovo dei mandati di una metà dei giudici ogni tre anni, l'Assemblea parlamentare puO', prima di procedere ad ogni ulteriore elezione, decidere che uno o più mandati dei giudici da eleggere abbiano una durata diversa da quella di sei anni, senza tuttavia che questa durata possa eccedere nove anni o essere inferiore a tre anni.

4.       Nel caso in cui si debbano conferire più mandati e l'Assemblea parlamentare applichi il paragrafo precedente, la ripartizione dei mandati avviene mediante estrazione a sorte effettuata dal Segretario generale del Consiglio d'Europa immediatamente dopo l'elezione.

5.       Il giudice eletto in sostituzione di un giudice che non abbia completato il periodo delle sue funzioni, rimane in carica fino alla scadenza del periodo di mandato del suo predecessore.

6.       Il mandato dei giudici termina quando essi raggiungono l'età di 70 anni.

7.       I giudici restano in funzione fino a che i loro posti non siano ricoperti. Tuttavia essi continuano a trattare le cause di cui sono già stati investiti.

 

Articolo 24 - Revoca

Un giudice può essere sollevato dalle sue funzioni solo se gli altri giudici decidono, a maggioranza dei due terzi, che ha cessato di rispondere ai requisiti richiesti.

 

Articolo 25 - Ufficio di cancelleria e referendari

La Corte dispone di un ufficio di cancelleria i cui compiti e la cui organizzazione sono stabiliti dal regolamento della Corte, Essa è assistita da referendari.

 

Articolo 26 - Assemblea plenaria della Corte

La Corte riunita in Assemblea plenaria

a.       elegge per un periodo di tre anni il suo presidente ed uno o due vice-presidenti; essi sono rieleggibili;

b.       costituisce Camere per un periodo determinato;

c.       elegge i presidenti delle Camere della Corte che sono rieleggibili;

d.       adotta il regolamento della Corte; e

e.       elegge il cancelliere ed uno o più vice-cancellieri.

 

Articolo 27 - Comitati, Camere e Grande Camera

1.       Per la trattazione di ogni caso che le viene sottoposto, la Corte si costituisce in un comitato di tre giudici, in una Camera composta da sette giudici ed in una Grande Camera di diciassette giudici. Le Camere della Corte istituiscono i comitati per un periodo determinato.

2.       Il giudice eletto a titolo di uno Stato parte alla controversia è membro di diritto della Camera e della Grande Camera; in caso di assenza di questo giudice, o se egli non è in grado di svolgere la sua funzione, lo Stato parte nomina una persona che siede in qualità di giudice.

3.       Fanno altresì parte della Grande Camera il presidente dalla Corte, i vice-presidenti, i presidenti delle Camere e altri giudici designati in conformitA' con il regolamento della Corte, Se la controversia è deferita alla Grande Camera ai sensi dell'articolo 43, nessun giudice della Camera che ha pronunciato la sentenza può essere presente nella grande Camera, ad eccezione del presidente della Camera e del giudice che siede a titolo dello Stato parte interessato.

 

Articolo 28 - Dichiarazioni di irricevibilità da parte dei comitati

Un comitato può, con voto unanime, dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo un ricorso individuale presentato ai sensi dell'articolo 34 quando tale decisione può essere adottata senza un esame complementare. La decisione è definitiva.

 

Articolo 29 - Decisioni delle Camere sulla ricevibilità ed il merito.

1.       Se nessuna decisione è stata adottata ai sensi dell'articolo 28, una delle Camere si pronuncia sulla irricevibilità e sul merito dei ricorsi individuali presentati ai sensi dell'articolo 34.

2.       Una delle Camere si pronuncia sulla ricevibilità e sul merito dei ricorsi governativi presentati in virtù dell'articolo 33.

3.       Salvo diversa decisione della Corte in casi eccezionali, la decisione sulla ricevibilità é adottata separatamente.

 

Articolo 30 - Dichiarazione d'incompetenza a favore della Grande Camera.

Se la questione oggetto del ricorso all'esame di una Camera solleva gravi problemi di interpretazione della Convenzione o dei suoi protocolli, o se la sua soluzione rischia di condurre ad una contraddizione con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte, la Camera, fino a quando non abbia pronunciato la sua sentenza, puO' spogliarsi della propria competenza a favore della Grande Camera a meno che una delle parti non vi si opponga.

 

Articolo 31 - Competenze della Grande Camera

La Grande Camera

a.       si pronuncia sui ricorsi presentati ai sensi dell'articolo 33 o dell'articolo 34 quando il caso le sia stato deferito dalla Camera ai sensi dell'articolo 30 o quando il caso le sia stato deferito ai sensi dell'articolo 43; e

b.       esamina le richieste di pareri consultivi presentate ai sensi dell'articolo 47.

 

Articolo 32 - Competenza della Corte

1.       La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste dagli articoli 33, 34 e 47.

2.       In caso di contestazione sulla questione della propria competenza, é la Corte che decide.

Articolo 33 - Ricorsi interstatali

Ogni Alta Parte Contraente può deferire alla Corte ogni inosservanza delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli che essa ritenga possa essere imputata ad un'altra Alta Parte Contraente.

 

Articolo 34 - Ricorsi individuali

La Corte può essere investita di un ricorso fatto pervenire da ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati che pretenda d'essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti Contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l'effettivo esercizio efficace di tale diritto.

 

Articolo 35 - Condizioni di ricevibilità

1.       La Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, qual'è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva.

2.       La Corte non accoglie nessun ricorso avanzato sulla base dell'articolo 34, se:

a.       è anonimo; oppure

b.       è essenzialmente identico ad uno precedentemente esaminato dalla Corte o già sottoposto ad un'altra istanza internazionale d'inchiesta o di regolamentazione e non contiene fatti nuovi.

 

3.       La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso avanzato in base all'articolo 34 quand'essa giudichi tale ricorso incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi protocolli, manifestamente infondato o abusivo.

4.       La Corte respinge ogni ricorso che consideri irricevibile in applicazione dei presente articolo. Essa può procedere in tal modo in ogni fase della procedura.

 

Articolo 36 - Intervento di terzi

1.       Per qualsiasi questione all'esame di una Camera e o della Grande Camera, un'Alta Parte Contraente il cui cittadino sia ricorrente ha diritto di presentare osservazioni per iscritto e di partecipare alle udienze.

2.       Nell'interesse di una corretta amministrazione della giustizia, il presidente della Corte può invitare ogni Alta Parte Contraente che non è parte in causa o ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze.

Articolo 37 - Cancellazione

1.       In ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze consentono di concludere:

a.       che il ricorrente non intende più mantenerlo; oppure

b.       che la controversia è stata risolta; oppure

c.       che non è più giustificato, per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l'esistenza, proseguire l'esame del ricorso.
Tuttavia la Corte prosegue l'esame del ricorso qualora ciò sia richiesto dal rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli.

 

2.       La Corte può decidere una nuova iscrizione al ruolo di un ricorso quando ritenga che ciò é giustificato dalle circostanze.

 

Articolo 38 - Esame in contraddittorio dei caso e procedura di regolamento amichevole

1.       Quando dichiara che il ricorso è ricevibile, la Corte

a.       procede all'esame della questione in contraddittorio con i rappresentanti delle Parti e, se del caso, ad un'inchiesta per la quale tutti gli Stati interessati forniranno tutte le facilitazioni necessarie ai fini della sua efficace conduzione;

b.       si mette a disposizione degli interessati per pervenire ad un regolamento amichevole della controversia sulla base del rispetto dei diritti dell'uomo come riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi protocolli.

 

2.       La procedura descritta al paragrafo 1. b è riservata.

 

Articolo 39 - Conclusione di un regolamento amichevole

In caso di regolamento amichevole, la Corte cancella il ricorso dal ruolo mediante una decisione che si limita ad una breve esposizione dei fatti e della soluzione adottata.

 

 

Articolo 40 - Udienza pubblica e accesso ai documenti

1.       L'udienza è pubblica a meno che la Corte non decida diversamente a causa di circostanze eccezionali.

2.       I documenti depositati presso l'ufficio di cancelleria sono accessibili al pubblico a meno che il presidente della Corte non decida diversamente.

 

Articolo 41 - Equa soddisfazione

Se la Corte dichiara che vi e stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa.

 

Articolo 42 - Sentenze delle Camere

Le sentenze delle Camere divengono definitive in conformità con le disposizioni dell'articolo 44, paragrafo 2.

 

Articolo 43 - Rinvio dinnanzi alla Grande Camera

1.       Entro un termine di tre mesi a decorrere dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte alla controversia può, in casi eccezionali, chiedere che il caso sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera.

2.       Un collegio di cinque giudici della Grande Camera accoglie la domanda quando la questione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi protocolli, e anche una grave questione di carattere generale.

3.       Se il Collegio accoglie la domanda, la Grande Camera si pronuncia sul caso con una sentenza.

Articolo 44 - Sentenze definitive

1.       La sentenza della Grande Camera è definitiva.

2.       La sentenza di una Camera diviene definitiva

a.       quando le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso dinnanzi alla Grande Camera; oppure

b.       tre mesi dopo la data della sentenza, se non è stato richiesto il rinvio del caso dinnanzi alla Grande Camera; oppure

c.       se il Collegio della Grande Camera respinge una richiesta di rinvio formulata secondo l'articolo 43.

 

3.       La sentenza definitiva è pubblicata.

 

 

 

Articolo 45 - Motivazione delle sentenze e delle decisioni

1.       Le sentenze e le decisioni che dichiarano i ricorsi ricevibili o irricevibili devono essere motivate.

2.       Se la sentenza non esprime in tutto o in parte l'opinione unanime dei giudici, ogni giudice avrà diritto di unirvi l'esposizione della sua opinione individuale.

 

Articolo 46 - Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze

1.       Le alte Parti Contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti.

2.       La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione.

 

Articolo 47 - Pareri consultivi

1.       La Corte può, su richiesta del Comitato dei Ministri, fornire pareri consultivi su questioni giuridiche relative all'interpretazione della Convenzione e dei suoi protocolli.

2.       Tali pareri non devono riguardare questioni inerenti al contenuto o alla portata dei diritti e libertà definiti nel Titolo I della Convenzione e nei protocolli, né su altre questioni che la Corte o il Comitato dei Ministri si troverebbero a dover giudicare in seguito alla presentazione di un ricorso previsto dalla Convenzione.

3.       La decisione del Comitato dei Ministri di chiedere un parere alla Corte è adottata con un voto della maggioranza dei rappresentanti che hanno il diritto di avere un seggio al Comitato.

 

Articolo 48 - Competenza consultiva della Corte

La Corte decide se la domanda di parere consultivo presentata dal Comitato dei Ministri è di sua competenza secondo l'articolo 47.

 

Articolo 49 - Motivazione dei pareri consultivi

1.       Il parere della Corte è motivato.

2.       Se il parere non esprime in tutto o in parte l'opinione unanime dei giudici, ogni giudice avrà diritto di unirvi ;l'esposizione della sua opinione individuale.

3.       Il parere della Corte è trasmesso al Comitato dei Ministri.

 

Articolo 50 - Spese di funzionamento della Corte

Le spese di funzionamento della Corte sono a carico del Consiglio d'Europa.

 

Articolo 51 - Privilegi ed immunità dei giudici

I giudici beneficiano, durante l'esercizio delle loro funzioni, dei privilegi e delle immunità previste all'articolo 40 dello Statuto del Consiglio d'Europa e negli accordi conclusi in base a questo articolo.

 

 

TITOLO III

Disposizioni varie

 

Articolo 52 - Indagini del Segretario Generale.

Ogni Alta Parte Contraente, alla domanda del Segretario Generale del Consiglio d'Europa, fornirà le spiegazioni richieste sul modo in cui il proprio diritto interno assicura l'effettiva applicazione di tutte le disposizioni della presente Convenzione.

 

Articolo 53 - Salvaguardia dei diritti dell'uomo riconosciuti

Nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i Diritti dell'Uomo e le Libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte Contraente o in base ad ogni altro accordo al quale essa partecipi.

 

Articolo 54 - Poteri del Comitato dei Ministri.

Nessuna disposizione della presente Convenzione porta pregiudizi ai poteri conferiti al Comitato dei Ministri dallo Statuto del Consiglio d'Europa.

 

Articolo 55 - Rinuncia ad altri modi di regolamentazione delle controversie.

Le Alte Parti Contraenti rinunciano reciprocamente, salvo compromesso speciale, a prevalersi dei trattati, delle convenzioni o delle dichiarazioni che esistono fra di loro allo scopo di sottoporre, mediante ricorso, una controversia nata dall'interpretazione o dell'applicazione della presente Convenzione ad una procedura di regolamentazione diversa da quelle previste da detta Convenzione.

 

Articolo 56 - Applicazione territoriale

1.       Ogni Stato, al momento della ratifica o in ogni altro momento successivo, può dichiarare, mediante notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d'Europa, che la presente Convenzione si applicherà, con riserva del paragrafo 4 del presente articolo, in tutti i territori o in determinati territori di cui assicura le relazioni internazionali.

2.       La Convenzione si applicherà nel territorio o nei territori designati nella notifica a partire dal trentesimo giorno successivo alla data in cui il Segretario Generale del Consiglio d'Europa avrà ricevuto tale notifica.

3.       Nei suddetti territori le disposizioni della presente Convenzione saranno applicate tenendo conto delle necessità locali.

4.       Ogni Stato che ha fatto una dichiarazione conformemente al primo paragrafo di questo articolo può, in ogni momento, dichiarare relativamente a uno o a più territori previsti in tale dichiarazione che accetta la competenza della Corte a ricevere ricorsi di persone fisiche, di organizzazioni non governative o di gruppi di privati come previsto dall'articolo 34 della Convenzione.

 

 

 

Articolo 57 - Riserva

1.       Ogni Stato, al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del suo strumento di ratifica, può formulare una riserva riguardo ad una particolare disposizione della Convenzione, nella misura in cui una legge in quel momento in vigore sul suo territorio non sia conforme a tale disposizione. Le riserve di carattere generale non sono autorizzate ai termini del presente articolo.

2.       Ogni riserva emessa in conformità al presente articolo comporta un breve esposto della legge in questione.

 

Articolo 58 - Denuncia

1.       Un'Alta Parte Contraente può denunciare la presente Convenzione solo dopo un periodo di cinque anni a partire dalla data di entrata in vigore della Convenzione nei suoi confronti e dando un preavviso di sei mesi mediante una notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d'Europa, che ne informa le altre Parti Contraenti.

2.       Tale denuncia non può avere l'effetto di svincolare l'Alta Parte Contraente interessata dalle obbligazioni contenute nella presente Convenzione per quanto riguarda qualunque fatto che, potendo costituire una violazione di queste obbligazioni fosse stato compiuto da essa anteriormente alla data in cui la denuncia produce il suo effetto.

3.       Con la medesima riserva cessa d'esser Parte alla presente Convenzione ogni Parte Contraente che cessi d'essere Membro del Consiglio d'Europa.

4.       La Convenzione può essere denunciata in conformità alle disposizioni dei precedenti paragrafi per quanto riguarda ogni territorio nel quale sia stata dichiarata applicabile in base all'articolo 56.

 

Articolo 59 - Firma e ratifica

1.       La presente Convenzione è aperta alla firma dei Membri del Consiglio d'Europa. Essa sarà ratificata. Le ratifiche saranno depositate presso il Segretario Generale del Consiglio d'Europa.

2.       La presente Convenzione entrerà in vigore dopo il deposito di dieci strumenti di ratifica.

3.       Per ogni firmatario che la ratificherà successivamente, la Convenzione entrerà in vigore dal momento dei deposito dello strumento di ratifica.

4.       Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa notificherà a tutti i Membri del Consiglio d'Europa l'entrata in vigore della Convenzione, i nomi delle Alte Parti Contraenti che l'avranno ratificata, nonché il deposito di ogni altro strumento di ratifica che si sia avuto successivamente.

 

Fatto a Roma il 4 novembre 1950 in francese e in inglese, i due testi facendo egualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d'Europa. Il Segretario Generale ne trasmetterà copie certificate conformi a tutti i firmatari.


Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, emendato dal Protocollo n° 11

 

I Governi firmatari, Membri del Consiglio d’Europa,

 

Risoluti ad adottare misure idonee ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti e libertà oltre quelli che già figurano nel Titolo I della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (qui di seguito denominata «la Convenzione»),

 

Hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1 – Protezione della proprietà

Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

 

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.

 

Articolo 2 – Diritto all’istruzione

Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche.

 

Articolo 3 – Diritto a libere elezioni

Le Alte Parti Contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo.

 

Articolo 4 – Applicazione territoriale

Ogni Alta Parte Contraente, al momento della firma o della ratifica del presente Protocollo o in ogni altro momento successivo, può presentare al Segretario Generale del Consiglio d’Europa una dichiarazione che indichi i limiti entro cui si impegna ad applicare le disposizioni del presente Protocollo sui territori di cui cura le relazioni internazionali, designati nella stessa dichiarazione.

 

Ogni Alta Parte Contraente che abbia presentato una dichiarazione in virtù del paragrafo precedente può, di volta in volta, presentare una nuova dichiarazione che modifichi i termini di ogni dichiarazione precedente o che ponga fine all’applicazione delle disposizioni del presente Protocollo su di un qualsiasi territorio.

 

Una dichiarazione presentata conformemente al presente articolo sarà considerata come presentata in conformità al paragrafo 1 dell’articolo 56 della Convenzione.

 

Articolo 5 – Relazioni con la Convenzione

Le Alte Parti Contraenti considereranno gli articoli 1, 2, 3 e 4 del presente Protocollo come articoli addizionali alla Convenzione e tutte le disposizioni della Convenzione si applicheranno di conseguenza.

 

Articolo 6 – Firma e ratifica

Il presente Protocollo è aperto alla firma dei Membri del Consiglio d’Europa, firmatari della Convenzione; esso sarà ratificato contemporaneamente alla Convenzione o dopo la ratifica di quest’ultima. Esso entrerà in vigore dopo il deposito di dieci strumenti di ratifica. Per ogni firmatario che lo ratificherà successivamente, il Protocollo entrerà in vigore dal momento del deposito dello strumento di ratifica.

 

Gli strumenti di ratifica saranno depositati presso il Segretariato Generale del Consiglio d’Europa che notificherà a tutti i Membri i nomi di quelli che lo avranno ratificato.

 

Fatto a Parigi il 20 marzo 1952 in francese e in inglese, i due testi facendo ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato presso gli archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale ne trasmetterà copia autenticata ad ognuno dei Governi firmatari.


Protocollo n° 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e della Libertà fondamentali, che riconosce ulteriori diritti e libertà fondamentali rispetto a quelli già garantiti dalla Convenzione e dal primo Protocollo addizionale alla Convenzione, emendato dal protocollo n° 11

 

I Governi firmatari, Membri del Consiglio d’Europa,

 

Risoluti ad adottare misure idonee ad assicurare la garanzia collettiva di diritti e libertà oltre quelli che già figurano nel Titolo I della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (qui di seguito denominata «la Convenzione») e negli articoli da 1 a 3 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952,

 

Hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1 – Divieto di imprigionamento per debiti

Nessuno può essere privato della sua libertà per il solo fatto di non essere in grado di adempiere ad un’obbligazione contrattuale.

 

Articolo 2 – Libertà di circolazione

1. Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza.

2. Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio.

3. L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.

4. I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica.

 

Articolo 3 – Divieto di espulsione dei cittadini

1. Nessuno può essere espulso, a seguito di una misura individuale o collettiva, dal territorio dello Stato di cui è cittadino.

2. Nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino.

 

Articolo 4 – Divieto di espulsioni collettive di stranieri

Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate.

 

Articolo 5 – Applicazione territoriale

1. Ogni Alta Parte Contraente, al momento della firma o della ratifica del presente Protocollo o in ogni altro momento successivo, può presentare al Segretario Generale del Consiglio d’Europa una dichiarazione che indichi i limiti entro cui si impegna ad applicare le disposizioni del presente Protocollo sui territori di cui cura le relazioni internazionali, designati nella medesima dichiarazione.

2. Ogni Alta Parte Contraente che abbia presentato una dichiarazione in virtù del paragrafo precedente può, di volta in volta, presentare una nuova dichiarazione che modifichi i termini di ogni dichiarazione precedente o che ponga fine all’applicazione delle disposizioni del presente Protocollo su di un qualsiasi territorio.

3. Una dichiarazione presentata conformemente al presente articolo sarà considerata come presentata in conformità al paragrafo 1 dell’articolo 56 della Convenzione.

4. Il territorio di ogni Stato sul quale il presente Protocollo si applica in virtù della ratifica o dell’accettazione da parte di tale Stato e ciascuno dei territori sui quali il Protocollo si applica in virtù di una dichiarazione sottoscritta dallo stesso Stato conformemente al presente articolo, saranno considerati come territori distinti ai fini dei riferimenti al territorio di uno Stato di cui agli articoli 2 e 3.

5. Ogni Stato che abbia reso una dichiarazione in conformità ai paragrafi 1 o 2 del presente articolo può, in qualsiasi momento successivo, dichiarare, relativamente ad uno o più dei territori indicati in tale dichiarazione, di accettare la competenza della Corte a pronunciarsi sui ricorsi di persone fisiche, di organizzazioni non governative o di gruppi di privati, come previsto dall’articolo 34 della Convenzione, a norma degli articoli da 1 a 4 del presente Protocollo o di alcuni di essi.

 

Articolo 6 – Relazioni con la Convenzione

Le Alte Parti Contraenti considereranno gli articoli da 1 a 5 di questo Protocollo come articoli addizionali alla Convenzione e tutte le disposizioni della Convenzione si applicheranno di conseguenza.

 

Articolo 7 – Firma e ratifica

1. Il presente Protocollo è aperto alla firma dei Membri del Consiglio d’Europa, firmatari della Convenzione; esso sarà ratificato contemporaneamente alla Convenzione o dopo la sua ratifica. Esso entrerà in vigore dopo il deposito di cinque strumenti di ratifica. Per ogni firmatario che lo ratificherà successivamente, il Protocollo entrerà in vigore dal momento del deposito dello strumento di ratifica.

2. Gli strumenti di ratifica saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa che notificherà a tutti i Membri i nomi di quelli che lo avranno ratificato.

 

In fede di che, i sottoscritti, debitamente autorizzati a tal fine, hanno firmato il presente Protocollo.

 

Fatto a Strasburgo il 16 settembre 1963 in francese e in inglese, i due testi facendo ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato presso gli archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale ne trasmetterà copia autenticata ad ognuno degli Stati firmatari.


Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, emendato dal Protocollo n. 11

 

Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, firmatari del presente Protocollo,

 

Risoluti ad adottare ulteriori misure per assicurare la garanzia collettiva di taluni diritti e libertà mediante la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (qui di seguito denominata «la Convenzione»),

 

Hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1 – Garanzie processuali in ordine all’espulsione di stranieri

1. Uno straniero legalmente residente nel territorio di uno Stato non ne può essere espulso, se non a seguito di un provvedimento adottato ai sensi di legge e sarà autorizzato:

a. a far valere le sue ragioni contro la sua espulsione;

b. a far esaminare il suo caso, e

c. a farsi rappresentare a tale scopo innanzi all’Autorità competente o a una o a più persone designate dalla citata Autorità.

 

2. Uno straniero può essere espulso prima che possa esercitare i diritti di cui al paragrafo 1 lettera a, b, e c del presente articolo quando tale espulsione si rende necessaria per interessi di ordine pubblico o è motivata da ragioni di sicurezza nazionale.

 

Articolo 2 – Diritto di ricorso in materia penale

1. Chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale ha il diritto di sottoporre ad un Tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna. L’esercizio di questo diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere invocato, sarà stabilito per legge.

2. Tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori come stabilito da legge o in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un Tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento.

 

Articolo 3 – Indennizzo per detenzione iniqua

Allorché una condanna penale definitiva venga annullata e allorché la grazia venga accordata poiché nuovi elementi o nuove rivelazioni comprovino un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna verrà indennizzata conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non venga provato che il fatto di non aver rivelato in tempo utile gli elementi non conosciuti sia totalmente o parzialmente imputabile alla stessa.

 

Articolo 4 – Ne bis in idem

1. Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.

2. Le disposizioni di cui al paragrafo precedente non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l’esito del caso.

3. Nessuna deroga a questo articolo può essere autorizzata ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.

 

Articolo 5 – Eguaglianza tra coniugi

I coniugi godranno dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civilistico tra loro, nelle loro relazioni con i loro figli, in caso di matrimonio, durante il matrimonio e dopo la fine del matrimonio stesso. Questo articolo non impedirà allo Stato di adottare le misure necessarie per la tutela degli interessi dei figli.

 

Articolo 6 – Applicazione territoriale

1. Qualsiasi Stato, al momento della firma o al momento del deposito del suo strumento di ratifica, di accettazione o approvazione, può indicare il territorio o i territori cui si applicherà il presente Protocollo e specificare la misura cui si impegna affinché le disposizioni del presente Protocollo trovino applicazione in tale territorio o territori.

2. Qualsiasi Stato può, in seguito, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione del presente Protocollo a qualsiasi altro territorio specificato nella dichiarazione. Per quanto concerne tale territorio il Protocollo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di due mesi dalla data di ricezione della dichiarazione da parte del Segretario Generale.

3. Qualsiasi dichiarazione fatta in virtù dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata o modificata per quel che concerne ogni territorio menzionato in detta dichiarazione, mediante notifica indirizzata al Segretario Generale. Il ritiro o la modifica avrà effetto esecutivo a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di due mesi dopo la data di ricezione della notifica da parte del Segretario Generale.

4. Una dichiarazione resa conformemente al presente articolo sarà considerata come se fosse stata resa conformemente al paragrafo 1 dell’articolo 56 della Convenzione.

5. Il territorio di qualsiasi Stato cui questo Protocollo si applica in virtù della sua ratifica, della sua accettazione o della sua approvazione da parte dello Stato citato, e ciascuno dei territori cui il Protocollo si applica in virtù di una dichiarazione sottoscritta dal citato Stato conformemente a questo articolo, possono essere considerati territori distinti ai fini del riferimento di cui all’articolo 1 concernente il territorio di uno Stato.

6. Ogni Stato che ha fatto una dichiarazione conformemente al paragrafo 1 o 2 del presente articolo può, in ogni momento, dichiarare per conto di uno o più territori ai quali la dichiarazione si riferisce che accetta la competenza della Corte a ricevere i ricorsi di persone fisiche, di organizzazioni non governative o di gruppi di individui, come previsto dall’articolo 34 della Convenzione, per quanto concerne gli articoli da 1 a 5 del presente Protocollo.

 

Articolo 7 – Rapporti con la Convenzione

Gli Stati contraenti considerano le disposizioni degli articoli 1 a 6 del presente Protocollo quali articoli aggiuntivi alla Convenzione e tutte le disposizioni della Convenzione si applicano di conseguenza.

 

Articolo 8 – Firma e ratifica

Il presente Protocollo è aperto alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa firmatari della Convenzione. Esso sarà sottoposto a ratifica, accettazione o approvazione. Uno Stato membro del Consiglio d’Europa non può ratificare, accettare o ap­provare il presente Protocollo senza aver simultaneamente o anteriormente ratificato la Convenzione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

 

Articolo 9 – Entrata in vigore

1. Il presente Protocollo entrerà in vigore il primo giorno dal mese successivo alla scadenza del periodo di due mesi dopo la data in cui sette Stati membri del Consiglio d’Europa avranno espresso il loro consenso al Protocollo secondo le disposi­zioni di cui all’articolo 8.

Per tutti gli Stati membri che esprimeranno ulteriormente il loro consenso al Protocollo, esso entrerà in vigore a datare dal primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di due mesi dopo la data del deposito degli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione.

 

Articolo 10 – Funzioni del depositario

Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa:

a. tutte le firme;

b. il deposito di qualsiasi strumento di ratifica, di accettazione o di approva­zione;

c. la data di entrata in vigore del presente Protocollo ai sensi degli articoli 6 e 9;

d. qualsiasi altro atto, notifica o dichiarazione concernente il presente Protocollo

 

In fede di che, i sottoscritti debitamente autorizzati a questo scopo, hanno firmato il presente Protocollo.

 

Fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 in lingua francese ed inglese, ambedue i testi facenti egualmente fede, in un unico esemplare che verrà depositato negli archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa ne invierà copia conforme a ciascuno Stato membro del Consiglio d’Europa.


Protocollo N. 12 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali

 

Gli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari del presente Protocollo,

 

Considerato il principio fondamentale per il quale tutti sono uguali davanti alla legge e hanno diritto ad un'uguale protezione da parte della legge;

 

Risoluti ad adottare nuove misure per promuovere l'uguaglianza di tutti tramite la garanzia collettiva di un divieto generale di discriminazione da parte della Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito "la Convenzione");

 

Riaffermando che il principio di non-discriminazione non impedisce agli Stati-Parte di adottare talune misure al fine di promuovere un'eguaglianza piena ed effettiva, a condizione che si fondino su una giustificazione obiettiva e ragionevole,

 

Hanno convenuto quanto segue :

 

Articolo 1 – Divieto generale di discriminazione

1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato, senza discriminazione alcuna, fondata in particolare sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.

2. Nessuno può costituire oggetto di una discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica che sia fondata segnatamente sui motivi menzionati nel par. 1.

 

Articolo 2 – Applicazione territoriale

1. Ogni Stato, al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, può designare il o i territori nei quali si applicherà il presente Protocollo, indicando i limiti entro cui si impegna ad applicare le disposizioni del presente Protocollo in tale territorio o territori.

2. Ogni Stato, in qualunque altro momento successivo, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario generale del Consiglio d'Europa, può estendere l'applicazione del presente Protocollo ad ogni altro territorio indicato nella dichiarazione. Il Protocollo entrerà in vigore per questo territorio il primo giorno del mese successivo allo spirare del termine di tre mesi dalla data di ricezione della dichiarazione da parte del Segretario Generale.

3. Ogni dichiarazione resa in virtù dei due paragrafi precedenti potrà essere revocata o modificata, relativamente ad ogni territorio designato in siffatta dichiarazione, mediante notifica indirizzata al Segretario Generale. La revoca o la modifica avrà effetto a decorrere dal primo giorno del mese successivo allo spirare del termine di tre mesi dalla data di ricezione della notifica da parte del Segretario Generale.

4. Ogni dichiarazione fatta conformemente al presente articolo sarà considerata come fatta in conformità con il par. 1 dell'articolo 56 della Convenzione.

5. Ogni Stato che ha fatto una dichiarazione conformemente à par. 1 o 2 del presente articolo può, successivamente, dichiarare relativamente a uno o più territori previsti in tale dichiarazione che accetta la competenza della Corte a ricevere ricorsi di persone fisiche, di organizzazioni non governative o di gruppi di privati, come previsto dall'articolo 34 della Convenzione, in relazione all'articolo 1 del presente Protocollo.

 

Articolo 3 – Rapporti con la Convenzione

Gli Stati contraenti considereranno gli articoli 1 e 2 di questo Protocollo come articoli addizionali alla Convenzione e tutte le disposizioni della Convenzione si applicheranno di conseguenza.

 

Articolo 4 – Firma e ratifica

Il presente Protocollo è aperto alla firma degli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari della Convenzione. Sarà sottoposto a ratifica, accettazione o approvazione. Una Stato membro del Consiglio d'Europa non potrà ratificare, accettare o approvare il presente Protocollo senza avere contestualmente o anteriormente ratificato la Convenzione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d'Europa.

 

Articolo 5 – Entrata in vigore

1. Il presente Protocollo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo al decorso di un periodo di tre mesi dalla data alla quale dieci Stati membri del Consiglio d'Europa avranno espresso il loro consenso ad essere vincolati dal Protocollo conformemente alle disposizioni dell'articolo 4.

2. Per ogni Stato membro che esprimerà successivamente il suo consenso ad essere vincolato dal presente Protocollo, questo entrerà in vigore il primo giorno del mese successive al decorso di un periodo di tre mesi dalla data di deposito dello strumento di ratifica, di accettazione e di approvazione.

 

Articolo 6 – Funzioni del depositario

Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa notificherà agli Stati membri del Consiglio:

 

a. ogni firma;

b. il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione;

c. ogni data di entrata in vigore del presente Protocollo conformemente agli articoli. 2 e 5;

d. ogni altro atto, notifica o comunicazione riguardante il presente Protocollo.

 

In fede di che, i sottoscritti, debitamente autorizzati a tal fine, hanno firmato il presente Protocollo.

 

Fatto a Roma, il 4 novembre 2000, in francese e in inglese, i due testi facendo ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d'Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa ne trasmetterà copia autenticata a ciascuno Stato membro del Consiglio d'Europa.


Protocollo n. 13 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza

 

Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, firmatari del presente Protocollo,

 

Convinti che il diritto di qualsiasi persona alla vita è un valore fondamentale in una società democratica, e che l’abolizione della pena di morte è essenziale per la protezione di questo diritto ed il pieno riconoscimento della dignità inerente a tutti gli esseri umani;

 

Desiderosi di rafforzare la protezione del diritto alla vita garantito dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito denominata «la Convenzione»);

 

Rilevando che il Protocollo n° 6 alla Convenzione concernente l’abolizione della pena di morte, firmato a Strasburgo il 28 aprile 1983, non esclude la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminente di guerra;

 

Determinati a compiere il passo definitivo al fine di abolire la pena di morte in qualsiasi circostanza,

 

hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1 – Abolizione della pena di morte

La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato.

 

Articolo 2 – Divieto di deroghe

Nessuna deroga è autorizzata alle norme del presente Protocollo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.

 

Articolo 3 – Divieto di riserve

Nessuna riserva è ammessa alle norme del presente Protocollo ai sensi dell’articolo 57 della Convenzione.

 

Articolo 4 – Applicazione territoriale

1. Ogni Stato può, al momento della firma o al momento del deposito del suo strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, designare il territorio o i territori ai quali il presente Protocollo si applicherà.

2. Ogni Stato può, in qualsiasi successivo momento, per mezzo di una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione del presente Protocollo ad ogni altro territorio designato nella dichiarazione. Il Protocollo entrerà in vigore nei confronti di questo territorio il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data di ricezione della dichiarazione da parte del Segretario Generale.

3. Ogni dichiarazione fatta in forza dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata o modificata, per quanto riguarda ogni territorio specificato in tale dichiarazione, mediante una notifica indirizzata al Segretario Generale. Il ritiro o la modifica avranno effetto il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data di ricezione della notifica da parte del Segretario Generale.

 

Articolo 5 – Relazioni con la Convenzione

Gli Stati Parti considerano gli articoli da 1 a 4 del presente Protocollo quali articoli addizionali alla Convenzione, e tutte le disposizioni della Convenzione si applicano di conseguenza.

 

Articolo 6 – Firma e ratifica

Il presente Protocollo è aperto alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno firmato la Convenzione. Esso sarà sottoposto a ratifica, accettazione o approvazione. Uno Stato membro del Consiglio d’Europa non può ratificare, accettare o approvare il presente Protocollo senza avere contemporaneamente o precedentemente ratificato la Convenzione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

 

Articolo 7 – Entrata in vigore

1. Il presente Protocollo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data in cui dieci Stati membri del Consiglio d’Europa avranno espresso il loro consenso ad essere vincolati dal presente Protocollo in conformità alle disposizioni del suo articolo 6.

2. Per ogni Stato membro che esprima successivamente il suo consenso ad essere vincolato dal presente Protocollo, quest’ultimo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione.

 

Articolo 8 – Funzioni del depositario

Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa:

 

a. ogni firma;

b. il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione;

c. ogni data di entrata in vigore del presente Protocollo conformemente ai suoi articoli 4 e 7;

d. ogni altro atto, notifica o comunicazione, relativa al presente Protocollo.

 

In fede di che, i sottoscritti, a tal fine debitamente autorizzati, hanno firmato il presente Protocollo.

 

Fatto a Vilnius, il 3 maggio 2002, in francese ed in inglese, entrambi i testi facenti ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato nell’ archivio del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa ne comunicherà copia certificata conforme a ciascuno degli Stati Membri del Consiglio d’Europa.


Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, emendante il sistema di controllo della convenzione

 

(Traduzione non ufficiale)

 

Preambolo

Gli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari del presente Protocollo alla Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito denominata «la Convenzione»),

 

Vista la Risoluzione n° 1 e la Dichiarazione adottata nella Conferenza ministeriale europea sui diritti dell'Uomo, svoltasi a Roma il 3 ed il 4 novembre 2000;

 

Viste le Dichiarazioni adottate dal Comitato dei Ministri l'8 novembre 2001, il 7 novembre 2002 ed il 15 maggio 2003, rispettivamente nelle sue 109°, 111° e 112° Sessioni;

 

Visto il parere n° 251 (2004) adottato dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa il 28 aprile 2004;

 

Considerando la necessità e l'urgenza di emendare talune disposizioni della Convenzione al fine di mantenere e rafforzare l'efficacia a lungo termine del sistema di controllo, in ragione principalmente del continuo aumento del carico di lavoro della Corte europea dei Diritti dell'Uomo e del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa;

 

Ritenendo, in particolare che occorre vigilare affinché la Corte continui a svolgere il suo ruolo predominante per la protezione dei diritti dell'uomo in Europa,

 

Hanno convenuto quanto segue:

 

1.   Il paragrafo 2 dell'articolo 22 della Convenzione è soppresso.

 

2.   L'articolo 23 della Convenzione è modificato come segue:

«Articolo 23

Durata del mandato e revoca.

1. I giudici sono eletti per una durata di nove anni. Essi non sono rieleggibili.

2. Il mandato dei giudici termina non appena essi raggiungono l'età di settant'anni.

3. I giudici rimangono in funzione fintanto che non sono sostituiti. Tuttavia, essi continuano a dirimere i casi di cui sono già investiti.

4. Un giudice può essere sollevato dalle sue funzioni solo se gli altri giudici decidono, a maggioranza di due terzi, che tale giudice ha smesso di corrispondere alle condizioni richieste.».

 

3.   L'articolo 24 della Convenzione è soppresso.

 

4.   L'Articolo 25 della Convenzione diviene l'articolo 24 e la sua formulazione è modificata come segue:

«Articolo 24

Cancelliere e relatori.

1. La Corte dispone di una cancelleria le cui incombenze e la cui organizzazione sono stabilite dal regolamento della Corte.

2. Quando siede in formazione di giudice unico, la Corte è assistita da relatori che esercitano le loro funzioni sotto l'autorità del presidente della Corte, Essi fanno parte della cancelleria della Corte».

 

5.   L'Articolo 26 della Convenzione diviene l'articolo 25 (Assemblea plenaria) e la sua formulazione è modificata come segue:

1. Alla fine del paragrafo d, la virgola è sostituita da un punto e virgola e la parola «e» è soppressa.

2. Alla fine del paragrafo e, il punto è sostituito da un punto e virgola.

3. È aggiunto un nuovo paragrafo f, la cui formulazione è la seguente:

«f fa qualsiasi domanda a titolo dell'articolo 26, paragrafo 2.».

 

6.   L'articolo 27 della Convenzione diviene l'articolo 26 e la sua formulazione è modificata come segue:

«Articolo 26

Formazione del giudice unico, comitati, Sezioni e Sezione allargata.

1. Per esaminare i casi presentati al suo cospetto, la Corte siede in formazione di giudice unico, in comitati di tre giudici, in Sezioni di sette giudici ed in una Sezione allargata di diciassette giudici. Le sezioni della Corte costituiscono i comitati per un periodo determinato.

2. A richiesta dell'Assemblea plenaria della Corte, il Comitato dei Ministri può, con una decisione unanime e per un determinato periodo, ridurre a cinque il numero dei giudici delle Sezioni.

3. Un giudice che siede in quanto giudice unico non esamina alcun ricorso presentato contro l'Alta Parte contraente a titolo della quale questo giudice è stato eletto.

4. Il giudice eletto a titolo di un'Alta Parte contraente della controversia è membro di diritto della Sezione e della Sezione allargata. Qualora il giudice fosse assente, o non in grado di assolvere le sue funzioni, la persona scelta dal presidente della Corte su di un elenco preliminarmente sottoposto da tale Parte esercita le sue funzioni in qualità di giudice.

5. Fanno altresì parte della Sezione allargata il presidente della Corte, i vice presidenti, i presidenti delle Sezioni ed altri giudici designati conformemente al regolamento della Corte. Quando il caso è deferito alla Sezione allargata in forza dell'articolo 43, nessun giudice della Sezione che ha pronunziato la sentenza può avervi un seggio, ad eccezione del Presidente della Sezione e del giudice che ha esercitato le sue funzioni a titolo dell'Alta Parte contraente interessata».

 

7.   Dopo il nuovo articolo 26, un nuovo articolo 27 è inserito nella Convenzione, con la seguente formulazione:

«Articolo 27

Competenza del giudice unico.

1. Un giudice unico può dichiarare che un ricorso presentato ai sensi dell'articolo 34 è irricevibile oppure radiarlo dal ruolo quando questa decisione può essere presa senza esame complementare.

2. La decisione è definitiva.

3 Se il giudice unico non dichiara che il ricorso è irricevibile o non lo cancella dal ruolo, lo trasmette ad un comitato o ad una Sezione per l'esame complementare».

 

8.   L'Articolo 28 della Convenzione è modificato come segue:

«Articolo 28

Competenza dei comitati.

1. Un comitato investito da un ricorso individuale presentato ai sensi dell'articolo 34 può, con un voto unanime,

a dichiararlo irricevibile o radiarlo dal ruolo quando una siffatta decisione può essere adottata senza esame preliminare; oppure

b dichiararlo ricevibile e pronunziare contestualmente una decisione in merito quando la questione relativa all'interpretazione o all'applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli che è all'origine del caso, è oggetto della giurisprudenza consolidata della Corte.

2. Le decisioni e le sentenze di cui al paragrafo 1 sono definitive.

3. Se il giudice eletto a titolo dell'Alta Parte contraente parte della controversia non fa parte del Comitato, quest'ultimo può, in qualsiasi momento della procedura invitarlo a partecipare alla procedura in sostituzione di uno dei suoi membri, in considerazione di tutti i fattori pertinenti, ivi compreso il fatto di sapere se questa Parte ha contestato l'applicazione della procedura del paragrafo 1.b».

 

9.   L'articolo 29 della Convenzione è emendato come segue:

1. La formulazione del paragrafo 1 è modificata come segue: «Se nessuna decisione è stata presa in forza degli articoli 27 o 28, e se nessuna decisione è stata adottata in forza dell'articolo 28, una Sezione si pronuncia sulla ricevibilità ed il merito dei ricorsi individuali presentati ai sensi dell'articolo 34. La decisione sulla ricevibilità può essere presa separatamente».

2. Si aggiunge alla fine del paragrafo 2 una nuova frase, formulata come segue: «Salvo decisione contraria della Corte in casi eccezionali, la decisione sulla ricevibilità viene presa separatamente».

3. Il paragrafo 3 è soppresso.

 

10.   L'articolo 31 della Convenzione è emendato come segue:

1. Alla fine del paragrafo a, il termine «e» è soppresso.

2. Il paragrafo b diviene il paragrafo c ed un nuovo paragrafo b viene inserito con la seguente formulazione:

«b si pronuncia sulle questioni di cui la Corte è investita dal Comitato dei Ministri in forza dell'articolo 46, paragrafo 4; e».

 

11.   L'articolo 32 della Convenzione è emendato come segue.

 

Alla fine del paragrafo 1, una virgola ed il numero 46 sono inseriti dopo il numero 34.

 

12.   Il paragrafo 3 dell'articolo 35 della Convenzione è modificato come segue;

«3. La Corte dichiara irricevibile qualsiasi ricorso individuale presentato in applicazione dell'articolo 34 qualora ritenga:

a) che il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo; oppure

b) che il ricorrente non ha subito alcun danno rilevante, a meno che il rispetto dei diritti dell'Uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non esiga un esame del ricorso per quanto riguarda il merito e a patto di non rigettare per questa ragione alcuna causa che non sia stata debitamente esaminata da un tribunale interno».

 

13.   Un nuovo paragrafo 3 è aggiunto alla fine dell'articolo 36 della Convenzione, con la seguente formulazione:

«In qualsiasi caso dinanzi ad una Sezione o ad una Sezione allargata, il Commissario ai diritti dell'Uomo del Consiglio d'Europa può presentare osservazioni scritte e partecipare alle udienze».

 

14.   L'articolo 38 della Convenzione è modificato come segue:

«Articolo 38

Esame contraddittorio del caso.

La Corte esamina il caso in contraddittorio con i rappresentanti delle Parti e, se del caso, procede ad un'indagine per lo svolgimento efficace della quale le Alte Parti contraenti interessate forniranno tutte le agevolazioni necessarie».

 

15.   L'articolo 39 della Convenzione è modificato come segue:

«Articolo 39

Regolamenti amichevoli.

1. In qualsiasi momento della procedura, la Corte può mettersi a disposizione degli interessati al fine di addivenire ad un regolamento amichevole del caso, nel rispetto dei diritti dell'Uomo come lo riconoscono la Convenzione ed i suoi Protocolli.

2. La procedura descritta al paragrafo 1 è confidenziale.

3. In caso di regolamento amichevole, la Corte cancella il ricorso dal ruolo con una decisione che si limita ad un breve esposto dei fatti e della soluzione adottata.

4. Questa decisione è trasmessa al Comitato dei Ministri che sorveglia l'esecuzione dei termini della composizione amichevole come figurano nella decisione.».

 

16.   L'articolo 46 della Convenzione è modificato come segue:

«Articolo 46

Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze.

1. Le Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parte.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione.

3. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che la sorveglianza di una sentenza definitiva è intralciata dalla difficoltà d'interpretare tale sentenza, esso può investire la Corte affinché si pronunzi su tale questione d'interpretazione. La decisione di investire la Corte è presa con un voto a maggioranza di due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato.

4. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che un'Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui é parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte e mediante una decisione adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato, investire la Corte della questione dell'osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1.

5. Se la Corte accerta una violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché esamini i provvedimenti da adottare. Qualora la Corte accerti che non vi è stata violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri, il quale decide di porre fine al suo esame».

 

17.   L'articolo 59 della Convenzione è emendato come segue:

1. Viene inserito un nuovo paragrafo 2, con la seguente formulazione:

«L'Unione europea può aderire alla presente Convenzione»

2. I paragrafi 2, 3, e 4 divengono rispettivamente i paragrafi 3, 4, e 5.

 

 

Disposizioni finali e transitorie

 

18.   1. Il Presente Protocollo è aperto alla firma degli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari della Convenzione, che possono esprimere il loro consenso ad essere vincolati da:

a) firma senza riserva di ratifica, di accettazione o di approvazione; oppure

b) firma con riserva di ratifica, di accettazione o di approvazione, seguita da ratifica, accettazione o approvazione.

2. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d'Europa.

 

19.   Il presente Protocollo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data in cui tutte le Parti della Convenzione avranno espresso il loro consenso ad essere vincolate dal Protocollo, conformemente alle norme dell'articolo 18.

 

20.   1. Alla data dell'entrata in vigore del presente Protocollo, le sue disposizioni si applicano a tutti i ricorsi pendenti davanti alla Corte, nonché a tutte le sentenze la cui esecuzione è oggetto della sorveglianza del Comitato dei Ministri.

2. Il nuovo criterio di ricevibilità inserito dall'articolo 12 del presente Protocollo nell'articolo 35, paragrafo 3 b) della Convenzione, non si applica ai ricorsi dichiarati ricevibili prima dell'entrata in vigore del Protocollo. Entro due anni dopo l'entrata in vigore del presente Protocollo, solo le Sezioni e la Sezione allargata possono applicare il nuovo criterio di ricevibilità.

 

21.   Alla data di entrata in vigore del presente Protocollo, la durata del mandato dei giudici che compiono il loro primo mandato è prorogata a pieno titolo, al fine di ottenere un totale di nove anni. Gli altri giudici pongono fine al loro mandato, il quale è legittimamente prorogato di due anni.

 

22.   Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa notificherà agli Stati membri del Consiglio d'Europa:

a) qualsiasi firma;

b) il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione;

c) la data di entrata in vigore del presente Protocollo conformemente all'articolo 19; e

d) ogni altro atto notifica o comunicazione relativa al presente Protocollo.

 

In fede di che i sottoscritti a tal fine debitamente autorizzati, hanno firmato il presente Protocollo.

 

Fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004, in francese ed in inglese, entrambi i testi facenti ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato nell'archivio del Consiglio d'Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa ne comunicherà copia certificata conforme a ciascuno degli Stati membri del Consiglio d'Europa.

 

 


L. 4-2-2005 n. 11
Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari.



Art. 16-bis.

Diritto di rivalsa dello Stato nei confronti di regioni o altri enti pubblici responsabili di violazioni del diritto comunitario.

1. Al fine di prevenire l'instaurazione delle procedure d'infrazione di cui agli articoli 226 e seguenti del Trattato istitutivo della Comunità europea o per porre termine alle stesse, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti territoriali, gli altri enti pubblici e i soggetti equiparati adottano ogni misura necessaria a porre tempestivamente rimedio alle violazioni, loro imputabili, degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla normativa comunitaria. Essi sono in ogni caso tenuti a dare pronta esecuzione agli obblighi derivanti dalle sentenze rese dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell'articolo 228, paragrafo 1, del citato Trattato.

 

2. Lo Stato esercita nei confronti dei soggetti di cui al comma 1, che si rendano responsabili della violazione degli obblighi derivanti dalla normativa comunitaria o che non diano tempestiva esecuzione alle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, i poteri sostitutivi necessari, secondo i princìpi e le procedure stabiliti dall'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, e dall'articolo 11, comma 8, della presente legge.

 

3. Lo Stato ha diritto di rivalersi nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 indicati dalla Commissione europea nelle regolazioni finanziarie operate a carico dell'Italia a valere sulle risorse del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA), del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e degli altri Fondi aventi finalità strutturali.

 

4. Lo Stato ha diritto di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni degli obblighi di cui al comma 1 degli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia delle Comunità europee ai sensi dell'articolo 228, paragrafo 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea.

 

5. Lo Stato ha altresì diritto di rivalersi sulle regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti territoriali, gli altri enti pubblici e i soggetti equiparati, i quali si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, e dei relativi Protocolli addizionali, degli oneri finanziari sostenuti per dare esecuzione alle sentenze di condanna rese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato in conseguenza delle suddette violazioni.

 

6. Lo Stato esercita il diritto di rivalsa di cui ai commi 3, 4 e 5:

 

a) nei modi indicati al comma 7, qualora l'obbligato sia un ente territoriale;

 

b) mediante prelevamento diretto sulle contabilità speciali obbligatorie istituite presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato, ai sensi della legge 20 ottobre 1984, n. 720, per tutti gli enti e gli organismi pubblici, diversi da quelli indicati nella lettera a), assoggettati al sistema di tesoreria unica;

 

c) nelle vie ordinarie, qualora l'obbligato sia un soggetto equiparato ed in ogni altro caso non rientrante nelle previsioni di cui alle lettere a) e b).

 

7. La misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, comunque non superiore complessivamente agli oneri finanziari di cui ai commi 3, 4 e 5, è stabilita con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da adottare entro tre mesi dalla notifica, nei confronti degli obbligati, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. Il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati e reca la determinazione dell'entità del credito dello Stato nonché l'indicazione delle modalità e i termini del pagamento, anche rateizzato. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato.

 

8. I decreti ministeriali di cui al comma 7, qualora l'obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati. Il termine per il perfezionamento dell'intesa è di quattro mesi decorrenti dalla data della notifica, nei confronti dell'ente territoriale obbligato, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. L'intesa ha ad oggetto la determinazione dell'entità del credito dello Stato e l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato. Il contenuto dell'intesa è recepito, entro un mese dal perfezionamento, in un provvedimento del Ministero dell'economia e delle finanze che costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Ministero dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma.

 

9. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, all'adozione del provvedimento esecutivo indicato nel comma 8 provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma.

 

10. Le notifiche indicate nei commi 7 e 8 sono effettuate a cura e a spese del Ministero dell'economia e delle finanze.

 

11. I destinatari degli aiuti di cui all'articolo 87 del Trattato che istituisce la Comunità europea possono avvalersi di tali misure agevolative solo se dichiarano, ai sensi dell'articolo 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, e secondo le modalità stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, di non rientrare fra coloro che hanno ricevuto e, successivamente, non rimborsato o depositato in un conto bloccato gli aiuti che sono individuati quali illegali o incompatibili dalla Commissione europea, e specificati nel decreto di cui al presente comma (10).

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(10) Articolo aggiunto dall'art. 6, L. 25 febbraio 2008, n. 34 - Legge comunitaria 2007


L. 9 gennaio 2006, n. 12
Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce
della Corte europea dei diritti dell'uomo

 

 

 

1. 1. All'articolo 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dopo la lettera a) è inserita la seguente:

 

«a-bis) promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell'esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce;».


Giurisprudenza costituzionale

 


Sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 24 ottobre 2007

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di Cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n. 2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell'anno 2007.

 

Visti gli atti di costituzione di R.A., di A.C., di M.T.G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 3 luglio 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

 

uditi gli avvocati Felice Cacace e Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per A.C., Nicolò Paoletti e Alessandra Mari per M.T.G. e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

1. - Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n. 848 del 1955.

 

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

 

1.1. - La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale la parte privata R.A., già proprietaria di suoli espropriati per l'attuazione di un programma di edilizia economica e popolare nel Comune di Torre Annunziata, e firmataria di un atto di cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per censurare la liquidazione dell'indennità ivi effettuata, in quanto non adeguata al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione della somma liquidata.

 

Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata, il quale ha proposto ricorso incidentale, e l'Istituto autonomo case popolari della Provincia di Napoli.

 

Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, norma applicata ai fini della quantificazione dell'indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non garantirebbe un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati e la sua applicazione ai giudizi in corso costituirebbe una «indebita ingerenza del potere legislativo sull'esito del processo». A questo proposito si ricorda come la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis con l'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea.

 

La censura della parte ricorrente è estesa all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si tratta della disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato.

 

1.2. - Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione contenuta nell'art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di specie, invece, il giudizio è iniziato nel 1988.

 

Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

 

1.3 - In merito alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5-bis, commi 1 e 2. In particolare, si evidenzia come l'oggetto del contendere sia costituito dal «prezzo della cessione volontaria», rectius, «dal conguaglio dovuto rispetto a quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il giudice a quo ricorda, in proposito, che il prezzo della cessione volontaria deve essere commisurato alla misura dell'indennità di espropriazione; da ciò consegue che nel giudizio principale è ancora in contestazione la determinazione dell'indennizzo espropriativo e che l'eventuale ius superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, troverebbe senz'altro applicazione.

 

1.4. - Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene di dover riformulare i termini della questione prospettata dalla parte privata ricorrente, individuando i parametri costituzionali di riferimento negli artt. 111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce dell'esame parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e di quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.

 

In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella pronunzia del 2004, la Corte europea ha censurato l'applicazione, operata dai giudici nazionali, dell'art. 5-bis ai giudizi in corso, stigmatizzando la portata retroattiva della norma in parola, come tale lesiva della certezza e della trasparenza nella sistemazione normativa degli istituti ablatori, oltre che del diritto della persona al rispetto dei propri beni. Infatti, l'applicazione di tale criterio ai giudizi in corso ha violato l'affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito in giudizio per essere indennizzati secondo il criterio del valore venale dei beni, previsto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilità), ripristinato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme che commisuravano in generale l'indennizzo al valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983).

 

Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo ha rilevato la strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano, dell'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando che la quantificazione dell'indennità in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei diritti dell'uomo. Nell'occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come, ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l'adozione di appropriate misure legali, amministrative e finanziarie.

 

Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l'ha ritenuta conforme all'art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un criterio mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo dell'applicazione ai giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che l'irretroattività delle leggi, pur costituendo un principio generale dell'ordinamento, non è elevato - fuori dalla materia penale - al rango di norma costituzionale. Nel caso di specie, attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo la materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via suppletiva del criterio del valore venale, la retroattività dell'intervento legislativo non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza.

 

In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che la questione debba essere posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del sopravvenuto contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo e del rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso il richiamo delle norme convenzionali contenute nell'art. 6 CEDU e nell'art. 1 del primo Protocollo, in funzione di parametri interposti.

 

1.5. - La Corte di cassazione svolge poi una serie di considerazioni per giustificare il ricorso all'incidente di costituzionalità, sottolineando come spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per evitare la violazione strutturale e sistematica dei diritti dell'uomo, denunciata dalla Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata poco sopra.

 

In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice nazionale possa disapplicare l'art. 5-bis, sostituendolo con un criterio frutto del proprio apprezzamento o facendo rivivere la disciplina previgente.

 

L'impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In primo luogo, va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall'art. 11 Cost., derivanti dalle fonti normative dell'ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile la tesi dell'avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del par. 2 dell'art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati membri». A conferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama il parere negativo espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata l'adesione della Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il parere era fondato sul rilievo che l'adesione avrebbe comportato l'inserimento della Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché l'integrazione del complesso delle disposizioni della CEDU nell'ordinamento comunitario. Nella stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95).

 

Il giudice a quo richiama altresì il principio della soggezione dei giudici alla legge, sancito dall'art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò significherebbe attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa del tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale l'abrogazione della legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l'efficacia vincolante delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249).

 

A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo all'interpretazione del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la norma interna costituisca, come nella disciplina dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo, la riproduzione di norme convenzionali, per le quali i precedenti della Corte di Strasburgo costituiscono riferimento obbligato, ovvero quando la norma convenzionale sia immediatamente precettiva, e comunque di chiara interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra il giudice nazionale e quello europeo (è richiamata Cass., 19 luglio 2002, n. 10542). Diversamente, in caso di disapplicazione dell'art. 5-bis, si porrebbe il problema della sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla normativa previgente, ovvero con un criterio rimesso all'apprezzamento del giudice.

 

Al riguardo, il giudice a quo esprime perplessità circa l'incidenza, in ipotesi di disapplicazione dell'art. 5-bis, della norma suppletiva costituita dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo come criterio sul quale poggiava l'affidamento delle parti ricorrenti al momento dell'instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non costituisce «regola tendenziale dell'ordinamento», in quanto non essenziale per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale, secondo l'affermazione costante della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l'art. 5-bis, come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a Costituzione anche sotto il profilo della efficacia retroattiva. In definitiva, in caso di disapplicazione della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di determinazione dell'indennizzo che, pur non essendo coincidente con il valore di mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione del diritto dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto al criterio contenuto nell'art. 5-bis, così compiendo un'operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità che competono solo al legislatore», anche per la necessità di reperire i mezzi finanziari per farvi fronte.

 

Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell'art. 1 del primo Protocollo. Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema costituzionale (è richiamata la sentenza 28 novembre 2002, ex re di Grecia e altro contro Grecia), la stessa Corte «di solito ha ammesso che il giusto equilibrio tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell'individuo non comporta che l'indennizzo debba corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono richiamate le pronunce rese in causa James e altri contro Regno Unito, del 21 febbraio 1986; Les saint monasteres contro Grecia, del 9 dicembre 1994; la già citata sentenza Scordino del 29 luglio 2004).

 

Quanto rilevato con riferimento all'art. 11 Cost., per negare la «comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la praticabilità della disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad escludere l'utilizzo del predetto parametro ai fini dello scrutinio.

 

Secondo il rimettente, il recupero del dictum della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso il richiamo all'obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali che, ai sensi dell'art. 10 Cost., impegna l'intero ordinamento; infatti, per un verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per altro verso, la commisurazione dell'indennizzo espropriativo al valore di mercato del bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati.

 

L'intervento giudiziale, infine, secondo la Corte rimettente, non potrebbe trovare giustificazione nella finalità di supplire all'inerzia del legislatore, giacché quest'ultimo ha di recente reiterato il regime indennitario introdotto con l'art. 5-bis, avendolo trasfuso nell'attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. A questo proposito, il giudice a quo rammenta come, già nel 1993, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 283) avesse invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un serio ristoro, ritenendo l'art. 5-bis compatibile con la Costituzione in ragione del suo carattere urgente e provvisorio, desumibile anche dall'incipit della disposizione che recita: «fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni».

 

Dunque, l'«inadeguatezza in abstracto» del criterio indennitario contenuto nell'art. 5-bis a compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per motivi di interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, unitamente alla acquisita definitività della disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all'art. 37 del d.P.R. n. 327, renderebbe necessario un nuovo scrutinio di costituzionalità.

 

Le argomentazioni che dimostrano l'impercorribilità della strada della disapplicazione da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo stesso, ad escludere che il contrasto possa essere composto in via interpretativa.

 

1.6. - Su questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i motivi di contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri costituzionali evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte costituzionale sul menzionato art. 5-bis, precisa che, per un verso, quest'ultimo non è stato scrutinato rispetto al parametro di cui all'art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell'art. 111 della Costituzione), e che, per altro verso, i contenuti della disposizione costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti programmatici (primo e secondo comma), sarebbero in gran parte ancora da esplorare, così come sarebbe da chiarire il rapporto «di discendenza della nuova formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo».

 

Seppure, come è noto, l'originario intento di "costituzionalizzare" l'art. 6 della Convenzione abbia subito modifiche nel corso dei lavori parlamentari, non di meno, a parere della Corte rimettente, andrebbe avallata la tesi secondo cui la ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta proprio alla luce della giurisprudenza della Corte europea. Pertanto, nel ricercare il significato precettivo del riformulato art. 111 Cost. si potrebbe utilmente fare ricorso all'interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo dell'analoga disposizione contenuta nell'art. 6 della Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese nella causa Scordino contro Italia, in materia di indennizzo espropriativo, hanno affermato che il principio della parità delle parti dinanzi al giudice implica l'impossibilità per il potere legislativo di intromettersi nell'amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa o di una circoscritta e determinata categoria di controversie.

 

Il giudice a quo evidenzia come la vicenda giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze della Corte europea e quella che ha originato la presente questione di legittimità costituzionale risultino del tutto assimilabili: in entrambi i casi, infatti, i soggetti espropriati hanno agito in giudizio sul presupposto che, espunti dall'ordinamento (per effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di quantificazione dell'indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457, e 15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza del criterio del valore venale, con la conseguente nullità dell'atto di cessione volontaria per indeterminatezza dell'oggetto e con l'insorgenza del diritto all'indennità commisurata al predetto valore.

 

Il giudice di merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della cessione» da commisurare all'indennità di esproprio, ha dovuto fare applicazione del sopravvenuto art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed ha di conseguenza condannato il Comune espropriante al pagamento della differenza, a titolo di conguaglio della somma in precedenza corrisposta.

 

Il risultato è stato che le proprietarie espropriate, «a giudizio iniziato», si sono viste ridurre del 50 per cento la somma per il conseguimento della quale si erano determinate ad agire.

 

Per le ragioni suesposte la Corte di cassazione ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell'art. 6 CEDU, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione dell'indennità di espropriazione in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice.

 

1.7. - La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si ponga in contrasto anche con l'art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo.

 

Infatti la nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell'ordinamento». In tal senso, a detta della rimettente, la sedes materiae non risulterebbe decisiva per «ridimensionare» l'effetto innovativo dell'art. 117, primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in esame «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di indennità di espropriazione».

 

Dunque, secondo il giudice a quo, le norme della Convenzione europea, e specialmente l'art. 6 CEDU e l'art. 1 del primo Protocollo, diverrebbero, «attraverso l'autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente giudizio di costituzionalità. In particolare, la sopravvenuta incompatibilità dell'art. 5-bis con le norme CEDU e quindi con l'art. 117, primo comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati dalla Corte europea, ovvero la «contrarietà ai principi del giusto processo» e l'«incongruità della misura indennitaria, nel rispetto che è dovuto al diritto di proprietà».

 

2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate infondate.

 

2.1. - La difesa erariale individua il thema decidendum nei seguenti punti: a) «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme costituzionali».

 

Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere dell'Avvocatura generale, occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte europea possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia sui procedimenti di formazione dei patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale, il quale pur si trova ad applicare le stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955 n. 848».

 

La difesa erariale contesta che tale potere, per quanto rivendicato dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali. L'art. 32 del Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994), circoscrive la competenza della predetta Corte «a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli». Ad avviso dell'Avvocatura generale, si tratterebbe di una norma posta a garanzia dell'indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non può trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il processo e, addirittura, limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti nazionali o della nostra Corte di cassazione o perfino della Corte costituzionale».

 

La pretesa della Corte di Strasburgo di produrre norme convenzionali vincolanti non sarebbe compatibile con l'ordinamento internazionale generale e ancor più con il sistema della Convenzione di Vienna, cui è stata data esecuzione con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), secondo cui l'interpretazione di qualunque trattato deve essere testuale ed oggettiva.

 

Pertanto, la difesa dello Stato evidenzia come le questioni odierne abbiano ragione d'essere soltanto se si riconosce alle norme di origine giurisprudenziale della Corte europea il valore di parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare che, ai sensi degli artt. 25 e 42 Cost., il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere retroattivo, operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi indennitari che contemperino il diritto dei singoli con le esigenze della collettività, così evitando che gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo di mercato degli immobili.

 

2.2. - La difesa dello Stato contesta l'impostazione del ragionamento della Corte rimettente anche con riferimento ai parametri evocati.

 

Secondo l'Avvocatura generale, l'art. 111 Cost., una volta depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli "insegnamenti" CEDU sulla legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello che il giudice a quo crede di leggervi. Il «giusto processo» non riguarda le prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di intervenire sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo, che il giudice è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell'art. 101 Cost. Del resto, osserva la difesa erariale, neppure l'art. 6 CEDU, che ha ispirato la novella dell'art. 111 Cost., contiene riferimenti al divieto di leggi retroattive in materia extrapenale; tale divieto esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la quale, peraltro, secondo gli argomenti già esposti, sarebbe priva di potere creativo di norme convenzionali.

 

Discorso parzialmente analogo varrebbe per l'art. 117, primo comma, Cost., il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, là dove, per l'appunto, le predette norme configurino limitazioni all'esercizio della potestà legislativa.

 

La difesa erariale richiama in proposito l'art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli derivanti [...] da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all'art. 11 della Costituzione, dall'ordinamento comunitario e dai trattati internazionali». Nulla di tutto ciò, secondo l'Avvocatura generale, è presente nella CEDU, sia con riferimento alla previsione di leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina delle fonti di produzione nazionali, sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato. A tale proposito, l'interveniente rileva che l'art. 1 del primo Protocollo, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, si limita ad affermare il principio per cui il sacrificio della proprietà privata è ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La norma convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che l'indennizzo dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale del bene.

 

2.3. - In conclusione, la difesa erariale evidenzia come il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente collegato agli strumenti urbanistici e perciò determinato in funzione della utilizzabilità dell'area, con la conseguenza che un sistema indennitario che imponga una drastica riduzione del valore del bene non è così distante dalla realtà degli scambi economici.

 

3. - Si è costituita in giudizio R.A., ricorrente in via principale nel giudizio a quo, richiamando genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni svolte nei diversi gradi del procedimento, ed in particolare l'eccezione di illegittimità costituzionale formulata nel giudizio di cassazione, con riserva di depositare successive memorie.

 

4. - In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste affinché la questione sia dichiarata fondata.

 

4.1. - In particolare, dopo aver riassunto l'intera vicenda giudiziaria dalla quale è originato il giudizio a quo, la difesa della parte rileva che la misura dell'indennizzo espropriativo prevista nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del «serio ristoro», sarebbe tutt'ora censurabile sotto il profilo del contrasto con l'art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l'esito dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie richiamate, la Corte costituzionale aveva fatto salva la norma censurata solo perché caratterizzata da «provvisorietà ed eccezionalità».

 

4.2. - Con riferimento al profilo afferente l'applicazione della norma censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli artt. 24 e 102 Cost. L'avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa e la conseguente variazione della «dimensione qualitativa e quantitativa» del diritto azionato costituirebbero un'indebita ingerenza del potere legislativo sull'esito del processo, in violazione della riserva contenuta nell'art. 102 Cost. Non si tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattività, ma di vera e propria interferenza nell'esercizio della funzione giudiziaria da parte del legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l'onere (legittimo) a carico della pubblica amministrazione».

 

Inoltre, la censura prospettata in riferimento all'art. 42, terzo comma, Cost. andrebbe estesa all'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel quale è contenuto un criterio di calcolo dell'indennizzo espropriativo che conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà e urgenza che avevano connotato l'art. 5-bis, trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva.

 

Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo per escludere la violazione degli ulteriori parametri indicati nell'eccezione di parte non assumono valore preclusivo, la parte auspica che la Corte costituzionale estenda il proprio scrutinio anche a tali parametri.

 

5. - Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.

 

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

 

5.1. - La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale il Comune di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Brescia, la quale - dopo aver accertato che l'area di proprietà di A.C., occupata sin dal 21 maggio 1991 ed espropriata in data 8 maggio 1996, doveva considerarsi terreno edificabile da privati - aveva liquidato l'indennità di espropriazione ai sensi dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.

 

Il Comune ricorrente lamenta l'erronea qualificazione dell'area espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione della riduzione del 40 per cento, nonché l'insufficiente motivazione a sostegno del computo del valore dei manufatti preesistenti. La parte privata si è costituita ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale nel quale censura la quantificazione dell'indennità di esproprio, nonché il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria degli importi liquidati; chiede altresì la disapplicazione dell'art. 5-bis, in quanto contrastante con l'art. 1 del primo Protocollo (che sarebbe stato "comunitarizzato" dall'art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un mutamento dell'orientamento giurisprudenziale in virtù del quale «l'indennità viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che nulla compete per la rivalutazione all'espropriato». Con successiva memoria, la ricorrente incidentale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo ed all'art. 6 CEDU.

 

5.2. - Preliminarmente, la Corte di cassazione richiama le argomentazioni sviluppate riguardo all'analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il menzionato art. 5-bis, sollevata dalla medesima Corte con ordinanza del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), riservandosi soltanto di integrarne il contenuto «in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea».

 

Il giudice a quo procede, quindi, all'esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, citata anche dalla parte ricorrente a sostegno sia della richiesta di disapplicazione della norme interna, sia dell'eccezione di illegittimità costituzionale. L'esame è condotto a partire dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio 2004, in causa Scordino contro Italia, alla quale è seguita, nella medesima controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo italiano.

 

Tanto premesso, la rimettente evidenzia l'analogia intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio principale e quella che ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza, essendo le aree espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di "verde attrezzato".

 

5.3. - La Corte di cassazione procede, di seguito, a valutare il profilo riguardante la disapplicazione dell'art. 5-bis, espressamente richiesta dalla ricorrente incidentale, essendo tale delibazione presupposto di ammissibilità della presente questione di legittimità costituzionale.

 

Il giudice a quo dà atto che la stessa Corte di cassazione, con la già citata ordinanza n. 12810 del 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e con l'ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887 (r.o. n. 401 del 2006), che ha rimesso analoga questione per la parte riguardante l'entità del risarcimento danni da occupazione acquisitiva illecita (art. 5-bis, comma 7-bis), ha negato che, in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in sede sopranazionale dei criteri di liquidazione, il giudice nazionale possa disapplicare la legge interna.

 

Tale conclusione è condivisa dall'attuale rimettente, la quale rammenta che la sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro Italia, ha rimesso allo Stato italiano l'adozione delle misure «legislative, amministrative e finanziarie» necessarie all'adeguamento del sistema interno alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente chiarendo che la propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».

 

Quanto al carattere precettivo delle norme contenute nella Convenzione, il giudice a quo ritiene debbano essere distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come «fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle modalità di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso di violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell'esercizio di funzioni pubbliche, l'art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato, salvo l'intervento sussidiario della Corte di Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell'art. 34 della stessa Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente all'equa riparazione di cui all'art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la previsione contenuta nell'art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti», escludendosi così ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne.

 

La Corte rimettente evidenzia, inoltre, che la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo), ha individuato nel Governo e nel Parlamento gli organi ai quali devono essere trasmesse le sentenze della Corte europea, in quanto unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse discendono. Sottolinea, infine, che il disposto dell'art. 56 della Convenzione ammette la possibilità che l'applicazione della stessa possa non essere uniforme in tutto il territorio degli Stati aderenti, a fronte di «necessità locali», con la conseguenza che nel sistema della Convenzione, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell'accordo per tutti gli Stati aderenti, le modalità di tutela e di applicazione di quei principi nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno.

 

Risulterebbe chiara, pertanto, l'esclusione del potere di disapplicazione in capo ai singoli giudici; tanto più che nelle fattispecie riguardanti l'indennizzo espropriativo si porrebbe l'esigenza di assicurare copertura finanziaria alla modifica di sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario, stante la previsione dell'art. 81 Cost.

 

Il giudice a quo ribadisce, riprendendo le precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione, la ritenuta impossibilità di assimilare le norme della Convenzione EDU ai regolamenti comunitari ai fini di applicazione immediata nell'ordinamento interno (sull'argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). E' condiviso anche l'assunto che il richiamo contenuto nell'art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea [...] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario», non esclude la diversità tra l'organo giurisdizionale preposto alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui è invece demandata l'interpretazione delle norme comunitarie, cioè la Corte di giustizia del Lussemburgo, che ha negato la propria competenza in materia di diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997, C. 199-95, Kremzow).

 

Del resto, aggiunge il rimettente, la stessa Corte costituzionale, prima delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU, apportate con il Protocollo n. 11, reso esecutivo in Italia con la legge n. 296 del 1997, sembrava aver assunto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilità delle norme della Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235 del 1993). Solo successivamente, anche a seguito della novella degli artt. 111 e 117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a dare rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l'Italia è da tali norme vincolata» (sono richiamate la sentenza n. 445 del 2002 e l'ordinanza n. 139 del 2005).

 

In definitiva, il riconoscimento con carattere precettivo dei diritti tutelati dall'accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini dell'abrogazione di norme interne contrastanti, fino a quando il legislatore interno non abbia specificato i rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata Cass. 12 gennaio 1999, n. 254). Nondimeno, prosegue il giudice a quo, i diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal momento della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal diritto interno, sicché i successori degli originari titolari potranno chiederne la tutela al giudice nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna.

 

La Corte rimettente osserva infine che, se pure il giudice italiano disapplicasse l'art. 5-bis, non potrebbe imporre come giusto indennizzo quello corrispondente al valore venale del bene espropriato, e questo perché, mentre in sede sopranazionale tale criterio è stato più volte considerato «l'unico di regola applicabile», nell'ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto che la nozione di «serio ristoro» sia compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene ablato, come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilità.

 

5.4. - Esclusa la possibilità di disapplicare l'art. 5-bis, la Corte di cassazione procede alla delibazione delle questioni preliminari riguardanti la qualificazione delle aree espropriate come edificabili, discendendo da tale qualificazione la rilevanza della norma censurata per la fattispecie in esame.

 

Riaffermata l'edificabilità delle aree espropriate, il giudice a quo ritiene «certamente rilevante» la questione di legittimità sollevata, dato che, nella espropriazione oggetto di causa, l'indennità è stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all'art. 5-bis.

 

La Corte di cassazione evidenzia come la parte privata si dolga del fatto che, pure in assenza della riduzione del 40 per cento, l'indennità riconosciutale in base alla norma censurata non costituisce un serio ristoro della perdita subita. All'opposto, il ricorrente Comune di Montello lamenta che la Corte di merito ha computato il valore del soprassuolo ai fini della determinazione dell'indennità. Ciò dimostra, ad avviso della rimettente, che il giudizio principale non può essere definito prescindendo dall'applicazione dell'art. 5-bis.

 

5.5. - Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo procede all'esame delle pronunce con le quali la Corte costituzionale ha definito i giudizi aventi ad oggetto il menzionato art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 283 e n. 442 del 1993, nelle quali è stata esclusa l'illegittimità dei criteri di determinazione dell'indennità di esproprio dei suoli edificabili, sulla base del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un'organica disciplina dell'espropriazione per pubblica utilità» e giustificandoli per «la particolare urgenza e valenza degli "scopi" che [...] il legislatore si propone di perseguire» nella congiuntura economica in cui versava il Paese (sentenza n. 283 del 1993). Come noto, il contenuto della norma è stato trasposto nell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ha reso "definitivi" quei criteri di liquidazione dell'indennizzo, sicché la "provvisorietà" degli stessi, che aveva sorretto il giudizio di non fondatezza, può dirsi venuta meno.

 

Nella citata pronuncia n. 283 del 1993, la Corte costituzionale ha riconosciuto, a differenza della Corte europea, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina dettata dal legislatore con l'art. 5-bis, e difatti ha ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con gli artt. 3 e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso, non prevedeva una «nuova offerta di indennità», la cui accettazione da parte dell'espropriato escludesse l'applicazione della riduzione del 40 per cento. Quanto alla applicazione retroattiva dell'art. 5-bis, il giudice delle leggi ha affermato che il principio dell'irretroattività delle leggi, contenuto nell'art. 11 disp. prel. cod. civ., non è recepito nella Costituzione, escludendo nel contempo il contrasto della norma censurata con l'art. 3 Cost. Diversamente oggi, a parere della rimettente, il principio del giusto processo, sancito dal novellato art. 111 Cost., garantirebbe anche la condizione di parità tra le parti, sicché appare necessario sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo scrutinio di costituzionalità.

 

Assume il giudice a quo che la norma censurata, incidendo sulla liquidazione delle indennità nei procedimenti in corso, «anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all'espropriante» (è richiamata la sentenza n. 67 del 1990 della Corte costituzionale), ha determinato una ingerenza del legislatore nel processo a sfavore dell'espropriato. Questi, infatti, in assenza della predetta norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della relativa entrata in vigore.

 

Il rimettente richiama, in proposito, l'affermazione contenuta nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, secondo cui l'ingerenza del legislatore nei procedimenti in corso viola l'art. 6 della Convenzione, in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo, poiché la previsione della perdita di una parte dell'indennità con efficacia retroattiva non risulta giustificata da una rilevante causa di pubblica utilità.

 

Quanto al merito del criterio di calcolo dell'indennità, contenuto nella norma censurata, il rimettente osserva come la Corte europea abbia ormai definitivamente affermato, con numerose pronunce, il contrasto con l'art. 1 del primo Protocollo dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi, con o senza causa di pubblica utilità. Ritiene la Corte rimettente, quindi, che la norma censurata debba essere nuovamente scrutinata alla luce del testo vigente del primo comma dell'art. 117 Cost., sul rilievo che l'intera normativa ordinaria, e dunque anche le norme previgenti alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), possa essere esaminata ed eventualmente dichiarata incostituzionale per contrasto "sopravvenuto" con i nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale (è richiamata la sentenza n. 425 del 2004).

 

6. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nel giudizio promosso con l'ordinanza del 29 maggio 2006 della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006). Pertanto, si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2.

 

7. - Si è costituita in giudizio A.C., controricorrente e ricorrente in via incidentale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni - dovendosi ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le norme interne in contrasto con quelle della Convenzione europea - ed in subordine per l'accoglimento delle questioni medesime.

 

7.1. - La parte privata ritiene che il contrasto tra norma interna e norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. In proposito è richiamato il Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha riformulato il meccanismo di controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i singoli cittadini degli Stati contraenti possano adire direttamente la Corte europea (art. 34 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne sorveglia l'esecuzione» (art. 46 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11).

 

La medesima parte privata ricorda come l'intero meccanismo di controllo si fondi sul principio di sussidiarietà, in virtù del quale la Corte europea «non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne» (art. 35 della Convenzione). Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti ad applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, «spettando alla Corte europea, invece, in via sussidiaria e a seguito dell'esaurimento dei rimedi interni, verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione».

 

A questo proposito, la parte privata sottolinea come la Risoluzione 1226 (2000) dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa abbia affermato che gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare, tra l'altro, «l'applicazione diretta, da parte dei Giudici nazionali, della Convenzione e delle sentenze della Corte Europea che la interpretano e la applicano». Nella stessa direzione si muovono anche la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l'efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi.

 

La parte privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza 29 marzo 2006 della Corte di Strasburgo in causa Scordino contro Italia, in riferimento sia alla inadeguatezza del criterio generale di cui all'art. 5-bis, applicato indipendentemente dalla tipologia dell'opera che deve essere realizzata, sia all'effetto di interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si è determinato con l'applicazione della predetta norma ai giudizi in corso. Secondo la Corte europea tale effetto non può trovare giustificazione nelle ragioni di natura finanziaria che il Governo italiano ha prospettato nel ricorso alla Grande chambre. È inoltre richiamato il passaggio della menzionata pronunzia, ove sono citate le sentenze n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali la Corte costituzionale ha invitato il legislatore ad adottare una disciplina normativa che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed ha escluso l'esistenza di un contrasto tra l'art. 5-bis e la Costituzione «in considerazione della sua natura urgente e temporanea». Peraltro, osserva l'interveniente, poiché il criterio contenuto nella norma citata è stato trasfuso nel testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. n. 327 del 2001), la Corte di Strasburgo non ha mancato di rilevare come sia agevolmente prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi.

 

Tutto ciò premesso, se la conformità dell'ordinamento ai principi affermati nella sentenza citata deve essere assicurata dai giudici nazionali, come rilevato dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se la Corte europea ha accertato, con sentenza che costituisce «cosa giudicata interpretata», ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, che la norma interna rilevante è causa di violazione strutturale di una o più norme della Convenzione medesima, allora tale norma, a parere della parte privata, deve essere «disapplicata» dal giudice nazionale. La disapplicazione della norma interna contrastante sarebbe conseguenza diretta ed immediata del principio di sussidiarietà dell'art. 46 della stessa Convenzione, sicché, in definitiva, con riferimento al sistema CEDU si deve giungere all'affermazione di principi analoghi a quelli che la Corte costituzionale ha enucleato in relazione al diritto comunitario nella sentenza n. 170 del 1984.

 

La diversa conclusione cui è giunta la Corte rimettente contrasterebbe, tra l'altro, con l'assunto, affermato dalla medesima Corte, della vincolatività delle norme della Convenzione e della giurisprudenza della Corte europea.

 

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C. conclude sollecitando una dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

 

7.2. - In via subordinata, la parte privata insiste per la declaratoria di incostituzionalità della norma censurata per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., sviluppando argomentazioni analoghe a quelle contenute nell'ordinanza di rimessione.

 

8. - In data 20 giugno 2007 la parte privata A.C. ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste nelle conclusioni già formulate nell'atto di costituzione.

 

8.1. - In particolare, nella memoria si evidenzia come la posizione assunta dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel presente giudizio si ponga in contrasto con il «preciso obbligo dello Stato italiano di eseguire la sentenza Scordino [del 29 marzo 2006] adottando misure di carattere generale suscettibili di eliminare la violazione strutturale accertata dalla Corte europea, nonché, più in generale, con il solenne obbligo internazionale a suo tempo assunto dallo Stato italiano di cooperare efficacemente e lealmente con il Consiglio d'Europa per assicurare il funzionamento del meccanismo di tutela dei diritti umani che fa perno sulla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e sulla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo».

 

Al riguardo, la parte privata sottolinea come l'art. 1 della legge n. 12 del 2006, introducendo la lettera a-bis), nel comma 3 dell'art. 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), abbia individuato proprio nella Presidenza del Consiglio dei ministri l'organo deputato non solo a promuovere «gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello Stato italiano», ma anche a comunicare «tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell'esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti» ed a presentare «annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce».

 

Per le ragioni anzidette la parte privata reputa necessaria una pronunzia di illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, «che consenta all'Italia di assolvere i propri obblighi internazionali, di non uscire dalla legalità internazionale e di far recuperare unità all'ordinamento».

 

8.2. - In merito all'esistenza di un presunto contrasto tra la giurisprudenza della Corte europea e quella della Corte costituzionale, la difesa privata ritiene che si tratti di una divergenza soltanto apparente, determinata dalla diversità dei parametri di giudizio finora adottati dalle due Corti. Si tratterebbe, pertanto, di «interpretare (ed applicare) le norme rilevanti nel presente giudizio di costituzionalità con lo stesso parametro di tutela dei diritti umani utilizzato dalla Corte europea»; infatti - osserva la parte costituita - se il giudizio è condotto sulla base del parametro sopra indicato, l'esito non può non essere identico.

 

Peraltro, le divergenze interpretative tra le Corti costituzionali degli Stati membri e la Corte di Strasburgo «non sono affatto inusuali, ma sono piuttosto connaturate allo stesso meccanismo di tutela dei diritti umani previsto dalla Convenzione ed ai principi di sussidiarietà e solidarietà sul quale è basata».

 

8.3. - La difesa della parte privata passa, poi, in rassegna la più recente giurisprudenza della Corte europea in tema di «violazioni strutturali», evidenziando le condizioni in presenza delle quali ricorre un «problema strutturale» e non una mera violazione «episodica» della Convenzione europea.

 

In particolare, si rileva come finora siano state «per lo più proprio le Corti costituzionali degli Stati contraenti - in applicazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà - a rimediare ai problemi strutturali evidenziati nelle sentenze della Corte europea». A questo proposito, sono richiamate numerose pronunzie della Corte europea, cui hanno fatto seguito svariate decisioni delle Corti costituzionali degli Stati contraenti, tendenti a far fronte ai problemi strutturali evidenziati dai giudici di Strasburgo.

 

In alcuni casi, poi, l'accertamento dell'esistenza di una violazione strutturale della CEDU ha spinto lo Stato interessato a modificare la propria Carta costituzionale.

 

Con specifico riferimento all'Italia, sono richiamati il caso Sejdovic (sentenza della Grande chambre del 1° marzo 2006), a seguito del quale si è resa necessaria la modifica dell'art. 175 del codice di procedura penale a seguito dell'accertamento di violazione strutturale ai sensi dell'art. 46 CEDU, la modifica dell'art. 111 Cost., attuata in relazione alle sentenze della Corte europea che avevano rilevato violazioni delle garanzie dell'equo processo, e infine le sentenze n. 152 e n. 371 del 1996 della Corte costituzionale, che hanno fatto seguito, rispettivamente, alle sentenze CEDU Cantafio contro Italia del 20 novembre 1995 e Ferrantelli/Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996.

 

8.4. - In merito all'odierna questione, la difesa della parte privata osserva che la tutela del diritto di proprietà prevista nell'art. 1 del primo Protocollo non differisce nel contenuto dalla tutela apprestata dall'art. 42 Cost., posto che entrambe le norme richiedono un giusto bilanciamento tra interessi del singolo e interesse della comunità.

 

Secondo la parte costituita, la necessità di un «giusto equilibrio» porta alla conclusione per cui «ogni volta che venga sacrificato il diritto e l'interesse di un singolo per la realizzazione di una singola opera pubblica e/o di pubblica utilità, l'indennizzo deve essere pari al valore venale integrale del bene, mentre è soltanto nei casi eccezionali, in cui la privazione della proprietà riguardi una serie indeterminata di soggetti e sia volta ad attuare fondamentali riforme politiche, economiche e/o sociali, che l'indennizzo potrebbe, se del caso, essere inferiore all'integrale valore venale del bene, fermo restando che, anche in questi casi, l'indennizzo deve sempre e comunque essere in ragionevole collegamento con detto valore».

 

Dunque, a parere della parte privata, l'integrale compensazione della perdita subita dal proprietario sarebbe perfettamente compatibile con il principio contenuto nell'art. 42 Cost., come dimostrerebbe la circostanza che il criterio seguito fino al 1992 è stato quello previsto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore di mercato, con l'unica eccezione costituita dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli). Peraltro, si sarebbe trattato di un'eccezione solo apparente, poiché la legge n. 2892 del 1885 riguardava essenzialmente l'espropriazione di edifici, sicché l'indennità era determinata «sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio, purché essi abbiano data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione», ed era assistita da una logica legata alla contingente situazione della città di Napoli (fabbricati di scarso valore perché degradati, che però producevano un reddito alto per la condizione di sovraffollamento e di canoni elevati). Il criterio ivi previsto non conduceva, pertanto, a risultati penalizzanti per gli espropriati, i quali, se si fosse applicato il criterio generale del valore venale, avrebbero percepito un'indennità minore.

 

Il criterio previsto nel censurato art. 5-bis, invece, non attuerebbe «il necessario ed imprescindibile giusto equilibrio tra il diritto umano del singolo e l'interesse della collettività», assumendo, pertanto, un «carattere sostanzialmente "punitivo"».

 

9. - Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 2 del 2007), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo.

 

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

 

9.1. - Nel giudizio a quo, la parte privata M.T.G., già proprietaria di terreni siti nel comune di Ceprano, occupati nel 1980 ed espropriati nel 1984, ha proposto ricorso avverso la sentenza definitiva della Corte d'appello di Roma del 22 novembre-18 dicembre 2000, censurando la quantificazione dell'indennità di espropriazione, determinata ai sensi dell'art. 5-bis, nonché il rigetto della domanda di liquidazione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria. La ricorrente chiede la disapplicazione del citato art. 5-bis, per contrasto con gli artt. 1 del primo Protocollo e 6 CEDU, oltre ad invocare il mutamento dell'orientamento giurisprudenziale nel senso della qualificazione dell'indennità di espropriazione come credito di valore anziché di valuta. Avverso la medesima sentenza ha proposto ricorso incidentale il Comune di Ceprano, il quale lamenta, in via principale ed assorbente, che la Corte di merito ha rideterminato l'indennità di espropriazione, in senso favorevole alla parte ricorrente, dopo che la stessa Corte, con la sentenza non definitiva del 28 gennaio 1991, aveva respinto la domanda di risarcimento danni per l'occupazione dei suoli e su tale rigetto si era formato il giudicato. Il ricorrente incidentale censura altresì la mancata applicazione dell'art. 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in luogo dell'art. 5-bis, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione.

 

Con successiva memoria, la parte ricorrente in via principale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo e all'art. 6 CEDU.

 

9.2. - Il giudice a quo procede preliminarmente alla delibazione del motivo di ricorso incidentale relativo all'inammissibilità della opposizione alla indennità, e ciò in quanto l'eventuale suo accoglimento comporterebbe l'inapplicabilità dell'art. 5-bis nel giudizio in corso. Superato il profilo preliminare, nel senso della infondatezza del motivo di impugnazione, è esaminata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, come eccepita dalla parte ricorrente.

 

Il percorso argomentativo, in esito al quale la Cassazione solleva la questione nei termini indicati in premessa, è peraltro in tutto identico a quello sviluppato nell'ordinanza r.o. n. 681 del 2006, e dunque può rinviarsi a quanto esposto nel paragrafo 5.

 

9.3. - Avuto riguardo alla rilevanza della questione, il giudice a quo precisa che, essendo incontestata la natura edificabile delle aree espropriate, nel giudizio principale trova applicazione, ratione temporis, la norma contenuta nell'art. 5-bis, e non l'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, pure richiamato dalla parte ricorrente, il quale risulta applicabile ai soli giudizi iniziati dopo il 1° luglio 2003. Il giudizio di opposizione alla stima è stato introdotto nel 1987, in esito al procedimento espropriativo iniziato nel 1980. Il riferimento temporale risulta decisivo, a parere della Corte rimettente, ai fini della rilevanza del denunciato contrasto dell'art. 5-bis con l'art. 111 Cost, in relazione all'art. 6 CEDU. L'applicazione retroattiva del relativo criterio di determinazione dell'indennità avrebbe comportato, nel caso di specie, l'alterazione della condizione di parità delle parti nel processo, a favore dell'espropriante, e dunque la lesione dell'affidamento della parte privata, la quale si era risolta a proporre il giudizio confidando nell'applicazione delle più favorevoli regole allora vigenti.

 

10. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nei giudizi promossi con le ordinanze del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e del 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006) della Corte di cassazione. Si rinvia, pertanto, a quanto esposto nel paragrafo 2.

 

11. - Con memoria depositata il 25 gennaio 2007 si è costituita M.T.G., ricorrente principale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni ed in subordine per l'accoglimento delle stesse, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata.

 

La memoria della parte privata è in tutto coincidente con quella depositata nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 7.

 

12. - In data 20 giugno 2007 la stessa M.T.G. ha depositato una memoria integrativa, con allegata documentazione.

 

Nella memoria si contestano il contenuto dell'atto di costituzione della Presidenza del Consiglio dei ministri e le conclusioni ivi raggiunte, nel senso della infondatezza delle questioni poste dalla Corte rimettente, e sono svolti ulteriori argomenti a sostegno delle conclusioni già rassegnate nel proprio atto di costituzione.

 

La memoria propone, in maniera pressoché identica, le argomentazioni svolte nell'omologo atto depositato dalla parte privata A.C. nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 8.

 

Viene segnalata, inoltre, la sproporzione ancor più grave che si produrrebbe, a carico dei proprietari espropriati, per effetto dell'applicazione nel caso di specie del criterio indennitario contenuto nell'art. 5-bis, trattandosi di suoli espropriati per essere destinati a fini di edilizia residenziale pubblica. In virtù della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (Norme per l'edilizia residenziale pubblica), antecedente all'introduzione dell'art. 5-bis, gli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica possono liberamente cedere tali alloggi a terzi, a qualunque prezzo, dopo che siano trascorsi cinque anni dall'assegnazione. Ciò fa sì che il depauperamento subito dal proprietario del suolo oggetto di espropriazione vada a beneficio di altri privati, rientrando gli immobili ivi edificati nel mercato delle libere contrattazioni dopo cinque anni dall'assegnazione, con la conseguenza di rendere ancor più inaccettabile, perché ingiustificato, il criterio indennitario previsto dalla norma censurata.

 

Motivi della decisione

1. - Con tre distinte ordinanze la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai citati artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo.

 

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

 

2. - I giudizi, per l'identità dell'oggetto e dei parametri costituzionali evocati, possono essere riuniti e decisi con la medesima sentenza.

 

3. - Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione, prospettata dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi derivanti dalle asserite violazioni strutturali accertate con sentenze definitive della Corte europea e giudici nazionali.

 

3.1. - Secondo la suddetta parte privata, il contrasto, ove accertato, tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto con la disapplicazione delle prime da parte del giudice comune. Viene richiamato, in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994). L'art. 34 di tale Protocollo prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla Corte europea da parte dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l'art. 46, gli stessi Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie delle quali sono parti.

 

Sono parimenti invocate la Risoluzione 1226 (2000) dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, con la quale le Alte Parti contraenti sono invitate ad adottare le misure necessarie per dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo, la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l'efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi.

 

3.2. - La prospettata ricostruzione funge da premessa alla richiesta, avanzata dalla predetta parte privata, che la questione sia dichiarata inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il dovere di disapplicare le norme interne che la Corte europea abbia ritenuto essere causa di violazione strutturale della Convenzione.

 

3.3. - L'eccezione di inammissibilità non può essere accolta.

 

Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.

 

Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell'ordinamento interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l'art. 11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto.

 

L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».

 

Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale.

 

Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un "ordinamento" più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

 

La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale - pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti - da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.

 

Correttamente il giudice a quo ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. Le Risoluzioni e Raccomandazioni citate dalla parte interveniente si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare questa Corte, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni.

 

3.4. - Si condivide anche l'esclusione - argomentata nelle ordinanze di rimessione - delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005).

 

4. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

 

4.1. - La questione, così come proposta dal giudice rimettente, si incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l'indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse condurre bbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione.

 

Il parametro evocato negli atti introduttivi del presente giudizio è l'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice rimettente ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già stata oggetto di scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, allora proposta in relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n. 283 del 1993). La sentenza citata è stata successivamente confermata da altre pronunce di questa Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede oggi alla Corte costituzionale di modificare la propria consolidata giurisprudenza nella materia de qua, ma mette in rilievo che il testo riformato dell'art. 117, primo comma, Cost., renderebbe necessaria una nuova valutazione della norma censurata in relazione a questo parametro, non esistente nel periodo in cui la pregressa giurisprudenza costituzionale si è formata.

 

4.2. - Impostata in tal modo la questione da parte del rimettente, è in primo luogo necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle norme della CEDU, allo scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione costituzionale, la loro incidenza sull'ordinamento giuridico italiano.

 

L'art. 117, primo comma, Cost. condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Prima della sua introduzione, l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999).

 

4.3. - Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell'ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano l'attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall'altra mantenevano la veste formale di semplici fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse ed una norma legislativa posteriore.

 

Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune.

 

Oggi questa Corte è chiamata a fare chiarezza su tale problematica normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che sono state svolte nel paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si rinvia alla sentenza n. 349 del 2007), si deve aggiungere che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

 

Ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di "adattamento automatico", sul modello dell'art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana - di cui s'è detto al paragrafo 3.4 - e più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l'effetto previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis, sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del 1996).

 

4.4. - Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni. L'utilizzazione del criterio interpretativo sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo stesso enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l'effetto condizionante degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale, soltanto al sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale. La legge - e le norme in essa contenute - è sempre la stessa e deve ricevere un'interpretazione uniforme, nei limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l'applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo.

 

Del resto, anche se si restringesse la portata normativa dell'art. 117, primo comma, Cost. esclusivamente all'interno del sistema dei rapporti tra potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque a vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in quelle indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché, dopo la riforma del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma, rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni, l'operatività del primo comma dell'art. 117, anche se considerata solo all'interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di potestà legislativa, statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione.

 

4.5. - La struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell'espressione "fonti interposte", ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l'idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli "obblighi internazionali" che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato.

 

4.6. - La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47».

 

Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.

 

4.7. - Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le "norme interposte" e quelle costituzionali.

 

L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta.

 

Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.

 

Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.

 

In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione.

 

5. - Alla luce dei principi metodologici illustrati sino a questo punto, lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte rimettente deve essere condotto in modo da verificare: a) se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all'art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell'interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano.

 

5.1. - L'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che consistono nell'applicazione dell'art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L'importo così determinato è ridotto del 40 per cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell'espropriato, non si applica la riduzione di cui sopra.

 

La norma censurata è stata oggetto di questione di legittimità costituzionale, definita con la sentenza n. 283 del 1993.

 

Nel dichiarare non fondata la questione, questa Corte ha richiamato la sua pregressa giurisprudenza, consolidatasi negli anni, sul concetto di «serio ristoro», particolarmente illustrato nella sentenza n. 5 del 1980. Quest'ultima pronuncia ha stabilito che «l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione della perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all'espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene».

 

Il principio del serio ristoro è violato, secondo tale pronuncia, quando, «per la determinazione dell'indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso».

 

5.2. - L'effetto della sentenza da ultimo richiamata (e della successiva n. 223 del 1983) è stato quello di rendere nuovamente applicabile il criterio del valore venale, quale previsto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica) sino all'introduzione, nel 1992, della norma censurata.

 

A proposito di quest'ultima, la Corte, con la già ricordata sentenza n. 283 del 1993, ha confermato il principio del serio ristoro, precisando che, da una parte, l'art. 42 Cost. «non garantisce all'espropriato il diritto ad un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall'altra, l'indennità stessa non può essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata».

 

Posto che, in conformità all'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, deve essere esclusa «una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato», questa Corte ha ritenuto ammissibili criteri «mediati», lasciando alla discrezionalità del legislatore l'individuazione dei parametri concorrenti con quello del valore venale. La Corte stessa ha tenuto a precisare che la «mediazione tra l'interesse generale sotteso all'espropriazione e l'interesse privato, espresso dalla proprietà privata, non può fissarsi in un indefettibile e rigido criterio quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui storicamente si colloca, sia dello specifico che connota il procedimento espropriativo, non essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio di determinazione dell'indennità, valido in ogni fattispecie espropriativa».

 

Come emerge chiaramente dalla citata pronuncia, questa Corte, accanto al criterio del serio ristoro - che esclude la pura e semplice identificazione dell'indennità espropriativa con il valore venale del bene - ha pure riconosciuto la relatività sincronica e diacronica dei criteri di determinazione adottabili dal legislatore. In altri termini, l'adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento del giudizio. Né il criterio del valore venale (pur rimasto in vigore dal 1983 al 1992), né alcuno dei criteri «mediati» prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene.

 

La Corte ha concluso affermando: «anche un contesto complessivo che risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura economica - che il legislatore mira a contrastare con un'ampia manovra economico-finanziaria - può conferire un diverso peso ai confliggenti interessi oggetto del bilanciamento legislativo. Questa essenziale relatività dei valori in giuoco impone una verifica settoriale e legata al contesto di riferimento nel momento in cui si pone il raffronto tra il risultato del bilanciamento operato dal legislatore con la scelta di un determinato criterio "mediato" ed il canone di adeguatezza dell'indennità ex art. 42, comma 3, della Costituzione».

 

5.3. - La Corte rimettente ha posto in evidenza proprio la relatività delle valutazioni, che richiede di verificare nel tempo e nello spazio normativo il punto di equilibrio tra i contrastanti interessi costituzionalmente protetti. Si impongono pertanto due distinti approfondimenti: a) l'incidenza del mutato quadro normativo sulla compatibilità della norma censurata con la tutela del diritto di proprietà; b) il legame tra la contingente situazione storica (economica e finanziaria) esistente al momento della sentenza n. 283 del 1993 e l'esito del giudizio di legittimità costituzionale sulla stessa norma.

 

5.4. - Sul primo punto, si deve rilevare che l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU è stato oggetto di una progressiva focalizzazione interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione.

 

In esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, ha fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (punto 93); b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione (punto 94); c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene (punto 96); e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo» (punto 97).

 

Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte europea ha dichiarato che l'Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.

 

5.5. - Per stabilire se e in quale misura la suddetta pronuncia della Corte europea incide nell'ordinamento giuridico italiano, occorre esaminare analiticamente il criterio di calcolo dell'indennità di espropriazione previsto dalla norma censurata.

 

L'indennità dovuta al proprietario espropriato, secondo la citata norma, è pari alla media del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all'ultimo decennio, con un'ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra così ottenuta.

 

Si deve, in primo luogo, osservare che è stato modificato l'originario criterio previsto dalla legge n. 2892 del 1885, che, essendo mirata al risanamento di una grande città, prevedeva coerentemente il ricorso, ai fini della media, alla somma risultante dai «fitti coacervati» dell'ultimo decennio. C'era l'evidente e dichiarata finalità di indennizzare i proprietari di fabbricati ricadenti nell'area urbana, tenendo conto che gli stessi erano per lo più degradati, ma densamente abitati da inquilini che pagavano alti canoni di locazione. Si intendeva, in tal modo, indennizzare i proprietari per il venir meno di un reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi percepivano. L'indennizzo così calcolato poteva essere anche più alto del valore venale del bene in sé e per sé considerato.

 

La sostituzione dei fitti coacervati con il reddito dominicale ha spostato verso il basso l'indennità rispetto a quella prevista dalla legge per il risanamento di Napoli, con il risultato pratico che, nella generalità dei casi, la somma ottenuta in base alla media prevista dalla legge è di circa il 50 per cento del valore venale del bene. A ciò si aggiunge l'ulteriore decurtazione del 40 per cento, evitabile solo con la cessione volontaria del bene.

 

5.6. - Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato. V'è pure concordanza di principio - al di là delle diverse espressioni linguistiche impiegate - sulla non coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità.

 

Rispetto alla pregressa giurisprudenza di questa Corte, si deve rilevare un apparente contrasto tra le sentenze di rigetto (principalmente la n. 283 del 1993) sulle questioni riguardanti la norma oggi nuovamente censurata e la netta presa di posizione della Corte di Strasburgo circa l'incompatibilità dei criteri di computo previsti in tale norma e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU.

 

In realtà, come rilevato, questa Corte - nel dichiarare non fondata la questione relativa all'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 - ha posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando ed ha precisato - come s'è ricordato al paragrafo 5.2 - che la valutazione sull'adeguatezza dell'indennità deve essere condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale.

 

Sotto il primo profilo, si deve notare che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla norma censurata è divenuto oggi definitivo, ad opera dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) - non censurato ratione temporis dal giudice rimettente -, che contiene una norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto normativo compilativo. È venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano indotto questa Corte a ritenere la norma censurata non incompatibile con la Costituzione. Né si può ritenere che una «sfavorevole congiuntura economica» possa andare avanti all'infinito, conferendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa. Se problemi rilevanti di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al giorno d'oggi - e non si prevede che potranno essere definitivamente risolti nel breve periodo - essi non hanno il carattere straordinario ed acuto della situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che indusse Parlamento e Governo ad adottare misure di salvataggio drastiche e successivamente non replicate.

 

Un'indennità «congrua, seria ed adeguata» (come precisato dalla sentenza n. 283 del 1993) non può adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per attingere risultati marcatamente lontani da essa. Mentre il reddito dominicale mantiene un sia pur flebile legame con il valore di mercato (con il risultato pratico però di dimezzare, il più delle volte, l'indennità), l'ulteriore detrazione del 40 per cento è priva di qualsiasi riferimento, non puramente aritmetico, al valore del bene. D'altronde tale decurtazione viene esclusa in caso di cessione volontaria e quindi risulta essere non un criterio, per quanto "mediato", di valutazione del bene, ma l'effetto di un comportamento dell'espropriato.

 

5.7. - Da quanto sinora detto si deve trarre la conclusione che la norma censurata - la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene - non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale, la quale - come rileva il rimettente - si attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà.

 

Non emergono, sulla base delle considerazioni fin qui svolte, profili di incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all'art. 42 Cost.

 

Si deve tuttavia riaffermare che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest'ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all'art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. Livelli troppo elevati di spesa per l'espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell'iniziativa economica privata.

 

Valuterà il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo.

 

Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento», all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Ciò è conforme peraltro a quella «relatività dei valori» affermata, come ricordato sopra, dalla Corte costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale.

 

È inoltre evidente che i criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori.

 

6. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., rende superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l'art. 111 Cost., in rapporto all'applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, poiché, ai sensi dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione delle presente sentenza.

 

7. - Ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359;

 

dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.

 


Sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 24 ottobre 2007

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanza del 20 maggio 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Comune di Avellino ed altri ed E. P. in proprio e n. q. di procuratore di G. P. e di D. P. ed altri e con ordinanza del 29 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra A. G. ed altre e il Comune di Leonforte ed altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2006.

 

Visti gli atti di costituzione di G. C. n. q. di erede di E. P. e di G. P. ed altri n. q. di eredi di D. P., di A. G. ed altre, fuori termine, nonché gli atti di intervento di A. C. fu G. s.r.l., della Consulta per la giustizia europea dei diritti dell'uomo CO.G.E.D.U. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 3 luglio 2007 e nella camera di consiglio del 4 luglio 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

 

uditi gli avvocati Maurizio de Stefano e Anton Giulio Lana per la Consulta per la giustizia europea dei diritti dell'uomo CO.G.E.D.U., Antonio Barra per G. C. n. q. di erede di E. P. e per G. P. ed altri n. q. di eredi di D. P. e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

1. - La Corte di cassazione e la Corte d'appello di Palermo, con ordinanze del 20 maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché all'art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della CEDU ed all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) - convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 - comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

2. - La Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e dell'Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell'indennità per l'occupazione temporanea degli stessi immobili.

 

La stessa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d'appello, ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.

 

Riassunto il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l'indennità in base alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti private, che, tra l'altro, hanno eccepito l'illegittimità costituzionale del citato art. 5-bis, comma 7-bis.

 

2.1. - La rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere l'abrogazione della norma denunciata ad opera dell'art. 111 Cost. - come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione) - ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.

 

L'ordinanza esamina, quindi, l'orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo in ordine all'interpretazione dell'art. 1 del Protocollo, evolutosi nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In particolare, ricorda che la previsione di un'indennità equitable è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere illecito dell'occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della quantificazione dell'indennità, sicché, qualora non sia possibile la restituzione in natura del bene, all'espropriato è dovuta una somma corrispondente al valore venale.

 

Secondo il rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha ritenuto che l'occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme convenzionali, tra l'altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell'indennità nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e, tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare cambiamenti del sistema costituzionale.

 

In seguito, la medesima Corte, con le sentenze indicate nell'ordinanza di rimessione, ha applicato questi princípi anche in riferimento al criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e, ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento commisurato alla differenza tra l'indennità percepita ed il valore venale del bene, reputando che l'espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest'ultimo parametro. In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il criterio di liquidazione per l'espropriazione delle aree edificabili avrebbe infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»); quindi, l'applicabilità del sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della persona al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide ulteriormente sulla somma concretamente percepita.

 

Pertanto, secondo la Corte di Strasburgo, l'espropriazione indiretta o occupazione acquisitiva - riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla giurisprudenza italiane - sarebbe incompatibile con l'art. l del Protocollo e la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.

 

In definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l'art. 1 del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l'applicabilità del criterio ai giudizi in corso, in violazione dell'art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso sull'esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente fatto affidamento all'atto dell'instaurazione della lite.

 

2.2. - Secondo la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la sua "non applicazione", mentre la Corte di cassazione talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, talaltra ha attenuato l'efficacia vincolante delle sentenze della Corte europea.

 

A suo avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di "non applicare" la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di contrasto con norme comunitarie e fondato sull'art. 11 Cost. Il paragrafo 2 dell'art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l'interpretazione della Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee, dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l'osservanza (nel contesto comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando «tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa C-299/1995).

 

Peraltro, la teoria dei "controlimiti" potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola che commisura l'indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe recessivo rispetto all'interesse primario dell'utilità sociale. In ogni caso, siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell'art. 10 Cost., sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente recepire l'interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla norma denunciata.

 

In conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le norme convenzionali non può essere evitato attraverso un'interpretazione secundum constitutionem della prima e, d'altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna.

 

2.3. - L'ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del 1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all'art. 111 Cost.

 

Ad avviso del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l'intento del legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l'art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio principale, nella quale i proprietari, espropriati nell'anno 1985 in forza della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere l'indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi enunciati dalla Corte regolatrice - fondati sull'art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e sull'art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di esproprio) - corrispondente al valore venale dei beni; il giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma impugnata che ha diversamente commisurato l'indennizzo, disponendo l'applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, l'indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.

 

2.4. - Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto dell'art. 10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale.

 

La disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e, conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost.

 

3. - La Corte d'appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l'irreversibile trasformazione del fondo.

 

Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio comporta che il decreto di espropriazione dell'immobile, in quanto adottato dopo la scadenza dei termini di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis, comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti private, in virtù dei princípi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di quanto previsto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.

 

La Corte d'appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.

 

4. - Nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

 

Secondo la difesa erariale, l'ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte europea, prevalga la seconda; b) se l'eventuale prevalenza della giurisprudenza di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.

 

A suo avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme convenzionali; l'art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte concerne tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l'interpretazione di qualunque trattato».

 

Pertanto, se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo dell'indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l'art. 111 Cost., contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina sostanziale e, comunque, l'art. 6 della CEDU non stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella penale.

 

Secondo la difesa erariale, l'art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento ai «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» che, come chiarisce l'art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all'art. 11 della Costituzione, dall'ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell'uomo a proposito delle leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera, tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale». Analogamente, l'art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l'indennizzo per l'espropriazione debba coincidere con il valore venale del bene.

 

Infine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall'utilizzabilità dell'area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo l'interveniente, l'esperienza insegna «che su un terreno di X mq l'area edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e per l'assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro quadro.

 

4.1. - Nel giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti del giudizio principale, chiedendo l'accoglimento della questione, anche sulla scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte nell'ordinanza di rimessione.

 

Dopo avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l'art. 3 della legge n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno subito un'occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in contrasto con l'art. 1 del Protocollo.

 

La retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d'America e ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta norma con l'art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento dell'istituto dell'accessione invertita e dalla legittimazione di un'attività illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della pubblica amministrazione.

 

Pertanto, secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l'art. 10, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1, secondo comma, del Protocollo, nonché l'art. 53 Cost..

 

Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 10, primo comma, e con l'art. 111, secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, n. 1, della legge n. 848 del 1955, fermo restando l'obbligo di risarcire il danno conseguente dalla violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89).

 

4.2. - Nel giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo l'accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse che ne legittimerebbe l'intervento, in quanto parte di un altro processo avente anch'esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, sospeso sino all'esito del presente giudizio.

 

4.3. - Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU.), in persona del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, espone che non è parte del processo principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto», poiché non ha alcun interesse particolare che possa riguardare l'espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione all'intervento si fonderebbe sulla circostanza che l'esito del giudizio inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango costituzionale.

 

5. - Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, svolgendo, nell'atto di intervento e nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute nell'atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.

 

5.1. - Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo si sono altresì costituite, con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale.

 

Motivi della decisione

1. - Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d'appello di Palermo investono l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) - convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 -, comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato».

 

Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.

 

Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

 

2. - I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

 

3. - Preliminarmente, deve essere ribadita l'inammissibilità degli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU.) e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.

 

Inoltre, va dichiarata l'inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio pendente dinanzi alla Corte d'appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il termine stabilito dall'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato secondo quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza n. 190 del 2006).

 

4. - Le due ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente in ordine alle ragioni dell'applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma.

 

Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche l'interpretazione risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000)

 

Le questioni sono, quindi, ammissibili.

 

5. - Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, dato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere prese in considerazione le censure svolte dalle parti del giudizio principale, con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006).

 

6. - La questione sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

 

6.1. - In considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli derivanti [...] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale.

 

In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell'interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali - per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. - ha costantemente affermato che l'art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l'art. 10, secondo comma, e l'art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate.

 

L'art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l'altro, che l'Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984).

 

Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).

 

L'inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell'art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967).

 

In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una "materia" in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità.

 

Né la rilevanza del parametro dell'art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario.

 

E' vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l'osservanza. E' anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d'Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell'uomo disciplinato dalla CEDU e l'attività interpretativa di quest'ultima da parte della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.

 

In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di specie.

 

In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l'Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell'appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell'Unione al Consiglio d'Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.

 

Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale "comunitarizzazione" delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all'art. 1 del Protocollo addizionale, l'effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto "strutturale" tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze.

 

6.1.1. - Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell'atto - legge ordinaria - che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d'altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema [...] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall'ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). E' stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall'Italia, trovano espressione, e non meno intensa garan zia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell'uomo, garantiti dall'art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo» (sentenza n. 98 del 1965).

 

In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti [...] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004).

 

È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10 del 1993).

 

6.1.2. - Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare.

 

La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l'adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell'uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l'efficacia della protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l'intero apparato pubblico cooperi nell'evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l'attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 - Misure per l'esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo).

 

6.2. - E' dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo.

 

Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell'art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall'art. 10 e dall'art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l'incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell'ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l'espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla "non applicazione" utilizzabile per il diritto comunitario.

 

Non v'è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l'osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato.

 

Ciò non significa, beninteso, che con l'art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com'è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli "obblighi internazionali" di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata "norma interposta"; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione.

 

Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interpostà, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.

 

In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall'interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest'ultima, così come interpretata dal "suo" giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.

 

Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto - insanabile in via interpretativa - con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa.

 

7. - Premessa la lettura sistematica dell'art. 117, primo comma, Cost., invocato dai rimettenti, è opportuna una ricognizione dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'occupazione acquisitiva, oggetto della norma denunciata.

 

In origine (legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»), fu prevista l'occupazione temporanea (artt. 64 e 70), senza alcun trasferimento di proprietà; e l'occupazione d'urgenza (artt. 71 e 73), inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali, fu poi generalizzata ai casi di occupazione per l'espletamento di lavori dichiarati urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi, tuttavia, l'istituto dell'occupazione d'urgenza è divenuto un passaggio normale della procedura espropriativa, fino al punto che sovente l'opera pubblica era realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una previa dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun valido provvedimento espropriativo.

 

A tali casi si riferisce l'istituto, di origine giurisprudenziale, della c.d. «accessione invertita» o «occupazione appropriativa», consacrato dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983, più volte confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare, sulla premessa della illegittimità dell'occupazione al di fuori di un compiuto procedimento espropriativo, della realizzazione di un'opera di interesse pubblico e della impossibilità di far coesistere una proprietà del bene realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono l'acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per effetto della trasformazione irreversibile del bene. A tale conclusione, il giudice di legittimità pervenne utilizzando quell'esigenza di bilanciamento di interessi che pure è presente nella disciplina dell'accessione (art. 934 e seguenti del codice civile) e che nell'ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti le ragioni dell'amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi pubblici. La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro, è stata il diritto del proprietario non all'indennità di espropriazione, ma al risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale del bene, con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione irreversibile del bene.

 

L'orientamento successivo della Cassazione, pur con qualche oscillazione di minor rilievo (ad esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti principali della sentenza del 1983: trasferimento in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del bene e risarcimento del danno corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento era focalizzata soprattutto sull'aspetto civilistico, relativo al mutamento di titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni giuridiche, mentre rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e per ciò stesso la negazione di un'alternativa al ristoro del danno, corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie di rito.

 

7.1 - Negli anni successivi, il legislatore ordinario non sempre ha mantenuto ferma la sopra precisata ricaduta patrimoniale dell'occupazione acquisitiva. E sono al riguardo da ricordare, ai fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte.

 

Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all'art. 3, aveva dato espressa base normativa all'istituto giurisprudenziale dell'occupazione acquisitiva, sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il principio del risarcimento integrale del danno subito dal titolare del bene, limitandosi a disciplinare l'ipotesi che il provvedimento espropriativo fosse dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato. Investita della questione di legittimità costituzionale di tale norma in riferimento all'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte l'ha dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco, non si è limitato a corrispondere "l'indennizzo", ma ha previsto l'integrale risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al mancato adempimento della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.), integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le argomentazioni sono state ribadite dall'ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi dichiarato illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non si estendeva anche all'ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del danno (sentenza 486 del 1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita della vicenda», produttiva del «diritto al risarcimento e non all'indennità».

 

Successivamente il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 5-bis, ha stabilito la parificazione tra ristoro del danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo espropriativo. Questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha censurato tale parificazione in riferimento all'art. 3 Cost., sottolineando che, «mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione ex lege per atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex delicto - deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie autorità rimettenti, che un tale "privilegio" a favore dell'amministrazione pubblica può comportare, anche sul piano del buon andamento e legalità dell'attività amministrativa e sul principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato». Infine, secondo detta pronuncia, la «perdita di garanzia che al diritto di proprietà deriva da una così affievolita risposta dell'ordinamento all'atto illecito compiuto in sua violazione», vulnerava anche l'art. 42, secondo comma, della Costituzione.

 

Il principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è, pertanto, che l'accessione invertita «realizza un modo di acquisto della proprietà [...] giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell'opera in tesi pubblica) e l'interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza "costituzionale" è ulteriormente» confortata «dal suo porsi come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990). E, tuttavia, essendo l'interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comportava la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore venale del bene, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione.

 

Successivamente, l'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha introdotto nell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, il comma 7-bis, secondo cui in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1» (quella, cioè, prevista per l'espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con la precisazione che «in tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento».

 

Il profilo della misura della liquidazione del danno, con specifico riferimento alla norma appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n. 148 del 1999, che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato l'infondatezza delle censure riferite - per quanto qui interessa - agli artt. 3 e 42 Cost., essenzialmente in considerazione della mancanza di copertura costituzionale della regola della integralità della riparazione del danno e della equivalenza della medesima al pregiudizio cagionato, della «eccezionalità del caso», giustificata «soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunziata», nonché della esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica.

 

La legittimità rispetto all'art. 42 Cost. di un ristoro inferiore (e di molto) al valore reale del bene, in definitiva, è stata ancorata dalla pronuncia del 1999 anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione della temporaneità della disciplina, nonché di esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l'accento la sentenza n. 24 del 2000.

 

8. - Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le norme internazionali convenzionali e, anzitutto, con l'art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, nell'interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

 

Al riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell'istituto dell'occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale. Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di costituzionalità è solo il profilo della compatibilità di tale ricaduta patrimoniale disciplinata dalla norma censurata con la disposizione convenzionale, ciò che impone di fare riferimento alle conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo.

 

L'art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».

 

La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze, puntualmente e diffusamente richiamate nell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato dalla Grande Chambre della Corte (per tutte, Grande Chambre, sentenza 29 marzo 2006, Scordino, dove anche una completa ricostruzione dell'indirizzo confermato dalla pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell'indennità di espropriazione stabilita dal citato art. 5-bis (per più ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in pari data).

 

In sintesi, relativamente alla misura dell'indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea è ormai costante l'affermazione secondo la quale, in virtù della norma convenzionale, «una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo». Pertanto, detta norma non garantisce in tutti i casi il diritto dell'espropriato al risarcimento integrale, in quanto «obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti dalle misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo». Per converso, proprio in riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis della legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si tratta di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma economica, sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di "pubblica utilità" che possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale», osservando altresì che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale, occorre dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, Scordino).

 

La Corte europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina dell'occupazione acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che l'ingerenza dello Stato nel caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69). Inoltre, con riferimento allo specifico profilo della congruità della disciplina qui censurata, la Corte europea ha ritenuto che la liquidazione del danno per l'occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l'indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale (tra le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).

 

Il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della sopra indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e cioè della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale, così come attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre disposizioni della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione della ratifica del Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia da parte dell'Italia relativamente alla disposizione in questione e alla competenza della Corte di Strasburgo.

 

In definitiva, essendosi consolidata l'affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1 del Protocollo addizionale, nell'interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.

 

D'altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.

 

La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l'astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente con l'esigenza di garantire la legalità dell'azione amministrativa ed il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell'art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito.

 

In conclusione, l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.

 

9. - Restano assorbite le censure incentrate sugli ulteriori profili e parametri costituzionali invocati dai rimettenti.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 3 luglio 2007

 

ORDINANZA

 

Rilevato che nel presente giudizio di legittimità costituzionale sono intervenute la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU), in persona del legale rappresentante, e la s.r.l. Cappelletto Andreina fu Giuseppe, in persona del legale rappresentante, che non sono parti del giudizio principale.

 

Considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) solo le parti del giudizio principale e che la deroga è consentita solo «a favore di soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio» (per tutte, ordinanza letta all'udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza n. 279 del 2006; ordinanza n. 251 del 2002);

 

che, pertanto, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente non deve derivare, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge censurata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall'immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ordinanza letta all'udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza n. 279 del 2006; ordinanza letta all'udienza del 21 giugno 2005, allegata alla sentenza n. 345 del 2005);

 

che, nella specie, la CO.GE.DU., per sua stessa ammissione, non è «direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto», ma, in considerazione dello scopo statutario, intende ottenere che questa Corte «qualifichi in via generale ed astratta la categoria delle norme» della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, sicché non è titolare di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla eventuale pronuncia di accoglimento di questa Corte;

 

che è altresì inammissibile l'intervento della s.r.l. Cappelletto Andreina fu Giuseppe, non rilevando, in contrario, che la stessa abbia in corso un giudizio nel quale debba farsi applicazione della norma censurata, in attesa della pronuncia di questa Corte, in quanto la contraria soluzione si risolverebbe nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale (tra le molte, sentenza n. 190 del 2006, ordinanza n. 179 del 2003).

 

Per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibili gli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU.) e della Cappelletto Andreina fu Giuseppe s.r.l.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.


Sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 27 febbraio 2008

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, promosso dal Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia-Romagna, sezione di Parma, sul ricorso proposto da B. R. contro la Provincia di Reggio Emilia ed altra, con ordinanza del 20 febbraio 2007, iscritta al n. 426 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2007.

 

Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

 

Il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, con ordinanza del 20 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nelle parti in cui, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, fanno automaticamente derivare dalla dichiarazione di fallimento e dalla conseguente iscrizione nel pubblico registro dei falliti la perdita dei diritti civili dell'interessato fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell'iscrizione nel registro, ancorché questi si trovi nella condizione di richiedere la riabilitazione civile.

 

La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio instaurato da un farmacista per l'annullamento dalla determinazione dirigenziale n. 392 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell'Area Welfare della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente è stato escluso dalla graduatoria finale di un concorso pubblico per il conferimento di due sedi farmaceutiche - nel quale si era classificato secondo nella graduatoria di merito - in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione aveva accertato che l'interessato era stato dichiarato fallito con sentenza del 1986 e risultava tuttora iscritto nel pubblico registro dei falliti, non avendo mai richiesto la riabilitazione cui avrebbe avuto pieno titolo, essendosi il fallimento chiuso, appunto, nel 1986.

 

Il giudice a quo riferisce che l'interessato ha impugnato il suddetto provvedimento sotto molteplici profili, la maggior parte dei quali privi di fondamento.

 

Sottolinea, tuttavia, il remittente che alcune doglianze del ricorrente sono incentrate sul fatto che la Corte europea per i diritti dell'uomo ha più volte censurato la normativa in materia di pubblico registro dei falliti e di riabilitazione - considerandola, sotto vari aspetti, in contrasto con la Convenzione per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 8 agosto 1955 n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) - sicché, a suo dire, ciò avrebbe dovuto indurre a disapplicare la normativa statale incompatibile con la Convenzione, ovvero a promuovere il sindacato di costituzionalità sull'omesso pieno adeguamento della disciplina nazionale alla Convenzione medesima. Al riguardo, il remittente ricorda che l'orientamento giurisprudenziale invocato dal ricorrente si desume da una serie di sentenze della Corte di Strasburgo del 2006 che, facendo riferimento all'art. 8 della CEDU, hanno censurato il sistema normativo di cui agli artt. 50 e 142 della legge fallimentare, perché, quando era in vigore, assoggettava automaticamente il fallito alle relative incapacità personali (fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell'iscrizione nel registro) prescindendo dal concreto apprezzamento delle specifiche condizioni soggettive e, quindi, dalla necessaria applicazione discrezionale delle relative misure.

 

Ciò assume, nella specie, ad avviso del remittente, particolare importanza in quanto mette in discussione il fondamento stesso dell'istituto giuridico in ragione del quale il ricorrente è risultato carente del requisito del godimento dei diritti civili, di talché appare necessario verificare l'efficacia esercitata, nell'ordinamento interno, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e, soprattutto, la posizione occupata dalla CEDU nella gerarchia delle fonti.

 

Al riguardo, il remittente - uniformandosi all'orientamento espresso dalla Corte di cassazione e tenendo conto degli artt. 13, 46 e 56 della CEDU nonché della legge 9 gennaio 2006, n. 12 - ritiene che, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti dalla Convenzione suddetta, tuttavia le relative modalità applicative sono rimesse alla legislazione interna e le norme della Convenzione non sono assimilabili ai regolamenti comunitari, sicché non operano immediatamente nell'ordinamento interno né i diritti da essa garantiti trovano diretta tutela in sede comunitaria se la normativa nazionale censurata non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario. D'altra parte, osserva il giudice a quo, dopo la riforma dell'art. 117 Cost. anche la giurisprudenza costituzionale sembra orientata ad attribuire rilievo indiretto alle norme della Convenzione (sentenza n. 445 del 2002), così negando implicitamente ogni eventualità di abrogazione automatica o di disapplicazione giudiziale delle leggi interne in contrasto con le disposizioni di rango sovranazionale. Conseguentemente, il potere di far venire meno le norme primarie difformi dalla CEDU nel nostro ordinamento rimane riservato al legislatore statale, a quello regionale e alla Corte costituzionale, in sede di sindacato di costituzionalità effettuato soprattutto con riguardo al nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost. Rispetto a tale sindacato le disposizioni della CEDU operano quali norme interposte, attraverso l'interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo (loro giudice naturale) e, con riguardo alle norme interne contrastanti con la Convenzione anteriori all'entrata in vigore della riforma del menzionato art. 117 Cost., si verifica una situazione di illegittimità costituzionale sopravvenuta, derivante dall'omesso adeguamento della disciplina nazionale alla fonte sovranazionale.

 

In questa situazione - osserva il remittente - essendo da escludere sia che il giudice comune possa disapplicare le norme statali che la Corte di Strasburgo ha dichiarato incompatibili con l'art. 8 della CEDU sia che le suddette norme possano considerarsi direttamente abrogate per effetto del contrasto con la disciplina sovranazionale, non resta altro che investire questa Corte della presente questione di legittimità costituzionale (la quale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, coinvolge solo indirettamente l'art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362).

 

Quanto al merito della questione, il TAR ricollega l'ipotizzata violazione dell'art. 117 Cost. al fatto che il legislatore nazionale non ha tempestivamente provveduto a conformare la disciplina interna alla CEDU, laddove questa Convenzione tutela il diritto della persona a non essere sottoposta ad interferenze arbitrarie nella vita privata (art. 8). Tale diritto fondamentale - come affermato dalla Corte di Strasburgo con sentenze che, ancorché successive all'abrogazione delle disposizioni interne, assumono rilievo anche nella presente fattispecie in quanto di natura dichiarativa - non tollera un sistema basato sull'automatica sottoposizione dei falliti ad un regime di incapacità personali svincolato dalla preventiva valutazione giudiziale delle singole posizioni e operante per un lungo lasso di tempo dopo la chiusura della procedura concorsuale fino alla sentenza di riabilitazione civile.

 

Con riguardo, poi, all'ipotizzata violazione degli artt. 2, 3 e 41 Cost., il TAR remittente sottolinea come il fatto che l'automatismo insito nel regime delle incapacità personali del fallito operi - oltre tutto per molto tempo dopo la chiusura del fallimento - al di fuori di una preventiva verifica delle singole condizioni soggettive ed oggettive e, quindi, a prescindere da un appropriato rapporto di adeguatezza con le peculiarità dei singoli casi concreti, ovvero da una graduale e ponderata applicazione delle relative misure si traduca in: a) un arbitrario sacrificio del diritto alla riservatezza della sfera privata della persona, data l'assenza di un preliminare accertamento delle relative restrizioni; b) un'oggettiva lesione del principio di uguaglianza, consistente nella previsione di un identico regime di incapacità personali per tutti i soggetti, senza che sia attribuito alcun rilievo alla diversa portata delle rispettive vicende fallimentari; c) un'indiscriminata limitazione del diritto di iniziativa economica, ostacolato, nel suo esplicarsi, da vincoli che non tengono conto ex ante, caso per caso, dell'effettivo pregiudizio dei valori protetti dall'art. 41, secondo comma, Cost.

 

Per quel che si riferisce alla rilevanza, il TAR pone l'accento sul fatto che il provvedimento impugnato è stato adottato sul presupposto della perdurante iscrizione del ricorrente nel pubblico registro dei falliti, sicché l'eventuale espunzione dall'ordinamento delle disposizioni impugnate comporterebbe le cessazione, con effetto ex tunc, del regime delle incapacità personali addotto a fondamento della carenza del requisito del possesso dei diritti civili. Né assume alcun rilievo in contrario la circostanza che medio tempore e, precisamente, a decorrere dal 16 gennaio 2006 - per effetto dell'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, che ha abrogato l'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, e dell'art. 128 dello stesso decreto, che ha sostituito il titolo II, capo IX, della legge fallimentare - il pubblico registro dei falliti è stato soppresso e l'istituto della riabilitazione è venuto meno (sicché, da quella data, è stata eliminata la preclusione legale al godimento dei diritti civili attualmente in discussione), visto che la presente fattispecie risulta tuttora disciplinata dalla precedente normativa, in quanto essa era ancora in vigore quando si è svolta la fase procedimentale nel corso della quale occorreva maturare il possesso dei requisiti di ammissione al concorso.

 

Sottolinea poi il giudice a quo che il ricorrente, pur avendo a tempo debito omesso di proporre istanza di riabilitazione, appare, tuttavia, pienamente legittimato ad invocare la caducazione di un sistema normativo che ne ha causato l'automatica sottoposizione al regime di incapacità personali del fallito e che, di conseguenza, gli ha impedito di conseguire il conferimento della sede farmaceutica in esito al concorso in oggetto.

 

E', infine, da escludere la possibilità di disapplicazione della disciplina censurata per contrasto con le norme comunitarie che, ad avviso del ricorrente, recherebbero disposizioni sostanzialmente corrispondenti alle prescrizioni della CEDU che vengono, nella specie, in considerazione. Infatti, da un lato, le direttive comunitarie invocate non rientrano tra quelle self executing e, d'altra parte, l'asserita violazione del generale principio della libera concorrenza - rappresentata, in ipotesi, dal regime discriminatorio riservato ai cittadini italiani falliti rispetto a quelli degli altri Paesi dell'Unione europea - neppure può indurre alla richiesta disapplicazione, poiché la presunta discriminazione in argomento non costituisce, di per sé, causa di illegittimità comunitaria, in quanto i singoli Stati della UE godono di un ambito di autonomia che esclude un'assoluta uniformità di regime delle condizioni legali di accesso alle attività economiche.

 

Il remittente riferisce, inoltre, che l'istanza cautelare del ricorrente, respinta dal giudice di primo grado, è stata viceversa accolta dal Consiglio di Stato, sezione V, con ordinanza del 3 ottobre 2006, n. 5065.

 

Motivi della decisione

1.- Il TAR per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, in riferimento agli articoli 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, ha sollevato, «nei sensi di cui in motivazione», questione di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

 

Il remittente espone in fatto e osserva in punto di rilevanza che è stato chiamato a giudicare sulla legittimità della determinazione n. 382 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell'Area Welfare Locale della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente era stato escluso dalla graduatoria finale del concorso per il conferimento di due sedi farmaceutiche - bandito dalla Provincia di Reggio Emilia il 20 maggio 2003 - pur essendosi classificato al secondo posto della graduatoria di merito, in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione aveva accertato che egli era stato dichiarato fallito nel 1986 dal Tribunale di Termini Imerese e figurava ancora iscritto nell'albo dei falliti, pur essendo trascorsi molti anni dalla chiusura della procedura concorsuale (avvenuta nello stesso 1986) e avendo, quindi, la facoltà di promuovere il giudizio di riabilitazione civile, al fine di ottenere la cancellazione dal suddetto albo.

 

Il remittente rileva, in particolare, che, secondo la normativa censurata - vigente alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande per la partecipazione al concorso di cui si tratta e, pertanto, da applicare nel caso di specie, nonostante la sopravvenuta abrogazione dell'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, con conseguente soppressione dell'albo dei falliti, ad opera dell'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, entrato in vigore il 16 gennaio 2006 - allo stato di fallito era automaticamente connessa la perdita dei diritti civili e politici (permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza di riabilitazione civile, emanata ai sensi dell'art. 142 dello stesso r.d. n. 267 del 1942, istituto del pari eliminato dall'art. 128 del menzionato d.lgs. n. 5 del 2006), la cui titolarità è richiesta per la partecipazione ai concorsi per l'assegnazione delle sedi farmaceutiche, dall'art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362.

 

2.- Sulla non manifesta infondatezza della questione, il TAR remittente osserva che le norme censurate, configurando le suddette incapacità personali come conseguenza automatica della dichiarazione di fallimento e, soprattutto, prevedendo il loro permanere dopo la chiusura della procedura per lungo tempo fino alla cancellazione dall'albo a seguito dell'esito favorevole del giudizio di riabilitazione, contrastano con i parametri costituzionali suindicati.

 

In particolare, esse violerebbero l'art. 3 Cost. perché dispongono un'irragionevole sanzione ed equiparano situazioni diverse, prescindendo da ogni valutazione delle cause del dissesto dell'imprenditore; contrasterebbero inoltre con i diritti della persona e con il principio della libertà di iniziativa economica e anche con le disposizioni dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo quanto ritenuto in numerose decisioni dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui istituzionalmente è attribuito il compito di interpretare la CEDU.

 

3.- La questione è rilevante e, nel merito, fondata.

 

In punto di rilevanza non è implausibile la motivazione dell'ordinanza di rimessione, secondo la quale i requisiti per la partecipazione ad un concorso, se diversamente non è nei singoli casi stabilito, vanno determinati alla stregua della normativa vigente al momento della scadenza del termine fissato per la presentazione della domanda, nel caso in esame antecedente l'abrogazione di una delle disposizioni impugnate e la sostituzione dell'altra.

 

4.- Nel merito è necessario premettere che, secondo la giurisprudenza formatasi prima dell'abrogazione dell'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942 e nella vigenza del testo originario dell'art. 142 del medesimo, il riacquisto dei diritti civili e politici, la cui perdita era automaticamente connessa allo stato di fallito, veniva, come si è detto, condizionato al favorevole esito del giudizio di riabilitazione.

 

Va, inoltre, sottolineato che nell'ordinanza di rimessione, anche con specifico riferimento alle peculiarità della vicenda sulla quale il giudice amministrativo deve pronunciarsi, i sospetti di incostituzionalità si appuntano non soltanto sull'automatismo delle incapacità del fallito ma anche sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.

 

5.- Così identificati i termini della questione soggetta a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.

 

Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi.

 

Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all'epoca vigente, la Corte di Strasburgo, con numerose pronunce (si veda, ex plurimis, la sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società democratica».

 

La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall'art. 50 della legge fallimentare nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione», e ha dichiarato l'avvenuta violazione del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di "vita privata" presa in considerazione da tale norma, «non esclude, in linea di principio, le attività di natura professionale o commerciale, considerato che proprio nel mondo del lavoro le persone intrattengono un gran numero di relazioni con il mondo esteriore».

 

Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono in modo indifferenziato incapacità che si protraggono oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono, perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della dichiarazione di fallimento ed, in particolare, a tutte le limitazioni da questa derivanti, violano l'art. 3 Cost. sotto diversi profili. Esse, infatti, poiché prevedono generali incapacità personali in modo automatico e, quindi, indipendente dalle specifiche cause del dissesto - così equiparando situazioni diverse - e in quanto stabiliscono che tali incapacità permangono dopo la chiusura del fallimento, assumono, in ogni caso, carattere genericamente sanzionatorio, senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela.

 

Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.

 

Restano assorbiti gli altri profili di censura.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

 


Sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 15 aprile 2008

Nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel loro testo originario, degli stessi articoli, nel testo sostituito, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 3 della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - Legge finanziaria 2007), nonché dell'art. 5 di quest'ultima legge, promossi con due ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, notificati il 10 luglio 2006 ed il 2 agosto 2007, depositati in cancelleria il 13 luglio 2006 ed il 7 agosto 2007 ed iscritti al n. 91 del registro ricorsi 2006 e al n. 36 del registro ricorsi 2007.

 

Visti gli atti di costituzione della Regione Sardegna;

 

udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il giudice relatore Franco Gallo;

 

uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Graziano Campus e Paolo Carrozza per la Regione Sardegna.

 

1. - Con il ricorso n. 91 del 2006, notificato il 10 luglio 2006 e depositato il 13 luglio successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 della Costituzione in relazione all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, agli artt. 3 e 53 Cost., all'art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell'art. 12 del Trattato CE; b) dell'art. 3 della stessa legge regionale, in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 Cost. in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, agli artt. 3 e 53 Cost., all'art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell'art. 12 del Trattato CE; c) dell'art. 4 della stessa legge regionale, in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso), agli artt. 117 e 119 Cost. in relazione all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, agli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri non espressamente indicati).

 

Il ricorrente premette che le tre norme censurate - le quali istituiscono, rispettivamente, l'imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, l'imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico e l'imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto - non possono trovare fondamento costituzionale nell'art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia. Detta disposizione, infatti, comprende tra le entrate regionali le «imposte e tasse sul turismo e gli altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato».

 

Sostiene la difesa erariale che «l'attribuzione, dunque, è duplice: diretta, per le imposte e tasse sul turismo; indiretta per gli altri tributi, in quanto presuppone che la regione abbia la facoltà di istituirli, facoltà che non viene attribuita direttamente dalla norma statutaria, ma che deve trovare la sua fonte in norme apposite». Dalla formulazione del citato art. 8, si ricaverebbe, cioè, che «il potere impositivo della regione investe i servizi turistici, vale a dire quelle prestazioni in favore del turista durante la sua permanenza nella regione», con la conseguenza che esso non potrebbe «rappresentare la base costituzionale di nessuna delle norme impugnate perché nessuna di esse [...] è riconducibile al turismo, secondo la nozione tradizionale in campo tributario».

 

L'Avvocatura generale procede, poi, alla disamina delle singole norme denunciate e all'illustrazione delle censure formulate per ciascuna di esse.

 

1.1. - In relazione al denunciato art. 2, la difesa erariale osserva che esso istituisce e disciplina l'imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, applicabile - nei confronti dell'alienante avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi, con l'esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi - alle cessioni a titolo oneroso a) di fabbricati siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, destinati ad uso abitativo, escluse le unità immobiliari che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o del coniuge, nonché b) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi.

 

Ad avviso della difesa erariale, tale norma víola il citato art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché: a) l'oggetto dell'imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo.

 

La stessa norma violerebbe, inoltre, gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché non sarebbe ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale.

 

In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», la difesa erariale formula tre ulteriori censure.

 

Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, per violazione del principio fondamentale espresso dall'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall'acquisto o dalla costruzione, esclusi gli immobili acquistati per successione o donazione e gli altri casi che sono indicati dallo stesso articolo.

 

In secondo luogo, deduce la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., per contrasto con il «principio generale» secondo cui lo stesso indice di capacità contributiva non giustifica la sovrapposizione di piú imposte, perché ogni imposta deve avere un presupposto autonomo, dovendo colpire «materie tassabili diverse», mentre nella specie la Regione ha colpito la stessa materia già tassata dallo Stato con l'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986.

 

In terzo luogo, deduce la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 12 del Trattato CE, in quanto la norma censurata discrimina i cittadini comunitari adottando, per l'applicazione dell'imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza». Argomenta, sul punto, che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, «il criterio che ricollega alla residenza nel territorio nazionale l'eventuale rimborso dell'imposta versata per eccesso, sebbene si applichi indipendentemente dalla cittadinanza del contribuente interessato, rischia di danneggiare in particolare i contribuenti cittadini di altri Stati membri, giacché saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese o a stabilirvisi durante l'anno».

 

1.2. - In relazione al denunciato art. 3, il ricorrente osserva che esso istituisce e disciplina l'imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico, dovuta - secondo classi di superficie - sui fabbricati siti nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, applicabile nei confronti del proprietario di detti fabbricati, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, con l'esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi e figli.

 

Il ricorrente censura la norma in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché: a) l'imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo. Lamenta, altresí, che il tributo pregiudica «le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario», perché colpisce la stessa materia tassabile incisa da altri tributi e, in particolare, dall'ICI, producendo una "disarmonia" con i princípi del sistema tributario dello Stato. Lamenta, inoltre, che la norma censurata víola l'art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3», e l'art. 12 del Trattato CE, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., in quanto discrimina i cittadini comunitari adottando, per l'applicazione dell'imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza».

 

In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», la difesa erariale formula due ulteriori censure.

 

Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché l'imposta è determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre «la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l'imposta statale e per l'ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto analogo con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a secondo del pregio degli immobili».

 

In secondo luogo, deduce la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 12 del Trattato CE, per gli stessi motivi già esposti con riferimento al denunciato art. 2.

 

1.3. - In relazione al denunciato art. 4, il ricorrente osserva che esso istituisce e disciplina l'imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, la quale è applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l'esercizio dell'aeromobile o dell'unità da diporto (con l'esenzione dall'imposta delle navi adibite all'esercizio di attività crocieristica, delle imbarcazioni che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo e delle unità da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali), ed è dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell'aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.

 

Ad avviso della difesa erariale, il suddetto art. 4 víola l'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna e gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, per gli stessi motivi già esposti con riferimento al denunciato art. 3.

 

In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», la difesa erariale formula due ulteriori censure.

 

Deduce, in primo luogo, il contrasto della norma denunciata con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, con riferimento alle unità da diporto che effettuino lo scalo «in zona non attrezzata, in uno specchio di mare ridossato, dove l'ormeggio sia effettuato a terra, utilizzando la struttura naturale della spiaggia», la Regione ha individuato «come presupposto di imposta l'utilizzo di un bene naturale, sul quale non può esercitare poteri», quale il mare, «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale».

 

In secondo luogo, deduce la violazione dell'art. 53 Cost., perché, con riferimento agli aeromobili, a) «si è di fronte ad una duplicazione di imposta di tutta evidenza», in quanto «una imposta (o, meglio, tassa) di questo genere dovrebbe essere in favore di chi ha a carico l'onere di manutenzione e gestione degli impianti aeroportuali, che vengono utilizzati nello scalo. Questi soggetti, peraltro, hanno già la possibilità di rifarsi su chi esercita l'aeromobile attraverso il pagamento dei diritti aeroportuali, o diritto per l'uso degli aeroporti (legge n. 324/1976)»; b) non costituisce indice di capacità contributiva «lo svolgimento di un'operazione per la quale, comunque lo si voglia definire, si paga un prezzo che copre il costo del servizio reso, con margine di utile».

 

In terzo luogo, pur senza evocare espressamente gli artt. 3 e 53 Cost., lamenta che, essendo l'imposta dovuta annualmente con riferimento alle unità da diporto, «piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l'onere dell'imposta che, in questo modo, viene ad avere carattere regressivo».

 

2. - Si è costituita la Regione Sardegna, premettendo di avere istituito l'imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, l'imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico e l'imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, in forza della potestà legislativa conferitale dall'art. 8, lettera i) dello statuto di autonomia. Detta disposizione, ad avviso della resistente, consente alla Regione di istituire direttamente «tributi legati alla attività turistica, e ciò anche in carenza di una legislazione statale di coordinamento». Diversamente opinando, non avrebbe senso che in detta norma, «solamente per "gli altri" tributi diversi da quelli sul turismo, venga (nuovamente) specificato che gli stessi siano in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato». Tale interpretazione sarebbe confermata, sul piano comparatistico, dalla lettura degli artt. 72 e 73 dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige, i quali riportano in due norme distinte lo stesso contenuto dell'art. 8, lettera i), dello statuto sardo, «scindendo da una parte le imposte e tasse sul turismo (art. 72) e dall'altra gli "altri tributi propri", da istituirsi (solamente questi) "in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato». In ogni caso, sempre ad avviso della resistente, i princípi del sistema tributario si possono desumere, oltre che da leggi statali che espressamente li stabiliscano per i singoli tributi, «anche dalla legislazione statale vigente in riferimento a tributi non specificamente disciplinati da leggi dello Stato», non potendo trovare applicazione la giurisprudenza costituzionale sul nuovo art. 119 Cost., perché le modifiche apportate al Titolo V della Parte II della Costituzione non possono avere per effetto la restrizione dell'autonomia già spettante alle Regioni speciali.

 

Ciò premesso, la resistente osserva, in primo luogo, che i tributi disciplinati dalle norme censurate sono tributi sul turismo nel senso fatto proprio dall'art. 3 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale), e cioè «forme di imposizione che colpiscono attività ovvero utilizzo di beni immobili riferiti alla pratica turistica, ovvero attività economiche qualificate come turistiche o inerenti al turismo, in quanto dallo stesso direttamente influenzate sotto il profilo economico, anche in rapporto alla localizzazione dell'attività medesima».

 

In secondo luogo, la Regione afferma che l'art. 1 della legge 29 marzo 2001, n. 135 (Riforma della legislazione nazionale del turismo), «pone in relazione la legislazione regionale sul turismo con la tutela dell'ambiente, con la sostenibilità degli interventi e con lo sviluppo del turismo anche ai fini dell'attuazione del riequilibrio con le aree depresse», consentendo al legislatore regionale di individuare nelle seconde case sulla costa un presupposto impositivo "affidabile", perché strettamente correlato al turismo estivo. È indice di tale stretta correlazione l'azione regionale di salvaguardia dell'ambiente costiero dalla speculazione edilizia; azione che si è manifestata nell'adozione della legge reg. 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), che ha disciplinato le procedure per la redazione e l'approvazione del piano paesaggistico regionale, istituendo contestualmente alcune misure di salvaguardia, e con la successiva adozione del piano paesaggistico relativo all'area costiera. Proprio in considerazione delle caratteristiche ambientali dell'isola, il presupposto delle imposte istituite con le disposizioni censurate può allora identificarsi nel "consumo" dell'ambiente e del paesaggio «operato dalla mera esistenza [...] di fabbricati siti nella fascia costiera e destinati ad essere utilizzati quasi esclusivamente nella stagione estiva», tanto che lo stesso legislatore costituzionale, con l'art. 8, lettera i), dello statuto, ha attribuito alla Regione una potestà legislativa in tema di tributi sul turismo.

 

In tale prospettiva, l'imposta sulle plusvalenze delle seconde case a uso turistico sarebbe una non irragionevole e modesta trattenuta sul plusvalore derivato agli immobili costieri «da una politica pubblica fatta di investimenti e pianificazioni volti a rafforzare l'industria turistica e la salvaguardia dell'ambiente».

 

Sull'asserita violazione del divieto di doppia imposizione, la resistente precisa che le imposte istituite con le norme censurate hanno presupposti del tutto autonomi e peculiari rispetto alle imposte statali ed afferma preliminarmente che non appaiono chiari i parametri costituzionali che il ricorrente assume violati.

 

Rileva, poi, che la Regione può colpire la stessa materia già tassata dallo Stato, perché: a) il citato art. 8, lettera i), dello statuto consente alla Regione di istituire con propria legge imposte e tasse sul turismo, senza necessità che una legge statale la abiliti a farlo; b) il fatto che i tributi censurati si ispirino ad imposte già disciplinate dalla legislazione statale consente di ritenere che la legislazione regionale è in armonia con quest'ultima; c) il carattere necessariamente "aggiuntivo" dell'imposizione regionale rispetto a quella statale è un dato comune all'intero sistema impositivo delle autonomie territoriali, che potrà essere attenuato dalla legislazione attuativa del nuovo art. 119 Cost.; d) l'art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia «non può essere letto nel senso che la Regione Sardegna è abilitata a istituire imposte e tasse sul turismo eccezion fatta che sugli immobili turistici»: esso pone, al piú, «un problema di misura e di proporzionalità della nuova imposizione, che tuttavia il ricorso non deduce nelle forme adeguate»; e) il fatto che la tassazione delle plusvalenze immobiliari sia esclusa dalla legislazione statale, dopo un quinquennio dall'acquisto dell'immobile, non costituisce motivo di illegittimità costituzionale, né di disarmonia con i princípi del sistema tributario statale.

 

In relazione all'imposta sulle seconde case ad uso turistico, istituita e disciplinata dall'art. 3 censurato, la Regione sostiene, innanzi tutto, che la sua applicabilità solo agli immobili situati nella fascia costiera trova ragione nella finalità di disincentivare la costruzione di tali immobili.

 

Rileva, poi, che il riferimento alla superficie dell'immobile per il computo della base imponibile non si pone in disarmonia con il criterio del valore catastale, utilizzato dalla legislazione statale sull'ICI, perché anche quest'ultima considera la superficie come parametro utile a stabilire, sia pur presuntivamente, il valore dell'immobile.

 

Afferma, inoltre, che non sussiste la prospettata violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. e dell'art. 12 del Trattato CE, sotto il profilo della non discriminazione in base alla nazionalità, perché anche l'ordinamento statale distingue fra residenti e non residenti ai fini dell'imposizione tributaria. A livello regionale, la distinzione fra residenti e non residenti è addirittura imposta dall'art. 8 dello statuto di autonomia, «il quale fonda la gran parte del reddito della Regione [...] sul reddito prodotto dai residenti» e rende perciò necessaria la sottoposizione a tassazione di chi abbia con la Sardegna un legame "reale", costituito dalla proprietà, a fini evidentemente turistici, di una seconda casa in zona costiera. Appare, infatti, coerente con il sistema tributario dello Stato e con gli artt. 23 e 53 Cost., evocati quali parametri dal ricorrente, che il proprietario di un immobile costiero «sia chiamato a contribuire - sia pure con esborsi di modesta entità - al mantenimento dell'ambiente che [...] contribuisce a "consumare"».

 

La correttezza di tale differenziazione fra il regime fiscale dei residenti in Sardegna e quello dei non residenti emerge, a detta della resistente, anche da altri dati normativi.

 

In primo luogo, il decreto legislativo del 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), consente ai Comuni di diversificare le aliquote dell'ICI in relazione al fatto se l'immobile sia abitazione, seconda casa, o casa a disposizione non locata e di ridurre l'entità dell'imposta per chi usa l'immobile come abitazione principale.

 

In secondo luogo, il d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), consente al sindaco o alla giunta comunale: a) di individuare le zone a traffico limitato, nelle quali la circolazione è riservata ai residenti; b) di subordinare l'ingresso o la circolazione dei veicoli a motore dei non residenti al pagamento di una somma; c) di stabilire che la sosta dei non residenti in tali zone avvenga a titolo oneroso.

 

In terzo luogo, la sentenza della Corte costituzionale n. 220 del 2004 ha confermato la legittimità costituzionale dell'art. 98, comma 2, della legge della Regione Sardegna 29 luglio 1998, n. 23 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per l'esercizio della caccia in Sardegna), la quale consente ai residenti e preclude ai non residenti il rinnovo delle autorizzazioni venatorie, richiamando il principio del collegamento del cacciatore residente con il territorio, affermato dalla legislazione statale (art. 14, comma 5, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»).

 

In conclusione, la resistente evidenzia che la differenziazione, a fini fiscali, tra residenti e non residenti è assai frequente nell'ordinamento statale, tanto che il censurato art. 3 risulta in armonia con la legislazione tributaria e non tributaria vigente.

 

In relazione all'imposta regionale su aeromobili e unità da diporto, istituita e disciplinata dall'art. 4 censurato, la Regione sostiene, innanzi tutto, che la sua applicabilità soltanto nei confronti di chi esercita l'aeromobile o l'imbarcazione ed è domiciliato fuori dal territorio sardo deve essere ritenuta legittima per le stesse ragioni già esposte in relazione ai tributi di cui ai censurati artt. 2 e 3. Rileva, inoltre, che il tributo colpisce un tipico "servizio turistico" e che la qualificazione del tributo come imposta o tassa è irrilevante. Afferma, poi, che la circostanza che il tributo sullo scalo di aeromobili colpisca operazioni per le quali viene comunque pagato un corrispettivo sotto forma di diritti aeroportuali non esclude che il tributo stesso sia in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, perché proprio in tale sistema esistono tasse e imposte che - come l'IVA - colpiscono l'esercizio di attività e l'utilizzazione o il consumo di beni.

 

Rispetto allo scalo delle unità da diporto, la Regione sostiene, in primo luogo che - contrariamente a quanto affermato dal ricorrente - l'imposta non ha carattere regressivo e non si pone, perciò, in contrasto con l'art. 53 Cost. La scelta del legislatore regionale di escludere dall'imposizione le unità da diporto che sostano per tutto l'anno nei porti della Sardegna sarebbe giustificata dalla finalità di incentivare la presenza costante dell'imbarcazione, fatto che «si traduce in un significativo apporto di reddito "da turismo"» rispetto all'ormeggio occasionale, il quale apporta, invece, solo un reddito limitato alle attività turistiche della Regione e provoca comunque inquinamento e consumo di risorse naturali limitate.

 

In secondo luogo, la resistente contesta, «in quanto palesemente esclusa dal tenore letterale della norma impugnata», l'interpretazione data dal ricorrente per cui la disposizione censurata considererebbe imponibile lo scalo in zona non attrezzata del mare territoriale.

 

3. - Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto sostenuto nel ricorso, precisando, in particolare, che: a) l'indagine sulla riconducibilità dei tributi oggetto delle norme censurate alla nozione di turismo non pare rilevante, perché la potestà legislativa della Regione Sardegna in materia di tributi deve comunque essere esercitata in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, anche se ha ad oggetto tributi sul turismo; b) la legittimità costituzionale delle imposte istituite con le norme censurate deve essere valutata in base al presupposto e non in base alla finalità dell'imposizione; c) nell'esercizio della sua potestà legislativa in materia tributaria, la Regione non può «adottare gli stessi presupposti delle imposte statali già in vigore»; d) non è chiaro se l'imposta sulle plusvalenze sia diretta a incentivare o a disincentivare il turismo; e) nel disciplinare tale imposta, la Regione ha illegittimamente colpito lo stesso presupposto di imposta già inciso dalla legislazione statale e non ha tenuto conto del principio dell'ordinamento tributario statale per cui l'incremento del valore di un immobile è ritenuto imponibile solo se realizzato con intento speculativo, «intento da escludersi quando la vendita avvenga a distanza di tempo tale da far presumere che l'acquisto sia stato effettuato con il fine di godimento»; f) sempre in tema di imposta sulle plusvalenze e contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione, il criterio della residenza può avere rilievo solo quando «esiste una connessione tra attività, come la caccia, ed il territorio», ma non può giustificare la non sottoposizione a tassazione dei residenti in Sardegna, perché il presupposto dell'imposta si realizza per essi come per i non residenti; g) con l'imposta sullo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto, la Regione ha colpito una capacità contributiva, quella espressa dall'utilizzazione dei servizi aeroportuali o portuali, già incisa dalla tassazione statale.

 

4. - Con il ricorso n. 36 del 2007, notificato il 2 agosto 2007 e depositato il 7 agosto successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art 2 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - Legge finanziaria 2007) - entrato in vigore il 31 maggio 2007, ai sensi dell'art. 37 della stessa legge -, in riferimento all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), al principio di ragionevolezza, agli artt. 3 e 53 Cost., all'art. 117, primo comma, Cost. per violazione dell'art. 12 del Trattato CE e, in subordine, all'art. 119 Cost.; b) dell'art. 3 della stessa legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 2, della citata legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, in riferimento all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, agli artt. 3 e 53 Cost., al principio di ragionevolezza; c) dell'art. 4 della stessa legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento ai parametri già evocati nel ricorso in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della stessa legge reg. n. 4 del 2006, all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81, 87 del Trattato CE, agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., all'art. 3 di un non precisato testo normativo, agli artt. 3 e 53 Cost., agli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006); d) dell'art. 5 della citata legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, in riferimento all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), all'art. 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, all'art. 3 Cost., all'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con gli artt. 12 e 49 del Trattato CE.

 

Il ricorrente premette che, al fine di individuare i parametri costituzionali applicabili, occorre verificare se il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione abbia ampliato l'autonomia statutaria regionale e pone, perciò, a raffronto l'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006) e l'art. 119 Cost.

 

Secondo il ricorrente, «tra le due norme non c'è coincidenza di effetti», perché la prima prevede che la potestà regionale in materia tributaria deve essere esercitata in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, mentre la seconda pone come limite a detta potestà i princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. A detta del ricorrente, l'art. 119 richiamerebbe «le condizioni di compatibilità tra sistemi tributari, la cui articolazione interna può non restare condizionata», mentre l'art. 8, lettera h), dello statuto speciale richiamerebbe princípi interni al sistema, «nel senso che possono incidere sulla struttura delle singole imposte». In ogni caso, poiché la Corte costituzionale avrebbe affermato - con la sentenza n. 37 del 2004 - che le leggi statali vigenti non possono essere utili per ricavare i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario, le norme censurate andrebbero valutate alla stregua del parametro statutario, il quale consente l'esercizio di una potestà legislativa in materia tributaria anche in mancanza della fissazione, da parte del legislatore statale, di detti princípi fondamentali.

 

Sempre in via generale, il ricorrente premette anche che, con la sola eccezione dell'imposta di soggiorno, i tributi in oggetto, contrariamente alla formulazione letterale delle norme censurate, non possono essere definiti imposte o tasse sul turismo, ma devono essere invece considerati quali «altri tributi propri» ai sensi dell'art. 8, lettera h), dello statuto speciale.

 

Premette, infine, di avere proposto, in ragione del rilievo comunitario del mercato turistico sardo, alcune censure basate su parametri di diritto comunitario - da ritenere superate in caso di accoglimento delle censure basate su parametri di diritto interno - in relazione alle quali chiede che sia effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE.

 

L'Avvocatura generale procede, poi, alla disamina delle singole norme denunciate e all'illustrazione delle censure formulate per ciascuna di esse.

 

4.1. - In relazione all'art 2 della citata legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, la difesa erariale osserva che esso disciplina l'imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico, applicabile - nei confronti dell'alienante a titolo oneroso avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi - alle cessioni a titolo oneroso: 1) delle unità immobiliari acquisite o costruite da piú di cinque anni, site in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, adibite ad uso abitativo e diverse dall'abitazione principale (come definita dall'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992), da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi.

 

Ad avviso della difesa erariale, tale norma víola il citato art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (secondo cui le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato»), perché «la legge regionale non è in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato contenuti nell'art. 81 [recte: art. 67], comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917», per cui, «nei confronti di una persona fisica, perché una plusvalenza possa costituire reddito "diverso" [...], è necessario l'intento speculativo», il quale «non può avere un'articolazione diversa Regione per Regione» e «va escluso quando tra l'acquisto e la vendita sia intercorso un tempo tale da farlo ritenere quanto meno improbabile».

 

La stessa norma sarebbe, poi, irragionevole, perché, applicandosi a tutte le unità immobiliari site entro tre chilometri dalla battigia marina, fisserebbe ingiustificatamente una distanza dalla battigia uguale per tutte le spiagge della Regione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e, quindi, delle diverse possibilità di accesso al mare.

 

Il denunciato art. 2 violerebbe, inoltre, il principio di capacità contributiva, perché «nella norma impugnata non si trova alcun elemento per il quale la capacità contributiva, espressa dalla realizzazione di plusvalenze con la cessione di immobili situati nella Regione, sia diversa a seconda che il soggetto risieda in Sardegna o fuori».

 

Sussisterebbe anche la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l'art. 12 del Trattato CE, perché la norma censurata discriminerebbe i cittadini comunitari, assoggettando all'imposta tutti i soggetti non residenti.

 

In via subordinata, per il caso in cui «si potessero desumere i principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», la difesa erariale deduce la violazione dell'art. 119 Cost., per contrasto con i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario, che corrispondono, almeno in via transitoria e «fino a che non interverranno le norme statali di attuazione dell'art. 119», ai princípi del sistema tributario dello Stato.

 

4.2. - In relazione all'art. 3 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 (la cui rubrica recita: «Imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico»), nel testo sostituito dall'art. 3, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, il ricorrente osserva che esso: a) disciplina l'imposta regionale sulle unità immobiliari destinate ad uso abitativo, dovuta - per metro quadro ed in misura differenziata secondo scaglioni di superficie - sulle unità immobiliari ubicate nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibite ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, ed applicabile nei confronti del proprietario di dette unità immobiliari, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, superficie o del locatario dell'immobile in locazione finanziaria, aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale; b) prevede che «Per l'anno 2006 l'imposta è dovuta nella misura piú favorevole al contribuente mediante comparazione tra le misure previste dal presente articolo e quelle previgenti» (comma 9).

 

Per la difesa erariale, il denunciato art. 3 víola l'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006) e gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l'oggetto dell'imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l'unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell'immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l'imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo essa determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del valore di questo, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l'ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) la norma non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta, e perciò non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente.

 

La norma denunciata violerebbe anche l'art. 53 Cost., perché «l'imposta è commisurata alla visibilità del mare, quindi su valori panoramici», i quali non sono materia tassabile, in quanto non integrano la capacità contributiva - che è, invece, legata al valore economico del bene -, e, in subordine, gli artt. 3 e 53 Cost., per irragionevolezza, perché l'imposta è dovuta anche per gli immobili privi di vista sul mare. Violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 53 Cost., sempre per irragionevolezza, in considerazione del contrasto con i princípi del sistema tributario dello Stato, risultante anche dal fatto che l'imposta è «progressiva con l'aumentare delle superfici disponibili da 60 mq. a 150» mq., ma «diventa fortemente regressiva da 150 mq. a 200 per diminuire ancora per le superfici maggiori».

 

Infine, sempre secondo l'Avvocatura generale dello Stato, il denunciato art. 3, quanto all'individuazione dei soggetti passivi dell'imposta, si porrebbe in contrasto con il menzionato principio di ragionevolezza, salvo che detta disposizione sia interpretata (interpretazione che si richiede alla Corte di adottare) nel senso che «se il proprietario, o i titolari degli altri diritti reali, non sono nel possesso dell'immobile, l'imposta non è dovuta, né da loro (per mancanza del possesso) né dai possessori non titolari di quei diritti, perché non indicati tra i soggetti passivi».

 

4.3. - In relazione all'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, il ricorrente osserva che esso disciplina l'imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto, applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, al soggetto avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assume l'esercizio dell'aeromobile o dell'unità da diporto (con l'esenzione dall'imposta: delle imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a regate di carattere sportivo, a raduni di barche d'epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all'Autorità marittima da parte degli organizzatori; delle unità da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali; della sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l'effettuazione della stessa), e dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell'aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale e nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale delle unità da diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.

 

Ad avviso dell'Avvocatura generale, la norma víola i parametri già evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, quali sostituiti dall'art. 3, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, per i motivi già esposti nelle censure a tali norme.

 

Sempre per la difesa erariale, la disposizione denunciata si pone, relativamente ai soggetti che svolgono attività d'impresa, in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., perché: a) víola l'art. 49 del Trattato CE, «introducendo una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici e aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo»; b) víola l'art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», perché ha l'effetto di falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune; c) víola l'art. 87 del Trattato CE, perché istituisce un aiuto alle imprese con sede in Sardegna.

 

La stessa difesa erariale lamenta, inoltre, la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., perché la norma censurata investe la materia della concorrenza, riservata alla competenza legislativa statale, incidendo, di conseguenza sull'unità economica della Repubblica. Deduce altresí il contrasto con «l'art. 3 [di un non meglio precisato testo normativo], la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza».

 

Quanto ai parametri costituiti dagli artt. 3 e 53 Cost., espressivi del principio di ragionevolezza, il ricorrente sostiene che essi sono violati, perché: a) «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta»; b) l'imposta denunciata ha carattere regressivo, perché la sua misura diminuisce proporzionalmente all'aumentare del numero dei passeggeri che l'aeromobile è abilitato a trasportare e della lunghezza delle unità da diporto e perché, con riferimento a queste ultime, è pagata una sola volta per tutto l'anno, cosí che «piú scali si fanno, meno sarà in proporzione l'onere tributario»; c) con riferimento allo scalo degli aeromobili, il tributo costituisce una duplicazione dei diritti aeroportuali previsti dalla legge n. 324 del 1976, dovuti, per l'utilizzazione degli impianti aeroportuali, al gestore dell'aeroporto; d) sempre con riferimento allo scalo degli aeromobili, il tributo «non può essere definito imposta, perché colpisce i singoli atti di esercizio di un'impresa e non il risultato utile complessivo», né tassa, «perché riscossa da chi non ha nessun coinvolgimento nel servizio utilizzato».

 

La difesa erariale evoca, infine, gli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché, con riferimento alle unità da diporto, l'imposta si applica anche se lo scalo avviene nei campi di ormeggio attrezzati, ubicati nel mare territoriale, che non fa parte del territorio della Regione. Infatti, l'art. 1 dello statuto identifica il territorio regionale nella «Sardegna con le sue isole», mentre i presupposti per imposte della Regione non possono «essere individuati fuori del suo territorio».

 

4.4. - Il ricorrente censura, infine, l'art. 5 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, che istituisce e disciplina l'imposta regionale di soggiorno, «da destinare ad interventi nel settore del turismo sostenibile», che i Comuni hanno la facoltà di applicare nell'àmbito del proprio territorio, a decorrere dall'anno 2008. Soggetti passivi del tributo sono coloro che non risultano iscritti nell'anagrafe della popolazione residente nei Comuni della Sardegna e l'imposta è dovuta per il soggiorno, nel periodo dal 15 giugno al 15 settembre, nelle aziende ricettive di cui alla legge regionale 14 maggio 1984, n. 22 (Norme per la classificazione delle aziende ricettive), nelle strutture ricettive extra-alberghiere di cui alla legge regionale 12 agosto 1998, n. 27 (Disciplina delle strutture ricettive extra-alberghiere), nelle strutture ricettive di cui alla legge regionale 23 giugno 1998, n. 18 (Nuove norme per l'esercizio dell'agriturismo), nelle unità immobiliari adibite ad abitazioni principali, cosí come definite dall'articolo 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, concesse in comodato o in locazione, e nelle unità immobiliari non adibite ad abitazioni principali (con l'esclusione, per queste ultime, del proprietario, del coniuge, degli affini e dei parenti in linea retta, dei collaterali fino al terzo grado, e degli ospiti che soggiornano unitamente ad almeno uno dei componenti la famiglia del proprietario). Sono esenti dall'imposta i lavoratori dipendenti che soggiornano per ragioni di servizio attestate dal datore di lavoro, gli studenti che soggiornano per ragioni di studio o per periodi di formazione professionale attestati dalle rispettive università, scuole od enti di formazione, i minori di diciotto anni, nonché i lavoratori autonomi che soggiornano per ragioni di lavoro documentabili.

 

Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, il denunciato art. 5 víola: a) l'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché la Regione non può istituire imposte comunali, essendo tale divieto un principio del sistema tributario dello Stato; b) l'art. 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la Regione non può stabilire un'imposta comunale senza lasciare ai Comuni nessun margine di autonomia se non la scelta se istituire o no l'imposta; c) l'art. 3 Cost., perché è irragionevole che i residenti in Sardegna non siano soggetti all'imposta, «poiché la loro posizione è identica se rapportata al presupposto dell'imposta»; d) l'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l'art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell'Unione europea subiscono una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, e con l'art. 49 del Trattato CE, perché «la libertà di prestazione dei servizi all'interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri».

 

5. - Si è costituita la Regione Sardegna, ribadendo le argomentazioni svolte nell'atto di costituzione nel procedimento di cui al ricorso n. 91 del 2006 riguardanti il fondamento della potestà legislativa regionale in materia tributaria.

 

5.1. - Ad avviso della resistente, l'autonomia legislativa garantita dallo statuto speciale giustifica, nel quadro di un federalismo "competitivo", una differenza di trattamento fra cittadini di Regioni diverse, in funzione delle diverse politiche economiche e fiscali perseguite, con il solo vincolo della ragionevolezza.

 

Per la stessa resistente, poiché le risorse finanziarie delle Regioni a statuto speciale sono costituite da una quota dei principali tributi statali versati dai cittadini residenti nel territorio regionale «a fronte del reddito prodotto e dei servizi scambiati sul quel territorio», è evidente che i cittadini residenti e i non residenti possono essere trattati, dalle leggi tributarie regionali, in modo ragionevolmente diverso. Ciò trova giustificazione nel differente apporto degli uni e degli altri cittadini alle entrate fiscali statali spettanti alla Regione. La differenziazione fra residenti e non residenti non è, allora, posta arbitrariamente dal legislatore regionale, ma trova fondamento nella circostanza che i non residenti non versano alla Regione alcunché, tranne una quota minima e del tutto eventuale di risorse che «dallo Stato arrivasse [...] mediante fondi perequativi e risorse aggiuntive». In conclusione sul punto, il fatto che i non residenti utilizzino, mediante le case ad uso turistico situate sulla costa, il territorio e l'ambiente della Sardegna rende ragionevole, e quindi compatibile con l'art. 3 Cost., l'esercizio del potere impositivo regionale allo scopo di realizzare risorse aggiuntive destinate a sviluppare, anche sotto il profilo turistico, «le zone interne e i centri storici dell'Isola».

 

Sempre ad avviso della Regione, l'esercizio della potestà impositiva prevista dallo statuto risponde anche all'interesse dello Stato, perché alleggerisce la pressione sui fondi perequativi di cui all'art. 119, terzo comma, Cost. e sulle risorse aggiuntive di solidarietà di cui allo stesso art. 119, quinto comma, Cost. Anzi, il fatto che la Sardegna, Regione con un reddito medio piú basso della media nazionale, abbia istituito i tributi oggetto delle norme censurate avrebbe dovuto essere valutato positivamente, come segnale della capacità di reperire nuove risorse finanziarie per accrescere lo sviluppo.

 

La resistente si sofferma, poi, su alcuni esempi di norme regionali che prevedono discipline differenziate tra residenti e non residenti nella Regione, quali: a) l'art. 16, lettera p), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 25 agosto 2006, n. 17 (Interventi in materia di risorse agricole, naturali, forestali e montagna e in materia di ambiente, pianificazione territoriale, caccia e pesca), il quale dispone che «la Regione determina annualmente, in modo differenziato tra residenti in regione e non residenti, i corrispettivi per l'esercizio della raccolta» dei funghi; b) gli artt. 41 e 70 della legge della Regione Emilia-Romagna 6 agosto 1979, n. 25 (Protezione e incremento della fauna ittica - Organizzazione delle acque interne ai fini della pesca - Norme per l'esercizio della pesca nell'Emilia-Romagna), che riservano ai pescatori professionisti residenti la pesca in determinate categorie di acque; c) gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo 5 settembre 1991, n. 53 (Provvidenze a favore degli operatori della pesca marittima per i danni subiti in conseguenze delle avverse condizioni ambientali del mare), che prevedevano provvidenze a favore dei soli pescatori residenti nella Regione; d) l'art. 26 della legge della Regione Friuli Venezia-Giulia 20 aprile 1999, n. 9 (Disposizioni varie in materia di competenza regionale), che prevedeva che i proprietari di beni danneggiati dagli eventi alluvionali del 1996, ma non residenti nei Comuni colpiti da tali eventi, beneficiassero di un contributo pari soltanto al 15% del danno subito; e) l'art. 11 della legge della Regione Liguria 8 giugno 2006, n. 15 (Norme ed interventi in materia di diritto all'istruzione e alla formazione), che prevede l'erogazione di contributi per gli studenti piú meritevoli residenti in Liguria.

 

5.2. - Al fine di contestare l'affermazione del ricorrente per cui le imposte oggetto delle norme denunciate non sarebbero coerenti con l'art. 8, lettera h), dello statuto di autonomia, la Regione afferma, poi, di aver perseguito, con dette imposte, una politica economica e fiscale in materia di sviluppo turistico. La norma statutaria citata, consente, infatti, di istituire ogni tipo di tributo che abbia attinenza con il turismo, anche sotto forma di imposta sui redditi da plusvalenza immobiliare o sul patrimonio costituito dalle seconde case ad uso turistico. Per tali due imposte, il riferimento del legislatore regionale al limite dei tre chilometri dalla linea di battigia marina è, allora, pienamente ragionevole, trovando rispondenza nelle disposizioni del nuovo piano paesaggistico regionale, che prevedono un regime di tutela proprio per le aree costiere dell'isola. In tale prospettiva, la nozione statutaria di "turismo" non coincide con quella di "servizi turistici", ma si estende fino a comprendere ogni «coerente e armonica politica economico tributaria di settore».

 

Piú in generale, in relazione all'ampiezza dell'autonomia impositiva regionale, la resistente afferma, contestando quanto sostenuto dal ricorrente, che: a) i tributi oggetto delle norme censurate «costituiscono estrinsecazione di un potere impositivo autonomo, che trova giustificazione nello statuto speciale»; b) «i tributi propri sono una figura distinta da quelli appartenenti al sistema tributario dello Stato»; c) la Regione può «deliberare "tipi" specifici di tributi, nell'ambito, certamente residuale, ma non meno qualificante, ad essa assegnato dalla vigenza delle disposizioni delle leggi tributarie dello Stato»; d) «i tributi in questione si devono armonizzare coi principi del sistema tributario statale» e si fondano su una politica finanziaria propria della Regione «nel rispetto dell'unità del sistema tributario dello Stato». Sempre secondo la resistente, a tale ricostruzione consegue che la mancanza di una legislazione statale di coordinamento del sistema tributario non preclude alla Regione Sardegna la facoltà di istituire tributi propri, proprio perché tale facoltà si fonda sulla autonomia statutaria e non sulla potestà legislativa generalmente riconosciuta alle Regioni in materia tributaria dall'art. 117 Cost. A questa considerazione si deve aggiungere che, poiché i tributi istituiti e disciplinati dalle norme censurate hanno per oggetto il turismo, essi «non dovrebbero incontrare particolari difficoltà di "armonia" con i principi del sistema tributario», proprio perché lo Stato ha rinunciato al potere impositivo in materia di turismo; materia ricondotta dall'art. 117, quarto comma, Cost. alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Ciò vale, a maggior ragione, in forza della sostituzione dell'art. 8 dello statuto speciale operata dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. Tale intervento legislativo è, infatti, fondato, sempre a detta della Regione resistente, su un accordo fra lo Stato e la Regione finalizzato a risolvere le conseguenze del mancato funzionamento dei meccanismi di trasferimento di risorse introdotti con la legislazione del 1983; accordo con cui lo Stato avrebbe implicitamente riconosciuto la potestà impositiva della Regione Sardegna in materia di turismo senza subordinarla a interventi statali di coordinamento e senza adottare una normativa di attuazione dello statuto.

 

5.3. - In riferimento alla censura della parte ricorrente per cui i tributi oggetto delle disposizioni denunciate violerebbero il principio di progressività, la Regione osserva che le imposte di tipo "turistico-ambientale" colpiscono un soggetto o un bene non in relazione alla capacità contributiva del soggetto o al valore venale del bene, bensí in quanto essi si trovino in un determinato luogo e «"consumino" od usino il bene protetto in questione». Proprio per il carattere di residualità tipico dei tributi regionali, questi non devono rispettare il «principio di assoluta progressività che è proprio delle imposte sui redditi o sui patrimoni», perché altrimenti si sovrapporrebbero all'imposizione statale. Peraltro - osserva la Regione - anche tributi statali quali l'IVA e l'ICI sono privi del carattere di progressività, perché il principio di progressività, contrariamente a quanto affermato dalla difesa erariale, non costituisce «un principio generale e indefettibile del sistema tributario».

 

5.4. - Riguardo alla violazione del diritto comunitario, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., da parte delle norme censurate, la resistente osserva in primo luogo che la Corte costituzionale non ha mai utilizzato tale parametro costituzionale per verificare la compatibilità del diritto interno con il diritto comunitario ed eccepisce l'inammissibilità delle relative questioni. Afferma, poi, che l'imposizione diretta non è oggetto della disciplina comunitaria, perché l'art. 58 del Trattato CE precisa che gli Stati membri hanno diritto «di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale». Ne conseguirebbe che le differenze di trattamento tra residenti e non residenti introdotte dalla legislazione censurata non costituirebbero di per sé violazioni del diritto comunitario. A sostegno della propria ricostruzione, la resistente cita, poi, tributi sul turismo, che necessariamente distinguono tra residenti e non residenti e che non sono stati ritenuti in contrasto con il diritto comunitario, quali le tasse di soggiorno francesi e spagnole e le imposte sulle seconde case tedesche.

 

Non sussiste, ad avviso della Regione, alcuna violazione dell'art. 12 del Trattato CE perché i tributi introdotti dalle disposizioni censurate si inquadrano «in una piú ampia politica regionale di tutela e salvaguardia del [...] patrimonio paesaggistico in funzione del turismo» e non recano indebite restrizioni alla libertà di circolazione di beni, persone e capitali ovvero alla libertà di stabilimento.

 

5.5. - Ciò premesso, la Regione passa a trattare le censure formulate dal ricorrente nei confronti dei singoli tributi.

 

5.5.1. - In riferimento all'imposta sulle plusvalenze, la resistente osserva preliminarmente che, mentre nel ricorso si affermano violati l'art. 8, lettera h), dello statuto regionale e gli artt. 3, 53, 117, primo comma, in riferimento all'art. 12 del Trattato CE, nella deliberazione governativa di impugnazione del 27 luglio 2007 si indica unicamente la violazione dell'art. 8, lettera h), dello statuto e degli artt. 3, 53 Cost., mentre v'è un generico riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. e all'art. 12 del Trattato CE solo nella proposizione finale di detta deliberazione. Pertanto, l'evocazione del parametro di cui all'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 12 del Trattato, sarebbe inammissibile.

 

La Regione afferma, poi, di avere adottato le disposizioni censurate proprio al fine di accogliere i rilievi espressi dal Governo, con il ricorso n. 91 del 2006, sull'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006. Nella originaria formulazione, infatti, la norma regionale colpiva le plusvalenze di tutte le cessioni a titolo oneroso dei fabbricati siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina; nella nuova formulazione, invece, la norma, proprio allo scopo di evitare una sovrapposizione con l'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili solo nel caso in cui la cessione avvenga a non piú di cinque anni dall'acquisto o dalla costruzione dell'immobile, esclude dalla tassazione le plusvalenze delle cessioni avvenute entro cinque anni dall'acquisto o dalla costruzione delle unità immobiliari.

 

Ad avviso della Regione, la censura proposta dal Governo nel ricorso n. 36 del 2007 nei confronti della nuova formulazione della norma (per cui essa non sarebbe in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato in quanto colpirebbe, in violazione del principio espresso dal citato art. 67, comma 1, lettera b), una plusvalenza ultraquinquennale e quindi priva del carattere speculativo richiesto dalla legislazione statale per la sua sottoposizione a tassazione) si porrebbe in contraddizione con la censura proposta nel ricorso n. 91 del 2006 nei confronti della precedente formulazione della norma (per cui essa costituirebbe una parziale duplicazione dell'imposizione statale sulle plusvalenze immobiliari infraquinquennali, in quanto riferita, senza distinzioni, a plusvalenze immobiliari maturate in ogni tempo). Da un lato, infatti, il ricorrente lamenterebbe la violazione del divieto di duplicazione dell'imposizione sullo stesso presupposto (la plusvalenza immobiliare infraquinquennale), dall'altro censurerebbe la disarmonia tra la scelta del legislatore regionale di sottoporre a tassazione plusvalenze immobiliari prive del carattere speculativo e la politica fiscale statale di sottoporre a tassazione le sole plusvalenze immobiliari dotate di tale carattere. In ogni caso, le censure governative non terrebbero conto del fatto che l'imposta regionale sulle plusvalenze, proprio per il suo carattere di residualità, intende colpire il maggior valore che consegue oggettivamente alla realizzazione di un immobile sulla costa, a prescindere dalla capacità contributiva o dall'intento speculativo del proprietario. Rinunciando all'imposta per il periodo dei primi cinque anni del godimento dell'immobile, mediante la modifica apportata al tributo con la legge finanziaria regionale n. 2 del 2007, la Regione avrebbe inteso realizzare le sue peculiari esigenze di finanziamento, senza incidere sui tributi statali e senza sovrapporsi ad essi.

 

Quanto al rilievo della difesa erariale - per cui la legge regionale avrebbe illegittimamente fissato la distanza di tre chilometri dalla linea di battigia marina quale condizione per l'imposizione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e delle diverse possibilità di accesso al mare -, la resistente osserva che il riferimento alla fascia costiera nel suo complesso trova giustificazione nella generale azione di salvaguardia dell'ambiente costiero, minacciato e in parte già deturpato da una forte speculazione edilizia. Il riferimento ad un limite fisico di distanza dalla costa quantitativamente determinato sarebbe, pertanto, coerente con la tutela apprestata ad ampie porzioni del territorio dall'art. 142, comma 1, lettere a) e d), del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). La ragionevolezza dell'imposta sarebbe, del resto, confermata dalla previsione per cui il suo gettito è destinato per il 75 per cento al fondo perequativo per lo sviluppo e la coesione territoriale delle aree interne e per il restante 25 per cento al Comune nel quale il gettito è generato.

 

Quanto alla disparità di trattamento fra soggetti residenti e non residenti prospettata dal ricorso, la Regione ribadisce che l'imposta non si fonda sulla capacità contributiva intesa in senso reddituale, bensí, sulla insistenza di «un certo soggetto o di un certo bene in un determinato luogo». A ciò si deve aggiungere, secondo la Regione, che le risorse finanziarie regionali provengono per la maggior parte dal gettito dei tributi statali corrisposti dai residenti, che si trovano naturalmente in contatto con il territorio la cui tutela il tributo turistico mira a realizzare.

 

In riferimento alla pretesa violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 12 del Trattato CE, la resistente ribadisce i rilievi di inammissibilità e le considerazioni in punto di merito già svolti in via generale.

 

5.5.2. - Riguardo all'imposta sulle seconde case ad uso turistico, la Regione premette di avere modificato la formulazione originaria dell'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, anche in considerazione dei rilievi svolti dal Governo nel ricorso n. 91 del 2006. A tale proposito, evidenzia che, con le modifiche introdotte con il denunciato art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, le aliquote del tributo sono state rimodulate nel senso di una maggiore progressività ed è stata introdotta una norma di salvaguardia che consente al contribuente di avvalersi per l'anno 2006 delle disposizioni previgenti, nel caso in cui queste prevedano una misura piú favorevole dell'imposta.

 

La Regione contesta, in primo luogo, la censura proposta dalla difesa erariale, per cui la previsione che l'imposta sia dovuta anche in mancanza del possesso violerebbe il principio di ragionevolezza, affermando che non vi è dubbio che sia ragionevole che l'imposta stessa gravi sul proprietario a prescindere dal possesso.

 

Quanto alla censura relativa al fatto che l'imposta sarebbe irragionevole perché è dovuta anche per immobili privi di vista sul mare e comunque non tiene conto della capacità contributiva, la Regione ribadisce le considerazioni già svolte in relazione alle analoghe censure proposte in riferimento all'imposta sulle plusvalenze.

 

Riguardo alla censura della difesa erariale fondata sulla pretesa regressività dell'imposta per gli immobili di superficie piú ampia, la resistente, da un lato, ribadisce che le imposte turistico-ambientali «non si ispirano a logiche impositive di ordine patrimoniale strettamente connesse alla capacità contributiva e reddituale della persona e del bene»; dall'altro osserva che la progressività dell'imposta va commisurata a un tetto massimo che il legislatore ha inteso non superare per evitare un carico tributario eccessivo. La Regione rileva, peraltro, che anche l'ICI statale è priva del carattere di progressività «all'interno di ciascuna categoria (prima casa, abitazione a disposizione, ufficio ecc.) di afferenza contributiva dei vari immobili tassati».

 

In relazione alla censura per cui l'imposta non sarebbe in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato, la resistente rileva che detta imposta è comunque commisurata al valore dell'immobile, perché le abitazioni della fascia costiera si collocano in una zona omogenea nella quale è assai rilevante l'incremento di valore. Proprio tale maggiore valore è il fondamento della nuova imposta, strettamente collegata alla politica tributaria della Regione, perché destinata, per il 75 per cento al fondo di sviluppo delle aree interne e per 25 per cento al Comune nel quale il gettito è originato. In conclusione, ad avviso della Regione, le censure contenute nel ricorso devono essere rigettate, perché «non vi sono interferenze e sovrapposizioni con tributi statali» e perché «la progressività è salvaguardata, come pure la finalizzazione delle nuove entrate alle peculiari esigenze di sviluppo della Regione».

 

5.5.3. - Con riguardo all'imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili e unità da diporto, disciplinata dall'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007, la resistente afferma, in primo luogo, che essa ha natura turistica, perché colpisce lo scalo effettuato nel periodo estivo e gli esercenti che risiedono fuori dal territorio regionale; cioè colpisce, con riferimento agli aeromobili, gli scali privati negli aeroporti per ragioni turistiche. In secondo luogo, la Regione nega che l'imposta provochi, come sostenuto dall'Avvocatura generale dello Stato, una indebita restrizione alla prestazione dei servizi nautici e aerei con violazione degli artt. 49, 81 e 87 del Trattato CE. A tale proposito, la resistente ribadisce la già proposta eccezione di inammissibilità delle censure fondate sul diritto comunitario ed afferma, nel merito, che l'art. 49 del Trattato CE non osta, come evidenziato dalla Corte di giustizia CE, all'istituzione di tributi analoghi a quello oggetto della disposizione censurata, quali l'imposta di pubblicità italiana e i tributi belgi per l'installazione di antenne destinate alla telecomunicazione.

 

In particolare, con riguardo allo scalo degli aeromobili, la Regione contesta che vi sia duplicazione fra l'imposta regionale e i diritti aeroportuali, ribadendo le argomentazioni già svolte in proposito nell'atto di costituzione nel procedimento introdotto con il ricorso n. 91 del 2006; contesta altresí il dedotto carattere regressivo dell'imposta, osservando che il tributo è ragionevolmente diretto ad agevolare gli aeromobili che con un unico scalo portano piú turisti rispetto a quelli che ne portano di meno.

 

In relazione alla dedotta non progressività del tributo sullo scalo delle unità da diporto, la resistente ribadisce le considerazioni già svolte con riferimento allo scalo degli aeromobili e piú in generale, in punto di progressività, alle imposte disciplinate dai censurati artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006. Contesta, poi, quanto sostenuto dal ricorrente, per il quale non sarebbe consentito fissare l'imposta anche per gli scali di unità da diporto nei campi di ormeggio situati nel mare territoriale perché il mare territoriale non farebbe parte del territorio regionale. Tali rilievi sono, per la resistente Regione, in primo luogo, inammissibili, perché non proposti dal Governo nella deliberazione del Consiglio dei ministri del 27 luglio 2007; in secondo luogo, infondati, perché il conferimento alle Regioni delle competenze relative al rilascio di concessioni di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale ad opera dell'art. 105 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti locali in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), consente alla Regione di regolare anche sotto il profilo tributario la materia trasferita.

 

5.5.4. - Con riguardo all'art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007, che istituisce e disciplina l'imposta di soggiorno, la Regione premette che detta imposta, già in vigore in Italia fino al 1989 e ancora in vigore in Trentino-Alto Adige, presenta «notevoli elementi "di scopo"», perché i suoi proventi sono destinati a interventi nel settore del turismo sostenibile e della fruizione delle risorse ambientali.

 

La resistente contesta, in primo luogo, le censure del ricorrente per cui l'imposta sarebbe un tributo comunale e per questo non potrebbe essere stabilita dalla Regione in mancanza dei princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario. Sostiene la resistente di essere titolare, ai sensi dell'art. 3, lettere b) e p), dello statuto di autonomia, di potestà legislative esclusive in materia di finanza locale e turismo e di essersi limitata, in ogni caso, a stabilire un tributo regionale «affidato, nella gestione, ai Comuni», i quali hanno facoltà di istituirlo o no. Lo stesso Governo, nella risoluzione n. 5 del Ministero dell'economia e delle finanze in data 4 aprile del 2002, avrebbe ammesso che anche le Regioni possono istituire nuovi tributi degli enti locali.

 

In secondo luogo, la resistente contesta la fondatezza della censura proposta nel ricorso, per cui la disciplina regionale violerebbe l'art. 119 Cost., perché non lascerebbe ai Comuni alcun margine di autonomia sul tributo se non la facoltà di istituirlo o no. Rileva al riguardo la Regione che, trattandosi di un tributo regionale, spetta al legislatore regionale stabilire l'ampiezza delle competenze attribuite al Comune e che il Governo non ha mai censurato la legge della Regione Trentino-Alto Adige n. 10 del 1976, che ha istituito un'imposta di soggiorno senza consentire ai Comuni alcuna scelta in ordine alla sua applicazione.

 

La Regione richiama, infine, a sostegno dell'infondatezza dei rilievi svolti nel ricorso circa il preteso contrasto fra la disposizione censurata e il diritto comunitario, le considerazioni già svolte in generale e a proposito degli altri tributi oggetto delle norme denunciate.

 

6. - Nel procedimento introdotto con il ricorso n. 36 del 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri, con memoria depositata in prossimità dell'udienza, ha riproposto le argomentazioni già esposte nel ricorso, precisando, in particolare, che: a) le imposte oggetto delle norme censurate non possono essere considerate imposte sul turismo, perché il turismo ne è lo scopo, ma non il presupposto; b) la sottoposizione a tassazione sia dello scalo sia del soggiorno è incoerente con la dichiarata finalità di promozione turistica dei tributi in questioni; c) «non risulta evidente come la tutela dell'ambiente possa essere realizzata attraverso una imposizione che è regressiva rispetto alle presenze, [...] quindi non collegata all'entità dell'inquinamento prodotto, per divenire addirittura nulla, in caso dei natanti, se la presenza è continua nell'intero anno»; d) l'art. 8, lettera h), dello statuto non attribuisce alla Regione una generale potestà legislativa tributaria, perché la facoltà di istituire i singoli tributi deve esserle attribuita da norme diverse; e) in ogni caso, «una volta programmata un'imposta, la Regione dovrebbe individuare l'imposta statale che piú si avvicina, per seguire i principi che ne ispirano la disciplina»; f) contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, le questioni fondate sulla violazione del diritto comunitario non sono inammissibili per "irrilevanza costituzionale", perché su di esse la Corte costituzionale può provvedere o in via diretta o tramite il rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE; g) «il fatto che i non residenti italiani possano subire una disciplina discriminata non rende solo per questo legittima la situazione anche dal punto di vista comunitario»; h) la tassazione delle seconde case avrebbe dovuto riguardare tutti i proprietari di seconde case e non solo i non residenti in Sardegna; i) il fatto che i residenti in Sardegna contribuiscano già alle finanze regionali con le quote dei tributi statali riscossi in Sardegna non giustifica la sottoposizione alla tassazione regionale dei non residenti, perché il regime statutario speciale già attribuisce alla Regione quote di tributi statali in misura superiore a quanto attribuito alle Regioni ordinarie; l) l'imposta sulle plusvalenze è irragionevole, perché è stata istituita dallo stesso soggetto (la Regione) che, adottando il piano di sviluppo territoriale, «ha determinato la produzione della materia tassabile»; m) l'imposta sulle plusvalenze ha una ratio contraddittoria, perché, non colpendo le plusvalenze immobiliari infraquinquennali, non tocca l'incremento di valore degli immobili costieri prodottosi a séguito dei vincoli di inedificabilità disposti dal piano paesaggistico regionale; n) contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, è ben possibile prospettare con un ricorso proposto in via principale questioni interpretative e, pertanto, è ammissibile anche la questione se l'imposta sulle seconde case ad uso turistico debba interpretarsi nel senso che il non possessore non può essere considerato soggetto passivo dell'imposta; o) l'imposta sullo scalo degli aeromobili è irragionevole, perché colpisce anche aeromobili utilizzati per affari, víola il diritto comunitario, e avvantaggia, «tra i voli diretti in Sardegna», «quelli gestiti da imprese sarde»; p) la Regione può svolgere sul mare territoriale solo funzioni di polizia demaniale, «che non comprendono il potere di applicare imposte a chi vi staziona»; q) l'imposta di soggiorno non ha natura regionale, ma comunale.

 

Motivi della decisione

1. - Con il primo dei due ricorsi in epigrafe (n. 91 del 2006), il Presidente del Consiglio dei ministri censura:

 

a) l'art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), in riferimento: all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 della Costituzione, in relazione all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, anche per violazione del principio fondamentale espresso dall'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi); agli artt. 3 e 53 Cost.; all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell'art. 12 del Trattato CE;

 

b) l'art. 3 della stessa legge regionale, in riferimento: all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; agli artt. 3 e 53 Cost.; all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell'art. 12 del Trattato CE;

 

c) l'art. 4 della stessa legge regionale, in riferimento: all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso); agli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all'art. 53 Cost.; agli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri non espressamente indicati).

 

Ciascuno degli articoli denunciati istituisce e disciplina un particolare tributo regionale: a) l'«imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case» (rubrica dell'art. 2); b) l'«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell'art. 3); c) l'«imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto» (rubrica dell'art. 4).

 

2. - Con il secondo dei due ricorsi in epigrafe (n. 36 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri censura:

 

a) l'art. 2 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge reg. 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - Legge finanziaria 2007), in riferimento: all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), anche per violazione dell'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986; all'art. 3 Cost. (parametro non espressamente indicato); agli artt. 3 e 53 Cost.; all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell'art. 12 del Trattato CE; all'art. 119 Cost.;

 

b) l'art. 3 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 2, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento: all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006); agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all'art. 53 Cost.; agli artt. 3 e 53 Cost.; al principio di ragionevolezza;

 

c) l'art. 4 della stessa legge regionale n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 3, della citata legge reg. n. 2 del 2007, in riferimento: ai parametri già evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti dall'art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. n. 2 del 2007; agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost.; all'art. 3 di un non precisato testo normativo; agli artt. 3 e 53 Cost.; agli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006); all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81 e 87 del Trattato CE;

 

d) l'art. 5 della citata legge regionale n. 2 del 2007, in riferimento: all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006); all'art. 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001; all'art. 3 Cost.; all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli artt. 12 e 49 del Trattato CE.

 

Ciascuno dei denunciati articoli disciplina un diverso tributo regionale: o quale risulta a séguito delle modifiche apportate dalla legge reg. n. 2 del 2007 al corrispondente tributo previsto dalla precedente legge reg. n. 4 del 2006, oppure quale introdotto ex novo dalla medesima legge reg. n. 2 del 2007. In particolare, le censure riguardano: a) l'«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 1 dell'art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); b) l'«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico» (rubrica dell'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 2 dell'art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); c) l'«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto» (rubrica dell'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dal comma 3 dell'art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007); d) l'«imposta di soggiorno» (art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007).

 

3. - I giudizi relativi ai suddetti ricorsi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi, in considerazione dell'evidente analogia delle questioni prospettate.

 

4. - Le questioni proposte nei due ricorsi riguardano tutte tributi propri della Regione - in quanto istituiti con legge regionale ai sensi dell'art. 8, lettera h) [già i)], dello statuto speciale -, e possono essere suddivise in tre gruppi, secondo i parametri richiamati in relazione a ciascun tributo: a) questioni relative al riparto di competenze legislative tra Stato e Regione; b) questioni basate su norme della Costituzione non attinenti al riparto delle competenze; c) questioni basate su norme di diritto comunitario evocate attraverso l'art. 117, primo comma, Cost.

 

Con il primo gruppo di questioni, che hanno per oggetto il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni in materia tributaria, sono evocati: a) l'art. 8, lettera i) - poi divenuta lettera h), in forza della sostituzione operata dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, dello statuto della Regione Sardegna -, il quale prevede che le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato»; b) gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

 

Con il secondo gruppo di questioni, sono evocati gli artt. 3 e 53 Cost., nei quali il ricorrente individua il fondamento dei princípi di ragionevolezza, uguaglianza e capacità contributiva.

 

Con il terzo gruppo di questioni, sono evocati, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., gli artt. 12, 49, 81 - «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10» - e 87 del Trattato CE.

 

5. - Le questioni del primo gruppo (sopra indicato con la lettera a) pongono il preliminare problema dell'individuazione del parametro applicabile in tema di competenza legislativa tributaria della Regione Sardegna: se, cioè, esse debbano essere esaminate alla stregua dell'art. 8, lettera i) - ora lettera h) -, dello statuto speciale o alla stregua degli artt. 117 e 119 Cost.

 

Questa Corte ritiene corretta la prima ipotesi.

 

Non può, infatti, essere presa in considerazione, nella specie, la disciplina del Titolo V della Parte II della Costituzione, non garantendo essa, rispetto allo statuto speciale, quelle «forme di autonomia piú ampie» che, sole, ne consentirebbero l'applicazione alle Regioni a statuto speciale ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. La maggiore autonomia assicurata dallo statuto risulta dal fatto che la condizione cui deve sottostare la Regione Sardegna nell'istituire tributi propri è solo quella - prevista dall'art. 8, lettera h), dello statuto - dell'armonia con i princípi del sistema tributario statale, mentre le Regioni a statuto ordinario sono assoggettate al duplice limite costituito dall'obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i princípi fondamentali di coordinamento e dal divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto, almeno fino all'emanazione della legislazione statale di coordinamento.

 

5.1. - Per giungere a tale conclusione, occorre muovere dalla premessa che il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione prevede che: a) lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di «sistema tributario [...] dello Stato» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.); b) le Regioni hanno potestà legislativa esclusiva nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, con riguardo, beninteso, ai presupposti d'imposta collegati al territorio di ciascuna Regione e sempre che l'esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni (artt. 117, quarto comma, e 120, primo comma, Cost.); c) le Regioni e gli enti locali «stabiliscono e applicano tributi e entrate propri in armonia con la Costituzione e secondo i principî di coordinamento [...] del sistema tributario» (art. 119, secondo comma, Cost.); d) lo Stato e le Regioni hanno competenza legislativa concorrente nella materia del «coordinamento [...] del sistema tributario», nella quale è riservata alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei princípi fondamentali. Tale riserva di competenza legislativa nella materia del coordinamento del sistema tributario non può comportare, tuttavia, alcuna riduzione del potere impositivo già spettante alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, perché, ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, la nuova disciplina costituzionale si applica ad esse (fino all'adeguamento dei rispettivi statuti) solo per la parte in cui prevede «forme di autonomia piú ampie rispetto a quelle già attribuite» e, pertanto, non può mai avere l'effetto di restringere l'àmbito di autonomia garantito dagli statuti speciali anteriormente alla riforma del Titolo V della Parte II Cost. (ex multis, sentenza n. 103 del 2003).

 

Il quadro normativo risultante dalla riforma costituzionale è stato interpretato da questa Corte nel senso, da una parte, che lo spazio riservato a detta potestà dipende prevalentemente dalle scelte di fondo operate dallo Stato in sede di fissazione dei princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario e, dall'altra, che l'esercizio del potere esclusivo delle Regioni di autodeterminazione del prelievo è ristretto a quelle limitate ipotesi di tributi, per la maggior parte "di scopo" o "corrispettivi", aventi presupposti diversi da quelli degli esistenti tributi statali. È indicativa di questo indirizzo la sentenza n. 37 del 2004, la quale ha espressamente affermato che, in forza del combinato disposto del secondo comma, lettera e), del terzo comma e del quarto comma dell'art. 117 Cost., nonché dell'art. 119 Cost., «non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale». In altri termini, lo Stato - nell'esercizio della propria competenza legislativa nella determinazione dei "princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario" - ha il potere di fissare, con propria legge, «non solo [...] i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee del sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, regioni ed enti locali». Da tale affermazione la stessa sentenza e le altre che le hanno fatto séguito hanno tratto l'ulteriore conseguenza che, fino a quando l'indicata legge statale non sarà emanata, è vietato alle Regioni di istituire e disciplinare tributi propri aventi gli stessi presupposti dei tributi dello Stato o di legiferare sui tributi esistenti istituiti e regolati da leggi statali (sentenze n. 451 del 2007; nn. 413, 412, 75 e 2 del 2006; nn. 455, 397 e 335 del 2005; n. 431 del 2004). Solo per quanto riguarda le suddette limitate ipotesi di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli dei tributi statali, la Corte ha riconosciuto sussistere il potere delle Regioni di stabilirli, in forza del quarto comma dell'art. 117 Cost., anche in mancanza di un'apposita legge statale di coordinamento, a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino ugualmente i princípi dell'ordinamento tributario, ancorché solo «"incorporati", per cosí dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato» (in tal senso, ancora, la sentenza n. 37 del 2004, nonché, in via generale, la sentenza n. 282 del 2002).

 

5.2. - Al fine di individuare, alla luce di quanto sopra, la disciplina costituzionale applicabile nel caso di specie, occorre pertanto accertare se il suddetto duplice limite fissato al legislatore tributario regionale dagli artt. 117 e 119 Cost., come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, sia o no piú stringente rispetto al limite fissato dallo statuto speciale. Occorre, cioè, verificare se l'«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato» - che, si è visto, è l'unica specifica condizione richiesta dallo statuto per legittimamente istituire e disciplinare i tributi propri della Regione Sardegna - si differenzi complessivamente, in termini di maggiore autonomia, dall'osservanza dei "princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario".

 

Al riguardo, va preliminarmente sottolineata la differenza che intercorre tra i princípi del sistema tributario dello Stato ed i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario nel suo complesso. I primi attengono specificamente alla tipologia e alla struttura degli istituti tributari statali, nonché alle rationes ispiratrici di detti istituti. L'armonia con tali princípi dei tributi regionali va, perciò, intesa come rispetto, da parte del legislatore regionale, dello "spirito" del sistema tributario dello Stato (ex multis, sentenza n. 304 del 2002) e, perciò, come coerenza e omogeneità con tale sistema nel suo complesso e con i singoli istituti che lo compongono. I secondi attengono agli elementi informatori delle regole che presiedono i rapporti e i collegamenti tra il sistema tributario dello Stato, quello delle Regioni a statuto ordinario e quello degli enti locali e presuppongono una legge statale che li fissi espressamente.

 

Sia l'«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato» che l'osservanza dei "princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario" realizzano, dunque, una funzione di coordinamento in senso lato tra i diversi sottosistemi del complessivo sistema tributario. Con la differenza, però, che mentre l'armonia con i «princípi del sistema tributario dello Stato» richiede solo che la Regione, nell'istituire i tributi propri, valuti essa stessa la coerenza del sistema regionale con quello statale e conformi, di conseguenza, i propri tributi agli elementi essenziali del sistema statale e alle rationes dei singoli istituti tributari, invece, i "princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario", in quanto realizzano un coordinamento in senso stretto, hanno per oggetto la delimitazione delle sfere di competenza legislativa tributaria e presuppongono - salvi i pochi casi di cui si è sopra detto - l'esistenza di un'apposita legge che li stabilisca. Esempio di quest'ultimo tipo di coordinamento è quello realizzato attraverso princípi che fissino un determinato rapporto percentuale (in termini di base imponibile o di gettito) tra tributi statali e tributi regionali o locali; oppure ripartiscano tra i diversi livelli di governo i presupposti di imposta.

 

5.3. - Ciò posto, va rilevato che, mentre la normativa risultante dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione - come interpretata dalle richiamate sentenze di questa Corte - vieta alle Regioni a statuto ordinario, in difetto di una legislazione statale sui princípi fondamentali di coordinamento, di disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di istituirne altri aventi lo stesso presupposto dei preesistenti tributi statali; un simile divieto non è, invece, desumibile dallo statuto speciale della Regione Sardegna, il quale si limita ad esigere che i tributi propri regionali siano in armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato. Né può ritenersi che il suddetto divieto costituisca uno dei princípi con i quali la legislazione della Regione Sardegna deve armonizzarsi. In base a quanto si è appena osservato, infatti, esso costituisce un principio di coordinamento in senso stretto - individuato in via interpretativa dalla giurisprudenza di questa Corte e transitoriamente applicabile fino all'emanazione di un'apposita legge statale in materia - che attiene solo alla ripartizione tra i diversi livelli di governo dei presupposti di imposta, secondo un criterio temporale di priorità nell'esercizio della potestà legislativa tributaria.

 

Ne deriva che il Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede un'autonomia legislativa tributaria piú ampia di quella complessivamente attribuita alla Regione Sardegna dal suo statuto di autonomia. Quest'ultimo è l'unico parametro applicabile nella specie e, pertanto, le censure del ricorrente basate sulla violazione del Titolo V della Parte II della Costituzione non possono essere prese in considerazione, con le conseguenze, sul tipo di pronuncia da adottare, che saranno esaminate caso per caso, in relazione al contenuto delle singole censure.

 

5.4. - Tale esito interpretativo non esclude, beninteso, che lo Stato possa contenere o ampliare la potestà normativa di autodeterminazione dei tributi propri attribuita alla Regione dallo statuto speciale. Significa solo che tale possibilità passa non già attraverso l'emanazione di una legge statale che fissi i princípi fondamentali previsti dall'art. 117 Cost., ma attraverso la modificazione statutaria realizzata attivando lo speciale procedimento di collaborazione previsto dall'art. 54 dello statuto di autonomia, a tenore del quale le disposizioni statutarie in materia di autonomia finanziaria «possono essere modificate con leggi ordinarie della Repubblica su proposta del Governo o della Regione, in ogni caso sentita la Regione».

 

5.5. - Non osta a tale conclusione l'orientamento di questa Corte secondo cui sono applicabili alle Regioni a statuto speciale, come alle Regioni a statuto ordinario, vincoli complessivi e temporanei alla spesa corrente fissati dalla legislazione statale (sentenze n. 169 e n. 82 del 2007). Infatti, in base a detto orientamento, tali vincoli, riconducibili ai "princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica", si impongono alle autonomie speciali solo in ragione dell'imprescindibile esigenza di assicurare l'unitarietà delle politiche complessive di spesa che lo Stato deve realizzare - sul versante sia interno che comunitario e internazionale - attraverso la «partecipazione di tutte le Regioni [...] all'azione di risanamento della finanza pubblica» e al rispetto del cosiddetto "patto di stabilità". Una tale esigenza, in quanto relativa al contenimento della spesa pubblica, non attiene al sistema tributario della Regione Sardegna - la cui coerenza con il sistema statale è garantita dalla menzionata «armonia con il sistema tributario dello Stato» - e rende, perciò, non pertinente al caso di specie la richiamata giurisprudenza costituzionale.

 

5.6. - Deve ulteriormente precisarsi che il testo dell'art. 8, lettera h) (già lettera i), dello statuto speciale (secondo cui le entrate della Regione sono costituite «da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato») va interpretato nel senso che non v'è alcuna distinzione tra tributi «sul turismo» e «altri tributi propri», quanto alla necessità di rispettare l'«armonia con i princípi del sistema tributario dello Stato». Per tutti i «tributi propri» della Regione - riguardino o no la materia turistica - vale, infatti, l'identica esigenza di non creare disarmonie o incoerenze con il sistema tributario statale. Una diversa interpretazione, quale quella sostenuta da entrambe le parti, non solo non è imposta dalla lettera della suddetta disposizione statutaria (come chiarito dalla sentenza n. 62 del 1987, a proposito dell'analoga formulazione contenuta nello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige), ma creerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra i tributi sul turismo e gli altri tributi propri.

 

5.7. - Ciò premesso, l'esame delle questioni sottoposte a questa Corte sarà condotto alla stregua sia degli artt. 3, 53 e 117, primo comma, Cost., sia dell'evocato parametro statutario. In particolare, esso deve essere diretto ad accertare se la normativa regionale impugnata sia coerente con i princípi di uguaglianza e di capacità contributiva, sia in armonia con lo "spirito" del sistema tributario - piú specificamente, con le rationes cui sono ispirati i tributi statali gravanti sulle stesse o analoghe materie imponibili - e non contrasti con gli articoli del Trattato CE indicati dal ricorrente.

 

6. - Occorre ora passare all'esame delle questioni relative all'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario sia in quello sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, sollevate, rispettivamente, con il primo e il secondo ricorso.

 

6.1. - Tale disposizione, nel testo originario, istituisce e disciplina, con effetto dal 18 febbraio 2007, data di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione delle deliberazioni della Giunta regionale previste ai commi 8 e 9, l'«imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case», siti in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina e destinati ad uso abitativo. L'imposta è applicabile - nei confronti dell'alienante avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale o avente domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi, con l'esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi - alle cessioni a titolo oneroso: 1) dei suddetti fabbricati, escluse le unità immobiliari che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o del coniuge; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi (commi da 1 a 4).

 

Con il primo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura la norma in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna - nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso -, perché: a) l'imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo.

 

In subordine, nel caso in cui «si potessero desumere i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», il ricorrente censura lo stesso art. 2 per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in riferimento al «principio generale» secondo cui lo stesso indice di capacità contributiva non giustifica la sovrapposizione di piú imposte, perché ogni imposta ha un presupposto autonomo, dovendo colpire «materie tassabili diverse», mentre nella specie la Regione ha colpito la stessa materia già tassata dallo Stato con l'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, il quale prevede che le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall'acquisto o dalla costruzione, esclusi gli immobili acquistati per successione o donazione e gli altri casi che vi sono indicati.

 

6.2. - L'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, disciplina, con effetto dal 31 maggio 2007, l'«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico», applicabile - nei confronti dell'alienante a titolo oneroso avente domicilio fiscale, «ai sensi dell'articolo 58 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600», o in Sardegna da meno di ventiquattro mesi o fuori dal territorio regionale - alle cessioni a titolo oneroso: 1) delle unità immobiliari acquisite o costruite da piú di cinque anni, site in Sardegna entro tre chilometri dalla battigia marina, adibite ad uso abitativo e diverse dall'abitazione principale (cosí come definita dall'art. 8, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504) da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse; 2) di quote o azioni non negoziate sui mercati regolamentati di società titolari della proprietà o di altro diritto reale su detti fabbricati, per la parte ascrivibile ai fabbricati medesimi (commi 1, 2 e 4). La norma precisa, al comma 3, che «L'imposta non si applica alle cessioni a titolo oneroso di unità immobiliari adibite ad uso abitativo, effettuate in regime di impresa nell'esercizio delle attività di costruzione o compravendita di immobili, purché iscritte tra le rimanenze dell'ultimo bilancio approvato».

 

Con il secondo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura tale norma, in riferimento all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna (nel testo sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), perché «la legge regionale non è in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato contenuti nell'art. 81 [recte: art. 67], comma 1, lettera b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi)», per cui, «nei confronti di una persona fisica, perché una plusvalenza possa costituire "reddito diverso" [...], è necessario l'intento speculativo», il quale «non può avere un'articolazione diversa Regione per Regione» e «va escluso quando tra l'acquisto e la vendita sia intercorso un tempo tale da farlo ritenere quanto meno improbabile». Lamenta anche la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in riferimento al principio di capacità contributiva, perché «nella norma impugnata non si trova alcun elemento per il quale la capacità contributiva, espressa dalla realizzazione di plusvalenze con la cessione di immobili situati nella Regione, sia diversa a seconda che il soggetto risieda in Sardegna o fuori».

 

6.3. - Deve preliminarmente essere esaminata l'eccezione di inammissibilità proposta dalla resistente con riferimento al secondo ricorso.

 

La Regione Sardegna sostiene che, con riguardo all'imposta sulle plusvalenze, l'evocazione del parametro di cui all'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 12 del Trattato CE, è inammissibile, perché tali parametri sono stati indicati nella sola proposizione finale della deliberazione governativa di impugnazione del 27 luglio 2007 e non nella motivazione di questa.

 

L'eccezione va rigettata, perché la deliberazione governativa di impugnazione contiene - anche se nella sola proposizione finale - l'indicazione di detti parametri, e ciò è sufficiente ai fini dell'ammissibilità del ricorso. Infatti, come affermato dalla sentenza n. 533 del 2002, tale deliberazione può limitarsi a «indicare le specifiche disposizioni che si ritiene [...] eccedano la competenza» della Regione, «potendo essere rimessa all'autonomia tecnica della Avvocatura generale dello Stato anche l'individuazione dei motivi di censura».

 

6.4. - In considerazione di quanto osservato nel punto 4., il prelievo regionale censurato con i due ricorsi può considerarsi un tributo proprio della Regione, istituito ai sensi dell'art. 8, lettera h) [già i)], dello statuto speciale. La Corte deve, pertanto, limitarsi ad accertare se detto prelievo sia «in armonia» con il principio del sistema tributario statale espresso dall'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, di cui il ricorrente lamenta la violazione, in sostanza, in entrambi i ricorsi.

 

Per la precisione, nel primo ricorso, il suddetto principio del sistema tributario statale è evocato, dapprima, solo genericamente ("violazione dei princípi tributari") con riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto di autonomia e, poi, specificamente (con espresso richiamo del citato art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986), con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 3 e 53 Cost. L'art. 8, lettera h), dello statuto di autonomia, con riguardo al suddetto principio, è, invece, evocato espressamente nel secondo ricorso. È tuttavia evidente che, anche nel primo ricorso, il ricorrente ha inteso lamentare la divergenza della legge regionale da un principio del sistema tributario dello Stato e, quindi, la violazione del richiamato parametro statutario. È discutibile la tecnica di impugnazione usata dal ricorrente, perché egli ha prima denunciato la violazione statutaria di non specificati princípi del sistema tributario statale e poi ha precisato nello stesso ricorso, sia pure denunciando anche la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., che il principio del sistema tributario statale non rispettato dal legislatore regionale è quello di cui è espressione l'art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986. Tuttavia è chiaro che tale imprecisione non inficia l'intenzione di denunciare la "disarmonia", rilevante con riguardo allo statuto di autonomia, con il suddetto principio del sistema tributario statale.

 

6.5. - Il richiamato art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986 stabilisce che sono assoggettate a tassazione «le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non piú di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari». La disposizione richiede, pertanto, ai fini dell'applicazione dell'imposta erariale, la sussistenza di due condizioni: a) la condizione positiva della prossimità temporale della vendita dell'immobile rispetto al suo acquisto o alla sua costruzione; b) la condizione negativa che le plusvalenze non derivino da cessioni di immobili utilizzati per primarie esigenze abitative o acquisiti per successione. Il concorso di tali condizioni evidenzia che le plusvalenze sono assoggettate a tassazione in forza di quella che un tempo si designava come presunzione legale assoluta di speculatività delle cessioni effettuate nel quinquennio (alla quale fa riferimento il ricorrente) e che oggi potrebbe definirsi valutazione legale tipica di un'oggettiva strumentalità del comportamento del contribuente alla produzione di un reddito; relazione funzionale che costituisce, nella specie, l'effettiva ratio del tributo statale.

 

Le censure basate sulla disarmonia con questa ratio impositiva sono fondate.

 

6.5.1. - Va premesso che il prelievo previsto dalla legislazione statale e quello previsto dall'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006 riguardano entrambi, per quanto qui interessa, l'incremento di valore realizzato all'atto della cessione a titolo oneroso di un immobile o dei titoli partecipativi delle società proprietarie o titolari di diritti reali sull'immobile medesimo; incremento che va determinato in misura pari alla differenza tra il corrispettivo di cessione e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto (secondo gli analoghi criteri di calcolo previsti, rispettivamente, dall'art. 68 del d.P.R. n. 917 del 1986 e dai commi 5 e 6 del censurato art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006). Con riguardo all'originaria formulazione della norma denunciata, va peraltro rilevato che l'imposizione da essa introdotta: a) realizza una sovrapposizione di imposte per la parte in cui colpisce il medesimo presupposto del tributo erariale, assoggettando a tassazione le plusvalenze realizzate attraverso cessioni di «fabbricati adibiti a seconde case» acquistati o costruiti da non piú di cinque anni e già tassate, ai sensi dell'art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, in forza della richiamata valutazione legale tipica di strumentalità; b) si applica anche a quelle plusvalenze realizzate nel quinquennio che, invece, il citato art. 67 esclude da tassazione, e cioè alle plusvalenze derivanti dalla cessione di unità immobiliari urbane acquisite per successione o che «per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale» di familiari del cedente diversi dal coniuge; c) ha per oggetto anche le plusvalenze ultraquinquennali, contraddicendo la scelta del legislatore statale di sottoporre a tassazione le sole plusvalenze derivanti da cessioni effettuate entro il quinquennio, per le quali opera la richiamata valutazione legale tipica.

 

L'imposta statale e quella regionale, pur riguardando lo stesso tipo di reddito, sono dunque ispirate a diverse rationes: mentre la ratio posta a base dell'art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986 risponde al principio generale di tassare il "reddito diverso" costituito dalla plusvalenza in considerazione delle caratteristiche oggettive dell'operazione di acquisto inter vivos e di successiva cessione del bene (caratteristiche che si risolvono essenzialmente nell'inizio e nella conclusione nel quinquennio dell'operazione stessa); invece, la ratio su cui si fonda la norma censurata astrae da tali caratteristiche e, perciò, comporta, oltre all'indicata sovrapposizione, l'assoggettamento a tassazione, in un'ottica di "reddito-entrata", di tutte le plusvalenze, in qualsiasi tempo realizzate, per il solo fatto dell'esistenza di una differenza positiva tra il corrispettivo di cessione e il prezzo o costo iniziale. È evidente, al riguardo, la disarmonia che si crea tra le due normative, derivante dalla diversità ed incompatibilità delle rationes impositive e, in particolare, dalla coesistenza dei due menzionati contraddittori indirizzi di politica fiscale: quello statale, che limita la tassazione alle plusvalenze in ragione del verificarsi delle condizioni previste dal citato art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986 e, pertanto, in funzione di un concetto economico di "reddito-prodotto"; quello regionale, che non solo aggrava l'imposizione sulle plusvalenze realizzate nel quinquennio, ma - nella suddetta ottica di "reddito-entrata" - la estende per un tempo indeterminato ad altre ipotesi, non collegate alle suddette condizioni.

 

L'imposizione delle plusvalenze realizzate attraverso la cessione di partecipazioni di società titolari di diritti reali sui fabbricati, «per la parte ascrivibile ai predetti fabbricati», è ugualmente in contrasto con la ratio della disciplina erariale, perché, nell'intento del legislatore regionale, si giustifica esclusivamente come rimedio antielusivo ed è, quindi, riconducibile - al pari dell'imposizione riguardante direttamente i fabbricati adibiti a seconde case - all'indicata divergente ratio della tassazione.

 

6.5.2. - Quanto alla vigente formulazione della norma denunciata (introdotta dall'art. 3, comma 1, della legge regionale n. 2 del 2007), la censura proposta con il secondo ricorso è fondata, per analoghe ragioni. Tale norma, rubricata, diversamente dalla prima, «Imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico», si limita a modificare la disciplina originaria del prelievo regionale, eliminando la tassazione delle plusvalenze derivanti da cessioni effettuate nel quinquennio e confermando quella delle plusvalenze ultraquinquennali.

 

Al pari di quanto dedotto nel primo ricorso, il ricorrente assume che la norma censurata si pone in contrasto con il principio sopra indicato desumibile dall'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986. La fondatezza di tale censura deriva anche qui dal fatto che la norma denunciata mantiene la rilevata differenza qualitativa fra i due tipi di imposizione, disattendendo la scelta del legislatore statale diretta a sottoporre a tassazione le sole plusvalenze derivanti da cessioni effettuate nel quinquennio. In particolare, la nuova norma denunciata, pur avendo eliminato la sovrapposizione delle imposte relativamente alle plusvalenze realizzate nel quinquennio, non ha risolto l'evidente contraddizione fra la ratio che l'ha ispirata e la scelta di politica fiscale generale che il legislatore statale ha operato con l'esclusione da tassazione delle plusvalenze ultraquinquennali derivanti sia da cessioni di fabbricati (per le quali non si applica la piú volte richiamata valutazione legale tipica) sia da cessioni di partecipazioni in società aventi nel loro patrimonio detti fabbricati.

 

6.6. - L'evidenziata contraddizione fra la ratio ispiratrice del tributo regionale censurato e la scelta di politica fiscale del legislatore statale di limitare la tassazione alle sole plusvalenze realizzate nel quinquennio è accentuata dal rilievo che la norma denunciata, in entrambe le sue formulazioni, realizza un'ingiustificata discriminazione tra i soggetti aventi residenza anagrafica all'estero e i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna aventi residenza anagrafica in Italia, violando cosí gli artt. 3 e 53 Cost.

 

La norma censurata assume, quale criterio per determinare il non assoggettamento al tributo, il domicilio fiscale individuato ai sensi dell'art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973, prevedendo che sia soggetto passivo dell'imposta chi è fiscalmente domiciliato fuori dal territorio regionale o ha domicilio fiscale in Sardegna da meno di ventiquattro mesi. In base al menzionato art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973: a) le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno «il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte»; b) le persone fisiche non residenti nel territorio dello Stato, hanno il domicilio fiscale «nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito si è prodotto in piú comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito piú elevato». Da tale previsione consegue che, in tutti i casi in cui le persone fisiche residenti anagraficamente all'estero realizzano il reddito-plusvalenza in Sardegna quale loro maggiore reddito prodotto in Italia, esse devono considerarsi per ciò stesso soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna e, quindi, non assoggettati a tassazione ai sensi della norma censurata (se fiscalmente domiciliati in Sardegna da almeno ventiquattro mesi); mentre le persone fisiche residenti anagraficamente in Italia, ma fuori dalla Sardegna, anche se realizzano - al pari di quelle residenti all'estero - le plusvalenze in territorio sardo, sono comunque non fiscalmente domiciliate in Sardegna e, quindi, sono assoggettate a tassazione. E ciò, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione di tale disparità di trattamento. Considerazioni analoghe possono farsi per i soggetti diversi dalle persone fisiche.

 

6.7. - La rilevata disarmonia delle norme denunciate con i princípi del sistema tributario dello Stato sussiste indipendentemente dalla considerazione dell'ulteriore ingiustificata discriminazione - adombrata dal ricorrente con il richiamo dell'art. 12 del Trattato CE per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost. - che la norma censurata crea escludendo da tassazione i soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna e sottoponendo a tassazione i soggetti residenti in Stati membri dell'Unione europea e non fiscalmente domiciliati in Sardegna. Al riguardo, non può sottacersi che detta norma contravviene al divieto di restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri previsto dall'art. 56 del Trattato CE, come interpretato dalla Corte di giustizia comunitaria. Seppure con riferimento a un prelievo statale, quest'ultima ha infatti precisato - in una fattispecie analoga a quella regolata dalle norme censurate - che il legislatore nazionale non può assoggettare «le plusvalenze risultanti dalla cessione di un bene immobile situato in uno Stato membro [...], quando la detta cessione è effettuata da un soggetto residente in un altro Stato membro, ad un onere tributario superiore a quello che sarebbe applicato per lo stesso tipo di operazione alle plusvalenze realizzate da un soggetto residente nello Stato in cui è situato detto bene immobile» (sentenza 11 ottobre 2007, C-443/2006, Hollmann).

 

6.8. - L'accoglimento delle censure riferite alla violazione dell'art. 8, lettera h) [già lettera i)], dello statuto speciale comporta l'assorbimento di tutte le altre censure di illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettate da ciascun ricorso con riguardo, rispettivamente, al testo originario di tale disposizione ed al testo sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007.

 

Nel dettaglio, tali ulteriori censure sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il primo ricorso (n. 91 del 2006), con riferimento all'art. 2 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettando la violazione degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in riferimento al principio fondamentale espresso dall'art. 67, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986, per cui le plusvalenze immobiliari sono tassabili a condizione che la cessione intervenga a non piú di cinque anni dall'acquisto o dalla costruzione, con le esclusioni previste dalla legge. La difesa erariale lamenta anche la violazi one: a) in via principale, degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; b) in via subordinata, dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 12 del trattato CE, in quanto la norma censurata discrimina i cittadini comunitari adottando, per l'applicazione dell'imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza». Le altre censure, parimenti assorbite, concernenti l'art 2 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge reg. n. 2 del 2007, sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), prospettando la violazione, in via subordinata rispetto alle altre censure formulate, dell'art. 119 Cost., per contrasto con i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario, che corrispondono, almeno in via transitoria e «fino a che non interverranno le norme statali di attuazione dell'art. 119», ai princípi del sistema tributario dello Stato. Con il medesimo ricorso, la difesa erariale lamenta altresí, con riguardo alla medesima disposizione, la violazione del principio di ragionevolezza, perché la norma censurata, applicandosi a tutte le unità immobiliari site entro tre chilometri dalla battigia marina, fissa ingiustificatamente una distanza dalla battigia uguale per tutte le spiagge della Regione, senza tenere conto della conformazione dei luoghi e, quindi, delle diverse possibilità di accesso al mare. Lamenta, infine, il ricorrente la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 12 del trattato CE, in quanto discrimina i cittadini comunitari, assoggettando all'imposta tutti i non residenti.

 

7. - Vanno ora esaminate le questioni relative all'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dall'art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, sollevate, rispettivamente, con il primo e il secondo ricorso.

 

7.1. - Tale disposizione, nel testo originario, istituisce e disciplina l'«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», dovuta - secondo classi di superficie - sui fabbricati siti nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sugli stessi, applicabile nei confronti del proprietario di detti fabbricati, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, con l'esclusione dei soggetti nati in Sardegna e dei loro coniugi e figli.

 

Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il Presidente del Consiglio dei ministri censura la norma in riferimento all'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna - nel testo vigente all'epoca del deposito del ricorso, cioè anteriormente all'entrata in vigore del comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 -, perché: a) l'imposta non può essere considerata sul turismo, in quanto non ha alcun rapporto con questo; b) non è ammissibile, in materie diverse dal turismo, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; c) sono «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo. Lamenta, altresí, che il tributo pregiudica «le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario», perché colpisce la stessa materia tassabile colpita da altri tributi e, in particolare, dall'ICI, producendo una "disarmonia" con i princípi del sistema tributario dello Stato. Lamenta, inoltre, che la norma denunciata víola l'art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3», e l'art. 12 del Trattato CE, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., in quanto discrimina i cittadini comunitari adottando, per l'applicazione dell'imposta, i seguenti criteri: «non essere nati in Sardegna, che attiene direttamente alla cittadinanza; avere il domicilio fiscale fuori del territorio nazionale, che attiene alla residenza».

 

7.2. - L'art 3 della legge reg. n. 4 del 2006, sostituito - con effetto dal 31 maggio 2007 - dall'art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, disciplina l'«Imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», dovuta - per metro quadro ed in misura differenziata secondo scaglioni di superficie - sulle unità immobiliari ubicate nel territorio regionale ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibite ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulle stesse. Tale imposta è, in particolare, applicabile nei confronti del proprietario di dette unità immobiliari, ovvero del titolare di diritto di usufrutto, uso, abitazione, superficie o del locatario dell'immobile in locazione finanziaria, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. Il comma 9 dello stesso art. 3 prevede, poi, che «Per l'anno 2006 l'imposta è dovuta nella misura piú favorevole al contribuente mediante comparazione tra le misure previste dal presente articolo e quelle previgenti».

 

Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), censura tale norma, in riferimento all'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l'oggetto dell'imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l'unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell'immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l'imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo essa determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l'ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta e, perciò, non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente. Denuncia, altresí, la violazione dell'art. 53 Cost., perché «l'imposta è commisurata alla visibilità del mare, quindi su valori panoramici», i quali non sono materia tassabile, in quanto non integrano la capacità contributiva che è, invece, legata al valore economico del bene e, in subordine, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., per irragionevolezza, perché l'imposta è dovuta anche per gli immobili privi di vista sul mare. Lamenta, inoltre, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., sempre per irragionevolezza, per il contrasto con i princípi del sistema tributario dello Stato, che emerge anche dal fatto che l'imposta è «progressiva con l'aumentare delle superfici disponibili da 60 mq. a 150» mq., ma «diventa fortemente regressiva da 150 mq. a 200 per diminuire ancora per le superfici maggiori».

 

7.3. - Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il ricorrente denuncia, con una complessa e articolata censura, la violazione dell'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna. Diversamente dalle censure relative alle altre imposte regionali, la difesa erariale non si limita ad affermare che l'imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico non attiene alla materia "turismo", ma da tale asserzione fa derivare la conseguenza che il tributo, gravando sulla stessa materia tassabile colpita dall'ICI, dimostra l'incoerente perseguimento, da parte della Regione, della finalità di garantire un turismo sostenibile e pregiudica «anche le possibilità di politica economica dello Stato, della quale uno degli strumenti principali è quello tributario». Secondo il ricorrente, il fatto che l'imposta regionale incida sulle «stesse materie tassabili» colpite dal legislatore nazionale con l'ICI produce una "disarmonia" con i princípi del sistema tributario dello Stato e, soprattutto, numerose discriminazioni vietate dall'art. 53 Cost., inteso quale strumento attraverso il quale «trova applicazione nel settore tributario il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3». Il ricorrente indica, quale esempio di tali discriminazioni - deducendo anche la corrispondente violazione dell'art. 12 del Trattato CE -, la disparità di trattamento fra il soggetto nato fuori dal territorio regionale e non avente domicilio fiscale nella Regione, il quale è assoggettato all'imposizione regionale, e il soggetto anch'esso non domiciliato fiscalmente nella Regione, ma nato in Sardegna, il quale invece non è assoggettato all'imposizione per il solo fatto di essere nato in Sardegna (art. 3, comma 4).

 

La censura, formulata in modo involuto, va interpretata nel senso che il ricorrente denuncia la violazione dei princípi di ragionevolezza e di capacità contributiva sotto il profilo della disparità di trattamento tra soggetti fiscalmente domiciliati o nati nel territorio della Sardegna e soggetti che non hanno tali requisiti.

 

7.4. - In questi termini, la questione è fondata.

 

La norma censurata, smentendo il dichiarato intento del legislatore regionale di introdurre un'imposta sull'uso turistico delle seconde case di abitazione, istituisce un'imposta patrimoniale sui fabbricati ubicati nella fascia costiera sarda e non adibiti ad abitazione principale, che non si applica alla generalità dei "possessori" di tali immobili e, pertanto, crea le ingiustificate disparità di trattamento denunciate dal ricorrente.

 

7.5. - La Regione resistente, argomentando dalla rubrica e dal comma 1 della disposizione denunciata («imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico»), nonché dall'ubicazione nella fascia costiera sarda degli immobili sottoposti a tassazione, afferma che il tributo censurato non va ricondotto alla tipologia dei tributi patrimoniali, ma a quella dei cosiddetti tributi a finalità "ecologico-turistica", diretti a contenere l'inquinamento ambientale prodotto dal turismo e, in particolare, dal possesso di «seconde case ad uso turistico». Ad avviso della Regione, la norma censurata perseguirebbe, cioè, "finalità turistico-ambientali" e individuerebbe la capacità contributiva del soggetto passivo nel fatto che esso, essendo non residente e possedendo un immobile in una località turistica di alto valore ambientale, "consuma e usa" il bene ambientale protetto, senza che tale uso e consumo siano giustificati da un collegamento stabile del possessore con la comunità territoriale.

 

Tale ricostruzione della natura e della funzione del tributo non trova, però, sostegno nella complessiva formulazione della disposizione denunciata.

 

Al riguardo, va premesso che, in forza del comma 2 dell'art. 3 della menzionata legge reg. n. 4 del 2006, il presupposto dell'imposta è costituito dal «possesso di fabbricati» (definiti come «case» dal comma 1 dello stesso articolo) siti nella fascia costiera sarda e «non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario o del titolare di altro diritto reale su di essi». Tuttavia, il legislatore regionale - adottando l'identica tecnica legislativa e le identiche formulazioni letterali usate dal legislatore statale a proposito dell'ICI (artt. 1, comma 2, e 3 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, recante «Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421») - impiega una nozione di «possesso di fabbricati» che va messa in relazione con la successiva tassativa indicazione dei soggetti passivi di imposta, individuati dalla norma denunciata, appunto, nei titolari di determinate situazioni giuridiche soggettive sull'immobile oggetto di tassazione (comma 3 del medesimo art. 3 della legge regionale). Ne consegue che tale «possesso» non va inteso nel senso civilistico (art. 1140 del codice civile), ma esclusivamente nel peculiare senso di titolarità, da parte del soggetto passivo dell'imposta, delle suddette situazioni giuridiche soggettive sul fabbricato. Questa precisazione (che vale a fugare le perplessità esegetiche prospettate, sul punto, dalla difesa erariale, specie nel secondo ricorso) rende evidente che la disciplina positiva del tributo prescinde dall'«uso turistico» (effettivo o potenziale) dei «fabbricati» (intesi come «case»). Infatti, il citato comma 2 del censurato art. 3 della legge regionale - nello stabilire che la ristretta, imprecisa e atecnica espressione «seconde case ad uso turistico», usata dal legislatore nel precedente comma, deve essere intesa nella piú ampia, precisa e tecnica accezione di «case» o «fabbricati non adibiti ad abitazione principale» - elimina ogni riferimento sia alle «seconde case» sia alla destinazione del fabbricato ad uso turistico. La precisa definizione legislativa del presupposto d'imposta, desumibile dai commi 2 e 3 del censurato art. 3, impone, cioè, di ritenere (in contrasto con la sopra ricordata piú ristretta denominazione del tributo, contenuta nella rubrica e nel comma 1 dello stesso articolo) che l'imposta si applica in tutti i casi in cui il soggetto passivo (e, quindi, anche il locatario di un immobile concesso in locazione finanziaria, erroneamente non richiamato dal comma 2) non abbia adibito a propria abitazione principale il fabbricato da lui "posseduto" ed ubicato nella fascia costiera sarda.

 

Da questa interpretazione della norma deriva che l'imposta si applica anche nei casi in cui il soggetto passivo del tributo - cioè colui che manifesta una specifica capacità contributiva attraverso il "possesso" del fabbricato - utilizza l'unità immobiliare abitativa per finalità diverse dal turismo, come, ad esempio, quelle di dimora per lavoro, di impresa (ove ciò sia compatibile con la suddetta destinazione abitativa del bene) o di locazione. In particolare, nel caso di locazione, il locatore "possessore"della "casa" è assoggettato a tassazione per il solo fatto di non essere nato in Sardegna o di non avervi domicilio fiscale, anche se utilizza il bene al solo fine di sfruttamento commerciale, senza che abbia alcun rilievo il tipo di uso (non turistico o turistico) che ne faccia il locatario e senza che la legge preveda mai, in favore del locatore, alcuna rivalsa. In altri termini, il suddetto locatore è ugualmente assoggettato a tributo, sia quando il locatario utilizza il bene per finalità non turistiche (ad esempio, di abitazione principale propria); sia quando lo utilizza per finalità turistiche, restando cosí assoggettato - se non residente in Sardegna - all'imposta di soggiorno prevista (con effetti a decorrere dal 15 giugno 2008) dal censurato art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007.

 

La tassazione del soggetto che non sia fiscalmente domiciliato in Sardegna (o che non vi sia nato), prevista dalla norma censurata nel caso in cui il "possessore" del fabbricato non utilizzi l'immobile (neppure indirettamente) a fini turistici, si giustifica, perciò, solo in termini oggettivi, per il mero fatto del "possesso" di un immobile situato in una zona di particolare rilievo turistico. Ma, in tal caso, l'imposta, ancorché colpisca case situate nelle indicate zone di particolare rilievo turistico, è riconducibile ai tributi di tipo non già turistico-ambientale, ma patrimoniale-immobiliare, come l'ICI. Occorre, dunque, concludere che, nonostante la denominazione di «imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico», il tributo in esame non ha una effettiva ratio turistico-ambientale.

 

Tale conclusione comporta, quale ulteriore corollario, l'infondatezza delle considerazioni che si riferiscono a detta ratio per giustificare le esclusioni soggettive dall'imposta previste dalla norma censurata. In particolare, si è sostenuto dalla Regione resistente che le menzionate esclusioni sarebbero legittime perché previste in presenza di particolari indici di collegamento del soggetto con la comunità e la cultura locali, data anche la peculiare caratteristica geografica del territorio sardo. Proprio tale collegamento con il territorio, unitamente all'intento del legislatore di non ostacolare il turismo all'interno della Sardegna dei soggetti nati in Sardegna (e dei loro coniugi e figli) o ivi fiscalmente domiciliati, renderebbe ragionevole - secondo tale impostazione - escludere dall'imposta detti soggetti ove siano possessori, nella fascia costiera sarda, di case adibite ad uso turistico. Questa argomentazione, tuttavia, indipendentemente dalla sua persuasività (soprattutto con riferimento alla congruità degli indici di collegamento prescelti dal legislatore regionale), muove dall'erronea premessa che l'imposta colpisce l'«uso turistico» della casa. La sopra riscontrata natura patrimoniale dell'imposta fa venire meno tale premessa e rende, perciò, prive di fondamento le indicate giustificazioni della limitazione del novero dei soggetti passivi d'imposta.

 

7.6. - Da quanto precede deriva che la censurata imposta regionale risponde, sul piano oggettivo, a una logica di tassazione patrimoniale realizzata secondo lo schema dell'ICI. Al pari dell'ICI, infatti, il presupposto di tale imposta regionale è costituito - come già osservato - dalla titolarità del diritto di proprietà, di diritti reali di godimento e dalla conduzione in locazione finanziaria di fabbricati, indipendentemente dall'effettivo utilizzo del bene e dal fatto che esso sia occupato da un soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna; con la sola differenza che, mentre l'ICI riguarda i fabbricati, le aree fabbricabili ed i terreni agricoli, a qualsiasi uso destinati (artt. 1 e 3 del d.lgs. n. 504 del 1992), la norma censurata circoscrive l'oggetto dell'imposta alle unità immobiliari non adibite ad abitazione principale, ubicate nella fascia costiera sarda. È sufficiente, cioè, il «possesso» di unità immobiliari che consentono un insediamento abitativo solo potenziale e, comunque, non diretto a soddisfare esigenze abitative primarie del "possessore".

 

Senonché, la coerenza con lo schema dell'imposta immobiliare avrebbe richiesto la tassazione, con carattere di generalità, delle indicate unità immobiliari, senza le ampie esclusioni soggettive introdotte dalla norma censurata ed imperniate sul criterio del domicilio fiscale e della nascita in Sardegna del soggetto passivo (oltre a quello del rapporto di coniugio o di filiazione con il soggetto nato in Sardegna). La scelta del legislatore regionale di allontanarsi, con la previsione di tali esclusioni, dallo schema dell'ICI contrasta, infatti, con il carattere generale delle imposizioni sui patrimoni immobiliari e ne snatura l'essenza. Crea, in particolare, ingiustificate discriminazioni soggettive nell'applicazione dell'imposta, nonché una forte disarmonia con il principio del sistema tributario statale, che - come già osservato - esige che i suddetti tipi di imposte si applichino nei confronti di tutti i titolari delle situazioni giuridiche soggettive sugli immobili situati nella sfera di competenza territoriale dell'ente impositore (salvo, beninteso, limitate esenzioni soggettive od oggettive che non ne mutino la natura), siano essi fiscalmente domiciliati o non domiciliati nel territorio ove è ubicato l'immobile e senza che rilevi il loro luogo di nascita.

 

Tale discriminazione appare ancora piú stridente se si pone a raffronto il caso dei soggetti aventi domicilio fiscale in Italia, ma non in Sardegna, con quello dei soggetti aventi residenza anagrafica all'estero, ma domicilio fiscale in Sardegna. Si è visto, infatti, al punto 6.6., che questi ultimi, qualora siano titolari di diritti reali sugli immobili ubicati in Sardegna, hanno - ove non godano di maggiori redditi prodotti in Italia fuori dal territorio sardo - domicilio fiscale in Sardegna ai sensi dell'art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973. Differentemente da chi ha domicilio fiscale in Italia, ma non in Sardegna, essi non sono pertanto tenuti al pagamento della suddetta imposta regionale, qualunque sia la consistenza delle unità immobiliari ubicate in Sardegna, pur essendo residenti anagraficamente fuori dal territorio sardo.

 

7.6.1. - Né può opporsi - come fa la resistente - che le suddette esclusioni dall'imposta sono giustificate dal fatto che i soggetti esclusi già contribuiscono alle finanze regionali pagando imposte sui redditi riscosse nel territorio della Regione, il cui gettito è a questa attribuito per i sette decimi in base all'art. 8, lettera a), dello statuto speciale ed è utilizzato anche a fini di tutela dell'ambiente e promozione del turismo sostenibile.

 

Innanzitutto, va premesso che, con riferimento a ciascun soggetto d'imposta, non c'è correlazione necessaria, ma solo probabile, tra il domicilio fiscale nella Regione Sardegna e il pagamento nella medesima Regione delle imposte sui redditi. Ad esempio, nel caso dei titolari di redditi inferiori ai minimi imponibili o comunque esenti, il soggetto, benché fiscalmente domiciliato in Sardegna, non è tenuto al pagamento delle imposte sui redditi. Va poi osservato che, anche a voler accedere alla tesi della resistente, si creerebbe un'irragionevole disparità di trattamento fra il soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna che, pur possedendo «seconde case» situate nella fascia costiera, è escluso dalla tassazione, e il soggetto, sempre domiciliato fiscalmente in Sardegna, che, non possedendo «seconde case», sopporterebbe, con il pagamento delle imposte sui redditi, il carico economico della tutela dell'ambiente e della protezione del turismo sostenibile, derivante anche dalle seconde case costiere appartenenti al primo.

 

Inoltre, osta radicalmente alla tesi della resistente la già rilevata natura patrimoniale e, quindi, reale del tributo, la quale esclude che alla richiamata regola della generalità della sua applicazione possano apportarsi eccezioni estranee alla logica impositiva del tributo medesimo, come sono quelle basate sulla circostanza che il gettito dei tributi pagati da chi ha domicilio fiscale in Sardegna è destinato a finanziare la tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile del turismo nella Regione. Del resto, le suddette esclusioni soggettive, oltre a non giustificarsi in base alla natura dell'imposta, non sono neppure idonee ad eliminare le già sopra rilevate incongruenze dell'imposta medesima.

 

In ogni caso, l'obiezione fondata sull'asserita equiparabilità tra le quote di gettito delle imposte sui redditi attribuite alla Regione e il gettito del prelievo immobiliare regionale non giustifica certamente l'esclusione delle persone nate in Sardegna e dei loro coniugi e figli dal novero dei soggetti passivi dell'imposta regionale, non avendo detti soggetti alcun obiettivo collegamento con il territorio regionale e non essendo, quindi, assimilabili ai soggetti fiscalmente domiciliati in Sardegna.

 

7.6.2. - La Regione giustifica, altresí, le ampie esclusioni soggettive dall'imposta con la necessità: a) di disincentivare fiscalmente la costruzione di «seconde case ad uso turistico» nella fascia costiera per evitare un potenziale inquinamento ambientale provocato dalla presenza turistica; b) di colpire l'incremento di valore di dette unità immobiliari che si produce a séguito dei vincoli di inedificabilità imposti dal piano paesaggistico regionale anche in considerazione della vocazione turistica della fascia costiera.

 

Neppure tali argomentazioni valgono a eliminare la rilevata irragionevolezza dell'imposta oggetto della disposizione censurata.

 

Quanto all'obiettivo di disincentivare, a fini di tutela ambientale, la costruzione di «seconde case ad uso turistico» nella fascia costiera, va rilevato che esso andrebbe perseguito prevalentemente attraverso gli strumenti del governo del territorio. In ogni caso, sia sotto questo profilo che sotto quello fiscale, la realizzazione del medesimo obiettivo non potrebbe non riguardare anche le costruzioni realizzate da soggetti domiciliati o nati in Sardegna, le quali hanno un'uguale potenzialità inquinante e mettono perciò in pericolo un modello di turismo sostenibile.

 

Quanto, poi, all'asserito obiettivo di tassare l'incremento di valore delle unità immobiliari in questione, va osservato che esso dovrebbe essere perseguito sottoponendo a tributo anche il soggetto fiscalmente domiciliato in Sardegna e, comunque, non potrebbe realizzarsi attraverso l'imposta censurata, la cui base imponibile, essendo calcolata in relazione alla superficie, non è di per sé idonea a misurare detto incremento.

 

7.6.3. - Deve, infine, essere sottolineato che le rilevate discriminazioni sono particolarmente gravi nel caso di imprese che svolgono attività di locazione di immobili, in quanto l'esclusione dall'imposta per le sole imprese aventi domicilio fiscale in Sardegna (o, addirittura, il cui titolare sia nato in Sardegna) si traduce in un irragionevole beneficio fiscale, distorsivo della concorrenza.

 

7.6.4 - Per ciò che concerne la vigente formulazione della norma denunciata (introdotta dall'art. 3, comma 2, della legge regionale n. 2 del 2007), può ritenersi parimenti fondata, per analoghe ragioni, la censura proposta con il secondo ricorso. La norma mantiene, infatti, sostanzialmente immutata la struttura originaria del prelievo regionale, limitandosi ad eliminare l'esclusione dalla tassazione per i soggetti nati in Sardegna e i loro coniugi e figli.

 

Come per il primo ricorso, la censura formulata va interpretata nel senso che il ricorrente lamenta che la norma denunciata si pone in contrasto con i princípi di ragionevolezza e di capacità contributiva sotto il profilo della disparità di trattamento tra soggetti fiscalmente domiciliati nel territorio della Sardegna e soggetti che non hanno tali requisiti.

 

La fondatezza di tale censura deriva anche qui dal fatto che la norma non introduce un'imposta sull'uso turistico delle seconde case di abitazione, ma un'imposta patrimoniale sui fabbricati ubicati nella fascia costiera e non adibiti ad abitazione principale, che non si applica alla generalità dei "possessori" di tali immobili - come invece richiesto dai princípi generali del sistema tributario statale per tale tipo di imposte - e, pertanto, crea le ingiustificate disparità di trattamento denunciate nel primo ricorso e ribadite nel secondo.

 

7.7. - L'accoglimento delle censure riferite alla violazione dell'art. 8, lettera h) [già lettera i)], dello statuto speciale comporta l'assorbimento di tutte le altre censure di illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettate con ciascun ricorso con riguardo, rispettivamente, al testo originario di tale disposizione ed al testo sostituito dall'art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007.

 

Nel dettaglio, tali ulteriori censure sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il primo ricorso (n. 91 del 2006), con riferimento all'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, prospettando la violazione degli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001: a) in via principale, perché non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; b) in via subordinata, perché l'imposta è determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre «la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l'imposta statale e per l'ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto analogo con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a secondo del pregio degli immobili». Le altre censure, parimenti assorbite, concernenti l'art. 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, sono state sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), prospettando la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché: a) l'oggetto dell'imposta non può essere ricondotto alla materia del turismo, in quanto «il fine turistico non può essere ritenuto implicito nel fatto che l'unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale», come, ad esempio, nel caso dell'immobile utilizzato per esigenze di lavoro; b) anche qualora ricondotta alla categoria degli «altri tributi propri» della Regione, l'imposta non sarebbe «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato», essendo determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del suo valore, mentre la tassazione in base ai valori catastali, come avviene per l'ICI, andrebbe comunque considerata come principio fondamentale, in quanto consente di colpire valori medi, determinati per zone omogenee in rapporto con i valori di mercato e, in ogni caso, variabili a seconda del pregio degli immobili; c) non ha obiettivi di coordinamento del sistema tributario, ma si limita a istituire una singola imposta, e perciò non è riconducibile alla materia del coordinamento del sistema tributario, di competenza legislativa concorrente. Con il medesimo ricorso, la difesa erariale lamenta, altresí, la violazione del principio di ragionevolezza, salvo che la disposizione censurata sia interpretata nel senso che «se il proprietario, o i titolari degli altri diritti reali, non sono nel possesso dell'immobile, l'imposta non è dovuta, né da loro (per mancanza del possesso) né dai possessori non titolari di quei diritti, perché non indicati tra i soggetti passivi».

 

8. - Vanno ora esaminate le questioni relative all'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, sia nel testo originario (che ha avuto effetto dal 13 maggio 2006 al 30 maggio 2007), sia in quello sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 (con effetto dal 31 maggio 2007, ai sensi dell'art. 37 di quest'ultima legge). La diversità dell'oggetto delle censure rende opportuno l'esame distinto di ciascun ricorso.

 

8.1. - L'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, istituisce, a decorrere dall'anno 2006, l'«imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto». L'imposta è applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, alla persona o alla società aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assumono l'esercizio dell'aeromobile o dell'unità da diporto (con l'esenzione dall'imposta delle navi adibite all'esercizio di attività crocieristica, delle imbarcazioni che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo e delle unità da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali) ed è dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell'aviazione generale adibiti al trasporto privato, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale delle unità da diporto di cui al codice della nautica da diporto (decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171), per classi di lunghezza, a partire da 14 metri.

 

8.1.1. - Con il primo ricorso (n. 91 del 2006), il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione impugnata con tre diversi gruppi di parametri costituzionali: a) con l'art. 8, lettera i), dello statuto della Regione Sardegna, perché l'oggetto dell'imposta non potrebbe essere ricondotto alla materia del turismo ed una piena esplicazione di potestà tributarie regionali non sarebbe ammissibile, in materie diverse dal turismo, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale e, comunque, sarebbero «violati i principi del sistema tributario dello Stato» in materie diverse dal turismo; ovvero, alternativamente, con gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, come già affermato nello stesso ricorso, una piena esplicazione di potestà tributarie regionali non sarebbe ammissibile, in materie diverse dal turismo, in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale; ovvero, in ulteriore subordine, nel caso in cui «si potessero desumere i princípi fondamentali del coordinamento del sistema tributario dalla legislazione tutt'ora in vigore», con i medesimi artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché, con riguardo alle unità da diporto che effettuano lo scalo «in zona non attrezzata, in uno specchio di mare ridossato, dove l'ormeggio sia effettuato a terra, utilizzando la struttura naturale della spiaggia», la Regione ha individuato «come presupposto di imposta l'utilizzo di un bene naturale, sul quale non può esercitare poteri», cioè il mare, «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale»; b) con l'art. 53 Cost., sia perché, con riguardo agli aeromobili, vi sarebbe una «duplicazione di imposta di tutta evidenza» rispetto ai «diritti aeroportuali o diritto per l'uso degli aeroporti (legge n. 324/1976)», sia perché «lo svolgimento di un'operazione per la quale [...] si paga un prezzo che copre il costo del servizio reso, con margine di utile», non costituirebbe indice di capacità contributiva; c) con gli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost. (parametri, peraltro, non espressamente indicati), perché, con riguardo alle unità da diporto, l'imposta avrebbe «carattere regressivo», essendo dovuta annualmente, con la conseguenza che «piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l'onere dell'imposta». Tali censure, che vanno esaminate separatamente, non sono fondate.

 

8.1.2. - Quanto alla censura sub a), va preliminarmente rilevato che deve essere scrutinata esclusivamente la denunciata violazione dello statuto regionale, perché - come già rilevato al punto 5. - la normativa concernente il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni introdotta dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede forme di autonomia piú ampie rispetto a quelle previste dallo statuto della Regione Sardegna e pertanto, ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, trova nella specie applicazione esclusivamente lo statuto di autonomia.

 

Nel merito, sotto tutti i profili prospettati, la suddetta censura non è fondata.

 

In primo luogo, va ribadito (come già osservato al punto 5.6.) che è irrilevante se la suddetta imposta regionale sia o no riconducibile alla materia del turismo, perché il citato art. 8, lettera i), dello statuto della Sardegna attribuisce alla Regione una specifica competenza legislativa esclusiva nella materia non solo delle «imposte e tasse sul turismo», ma anche degli «altri tributi propri». Pertanto, anche ove potesse ritenersi (sia pure implausibilmente) che il periodo in cui lo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto nel territorio regionale è sottoposto a tributo (cioè il periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno, corrispondente al maggior afflusso turistico), nonché il domicilio fiscale dei soggetti passivi dell'imposta (fuori dal territorio regionale sardo), non siano elementi sufficienti a caratterizzare come tributo "sul turismo" la denunciata imposta, ciò non comporterebbe affatto la violazione dello statuto regionale. Infatti, il tributo sarebbe pur sempre qualificabile come «proprio» della Regione e, quindi, sarebbe da essa legittimamente stabilito in forza della competenza legislativa statutaria, purché fosse rispettata la condizione - richiesta dal medesimo art. 8, lettera i), dello statuto - dell'«armonia con i principi del sistema tributario dello Stato».

 

In secondo luogo - come già osservato al punto 5.3. e contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale -, la potestà legislativa della Regione Sardegna in materia di tributi propri non è condizionata dalla previa emanazione da parte dello Stato di una legge che fissi i princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario.

 

In terzo luogo, il ricorrente non ha indicato i princípi del sistema tributario dello Stato rispetto ai quali la norma denunciata non si porrebbe «in armonia». La censura, pertanto, è prospettata in via del tutto generica. Né può farsi riferimento, quale principio del sistema tributario dello Stato che si asserisce violato, al "principio generale di coordinamento del sistema tributario" indicato dal ricorrente in via subordinata. Infatti - come già rilevato al punto 5.2. - i princípi del sistema tributario statale hanno natura e finalità essenzialmente diverse rispetto ai "princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario". In particolare, il ricorrente ha individuato, quale "principio fondamentale di coordinamento" concernente le unità per la navigazione da diporto, quello secondo cui il mare sarebbe «soggetto solo al potere statale entro i limiti del mare territoriale»: tuttavia, tale principio, per come è formulato dal ricorrente, non solo è estraneo al sistema tributario statale, ma non trova neppure fondamento nell'ordinamento vigente. Il mare, infatti, ben può essere oggetto della legislazione regionale; come avviene, ad esempio, per le Regioni a statuto ordinario, nell'àmbito della competenza concorrente in materia di porti o di grandi reti di navigazione; ovvero, per la Regione Sardegna - in forza dell'art. 3, lettera i), dello statuto -, nell'àmbito della competenza esclusiva in materia di pesca. Ove, poi, il ricorrente avesse solo inteso affermare che la Regione resistente non avrebbe potuto assumere a presupposto dell'imposta regionale l'utilizzazione del mare, la censura sarebbe, a tacer d'altro, inconferente, perché - diversamente da quanto ritenuto dalla difesa erariale - la disposizione denunciata precisa chiaramente che il presupposto dell'imposta regionale sulle unità da diporto non riguarda la mera utilizzazione del "mare", ma «lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale», cioè l'utilizzazione di strutture poste all'interno del territorio sardo.

 

Con riferimento alle censure prospettate dal ricorrente in via subordinata evocando gli artt. 117 e 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, va ribadito che esse sono inammissibili per le ragioni già esposte al punto 5.3.

 

8.1.3. - Con la censura sub b), il ricorrente afferma che la norma denunciata, con riguardo agli aeromobili, si pone in contrasto con l'art. 53 Cost., sia perché il tributo regionale costituisce una «duplicazione di imposta» rispetto a quanto previsto dalla legge statale in materia di diritti aeroportuali o per l'uso degli aeroporti, sia perché l'operazione di scalo non rappresenta un indice di capacità contributiva, dovendo l'utente degli aerodromi già pagare un prezzo per il servizio da lui goduto.

 

Anche tale censura non è fondata.

 

La difesa erariale muove da tre diverse premesse: che i suddetti diritti aeroportuali previsti dalla vigente legislazione statale siano classificabili come tributi; che l'imposta regionale sia dovuta in ragione dei servizi utilizzati nelle operazioni di scalo negli aerodromi; che i tributi propri della Regione Sardegna non possano prevedere presupposti identici o analoghi a quelli di tributi statali.

 

Tali premesse sono erronee.

 

Quanto alla prima, va rilevato che, ai sensi della norma interpretativa posta dall'art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, i diritti aeroportuali previsti dalla legge 5 maggio 1976, n. 324 (Nuove norme in materia di diritti per l'uso degli aeroporti aperti al traffico civile) non costituiscono tributi, ma corrispettivi civilistici di alcuni servizi aeroportuali (in tal senso, Corte di cassazione, sentenza n. 379 del 2008, nonché la sentenza di questa Corte n. 51 del 2008). A ciò deve aggiungersi che il soggetto tenuto al pagamento dei diritti aeroportuali di approdo (oltre che di partenza, sosta o ricovero) non è l'esercente dell'aeromobile adibito a trasporto privato (come nell'imposta regionale in esame), ma il pilota dell'aeromobile, ove questo non svolga attività commerciale (artt. 2, secondo comma, e 3, secondo comma, della citata legge n. 324 del 1976).

 

Quanto alla seconda premessa, va osservato che l'imposta regionale prescinde dall'obbligo a carico del soggetto passivo di corr ispondere i corrispettivi dovuti per i servizi utilizzati nello scalo dell'aeromobile, in quanto il tributo è dovuto dal soggetto passivo per il solo fatto che l'aeromobile da lui esercito ed adibito a trasporto privato effettui uno scalo in un aerodromo ubicato nel territorio sardo, indipendentemente dalla circostanza che l'aeromobile abbia in concreto usufruito di servizi aeroportuali o che detto soggetto passivo sia debitore di diritti aeroportuali (l'imposta è dovuta, ad esempio, anche se il soggetto passivo sia lo stesso gestore autorizzato a fornire i servizi aeroportuali).

 

Quanto alla terza premessa, è qui sufficiente ricordare le conclusioni sopra raggiunte, esposte al punto 5.3., circa l'inesistenza di un divieto per la Regione Sardegna di istituire e disciplinare tributi propri aventi lo stesso presupposto di tributi statali.

 

Ne consegue che: a) non sussistono due diverse imposte, una statale (i diritti aeroportuali) ed una regionale (l'imposta sull'aeromobile), ma soltanto l'imposta regionale; b) il presupposto dell'imposta regionale (lo scalo nel territorio sardo) è diverso dal fatto costitutivo dell'obbligo di corrispondere i diritti aeroportuali (godimento dei servizi aeroportuali); c) in ogni caso, un tributo proprio stabilito dalla Regione Sardegna non sarebbe illegittimo per il solo fatto di avere un presupposto identico o simile a quello di un tributo statale. È appena il caso di sottolineare, infine, che - contrariamente a quanto affermato dal ricorrente - non possono sussistere dubbi sul fatto che il presupposto d'imposta (cioè l'effettuazione di uno scalo in un aerodromo sito nel territorio sardo nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno) costituisce idoneo indice di capacità contributiva dell'esercente dell'aeromobile.

 

8.1.4. - Con la censura sub c), il ricorrente deduce, infine, che la norma denunciata, con riguardo alle unità per la navigazione da diporto, víola gli artt. 3 e 53, secondo comma, Cost., perché, essendo l'imposta regionale dovuta annualmente in misura fissa con riferimento a ciascuna classe di lunghezza delle unità da diporto, «l'effetto è che, piú si utilizzano le strutture portuali, minore, proporzionalmente è l'onere dell'imposta che, in questo modo, viene ad avere carattere regressivo».

 

La censura non è fondata.

 

In base alla norma denunciata, l'imposta non è dovuta per le unità per la navigazione da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali (oltre che per quelle adibite all'esercizio di attività crocieristica e per quelle che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo), mentre è dovuta annualmente per le unità che effettuano scalo (nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno) nei porti, approdi o punti d'ormeggio ubicati nel territorio regionale, nella misura: a) di [euro ] 1.000,00 per le imbarcazioni di lunghezza compresa tra 14 e 15,99 metri; b) di [euro ] 2.000,00 per le imbarcazioni di lunghezza compresa tra 16 e 19,99 metri; c) di [euro ] 3.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 20 e 23,99 metri; d) di [euro ] 5.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 24 e 29,99 metri; e) di [euro ] 10.000,00 per le navi di lunghezza compresa tra 30 e 60 metri; f) di [euro ] 15.000,00 per le navi di lunghezza superiore a 60 metri; g) della metà degli importi precedenti per le unità a vela con motore ausiliario. Da tale disciplina emerge che il legislatore regionale, nel prevedere l'imposta in misura fissa (per classi di lunghezza dell'imbarcazione) e nell'esentare dall'imposta medesima le unità da diporto che sostino tutto l'anno nei porti sardi, ha evidentemente perseguito l'intento di favorire una piú intensa utilizzazione delle suddette strutture da parte delle imbarcazioni, ritenendo preferibile, da un punto di vista economico complessivo, incentivare fiscalmente uno stabile collegamento dei soggetti passivi con il territorio. Tale ratio non è arbitraria, né irragionevole.

 

Quanto alla dedotta violazione dell'art. 53, secondo comma, Cost., è sufficiente ricordare che questa Corte ha costantemente affermato che «i criteri di progressività» debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi (ex plurimis, sentenza n. 128 del 1966). Ne deriva che, contrariamente alla tesi sostenuta dal ricorrente, la denunciata imposta regionale sulle unità da diporto non víola il citato parametro costituzionale per il solo fatto che l'ammontare del tributo è «regressivo», nel senso che non aumenta né proporzionalmente né piú che proporzionalmente all'utilizzazione degli scali nautici sardi.

 

8.2. - L'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 (con effetto dal 31 maggio 2007, ai sensi dell'art. 37 di quest'ultima legge), istituisce, a decorrere dall'anno 2006, l'«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto», riproducendo sostanzialmente l'originaria formulazione della disposizione (punto 8.1.) ed apportando, per quanto qui interessa, le seguenti modifiche: a) il soggetto passivo dell'imposta (cioè l'esercente dell'aeromobile o dell'unità da diporto, avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale) non è piú indicato come una «persona o [...] società», ma come una «persona fisica o giuridica»; b) l'esenzione dall'imposta è prevista anche per le imbarcazioni che fanno scalo per partecipare a raduni di barche d'epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all'Autorità marittima da parte degli organizzatori; nonché per la sosta tecnica degli aeromobili e delle imbarcazioni, limitatamente al tempo necessario per l'effettuazione della stessa; c) l'esenzione non è piú prevista per le navi adibite all'esercizio di attività crocieristica; d) l'imposta è dovuta non per le sole unità da diporto, ma anche per le «unità utilizzate a scopo di diporto»; e) l'imposta è dovuta anche per lo scalo nei «campi d'ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna».

 

8.2.1. - Con il secondo ricorso (n. 36 del 2007), il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione impugnata con diversi gruppi di parametri costituzionali: a) con i parametri da esso già evocati in relazione ai denunciati artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti dall'art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. n. 2 del 2007, per «quanto si già è visto trattando dei commi precedenti» (cioè dei commi 1 e 2 dell'art. 3 della citata legge reg. n. 2 del 2007); b) con gli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., perché l'imposta investirebbe la materia della concorrenza, riservata alla competenza legislativa statale, incidendo, di conseguenza, sull'unità economica della Repubblica; c) con «l'art. 3, la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza»; d) con gli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché l'imposta regionale, applicandosi anche nel caso di scalo delle unità da diporto nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale, violerebbe il principio secondo cui i presupposti delle imposte regionali non possono «essere individuati fuori del [...] territorio» della Regione (limitato dall'art. 1 dello statuto alla «Sardegna con le sue isole»); e) con gli artt. 3 e 53 Cost., espressivi del principio di ragionevolezza, perché: e.1.) «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta»; e.2.) l'imposta avrebbe carattere regressivo, in quanto il suo ammontare diminuisce proporzionalmente all'aumentare del numero dei passeggeri che l'aeromobile è abilitato a trasportare e della lunghezza delle unità da diporto ed in quanto, con riferimento a queste ultime, è pagata una sola volta per tutto l'anno, cosí che «piú scali si fanno, meno sarà in proporzione l'onere tributario»; e.3.) il tributo, con riferimento allo scalo degli aeromobili, costituirebbe una duplicazione dei diritti aeroportuali previsti dalla legge n. 324 del 1976, dovuti, per l'utilizzazione degli impianti aeroportuali, al gestore dell'aeroporto; e.4.) il medesimo tributo, sempre con riferimento allo scalo degli aeromobili, «non può essere definito imposta, perché colpisce i singoli atti di esercizio di un'impresa e non il risultato utile complessivo», né tassa, «perché riscossa da chi non ha nessun coinvolgimento nel servizio utilizzato»; f) con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all'art. 49 del Trattato CE, perché introdurrebbe «una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici e aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo», sia all'art. 81 del Trattato CE, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», perché avrebbe l'effetto di falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune, sia all'art. 87 del Trattato CE, perché istituirebbe un aiuto alle imprese con sede in Sardegna. Afferma, inoltre, che «delle questioni comunitarie dovrebbe essere investita la Corte di Giustizia».

 

Gli indicati motivi di illegittimità costituzionale vanno esaminati separatamente, lasciando per ultimo, secondo un ordine di priorità logica, lo scrutinio della dedotta violazione di norme dell'ordinamento comunitario.

 

8.2.2. - Prima di passare all'esame delle singole censure, deve essere esaminata l'eccezione di inammissibilità proposta dalla resistente.

 

La Regione Sardegna sostiene che, riguardo all'imposta regionale sullo scalo turistico di aeromobili e unità da diporto, i rilievi del ricorrente - per cui non sarebbe consentito fissare l'imposta anche per gli scali di unità da diporto nei campi di ormeggio situati nel mare territoriale perché il mare territoriale non farebbe parte del territorio regionale - sono inammissibili, in quanto non proposti dal Governo nella deliberazione del Consiglio dei ministri del 27 luglio 2007.

 

L'eccezione va rigettata, perché la deliberazione governativa di impugnazione contiene il riferimento a tutti i parametri evocati nel ricorso e ciò è sufficiente - come già osservato al punto 6.3. - ai fini dell'ammissibilità di quest'ultimo (sentenza n. 533 del 2002).

 

8.2.3. - Le censure indicate sub a) si sostanziano nel mero rinvio, privo di qualsiasi specificazione, a quelle sollevate con il medesimo ricorso n. 36 del 2007 in relazione agli artt. 2 e 3 della legge reg. n. 4 del 2006, quali sostituiti, rispettivamente, dal comma 1 e dal comma 2 dell'art. 3 della legge reg. n. 2 del 2007.

 

Le censure sono inammissibili, perché sono state prospettate in modo generico, senza l'indicazione di alcun elemento idoneo a renderle pertinenti all'imposta denunciata. La questione, infatti, pur riguardando l'«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto», è sollevata con un richiamo alle questioni riguardanti tributi radicalmente diversi (cioè l'«imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico» e l'«imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico») ed in termini talmente vaghi da lasciare inadempiuto l'onere del ricorrente di precisare i motivi dell'affermata illegittimità costituzionale con specifiche argomentazioni a sostegno delle proprie doglianze, come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze n. 38 del 2007; n. 233 e n. 139 del 2006; n. 360 e n. 336 del 2005).

 

8.2.4. - Con la censura sub b), il ricorrente deduce che la norma denunciata, in quanto investirebbe la materia della concorrenza, si pone in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., introdotto con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione nell'àmbito della nuova disciplina del riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario.

 

La censura è inammissibile, perché il ricorrente non fornisce alcuna motivazione in ordine all'individuazione di tale parametro costituzionale. La difesa erariale, infatti, non chiarisce per quale ragione la competenza legislativa attribuita dallo statuto regionale alla Regione autonoma Sardegna in materia di tributi propri dovrebbe essere limitata da una disposizione della Costituzione dettata per disciplinare il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario. Come è noto, il piú volte richiamato art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 stabilisce che la disciplina costituzionale riguardante tale riparto di competenze, introdotta con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, è applicabile alle Regioni a statuto speciale solo nel caso in cui preveda forme di autonomia piú ampie di quelle previste dallo statuto, mentre, nella specie, lo stesso ricorrente afferma che l'applicazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., comporterebbe una limitazione dell'autonomia legislativa della Regione Sardegna quale prevista dallo statuto. Inoltre il ricorrente, in violazione del suo onere di specificare le proprie censure, non fornisce alcuna motivazione di merito sul perché la denunciata normativa regionale, emanata in forza della competenza legislativa esclusiva della Regione autonoma in materia di tributi propri, investirebbe «la materia della concorrenza». L'evocazione dell'art. 120 Cost. è parimenti generica. Tale censura, infatti, non ha alcuna autonomia rispetto alla denunciata violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto il ricorrente si limita ad affermare - senza ulteriori precisazioni - che la norma censurata, investendo la «materia della concorrenza», incide «di conseguenza sulla unità economica della Repubblica».

 

8.2.5. - Deve essere dichiarata inammissibile anche la censura sub c), perché il ricorrente, da un lato, non precisa il parametro costituzionale evocato, indicando «l'art. 3» di un non meglio specificato testo normativo, e, dall'altro, prospetta i motivi di illegittimità costituzionale in modo oscuro e generico, limitandosi ad affermare la violazione del suddetto art. 3, «la cui tutela nella iniziativa economica è affidata alla normativa sulla concorrenza».

 

8.2.6. - Con la censura sub d), il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1, 3, 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, affermando che l'imposta regionale, applicandosi anche nel caso di scalo delle unità da diporto nei campi di ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna, violerebbe il principio secondo cui i presupposti delle imposte regionali non possono «essere individuati fuori del [...] territorio» della Regione (limitato dall'art. 1 dello statuto alla «Sardegna con le sue isole»). Il ricorrente muove, pertanto, dalla premessa che i suddetti campi di ormeggio, in quanto ubicati nel mare territoriale, rientrano nel demanio marittimo statale e da tale premessa trae la conseguenza che la Regione resistente non ha competenza "territoriale" a stabilire un'imposta regionale sullo scalo in detti campi di ormeggio (lo stesso ricorrente, peraltro, non estende le sue censure all'analogo caso dell'imposta regionale sullo scalo in porti della Sardegna facenti parte del demanio marittimo statale).

 

La censura non è fondata, perché, nonostante sia esatta la premessa da cui muove il ricorrente, tuttavia non è corretta la conseguenza che ne viene tratta.

 

È indubbio che i menzionati campi di ormeggio, ubicati nel mare territoriale (come delimitato dall'art. 2 del codice della navigazione), devono essere considerati, in forza degli artt. 28 e 29 cod. nav., pertinenze del demanio marittimo, e cioè beni rientranti nel demanio statale. Il demanio marittimo, infatti, non è stato trasferito alla Regione resistente, perché il primo comma dell'art. 14 dello statuto di autonomia espressamente esclude, con riferimento a tale demanio, che la Regione Sardegna succeda nei beni e diritti dello Stato. Tuttavia, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, il fatto che i menzionati campi di ormeggio rientrino nel demanio marittimo non comporta che la Regione sia incompetente a stabilire un'imposta regionale sullo scalo in detti campi di ormeggio. Infatti, questa Corte ha già precisato che, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale dell'esercizio dei poteri legislativi della Regione Sardegna nell'àmbito del mare territoriale, «non importa se il mare territoriale sia demanio marittimo o meno e neppure se si tratti di acque del mare territoriale o di acque del demanio marittimo», in quanto occorre solo verificare i limiti della potestà normativa della Regione, con la conseguenza che «neppure può dirsi che il mare territoriale sia una nozione rilevante [...] per stabilire i limiti territoriali dell'efficacia della legge regionale»; e ciò perché, «anche se il mare territoriale non facesse parte del territorio della Regione a tutti gli effetti della competenza regionale, l'attribuzione alla Regione dei poteri legislativi ed amministrativi» in una determinata materia «importa che la disciplina regionale [...] debba estendere la propria efficacia fino all'estremo margine dello spazio marittimo che circonda il territorio e sul quale, sia pure a titolo accessorio, si esercita il potere dello Stato» (sentenza n. 23 del 1957, in tema di competenza della Regione Sardegna in materia di pesca nel mare territoriale).

 

Il mare territoriale, nel quale sono ubicati i suddetti campi di ormeggio, viene pertanto in rilievo come mero àmbito spaziale in relazione al quale la legge regionale è legittimata a prevedere fattispecie ed effetti giuridici, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle attribuzioni legislative della Regione.

 

In generale, non v'è dubbio che la Regione Sardegna, in forza sia dello statuto e del decreto attuativo di cui al d.P.R. 24 novembre 1965, n. 1627, riguardante il demanio marittimo e il mare territoriale, sia delle norme con le quali si è disposto il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni in materia (articolo 105, comma 2, lettera l, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 e successive modificazioni), è legittimata ad esercitare un complesso di poteri sullo stesso mare territoriale, che coesistono con quelli spettanti allo Stato: poteri, quindi, che prescindono da ogni problema relativo all'appartenenza del mare territoriale e che sono suscettibili di essere regolati anche dalla legge regionale (come rilevato dalla citata sentenza n. 23 del 1957).

 

In particolare, non v'è parimenti dubbio che, con riferimento al mare territoriale, lo statuto di autonomia e i princípi del sistema tributario statale richiamati dall'art. 8, lettera h), dello statuto medesimo non pongono alcun limite alla potestà impositiva della Regione. Invero, tra i princípi del sistema tributario statale il ricorrente correttamente menziona quello della "territorialità" dei tributi locali. La difesa erariale vuole tuttavia accreditare, a tale fine, un'accezione ristretta del termine "territorio" (comprensiva solo della "terraferma" e delle "acque interne"), senza fornire alcuna adeguata giustificazione di tale sua opzione ermeneutica e limitandosi a richiamare il testo dell'art. 1, primo comma, dello statuto, secondo cui «La Sardegna con le sue isole è costituita in Regione autonoma [...]». Al contrario, né la lettera, né la ratio di detta disposizione autorizzano la dedotta interpretazione restrittiva della sfera spaziale di efficacia delle leggi regionali. Non la lettera, perché il citato art. 1 non utilizza il termine "territorio"; non la ratio, perché la norma ha solo la funzione di costituire la Regione autonoma e non quella di determinare la sfera spaziale delle sue competenze legislative e amministrative. È invece evidente che, alla luce di quanto affermato da questa Corte con la richiamata sentenza n. 23 del 1957, il territorio non va inteso nella ristretta, materiale accezione fatta propria dal ricorrente, ma nell'accezione piú ampia di àmbito in cui si esplica il legittimo potere normativo della Regione, compreso quello di istituire tributi. Tale potere può esplicarsi, dunque, anche con riferimento al mare territoriale, a condizione che la Regione resistente lo eserciti per tutelare interessi di rilevanza regionale, come l'interesse a regolare l'afflusso turistico anche attraverso lo strumento fiscale.

 

La norma impugnata soddisfa pienamente tale condizione, perché individua quale presupposto di imposta lo scalo in campi di ormeggio «ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna», e cioè in luoghi attrezzati che, pur non essendo materialmente e stabilmente connessi con la terraferma, tuttavia consentono di collegare il presupposto medesimo con la realtà turistico-ambientale regionale. Nella specie, questo collegamento è dato dal fatto che i menzionati campi di ormeggio, consentendo gli scali nel periodo di maggiore afflusso turistico da parte di imbarcazioni aventi una spiccata utilizzazione turistica (unità «da diporto» o comunque «utilizzate a scopo di diporto»), non solo rendono possibile l'immediata fruizione di beni turistico-ambientali, ma rappresentano anche la base per l'accesso di persone fisiche nelle isole sarde, con la conseguenza che la norma censurata, in quanto diretta a perseguire interessi tipicamente regionali e come tali espressamente valorizzati dallo statuto di autonomia, non è in contrasto con l'evocato parametro costituzionale.

 

8.2.7. - Con la censura sub e), il ricorrente denuncia, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., la violazione, sotto quattro profili, del principio di ragionevolezza.

 

Nessuno dei suddetti rilievi è fondato.

 

8.2.7.1. - Quanto al primo rilievo - secondo cui «una attività esercitata nella stessa forma non può essere considerata espressione di capacità contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta» -, deve rilevarsi (come già osservato al punto 8.1.3.) che l'effettuazione dello scalo nel periodo di maggior afflusso turistico costituisce un indice adeguato della capacità contributiva dei soggetti passivi dell'imposta, non arbitrariamente prescelto dal legislatore. In particolare, l'applicazione dell'imposta a chi effettua lo scalo in quel periodo evidenzia che la norma ha, tra le sue rationes, quella di incentivare lo scalo negli altri periodi dell'anno, al fine di consentire una sostenibile distribuzione degli afflussi turistici (o, comunque, prevalentemente turistici) nel territorio sardo. Tale ratio si aggiunge a quella, primaria, di far partecipare i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna - che, differentemente dai soggetti fiscalmente domiciliati nella Regione, non pagano nella stessa Regione la maggior parte delle imposte, tasse e contributi erariali, regionali e locali - ai costi pubblici determinati dalla fruizione turistica del patrimonio ambientale-naturale e di quello storico-artistico (in ciò presentando un tratto comune con l'imposta regionale sul soggiorno, che sarà esaminata in séguito, in quanto oggetto di apposita censura).

 

8.2.7.2. - Quanto al secondo rilievo, concernente l'asserita regressività dell'imposta sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto, va ribadito che tale caratteristica è di per sé irrilevante ai fini della dedotta illegittimità costituzionale della norma denunciata. Come già osservato a proposito del primo ricorso (punto 8.1.4.), deve essere ricordato che, ai sensi dell'art. 53, secondo comma, Cost., «i criteri di progressività» debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi.

 

In particolare, in base alla norma censurata, l'imposta non è dovuta per le unità da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali, mentre è dovuta annualmente per lo scalo delle unità da diporto o comunque utilizzate a scopo di diporto (nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno), nella stessa misura fissata, per classi di lunghezza delle unità, dalla originaria formulazione dell'articolo (nel nuovo testo della disposizione si precisa che l'importo dovuto per i motorsailer è quello previsto per la particolare categoria delle unità a vela con motore ausiliario).

 

Come sopra sottolineato a proposito del primo ricorso (punto 8.1.4.), da tale disciplina emerge che il legislatore regionale ha evidentemente perseguito l'intento di favorire una piú intensa utilizzazione delle strutture portuali da parte delle imbarcazioni, ritenendo preferibile, da un punto di vista economico complessivo, incentivare fiscalmente uno stabile collegamento dei soggetti passivi con il territorio. Una tale ratio posta a fondamento della commisurazione del tributo non supera i limiti della non arbitrarietà e della ragionevolezza che la Regione resistente deve rispettare nell'esercizio della sua discrezionalità legislativa.

 

Analoghe considerazioni valgono per l'imposta sullo scalo turistico degli aeromobili, dovuta per gli aeromobili dell'aviazione generale adibiti al trasporto privato di persone, per ogni scalo effettuato negli aerodromi del territorio regionale nel periodo compreso tra il 1° giugno ed il 30 settembre di ciascun anno (esclusi i casi di sosta tecnica, limitatamente al tempo necessario per l'effettuazione della stessa), nella misura: a) di [euro ] 150,00 per gli aeromobili abilitati fino al trasporto di quattro passeggeri; b) di [euro ] 400,00 per gli aeromobili abilitati al trasporto da cinque a dodici passeggeri; c) di [euro ] 1.000,00 per gli aeromobili abilitati al trasporto di oltre dodici passeggeri. Da tale disciplina emerge che il legislatore regionale, nel prevedere l'imposta in misura meno che proporzionale al numero dei passeggeri trasportabili, ha tendenzialmente inteso favorire, dal punto di vista fiscale, un minor afflusso di aeromobili a parità di passeggeri trasportati e, quindi, il decongestionamento del traffico aereo nel periodo tra il 1° giugno ed il 30 settembre. Una siffatta ratio non appare né arbitraria né irragionevole e, pertanto, la norma impugnata è esente dalle censure prospettate.

 

8.2.7.3. - Quanto al terzo rilievo, secondo cui l'imposta sullo scalo degli aeromobili costituirebbe una duplicazione dei diritti aeroportuali, data l'identità della questione, valgono anche qui le conclusioni già raggiunte in occasione dell'esame del primo ricorso (punto 8.1.4.) circa l'insussistenza della dedotta "duplicazione d'imposta".

 

8.2.7.4. - Il quarto rilievo viene riferito dal ricorrente esclusivamente all'imposta sullo scalo degli aeromobili ed è basato sulla considerazione che detto prelievo sarebbe irragionevole, perché non definibile né come imposta né come tassa.

 

Neppure tale argomentazione è fondata. Il prelievo previsto dalla norma censurata, infatti, ha natura non di tassa (in quanto, come sopra sottolineato, non è collegato alla fruizione di servizi aeroportuali), ma di imposta, perché costituisce un prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva (cioè l'effettuazione di uno scalo in un aerodromo, nell'àmbito di un «trasporto privato di persone»).

 

Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che il prelievo censurato non costituirebbe un'imposta in quanto inciderebbe «sui singoli atti di esercizio di un'impresa e non sul risultato utile complessivo». Il tributo in esame, infatti, non costituisce un'imposta sul reddito d'impresa, per la quale soltanto potrebbe porsi un problema di valutazione del «risultato utile complessivo», come si esprime il ricorrente.

 

Inoltre, il tributo denunciato non presuppone necessariamente - come erroneamente ritiene il ricorrente - l'esercizio di un'attività di impresa di trasporti aerei. A tale ultima conclusione si giunge attraverso la ricostruzione del complesso quadro normativo in cui si inserisce la norma censurata, secondo la quale l'imposta si applica con riferimento agli «aeromobili dell'aviazione generale di cui all'articolo 743 e seguenti del codice della navigazione adibiti al trasporto privato di persone». In realtà, detti articoli del codice della navigazione, nel testo vigente al momento dell'entrata in vigore della disposizione denunciata, non fanno menzione né dell'«aviazione generale» né della distinzione degli «aeromobili privati» in tre categorie: a) «aeromobili da trasporto pubblico destinati a trasportare persone o cose mediante compenso di qualsiasi natura, ovvero anche senza compenso, se il trasporto è effettuato da una impresa di trasporti aerei»; b) «aeromobili da lavoro aereo, destinati a scopi industriali e commerciali o ad altra utilizzazione con compenso, che non siano di trasporto di persone o cose»; c) «aeromobili da turismo, destinati a scopo diverso da quelli indicati nei commi precedenti e senza compenso»; distinzione prevista solo dal previgente testo dell'art. 747 cod. nav. - anteriore, cioè, alla sua abrogazione ad opera dell'art. 5 del decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96 - e ripetuta quasi letteralmente dall'art. 137 del Regolamento per la navigazione aerea, approvato con regio decreto 11 gennaio 1925, n. 356, come modificato dall'art. 8 degli emendamenti approvati con regio decreto 15 aprile 1938, n. 1350. Il terzo comma dell'art. 743 cod. nav. statuisce invece, nella formulazione vigente, che «Le distinzioni degli aeromobili, secondo le loro caratteristiche tecniche e secondo il loro impiego, sono stabilite dall'ENAC con propri regolamenti e, comunque, dalla normativa speciale in materia». Al corretto significato della norma censurata si perviene, perciò, solo attraverso l'esame di tali regolamenti. In particolare, l'art. 1 del regolamento dell'Ente Nazionale per l'Aviazione Civile (ENAC) del 30 giugno 2003 (denominato «Operazioni Ogni Tempo nello Spazio Aereo Nazionale») definisce le seguenti operazioni secondo l'impiego dell'aeromobile: a) «operazioni di trasporto aereo commerciale»: quelle che «comportano il trasporto di passeggeri, merci e posta dietro compenso» (art. 1.1.); b) «operazioni di lavoro aereo»: quelle effettuate da un «aeromobile utilizzato per attività specialistiche quali ad esempio aerofotografia, pubblicità aerea, sorveglianza ed osservazioni, spargimento sostanze, trasporto carichi esterni, ecc.)» (art. 1.2.); c) «operazioni dell'aviazione generale»: quelle «diverse dal trasporto aereo commerciale e dal lavoro aereo» (art. 1.3.). Analogamente, il regolamento del 21 ottobre 2003 (denominato «Regolamento per la costruzione e l'esercizio degli aeroporti») definisce: a) «trasporto aereo commerciale», il «traffico effettuato per trasportare persone o cose dietro remunerazione. Esso comprende quindi il trasporto aereo di linea, charter e aerotaxi»; b) «trasporto aereo non commerciale o di aviazione generale», il «traffico diverso dal trasporto aereo commerciale; esso comprende sostanzialmente l'attività degli aeroclub, delle scuole di volo, dei piccoli aerei privati ed i servizi di lavoro aereo».

 

In base a tale ricostruzione del quadro normativo, il «trasporto aereo privato di persone», da parte di aeromobili dell'aviazione generale, menzionato dalla norma censurata è solo quello effettuato con un aeromobile mediante operazioni di «aviazione generale», cioè mediante operazioni prestate senza compenso e diverse dal «lavoro aereo». Costituisce, perciò, «trasporto aereo privato di persone», soggetto all'imposta regionale, anche il trasporto effettuato senza compenso da un'impresa di trasporti aerei, che (come sopra ricordato) l'abrogato testo dell'art. 747 cod. nav. riconduceva, invece, al «trasporto pubblico». Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'applicazione della denunciata imposta regionale non presuppone mai l'esercizio dell'attività di impresa di trasporti, salvo che nella sopra indicata eccezionale ipotesi di trasporto effettuato senza compenso da parte di una impresa di trasporti aerei, rientrante nel piú generale caso, previsto dalla normativa comunitaria, di "aviazione generale di affari" (infra punto 8.2.8.4.).

 

8.2.8. - Infine, con la censura sub f), il ricorrente prospetta, con riferimento ai soggetti che esercitano attività d'impresa, la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al Trattato CE, con riguardo agli artt. 49 (posto a tutela della libera prestazione dei servizi), 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10» (posti a tutela della concorrenza), 87 (riguardante il divieto di aiuti di Stato) e richiede, al riguardo, che sia effettuato il rinvio pregiudiziale di cui all'art. 234 del Trattato CE. Tale prospettazione impone di affrontare preliminarmente i seguenti problemi: 1) se sia ammissibile la censura con la quale si evocano, per il tramite del primo comma dell'art. 117 Cost., norme comunitarie come elementi integrativi del parametro di costituzionalità; 2) quali siano i limiti entro cui le norme comunitarie possono essere prese in considerazione da questa Corte come elemento integrativo del parametro in sede di giudizio di costituzionalità promosso in via principale; 3) se sussistano le condizioni perché questa Corte sollevi questione interpretativa pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE. Solo dopo la risoluzione di tali problemi, potrà procedersi allo scrutinio della non manifesta infondatezza e della rilevanza di detta questione pregiudiziale.

 

8.2.8.1. - Come piú volte affermato da questa Corte, l'art. 11 Cost., prevedendo che l'Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 349 e n. 284 del 2007; n. 170 del 1984). Il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 - nel disporre che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario [...]» -, ha ribadito che i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario si impongono al legislatore nazionale (statale, regionale e delle Province autonome). Da tale quadro normativo costituzionale consegue che, con la ratifica dei Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base all'art. 11 Cost., l'esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme comunitarie vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell'intangibilità dei princípi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell'uomo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007, n. 170 del 1984).

 

Con specifico riguardo al caso, che qui interessa, di leggi regionali della cui compatibilità con il diritto comunitario (come interpretato e applicato dalle istituzioni e dagli organi comunitari) si dubita, va rilevato che l'inserimento dell'Italia nell'ordinamento comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale. Nel primo caso, le norme comunitarie, se hanno efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le leggi nazionali (comprese quelle regionali), ove le ritenga non compatibili. Nel secondo caso, le medesime norme «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all'art. 117, primo comma, Cost.» (sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004), o, piú precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario.

 

Questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi.

 

Davanti al giudice comune la legge regionale deve essere applicata ad un caso concreto e la valutazione della sua conformità all'ordinamento comunitario deve essere da tale giudice preliminarmente effettuata al fine di procedere all'eventuale disapplicazione della suddetta legge, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE - ove necessario - per l'interpretazione del diritto comunitario. Una volta esclusa tale disapplicazione, il giudice potrà bensí adire la Corte costituzionale, ma solo per motivi di non conformità del diritto interno all'ordinamento costituzionale e non per motivi di non conformità all'ordinamento comunitario. Ne consegue che, ove il giudice comune dubitasse della conformità della legge nazionale al diritto comunitario, il mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE renderebbe non rilevante e, pertanto, inammissibile la questione di legittimità costituzionale da lui sollevata.

 

Davanti alla Corte costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione della conformità della legge regionale alle norme comunitarie si risolve, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale; con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma - come già osservato - ne dichiara l'illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes (ex multis, sentenza n. 94 del 1995).

 

In conclusione, alla luce di quanto sopra rilevato, la censura in esame deve ritenersi ammissibile, perché le norme comunitarie sono state correttamente evocate dal ricorrente nel presente giudizio, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di costituzionalità.

 

8.2.8.2. - Quanto ai limiti entro cui dette norme possono essere prese in considerazione come elemento integrativo del parametro in sede di giudizio di costituzionalità promosso in via principale, va osservato che questa Corte non può esaminare violazioni diverse da quelle denunciate dal ricorrente, riguardanti gli artt. 49, 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», e 87 del Trattato CE.

 

Secondo l'interpretazione costantemente data da questa Corte al combinato disposto degli artt. 23, 27 e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (per cui, anche nei giudizi in via principale, la Corte costituzionale dichiara quali sono le disposizioni legislative illegittime, nei limiti dei parametri costituzionali e dei motivi di censura indicati nell'atto introduttivo del giudizio), il giudizio di legittimità costituzionale ha la peculiare caratteristica di essere vincolato al thema decidendum posto dall'atto introduttivo, in ordine all'oggetto, al parametro e ai motivi di censura. Questa Corte, in particolare, non ha il potere di dichiarare che la norma censurata è illegittima per la violazione di parametri costituzionali diversi da quelli indicati nell'atto introduttivo. Può, invece, prendere in considerazione norme costituzionali non evocate a parametro solo ove in esse rinvenga il fondamento giustificativo della norma censurata. Tale limitazione del principio iura novit curia (il quale è applicabile in misura ben piú ampia nei giudizi comuni) opera anche per le disposizioni integrative del parametro costituzionale evocate a sostegno dell'illegittimità della norma denunciata e, quindi, anche nel caso di specie, in cui viene dedotta la violazione dei suddetti articoli del Trattato CE, in relazione al primo comma dell'art. 117 Cost.

 

8.2.8.3. - Poste tali premesse, occorre ora verificare se sussistano le condizioni perché questa Corte, al pari del giudice comune, possa sollevare davanti alla Corte di giustizia CE - nel caso in cui la questione di conformità alla normativa comunitaria non sia manifestamente infondata - questione pregiudiziale sull'interpretazione del diritto comunitario ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE (secondo il quale, «La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull'interpretazione del presente trattato [...]. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia»).

 

La risposta, al riguardo, è positiva, perché questa Corte, pur nella sua peculiare posizione di organo di garanzia costituzionale, ha natura di giudice e, in particolare, di giudice di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione: art. 137, terzo comma, Cost.). Essa pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, è legittimata a proporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE.

 

Tale conclusione è confermata dalle seguenti considerazioni.

 

In primo luogo, la nozione di «giurisdizione nazionale» rilevante ai fini dell'ammissibilità del rinvio pregiudiziale deve essere desunta dall'ordinamento comunitario e non dalla qualificazione "interna" dell'organo rimettente. Non v'è dubbio che la Corte costituzionale italiana possiede requisiti individuati a tal fine dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE per attribuire tale qualificazione.

 

In secondo luogo, nell'àmbito dei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale, questa Corte è l'unico giudice chiamato a pronunciarsi in ordine al loro oggetto, in quanto - come già sopra osservato - manca un giudice a quo abilitato a definire la controversia, e cioè ad applicare o a disapplicare direttamente la norma interna non conforme al diritto comunitario. Pertanto, non ammettere in tali giudizi il rinvio pregiudiziale di cui all'art. 234 del Trattato CE comporterebbe un'inaccettabile lesione del generale interesse all'uniforme applicazione del diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE.

 

8.2.8.4. - Quanto alle violazioni del diritto comunitario denunciate dal ricorrente, questa Corte ritiene opportuno sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, esclusivamente con riguardo alle violazioni degli artt. 49 e 87 del Trattato CE, riservando al prosieguo de l giudizio ogni decisione sulla violazione dell'art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», anche in relazione alla pertinenza di tale combinato disposto con la norma censurata.

 

Venendo ora all'esame della non manifesta infondatezza delle suddette questioni pregiudiziali di interpretazione delle norme comunitarie evocate, riguardanti l'applicazione dell'imposta sullo scalo degli aeromobili e delle unità da diporto, va premesso che, in base alla disposizione censurata, tale imposta si applica: a) alle imprese esercenti unità da diporto (o, comunque, utilizzate a scopo di diporto) non fiscalmente domiciliate in Sardegna, e, in particolare, alle imprese la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere dette unità a disposizione di terzi; b) alle imprese esercenti «aeromobili dell'aviazione generale [...] adibiti al trasporto privato di persone», cioè alle imprese che effettuano operazioni di trasporto aereo (diverse dal «lavoro aereo»), senza compenso, e, quindi, nell'àmbito della cosiddetta "aviazione generale di affari", definita dall'art. 2, lettera l), del Regolamento (CEE) n. 95/93 del Consiglio, del 18 gennaio 1993 (Norme comuni per l'assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità), come attività di aviazione generale effettuata dall'esercente con trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività di impresa (il quadro normativo concernente gli aeromobili dell'aviazione generale è ricostruito supra, al punto 8.2.7.4.).

 

Riguardo a tali imprese, non può escludersi che il loro assoggettamento a tassazione nel solo caso in cui non abbiano domicilio fiscale in Sardegna crei una discriminazione e un conseguente aggravio di costi rispetto a quelle che, pur svolgendo la stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di avere domicilio fiscale in Sardegna. In entrambi i casi - e cioè, con riferimento tanto all'ampio mercato dell'utilizzazione commerciale delle unità da diporto, quanto al piú ristretto mercato delle imprese che effettuano direttamente trasporti aerei aziendali di persone senza remunerazione - può ipotizzarsi, infatti, che l'applicazione della censurata imposta regionale di scalo dia luogo a un aggravio selettivo del costo dei servizi resi dalle imprese "non residenti", che assume rilevanza per l'ordinamento comunitario sia come restrizione alla libera prestazione dei servizi (art. 49 del Trattato CE), sia come aiuto di Stato alle imprese con domicilio fiscale in Sardegna (art. 87 del Trattato CE), con effetti discriminatori e distorsivi della concorrenza.

 

Avverso tale conclusione potrebbero invero addursi le stesse ragioni che, secondo questa Corte (punto 8.2.7.1.), giustificano l'applicazione dell'imposta sullo scalo solo ai soggetti non imprenditori non aventi domicilio fiscale in Sardegna (ragioni che, come si vedrà in séguito al punto 9.1.2., valgono anche per l'imposta di soggiorno). Potrebbe, cioè, opporsi che la tassazione delle sole imprese "non residenti" è giustificata, sul piano della politica economico-fiscale della Regione, dal fatto che dette imprese, nell'effettuare lo scalo, fruiscono dei servizi pubblici regionali e locali, ma non concorrono - a differenza delle imprese "residenti" - al loro finanziamento con il pagamento dei già esistenti tributi. Questa giustificazione del prelievo regionale sarebbe rafforzata, secondo la difesa della Regione, da quella fondata sulla necessità di compensare, attraverso la tassazione delle imprese fiscalmente non domiciliate in Sardegna, i maggiori costi sostenuti dalle imprese ivi domiciliate, in ragione delle peculiarità geografiche ed economiche legate al carattere insulare della Regione.

 

Le due suddette giustificazioni traggono peraltro il loro fondamento da circostanze attinenti alla sostenibilità dello sviluppo turistico regionale e dall'esigenza di riequilibrare la situazione economica dei soggetti "non residenti" rispetto a quella dei soggetti "residenti". Esse, quindi, non tengono conto del fatto che l'insularità non appare, di per sé, un elemento idoneo a incrementare i costi sostenuti dalle imprese con riferimento allo scalo turistico e, soprattutto, del fatto che, nel caso in cui il soggetto passivo del tributo sia un imprenditore, la circostanza di farlo partecipare - in quanto non avente domicilio fiscale in Sardegna - ai costi aggiuntivi determinati dal turismo potrebbe non essere sufficiente a rendere inoperante, nella specie, il principio comunitario di non discriminazione e, conseguentemente, inapplicabili le connesse disposizioni del Trattato CE sulla libertà di prestazione di servizi e sul divieto di aiuti di Stato.

 

Tale principio è, infatti, di generale applicazione nell'ordinamento interno e fornisce una tutela delle imprese "non residenti" - sotto il profilo della concorrenza e delle libertà economiche fondamentali -, la cui delimitazione è rimessa non a regole di diritto interno, ma al diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE anche con riferimento ad "enti infrastatali" che, come la Regione resistente, sono dotati di autonomia statutaria, normativa e finanziaria (Corte di giustizia, sentenza 6 settembre 2006, C-88/03, Repubblica portoghese c. Commissione).

 

In questa materia vi è un'incertezza interpretativa che richiede l'intervento della Corte di giustizia CE, come risulta evidente dall'esame della giurisprudenza di tale Corte. Essa si è in piú occasioni occupata di fattispecie analoghe alla denunciata imposta di scalo e ha affermato che sussiste una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel caso in cui una determinata misura renda le prestazioni transfrontaliere piú onerose delle prestazioni nazionali comparabili (sentenze 11 gennaio 2007, C-269/05, Commissione c. Repubblica ellenica; 6 febbraio 2003, C-92/01, Stylianakis; 26 giugno 2001, C-70/99, Commissione c. Portogallo). Quei casi avevano, però, ad oggetto tasse che discriminavano tra voli nazionali e voli internazionali o tra voli aventi percorrenza superiore e inferiore ad una determinata distanza o, ancora, tra trasporti infranazionali e internazionali. Non veniva dunque in rilievo una possibile discriminazione - pur astrattamente rilevante per il diritto comunitario - tra imprese aventi o no domicilio fiscale in una regione di uno Stato membro.

 

Per quanto attiene, poi, alla dedotta violazione dell'art. 87 del Trattato CE, si pone anche il problema se il vantaggio economico concorrenziale derivante alle suddette imprese "residenti" in Sardegna dal loro non assoggettamento all'imposta regionale sullo scalo rientri nella nozione di aiuto di Stato, considerato che detto vantaggio deriva non dalla concessione di un'agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo da esse sopportato rispetto alle imprese "non residenti" (analogamente alla fattispecie, per alcuni versi simile, esaminata dalla Corte di giustizia CE con la sentenza del 22 novembre 2001, C-53/00, Ferring SA). In proposito è appena il caso di sottolineare che il suddetto problema interpretativo prescinde, ovviamente, dalla valutazione della compatibilità della misura di aiuto con il mercato comune, spettante alla competenza esclusiva della Commissione CE, che agisce sotto il controllo dei giudici comunitari.

 

Sussiste, pertanto, un dubbio circa la corretta interpretazione - tra quelle possibili - delle evocate disposizioni comunitarie, tale da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, perché questa accerti: a) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da loro stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di "aviazione generale d'affari" (cioè trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività d'impresa); b) se la norma censurata, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari, configuri - ai sensi dell'art. 87 del Trattato - un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se la norma censurata, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri - ai sensi dell'art. 87 del Trattato - un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna.

 

Il rinvio pregiudiziale in ordine a tali questioni, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, appare altresí opportuno al fine di evitare il pericolo di contrasti ermeneutici tra la giurisdizione comunitaria e quella costituzionale nazionale, che non giovano alla certezza e all'uniforme applicazione del diritto comunitario.

 

8.2.8.5. - Le suddette questioni pregiudiziali sono, inoltre, rilevanti, perché: a) l'interpretazione richiesta alla Corte di giustizia è necessaria per pronunciare la sentenza di questa Corte, in quanto le questioni sono ricomprese nell'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale proposto in via principale; b) la fondatezza dei profili di illegittimità costituzionale dedotti dal ricorrente con riguardo a questioni diverse da quelle oggetto del rinvio pregiudiziale è stata già esclusa da questa Corte per le ragioni esposte ai punti da 8.2.3. a 8.2.7. e, quindi, la legittimità costituzionale della norma censurata non può essere scrutinata, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., senza che si proceda alla valutazione della sua conformità al diritto comunitario. Come già disposto al punto 8.2.8.4., va riservata al prosieguo del giudizio ogni decisione sulla violazione dell'art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10».

 

8.2.8.6. - Al fine dell'indicata rimessione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, è opportuno separare, nell'àmbito del giudizio introdotto con il ricorso n. 36 del 2007, il giudizio concernente la questione riguardante l'«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto» - disciplinata dall'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 - e relativa all'assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili o unità da diporto. Il giudizio avente ad oggetto la questione cosí delimitata e separata va sospeso in forza dell'art. 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, sino alla definizione delle questioni interpretative pregiudiziali rimesse, con la separata ordinanza n. 103 del 2008, alla Corte di giustizia CE.

 

9. - Occorre ora procedere all'esame delle questioni concernenti l'art. 5 della legge reg. n. 2 del 2007 sollevate con il secondo ricorso (n. 36 del 2007). La disposizione censurata istituisce l'imposta regionale di soggiorno, da destinare ad interventi nel settore del turismo sostenibile, che i Comuni hanno la facoltà di applicare, nell'àmbito del proprio territorio a decorrere dall'anno 2008 a coloro che non risultano iscritti nell'anagrafe della popolazione residente nei Comuni della Sardegna, per il soggiorno nel periodo dal 15 giugno al 15 settembre, nelle aziende ricettive di cui alla legge regionale 14 maggio 1984, n. 22 (Norme per la classificazione delle aziende ricettive), nelle strutture ricettive extra-alberghiere di cui alla legge regionale 12 agosto 1998, n. 27 (Disciplina delle strutture ricettive extra-alberghiere), nelle strutture ricettive di cui alla legge regionale 23 giugno 1998, n. 18 (Nuove norme per l'esercizio dell'agriturismo), nelle unità immobiliari adibite ad abitazioni principali, cosí come definite dall'articolo 8, comma 2, del decreto legislativo n. 504 del 1992, concesse in comodato o in locazione, nelle unità immobiliari non adibite ad abitazioni principali (con l'esclusione, per queste ultime, del proprietario, del coniuge, degli affini e dei parenti in linea retta, dei collaterali fino al terzo grado, e degli ospiti che soggiornano unitamente ad almeno uno dei componenti la famiglia del proprietario), con l'esenzione dall'imposta dei lavoratori dipendenti che soggiornano per ragioni di servizio attestate dal datore di lavoro, degli studenti che soggiornano per ragioni di studio o per periodi di formazione professionale attestati dalle rispettive università, scuole od enti di formazione, dei minori di diciotto anni, dei lavoratori autonomi che soggiornano per ragioni di lavoro documentabili. L'imposta si applica, per persona e per ogni giornata di soggiorno, nella modesta misura di un euro o, per i soggiorni negli alberghi a quattro stelle e superiori, di due euro.

 

9.1. - In particolare, il ricorrente denuncia il contrasto della disposizione censurata con tre diversi parametri costituzionali: a) con l'art. 8, lettera h), dello statuto della Regione Sardegna, perché la Regione avrebbe violato il divieto per le Regioni di istituire imposte comunali, costituente un principio del sistema tributario dello Stato; ovvero, alternativamente, con l'art. 119 Cost., in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la Regione non può stabilire un'imposta comunale senza lasciare ai Comuni nessun margine di autonomia se non la scelta se istituire o no l'imposta; b) con l'art. 3 Cost., perché sarebbe irragionevole non assoggettare ad imposta i residenti in Sardegna, pur avendo, rispetto ai non residenti, una «posizione [...] identica se rapportata al presupposto dell'imposta»; c) con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all'art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell'Unione europea subirebbero una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, sia all'art. 49 dello stesso Trattato, perché «la libertà di prestazione dei servizi all'interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri». Tali censure vanno esaminate separatamente.

 

9.1.1. - Quanto alla censura sub a), va in via preliminare rilevato che deve essere scrutinata esclusivamente la denunciata violazione dello statuto regionale, perché - come già chiarito al punto 5.3. - la normativa risultante dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione non prevede una forma di autonomia piú ampia di quella dello statuto della Regione Sardegna e pertanto, ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, trova applicazione soltanto lo statuto.

 

Nel merito, la censura non è fondata.

 

Riguardo alla asserita esistenza, nel sistema tributario dello Stato, del principio secondo cui è vietato alla Regione di istituire imposte comunali, va rilevato che tale principio non sussiste. In base allo statuto di autonomia è, infatti, attribuita alla Regione la potestà legislativa di disciplinare tributi propri, sempre che sia assicurata l'«armonia» di tali tributi con i princípi del sistema tributario dello Stato. Nell'àmbito di detta potestà la Regione può discrezionalmente modulare l'autonomia tributaria dei Comuni e, quindi, può anche limitarsi a rimettere ad essi la sola decisione di istituire o no i suddetti tributi. Del resto, la piena discrezionalità della Regione nel fissare la misura di autonomia - piú o meno ampia - che intende riservare al potere regolamentare tributario degli enti sub-regionali giustifica che nella specie sia stata lasciata all'autonomia dei Comuni la sola scelta se istituire o no un'imposta interamente disciplinata dalla legge regionale, senza giungere ad attribuire loro l'ulteriore potere di determinare l'aliquota del tributo entro i limiti minimo e massimo fissati dalla legge stessa (come avviene, invece, per la maggior parte dei tributi locali). Anche sotto l'aspetto meramente letterale, va poi osservato che l'articolo denunciato definisce espressamente, al comma 1, l'imposta di soggiorno come «regionale» (e non "comunale", come sostenuto dalla difesa erariale). E precisa, al comma 18, che il gettito dell'imposta riscosso da ciascun Comune è attribuito alla Regione per il 50 per cento, «ai fini dell'istituzione di un fondo di riequilibrio e solidarietà, destinato agli investimenti nel settore turistico delle aree interne», e solo per il restante 50 per cento al Comune, che dovrà destinarlo, ai sensi del citato comma 1, «ad interventi nel settore del turismo sostenibile con particolare riguardo al miglioramento dei servizi rivolti ai turisti e alla fruizione della risorsa ambientale».

 

9.1.2. - Il ricorrente deduce, con la censura sub b), la violazione dell'art. 3 Cost., affermando che la norma denunciata sarebbe irragionevole perché non assoggetta ad imposta i residenti in Sardegna, pur avendo questi, rispetto ai non residenti, una «posizione [...] identica se rapportata al presupposto dell'imposta».

 

Anche tale censura non è fondata, perché il ricorrente erroneamente ritiene che la situazione dei soggetti residenti in Sardegna sia omogenea rispetto a quella dei non residenti.

 

Il presupposto della denunciata imposta regionale è individuato dalla legge nel soggiorno, da parte di soggetti non iscritti nell'anagrafe della popolazione residente nei comuni della Sardegna (con alcune esenzioni), nelle aziende o strutture ricettive o unità immobiliari specificate dalla stessa legge, nel periodo compreso tra il 15 giugno ed il 15 settembre di ogni anno a partire dal 2008. I suddetti soggetti passivi, proprio per effetto del soggiorno, necessariamente fruiscono sia di servizi pubblici locali e regionali, sia del patrimonio culturale e ambientale sardo, senza concorrere al finanziamento dei primi e alla tutela del secondo a mezzo di tributi. I soggetti residenti in Sardegna, invece, già concorrono, nella generalità dei casi, alle spese pubbliche connesse a tali servizi e beni mediante la corresponsione di svariati tributi e contributi, che entrano a vario titolo nel bilancio della Regione ai fini della valorizzazione dell'ambiente e dell'ottimizzazione del governo del territorio regionale (si pensi, ad esempio, alle quote dei tributi erariali connessi al territorio regionale riservate alla Regione Sardegna dall'art. 8 dello statuto).

 

Appare, quindi, corretto - sotto il profilo fiscale - distinguere tali soggetti da quelli non residenti in Sardegna, perché questi ultimi, diversamente dai residenti, non solo non sopportano alcun prelievo il cui gettito sia specificamente diretto ai suddetti fini, ma, con il loro soggiorno nella Regione in coincidenza con il periodo di maggior afflusso turistico, causano costi pubblici aggiuntivi rispetto a quelli programmabili dalla Regione in base al gettito delle imposte già corrisposte dai soggetti residenti. I soggiornanti non residenti, perciò, incidono anche sulla complessiva sostenibilità del fenomeno turistico nell'isola (v., al punto 8.2.8.5., l'analoga ratio della previsione dell'imposta sullo scalo a carico dei soli soggetti non aventi domicilio fiscale in Sardegna). Il legislatore regionale, pertanto, nel porre l'imposta di soggiorno, in una misura non sproporzionata, a carico solo dei soggetti non residenti in Sardegna, tratta diversamente e in modo adeguato situazioni giuridiche diverse e, quindi, non supera i limiti della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.

 

Né tale ragionevolezza può essere messa in dubbio dalla considerazione - fatta propria dal ricorrente - che l'attribuzione a ciascun Comune del potere di «applicare», accertare, liquidare e riscuotere l'imposta di soggiorno «nell'àmbito del proprio territorio» imporrebbe l'assoggettamento a detta imposta anche dei soggiornanti residenti in altro Comune della Sardegna. Al contrario, la rilevata natura regionale del tributo comporta che questo, ancorché applicato dai Comuni nell'àmbito dell'autonomia ad essi attribuita dalla legge regionale, deve essere pagato solo da quei soggetti che, non essendo residenti nella Regione, non contribuiscono - come già osservato - al finanziamento delle indicate spese pubbliche connesse ai servizi e beni culturali e ambientali sardi; e, simmetricamente, non deve essere pagato da coloro che, essendo residenti nella Regione, hanno già contribuito a tale finanziamento.

 

Al riguardo, va sottolineato che, coerentemente con la sua natura regionale, l'imposta ha, come si è visto, lo scopo di finanziare il complesso delle spese connesse alla tutela dell'ambiente ed alla promozione del turismo sostenibile nell'intera Regione, con gli opportuni aggiustamenti compensativi tra le varie zone. Ne deriva che il legislatore regionale non irragionevolmente valuta l'intera Regione Sardegna come un'unica - anche se non omogenea - area culturale ed ambientale, come tale complessivamente valorizzata dal bilancio regionale, cosí da giustificare un prelievo fiscale a carico soltanto dei soggiornanti non residenti nell'isola.

 

9.1.3. - Il ricorrente deduce, infine (con le censure sub c), la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia all'art. 12 del Trattato CE, perché i cittadini dell'Unione subirebbero una discriminazione rispetto ai residenti nella Regione, sia all'art. 49 dello stesso Trattato, perché «la libertà di prestazione dei servizi all'interno della Comunità è violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini di Paesi membri».

 

Le censure non sono fondate.

 

Al riguardo, va preliminarmente osservato che non sussiste una specifica normativa comunitaria in materia di imposte di soggiorno. Tali imposte sono o sono state previste dalla legislazione di vari Stati dell'Unione europea, ad esempio: la Kurtaxe tedesca; la taxe de séjour francese; l'impuesto sobre las estancias en empresas turísticas de alojamiento già vigente nella Comunità autonoma delle Isole Baleari; l'impôt sur les chambres d'hôtels et de pensions a Bruxelles; l'imposta di soggiorno di cui alla legge del Trentino Alto-Adige 29 agosto 1976, n. 10, ancora parzialmente applicabile nella Provincia autonoma di Bolzano; l'imposta di soggiorno già prevista in Italia con il decreto-legge 24 novembre 1938, n. 1926, convertito dalla legge 2 giugno 1939, n. 739, e soppressa, con effetto dal 1° gennaio 1989, dal decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144. Occorre poi sottolineare che, come anche rilevato dalla Commissione CE, l'imposta di soggiorno non è stata oggetto di armonizzazione in sede di Comunità europee e che, di conseguenza, gli Stati membri possono definire i criteri della sua applicazione, a condizione che siano rispettati i princípi del diritto comunitario e, in particolare, che non siano introdotte misure discriminatorie nell'esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato CE.

 

Nella specie, la dedotta discriminazione tra i residenti in Sardegna e gli altri cittadini dell'Unione europea non è fondata, perché il ricorrente erroneamente ritiene che la situazione dei primi sia omogenea a quella dei secondi. Al contrario, per le stesse ragioni già rilevate al punto 9.1.2. con riferimento alla denunciata violazione dell'art. 3 Cost., le situazioni poste a raffronto dal ricorrente sono eterogenee e giustificano l'esclusione dall'imposta per i soggetti residenti nel territorio sardo.

 

Per quanto attiene alla libera circolazione dei servizi (art. 49 del Trattato CE), non risulta che l'imposta censurata colpisca i soggiornanti in maniera discriminatoria o sproporzionata, cosí da ledere la libertà dei medesimi soggiornanti di recarsi in un altro Stato membro per beneficiare di un servizio. Del resto, lo stesso ricorrente non ha precisato in cosa si sostanzierebbe la lamentata discriminazione in ordine alla fruizione o alla libera circolazione dei servizi, tanto piú che la denunciata imposta di soggiorno ha proprio la funzione di rendere sostenibile il contingente afflusso di soggiornanti non aventi residenza anagrafica in Sardegna. Ciò è sufficiente per escludere anche il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE ai sensi dell'art. 234 del suddetto Trattato.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo originario e in quello sostituito dall'art. 3, comma 1, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - Legge finanziaria 2007);

 

2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario e in quello sostituito dall'art. 3, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007;

 

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in via subordinata, con il ricorso n. 91 del 2006, in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, in relazione all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione);

 

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo originario, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 91 del 2006, in riferimento all'art. 8, lettera i) (nel testo anteriore a quello sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 3 e 53 Cost.;

 

5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento ai parametri evocati in relazione ai denunciati artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, quali sostituiti dall'art. 3, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna, n. 2 del 2007, agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 120 Cost., nonché all'art. 3 di un non specificato testo normativo;

 

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento agli artt. 1, 3, 8, lettera h) (quale sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), dello statuto della Regione Sardegna e agli artt. 3 e 53 Cost.;

 

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento all'art. 8, lettera h) (quale sostituito dal comma 834 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), dello statuto della Regione Sardegna, all'art. 3 Cost. e all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 49 del Trattato CE;

 

8) dispone la separazione del giudizio concernente la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, lettera g), 10, 49, 81 e 87 del Trattato CE, e riguardante l'assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili o unità da diporto;

 

9) riserva alla separata ordinanza n. 103 del 2008 di sottoporre alla Corte di giustizia CE, in via pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, le seguenti questioni di interpretazione degli artt. 49 e 87 dello stesso Trattato: a) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione di una norma, quale quella prevista dall'art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - Legge finanziaria 2007), secondo la quale l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari; b) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari, configuri - ai sensi dell'art. 87 del Trattato - un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione di una norma, quale quella prevista dallo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, secondo la quale l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri - ai sensi dell'art. 87 del Trattato - un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna;

 

10) riserva all'ordinanza di cui al punto precedente di sospendere il giudizio, come sopra separato, sino alla definizione di dette questioni pregiudiziali.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio 2008.

 


Sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 30 aprile 2008

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 630 comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 22 marzo 2006 dalla Corte di appello di Bologna nel procedimento penale a carico di D. P., iscritta al n. 337 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2006.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 

1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Bologna ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale «nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l'impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l'assenza di equità del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo».

 

Il rimettente premette di essere investito della delibazione di un'istanza di revisione, proposta dal difensore di persona sottoposta a regime di detenzione domiciliare in espiazione di una pena di tredici anni e sei mesi di reclusione, inflitta dalla Corte d'assise di Udine. Tale persona - divenuta irrevocabile la condanna - si era rivolta alla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, con sentenza del 9 settembre 1998, aveva stabilito la non equità del giudizio attraverso cui si era irrogata la condanna, per violazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; e ciò in quanto la condanna in questione era scaturita dalle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, giacchè si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.

 

Dopo la pronuncia della Corte europea, il Comitato dei ministri aveva più volte sollecitato - senza effetto - lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie per garantire l'adempimento della pronuncia del giudice di Strasburgo. Anche l'incidente di esecuzione - sollevato dal Procuratore della Repubblica per verificare la "legittimità" della detenzione, con contestuale richiesta di sospensione dell'esecuzione della pena - era stato rigettato dalla competente Corte d'assise di Udine. Quest'ultima aveva rilevato che, in sede di incidente di esecuzione, l'indagine del giudice deve ritenersi limitata alla verifica della eseguibilità del titolo; mentre resta preclusa ogni valutazione sulla legittimità del giudizio di cognizione e sull'eventuale violazione delle regole interne ad esso.

 

Il giudice a quo evidenzia, inoltre, che la difesa del condannato ha sostenuto l'ammissibilità del giudizio di revisione ai sensi dell'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.: sia per l'esistenza del contrasto tra giudicati; sia per la circostanza che la decisione della Corte europea - ritenuta prevalente sul giudicato "interno", in quanto proveniente da organo sopranazionale - potrebbe essere equiparata alla sentenza di un "giudice speciale". Sempre secondo la prospettazione della difesa, se così non dovesse ritenersi, ne discenderebbe l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede «come titolo per ottenere la revisione» la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

 

Il rimettente afferma, innanzitutto, di non condividere l'interpretazione secundum Constitutionem prospettata dalla difesa. Sarebbe impossibile ricondurre la Corte europea alla nozione costituzionale di "giudice speciale", perché tale qualifica è riferibile esclusivamente ai tribunali militari, per «i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate»; ed alla Corte costituzionale, «in relazione alle accuse mosse al Presidente della Repubblica». D'altra parte - prosegue il giudice a quo - non è possibile neppure ritenere la sentenza della Corte europea quale "nuova prova" ai sensi dell'art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.; essa «nulla aggiunge di diverso rispetto al fatto storico» - già apprezzato nel giudizio considerato "non equo" - mirando alla semplice "ripetizione", ove possibile, delle prove ritenute invalide.

 

Alla luce di tali considerazioni, la Corte rimettente ritiene rilevante il dubbio di costituzionalità prospettato dalla difesa, in quanto l'istanza di revisione dovrebbe essere dichiarata inammissibile ai sensi dell'art. 634 cod. proc. pen., perché proposta fuori dalle ipotesi previste dall'art. 630 del medesimo codice di rito.

 

In ordine alla non manifesta infondatezza, la Corte - ritenuto inconferente il parametro dell'art. 111 Cost., rispetto alla prospettazione difensiva dell'eccezione - afferma, per contro, la sussistenza di dubbi di compatibilità innanzitutto con l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza. L'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. - prevedendo il contrasto tra i fatti stabiliti dalla sentenza o dal decreto penale di condanna e quelli stabiliti nella sentenza penale di altro giudice, ai fini dell'ammissibilità della revisione - sembra innestare una «ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili», escludendo dai casi di revisione il riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo emessa ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea.

 

Secondo il giudice a quo, per "fatto" - ai fini della applicazione della norma censurata - non dovrebbe intendersi solamente «il fatto storico all'origine della vicenda processuale, ma anche l'accertamento dell'invalidità di una prova del precedente giudizio», poiché anche questo è un fatto da cui, comunque, dipende l'applicazione di norme processuali che determina il venir meno di prove legittimamente assunte. Né la situazione in esame discende da una modifica della disciplina processuale intervenuta successivamente al giudizio, in quanto la decisione della Corte europea scaturisce da un raffronto tra la normativa convenzionale previgente (art. 6 della Convenzione) e quella interna.

 

Un'ulteriore censura è prospettata in riferimento all'art. 10 della Costituzione, secondo il quale «l'ordinamento giuridico si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». A parere del giudice a quo, è vero che tale disposizione si riferisce alle norme del diritto internazionale consuetudinario; ma è altrettanto indubbio che alcune norme della Convenzione di Roma del 1950 - segnatamente, quelle che sanciscono garanzie fondamentali, quali il diritto alla vita (art. 2), il divieto di tortura (art. 3), l'inammissibilità della condizione di schiavitù (art. 4), la presunzione d'innocenza (art. 6) - sono «effettivamente riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella Comunità internazionale».

 

Secondo il giudice a quo, la presunzione di innocenza si sostanzia anche nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell'equo processo (nella specie, il diritto dell'accusato di interrogare e fare interrogare chi lo accusa, ai sensi dell'art. 6, comma 3, lettera d), della Convenzione europea). E, poiché tale presunzione - in quanto norma consuetudinaria di diritto internazionale - si adatta automaticamente all'ordinamento interno, ai sensi dell'art. 10, primo comma, Cost., l'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., si risolve conseguentemente in una violazione di quest'ultimo precetto costituzionale, nella parte in cui esclude la revisione del processo allorquando una sentenza della Corte europea abbia accertato un «vizio fondamentale nella procedura precedente».

 

Infine, la disciplina censurata contrasterebbe con il disposto dell'art. 27 della Costituzione - secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato - giacché quel principio «ha un senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a seguito di un processo giusto». Lo Stato non potrebbe esigere alcun dovere di rieducazione e riadattamento sociale nei confronti di un soggetto condannato secondo un processo privo di equità.

 

La stessa funzione retributiva della pena sembra posta in dubbio, nel caso in cui essa venga irrogata in esito ad un processo «le cui regole non garantiscono l'innocente». Se nell'ordinamento interno non è consentita la revisione del processo al condannato a seguito di una procedura giudicata non equa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - le cui decisioni il nostro Paese si è impegnato a rispettare - ne deriverebbe, dunque, anche la violazione del precetto costituzionale che presidia la corretta funzione della pena.

 

Il rimettente evidenzia, infine, che, in ragione della non manifesta infondatezza della questione, ha provveduto alla sospensione dell'esecuzione della pena inflitta al condannato, ai sensi dell'art. 635 cod. proc. pen.

 

2. - Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e, comunque, per la manifesta infondatezza della questione.

 

La difesa erariale rileva, preliminarmente, l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il rimettente. Ad avviso di essa, la nozione di "fatto", richiamata dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non potrebbe estendersi fino a comprendere anche l'accertamento della invalidità di una prova di un precedente giudizio. Tale nozione, infatti, non risulterebbe conforme alla costante elaborazione giurisprudenziale del concetto, ricondotto da sempre al mero fatto storico emergente dal procedimento. Ciò determinerebbe l'irrilevanza della questione di costituzionalità prospettata, poichè dalla sentenza della Corte europea non emergerebbero fatti inconciliabili con quelli stabiliti a fondamento della sentenza di condanna.

 

L'Avvocatura generale deduce anche l'infondatezza della questione, innanzitutto sotto il profilo dell'impossibilità del contrasto tra le sentenze, posto che quella della Corte europea comporta una valutazione relativa soltanto alla procedura seguita per pervenire alla condanna, senza accertamento dei fatti di reato.

 

Inoltre, si assume l'infondatezza della censura relativa alla pretesa violazione dell'art. 10 Cost., attesa l'impossibilità di elevare il principio della revisione del processo - in caso di violazione di regole processuali - al rango di consuetudine internazionalmente riconosciuta. Tale rango può riconoscersi solo alla garanzia della presunzione di innocenza, che tuttavia - contrariamente a quanto opinato dal rimettente - non coinciderebbe con il diritto alla revisione, né lo implicherebbe.

 

Non sussisterebbe, infine, neppure la ipotizzata violazione dell'art. 27 della Costituzione, atteso che le esigenze di rieducazione in esso sancite «sono da riferire alle modalità esecutive della pena o, al più, alle modalità di computo della stessa e non al procedimento utilizzato per giungere alla sua applicazione».

 

Motivi della decisione

1. - La Corte di appello di Bologna solleva, in riferimento agli artt. 3, 10, e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude dai casi di revisione l'impossibilità di conciliare i fatti stabiliti a fondamento della sentenza (o del decreto penale di condanna) con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato l'assenza di equità del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.

 

Chiamata a delibare una istanza di revisione, proposta da un condannato con sentenza divenuta irrevocabile, la Corte rimettente ha sottolineato che il suo difensore - a sostegno della interpretazione proposta per la norma citata, o in subordine della eccezione di illegittimità costituzionale - aveva richiamato la sentenza del 9 settembre 1998 della Corte europea dei diritti dell'uomo. Quest'ultima - su ricorso del condannato - aveva stabilito la non equità del giudizio cui il medesimo era stato sottoposto, per violazione dell'art. 6 della Convenzione; e ciò in quanto i giudici italiani avevano pronunciato la condanna «in base alle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio», essendosi costoro avvalsi, in dibattimento, della facoltà di non rispondere. A seguito della decisione della Corte europea, il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa aveva più volte sollecitato lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie a garantire l'osservanza della pronuncia di Strasburgo; ma tali sollecitazioni erano rimaste prive di effetto.

 

Il rimettente respinge la tesi avanzata dalla difesa del condannato, circa la possibilità di ricondurre alla revisione il contrasto di giudicati tra la decisione della Corte europea - ritenuta equiparabile alla sentenza di un "giudice speciale" - e quella del giudice nazionale; e ciò perché la Corte di Strasburgo non può essere qualificata come un giudice speciale.

 

D'altra parte, ad avviso della Corte rimettente, non è accettabile neppure la tesi avanzata dal procuratore generale requirente, di attrarre nel concetto di "prova nuova" la sentenza della Corte europea. Infatti - agli effetti dell'art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., - tale decisione, «né da sola, né unita alle prove già valutate, [...] dimostrerebbe che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631 c.p.p. Quella sentenza, infatti, nulla aggiunge di diverso rispetto al fatto storico apprezzato nel giudizio considerato "non equo", e ciò a cui essa mira è la ripetizione (ove possibile) delle prove ritenute invalide».

 

2. - Alla stregua di tali premesse, la Corte rimettente ritiene rilevante la questione. Inoltre, nel merito, essa ravvisa, in primo luogo, una violazione dell'art. 3 Cost., in quanto l'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. - nell'ammettere la revisione per l'ipotesi di contrasto tra i fatti stabiliti nella pronuncia di condanna del giudice penale e quelli posti a fondamento di altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale - non prevede anche l'ipotesi in cui il contrasto si verifichi rispetto alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea. Secondo il giudice a quo, «per "fatto" non deve semplicemente intendersi il fatto storico all'origine della vicenda processuale, ma anche l'accertamento della invalidità di una prova del precedente giudizio, essendo questo un fatto "dal quale dipende l'applicazione di norme processuali", che determina il venir meno della legittimità delle prove assunte e, dunque, dei fatti sui quali la sentenza interna di condanna si è fondata».

 

La norma censurata sarebbe in contrasto anche con l'art. 10 Cost., in base al quale «l'ordinamento giuridico si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Secondo l'ordinanza di rimessione, è vero che il principio costituzionale evocato si riferisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario. Peraltro - come è stato posto in evidenza dalla dottrina - le norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che fanno riferimento a garanzie e valori inderogabili, sono «effettivamente riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella Comunità internazionale».

 

Posto, dunque, che tra i principi della Convenzione è prevista anche la presunzione di innocenza; e considerato che tale principio è annoverabile tra le norme internazionali di carattere consuetudinario, la stessa tutela - soggiunge il giudice a quo - dovrebbe essere riconosciuta a quell'aspetto della presunzione di innocenza «che si sostanzia nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell'equo processo». Non senza trascurare, al riguardo, che l'art. 4 del VII Protocollo aggiuntivo della Convenzione - relativo al divieto di bis in idem - consente espressamente la riapertura del processo, nella ipotesi in cui «un vizio fondamentale della procedura antecedente» sia in grado di inficiare la sentenza intervenuta.

 

Pertanto, secondo l'ordinanza di rimessione, venendo qui in discorso garanzie provenienti dal diritto internazionale consuetudinario - che rinvengono nell'art. 10, primo comma, Cost. la fonte del relativo adattamento automatico nell'ordinamento interno - la norma impugnata si porrebbe in evidente frizione con l'indicato parametro, nella parte, appunto, «in cui esclude la revisione del processo quando una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo abbia accertato un "vizio fondamentale della procedura precedente"».

 

La disciplina censurata, infine, si porrebbe in contrasto anche con l'art. 27 Cost., secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; detto principio «ha un senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a seguito di un processo giusto». L'ordinanza di rimessione sottolinea che «nessun condannato potrà sentire il dovere di rieducarsi e di riadattarsi alle regole sociali, se queste regole lo hanno condannato secondo un processo privo di equità; correlativamente, lo Stato non potrà pretendere dal condannato la rieducazione e il reinserimento nella società, se lo ha giudicato secondo regole inique».

 

3. - La questione di legittimità costituzionale nasce dalla assenza - nel sistema processuale penale - di un apposito rimedio, destinato ad attuare l'obbligo dello Stato di conformarsi (anche attraverso una eventuale rinnovazione del processo) alle conferenti sentenze definitive della Corte di Strasburgo, nell'ipotesi in cui sia stata accertata la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, secondo quanto prevede l'art. 46 della stessa Convenzione, nel testo modificato ad opera dell'art. 16 del Protocollo n. 14 , ratificato con la legge 15 dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali emendante il sistema di controlli della Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004).

 

Il Comitato dei Ministri e l'Assemblea del Consiglio d'Europa hanno stigmatizzato - con reiterate risoluzioni, risoluzioni interinali e raccomandazioni, proprio in riferimento alla vicenda del condannato nel giudizio a quo - l'inerzia dello Stato italiano nell'approntare adeguate iniziative riparatorie.

 

Da ultimo, il Comitato dei Ministri - facendo seguito a precedenti "moniti" - ha espressamente deplorato «il fatto che, più di sei anni dopo l'accertamento della violazione in questo caso, le autorità italiane non abbiano adottato alcuna misura per cancellare per quanto possibile le conseguenze della violazione (restitutio in integrum) e che non siano state attuate soluzioni alternative, quali la concessione della grazia presidenziale»; ed ha constatato, al tempo stesso, che «la riapertura del procedimento in questione resta lo strumento migliore d'assicurare la restitutio in integrum in questo caso» (Risoluzione interinale ResDH (2005) 85. V., anche, la Risoluzione finale CM/ResDH (2007) 83).

 

Allo stesso modo, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa nella Risoluzione n. 1516 (2006) - adottata il 2 ottobre 2006, in materia di attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo - ha deplorato la circostanza che «in Italia, e, in una certa misura, in Turchia, la legge non prevede ancora la riapertura dei processi penali per i quali la Corte abbia constatato violazioni alla CEDU e questi due Stati non hanno adottato altre misure per ripristinare il diritto dei ricorrenti ad un equo processo malgrado le domande pressanti e ripetute del Comitato dei Ministri e dell'Assemblea (tra numerosi altri casi Dorigo c. Italia e Hulki Gunes c. Turchia)».

 

Tuttavia, nonostante l'evidente, improrogabile necessità che l'ordinamento predisponga adeguate misure - atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di "processo equo", accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo - la questione sollevata dalla Corte di appello di Bologna, in riferimento a tutti i parametri evocati, deve ritenersi infondata.

 

4.1. - Il giudice a quo fonda la prima censura di illegittimità costituzionale su una premessa argomentativa le cui coordinate non possono condividersi né sul piano logico, né su quello sistematico. A base della dedotta irragionevole disparità di trattamento - a suo avviso derivante dalla mancata previsione della revisione delle condanne "in contrasto" con sentenze della Corte di Strasburgo, che abbiano accertato la violazione dei principi della Convenzione nel relativo processo - la Corte rimettente pone un postulato infondato di omologabilità fra i casi disciplinati dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., e la situazione in esame.

 

Secondo il giudice rimettente - considerato che la norma citata prevede, nelle ipotesi che legittimano la revisione della condanna, il contrasto tra i "fatti" stabiliti da due diverse sentenze - non dovrebbe necessariamente accedersi «alla accezione di "fatto" con esclusivo riferimento alle circostanze storiche della vicenda sottoposta a giudizio». Agli effetti che qui interessano, rappresenterebbe «un "fatto" anche l'accertamento dell'invalidità (iniquità) della prova assunta nel processo interno, intervenuto ad opera del giudice sopranazionale».

 

In realtà, però, il contrasto, che legittima - e giustifica razionalmente - l'istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale. Esso ha la sua ragione d'essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato "accadimento della vita" - essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda - può aver ricevuto all'esito di due giudizi penali irrevocabili.

 

Nella logica codicistica - secondo una affermazione costante della giurisprudenza di legittimità - il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i "fatti" (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze.

 

D'altra parte, ove così non fosse, la revisione, da rimedio impugnatorio straordinario, si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo (e di eventuale rescissione) della "correttezza", formale e sostanziale, di giudizi ormai irrevocabilmente conclusi. Non è la erronea (in ipotesi) valutazione del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensì esclusivamente "il fatto nuovo" (tipizzato nelle varie ipotesi scandite dall'art. 630 del codice di rito), che rende necessario un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si è radicata la condanna oggetto di revisione.

 

La infondatezza della tesi sostenuta dal giudice a quo è confermata proprio dal referente normativo che il medesimo richiama a conforto del proprio percorso logico. La Corte rimettente sostiene che la possibilità di attrarre nella sfera del concetto di "fatto" anche la ipotesi dell'accertamento della «invalidità (iniquità) della prova assunta nel processo interno», si desumerebbe dall'art. 187, comma 2, cod. proc. pen.: una norma secondo la quale è "fatto" anche quello da cui dipende "l'applicazione di norme processuali". Ma il richiamo a tale norma dimostra l'esatto contrario.

 

La disposizione citata - nel menzionare, come oggetto di prova, anche i fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali - si riferisce proprio agli accadimenti (ancora una volta, naturalisticamente intesi) costituenti il presupposto "materiale" che deve essere "provato", perchè si generi un determinato effetto processuale: come la situazione di fatto a base del legittimo impedimento, che determina l'assoluta impossibilità di comparire; o l'evento che integra il caso fortuito o la forza maggiore, agli effetti della restituzione nel termine, e simili. Essa, evidentemente, non può riferirsi alla disposizione processuale la cui applicabilità può scaturire dall'accertamento di quei fatti; e meno ancora alla valutazione che il giudice abbia effettuato in ordine alla congruità della prova di quegli stessi fatti e della relativa idoneità a porsi quale premessa per la (equa) applicazione della regola processuale che venga, volta a volta, in discorso.

 

Infine, sotto il profilo sistematico, il concetto di "fatto" assunto a paradigma della ipotesi di conflitto "teorico" fra giudicati - previsto quale caso di revisione dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. - non può distinguersi dal concetto di medesimo "fatto" su cui si radica la disciplina del conflitto "pratico" tra giudicati, di cui all'art. 669, comma 1, cod. proc. pen. Ed è pacifico che quest'ultima norma risulta applicabile quando la pluralità di sentenze - oltre che lo stesso imputato - concerna il «medesimo fatto», inteso come coincidenza tra tutte le componenti delle fattispecie concrete. D'altronde, anche ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del "fatto" sussiste - secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655) - quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

 

La pretesa irragionevole disparità di trattamento - che il giudice a quo pone a fulcro della dedotta violazione dell'art. 3 della Carta fondamentale - deve ritenersi, dunque, infondata, proprio perchè la asserita assimilabilità delle situazioni poste a confronto non può essere condivisa.

 

4.2. - Allo stesso epilogo conduce lo scrutinio della questione alla stregua del parametro di cui all'art. 10 Cost.

 

A parere della Corte rimettente, alcune fra le garanzie fondamentali enunciate dalla CEDU coinciderebbero con altrettante "norme di diritto internazionale generalmente riconosciute" (così l'art. 10 Cost.) che, come tali, troverebbero "adattamento automatico" nell'ordinamento interno. Sicché, dovendosi annoverare tra quelle garanzie anche il principio di presunzione di innocenza, l'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., si porrebbe in contrasto con l'art. 10, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede - tra i casi di revisione del processo - l'ipotesi in cui una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo «abbia accertato un "vizio fondamentale nella procedura precedente"».

 

L'assunto è per più versi infondato.

 

In primo luogo, il principio di presunzione di non colpevolezza non si pone in contrasto con la esigenza di salvaguardare il valore del giudicato, la cui ineludibile funzione è stata più volte affermata da questa Corte (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 74 del 1980; n. 294 del 1995; n. 413 del 1999 e le ordinanze nn. 14 e 501 del 2000). La presunzione di non colpevolezza accompagna lo status del "processando" ed impedisce sfavorevoli "anticipazioni" del giudizio di responsabilità; ma essa si dissolve necessariamente (sul piano sintattico, ancor prima che giuridico) allorché il processo è giunto al proprio epilogo, trasformando la posizione di chi vi è sottoposto da imputato - presunto non colpevole - in condannato, con una statuizione di responsabilità irrevocabile.

 

La revisione mira a riparare un (ipotetico) errore di giudizio, alla luce di "fatti" nuovi; non a rifare un processo (in ipotesi) iniquo. La presunzione di innocenza, in sé e per sé, non ha dunque nulla a che vedere con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali errores, in procedendo o in iudicando che siano.

 

In secondo luogo, la impossibilità di far leva sul parametro richiamato dal giudice a quo si evince dai principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte. Si è infatti in più occasioni (si vedano, da ultimo, le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) affermato che l'art. 10, primo comma, della Costituzione, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», intende riferirsi alle norme consuetudinarie; e dispone, rispetto alle stesse, l'adattamento automatico dell'ordinamento giuridico italiano. L'osservanza che a simili norme presta l'ordinamento internazionale, nel suo complesso, giustifica all'evidenza il postulato che ad esse si debba necessariamente conformare anche l'ordinamento "interno"; e ciò per evitare un intollerabile sfasamento circa la realizzazione "domestica" di principi universalmente affermati e, dunque, patrimonio comune delle genti.

 

Al contrario, la norma invocata dal remittente, in quanto pattizia e non avente la natura richiesta dall'art. 10 Cost., esula dal campo di applicazione di quest'ultimo. Se ne deve dedurre, pertanto, l'impossibilità di assumerla come integratrice di tale parametro di legittimità costituzionale.

 

4.3. - Ugualmente infondata si rivela, infine, la pretesa violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., il quale - nel sancire il principio della necessaria funzione rieducativa della pena - ad avviso del giudice rimettente «presuppone istanze etiche che trovano contrappunto in regole processuali non inique».

 

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo - in più occasioni - di puntualizzare i confini entro i quali il richiamato principio costituzionale è destinato ad operare; e ciò, anche a voler prescindere dal rilievo preliminare - e per certi aspetti assorbente - che, se si assegnasse alle regole del "giusto processo" una funzione strumentale alla "rieducazione", si assisterebbe ad una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe - questa sì - la stessa presunzione di non colpevolezza.

 

Secondo tale giurisprudenza, «la necessità che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Questa Corte ha ribadito «esplicitamente [...] che il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli della esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie» (sentenza n. 313 del 1990).

 

"Giusto processo" e "giusta pena" sono, dunque - per quel che qui interessa, soprattutto sul piano dei valori costituzionali che essi rispettivamente esprimono - termini di un binomio non confondibili fra loro; se non a prezzo, come si è già accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello "strumento" (il processo) nel "fine" cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da essa può conseguire).

 

D'altra parte, ove fosse valido l'assunto del rimettente, si dovrebbe ipotizzare, come soluzione costituzionalmente imposta, quella di prevedere - sempre e comunque - la revisione della condanna in tutti i casi in cui si sia realizzata nel processo una invalidità in rito, che ne abbia contaminato l'"equità". Ciò - oltre a non essere neppure adombrato dal rimettente - risulterebbe apertamente in contrasto sia con l'esigenza dello stare decisis che scaturisce dalle preclusioni processuali; sia con la più volte riaffermata funzione costituzionale del giudicato.

 

5.- La complessa tematica dei rimedi "revocatori" è, d'altronde, contrassegnata, tanto nel settore del processo civile che di quello penale, da una nutrita serie di interventi di questa Corte; interventi ai quali hanno poi finito per corrispondere altrettanti significativi "innesti" normativi. Per un verso, ciò conferma quanto sia problematica l'individuazione di un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare meccanismi riparatori, a fronte dei sempre possibili errori del giudice; e quella - contrapposta alla prima - di preservare la certezza e la stabilità della res iudicata. Per un altro verso, ciò sottolinea quanto risulti correlativamente ampia la sfera entro la quale trova spazio la discrezionalità del legislatore.

 

Così, ad esempio, questa Corte ha dichiarato la inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non era prevista la revisione delle decisioni penali della Corte di cassazione per errore di fatto - materiale e meramente percettivo - nella lettura degli atti interni del giudizio. A tal fine la Corte ha sottolineato che l'istituto della revisione è un «modello del tutto eccentrico rispetto alle esigenze da preservare nel caso di specie, avuto riguardo: sia alla diversità dell'organo chiamato a celebrare tale giudizio (la corte di appello); sia alla duplicità di fase (rescindente e rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze; sia alle stesse funzioni che tale istituto è chiamato a soddisfare nel sistema» (sentenza n. 395 del 2000).

 

Il legislatore a sua volta - per soddisfare le esigenze e le lacune poste in luce nella pronuncia richiamata - ha introdotto, con l'art. 625-bis cod. proc. pen., un nuovo istituto per rimuovere gli effetti di quel tipo di errori commessi dalla Corte di cassazione, denominandolo significativamente "ricorso straordinario per errore materiale o di fatto"; ed assegnandogli una collocazione sistematica ed una disciplina avulse (e logicamente "alternative") rispetto a quelle che caratterizzano la revisione.

 

6. - Ad ulteriore conferma della molteplicità di soluzioni suscettibili di prospettarsi con riferimento alla odierna questione di legittimità costituzionale e della correlativa esigenza di un intervento normativo di sistema, sta la recente iniziativa legislativa, indotta proprio dalle reiterate censure mosse al nostro Paese dal Comitato dei Ministri e dalla Assemblea del Consiglio d'Europa in relazione al caso Dorigo c. Italia.

 

Dopo diverse proposte di origine parlamentare - alcune delle quali menzionate anche dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa - il Governo, richiamandole, ha presentato al Senato, il 18 settembre 2007, il disegno di legge n. 1797 recante, appunto, «Disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo». In esso si proponeva la introduzione di un Titolo IV-bis nel libro IX del codice di procedura penale, destinato a disciplinare una ipotesi di revisione "speciale" delle sentenze di condanna, «quando la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accertato con sentenza definitiva la violazione di taluna delle disposizioni di cui all'articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848».

 

La relazione illustrativa al disegno di legge sottolinea come la scelta della collocazione sistematica, realizzata attraverso la previsione del nuovo «titolo IV-bis», fosse «diretta, da un lato, a confermare la natura straordinaria del rimedio; dall'altro, a tenere distinto l'istituto in esame da quello della revisione della sentenza di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. E ciò per una serie di ragioni, la prima delle quali risiede nella non automaticità della rinnovazione dell'intero processo (come precisato nel successivo articolo 647-septies), quando vi sia stata una pronuncia della Corte di Strasburgo che abbia riconosciuto la cosiddetta iniquità del processo celebrato in Italia; automatismo che rimane, invece, connotato essenziale della revisione dell'attuale sistema processuale».

 

Inoltre, attraverso l'istituto "speciale", ipotizzato nel disegno di legge citato, si stabiliva la necessità della rinnovazione degli atti cui si fossero riferite le violazioni riscontrate dalla Corte di Strasburgo; con conseguente perdita di rilievo probatorio di quelli la cui pregressa assunzione era stata accertata come "iniqua". Un simile epilogo non potrebbe scaturire dalla richiesta di sentenza additiva formulata dal giudice a quo, dal momento che la revisione "ordinaria" - per come positivamente disciplinata dagli artt. 629 e seguenti del codice di rito - non spiega, di per sé, effetti "invalidanti" sul materiale di prova raccolto nel precedente giudizio. Infatti, nel caso di revisione di cui all'art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., le «nuove prove» - che devono dimostrare la necessità del proscioglimento - vanno apprezzate o da sole oppure «unite a quelle già valutate».

 

7. - Pur dovendosi quindi pervenire ad una declaratoria di infondatezza della questione proposta dalla Corte rimettente - con specifico riferimento ai parametri di costituzionalità che sono stati richiamati - questa Corte ritiene di non potersi esimere dal rivolgere al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all'ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall'art. 6 della CEDU.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione, dalla Corte di appello di Bologna con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2008.


Lettere della Presidenza
della Camera dei deputati

 

 


Lettera del Presidente della Camera dei deputati, on. Gianfranco Fini, ai Presidenti delle Commissioni permanenti, in data 28 maggio 2008

(si veda il dossier pdf)

 

 


Lettera del Presidente della Camera dei deputati, on. Fausto Bertinotti, al Presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in data 31 ottobre 2006

(si vedi il dossier pdf)

 


Dottrina

 


 

www.associazionedeicostituzionalisti.it – 19 maggio 2008

 

CREAZIONE INDIRETTA DEL DIRITTO E NORME INTERPOSTE

di Stefano Maria Cicconetti
(Ordinario di Diritto costituzionale nella Università degli Studi Roma Tre)

 

Sommario. 1. La sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale. 2. La creazione indiretta del diritto mediante ordine di esecuzione. 3. Funzione e grado delle norme interposte.

 

1. La sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale. - Queste brevi note riguardano soltanto due punti specifici delle motivazioni contenute nella sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale poiché, per il resto, si concorda sia con il dispositivo della suddetta sentenza, sia con gli argomenti addotti dalla Corte per fare chiarezza sulla questione in oggetto. Questione che, in estrema sintesi, era quella del contrasto tra una disposizione contenuta nella CEDU (trattato internazionale ratificato ed eseguito dallo Stato italiano), così come interpretata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, ed una disposizione legislativa in materia di determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili. Questione che si era già proposta in passato e che aveva dato luogo a soluzioni discordanti sia in ordine all’individuazione del giudice competente a sindacare tale contrasto (il giudice ordinario mediante lo strumento della disapplicazione ovvero la Corte costituzionale mediante il giudizio di legittimità costituzionale), sia in ordine alle norme costituzionali di volta in volta richiamate per sostenere soprattutto la prima soluzione, in particolare gli artt. 10, comma 1, e 11.

La Corte sgombra il campo da tali dubbi chiarendo che tali riferimenti non sono nella fattispecie pertinenti poiché da un lato l’art. 10 si riferisce esclusivamente ad una sola categoria di norme internazionali (le norme internazionali consuetudinarie generalmente riconosciute) e non anche alle norme internazionali pattizie e dall’altro l’art. 11 si riferisce soltanto alle norme comunitarie, come unanimemente riconosciuto dalla dottrina e dalla stessa Corte con una giurisprudenza  costante. La Corte conclude ricorrendo al nuovo testo dell’art. 117, comma 1, nella parte in cui prevede il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali da parte sia della legge statale, sia delle leggi regionali, per affermare la propria esclusiva competenza e per dichiarare, conseguentemente, l’illegittimità costituzionale della disposizione legislativa italiana contrastante con l’art. 6 della CEDU.

Ma a questo punto il ragionamento della Corte, fin qui ineccepibile, mostra qualche crepa, almeno a giudizio di chi scrive.

La Corte spiega, infatti, che la struttura dell’art, 117, comma 1, “si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria…… Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato”.

La Corte qualifica pertanto le norme CEDU come norme interposte ed al riguardo precisa ulteriormente che “la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall’art. 11 della Costituzione”. Occorre quindi verificare, prosegue la Corte, “se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte[1], siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano”.

In sintesi, la Corte costituzionale compie tre affermazioni: 1) le norme CEDU sono qualificabili come norme interposte; 2) le norme interposte sono norme di rango sub-costituzionale, vale a dire “di rango subordinato alla Costituzione ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”; 3) le norme CEDU non possono fungere da norme interposte qualora contrastino con una qualsiasi disposizione formalmente costituzionale dell’ordinamento italiano.

Cercherò di dimostrare che l’affermazione n. 2 è inesatta e che le affermazioni nn. 1 e 3 implicano un equivoco.

2. La creazione indiretta del diritto mediante ordine di esecuzione. - Cominciando dal secondo punto, la Corte si riferisce sempre e soltanto alle “norme CEDU” al fine di qualificarle, a seconda del caso, come norme in grado d’integrare il parametro del giudizio di legittimità costituzionale o come norme oggetto dello stesso. In nessun punto della sentenza, per contro, si fa riferimento alle norme interne di esecuzione delle norme pattizie contenute nella CEDU[2].

Una possibile giustificazione di tale scelta operata dalla Corte potrebbe essere quella di un improvviso ed inaspettato abbandono della concezione dualistica del rapporto intercorrente tra l’ordinamento giuridico italiano e l’ordinamento internazionale in favore dell’accoglimento dell’opposta concezione monistica, in base alla quale l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti statali non sarebbero separati ma formerebbero un tutt’uno. Se così fosse, il riferimento alle norme pattizie CEDU, ai fini di cui sopra, sarebbe corretto poiché esse non sarebbero più qualificabili come norme esterne rispetto all’ordinamento italiano e dunque la loro efficacia all’interno di quest’ultimo sarebbe diretta, senza alcun bisogno della necessità di norme di esecuzione. Quantomeno nel caso del cosiddetto ordine di esecuzione e fatta salva l’ipotesi della cosiddetta “legislazione parallela”[3], vale a dire quando le norme pattizie hanno bisogno, a causa della loro formulazione non self-executing, di un atto normativo interno che puntualmente realizzi la loro esecuzione mediante disposizioni specifiche.

Tuttavia, la strada seguita dalla Corte non sembra essere questa poiché, a fronte di una giurisprudenza consolidata a favore della teoria dualistica, l’abbandono di quest’ultima avrebbe quantomeno richiesto un’esplicita affermazione (e relativa dimostrazione) in tal senso. Affermazione che non risulta dalla sentenza in oggetto mentre, all’inverso, da alcuni passi della stessa sono ricavabili elementi a favore del persistente accoglimento della tesi dualistica[4].

Da tale premessa scaturisce un’ovvia ma importante conseguenza: le norme internazionali, sia consuetudinarie sia pattizie, sono norme appartenenti ad un ordinamento, quello internazionale, distinto e separato dall’ordinamento italiano e, come tali, non possono di per sé trovare applicazione all’interno di quest’ultimo; né, a più forte ragione, possono essere oggetto di un’eventuale dichiarazione d’illegittimità costituzionale o integrare il parametro del giudizio della Corte.

Occorre, perciò, un meccanismo che consenta la creazione di norme interne corrispondenti alle suddette norme internazionali e tale meccanismo è stato individuato nel rinvio operato, sia pure con modalità diverse, nei confronti delle norme internazionali consuetudinarie generalmente riconosciute dall’art. 10, I°c., Cost., e nei confronti delle norme internazionali pattizie dal cosiddetto ordine di esecuzione[5]. In tali casi si è di fronte a quella che a suo tempo ho definito come “creazione indiretta” del diritto[6], vale a dire quando il diritto non è il prodotto delle fonti-atto e delle fonti-fatto previste dall’ordinamento, come normalmente avviene, bensì sorge, per l’appunto indirettamente, attraverso il rinvio, compiuto da un determinato ordinamento  giuridico statale, a norme ad esso esterne: intendendosi per norme esterne quelle appartenenti all’ordinamento internazionale  o, in determinati casi, ad altri ordinamenti statali (come, secondo alcuni, avverrebbe nel caso del diritto internazionale privato).

I meccanismi con i quali può realizzarsi l’esecuzione di un trattato internazionale all’interno di un ordinamento giuridico statale sono essenzialmente due. Si può approvare un atto-fonte (ad esempio una legge o un regolamento amministrativo) le cui disposizioni riproducano il testo delle clausole contenute nel trattato, eventualmente modificando il testo di taluna di esse per adeguarlo, senza mutarne la sostanza, alle caratteristiche dell’ordinamento nel quale avviene l’esecu­zione. A parte il fatto che tale metodo viene usato raramente per ovvie ragioni di praticità, c’è da osservare che in questo caso ricorre una ipotesi di creazione del diritto non indiretta ma diretta dal momento che si è di fronte alla approvazione di un atto-fonte (legge, regolamento amministrativo ecc.) che inserisce autonomamente, come proprio contenuto, determinate disposizioni nel­l’or­di­namento giuridico statale, risultando del tutto irrilevante, ai fini del problema in esame, la circostanza che tali disposizioni siano sostanzialmente identiche alle clausole contenute in un trattato internazionale ratificato dallo Stato italiano.

Il secondo strumento è il cosiddetto «ordine di esecuzione»[7], consistente in una disposizione, contenuta in un atto normativo interno, con la quale, secondo una formula divenuta ormai rituale, si dà piena e completa esecuzione alle clausole di un trattato, il cui testo viene allegato, a fini meramente conoscitivi, all’atto normativo; nel caso dei trattati di cui all’art. 80 Cost. è prassi costante che nella legge di autorizzazione alla ratifica venga inserito un articolo contenente l’ordine di esecuzione [8]. A quest’ultimo si ricorre normalmente nel caso di trattati internazionali cosiddetti self-executing, caratterizzati dall’essere composti da clausole suscettibili d’immediata applicazione senza bisogno di ulteriori specifiche disposizioni interne di attuazione-esecuzione[9]. L’ordine di esecuzione è pertanto lo strumento che, rinviando sinteticamente, una volta per tutte[10], alle clausole del trattato, crea all’interno dell’ordinamento italiano norme non scritte corrispondenti a tali clausole, norme che dovranno essere ricavate dall’inter­prete (e dunque in primo luogo dai giudici nazionali adeguandosi, nel caso particolare della CEDU, alle interpretazioni della Corte da quest’ultima prevista[11]), tenendo peraltro conto degli adattamenti richiesti dal­le particolari esigenze proprie di ciascun ordinamento statale.

Il rinvio operato con l’ordine di esecuzione non è un rinvio recettizio per due ordini di motivi: perché ciò che viene inserito nell’ordinamento interno non sono le disposizioni o clausole di cui consta il trattato ma le norme da esse desumibili per via di interpretazione; perché le norme che vengono inserite non sono sempre esattamente identiche alle norme ricavabili dal testo del trattato, data la necessità di adattare sul piano interno una norma nata come regola destinata ad operare sul piano internazionale nei rapporti tra Stati [12]. Il rinvio è, invece, sotto un altro punto di vista, qua­lificabile come rinvio fisso, dal momento che esso si riferisce non a qualsiasi norma internazionale di tipo pattizio ma soltanto a quelle specifiche norme poste in essere da quel determinato trattato; in altre parole, l’oggetto del rinvio è concretamente definito e non solo astrattamente definibile. Occorre aggiungere che l’ordine di esecuzione ha il grado gerarchico proprio dell’atto normativo nel quale è contenuto [13], da ciò conseguendo che le norme create nell’ordina­mento italiano avranno anch’esse il medesimo grado. Si potranno perciò avere norme di grado legislativo quando l’ordine di esecuzione è contenuto in una legge (come necessariamente avviene per i casi di cui all’art. 80 Cost.), ovvero norme di grado inferiore quando l’ordine di esecuzione è contenuto in un regolamento amministrativo o in un atto amministrativo (come avviene spesso nel caso di accordi in forma semplificata).

Tutto ciò premesso, sono da ammettere controlli in senso lato giurisdizionali sulla legittimità delle norme create nel modo indiretto che si è fin qui illustrato poiché tali norme, pur essendo diritto non scritto, entrano tuttavia a far parte dell’ordinamento italiano grazie alla disposizione contenuta in un atto normativo (la disposizione che prevede l’ordine di esecuzione) e pertanto nei loro confronti vige il regime stabilito dal­l’or­dinamento «per il diritto scritto da fonti-atto e non già quello del vero jus non scriptum (da fonti-fatto)» [14].

Per quanto attiene alle norme create mediante ordine di esecuzione contenuto in una disposizione legislativa, la Corte costituzionale si è pronunciata ripetutamente in favore della loro sindacabilità in sede di giudizio di legittimità costituzionale, affermando che un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale deve avere per oggetto la disposizione legislativa contenente l’or­dine di esecuzione per la parte in cui si riferisce a norme ricavate da determinate clausole del trattato [15]. Formula ellittica che in realtà sta ad indicare non la dichiarazione d’illegittimità parziale della disposizione contenente l’ordine di esecuzione ma la dichiarazione d’illegittimità della norma creata dalla suddetta disposizione. In altre parole, ferma restando la clausola pattizia, che, in quanto disposizione esterna rispetto all’ordinamento italiano, non può essere di per sé oggetto del sindacato di legittimità costituzionale, essa non potrà più produrre effetti all’interno del suddetto ordinamento essendo stata dichiarata illegittima la norma interna ad essa corrispondente.

Il meccanismo di adattamento sopra descritto per le norme pattizie non sembra intaccato dalla nuova formulazione dell’art. 117, comma 1, Cost., sia perché la prassi della necessità dell’esecuzione interna delle norme pattizie non è venuta meno né in Italia né in ogni altro Stato, sia perché per introdurre un meccanismo di adeguamento automatico ai trattati internazionali sarebbe necessario modificare l’art. 10 Cost. Del resto, il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, di cui alla citata disposizione costituzionale, è norma che acquista significato concreto per relationem, vale a dire mediante l’individuazione dei casi nei quali lo Stato italiano deve ritenersi vincolato. E tali casi non possono essere altri che quelli derivanti dall’art. 10, comma 1, Cost. e dai trattati ratificati ed eseguiti dallo stesso Stato italiano[16]. Il caso limite di un trattato ratificato ma non ancora eseguito non sembra sufficiente a determinare l’illegittimità di eventuali norme interne, sia anteriori sia posteriori, contrastanti con alcune clausole del trattato stesso, poiché la qualificazione di queste ultime come norme appartenenti ad un ordinamento, quale quello internazionale, diverso e separato rispetto all’ordinamento italiano, ne esclude la parametricità ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. In tal caso l’unica conseguenza sarà quella della responsabilità sul piano internazionale dello Stato italiano nei confronti dell’altro Stato contraente per mancata esecuzione del trattato.  

Ciò non significa che il rinvio di cui all’art. 117, comma 1, Cost. agli obblighi internazionali non abbia una portata innovativa sul piano dei vincoli discendenti dalle norme pattizie. Infatti, la richiamata disposizione costituzionale impone, anzitutto, alla legge di esecuzione di conformarsi alle clausole del trattato e, qualora ciò non avvenga, la legge suddetta sarà illegittima per violazione dell’art. 117 Cost., mentre in passato la suddetta situazione di contrasto dava luogo soltanto a responsabilità internazionale dello Stato italiano nei confronti dello Stato estero contraente. In secondo luogo, l’art. 117, comma 1, Cost. permette di qualificare come norma interposta la legge di esecuzione nei confronti delle leggi successive, poiché queste ultime saranno illegittime per violazione della suddetta disposizione costituzionale qualora le modifiche apportate alla legge di esecuzione contrastino con le clausole del trattato[17].

3. Funzione e grado delle norme interposte. - Per valutare l’esattezza dell’altra affermazione della Corte, secondo la quale le norme interposte sono norme di rango sub-costituzionale, vale a dire “di rango subordinato alla Costituzione ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”, occorre partire dalla seguente premessa: il grado gerarchico - o, a seconda dei casi, la sfera di competenza[18] - di una fonte è quello che le è attribuito dalle relative norme sulla produzione ed è sempre lo stesso nei rapporti con le altre fonti. Esemplificando, una legge costituzionale è, ai sensi dell’art. 138 Cost., sempre gerarchicamente superiore a tutte le altri fonti; la legge ordinaria e gli atti con forza di legge sono sempre gerarchicamente superiori ai regolamenti amministrativi i quali, a loro volta, lo sono nei confronti della consuetudine. Il grado gerarchico di una fonte può essere variabile soltanto quando ciò le è espressamente consentito dalla norma sulla produzione che la disciplina, come avviene, ad esempio, per le leggi di esecuzione dei Patti lateranensi che, ai sensi dell’art. 7, comma 2, Cost., possono essere modificate unilateralmente con legge costituzionale ovvero con legge ordinaria se le modifiche sono state accettate dalle due parti.

La verifica del grado gerarchico delle norme interposte[19] deve pertanto essere compiuta in concreto sulla base della suddetta premessa, partendo da quelle fattispecie nelle quali si riconosce unanimemente la sussistenza di norme definibili come interposte per arrivare, conclusivamente, alla fattispecie oggetto della sentenza della Corte.

In questo senso, l’esempio tipico di norma interposta è rappresentato dalla legge di delega e dunque è a quest’ultima che occorre fare riferimento per verificarne il grado gerarchico. Se fosse esatto che essa, in quanto norma interposta, ha un grado sub-costituzionale, tale grado, in conformità alla premessa di cui sopra, dovrebbe operare nei confronti di tutte le fonti di grado inferiore, vale a dire in primo luogo (e via via a scendere) nei confronti delle leggi ordinarie: queste ultime, pertanto, non potrebbero abrogare una legge di delega pena la loro illegittimità.  Tuttavia, la realtà è completamente diversa perché, in pendenza di una delega conferita al Governo dal Parlamento, niente impedisce a quest’ultimo di abrogare (sia espressamente, sia tacitamente) la legge  di delega vigente[20] per: a)  disciplinare esso stesso con una nuova legge l’oggetto della precedente delega; b) rinunciare a disciplinare con legge la materia in questione ritenendo più opportuno il ricorso ad altre fonti, sia superiori sia inferiori: c) non ritenere più necessario, per i motivi più vari, modificare le disposizioni vigenti in materia, astenendosi, pertanto, da qualsiasi nuovo intervento normativo.

Le ipotesi di revoca della delegazione, sia espressa sia tacita, costituiscono un argomento insuperabile contro l’attribuzione alle leggi di delega di un grado gerarchico superiore rispetto a quello proprio di tutte le altre leggi. Ed allora delle due l’una: o, per salvare l’idea che le norme interposte abbiano un grado sub-costituzionale, si nega (come sembra del tutto improbabile) che le leggi di delega contengano norme di questo tipo, oppure si deve necessariamente accettare che le norme interposte non hanno un grado gerarchico superiore a quello proprio delle norme legislative.

Del resto, il vincolo che scaturisce dalle norme interposte nei confronti di norme successive deriva dalla loro parametricità, determinata dal particolare rapporto che intercorre tra esse ed una norma costituzionale, in base al quale il contrasto con una norma interposta costituisce automaticamente violazione della norma costituzionale. Tale rapporto ha una valenza esclusivamente funzionale - quella di attribuire alle norme interposte il carattere di norme parametro della legittimità costituzionale di eventuali norme successive – senza bisogno di determinare alcuna variazione in termini di gerarchia. Le fonti che contengono norme qualificabili come interposte, pertanto, non si distinguono dalle altre fonti previste dall’ordinamento giuridico né in termini di gerarchia né in termini di competenza: la loro caratteristica risiede nel fatto di essere composte da norme che assolvono la funzione di parametro del giudizio di legittimità costituzionale.

Il suddetto vincolo opera esattamente nello stesso modo nelle altre ipotesi di norme interposte ricavabili dal nostro ordinamento. Le leggi di cui  all’art. 117, comma 3, possono essere modificate da leggi successive che stabiliscano nuovo principi fondamentali per l’esercizio della legislazione regionale concorrente (poiché la competenza del Parlamento al riguardo è dinamica e non si esaurisce in un unico ed immutabile intervento legislativo) ma le leggi regionali, espressione della potestà legislativa concorrente, non possono disattendere i suddetti principi pena la loro illegittimità per contrasto indiretto con l’art. 117, comma 3. Egualmente, le norme di esecuzione di un trattato internazionale, poste mediante legislazione parallela o create da un ordine di esecuzione, potranno essere modificate da leggi successive purché le nuove norme di esecuzione siano conformi alle clausole del trattato così come interpretate nell’ordinamento italiano o, nel caso della CEDU, dalla Corte da tale convenzione prevista; diversamente, le nuove norme che, pur autoqualificantesi come norme di esecuzione, contrastino con le norme del trattato, tali non potranno essere riconosciute e saranno invece norme illegittime per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost.

Tornando alla sentenza in commento, si può concludere nel senso che le norme di esecuzione della CEDU, create sulla base dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 2 della L. 4 agosto 1955, n. 848, sono qualificabili come norme interposte di grado legislativo aventi la funzione di parametro in rapporto all’art. 117, comma 1, senza dover postulare, a questo fine, un loro grado gerarchico sub-costituzionale.



[1] Si fa riferimento, ovviamente, alla Corte europea per i diritti dell’uomo.

[2]  Nella sentenza n. 349 del 2007, invece, sono presenti alcuni riferimenti alle norme di esecuzione (cfr. pagg. 1, 3 e 6 del considerato in diritto), anche se le conclusioni, conformi a quelle della sentenza annotata, si riferiscono direttamente alle norme CEDU. Più sinteticamente ma nello stesso senso si veda anche la successiva sentenza n. 39 del 2008. Sia pure a fini diversi da quelli di cui al testo, osserva esattamente LUCIANI, Alcuni interrogativi sul nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in ordine ai rapporti tra diritto italiano e diritto internazionale, in Il corriere giuridico, 2008, n. 2, pag. 203, che “Le norme della Convenzione, però, non sono solo norme pattizie, confidate all’interpretazione del giudice internazionale, ma sono anche (divenute, pel diritto interno) norme di legge (della legge, cioè, che ha dato esecuzione allo strumento internazionale)”.

[3] L’espressione è di MONACO, Diritto internazionale pubblico, Torino 1971, 230.

[4] Ad esempio, sia pure al diverso scopo di differenziare la CEDU dai Trattati comunitari, è indicativo, ai fini di cui al testo, il seguente passo (pag. 3 del motivato in diritto): la CEDU “è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri”.

[5] L’intuizione della necessità di cui al testo nasce nella dottrina internazionalistica italiana (e non poteva essere altrimenti), subito attenta ai nuovi problemi posti dall’art. 10, comma 1, della Costituzione. In particolare, la costruzione del meccanismo, che viene ampiamente illustrato nel testo, si deve a MIELE, La Costituzione italiana e il diritto internazionale, Milano 1951, 9 – 29, al quale aderisce, primo tra i costituzionalisti, CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, V ed, II°, 36 e 175, (ma già prima cfr. anche dello stesso Idem, Padova 1968, I°, 223 sg.). Occorre ricordare, sia pure in estrema sintesi dato il carattere di questo scritto, che nella dottrina internazionalistica italiana il problema dell’adattamento interno, sia automatico sia mediante ordine di esecuzione, alle norme internazionali è stato  risolto in sede teorica ricorrendo da alcuni al concetto di norma di produzione e da altri al concetto di norma sulla produzione. Nel caso dell’ordine di esecuzione, la prima tesi (che è  sostenuta in particolare da MIELE) qualifica quest’ultimo come un’atto che determina esso stesso, per forza propria, la creazione delle norme interne corrispondenti alle clausole del trattato; la seconda tesi lo qualifica, invece, come un atto che prevede un meccanismo di produzione giuridica delle norme interne di adattamento (vale a dire una norma sulla produzione), meccanismo in base al quale gli atti o i fatti che determinano il sorgere di norme nell’ordinamento internazionale sono considerati idonei alla creazione anche delle corrispondenti norme interne. Per indicazione degli AA. che sostengono la seconda tesi e sulle sfumature della tesi medesima cfr. ampiamente FABOZZI, L’attuazione dei trattati internazionali mediante ordine di esecuzione, Milano 1961, 36ss. Per le più recenti ricostruzioni dell’ordine di esecuzione (che per la verità non mi appaiono particolarmente convincenti) cfr. ampiamente CANNIZZARO, Trattato (adattamento al), in Enc. Dir., vol. XLIV, Varese 1992, spec. 1402 ss. Ai fini di cui al testo, peraltro, non sembra necessario aderire all’una o all’altra delle tesi cosiddette produttivistiche poiché ambedue, pur partendo da premesse diverse, pervengono al medesimo risultato (che è quello che interessa in questa sede): l’ordine di esecuzione determina la creazione di norme interne non scritte il cui significato deve essere ricavato dall’interprete con riferimento alle clausole del trattato. 

[6] Cfr. CICCONETTI, Appunti di diritto costituzionale. Ordinamento giuridico statale e fonti costituzionali, Torino 1991, 56 ss. ed ora, più ampiamente, Le fonti del diritto italiano, II ed., Torino 2007, 35 ss. e 500 sg. Un’espressione analoga è usata, per designare lo stesso meccanismo di cui al testo, da LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino 1979, 383 ss., che parla di “fonti indirette”.

[7] Che ricorre, per l’appunto, nel caso della CEDU con riferimento all’art. 2 della L. 4 agosto 1955, n. 848.

[8] In particolare, l’art. 1 di tale legge conterrà l’autorizzazione alla ratifica e l’art. 2 conterrà l’ordine di esecuzione. Qualora le norme pattizie introdotte con l’ordine di esecuzione comportino un onere finanziario, la legge conterrà un ulteriore articolo che, ai sensi dell’art. 81, comma 4, Cost., preveda la copertura finanziaria (i mezzi per far fronte alla nuova spesa o alla diminuzione di entrate).

[9] Vale forse la pena di ripetere, ad ulteriore precisazione di quanto affermato nel testo, che la definizione di un trattato come self-executing non significa che le sue clausole si applicano all’interno dell’ordinamento italiano direttamente e senza bisogno di ulteriore esecuzione (poiché si tratta pur sempre di disposizioni esterne rispetto ad esso) ma soltanto che in questo caso è sufficiente l’ordine di esecuzione senza bisogno di ricorrere alla “legislazione parallela”. Questo caso è completamente da quello delle direttive comunitarie self-executing che, invece, per le note ragioni, trovano immediata e diretta applicazione negli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione europea

[10]MIELE, La Costituzione, cit., 25, ritiene, con una felice espressione, che l’ordine di esecuzione contenga “una formula di legislazione vera e propria, benché ellittica od abbreviata”.

[11]Ai sensi dell’art. 32, par. 1, CEDU e come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza che si commenta e nelle successive nn. 349/2007 e 39/2008.

[12]Per quest’ultima osservazione cfr. Monaco, Diritto internazionale pubblico, Torino 1971, 231 sg.

[13]Cfr., tra i molti, Monaco, Diritto internazionale, cit., 231 e come ripetutamente affermato dalla stessa Corte costituzionale prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 117, comma 1, Cost. Cfr. pag. 4 del considerato in diritto della sent. n. 348 e pag. 1 della sent. n. 349. 

[14]Cfr. Crisafulli, Lezioni, cit., II, 38.

[15]Per l’indicazione delle sentenze della Corte costituzionale e della dottrina su questo punto si rinvia, per brevità, a Lippolis, La Costituzione italiana e la formazione dei trattati internazionali, Rimini 1989, 292 sg., nota 2.

[16]Il ragionamento vale negli stessi termini per la disposizione, di cui all’art. 10, comma 2, Cost. secondo la quale “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Quali norme e quali trattati internazionali? Non qualsiasi norma consuetudinaria internazionale, né qualsiasi trattato, perché, limitandoci per brevità alle sole norme pattizie, non sembra accettabile che lo Stato italiano debba ritenersi vincolato, nella disciplina legislativa della condizione giuridica dello straniero, anche da trattati intervenuti tra Stati diversi e comunque non ratificati, né eseguiti, dallo stesso Stato italiano. A ritenere il contrario, l’art. 10, comma 2, determinerebbe una limitazione della sovranità che, per contro, può ammettersi soltanto quando è la stessa Costituzione che lo consente espressamente. E’ il caso – e sembra essere l’unico – dell’art. 11 Cost. L’individuazione di quali sono i trattati di cui all’art. 10, comma 2, non sembra argomento particolarmente avvertito dalla dottrina. Un accenno si ritrova in A. CASSESE, Art. 10 – 12, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Roma-Bologna 1982,  510, (che riferisce la citata disposizione costituzionale ai “trattati stipulati dall’Italia”); in senso analogo anche BARILE-CHELI-GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 2005, 388. CANNIZZARO – CALIGIURI, Art. 10, in Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto e Olivetti, Torino 2006, vol. I, 251, ritengono che la disposizione costituzionale in oggetto operi nei confronti dei trattati stipulati dallo Stato italiano, indipendentemente dalla circostanza che essi siano stati resi esecutivi. Tale precisazione non sembra, però, persuasiva perché, anche nella logica dell’art. 10, comma 2, la parametricità delle clausole contenute in un trattato internazionale, ai fini della dichiarazione d’illegittimità costituzionale di eventuali leggi con esse contrastanti, può essere sostenuta soltanto con riferimento a norme dell’ordinamento italiano e dunque alle norme di esecuzione di quel trattato, siano esse frutto di creazione indiretta mediante ordine di esecuzione o frutto di creazione diretta nel caso della cosiddetta legislazione parallela. Inoltre, qualora lo Stato italiano, dopo avere ratificato un trattato internazionale disciplinante la condizione giuridica dello straniero, non intenda poi, per i motivi più vari (ad es. la formazione di un Governo assolutamente contrario a quel trattato stipulato dal suo predecessore), darvi esecuzione, tale circostanza sta a significare che esso non vuole immettere al proprio interno quelle norme ed a maggior ragione non intende esserne condizionato nell’eventuale successivo esercizio della propria funzione legislativa in materia.  In questo caso, ferma restando la responsabilità dello Stato sul piano internazionale, sembra eccessivo ritenere che le clausole del trattato suddetto non assumano la veste di norme parametro ai fini di cui all’art. 117, comma 1, (come si è cercato di sostenere nel testo) e la assumano, invece, ai fini di cui all’art. 10, comma 2. In tale ipotesi, mentre è sicura, come già detto, la possibilità di far valere la responsabilità internazionale dello Stato italiano da parte dell’altro Stato contraente, non sembra affatto sicuro che si determino conseguenze in ordine ai rapporti intercorrenti tra le fonti dell’ordinamento italiano. Del resto, gli stessi CANNIZZARO – CALIGIURI, op. cit., ibidem, sempre in riferimento all’art. 10, comma 2, affermano anche che “peraltro, in presenza di leggi precedenti rispetto alla stipulazione di accordi si può ragionevolmente concludere che la normativa di attuazione di questi, se contenuta in una legge ordinaria (il corsivo è mio), prevalga sulla precedente in virtù di un criterio di ordine temporale”.

[17]Quanto agli accordi in forma semplificata, si deve escludere che essi, ove non recepiti con legge statale o con atto ad essa equiparato, possano limitare la potestà legislativa del Parlamento e quella delle Regioni. In altre parole, qualora il Governo decida di dare esecuzione all’ac­cordo con atto privo di forza di legge, l’obbligo internazionale, così contratto, non sarebbe in grado di vincolare, ai sensi dell’art.  117, comma 1, Cost., la produzione legislativa interna, poiché un atto subordinato alla legge non può vincolare quest’ultima.

[18]Per semplicità di discorso, nel testo ci si limiterà a riferirsi a quelle ipotesi nelle quali i rapporti tra le fonti sono disciplinati dal principio della gerarchia, tralasciando quelle nei quali tali rapporti sono disciplinati dal principio della competenza, perché l’affermazione della Corte, che s’intende criticare, si riferisce nella specie al presunto grado gerarchico sub-costituzionale che avrebbero le norme interposte. Per lo stesso motivo, non vengono qui considerate quelle tesi (come quelle sostenute in particolare da ESPOSITO e MODUGNO) che più in generale ricostruiscono i rapporti tra le fonti esclusivamente in termini di competenza. Al riguardo si rinvia a CICCONETTI, Le fonti, cit., 49 ss.

[19]Occorre dire che la dottrina che si è occupata delle norme interposte (dal suo creatore LAVAGNA, Problemi di giustizia costituzionale sotto il profilo della “manifesta infondatezza”, Milano 1957, 28 ss., a, tra i molti, CRISAFULLI, Lezioni, cit., 360 e, da ultimo in modo completo, SICLARI, Le “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, Padova 1992) non si è posta in modo esplicito il problema del loro grado gerarchico, quasi a voler presupporre l’inesistenza di un grado gerarchico diverso da quello proprio della fonte-legge che le contiene. La negazione di un grado gerarchico particolare della legge di delega è esplicitamente affermato da ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1990, 169, e recentemente, sia pure en passant, in relazione a tutte le ipotesi di norme interposte, da CALVANO,  La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio? In Giur. It. 2008, 3, 574.

[20]Tale ipotesi è unanimemente ammessa in dottrina. Cfr., tra gli altri, LAVAGNA, Istituzioni, cit., 305; PALADIN. Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, 205; CERVATI, Legge di delegazione e legge delegata, in Enc. dir., XXIII, Varese 1973, 945, nota 20; CERRI, Delega legislativa, in Enc. giur. Treccani, X, Roma 1993, 3 sg.; CICCONETTI, Le fonti, cit., 275.

 


 

 

 

 


 


 



www.associazionedeicostituzionalisti.it – 3 marzo 2008

 

 

Sul trattamento giurisdizionale della CEDU

e delle leggi con essa confliggenti *

 

di Cesare Pinelli

 

1. La nuova configurazione della CEDU in una motivazione trasparente. 2. L’interpretazione dell’enunciato “obblighi internazionali” ex art. 117, primo comma, Cost. 3. La riaffermazione del sindacato accentrato quale obiettivo preminente dell’interpretazione dell’enunciato. 4. Il sindacato di costituzionalità sulla CEDU in quanto norma interposta. 5. Le implicazioni del sindacato sulla CEDU nella visione della Corte. 6. L’importanza del caso. 7. Sulla tutela multilivello dei diritti. 8. Risvolti problematici.

 

1. La motivazione si incentra sul trattamento giurisdizionale delle leggi confliggenti con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e della stessa CEDU. Una serie di elementi riscontrati nella più recente esperienza  inducono la Corte  a superare il risalente indirizzo che ascriveva alle norme CEDU, in quanto pariordinate a quelle legislative, una mera funzione di ausilio interpretativo negli scrutini su pretese violazioni dei diritti fondamentali, e a configurarle come norme  interposte in riferimento al nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. La CEDU è pertanto invocabile davanti alla Corte quale parametro integrativo nel giudizio su leggi con essa confliggenti, e per la stessa ragione diventa oggetto di quel giudizio, onde assicurare che le norme assunte a parametro non risultino a loro volta viziate. 

Possono ravvisarsi tre elementi che hanno convinto la Corte a questo passo: il vincolo degli obblighi internazionali posto in capo alle leggi statali e regionali dal nuovo testo dell’art. 117, primo comma, la tendenza dei giudici comuni a disapplicare le leggi nazionali in ipotesi confliggenti con la CEDU e, in stretto collegamento, l’accresciuta incidenza della Corte europea dei diritti dell’uomo negli ordinamenti degli Stati aderenti alla Convenzione. Mettendo da parte reticenze e passaggi magari volutamente oscuri, la motivazione li  enuncia in modo trasparente. E il  commentatore, dispensato dal divinare auspici, può impegnarsi nel compito di individuarne il peso rispettivo, dopo aver prestato attenzione al caso, agli argomenti e al contesto. Diventa così possibile un dialogo sotto forma di un’interazione fra ragioni, che assicura la continuità dell’interpretazione costituzionale nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno.

 

2. Un’eccezione di inammissibilità, prospettata dalla parte privata sul presupposto di un preteso dovere di disapplicazione da parte dei giudici comuni delle norme interne che la Corte europea abbia considerato contrastanti con la CEDU, offre alla Corte la possibilità di ribadire l’indirizzo secondo cui la CEDU, a differenza dell’ordinamento comunitario, non produce norme direttamente vincolanti per le autorità interne degli Stati membri (sent.n. 188 del 1980), corrispondente alla distinzione fra gli obblighi internazionali da quelli derivanti dall’ordinamento comunitario operata dal nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. (§ 3.3.). Né le norme CEDU potrebbero ricadere nell’ambito dell’art. 10, primo comma, Cost., trattandosi di  norme pattizie ancorché generali (§ 3.4).

Le due negazioni aprono la via all’interpretazione del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, tanto più perché la medesima questione era stata più volte rigettata prima dell’entrata in vigore della l.cost.n. 3 del 2001 in base all’indirizzo che annoverava la legge di adattamento dei trattati tra le fonti di grado primario: peraltro, ammette la Corte, erano rimasti “notevoli margini di incertezza” circa il rango delle norme CEDU, in quanto volte pur sempre a tutelare diritti fondamentali e perciò tali da integrare princìpi costituzionalmente protetti, il che aveva  indotto giudici comuni, anche di legittimità, a disapplicare norme interne con esse confliggenti. 

Il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, consente alla Corte di “fare chiarezza su tale problematica normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto”. Esso rende infatti “inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto alle leggi ordinarie successive”, e d’altra parte “attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione di leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del Giudice delle leggi” (§ 4.3).

Né l’operatività del nuovo testo potrebbe ritenersi limitata  nell’ambito dei rapporti tra Stato e Regioni, poiché la validità della legge statale “non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale”, senza contare che con la riforma del titolo V tale potenzialità coincide con la competenza esclusiva e concorrente dello Stato, per cui l’operatività del primo comma dell’art. 117 si estenderebbe comunque ad ogni tipo di potestà legislativa, statale e regionale (§ 4.4.).

Per la verità, la tesi della portata non innovativa della previsione del limite degli “obblighi internazionali” in capo alla legislazione statale si fondava sul diverso  argomento che, essendo tali obblighi sicuramente già previsti dall’art. 10, primo comma, in riferimento al diritto internazionale generale e, sia pure con maggiori dubbi della dottrina, dall’art. 2 in riferimento all’adesione alla CEDU, l’onere di dimostrare che l’art. 117, primo comma, avesse esteso ai trattati la fonte degli obblighi internazionali del legislatore statale dovesse spostarsi sui sostenitori  della portata innovativa [1].

L’obiezione della Corte che “la legge è sempre la stessa”, che la si consideri sotto il profilo della delimitazione della competenza con la legge regionale o nella sua potenzialità normativa generale, presuppone invece pacificamente che la locuzione “obblighi internazionali” abbia operato quell’estensione, tanto da ascrivere ai sostenitori della portata non innovativa la tesi, sicuramente contraddittoria, ma da costoro mai prospettata, che la locuzione avrebbe portata innovativa almeno nell’ambito dei rapporti Stato-Regioni. 

 

3. Il fatto è che la tesi rigettata avrebbe reso molto più difficile configurare l’antinomia nei termini di una questione di legittimità costituzionale, e rispondere così all’incipiente ma potenzialmente inarrestabile tendenza dei giudici comuni  a disapplicare le norme legislative confliggenti con la CEDU [2]. che la Corte deve aver avvertito come una minaccia per le sorti dello stesso modello di giustizia costituzionale in quanto basato su un sindacato accentrato. La posta in gioco era anzitutto qui, come si evince dalla riaffermazione, diversamente  troppo ovvia, che il giudizio sulle questioni di legittimità costituzionale è “di esclusiva competenza del Giudice delle leggi”.

La tesi rigettata avrebbe potuto condurre a due risultati reciprocamente  alternativi, ma comunque tali da perdere di vista la posta in gioco, se non da rinunciarvi in via preliminare. Avrebbe portato a ribadire il consolidato indirizzo sul rango delle norme CEDU, e la risposta sarebbe allora suonata troppo debole. Oppure, raccogliendo e ricostruendo orientamenti affermati solo sporadicamente – per un verso la configurazione della CEDU come fonte atipica (sent.n. 10 del 1993), per l’altro il “reciproco collegamento”, in via interpretativa, tra cataloghi dei diritti dell’uomo come quelli della Costituzione e della CEDU  (sent.n. 388 del 1998) –, la Corte avrebbe potuto accogliere la sempre più diffusa tesi della  specialità ratione materiae dei trattati sui diritti dell’uomo rispetto agli altri trattati internazionali [3], ancorando all’art. 2 la prevalenza della CEDU su norme confliggenti: ma una simile priorità della gerarchia materiale su quella formale, spostando la prospettazione dell’antinomia dal piano delle fonti – la Costituzione, la CEDU, e la legge – a quello dei diritti da esse rispettivamente riconosciuti, avrebbe dato man forte alla tendenza a disapplicare le norme interne confliggenti.

Se la posta in gioco consisteva nel lasciare aperta una breccia significativa nel sindacato accentrato, non stupisce l’opzione per la portata innovativa della locuzione “obblighi internazionali”, né appare “singolare”, d’altro canto, il silenzio sul possibile ancoraggio all’art. 2 Cost. dei diritti riconosciuti dalla CEDU [4].

 

4. Che la soluzione rinvenuta sia incentrata sul trattamento giurisdizionale, è confermato là dove la Corte osserva che, indipendentemente dalla qualifica di “fonti interposte”, come vengono designate in dottrina e in giurisprudenza ma non senza dubbi circa la suscettibilità di designare così una categoria unitaria, “le norme di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria” consentono al parametro cui si collegano di “diventare concretamente operativo”: nella specie, le norme della CEDU consentono di determinare quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni.

E’ forse questa una “prospettiva formale-astratta”, contrapponibile ad una “assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico” [5] ? Non si direbbe che la Corte sia interessata a un inquadramento sistematico di uno o di altro tipo. La stessa  corrispondenza tra rango delle fonti interposte e loro suscettibilità di assurgere a parametro (§ 4.5.), era stata perlomeno relativizzata là dove si era osservato che  “eventuali contrasti” fra norme CEDU e leggi ordinarie successive “non generano...valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale” (§ 4.3.). E la difficoltà di designare una categoria unitaria di fonti interposte si riferisce  proprio al profilo sistematico [6].

Ciò che conta è la sottoponibilità delle leggi al sindacato di legittimità per violazione dell’art. 117, primo comma, per il tramite delle norme CEDU. Ma anche, cruciale risvolto della ricostruzione, della CEDU per violazione di altre norme costituzionali. Per “evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione”, si impone infatti l’esigenza “assoluta e inderogabile” che le norme sub-costituzionali siano esse stesse conformi a Costituzione, e che quindi tale conformità sia vagliata dalla Corte ogni volta che si ponga un caso di contrasto tra norme interposte e norme legislative interne (§ 4.7.). Le implicazioni sul trattamento giurisdizionale della CEDU sono di grande rilievo e, come vedremo, altrettanto problematiche.

 

5. Insieme alla disapplicazione delle leggi difformi dalla CEDU, la peculiarità della CEDU rispetto agli altri trattati internazionali, consistente nell’istituzione di una Corte posta a garanzia dell’interpretazione delle sue norme, costituisce l’altra preoccupazione del giudice di costituzionalità delle leggi. Essa pone del pari un problema di trattamento giurisdizionale e di conseguenti potenziali conflitti – in questo caso, sulle norme CEDU in quanto tali –, che la configurazione della Convenzione come fonte interposta può allo stesso modo risolvere.

Dal potere di interpretazione conferito alla Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale desume che “tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”: non si tratta di “una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia”.

L’obbligo incombente sul legislatore in caso di dichiarata incompatibilità di una legge italiana con la CEDU da parte della Corte di Strasburgo viene dunque distinto dalla forza delle norme CEDU nel nostro ordinamento, che rimane sub-costituzionale quand’anche tali norme vengano interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, esse sono soggette a scrutinio di costituzionalità. Per evitare il ricordato paradosso di una norma legislativa dichiarata incostituzionale in base ad una norma sub-costituzionale a sua volta in contrasto con la Costituzione, la Corte esclude “che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali”, concedendo solo un “ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione” (§ 4.7.).

Nella misura in cui il parametro cui commisurare la costituzionalità di norme interposte è costituito dall’intera Costituzione, la soluzione, tiene a precisare la Corte, differisce da quella concernente le norme comunitarie e quelle concordatarie, per le quali lo scrutinio di costituzionalità si limita alla possibile lesione dei princìpi supremi. Dalla giurisprudenza si ricava in effetti una simmetria di soluzioni, in particolare con il diritto comunitario. Dopo aver rinvenuto una riserva di giurisdizione costituzionale nell’ipotesi di allegata violazione dei princìpi supremi ad opera di regolamenti comunitari, e in generale del diritto comunitario direttamente applicabile (sent.n. 170 del 1984), la Corte estese per implicito la soluzione alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (sent. n. 116 del 1985). Parallelamente le norme CEDU, che “vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea” anziché quali disposizioni in sé e per sé considerate, soggiacciono in quanto norme interposte al comune trattamento giurisdizionale riservato alle leggi ed agli atti equiparati. L’ordinamento costituzionale, conclude in proposito la Corte, “non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall’art. 11 della Costituzione”.

Sulla base di questi “princìpi metodologici”, lo scrutinio sulle leggi in ipotesi confliggenti con la CEDU viene perciò subordinato alla previa verifica di un contrasto non sanabile in via interpretativa tra la norma censurata e quelle della CEDU come interpretate dalla Corte europea, nonché della compatibilità delle norme CEDU invocate con la Costituzione italiana (§ 5.).   

 

6. Desunte le implicazioni della soluzione sui rapporti con la Corte di Strasburgo, la Corte passa all’esame del caso. Ma,  come sempre, il caso illumina il testo e con esso  la soluzione, anche quando sia improntata a nuovi “princìpi metodologici”. Pur rimasta sullo sfondo di una ratio decidendi incentrata sul contrasto della norma censurata con il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza costituzionale non meno che con il “ragionevole legame” con il valore venale richiesto dalla Corte di Strasburgo (§ 5.7.), la diversa visione del diritto di proprietà rispettivamente ricavabile dalla CEDU e dalla Costituzione italiana deve aver influito sulla annunciata riserva iurisdictionis omnimodae sulla CEDU, a differenza, come si è detto, di quella ben più ristretta sulle norme comunitarie e concordatarie.

Prima della legge di revisione dell’art. 111 Cost., quando anche il diritto alla durata ragionevole del processo riconosciuto dall’art. 6 CEDU metteva in risalto la distanza tra i due cataloghi, la Corte osservò che le diverse formule espressive dei cataloghi dei diritti dell’uomo “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”, e addusse a riprova, dopo aver manipolato un precedente (sent.n. 345 del 1987), che il diritto di agire in giudizio garantito dall’art. 24 Cost. implica una ragionevole durata del processo (sent. n. 388 del 1999). Pur di non ridiscutere l’indirizzo che escludeva il carattere di parametro delle norme CEDU, e di fronte al rischio di un’eterointegrazione incontrollabile, la Corte cercò allora in tutti i modi di occultare le differenze di contenuto fra i cataloghi dei diritti, fino a forzare l’interpretazione della Costituzione [7].

Il sindacato sulla conformità a Costituzione delle norme CEDU dovrebbe ora porre la Corte in condizione di evitare forzature e occultamenti. Questa riappropriazione del parametro costituzionale non comporta l’accoglimento di  una “prospettiva formale-astratta” né una sottovalutazione delle virtù dell’interpretazione. Sul piano interpretativo, comporta piuttosto un riequilibrio fra le ragioni del diritto costituzionale e quelle dell’apertura, pur essa costituzionalmente riconosciuta,  ad altri ordinamenti e organizzazioni internazionali. Sul piano istituzionale, acquista una specifica valenza nella delicata partita in corso con i giudici comuni e con la Corte di Strasburgo. Se il giudizio di conformità delle leggi nazionali alla CEDU si poteva prestare all’alternativa fra rimessione alla Corte della questione di legittimità costituzionale e disapplicazione, aprendo così la via, nella seconda ipotesi, alla formazione di un circuito diretto fra giudici comuni  e Corte europea dei diritti dell’uomo, lo stesso non può dirsi del controllo di conformità a Costituzione delle norme CEDU. La subordinazione del giudizio di conformità delle leggi nazionali alla CEDU a quello di conformità a Costituzione della stessa CEDU equivale per la Corte a far sentire la sua voce in un circuito da cui altrimenti sarebbe inesorabilmente emarginata.

 

7. Contrariamente a quanto presuppone una parte della dottrina italiana, questo è un tipico modo di procedere della tutela multilivello dei diritti. La quale non consegue affatto da indiscriminate “aperture” dei giudici nazionali alla giurisprudenza delle Corti sovranazionali e internazionali, con una corrispondente ritirata dalle tradizionali impostazioni “formalistiche” a vantaggio di quelle “assiologico-contenutistiche” [8]. Una rappresentazione del genere si basa sul presupposto di una pressione delle Corti sovranazionali e internazionali volta a “liberare” i giudici nazionali dalle chiusure statualistiche un tempo dominanti, e di una progressiva risposta positiva di questi ultimi, sempre più colpevolizzati dal loro passato. L’ipotetico processo condurrebbe però al regno di Pangloss, non certo a una tutela multilivello dei diritti.

L’abbandono di impostazioni statualistiche e dell’esclusivo richiamo ai testi costituzionali non può far trascurare che, fin dall’inizio, quella tutela si strutturò attraverso interazioni fra Corti europee e nazionali, le cui reciproche aperture venivano condizionate alla preservazione, perlomeno, del nucleo essenziale dei princìpi degli ordinamenti cui ciascuna Corte faceva capo, e con essa del titolo della sua legittimazione:  per esser tale, la tutela multivello dei diritti implica che ogni giudice vi faccia sentire la sua voce, rivendicando l’esercizio delle funzioni cui è preposto [9].

Diventa così possibile il confronto fra i livelli di protezione dei diritti assicurati dalle diverse autorità giurisdizionali anche in ragione di cataloghi dal contenuto non sempre coincidente, che consente di controllare l’effettività delle garanzie giurisdizionali dell’individuo. Nello stesso tempo una tutela multilivello, proprio perché non si appresta a diventare il regno di Pangloss, comporta una certa mobilità di confini tra differenti autorità giurisdizionali e una conseguente reciproca conflittualità. Il commentatore è chiamato a individuare le aree di conflitto, cercando di cogliere di volta in volta gli esiti delle impostazioni, o come dice la Corte dei “princìpi metodologici”, enunciati in via generale. 

 

8. L’affermazione di tenore generale che la Corte di Strasburgo non dispone di una “competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano” ma “di una funzione interpretativa eminente” in grado di precisare gli obblighi internazionali degli Stati contraenti, mira ad escludere una posizione gerarchica della Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto ai giudici nazionali, lasciando intendere che è piuttosto il legislatore nazionale il destinatario degli obblighi contratti con l’adesione alla CEDU ed esigibili a seguito di una dichiarazione di incompatibilità della legge interna con uno dei diritti ivi riconosciuti.

Il passo si presta a un duplice ordine di considerazioni, a seconda che lo si confronti con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo o con gli effetti delle sue sentenze quali definiti dalla CEDU.

La Corte costituzionale non ignora di sicuro che la Corte europea si è da tempo candidata ad assumere una funzione di giurisdizione costituzionale, spingendosi a sindacare la compatibilità con il catalogo CEDU delle Costituzioni degli Stati membri [10]. Non resta in proposito che segnalare l’eventualità di conflitti, visto che la costruzione della fonte interposta equivale a riaffermare la subordinazione della CEDU alla Costituzione, di fatto temperata ma logicamente non contraddetta dalla promessa di “un ragionevole bilanciamento” fra il vincolo degli obblighi internazionali dell’art. 117, primo comma, e la tutela degli interessi protetti da altri articoli della Costituzione.

Ma, come si è detto, l’affermazione che la “funzione interpretativa eminente” della Corte di Strasburgo vale ai soli fini della “precisazione” di obblighi internazionali posti in capo al legislatore, mira anzitutto ad escluderne ogni “sovrapposizione” alle competenze degli organi giudiziari. E, sotto questo profilo, appare alquanto riduttiva  degli effetti delle sentenze della Corte europea quali definiti dalla CEDU, i quali costituiscono il fulcro degli obblighi internazionali assunti dallo Stato.

Il richiamato art. 32 CEDU, che estende la competenza della Corte “a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli”, va infatti coordinato con l’art. 46, che impegna le Alte Parti Contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”, e affida al Comitato dei Ministri il compito di sorvegliare la relativa esecuzione. Rimane così impregiudicata l’individuazione dell’organo dello Stato membro chiamato a conformarsi alle sentenze della Corte, la quale ha più volte confermato questa interpretazione dell’art. 46; e nella prassi le misure di carattere generale richieste per l’esecuzione di tali sentenze risultano adottate solo per metà dei casi dai Parlamenti nazionali, e per il resto da autorità amministrative e giurisdizionali [11].

Per giunta, sebbene la CEDU non preveda un obbligo di revisione della res iudicata a seguito di sentenza di condanna della Corte europea, numerosi  Stati membri lo hanno previsto in via giurisprudenziale o legislativa. Da noi la mancata previsione legislativa dell’obbligo si intreccia con lo scabroso problema della irragionevole durata del processo, come è noto non risolto dalla “legge Pinto”, e di recente la Corte di  Cassazione ha affermato che il giudice dell’esecuzione è tenuto a dichiarare l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea “abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo” [12].

Riferito alla vicenda appena richiamata, il  tentativo di spezzare il circuito diretto tra Corte europea e giudici nazionali dirottando sul solo legislatore l’adempimento degli obblighi connessi all’esercizio della “funzione interpretativa eminente” della Corte europea, sembra poggiare su un fondamento precario. In presenza di persistenti inadempimenti legislativi agli obblighi richiesti dalla Corte europea,  oltretutto corrispondenti a lesioni di un principio costituzionale come quello del giusto processo, davvero basterebbe limitarsi a rilevare l’assenza di un rapporto gerarchico della Corte europea rispetto ai giudici comuni?  La scelta dei mezzi per conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, rilasciata agli Stati membri dall’art. 46 CEDU, si riferisce evidentemente al quomodo, non all’an dell’obbligo. E la soluzione del caso Dorigo va letta alla luce del persistente inadempimento di un obbligo internazionale, non della ricerca di un superiore gerarchico.

Tutto il discorso sulla CEDU come fonte interposta presuppone pur sempre la sussistenza di norme legislative in ipotesi confliggenti, sola base su cui la Corte costituzionale può radicare il proprio sindacato e rivendicarlo dentro e fuori i confini nazionali. Quando tali norme manchino in ragione di un inadempimento all’obbligo  di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo imposto dall’art. 46 CEDU, lo Stato vi rimane tenuto, e i giudici che si conformino a quelle sentenze consentono l’adempimento di un obbligo internazionale. La ricostruzione del trattamento giurisdizionale della CEDU compiuta dalla sentenza in esame perde qui il suo presupposto: e stiamo parlando non di ipotesi astratte, ma di un reiterato inadempimento che evidenzia tare profonde del sistema della giustizia italiana.

D’altra parte, gli accenni compiuti dimostrano a sufficienza come la vicenda sia interamente riconducibile ai classici termini del rapporto fra diritto interno e diritto internazionale. Il suo esito provvisorio consiste bensì nella formazione di un circuito diretto giudici comuni-Corte europea. Ma più che una conferma del trionfo della tutela multilivello dei diritti su passate concezioni statualistiche,  lo dico agli amici di Pangloss, questa è solo una constatazione, che invita a verificare il fondamento della supplenza dei giudici nei confronti di un legislatore inadempiente.

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* In corso di pubblicazione per la rivista Giurisprudenza costituzionale.

 

[1] Per ulteriori argomentazioni, sia consentito rinviare, da ultimo, a C.Pinelli, Effetti orizzontali di direttive comunitarie e rispetto degli obblighi comunitari e internazionali ex art. 117, comma 1, Cost., Oss. a Cass. Sez. Lavoro, 9 agosto 2006, n. 17971, in questa Rivista, 2006, 3516 ss.

[2] Oltre alle sentenze della Cassazione citate dalla stessa pronuncia, v. Corte d’appello di Roma, Sez. lavoro, 11.4.2002, in questa Rivista, 2002, 2221, con oss. di S.Santoli, La disapplicazione di leggi ordinarie in contrasto con la CEDU in Italia e in Francia, 2227 ss.

[3] Venice Commission, The status of international treaties on human rights, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2006.

[4] Così A.Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità, tra prospettiva formale-astratta e prospettiva assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico (a prima lettura di Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007), in Forum di Quaderni costituzionali, 2007.

[5] Secondo la lettura di A.Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità, cit.

[6] Come si è dimostrato con puntuale illustrazione dei vari casi, al di là della “idoneità di tali norme ad essere invocate come parametri nei giudizi sulle leggi e sugli atti ad esse equiparati”, “diversi sono gli ‘oggetti’ nei riguardi dei quali può rivolgersi, di volta in volta, il giudizio di costituzionalità”, come pure “diversa è la natura delle fonti dalle quali sono desumibili le singole norme interposte”, nonché “il rango delle fonti produttive delle norme interposte”   (M.Siclari, Le “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, CEDAM, 1992, 141).

[7] C.Pinelli, La durata ragionevole del processo fra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Oss. a sent.n. 388 del 1999, in questa Rivista, 1999, 3000-3001.

[8] Oltre allo scritto citato di A.Ruggeri, v. da ultimo D.Tega, La Cedu e l’ordinamento italiano, in M.Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Il Mulino, Bologna, 2007, 73 ss.

[9] Fra i contributi più risalenti si può vedere C.Pinelli, Judicial Protection of Human Rights in Europe and the Limits of a Judge-Made System, in Il Diritto dell’Unione europea, 1997, 1007 ss.

[10]  Per indicazione dei casi giurisprudenziali, D.Tega, La Cedu e l’ordinamento italiano, cit., 85-86.

[11] Cfr. A.Drzemczewski, Art. 46, in S.Bartole-B.Conforti-G.Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova, 2001, 691.

[12] Cass.Sez. I, Pen, 25.1.2007, n. 2800, Dorigo, con Oss. di A.Guazzarotti, Il caso Dorigo: una piccola rivoluzione nei rapporti tra CEDU e ordinamento interno?, in www.forumcostituzionale.it

 

 




 

 

La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:

le sentenze n. 348 e 349 del 2007

 

di Claudio Zanghì*

 

Sommario: 1. Le sentenze. – 2. Il valore delle norme della Convenzione europea: le norme costituzionali di riferimento. – 3. L'art.117 ed i parametri di riferimento per i limiti alla potestà legislativa. – 4. Gli effetti della interpretazione della Corte europea per la determinazione del parametro di riferimento. – 5. La conseguente analisi di conformità delle norme CEDU alla Costituzione. – 6. Il contrasto fra le norme interne e l'art. 117 della Costituzione. – 7. L'esecuzione delle sentenze della Corte europea. – 8. Il rilevato contrasto con l’art. 117 nel caso sottoposto alla Corte costituzionale. – 9. Considerazioni conclusive,

 

1. Le sentenze.

 

I reiterati contrasti evidenziati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione alle norme italiane che disciplinano l'indennità di esproprio nelle sue diverse forme, da ultimo richiamati dalla Grande Camera nella sentenza “Scordino” (29 marzo 2006) che ha invitato l'Italia a sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato [1], hanno determinato perplessità nella suprema Corte di Cassazione che in altra occasione aveva anche proceduto a disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la norma della Convenzione [2], ed hanno dato origine ad un rinvio alla Corte costituzionale.

Quest'ultima si è pronunciata con due diverse sentenze del 24 ottobre 2007. La sent. n. 348 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 1992 n. 359, ritenendo che “ la norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della l. n. 359 del 1992”.

La sent. n. 349 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 20 maggio 2006 e della Corte d’Appello di Palermo del 29 giugno 2006 che hanno sollevato la “questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della l. 23 dicembre 1996, n. 662.” Tutti i richiamati rinvii sottopongono alla Corte l'eventuale incostituzionalità dell'articolo 5 bis del citato decreto legge.

La prima reazione che nasce spontanea al lettore deriva dalla circostanza che la Corte ha riunito alcuni rinvii posti a base della sent. n. 348 ed altri, invece, posti a base della sent. n. 349. E ciò, nonostante la materia fosse certamente analoga, trattandosi in tutti i casi della pretesa incostituzionalità dell'articolo 5 bis

Una qualche differenza tra le due procedure è comunque riscontrabile dal momento che la sent. n. 349 si riferisce soltanto alla indennità relativa casi di cosiddetta “occupazione acquisitiva”, o “accessione invertita””, mentre la sent. n. 348 si occupa di tutti gli altri casi di esproprio. È pur vero che la riunione di procedimenti analoghi è soltanto una facoltà processuale e non certo un obbligo, ma la perplessità sul perché delle due sentenze rimane e potrà forse trovare risposte con motivazioni meta giuridiche.

Le sentenze menzionate meritano un attento esame perché per la prima volta inducono la Corte ad interpretare il nuovo art. 117 della Costituzione, ma anche perché permettono alla Corte di fare ulteriore chiarezza sui rapporti fra la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'ordinamento italiano. Considerato che ambedue le sentenze trattano dei problemi accennati, le conclusioni raggiunte sono ovviamente identiche, anche se con qualche sfumatura di interpretazione e di redazione [3].

 

2. Il valore delle norme CEDU: le norme costituzionali di riferimento.

 

Volendo anzitutto analizzare il valore delle norme della Convenzione nell’ordinamento italiano, le sentenze in oggetto muovono dalla premessa di individuare quali norme della Carta costituzionale possono rilevare al riguardo. Si esclude anzitutto l'art. 10 della Costituzione sottolineandosi come questo si riferisce espressamente alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, cioè al diritto internazionale consuetudinario, ed ai principi generali dell’ordinamento internazionale, e pertanto non è applicabile alla Convenzione che, ovviamente, è diritto pattizio e non consuetudinario. L’art. 10 che sancisce “l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario …. mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale.” (sent. n. 349 par. 6.1) “Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10.” (sent. n. 348 par. 3.4)

Con tale affermazione, peraltro ormai quasi unanimemente condivisa in dottrina, si respinge la tesi a suo tempo affermata nella quale, il cosiddetto trasformatore automatico che agisce per il diritto internazionale generale, dovrebbe altresì agire anche per il diritto pattizio in quanto, tra le norme di diritto internazionale generale, vi è certamente il principio pacta sunt servanda, il cui rispetto ricondurrebbe anche il predetto diritto pattizio nell’alveo dell’art. 10 e quindi, se l’ordinamento interno non si adattasse tempestivamente alle norme pattizie, lo Stato violerebbe la predetta norma [4].

Escluso correttamente che l'art. 10 possa trovare applicazione nel caso di specie, la Corte esamina poi il successivo art. 11 soffermandosi sulla disposizione che consente all'Italia di limitare la propria sovranità, quando ciò sia necessario per partecipare ad un ordinamento che assicuri la pace e la sicurezza fra le nazioni, già utilizzato in relazione al diritto comunitario. La Corte pone anzitutto una netta distinzione tra l'ordinamento comunitario e la Convenzione europea affermando che le Comunità europee hanno costituito e costituiscono un effettivo ordinamento giuridico, circostanza questa non riscontrabile nella Convenzione europea [5]; di conseguenza, se una limitazione (cessione) di sovranità più o meno ampia è possibile nei confronti di un ordinamento con proprie strutture, organi e norme idonee a svolgere le attività che costituiscono oggetto di rinuncia da parte dello Stato, ciò non è invece configurabile nella Convenzione europea, ed in particolare nel Consiglio d'Europa, nel cui sistema la Convenzione europea si inserisce, in quanto non vi è stata una attribuzione di specifici poteri né alla organizzazione considerata né alla Corte se non, per quest'ultima, dell'esclusivo potere di interpretazione delle norme.

La soluzione proposta meriterebbe una approfondita analisi, che non può essere affrontata nei limiti della presente nota. Un primo aspetto attiene alla nozione di “limitazioni” di sovranità. Non è certo condivisibile, a mio avviso, l'affermazione “….non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale», di cui alla sent. n. 349. Non può ignorarsi, infatti, che qualsiasi trattato internazionale, ed in specie la Convenzione europea, determina una parziale limitazione di sovranità, quale quella conseguente all'assunzione di obblighi internazionali, il cui rispetto dovuto limita la libertà dello Stato, nel senso che lo stesso non può assumere iniziative legislative o di altra natura che siano in contrasto con l'obbligo internazionale. È certo che l'autonomia normativa, che è inerente a qualunque Stato sovrano, rappresenta solo una manifestazione della sovranità dello Stato e ci si può quindi chiedere se le limitazioni di sovranità indicate dall'art. 11 della Costituzione, non potendo riferirsi soltanto alla nozione di sovranità nella sua più ampia accezione (ad esempio la sovranità su una parte del territorio), ovvero a quella delle “cessioni”di sovranità, debbano anche comprendere qualunque limitazione dei poteri sovrani normativi, come nel caso di specie, o giurisdizionali quando, ad esempio, lo Stato rinuncia all'esercizio della giurisdizione. Diverso, infatti, il caso delle ben più incisive “cessioni di sovranità” che si realizzano quando lo Stato partecipa ad un ordinamento internazionale al quale viene attribuita una specifica competenza, anche normativa, esercitata in via esclusiva. Il riferimento alle competenze esclusive dell'Unione Europea, sulle quali correlativamente lo Stato rinuncia legiferare, è di piena evidenza.

Le limitazioni di sovranità evocate nell'art. 11 sono ulteriormente condizionante dal carattere di necessità (necessarie a...) per l'istituzione ed il funzionamento di “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”. A prescindere dalle ben note ragioni storiche che hanno indotto tale redazione della norma, considerando che essa rimane immutata al giorno d'oggi, oltre al carattere di necessità di cui sopra si è detto, le limitazioni di sovranità di cui all'art. 11 debbono esser anzitutto operate nei confronti di “un ordinamento” ed al riguardo la Corte conferma, a ragione, il carattere di ordinamento riscontrabile nell'Unione Europea [6].

In tal caso, però, come ho accennato, si tratterebbe piuttosto di “cessioni” di sovranità, le sole che abbisognano di un ordinamento al quale trasferirle. Non altrettanto occorrerebbe, invece, quando si tratta di una “limitazione” autonomamente accettata dallo Stato e che non ha bisogno di alcun “ordinamento”, essendo pienamente sufficiente un mero trattato internazionale che di per sé solo determina la limitazione. Ed è questo certamente il caso della Convenzione europea in esame.

L'art. 11 poi impone un'ulteriore condizione relativa alle finalità cui deve tendere l'indicato ordinamento : “ assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni”. La Corte non solleva tale problema, come peraltro non lo ha fatto nella nota sent. n. 170 del 1984, perché sarebbe stato certamente problematico, se non anche impossibile, sostenere che l'obiettivo della Comunità europea sia quello di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. Al contrario, un adeguato livello di affermazione e protezione dei diritti umani contribuisce certamente ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni.

Così come nel 1984, a fronte dell'esigenza posta dall'integrazione europea, la Corte costituzionale ha interpretato l'art. 11 sorvolando sulle specifiche finalità della pace e della giustizia fra le nazioni, in una prossima sentenza la Corte costituzionale, argomentando piuttosto dalla accennata finalità, che è certamente riscontrabile nella protezione dei diritti umani, potrebbe opportunamente distinguere fra limitazioni e cessioni di sovranità ed affermare, di conseguenza, che se per queste ultime l'esistenza di un ordinamento (nel senso compiuto del termine) è necessaria, non altrettanto debba esigersi quando si tratta di “limitazioni” quali la Convenzione europea è certamente idonea a determinare.

Non può disconoscersi, infatti, che pur non integrando, forse, la nozione di “ordinamento”, di cui sopra, il sistema europeo di affermazione e protezione dei diritti umani, già in essere da oltre cinquant'anni, si avvale di alcuni organi direttamente [7] o indirettamente [8] evocati nella Convenzione stessa la cui attività, come più volte affermato dalla Corte, tende a costituire un “ordre public communautaire de libres démocraties d’Europe” - ordine pubblico - che persegue l'obiettivo di “sauvegarder leur patrimoine commun de traditions politiques, d’ideaux, de liberté et de prééminence du droit” [9].

Ci si chiede poi se la Convenzione europea possa essere stata “comunitarizzata” e quindi rientrare nell'art. 11 della Costituzione, sotto il cappello del diritto comunitario. È ben nota l'evoluzione che la Comunità europea ha subito in ordine alla materia dei diritti umani, ed è altrettanto noto che, ad iniziare dalle affermazioni della stessa Corte di giustizia delle Comunità europee, da ultimo il trattato di Maastricht, poi confermato nelle successive modifiche apportate ad Amsterdam ed a Nizza, ha chiaramente precisato che le norme della Convenzione europea formano parte integrante del diritto comunitario.

Fermandosi all'espressione letterale dell'art. 6 sembrerebbe che le norme della CEDU, equiparate in quanto parte integrante, alle norme comunitarie, dovrebbero ricevere nell'ordinamento italiano lo stesso trattamento di queste ultime. La Corte sostiene, invece, che l'integrazione delle norme CEDU nell'ordinamento comunitario riguarda unicamente l'attività degli organi comunitari, è quindi il diritto comunitario che deve rispettare le norme CEDU e l'attività degli Stati nell'applicazione del diritto al comunitario che deve altresì rispettare le norme CEDU: “ la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto,…. Tuttavia, tali principi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie.” (sent. n. 349 par. 6.1)

In questa affermazione il ragionamento della Corte appare largamente ispirato dalla Carta dei diritti fondamentali adottata a Nizza, e peraltro esplicitamente richiamata, nella quale è chiaramente indicato che le norme della stessa si applicano all'azione delle Istituzioni comunitarie ed a quella degli Stati nei limiti dell'applicazione del diritto comunitario (art.51).

La Corte sottolinea altresì che “allo stato” l'Unione Europea, come già precisato dalla stessa Corte comunitaria, non ha competenza esplicita in materia diritti umani. Poiché, nel caso di specie, non si tratta di dare esecuzione ad un atto comunitario bensì della normale attività normativa che rientra nella autonomia dello Stato italiano, la pretesa “comunitarizzazione” delle norme CEDU è certamente da escludere. Sottolineando che tale interpretazione è formulata “ allo stato” cioè a dire nella situazione odierna, la Corte, saggiamente, non si pronuncia sulle conseguenze che potranno derivare dalla prospettata adesione della Unione alla Convenzione europea.

Com'è noto tale adesione, molte volte ostacolata in passato, era stata poi esplicitamente inserita nel progetto di trattato per una Costituzione per l'Europa e figura oggi nel progetto di trattato che dovrebbe essere adottato nel vertice di Lisbona nel dicembre prossimo. Considerato che allo stato si tratta soltanto di un pactum de contrahendo non è agevole approfondire il tema non sapendo quando e come le necessarie intese per consentire l'adesione di cui sopra saranno realizzate. Se queste dovessero limitarsi a ribadire i limiti all'applicabilità della normativa sui diritti umani, già contenuti nella Carta dei diritti fondamentali, risolvendo soltanto i problemi di competenza giurisdizionale fra le due Corti e dei rispettivi meccanismi di ricorso, allora, probabilmente, le conclusioni che la Corte costituzionale raggiunge al riguardo nelle sentenza in esame, non dovrebbe subire alcuna variazione.

Diversamente, invece, qualora l'obbligo di rispettare i diritti umani, quali contenuti nella Convenzione europea, si dovesse estendere alle attività degli Stati membri, anche a prescindere dal limitato aspetto della attuazione del diritto comunitario, con un obbligo del tutto equiparato a qualsiasi altra norma di diritto comunitario, allora il problema della accennata “comunitarizzazione” delle norme della Convenzione dovrebbe essere interamente rivisto.

Escluso pertanto che l'art. 11 della Costituzione possa trovar applicazione nei confronti della Convenzione europea, sia direttamente ma sia anche indirettamente, attraverso l'accennato tramite comunitario, il problema del valore delle norme CEDU nell'ordinamento italiano viene riproposto sulla base delle tradizionali considerazioni applicabili a qualunque trattato di internazionale. Ricorda, infatti, la Corte che nell'ordinamento italiano i trattati internazionali ai quali si è data esecuzione con provvedimento normativo assumono, nell'ordinamento stesso, valore e rango delle norme che vi hanno dato esecuzione e quindi, nella maggior parte dei casi, l. ordinaria. “Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con l. ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale” (sent. n. 349 par. 6.1)

La Corte evoca i vari tentativi precedentemente esperiti per considerare le norme CEDU quali norme di particolari resistenza [10], evoca, analogamente, altri tentativi proposti per salvaguardare l'autorità della Convenzione stessa, ma senza alcun particolare approfondimento, sostenendo che l'art. 117 introduce ormai un esplicito limite alla attività normativa dello Stato, e quindi contiene sufficienti elementi per esaminare, sotto un nuovo profilo, il valore delle norme CEDU nell'ordinamento italiano.

 

3. L’art. 117 ed i parametri di riferimento per i limiti alla potestà legislativa.

 

Richiamando il testo dell'art. 117 la Corte vi ravvisa, anzitutto, una differenza nella redazione con la quale si cita, da una parte l'ordinamento comunitario e dall'altra gli obblighi internazionali: Ad avviso della Corte, “la disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». (sent. n. 348 par. 3.3).

Ad una testuale lettura, tuttavia, non sembra che relativamente al solo art. 117 si possa ravvisare una diversa posizione dell'ordinamento comunitario rispetto agli altri obblighi internazionali. E ciò in quanto i due limiti vengono menzionati con una congiunzione - “e”- , e senza alcuna ulteriore specificazione. Ne consegue che, letteralmente, l'azione normativa interna può dar luogo ad atti in contrasto con l'ordinamento comunitario, così come può dar luogo ad atti in contrasto con gli altri obblighi internazionali derivanti da un qualunque trattato.

La differenza dei due limiti menzionati -diritto comunitario e obblighi internazionali-, non è ricavabile direttamente dall'art. 117 ma solo dall'art. 11 richiamato. In altri termini se, per effetto dell'art. 117 il legislatore italiano non può adottare norme in contrasto con il diritto comunitario, essendosi realizzata una limitazione di sovranità (meglio “cessione”) a favore della Comunità, come già chiarito in applicazione dell'art. 11, vi sono altresì, per effetto di tale cessione, dei limiti che impediscono allo Stato non soltanto di legiferare in maniera difforme ma di legiferare su determinate materie per le quali si è attribuita una competenza esclusiva alla Comunità.

In questo senso è ben diverso l'effetto del limite del diritto comunitario rispetto a quello derivante dagli altri obblighi internazionali; ma tale effetto non è riconducibile all'art. 117 che, a mio avviso, non pone alcuna differenza fra i due limiti, bensì dell'art. 11 già citato. Non solo, ma quando si interpreta l'art. 117 per valutare come si può risolvere il caso nel quale la normativa interna confligge con la predetta norma per essere in contrasto con il diritto comunitario o con gli obblighi internazionali, anche sotto tale profilo, la differenza tra i due limiti rileva in quanto, in relazione al diritto comunitario è stata ormai acclarata dalla stessa Corte, con numerose pronunce, la supremazia del diritto comunitario rispetto al diritto interno e quindi la conseguenza, in ipotesi, è la disapplicazione della norma interna confliggente.

Ma se ciò si applica, almeno a partire dal 1984, soltanto nei confronti del diritto comunitario, lo stesso principio non è certo applicabile nei confronti del contrasto con qualunque altra norma di diritto internazionale. La soluzione di questo contrasto deve essere trovata altrove. Ed è a questo punto che la Corte affronta l'interpretazione dell'art. 117 in maniera più puntuale, sgombrando anzitutto il campo da quelle tesi che volevano applicare la disposizione limitatamente ai rapporti tra Stato e regioni [11]. La Corte al riguardo, chiaramente ed opportunamente, precisa che l'art. 117 si applica a qualunque attività normativa possa in essere dallo Stato o dalle regioni [12].

Considerando il richiamato limite derivante dagli obblighi di diritto internazionale e quindi il potenziale contrasto di una norma interna con gli stessi, la Corte esclude, anzitutto, che tale contrasto possa essere risolto mediante la disapplicazione della norma confliggente, evocando al riguardo quanto già richiamato in ordine alla supremazia del diritto comunitario [13]. Con tale affermazione la Corte indirettamente respinge la tesi, già formulata in alcune pronunce della Corte di Cassazione e da ultimo nella sent. n. 2800 del 1/12/2006-25/1/2007, nella quale la Corte di Cassazione, ritenendo prevalente la norma della Convenzione, annulla il provvedimento emanato in base alla norma interna in contrasto [14].

In assenza di una gerarchia di norme chiaramente accertata, come nel caso del diritto comunitario, la Corte ritiene che gli obblighi derivanti da norme internazionali costituendo, così come evocato dall'articolo 117, un limite all'attività normativa dello Stato, si pongono in una posizione intermedia tra le norme costituzionali e le norme ordinarie [15].

L'affermazione, riferita naturalmente alla Convenzione CEDU, si applica, a mio avviso, a qualunque obbligo internazionale e quindi a qualunque norma di diritto internazionale pattizio che pone obblighi nei confronti degli Stati contraenti. Viene così modificata la precedente affermazione della giurisprudenza della Corte, e poi anche dalla conforme dottrina, nella quale si sosteneva che le norme di diritto internazionale pattizio, introdotte in Italia con provvedimento normativo, hanno lo stesso valore e rango delle norme interne che vi hanno dato esecuzione. Oggi questa affermazione non è più corretta perché, attraverso l’art. 117, le norme internazionali rappresentano un limite alle norme interne che non possono per ciò stesso, non solo abrogarle o modificabile, ma tanto meno derogarle, e quindi hanno un rango superiore alle norme interne per effetto del richiamato art. 117 [16].

Affermato così il carattere delle norme della Convenzione europea, come limite all’attività normativa interna, la Corte costituzionale si pone anzitutto il problema di verificare qual è l'esatto contenuto e la portata della norma internazionale che dev'essere poi utilizzato quale parametro di riferimento per valutare se la norma interna, in relazione al contenuto specifico dell'obbligo internazionale, violi l'art. 117 della Costituzione.

 

4. Gli effetti della interpretazione della Corte europea per la determinazione del parametro di riferimento.

 

Al riguardo la Corte ricorda che nel sistema della Convenzione europea gli Stati hanno istituito uno specifico organo giurisdizionale -la Corte europea dei diritti dell’uomo- attribuendo alla stessa l'esclusiva competenza per interpretare le norme della Convenzione [17]. La Corte ricorda altresì come le norme della Convenzione ed in genere qualsiasi norma di diritto, vivono in relazione alla interpretazione che alla norma stessa viene data; e ciò assume particolare rilievo nella Convenzione europea in funzione della interpretazione che delle stesse viene progressivamente formulata dalla Corte di Strasburgo [18].

La Corte costituzionale afferma, quindi, che il parametro di riferimento per valutare l'attività normativa interna non è soltanto la norma della Convenzione europea, ma la norma così come interpretata dalla Corte europea. È questa una affermazione di particolare rilievo perché, con la stessa, si riconosce non soltanto l'autorità della interpretazione formulata dalla Corte, ma anche l'obbligatorietà, che peraltro deriva dall'art. 46 della Convenzione, che impone agli Stati di rispettare le sentenze della Corte; e ciò nella interpretazione della norma, ancor prima, che nella esecuzione delle misure eventualmente disposte nel caso di specie [19]. La formulazione al riguardo utilizzata dalla sent. n. 348 suscita qualche dubbio laddove si legge che “Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli” (par. 4.7)

 

5. La conseguente analisi di conformità delle norme CEDU alla Costituzione.

 

L'idea di un bilanciamento tra vincolo derivante dalla CEDU e vincolo derivante da altre norme costituzionali, che non viene ulteriormente specificato nel prosieguo della sentenza, appare in contrasto con il successivo schema proposto ed utilizzato nella stessa sentenza, secondo il quale la Corte deve anzitutto accertare se effettivamente vi sia o no “un contrasto risolvibile per via interpretativa tra la norma censurata e le norme CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonte integratrice del parametro di costituzionalità di cui all'articolo 117”; nel qual caso appare evidente che la verifica può essere condotta solo con riferimento alla norma della Convenzione e non anche con riferimento ad altre norme costituzionali.

Il secondo passaggio dello schema proposto tende a verificare se “ le norme CEDU invocate come integrazione del parametro nell’interpretazione ad esse data dalla stessa Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano”.

In tale successione di analisi non sembra ipotizzabile alcun bilanciamento dal momento che il parametro di riferimento della prima analisi è soltanto la norma della Convenzione e quindi l'analisi può condurre soltanto ad un risultato di conformità o, al contrario, di difformità; mentre la seconda analisi tende a sua volta a verificare la compatibilità della norma della Convenzione con l'intera Costituzione, ed ancora una volta il risultato di tale esame può essere soltanto di conformità ovvero, in senso opposto, di non conformità. In quest'ultimo caso, come si dirà, la Corte anticipa che “nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano” [20] , il che equivale a dire che occorre denunciare la Convenzione, nei termini e nei modi dalla stessa previsti, per sottrarsi agli obblighi dichiarati contrari alla Costituzione.

In questo schema logico non sembra possa trovare alcuno spazio un bilanciamento dei limiti posti dalla norma della Convenzione rispetto a quelli posti dalla Costituzione. La norma interna deve rispettare i primi per effetto dell’art. 117, ma deve rispettare altresì l'intera Costituzione. Perché la soluzione possa essere univoca occorre che ambedue i limiti conducano al medesimo risultato, e che, di conseguenza, la norma CEDU sia compatibile con la Costituzione e quindi la norma interna, rispettando la norma CEDU, rispetterà anche la Costituzione.

Di bilanciamento tra i due parametri si può parlare solo nei limiti in cui la norma CEDU lascia un margine di apprezzamento discrezionale agli Stati; ed è questo il caso del problema concreto evocato in sentenza, in materia di esproprio, almeno per alcune modalità dell'esproprio stesso, nel qual caso la specifica norma convenzionale può essere applicata in Italia tenendo conto anche di altri eventuali esigenze nazionali; ma tale possibilità non è effetto di un bilanciamento interpretativo, ma solo della interpretazione della norma convenzionale che lascia un margine di apprezzamento allo Stato e quindi riduce, se così si può dire, il vincolo dell'obbligo internazionale che costituisce il parametro dell'art. 117 della Costituzione. Qualora la norma CEDU, nell'interpretazione fornita dalla Corte, non consenta alcun margine di apprezzamento, allora il bilanciamento è impossibile e si tratterà soltanto di valutare se la norma convenzionale presenti effettivamente un contrasto con l'ordinamento costituzionale italiano, nel qual caso è inevitabile che lo Stato italiano si sottragga all’obbligo internazionale assunto.

La Corte non affronta il problema della interpretazione di obblighi internazionali derivanti da accordi internazionali per i quali non è stato istituito uno specifico organo giurisdizionale o di altra natura per interpretare le norme stesse, ma fa riferimento soltanto ai casi nei quali l'interpretazione nasca da un metodo di risoluzione delle controversie [21]. Atteso il riconoscimento dell'autorità della giurisprudenza della Corte europea, ancorché questa sia esplicitamente prevista nella Convenzione stessa, si può ritenere che analogo ragionamento valga per le pronunce di organi eventualmente istituiti per la soluzione controversie, dalle quale generalmente scaturisce l’obbligo internazionale di rispettarle.

Rimanendo in tema di diritti umani sarebbe, poi, da chiedersi quale soluzione potrà applicarsi nel caso di accordi internazionali che hanno istituito organi di controllo che non hanno carattere giurisdizionale, ma che, applicando le norme della Convenzione di riferimento, sono inevitabilmente indotti ad interpretare le norme stesse, ancorché non ne abbiano una esplicita competenza esclusiva. Mi riferisco, ad esempio, al Comitato delle Nazioni Unite per il Patto sui diritti civili e politici, nonché ai diversi comitati istituiti nell'ambito di singole convenzioni sia a livello Nazioni Unite (discriminazione, donne, fanciulli ecc), sia in ambito Consiglio d'Europa (discriminazione, tortura, etc). In tali casi è da auspicare che il ragionamento formulato dalla Corte in base al quale la norma CEDU deve essere valutata così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, sia logicamente esteso anche alle norme di altre convenzioni, così come interpretate dagli organi istituiti nell'ambito delle convenzioni stesse.

Applicando quanto precede al caso di specie, e quindi all'art. 1 del primo Protocollo, così come interpretato dalla Corte europea, la Corte costituzionale conferma che questo rappresenta un limite per l'ordinamento italiano in quanto lo Stato italiano, pur potendolo fare, non ha formulato alcuna riserva al riguardo né tanto meno ha denunciato il Protocollo che rimane ovviamente vigente [22].

 

6. Il contrasto fra le norme interne e l’art. 117 della Costituzione.

 

Affrontando l'aspetto concreto del seguito da dare, qualora una norma interna sia ritenuta confliggente con una norma della Convenzione europea, la Corte ricorda come spetti anzitutto al giudice, che deve farne applicazione, individuare, ove possibile, una interpretazione della norma interna che possa essere compatibile con la Convenzione europea.

Qualora ciò sia impossibile e rimanga pertanto il contrasto fra le due norme, il giudice, come ricordato, non può disapplicare la norma nazionale a favore di quella europea per le ragioni sopra esposte, ma deve rilevare il contrasto con l'art. 117 della Costituzione e quindi promuovere l'intervento della Corte costituzionale [23]. Spetterà soltanto a quest'ultima, con il procedimento di cui sopra, procedere eventualmente, alla dichiarazione di incostituzionalità della norma interna in contrasto; si ripropone cioè la tesi già affermata dalla stessa Corte costituzionale con la sent. 30 ottobre 1975 n. 232, confermata in altre sentenze successive, in ordine al diritto comunitario, ed in base alla quale l'incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario doveva essere sollevata di fronte la Corte costituzionale spettando soltanto a quest'ultima far prevalere la norma comunitaria mediante la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna in contrasto [24]. E’ ben noto come questa tesi non piacque poi alla Corte europea, (sentenza “Simmenthal” del 9 marzo 1978) perché contrastante con l'effetto immediato del diritto comunitario, ed aprì la strada alla pronuncia del 1984 (sent. 8 giugno 1984 n. 170) che affermò la diretta applicabilità, l'efficacia immediata e la supremazia del diritto comunitario sul diritto interno.

Le sentenze in esame contengono altresì un interessante rilievo in ordine all'obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte europea derivante dall'art. 46 della Convenzione. Con riferimento al caso di specie, infatti, viene citata la sentenza della Grande Camera della Corte europea, con la quale la Corte invita lo Stato a «sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, “Scordino”). Il richiamo viene effettuato a confermare come la stessa Corte europea non riconosca effetti diretti alle norme della Convenzione, in quanto si rivolge allo Stato perché assuma i provvedimenti conseguenti. In realtà la grande Camera, nella stessa sentenza, afferma, però…. “Encore faut-il que les juridictions nationales aient la possibilité en droit interne d’appliquer directement la jurisprudence européenne…” [25].

La Corte costituzionale non aggiunge altre riflessioni al riguardo, ma, ove necessario, è da chiedersi se la Corte costituzionale sia disposta ad applicare le stesse argomentazioni anche a quella parte delle sentenze della Corte europea che non sono interpretative delle norme della Convenzione ma indicano le misure conseguenti all'accertata violazione e che lo Stato deve adottare per dare esecuzione alla sentenza stessa. Si tratta di un diverso problema che non doveva essere affrontato in quella sede, ma che nella stessa viene risolto nel senso voluto dalla Corte, almeno nel caso di specie, con la rimozione delle norme incompatibili, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità.

 

7. L’esecuzione delle sentenze della Corte europea.

 

Il richiamo alle sentenze della Corte europea meriterebbe un ulteriore approfondimento perché, oltre alle funzioni di queste ultime intese ad interpretare le norme della Convenzione e sulle quali la Corte costituzionale si è chiaramente espressa accettando sia il carattere esclusivo della competenze, sia il carattere di res interpretata, le sentenze hanno anche la funzione di rimediare alla violazione subita attraverso la restitutio in integrum, là dove possibile, ovvero l'attribuzione di una equa soddisfazione alla parte lesa.

Tale aspetto della sentenza europea ha acquisito una particolare rilevanza negli ultimi anni da quando cioè la Corte interviene, con sempre maggiore incisività, per invitare gli Stati a rimuovere le cause che sono all'origine della violazione, specie quando queste denunciano evidenti problemi strutturali dell'ordinamento dello Stato. Rilevato che il carattere vincolante delle sentenze e l'obbligo assunto dagli Stati di darvi esecuzione discende direttamente dall’art. 46 della Convenzione, è facile ritenere che anche questa norma, come le altre che più direttamente attengono alla enunciazione dei diritti, integrano quei parametri degli obblighi internazionali di cui al richiamato art. 117. Se l'obbligo imposto dalla norma CEDU è quello di dare esecuzione alle sentenze della Corte, tale obbligo costituisce altresì un limite che dev'essere rispettato dalla attività legislativa evocata e quindi dalle norme interne lo Stato.

L'art. 46 della Convenzione prevede l'obbligo generale di dare esecuzione alle sentenze, che si concreta poi nell’obbligo specifico che deriva dalla singola sentenza alla quale lo Stato deve dare esecuzione. In concreto, pertanto, l'eventuale contrasto con l'ordinamento interno non si porrà nei confronti dell'obbligo astratto di dare esecuzione alle sentenze, quanto al predetto obbligo riferito ad una specifica sentenza e quindi, in concreto, alle indicazioni contenute nella sentenza stessa. Ora, quando la Corte riscontra problemi strutturali dell'ordinamento dello Stato e invita pertanto quest'ultimo ad adottare misure di carattere generale, molto spesso si tratta di modificare o abrogare norme interne in contrasto con la Convenzione; in tal caso, quindi, prima ancora di far ricorso all'art. 46 della Convenzione, il limite di cui all'art. 117 della Costituzione potrà agevolmente essere rinvenuto nelle norme CEDU nei cui confronti la Corte europea ha ritenuto che la norma si pone in contrasto. La soluzione potrà quindi essere ritrovata con riferimento alle predette norme europee; l'art. 46 sull'obbligatorietà della sentenza e sul vincolo dell'esecuzione della medesima, assumendo soltanto carattere di argomento aggiuntivo.

Qualora poi la Corte dovesse invitare lo Stato, anziché a modificare o ad abrogare una normativa esistente, ad adottare nuove disposizioni per colmare un eventuale lacuna, e quindi un obbligo di fare, rimane da chiedersi se, ed in quale misura, l'art. 117 della Costituzione può assumere rilevanza. L'obbligo di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea si rivolge, come è noto, allo Stato, e quindi a tutte le sue componenti. Dell'ipotesi di eventuale contrasto normativo, e quindi dell'esplicita soluzione offerta dall'articolo 117, si è già detto, ma la sentenza della Corte potrebbe comportare la soppressione di un atto amministrativo o regolamentare [26]; al riguardo occorre verificare, anzitutto, se l'atto in questione sia un atto determinato da una precisa norma dell'ordinamento, e quindi la contrarietà con la norma convenzionale non deve cercarsi solo nel provvedimento amministrativo in questione, ma anche, ed ancor prima, nella norma che lo ha determinato. In tal caso, anche se attraverso il rinvio dall'atto amministrativo alla norma e da quest'ultima al parametro di cui all'art. 117, il procedimento non sarebbe difforme da quanto evocato perché la contrarietà discenderebbe sempre dalla norma che ha dato origine all'atto amministrativo incriminato.

Qualora, invece, la contrarietà sia specifica dell'atto amministrativo e non della norma sulla cui base lo stesso è stato adottato, si pone un apparente problema perché l'art. 117 richiama esplicitamente la funzione legislativa e non altro. È noto però che le sentenze della Corte europea, come richiamato, si rivolgono allo Stato nella sua unità di soggetto internazionale e quindi il soggetto obbligato a dare esecuzione alla sentenza è lo Stato in tutte le sue componenti e, nel caso di specie, l'autorità amministrativa che ha adottato l'atto in questione. È da ritenersi, pertanto, che la subordinazione dell'atto amministrativo autonomamente inteso, non implicante cioè il rinvio ad altra norma dell'ordinamento, derivi comunque dalla corretta interpretazione dell'art. 117 e ciò in quanto se gli obblighi internazionali evocati dalla norma costituzionale, e nella specie quindi le norme CEDU, costituiscono un limite dell'attività legislativa dello Stato e delle Regioni e quindi un parametro di riferimento per dichiarare l'eventuale incostituzionalità delle norme in contrasto, a maggior ragione ciò deve applicarsi nei confronti di un atto amministrativo o regolamentare subordinato alla l., quale è appunto l'atto amministrativo in ipotesi incriminato.

La Corte sostiene, infatti, che la norma interna va interpretata, nei limiti del possibile, in maniera conforme agli obblighi internazionalmente assunti dallo Stato. Pertanto, se la norma che prevede l'emanazione dell'atto incriminato può essere interpretata in maniera conforme all'obbligo internazionalmente assunto, l'atto amministrativo in oggetto potrà essere agevolmente annullato o modificato qualora si ponesse in contrasto con una norma CEDU, e quindi con la norma interna interpretata in maniera conforme alla norma CEDU. Tale annullamento potrebbe avvenire per le consuete vie amministrative non essendovi al riguardo alcuna competenza della Corte costituzionale.

Al contrario, qualora l’atto amministrativo incriminato fosse conforme alla l. interna che lo prevede o lo autorizza, ed il contrasto con le norme CEDU fosse rinvenibile nella predetta l., ci troveremmo, allora, in altra ipotesi di applicazione dell'art. 117 e del procedimento individuato dalla Corte costituzionale giacché il contrasto, apparentemente rilevato nei confronti del provvedimento amministrativo, sarebbe in realtà insito nella norma che tale provvedimento ha originato.

Le sentenze della Corte europea possono anche rilevare che la violazione di un obbligo internazionalmente assunto dallo Stato derivi non tanto da atti normativi o amministrativi dello Stato stesso, quanto dal comportamento assunto da taluni organi, in assenza di specifiche previsioni normative, o ancora dalla lacuna normativa al riguardo. In tali casi la sentenza può invitare lo Stato ad adottare quei provvedimenti normativi o amministrativi necessari ad evitare che una situazione di carenza possa determinare il perdurare della violazione della Convenzione.

Sul piano internazionale l'obbligo di dare esecuzione alla sentenza si rivolge allo Stato e quindi sarà il Comitato dei ministri a sorvegliare l'attività dello Stato in maniera da verificare se e quando la sentenza sia stata eseguita mediante l’adozione delle misure indicate.

Sul piano interno occorre verificare se l'art. 117 sopra esaminato possa contribuire a risolvere il problema. Se da una parte, infatti, l'articolo impone allo Stato ed alle Regioni di legiferare in maniera conforme agli obblighi internazionali assunti, è da chiedersi se analogo obbligo sussista quando il problema riguarda una normativa dovuta, o meglio richiesta dalla sentenza della Corte europea e non realizzata. Credo che l'obbligo imposto dalla norma costituzionale, di cui è stata acclarata la valenza ed il significato di limite alla normativa interna, debba essere utilizzato anche nei confronti di una carenza di azione e ciò perché quest'ultima, una volta accertata nella sentenza della Corte europea, costituisce il parametro di riferimento per valutare, nel caso concreto, l'obbligo imposto allo Stato dall'art. 46 della Convenzione, cioè dare esecuzione alla sentenza. E’ implicito, poi, che le indicazioni contenute in sentenza circa l’obiettivo della normativa da adottare rappresentano un limite costituzionale (ex art. 117) all’attività dello Stato.

Naturalmente, trattandosi di un obbligo di fare, il problema si sposta sul momento e sulle condizioni nelle quali sorge la responsabilità dello Stato per il mancato adempimento. Se questa, cioè, debba attendere un ragionevole lasso di tempo, ovvero ancora se da questa carenza debba attendersi una conseguenza che incida su interessi e diritti soggettivi che potrebbero essere fatti valere nelle sedi appropriate. Qualora, poi, la norma della Convenzione lo consenta si potrebbe anche ipotizzare una diretta applicazione della norma europea allo scopo di colmare la lacuna evidenziata con la sentenza, e ciò quando il ritardo dello Stato nel dare esecuzione alla sentenza adottando la normativa richiesta, possa determinare il perdurare delle violazioni. L’accennato problema della responsabilità dello Stato meriterebbe un approfondimento ulteriore che non rientra nei limiti della presente nota. È certo però che, a mio avviso, oltre all'obbligo internazionale esistente per lo Stato e monitorato, come sappiamo, dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, la cui azione sarà resa più incisiva dall'entrata in vigore del Protocollo 14 [27], anche sul piano interno, per effetto dell'art. 117 della Costituzione, sussiste l'obbligo per lo Stato di dare esecuzione alla sentenza della Corte europea e la conseguente responsabilità per inadempimento.

 

8. Il rilevato contrasto con l’art. 117 nel caso sottoposto alla Corte costituzionale.

 

Con riferimento all'oggetto specifico dell’accertamento, - il meccanismo del calcolo dell'indennità di esproprio -, le sentenze differiscono parzialmente in quanto la 349, come si è detto, esamina il calcolo applicabile alla occupazione acquisitiva, mentre la 348 si occupa delle altre forme di esproprio. Ne consegue che la sent. n. 349 conclude nel senso che “… essendosi consolidata l'affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1 del Protocollo addizionale, nell'interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione. D'altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.” [28]

La sent. n. 348, invece, dopo aver affermato che la norma censurata “ la quale prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. (par. 5.7); aggiunge che non emergono profili di incompatibilità tra la norma europea e l'ordinamento italiano, con particolare riferimento all'articolo 42 della Costituzione. Ed è proprio su questo aspetto che la sentenza stessa sviluppa aggiuntive considerazioni de lege ferenda, (non nuove per la verità nell'operato della Corte), affermando che il legislatore ” non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla l. di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale».(par. 5.7), e, ad avviso della Corte, ciò sarebbe consentito, in applicazione di quel margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato. “Valuterà il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento», all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. (par. 5.7)

 

9. Considerazioni conclusive.

 

Le sentenze esaminate hanno il rilevante merito di aver risolto, anzitutto, il problema sollevato dalla Corte europea in relazione al caso esaminato, e cioè l’incompatibilità della normativa italiana relativa al calcolo della indennità di esproprio, ma, più in generale, di aver riconosciuto l'obbligo, per l'ordinamento italiano, di conformarsi alle norme della Convenzione europea, nella interpretazione che delle stesse viene fornita data dalla Corte Strasburgo.

Le affermazioni risolutive delle sentenze, senza ripetere le argomentazioni e le specificazioni sopra esaminate, possono essere sinteticamente riassunte in tre punti essenziali:

 

1. Le norme della Convenzione europea nell'ordinamento italiano hanno valore di norme interposte (fra le leggi e la Costituzione) che devono essere rispettate, in quanto integrano il contenuto degli obblighi internazionali che, in applicazione dell'art. 117 della Costituzione, si impongono all'attività normativa dello Stato e delle Regioni, sempre che esse stesse non siano in contrasto con altre norme costituzionali.

 

2. La Corte europea ha una competenza esclusiva ad interpretare le norme della Convenzione e quindi queste debbono essere applicate in Italia così come interpretate dalla Corte Strasburgo.

 

3. Le norme interne vanno interpretate, per quanto possibile, conformemente alle norme della Convenzione europea. Se questo esercizio non permette di risolvere il contrasto con la Convenzione, la norma interna di riferimento deve essere sottoposta all'attenzione della Corte costituzionale perché ne possa valutare l'incostituzionalità in relazione all'art. 117 della Costituzione.

Il carattere innovativo delle affermazioni contenute nelle sentenze potrebbe costituire la base di successive interpretazioni, alcune implicitamente ricavabili dalle affermazioni già evocate, altre, invece, che necessitano di rielaborazioni intese, ci si augura, ad un sempre più efficace adeguamento dell'ordinamento italiano all’ordine pubblico europeo dei diritti dell'uomo, che deve rappresentare un parametro costituzionale, comune per tutti gli Stati parti contraenti della Convenzione. In tale prospettiva sembra naturale, anzitutto, estendere l'obbligo di cui all’art. 117 allo Stato nel suo complesso, e quindi, da una parte, a tutte le attività, quale che sia il carattere normativo amministrativo o altro delle stesse, e dall'altra, in relazione ad ogni attività e comportamento di organi e soggetti, comunque riconducibili allo Stato a livello internazionale.

Analoga interpretazione dell'obbligo di cui alla richiamata disposizione dovrebbe essere estesa, altresì, ad ogni ipotesi di carenza normativa, o di altra natura, riscontrata dalla Corte europea come causa di violazione di norme convenzionali, ipotizzandosi, al riguardo, l'applicazione diretta della norma convenzionale, qualora lo Stato non provveda ad adottare gli atti richiesti, e sempre che la norma della Convenzione consenta di colmare la lacuna dell'ordinamento interno ed evitare, di conseguenza, il perdurare della violazione.

In relazione, poi, alla rinnovata e controversa interpretazione dell'art. 11 della Costituzione, in una ulteriore riflessione, sarebbe auspicabile pervenire alla diretta applicabilità delle norme della Convenzione europea ed alla loro conseguente superiorità rispetto al diritto interno utilizzando, da un lato, gli elementi desumibili dalle finalità poste dall'articolo stesso per le limitazioni della sovranità, e dall'altro, il carattere di ordine pubblico europeo riscontrabile non solo nella Convenzione e nei suoi Protocolli, ma anche in tutto il sistema europeo di affermazione e protezione dei diritti dell'uomo. Al riguardo, infine, anche l'art. 2 della Costituzione, che nel caso di specie non è stato in alcun modo evocato, potrebbe essere un utile riferimento a complemento del carattere primario delle norme sui diritti umani.

Il lento processo seguito dalla Corte costituzionale per arrivare alle ben note affermazioni in tema di diritto comunitario, lascia ben sperare e può costituire, al riguardo, un utile precedente. Anche le reiterate affermazioni della Corte di cassazione, mostrando la disponibilità, almeno di una parte della magistratura, a proporre ed accettare soluzioni del tutto innovative, vanno nella direzione auspicata. Infine, anche l'opinione pubblica accetterebbe, certo, più volentieri la subordinazione dello Stato ad una tutela europea dei diritti umani, di quanto non abbia fatto oggi in relazione all'ordinamento comunitario.

 

Roma, 9 novembre 2007.

 

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* Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Roma «La Sapienza».

 

[1] «Pour aider l’Etat défendeur à remplir ses obligations au titre de l’article 46, la Cour a cherché à indiquer le type de mesures que l’Etat italien pourrait prendre pour mettre un terme à la situation structurelle constatée en l’espèce. Elle estime que l’Etat défendeur devrait, avant tout, supprimer tout obstacle à l’obtention d’une indemnité en rapport raisonnable avec la valeur du bien exproprié, et garantir ainsi par des mesures légales, administratives et budgétaires appropriées la réalisation effective et rapide du droit en question relativement aux autres demandeurs concernés par des biens expropriés, conformément aux principes de la protection des droits patrimoniaux énoncés à l’article 1 du Protocole no 1, en particulier aux principes applicables en matière d’indemnisation (paragraphes 93-98 ci-dessus)» (sentenza « Scordino » Grande Camera, 26 marzo 2006 par. 237) .

[2] “Sul primo punto deve considerarsi ormai acquisito, il principio della immediata precettività delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza di legittimità “ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto” (Cassazione, Su civili, 28507/05). Ed ha concluso il caso di specie dichiarando “ l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3 ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Dorigo Paolo”.(sent. Cass, Pen. I del 1.12.2006 -25. 1.2007 n. 2800).

[3] Le riflessioni che seguono sono limitate agli aspetti internazionalistici delle sentenze e rinviano ad altri il commento in ordine alla materia dell’indennità di esproprio.

[4] Si fa riferimento alla posizione assunta anzitutto da QUADRI (Diritto internazionale pubblico, Palermo 1956 p. 62 ss) che afferma l’esistenza nell’art. 10 di un adattamento automatico “globale” comprendente anche il diritto pattizio.

[5] “Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti” (sent. n. 348 par. 3.3).

“In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»….. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità”. (sent. n. 349 par. 6.1).

[6] Si noti fra l’altro come coraggiosamente la Corte citi l’UE come un ordinamento di “…natura sopranazionale..” (sent. n. 348, vedi anche nota 5).

[7] Oltre alla Corte europea, il Segretario Generale ed il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

[8] l'Assemblea parlamentare, il Commissario per i diritti umani ed i diversi Comitati di esperti in materia, sempre nell'ambito del Consiglio d'Europa.

[9] Principi già sostenuti dalla Commissione europea dei diritti dell'uomo nel caso Austria/ Italia in Ann. vol. 4. 117.

[10] È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di l. ordinaria» (sent. n. 349 par. 6.1.1).

[11] “Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni.” (sent. n. 348 par. 4.4).

[12] “Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della l. statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale”. (sent. n. 348 par. 4.4).

[13] “Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sent. n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sent. n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune.” (sent. n. 348 par. 4.3).

[14] “In applicazione di tale principio di diritto, poiché la decisione non richiede accertamenti di fatto e valutazioni di merito, deve pronunciarsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’articolo 620 lettera l) c.p.p. e, per l’effetto, deve dichiararsi l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sent. 3 ottobre 1994 della Corte di Assise di Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996, nei confronti di Dorigo Paolo, con i provvedimenti consequenziali”. (sent. n. 349 par. 6.2).

[15] “Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta” (sent. n. 349 par. 6.2).

[16] “Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.” (sent. n. 349 par. 6.2) “il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato”. (sent. n. 348 par. 4.6).

[17] “L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[18] “Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione.” (sent. n. 348 par. 4.6).

[19] Nell’intervento proposto dall’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei ministri (atto Ct.3055406 del 6 novembre 2006) non soltanto si ignora, ma altresì si contesta la competenza esclusiva della Corte europea “… sembra necessario richiedersi, prima di tutto, se davvero la giurisprudenza della CEDU possa, attraverso l'interpretazione, imporre agli Stati stipulanti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali, in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia si procedimento di formazione patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale.”….. “la pretesa della CEDU di disporre un simile preteso potere creativo di norme di natura convenzionale vincolanti non ha spazio alcuno nel diritto internazionale generale”

[20] Sent. n. 348 par 4.7

[21] “la rilevanza di quest'ultima, (la CEDU) così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[22] “Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[23] “Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.” (sent. n. 349 par. 6.2).

[24] “Di fronte alla situazione determinata dalla emanazione di norme legislative italiane…che comporta una violazione indiretta dell’art. 11 Cost. e rende pertanto costituzionalmente illegittime tali norme interne…….il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale” sent. 30 ottobre 1975 n. 232.

[25] Sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006, par. 239. La stessa posizione, come è noto, è stata più volte manifestata dalla prima Sezione della Cassazione penale “ il Collegio ritiene di dover ribadire il principio per cui il giudice italiano è tenuto a conformarsi alle sentenze pronunciate dalla stessa Corte (europea) e, per conseguenza deve riconoscere il diritto al nuovo processo anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura del procedimento penale, l'intangibilità del giudicato” (Cass. sez. pen. sent. “Somogy” n. 32678/06) ; e ancora: ” il giudice dell'esecuzione deve dichiarare a norma dell'articolo 670 Cpp l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per i diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall'art. 6 della Convenzione europea ed abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell'ordinamento in mezzo idoneo a restaurare il nuovo processo” (Cass. sez. pen. sent. del 1/12/06-25/1/07, “Dorigo” n. 2800).

[26] L'ipotesi è certamente più frequente nei casi di misure che riguardano singoli individui, piuttosto che in situazione strutturali.

[27] Le modifiche introdotte dal Protocollo 14 all'art. 46 della Convenzione prevedono che qualora il Comitato dei ministri ritenga che uno Stato si rifiuti di dare esecuzione alla sentenza, debba prima mettere in mora lo Stato stesso con una decisione a maggioranza dei due terzi e quindi investire la Corte del problema della mancata esecuzione. Se la Corte constata la violazione rinvia la questione al Comitato dei ministri il quale esamina le misure da adottare (“..il examine les mesure à prendre”). Si tratta, com'è evidente, di una modifica intesa rafforzare il potere di controllo del Comitato dei ministri e, attraverso lo stesso, l'obbligo assunto dagli Stati dare esecuzione alle sentenze, con una indiretta previsione di misure sanzionatorie, ancorché non specificate, che potrebbero giungere sino alla espulsione dello Stato membro del Consiglio d'Europa, in applicazione dell'art. 8 dello Statuto.

[28] Sent. n. 349 par. 8.

 



[1]     Questo Protocollo è oggi privo di oggetto, poiché l’Organo in questione non fa più parte del sistema di controllo della Convenzione europea del 1950.

[2]     Per questo Protocollo vale, in parte, quanto già detto per il Protocollo n. 3.

[3]     Per questo Protocollo vale, in parte, quanto già detto per il Protocollo n. 3.

[4]     Per una ricognizione delle sentenze della Corte dal 2004 al 2007 si possono consultare i quaderni elaborati annualmente dall’Avvocatura della Camera – Osservatorio permanente delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, disponibili anche sul sito Internet www.camera.it.

[5]     Il disegno di legge di ratifica del protocollo n. 13, relativo alla pena di morte, è stato assegnato alla Commissione Affari esteri della Camera in prossimità dello scioglimento della XV legislatura e non è stato mai esaminato (A. C. 3273 della XV legislatura).

      Si segnala che l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nella risoluzione  n. 1548 del 18 aprile 2007, ha esortato lo Stato italiano a ratificare quanto prima i protocolli nn. 12 e 13.

[6]     Il collegamento ha carattere indicativo in quanto l’ambito di applicazione delle tutele convenzionali è caratterizzato da un’intrenseca forza espansiva attivata dalla giurisprudenza della Corte EDU.

[7]     Si veda, a.e., la sentenza D.H. contro Repubblica Ceca del 13 novembre 2007, nella quale la Corte ha fatto riferimento anche ai risultati dell’attività svolta dal Comitato consultivo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, istituito dalla citata Convenzione quadro.

[8]     Si veda a.e. la sentenza Saadi c. Italia della Grande Camera del 28 febbraio 2008, nella quale si utilizzano come risultanze istruttorie dati del Dipartimento di Stato americano.

[9]     Si veda la sentenza Ormanni c. Italia del  17 ottobre 2007.

[10]    I dati sono tratti dal rapporto sull’attività svolta nel corso dell’anno 2007, disponibile, in edizione ancora provvisoria, sul sito della Corte europea.

[11]    L’articolo 6 della legge comunitaria per il 2007 (legge 25 febbraio 2008, n. 34) ha trasfuso i contenuti dei commi da 1213 a 1223 dell’articolo 1 della legge n. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007) nell’ambito della legge 4 febbraio 2005, n. 11, recantenorme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell' Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, contestualmente abrogando i commi citati della legge finanziaria. La disposizione segnalata nel testo è pertanto contenuta nell’articolo 16-bis, comma 5, della legge n. 11/2005.

[12] Solo per il 2006 si vedano le sentenze Sciarrotta ed altri, Genovese ed altri, Prenna ed altri, Immobiliare Cerro, Izzo, Gianni e altri, De scoscio, Ucci, Grossi ed altri, Maselli, La Rosa e Alba (n. 5), Lo Blue e altri, Zaffuto e altri, Capozzi, Carratu Janes, Stornaiuolo, Croci e altri, Dedda e Fragassi , Gianazza, Notarnicola, Capoccia, Preziosi, Spampanato, Fendi e Speroni, Medici e altri, Labbruzzo, Messeni Nemagna e altri, De Nigris (n.1), Ceglia, Gautieri e altri, Ippoliti, Di Pietro, Milazzo, Matthias e altri, Perrella (n. 2), Trapani Lombardo e altri, Ippoliti Rita, Immobiliare Podere Trieste s.r.l., Iuliano, De Angelis.

[13]    In merito a tale orientamento si veda il Quaderno n. 3 dell’Osservatorio sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’Avvocatura della Camera dei deputati, pagg. 23 ss.

[14]    Che ha ritenuto, in tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, che la fonte del riconoscimento del relativo diritto non debba essere ravvisata nella sola normativa nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione della norma contenuta nell'art. 6 CEDU, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955, e, pertanto, di immediata rilevanza nell'ordinamento interno. Ne consegue, secondo tale pronuncia, che il diritto all'equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo, verificatosi prima della entrata in vigore della citata legge n. 89 del 2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta la durata eccessiva, con il solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e dalla stessa dichiarata ricevibile.

[15]    Secondo la quale, in tema di restituzione nel termine per proporre impugnazione contro una sentenza contumaciale, il giudice é tenuto a conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo che, in accoglimento del ricorso proposto dal condannato, abbia riconosciuto il carattere non equo del processo celebrato "in absentia", così che il diritto al nuovo processo non possa essere negato invocando l'autorità del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio contumaciale svoltosi nel rispetto della normativa processuale interna.

[16]  Le previsioni di cui ai nn. 1, 2 e 3 sono contenute nelle lettere dei Presidenti delle Camere del 30 novembre e 1° dicembre 2005 e sono state ribadite l’anno successivo. In tali lettere si stabilisce altresì che tale valutazione possa anche essere oggetto, sotto l’aspetto della responsabilità internazionale dell’Italia, di specifica attenzione nell’ambito dell’esame in sede consultiva dei progetti di legge da parte della Commissione Affari Esteri. Questo indirizzo dei Presidenti delle Camere si pone in linea con la raccomandazione (2004)6 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 maggio 2004, nella quale si evidenzia che, adottando una legge la cui conformità alla Convenzione è stata verificata, lo Stato membro diminuisce il rischio che una violazione trovi la sua fonte nella stessa legge e che venga, quindi, constatata dalla Corte.

      All’inizio della XVI legislatura il Presidente della Camera ha indirizzato una nuova lettera ai Presidenti di Commissione, che riprende i contenuti delle lettere già inviate nelle precedenti legislature. La lettera è pubblicata in allegato al presente dossier, unitamente alla lettera inviata nella scorsa legislatura dal Presidente della Camera al presidente della delegazione parlamentare italiana presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa in data 31 ottobre 2006. Analoga lettera sarà presumibilmente inviata anche nella legislatura in corso, una volta costituita la delegazione parlamentare italiana presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa.

      Per facilitare la valutazione di compatibilità dei progetti di legge esaminati dalle Commissioni permanenti della Camera con la Convenzione, i dossier del Servizio Studi dedicati ai singoli progetti di legge saranno corredati, a partire dalla legislatura in corso, di un paragrafo, elaborato con la collaborazione dell’Avvocatura, dedicato a questo aspetto.

[17]    La documentazione prodotta nell’ambito di tale attività è reperibile sul sito della Camera dei deputati.

[18]    In tal senso la interim resolution del Comitato dei Ministri, adottata nella riunione del 29 novembre 2005 n. 114.

[19]    Con la sentenza n. 26275 del 14 dicembre 2007 la I Sezione della Cassazione aveva già preso atto delle ricadute della dichiarazione d'incostituzionalità della sentenza della Corte costituzionale n. 348/2007dei primi due commi dell'art. 5 bis d.l. 333/92 convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché, in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, in materia di espropriazione per pubblica utilità e di conseguenze sul calcolo dell'indennità di esproprio, ancor prima delle modifiche al D.P.R. n. 327 del 2001 da parte dell’art. 2, commi 89 e 90, della L. n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008), affermando che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis cit. per contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione - introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – determina: “- la cessazione di efficacia erga omnes con effetto retroattivo della norma relativamente a situazioni o rapporti cui sarebbe ancora applicabile la norma stessa, di talché, ove sia ancora in discussione, nei giudizi pendenti, la congruità dell'attribuzione indennitaria, i relativi rapporti di credito non possono più essere regolati dalla norma dichiarata incostituzionale, a nulla rilevando l'anteriorità dell'espropriazione rispetto all'introduzione del parametro costituzionale per contrasto con il quale la disposizione legislativa è stata espunta dall'ordinamento; - la reviviscenza dell'art. 39 della legge sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, in conformità al principio della giusta indennità enunciato dall’art. 834 cod. civ. e ribadito dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo con la decisione del 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, con conseguente applicazione del criterio generale dell’indennizzo pari al valore venale. Nell’applicazione di tale criterio in riferimento ad un’area edificabile compresa in un piano di lottizzazione non seguito da convenzione, così come previsto dall’art. 28 della legge urbanistica del 1942, la Corte ha affermato l’inefficacia del piano, con la conseguenza che l’indennità va calcolata non considerando il maggior indice di edificabilità da esso previsto, ma quello (minore) del P.R.G.”.

[20]    Sul contenuto di tali sentenze di veda il Quaderno n. 3 dell’Osservatorio sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’Avvocatura della Camera dei deputati, pag. 29 ss..