Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: IV Seminario parlamentare Italo-turco (Ankara-Istanbul, 30 ottobre ' 2 novembre 2008)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 23
Data: 27/10/2008
Descrittori:
CONGRESSI CONVEGNI E SEMINARI   PARLAMENTO
RELAZIONI INTERNAZIONALI     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

 

 

SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV Seminario parlamentare Italo-turco

(Ankara-Istanbul, 30 ottobre – 2 novembre 2008)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 23

 

 

27 ottobre 2008


 

 

 

 

SIWEB

 

Dipartimento Attività produttive

 

SIWEB

 

 

Dipartimento Cultura

SIWEB

 

Il coordinamento redazionale del dossier è stato curato dal Dipartimento Affari esteri

 

 

I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

File:ES0082.doc


INDICE

 

 

Premessa  1

I Parte -  Le potenzialità della piccola e media impresa ed il ruolo del marchio

Disciplina dei marchi e tutela del made in Italy  5

·   La disciplina dei marchi5

·   Il marchio collettivo  7

·   Il marchio internazionale e il marchio comunitario  8

·   La tutela dei prodotti a denominazione di origine: le DOP e le IGT nel settore agroalimentare  11

·   Promozione e tutela del Made in Italy nella più  recente normativa nazionale  13

Piccole e medie imprese (PMI) e distretti industriali nel sistema produttivo italiano  19

·   Le piccole e medie imprese (PMI) nell’apparato produttivo italiano  19

·   I distretti industriali21

·   I distretti tecnologici23

·   L’innovazione nelle PMI24

·   L’internazionalizzazione delle PMI e dei distretti26

II Parte -  La cooperazione interuniversitaria  tra Italia e Turchia

Le relazioni culturali, scientifiche e tecnologiche tra Italia e Turchia (a cura del Ministero degli Affari esteri)31

·   Cooperazione interuniversitaria tra Italia e Turchia  31

·   Università italo-turca ad Istanbul32

·   Riconoscimento dei titoli di studio  33

·   Diffusione della lingua italiana  33

·   Scuole italiane  33

·   Missioni archeologiche  34

·   Programma “Invest your Talent in Italy”35

·   Programma “Cultural Bridges”36

·   Recupero di Villa Tarabya  37

·   Ospedale italiano di Istanbul37

Il sistema universitario italiano  39

·   L’autonomia universitaria  39

·   L’articolazione dei corsi universitari40

·   L’alta formazione artistico-musicale  40

·   L’Istruzione e formazione tecnica superiore  40

·   La valutazione del sistema universitario  41

 

 


Premessa

Il dossier offre alcuni elementi per l’approfondimento degli ambiti tematici che saranno trattati nel IV Seminario parlamentare italo-turco, in programma ad Ankara ed Istanbul dal 30 ottobre al 2 novembre prossimi.

La prima parte – riguardante la sessione di lavori incentrata sulle potenzialità della piccola e media impresa ed il ruolo del marchio - riunisce una scheda sulla disciplina dei marchi e sulla tutela del made in Italy ed una dedicata alle piccole e medie imprese (PMI) e distretti industriali nel sistema produttivo italiano.

La seconda parte – predisposta a supporto della sessione dedicata alla cooperazione interuniversitaria tra Italia e Turchia -  presenta una scheda, preparata dal Ministero degli affari esteri, che fornisce un quadro ampio e aggiornato delle relazioni culturali, scientifiche e tecnologiche fra i due Paesi. Si è ritenuto altresì opportuno inserire una scheda sintetica sul sistema universitario italiano ed una scheda, tratta dal sito web della Direzione generale Istruzione e cultura della Commissione europea, sull’organizzazione del sistema turco di istruzione superiore.

 

 

 

 

 

 


I Parte -
Le potenzialità della piccola e media impresa
ed il ruolo del marchio

 


Disciplina dei marchi e tutela del made in Italy

La disciplina dei marchi

La disciplina dei marchi è contenuta nel decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, recante il Codice della proprietà industriale e negli articoli 2569 e ss. del codice civile[1].

Per marchio si intende un segno distintivo che serve ad identificare un prodotto o servizio.

Il marchio può essere tutelato con una specifica domanda di registrazione in ciascun paese ove si ritiene di poterlo utilizzare su prodotti o servizi commercializzati direttamente o indirettamente, oppure con una domanda che, sulla base di accordi internazionali (Accordo o Protocollo di Madrid, Regolamento sul Marchio Comunitario), permetta di ottenere la registrazione con effetti in un certo numero di paesi.

Possono costituire marchi d'impresa i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente (parole, compresi i nomi di persona, disegni, lettere, cifre, suoni, forma del prodotto o della relativa confezione, combinazioni e tonalità cromatiche) purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli delle altre imprese. La registrazione per marchio d'impresa può essere ottenuta da chi lo utilizza, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o nel commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso.

Anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio.

Possono essere richiesti anche marchi collettivi da parte di soggetti, individuali o collettivi, che svolgano la funzione di garantire la natura, la qualità o l'origine di determinati prodotti o servizi.

Il titolare del marchio registrato ha diritto di farne uso per contraddistinguere i propri prodotti o servizi e di vietarne l'uso da parte di altri per prodotti o servizi identici o affini. I diritti derivanti dalla registrazione del marchio hanno una durata di dieci anni dalla data di presentazione della domanda. E previsto il rinnovo della regi.strazione per periodi decennali purché la domanda venga presentata entro i dodici mesi precedenti la scadenza del decennio in corso, o nei sei mesi successivi, con l'applicazione di una soprattassa.

Tra i requisiti richiesti per la registrazione di un marchio rientrano:

·         la novità, ossia l'assenza sul mercato di prodotti o servizi contraddistinti da segno uguale o simile. La novità non viene meno qualora il marchio precedente sia scaduto da oltre due anni (tre se trattasi di un marchio collettivo) o sia decaduto per non uso ultraquinquennale;

·         la capacità distintiva, che è la capacità di distinguere un prodotto o servizio da quello di altri;

·         la liceità: conformità all'ordine pubblico e al buon costume.

Tra i segni che non possono costituire oggetto di registrazione individuati dalla legge sono compresi, in particolare:

§         gli stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia, nei casi ed alle condizioni menzionati nelle convenzioni stesse, nonché i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico, a meno che l'autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione;

§         i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;

§          i segni che possono costituire una violazione di un altrui diritto d'autore, di proprietà industriale o di altro diritto esclusivo;

§         i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive;

§         i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta al prodotto dalla natura;

§         i segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;

§           i ritratti delle persone senza il consenso delle medesime, i nomi di persona diversi da quello del richiedente, se il loro uso sia tale da ledere la fama ed il decoro di chi ha il diritto di portare tali nomi; i segni identici o simili ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, se da ciò possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico a causa dell'affinità di prodotti o servizi;

§         i nomi di persona se notori, i segni usati in campo artistico o sportivo, le denominazioni e le sigle di manifestazioni e quelle di enti ed associazioni non aventi finalità economiche nonché gli emblemi caratteristici di questi, senza il consenso dell'avente diritto;

§         i segni identici o simili al marchio registrato anteriormente nello Stato o, se comunitario, dotato di una valida rivendicazione di priorità, per prodotti o servizi non affini, se esso goda nello Stato di rinomanza e se l'uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio allo stesso;

§         i segni identici o simili ad un marchio già notoriamente conosciuto ai sensi dell'articolo 6-bis della Convenzione di Unione di Parigi per la proprietà industriale, per prodotti o servizi anche non affini.

Il marchio collettivo

Oltre ai marchi individuali, cioè ai marchi in genere destinati a collegare permanentemente un prodotto ad una determinata impresa, il nostro legislatore ha previsto, come accennato, i marchi collettivi, che ha disciplinato agli art. 2570 c.c. e all'articolo 11 del citato codice della proprietà industriale (esempio sono i noti "Pura lana vergine", "Vero cuoio", ecc.).

L'art.1 del codice della proprietà industriale, in particolare, oltre a dettare delle disposizioni ad hoc relative ai marchi collettivi, afferma che gli stessi sono soggetti a tutte le altre disposizioni previste dalla legge per i marchi in generale in quanto non contrastanti con la natura dei marchi collettivi stessi. I marchi collettivi si differenziano radicalmente dai marchi individuali, in quanto non sono segni distintivi propri di un singolo imprenditore.

L'art. 11 del codice della proprietà industriale afferma che i soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti.

Nel caso di prodotti o servizi di un unico genere, si ha un marchio collettivo unisettoriale; nel caso di generi diversi, si ha un marchio collettivo plurisettoriale.

Il marchio viene utilizzato, dunque, da tutti coloro che il titolare autorizza all'uso, e che si impegnano preventivamente ad assoggettare il proprio prodotto a certe prescrizioni ed a certi contratti.

Titolare del marchio collettivo privato può essere un soggetto privato, sia o non sia imprenditore.

Per i marchi collettivi privati é dettata una scarna regolamentazione normativa nel Codice della proprietà industriale e nel codice civile. La disciplina dei rapporti tra il titolare del marchio collettivo e coloro che ne fanno uso é affidata ad appositi regolamenti (privati) i quali devono prevedere:

-          che i soggetti autorizzati all'uso del marchio collettivo rispettino, nella fabbricazione dei prodotti da contrassegnare con quel marchio, certe norme attinenti alla qualità ;

-          che il titolare del marchio collettivo possa esercitare dei controlli sui soggetti autorizzati ad usarlo;

-          delle sanzioni a carico degli utenti in caso di infrazioni, consistenti sostanzialmente nell'uso del marchio collettivo su prodotti non rispondenti alle norme regolamentari.

 

Le condizioni di validità del marchio collettivo sono in linea di massima le stesse che vigono per i marchi individuali:

a)      per quanto riguarda il requisito della novità , il marchio collettivo é nullo se uguale, o confondibile con un marchio anteriore, sia esso collettivo o individuale;

b)      in merito alla liceità, un marchio collettivo può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi. In tal caso, però, la registrazione può essere rifiutata se può creare una situazione di "ingiustificato privilegio, o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. In ogni caso, l'avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché l'uso sia conforme alla correttezza professionale, e cioè limitato alla funzione di indicazione di provenienza geografica.

 

Titolare del marchio collettivo può essere un ente pubblico. Si tratta di marchi a disciplina singolare, cioè dettata espressamente per ciascuno di essi.

Il marchio internazionale e il marchio comunitario

L'Accordo di Madrid del 1891[2] ha introdotto la procedura della registrazione internazionale dei marchi. Questa procedura permette di proteggere un marchio in uno o più dei Paesi aderenti a tale Accordo, tramite un singolo deposito, compilato in una sola lingua, e presso un unico ente: l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI).

Il Marchio comunitario è stato istituito dal regolamento Ce 40/94 del 20 dicembre 1993, successivamente modificato e operativo dal 1° aprile 1996. Il marchio comunitario consente di ottenere automaticamente, mediante il deposito di un'unica domanda, la protezione legale di un segno distintivo in tutti i Paesi aderenti all’Unione Europea (UE), per dieci anni a partire dalla data di deposito della domanda. L’Ufficio per l'Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI) è l'ufficio atto a ricevere le domande di marchi comunitari e a rilasciare l’inerente concessione.

 

 

Principi del diritto comunitario in materia di marchi nazionali

 

L’articolo 28 TCE vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione e le misure di effetto equivalente. Tuttavia, secondo l’articolo 30 del medesimo Trattato, le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro, da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate, qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri. In base all’interpretazione dalla Corte di giustizia di tale normativa, i requisiti cui le normative nazionali assoggettano la concessione di denominazioni nazionali di qualità, a differenza di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza (vedi infra), possono riguardare solo le caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa all’origine o alla provenienza geografica degli stessi. In particolare, esiste una giurisprudenza risalente e costante della Corte di Giustizia in materia di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici, che ritiene incompatibile con il mercato unico, sulla base dell’art. 28 del Trattato, la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, “la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri”[3]; a tale principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza.

In tale prospettiva si pone la decisione del 5 novembre 2002 (causa C-325/00), nella quale  la Corte di Giustizia UE ha censurato la Repubblica Federale di Germania, per aver violato l’art. 28 del Trattato con la concessione del marchio di qualità “Markenqualität aus deutschen Landen” (qualità di marca della campagna tedesca), in quanto il messaggio pubblicitario, evidenziando la provenienza tedesca dei prodotti interessati, “può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio (…) escludendo i prodotti importati (…)”. Nella stessa sentenza si rileva, inoltre, come il fatto che l’uso del suddetto marchio sia facoltativo non elimina il potenziale effetto distorsivo sugli scambi tra gli Stati membri, posto che l’uso del marchio “favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene” (punto 24). In tale sentenza, inoltre, non ha assunto rilievo il fatto che il titolare del marchio collettivo fosse un soggetto privato – per il quale di norma non dovrebbero sussistere implicazioni rispetto ai principi comunitari – dal momento che la Corte ha ritenuto che il soggetto in questione, nonostante la veste giuridica formale di società di diritto privato, gravitava oggettivamente nella sfera di influenza dei pubblici poteri ed è stata pertanto considerata come strumento per l’attuazione di misure pubbliche (cfr. punti 14-21 della sentenza). 

In materia di marchi regionali si ricorda la decisione 6 marzo 2003 (causa C-6/02), nella quale la Corte ha affermato la responsabilità della Repubblica Francese, la quale “non avendo posto fine, entro il termine fissato nel parere motivato, alla protezione giuridica nazionale concessa alla denominazione ”Salaisons d'Auvergne” nonché ai marchi regionali ”Savoie”, ”Franche-Comté”, ”Corse”, ”Midi-Pyrénées”, ”Normandie”, ”Nord-Pas-de-Calais”, ”Ardennes de France”, ”Limousin”, ”Languedoc-Roussillon” e ”Lorraine” (…) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 28 TCE”; in tale causa, la Commissione europea ha sostenuto che le disposizioni francesi che istituiscono le suddette denominazioni possono avere effetti sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri, in quanto, in particolare, esse favoriscono la commercializzazione delle merci di origine nazionale a detrimento delle merci importate e dunque la loro applicazione creerebbe di per sé una disparità di trattamento tra queste due categorie di merci.

Più recentemente, si ricorda la sentenza della Corte del 17 giugno 2004 (causa c-255/03), Commissione contro il  Regno del Belgio, avente ad oggetto il ricorso diretto a far dichiarare che il Regno del Belgio, avendo adottato e mantenuto in vigore una normativa che concede il “marchio di qualità Vallone” a prodotti finiti di una determinata qualità fabbricati o trasformati in Vallonia, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell’art. 28 TCE, in quanto  tra le condizioni per ottenere il suddetto marchio figura l’obbligo di trasformazione o di fabbricazione in Vallonia, mentre i presupposti che danno accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero riferirsi esclusivamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto, escludendo qualsiasi riferimento alla sua origine geografica.

Si segnala, inoltre, come la Corte di Giustizia sia stata chiamata ad esprimersi in merito al tema della compatibilità con il mercato unico di provvedimenti nazionali in materia di marchiatura obbligatoria dell’origine sui prodotti, provenienti da Paesi esteri (comunitari e non) all’interno del mercato unico. In proposito si ricorda, ad esempio, la sentenza del 17 giugno 1981, causa 113/80, Commissione contro Irlanda, nella quale la Corte ha censurato, in quanto ritenuti misure di effetto equivalente ai sensi dell’allora art. 30 (ora 28) del Trattato, due provvedimenti normativi irlandesi (306 e 307/1971) che imponevano, per determinate categorie di prodotti, l’obbligo di indicare sugli stessi il paese d’origine, ovvero il termine “foreign”. I prodotti in oggetto erano articoli di gioielleria importati recanti motivi o aventi caratteristiche tali far presupporre che gli stessi fossero souvenirs d’Irlanda (ad esempio un personaggio irlandese,  un trifoglio irlandese, ecc.).

In tale ambito, si ricorda, altresì, la causa n. 207/83, Commissione/Regno Unito, decisa dalla Corte con sentenza del 25 aprile 1985, nella quale la normativa contestata era un decreto britannico del 1981 (“Trade Descriptions”) il quale, all’art. 2, stabiliva il divieto della vendita al dettaglio di quattro tipologie di prodotti (tessuti e abbigliamento, elettrodomestici, calzature, coltellerie e posate), a meno che gli stessi non fossero marchiati o accompagnati da un’indicazione del paese d’origine. Nelle motivazioni di tale sentenza la Corte ha chiarito (punto 17) che “non si può fare a meno di ammettere che le indicazioni o la marchiatura d’origine mirano a consentire al consumatore di effettuare una distinzione fra le merci nazionali e quelle importate e danno quindi loro la possibilità di far valere gli eventuali pregiudizi contro i prodotti stranieri. Si deve ricordare che, come la Corte ha avuto occasione di rilevare in vari contesti, il Trattato, mediante l’instaurazione di un mercato comune e grazie al ravvicinamento graduale delle politiche economiche degli Stati membri, mira alla fusione dei mercati nazionali in un mercato unico avente le caratteristiche di un mercato interno. Nell’ambito di un siffatto mercato, la marchiatura d’origine rende non solo più difficile lo smercio, in uno Stato membro, dei prodotti degli altri Stati membri nei settori di cui trattasi; essa ha inoltre l’effetto di frenare l’interpenetrazione economica nell’ambito della Comunità, ostacolando la vendita di merci prodotte grazie alla divisione del lavoro fra gli Stati membri.”

La tutela dei prodotti a denominazione di origine: le DOP e le IGT nel settore agroalimentare

La normativa comunitaria

La crescente preoccupazione dei consumatori per la qualità dei prodotti alimentari è stato un fattore determinante per lo sviluppo della politica comunitaria in materia di identificazione dei prodotti, attraverso denominazioni che ne garantiscano la qualità, al fine di garantire certezza sull'origine degli stessi e sui relativi metodi di trasformazione.

La regolamentazione della Comunità europea ha rappresentato un grande impulso nel delineare le figure delle denominazioni di origine, che hanno in un primo momento riguardato solo il mercato dei vini. Successivamente, a livello comunitario è emerso un analogo intento di privilegiare la qualità anche per i prodotti agro - alimentari.

I Regolamenti 2081/1992[4] e 2082/1992[5] hanno introdotto per primi una normativa in materia di diversificazione delle produzioni agricole e alimentari con caratteristiche qualitative legate all'area geografica di provenienza o ad una tradizione consolidata. Sono state così introdotte la Denominazione di Origine Protetta (DOP), l'Indicazione Geografica Protetta (IGP) e un'attestazione di specificità del prodotto successivamente sostituita con la specialità tradizionale garantita.

La DOP è applicata a produzioni il cui intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima all'ottenimento del prodotto finito, è localizzato all'interno di un'area geografica ben delimitata, e quindi, non riproducibile al di fuori di tale area.

La IGP non richiede che l'intero processo produttivo debba necessariamente avvenire all'interno di un'area geografica ben definita, ma può applicarsi a quei prodotti finiti che presentino una caratterizzazione geografica in termini di qualità legata anche ad una sola fase del ciclo produttivo.

La specialità tradizionale garantita, (in precedenza attestazione di specificità) prescinde dall'area geografica di origine, consentendo ad un prodotto con caratteristiche qualitative specifiche di godere di una differenziazione rispetto ai prodotti della stessa categoria. Come per DOP e IGP, anche l'attestazione di specificità è subordinata all'applicazione di un disciplinare di produzione.

Per usufruire della protezione di ciascuno Stato Membro, le DOP e le IGP debbono essere registrate a livello comunitario.

 

La tutela della qualità dei prodotti in ambito internazionale

La sede in cui la questione dei marchi e delle denominazioni d'origine è normalmente trattata nell'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) è l'accordo TRIPS, relativo alla regolamentazione commerciale dei diritti di proprietà intellettuale.

In particolare, nella Parte II dell’accordo, oltre alle norme relative alla tutela internazionale dei marchi (artt.12–21), sono contenute quelle relative alle indicazioni geografiche. L’art. 22, in particolare, rubricato “protezione delle indicazioni geografiche”, intende per indicazioni geografiche quelle che identificano un prodotto come originario del territorio di uno Stato membro, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica. Il citato accordo impegna, tra l’altro, gli Stati membri a prevedere i mezzi legali atti ad impedire che nella designazione sia indicata un'area geografica diversa dal vero luogo d'origine, in modo tale da ingannare il pubblico sull'origine stessa del prodotto.

 

Promozione e tutela del Made in Italy nella più  recente normativa nazionale

La tutela sui mercati mondiali dei prodotti tipici del “Made in Italy” è stata oggetto di numerose iniziative legislative nel corso delle ultime legislature. L’obiettivo è stato perseguito dapprima sul versante della riconoscibilità e della promozione della produzione italiana (a partire dalle misure inserite nella legge finanziaria per il 2004), mentre successivamente gli interventi si sono concentrati sul profilo della lotta alla contraffazione dei prodotti.

 

Riconoscibilità della produzione italiana

L’articolo 4 della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria 2004) (commi da 49 a 84) ha introdotto norme finalizzate a promuovere la produzione italiana (Made in Italy)e a tutelare i diritti di proprietà industriale e intellettuale delle imprese italiane sui mercati esteri, prevedendo, a tutela delle merci prodotte integralmente in Italia o considerate prodotto italiano ai sensi della normativa europea in materia di origine, la regolamentazione dell'etichettatura Made in Italy, oltre che la possibilità di adottare un apposito marchio.

In particolare l'articolo 4, comma 49, della citata legge finanziaria, così come modificato prima dal comma 9 dell'art. 1, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, e poi dall'art. 2-ter del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, ha esteso la tutela penale del Made in Italy contenuta nell’articolo 517 del Codice penale[6], punendo anche "l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale”. La disposizione precisa che costituisce “falsa indicazione” la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine, mentre costituisce “fallace indicazione”, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura «made in Italy». In sintesi, quindi, non sarebbe possibile indicare che un prodotto è di origine italiana e/o apporvi l'indicazione "Made in Italy" ove l'attività di lavorazione o trasformazione non sia svolta in Italia o l'attività svolta in Italia sia del tutto marginale o irrilevante.

Merita evidenziare, tuttavia, che l’articolo 4, comma 49, della legge finanziaria per il 2004, è stato oggetto di una articolata giurisprudenza, che nella maggior parte dei casi ha ribadito l’indirizzo interpretativo precedente alla sua entrata in vigore, fondato sull’argomento che per origine di un prodotto si deve intendere la sua provenienza “imprenditoriale” e non già “geografica”, essendo tale elemento non rilevante ai fini della corretta valutazione dei contenuti del prodotto e della sua qualità da parte dei consumatori. Tale filone argomentativo, tuttora prevalente in giurisprudenza, si fonda sulla considerazione che una lettura della tutela d’origine fondata sul criterio geografico (fermo restando lo speciale regime delle DOP e IGP alimentari), entrerebbe in insanabile contrasto con altre norme dell’ordinamento, quali quelle sulla subfornitura estera e l’outsourcing (consentiti e disciplinati dalla legge n.192 del 1998) e sulla cessione dei marchi (consentita dall’articolo 23 del Codice della proprietà industriale).

Le incertezze interpretative susseguenti all’entrata in vigore delle nuove norme hanno generato insoddisfazione tra i sostenitori di una più radicale tutela della riconoscibilità dei prodotti italiani. In tale contesto si inseriscono le numerose iniziative legislative delle ultime legislature volte a rafforzare ulteriormente gli strumenti di riconoscimento dei prodotti italiani[7], che tuttavia non sono andate a buon fine (anche per i rilievi espressi da parte delle istituzioni comunitarie).

 

Promozione del Made in Italy

La legge finanziaria per il 2004 (legge n.350 del 2003) ha introdotto nuovi strumenti di promozione del Made in Italy.

In primo luogo è stato istituito l’istituito un Fondo di promozione straordinaria del made in Italy, presso il Ministero dello sviluppo economico, finalizzato al sostegno di una campagna promozionale straordinaria a sostegno della produzione italiana.

In secondo luogo è stato istituito il Fondo per l’assistenza legale internazionale alle imprese, per la tutela contro le violazioni dei diritti relativi alla proprietà industriale e intellettuale, nonché contro le pratiche commerciali sleali e i fenomeni legati agli obiettivi relativi alla diffusione dei prodotti italiani.

Infine, è stata istituita l'”Esposizione permanente del design italiano e del made in Italy” al fine di valorizzare lo stile della produzione nazionale, di promozione del commercio internazionale e delle produzioni italiane di qualità. L’iniziativa è finanziata a valere sulle risorse del Fondo di promozione straordinaria del made in Italy.

La legge finanziaria per il 2005 (legge n. 311/2004) è nuovamente intervenuta in materia di promozione del Made in Italy (articolo 1, commi 230 e 232), attraverso norme voltea rendere più agevole la gestione dei due fondi istituiti dalla finanziaria 2004 (riconducendo sotto un unico fondo il finanziamento e la gestione dei vari interventi previsti, compreso quello relativo all’esposizione permanente del design italiano presso l’Ente EUR in Roma), ad incrementarne l’autorizzazione di spesa inizialmente prevista e prevedendo, altresì, la promozione da parte del Ministero dello sviluppo economico, ai fini dell’utilizzo delle risorse del fondo per il "made in Italy", di protocolli di intesa con le università e le associazioni imprenditoriali di categoria e alla collaborazione con l’Istituto nazionale per il commercio estero (ICE).

La legge finanziaria per il 2007 (L. 296/06) ha previsto, in primo luogo, un rifinanziamento del Fondo per le azioni a sostegno del Made in Italy (istituito dalla legge finanziaria per il 2004) di 20 milioni di euro per il 2007 e di 26 milioni per gli anni 2008 e 2009 (comma 936). L’incremento del Fondo è destinato alla penetrazione commerciale dei mercati esteri mediante l’adozione di strumenti di marchio consortili di natura privatistica[8]. Inoltre ha previsto (comma 942) la concessione a favore degli enti fieristici di un contributo, limitato al 2007, nella misura massima complessiva di 10 milioni di euro. Il contributo è destinato al potenziamento dell’attività di promozione e sviluppo del Made in Italy, anche attraverso l’acquisizione di beni strumentali ad elevato contenuto tecnologico e l’ammodernamento degli impianti esistenti. Al Ministro dello sviluppo economico spetta definire con proprio decreto le modalità, i criteri ed i limiti del contributo.

 

Sempre con riferimento al Made in Italy si segnala, infine, l’avvio del primi tre Progetti di innovazione industriale (PII), tra i quali figura quello relativo alle “Nuove Tecnologie per il Made in Italy”, il cui bando è stato approvato dal Ministro dello sviluppo economico l’8 aprile 2008.

Obiettivo del Progetto è l’incremento della competitività particolarmente delle PMI che fanno parte delle filiere produttive del Made in Italy (sistema moda, sistema casa, sistema alimentare e sistema della meccanica), nonché della loro capacità di presidio stabile dei mercati internazionali di riferimento, rendendo accessibili quelle soluzioni tecnologiche che consentano l'innovazione di prodotto e di processo (le tecnologie dei nuovi materiali, le nanotecnologie, le biotecnologie, la meccatronica, le tecnologie abilitanti nell’ambito dell’informatica, dell’organizzazione, della logistica e della distribuzione).

 

Lotta alla contraffazione

Per quanto concerne la difesa dei prodotti italiani e la lotta alla contraffazione si ricordano in primo luogo le disposizioni introdotte dai commi 7-11 dell’articolo 1 del decreto legge n. 35/05[9], che hanno destinato alla lotta alla contraffazione le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie amministrative (fino a euro 10.000), previste (dal comma 7 del medesimo articolo) a carico degli acquirenti di prodotti che inducano a ritenere siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. Tra le condotte punibili viene fatta rientrare anche la commercializzazione di prodotti recanti indicazioni di origine false o fallaci (comma 9), mentre viene innalzata fino a 20.000 euro la multa prevista per la vendita di prodotti con segni mendaci (comma 10).

 

L’articolo 1-quater del DL 35/05 aveva, inoltre, disposto l’istituzione di un nuovo organo, l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione[10], al quale erano affidati compiti di coordinamento e di monitoraggio nell’ambito della lotta alla contraffazione.

 

In particolare all’Alto commissario era assegnato il coordinamento delle funzioni di sorveglianza sulle violazioni dei diritti di proprietà industriale e intellettuale e il monitoraggio delle attività preventive e repressive dei fenomeni di contraffazione. La nomina dell’alto Commissario era demandata ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, mentre la definizione delle relative modalità di funzionamento e di composizione era rinviata ad un decreto dello stesso Ministro, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. In merito all’attività dell’Alto Commissario era poi intervenuta la legge finanziaria 2006 (L. n.266/05) che all’art. 1, comma 235  aveva affiancato all’Alto Commissario, per l’espletamento delle sue funzioni, due vicari nominati dal Ministro delle attività produttive. Successivamente, disposizioni inerenti l’attività e il funzionamento dell’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione, volte al rafforzamento della struttura, attraverso l’istituzione di un Comitato tecnico di supporto, l’inserimento di nuovo personale e la previsione di un finanziamento a regime a partire dal 2006, erano state introdotte dal DL n. 2/2006 (articolo 4-bis). In particolare, nel ridefinire le funzioni già attribuite all’Alto Commissario (ai sensi dell’art. 1-quater del DL 35/05), ad esso erano stati attribuiti compiti di monitoraggio delle violazione dei diritti di proprietà industriale e intellettuale, di coordinamento e studio atte a contrastarle e di assistenza alle imprese per la tutela contro le pratiche commerciali sleali, disponendo inoltre che tali compiti venissero svolti anche con riferimento al settore agroalimentare.

Recentemente, nell’ambito del processo di riordino degli organismi collegiali operanti presso le pubbliche amministrazioni avviato con l’art. 29 del D.L. 223/2006 e volto, entro il triennio 2009-2011, alla graduale riduzione di tali organismi fino al definitivo trasferimento delle attività ad essi demandate nell’ambito di quelle istituzionali delle Amministrazioni, il DL 112/08 (art. 68, comma 6, lett. b)) ha disposto la soppressione dell’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione.


Piccole e medie imprese (PMI) e distretti industriali
nel sistema produttivo italiano

Le piccole e medie imprese (PMI) nell’apparato produttivo italiano

L’apparato produttivo italiano si caratterizza per una rilevante presenza di imprese di piccole dimensioni accompagnata da un accentuato localismo produttivo.

Dall’ultima indagine dell’ISTAT sul tema (Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi, ottobre 2007, con dati aggiornati al 2005), emerge che:

 

La rilevanza delle piccole imprese nella struttura industriale italiana emerge anche dal confronto con gli altri paesi europei. Nel confronto europeo le imprese italiane risultano mediamente di dimensioni minori e più orientate alle attività manifatturiere maggiormente specializzate (c.d. comparti del “made in Italy” a bassa tecnologia: cuoio e calzature, tessile e abbigliamento, cicli e motocicli, piastrelle e materiali per l’edilizia, mobili, fabbricazione di macchine). Alla modesta dimensione d’impresa concorre anche la forte incidenza del lavoro indipendente (un occupato su tre in Italia, uno su venti in Francia). Più in particolare, rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, se si considera il numero delle imprese nel 2004, l’Italia ha il peso di gran lunga più elevato (32 per cento circa), seguita da Spagna e Francia (con valori intorno al 20 per cento); in termini di addetti impiegati, inclusa la componente autonoma, il peso dell’Italia scende al 18 per cento circa: la quota è di poco superiore a quelle di Spagna (16,0 per cento) e Francia (17,7 per cento). Inoltre, sempre con riferimento all’anno 2004, in Italia un lavoratore su tre non è dipendente; in Spagna il rapporto si dimezza e scende ulteriormente per gli altri paesi, fino ad arrivare in Francia a uno su 20.

 

Per quanto concerne, specificamente, le imprese manifatturiere con meno di 10 dipendenti, esse sono ampiamente diffuse e rappresentano l’82,9% del tessuto industriale nazionale, quasi 3 punti percentuali in più della media UE (79,7%). Il primato, tuttavia spetta alla Francia, paese nel quale  tale tipologia di impresa rappresenta l’83,1% del totale delle aziende industriali. Con riferimento all’apporto alla ricchezza del Paese, però, le micro-imprese italiane primeggiano: il 25,5% dell’occupazione del settore si deve a loro (a fronte del 13,6% della media della Ue a 27, del 12,2% della Francia e del 6,6% della Germania), così come il 14,3% del valore aggiunto dell’industria manifatturiera (contro il 7% europeo, il 6,8% delle micro imprese francesi e il 2,2% di quelle tedesche).

Dal confronto europeo emerge, in particolare, che :

·       la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane è sensibilmente più bassa di quella dei principali paesi europei e pari a 8,9 addetti rispetto ai 36,2 addetti della Germania, ai 22 addetti del Regno Unito e ai 15 addetti della Francia;

·       il ruolo delle imprese italiane fino a 9 addetti è notevolmente più elevato in termini di fatturato (11,8%) rispetto a quanto registrato dalle imprese manifatturiere tedesche (2,2%), britanniche (5,9%) e francesi (7,6%). Simili sono i dati relativi alle medie imprese, mentre un gap negativo l’Italia lo registra nella formazione del valore aggiunto delle grandi imprese;

·       è molto consistente il contributo delle piccole imprese manifatturiere (10-49 addetti) italiane all’occupazione, con poco più del 31% sul totale. La distanza con gli altri tre paesi europei è elevata con particolare riguardo alla Germania (16,2%);

·       è più bassa l’incidenza di occupazione nelle imprese con oltre 250 addetti: 22,1% rispetto a quote più elevate negli altri paesi (dal 44,2% del Regno Unito al 53,6% della Germania).

 

I distretti industriali

Il concetto di "distretto industriale" è stato introdotto nella teoria economica alla fine dell'ottocento ed è stato ripreso in Italia negli anni '70 per descrivere e interpretare fenomeni di industrializzazione diffusa in aree territoriali circoscritte, caratterizzate dalla presenza prevalente di imprese di dimensioni medie e piccole e specializzate in una singola filiera produttiva.

Tra la fine degli anni '70 e durante gli anni '80, mentre l'economia mondiale attraversava una fase di recessione e di stagnazione, alcune aree industriali circoscritte dei Paesi più sviluppati presentavano invece elementi di sviluppo e di crescita. Tale fenomeno, comune all'Europa, agli Stati Uniti e al Giappone, ha assunto un particolare interesse in Italia, caratterizzata da un tessuto produttivo estremamente capillare e dalla presenza diffusa di piccole imprese; soprattutto nel corso degli anni '90, poi, i distretti industriali italiani si sono distinti per il notevole apporto all'incremento delle esportazioni, anche in seguito alla svalutazione della lira e all'uscita dell'Italia dal Sistema monetario europeo nel 1992.

I distretti sono sistemi produttivi geograficamente definiti, dove sono concentrate numerose imprese, solitamente piccole e medie, spesso impegnate in una singola produzione. Una importante caratteristica dei distretti è data dal fatto che essi costituiscono un insieme non solamente economico ma anche sociale e politico, nel senso che fattori sociali, politici ed economici vivono in stretta correlazione tra loro. Altri caratteri peculiari dei ristretti sono l'adattabilità e la tendenza all'innovazione delle imprese; la presenza di una forza lavoro flessibile, cui fa riscontro un livello di disoccupazione generalmente più basso rispetto alla media nazionale; la capacità di ottenere economie di scala, ritenute peculiari delle grandi imprese, attraverso forme di associazione e di cooperazione all'interno del distretto.

La formazione dei distretti industriali ha interessato prevalentemente settori industriali connotati da processi produttivi ad alta intensità di lavoro umano e scarsa automazione; limitato fabbisogno di capitale fisso (investimenti e attrezzature); scarse economie di scala a livello di intero processo produttivo; innovazione legata a processi di learning by doing.

Tali caratteristiche sono riscontrabili nella produzione di beni di consumo durevoli per la casa (mobili, ceramiche) e la persona (occhiali, gioielli, abbigliamento) e dei macchinari impiegati per la loro produzione.

L'organizzazione del processo produttivo all'interno dei distretti industriali registra un'elevata scomposizione tra imprese differenti, ciascuna delle quali può conseguire i vantaggi della specializzazione (efficienze ed economie di scala). Contestualmente, la fitta rete di relazioni inter-impresa garantisce al processo l'adattabilità, in termini di volumi (elasticità) e di differenziazione di prodotto (flessibilità), necessaria per adeguare rapidamente l'offerta alle variazioni della domanda.

I rapporti tra imprese sono improntati alla cooperazione tra soggetti che operano a livelli differenti del sistema produttivo e alla concorrenza fra quelli che svolgono la medesima attività. Ciò da un lato favorisce il coordinamento, dall'altro conferisce al sistema un elevato dinamismo.

Il successo del modello produttivo dei distretti industriali è concordemente ascritto a due principali fattori di sviluppo.

Anzitutto, il forte ancoraggio socio-culturale ad un territorio circoscritto favorisce una rapida circolazione delle idee e una facile interazione tra gli individui, che condividono una "cultura distrettuale". Questa non si basa solo sulla condivisione delle conoscenze tecnico-produttive, veicolate anche mediante specifici canali di formazione, ma include anche la cultura imprenditoriale e l'identificazione nei valori e negli interessi del distretto.

Un secondo fattore di sviluppo è l'esistenza di un approccio sistemico nelle relazioni inter-impresa, secondo la logica della specializzazione flessibile. La natura reticolare delle strutture organizzative distrettuali deriva spesso non da precisi schemi progettuali guidati da un'impresa leader, ma costituisce la  risposta spontanea al contesto competitivo; è così assicurata la possibilità di sostituire un'impresa con altre che siano in grado di svolgere la medesima attività lungo il processo produttivo. Contestualmente, si registra una notevole stabilità dei rapporti, spesso basati su relazioni di mutua fiducia, in grado di favorire la ricerca di forme di coordinamento che possano accrescere l'efficienza complessiva del distretto.

Il fenomeno dei distretti industriali si è particolarmente diffuso nell'Italia nord-orientale e centrale, e ha costituito un potente motore di sviluppo in regioni tradizionalmente prive di un tessuto industriale diffuso, come il Veneto e le regioni centro-meridionali del versante Adriatico (Marche, Abruzzo, Puglia). Soprattutto la crescita del Triveneto attraverso i distretti è stata vista come una valida alternativa al modello industriale del Nord-ovest, il cosiddetto "triangolo industriale", imperniato sulla grande impresa.

 

Con il censimento del 2001 l’ISTAT ha individuato complessivamente 156 distretti industriali, di cui 39 nel Nord-Ovest, 42 nel Nord-Est, 49 nel Centro e 26 nel Mezzogiorno.

Secondo dati dell’Istituto per la promozione industriale (IPI) i distretti attualmente sono 168. Infatti ai 156 individuati dall’Istat se ne sono aggiunti 12, tutti nel Mezzogiorno (3 in Abruzzo, 4 in Campania, 2 in Basilicata e 3 in Sardegna).

Dei 168 Distretti individuati, 145 sono localizzati nel Centro-Nord e 23 nel Mezzogiorno. Le principali specializzazioni produttive sono, nell’ordine: Tessile e Abbigliamento (41), Meccanica (34), Prodotti per l’arredamento e Lavorazione di minerali non metalliferi (29), Pelli, cuoio e calzature (20). Le quattro branche di attività menzionate costituiscono la specializzazione produttiva di 124 Distretti Industriali, pari al 74% del totale.

I distretti tecnologici

Negli anni Ottanta e Novanta il distretto industriale italiano è stato studiato in tutta Europa come un modello economico capace di combattere lo strapotere delle grandi imprese e delle multinazionali. Con l'avvento della moneta unica e la crescita di Cina ed Est europeo, questo sistema ha mostrato segnali di crisi. Si ritiene quindi fondamentale puntare sul rilancio dell'innovazione tecnologica all'interno dei distretti e favorire il passaggio dai distretti industriali (orientati soprattutto al mercato, alla riduzione dei costi e alla promozione dei prodotti) ai cosiddetti “distretti tecnologici”, orientati invece allo sviluppo dell'innovazione di prodotto e di processo e destinati a rafforzare settori tecnologicamente avanzati, quali, ad esempio, il distretto “Torino Wireless” per l'ICT (Information and Communication Technology), il distretto veneto per le nanotecnologie e quello campano per l’ingegneria dei materiali.

Il concetto di distretto tecnologico è stato introdotto in Italia nel 2002 nel quadro delle politiche per il sostegno della competitività del sistema produttivo nazionale. L’origine di questa nuova tipologia di clusters si può far risalire al Piano Nazionale della Ricerca (PNR) del 2002 – 2004 che, tra gli obiettivi strategici per il sistema italiano della ricerca, indicava  appunto l’adozione di misure volte a favorire le sinergie per fare massa critica nelle attività di R&S.

A differenza dei distretti industriali tradizionali nati spontaneamente e che solo in un secondo momento hanno ottenuto riconoscimenti e finanziamenti pubblici, i distretti tecnologici sono promossi dall’azione concertata di Pubblica Amministrazione (locale e centrale), imprese, Fondazioni ed Istituzioni finanziarie,  e nascono con l’obiettivo di creare in numerose aree del Paese poli per la ricerca e l’innovazione, specializzati per settore tecnologico, aventi l’ambizione di diventare centri di eccellenza anche a livello internazionale. In particolare, il distretto tecnologico si propone di creare un circolo virtuoso fra strutture di ricerca, imprese e finanziamenti pubblici e privati, capace di sviluppare una ricerca competitiva in grado di determinare forti ricadute di innovazione sul tessuto imprenditoriale del territorio.

L’elemento chiave che accomuna i due tipi di distretti (industriali e tecnologici) è la dimensione territoriale che li caratterizza e la fondamentale funzione di valorizzazione delle specificità locali al fine di migliorare l’attrattività del territorio. I distretti tecnologici puntano a riprodurre nel campo dell’innovazione tecnologica i vantaggi della contiguità spaziale e dei rapporti reticolari già sperimentati con successo nei distretti industriali. La variabile nuova, in questo caso, è costituita dalla prevista cooperazione di imprese e strutture pubbliche di ricerca.

L’iniziativa per la costituzione di distretti tecnologici spetta alle Regioni, che  presentano un progetto al Ministero dell’università che provvede, qualora lo ritenga opportuno, al riconoscimento ufficiale della nuova realtà territoriale..

A ottobre 2006, i distretti tecnologici riconosciuti (o in corso di approvazione) risultano pari a 25, di cui 11 localizzati nel Mezzogiorno; le specializzazioni vanno dalle nanotecnologie alla meccanica avanzata, biomedicina molecolare, materiali avanzati e materiali polimerici, areospazio e difesa.

I distretti approvati sono i seguenti: Campania 1 (materiali polimerici e strutture), Piemonte 1 (tecnologie wireless), Veneto 1 (nanotecnologie), Liguria 1 (sistemi intelligenti integrati per la logistica), Lombardia 3 (ICT, biotecnologie, materiali avanzati), Sicilia 3 (micro e nanosistemi, aerobio e pesca ecocompatibile, logistica), Lazio 1 (aerospazio e difesa), Emilia Romagna 1 (Hi-Mech), Sardegna 1 (biomedicina e tecnologie per la salute), Calabria 2 (beni culturali, logistica), Friuli-Venezia Giulia 1 (biomedicina molecolare), Puglia 3 (biotecnologie, hi-tech, meccatronica), Toscana 1 (ICT), Abruzzo (innovazione, sicurezza e qualità degli alimenti), Basilicata (tecnologie innovative per la tutela dei rischi idrogeologici), Molise (innovazione agroindustriale), Umbria (edilizia sostenibile) e Trentino Alto Adige 1 (tecnologie per l’edilizia sostenibile).

L’innovazione nelle PMI

La competitività delle imprese è sempre più legata all'elevato livello qualitativo ed al contenuto innovativo dei prodotti e servizi. Fattori strategici per lo sviluppo divengono la conoscenza, la capacità di innovazione, le competenze umane, le reti di cooperazione tra imprese. E' fortemente cresciuta l'attenzione degli imprenditori, delle Associazioni e delle Istituzioni ai temi della ricerca scientifica e tecnologica e dell'innovazione, ed è unanimemente condivisa la necessità di un aumento delle risorse pubbliche, sia europee che nazionali, dedicate a questi fattori.

Dall’analisi strutturale delle PMI emerge che il possesso e l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’attività innovativa e quella di ricerca e sviluppo delle PMI sono correlati alla dimensione delle imprese

Riguardo alla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle imprese con più di dieci addetti, l’ISTAT rileva che il 90% delle aziende italiane utilizza le tecnologie base (computer, posta elettronica e Internet), mentre se il 42,6% degli addetti utilizza il computer, mentre l'uso di computer connessi alla rete riguarda un addetto su tre.

L'adozione del computer nelle imprese con almeno 10 dipendenti ha raggiunto livelli particolarmente interessanti: ad utilizzarlo è il 96,1% dell'industria e il 97,4% del settore dei servizi.

Inoltre, solo il 3,8% delle piccole imprese italiane effettua vendite online. E appena 1/5 con sito Web offre ai clienti la personalizzazione del proprio sito.

Le aziende di dimensioni più piccole fanno un passo indietro per quanto riguarda, invece, l'uso di reti Lan, Intranet e Extranet: la loro presenza è ampiamente diffusa nelle imprese grandi, mentre è più contenuta in quelle con meno di 50 dipendenti.

In sintesi, si può dire che l'informatizzazione c'è, tuttavia scarseggia l’integrazione con i sistemi legati al ciclo produttivo. Nelle imprese con oltre 50 addetti i risultati sono migliori: il 13,7% utilizza reti Extranet, il 14,8% impiega tecnologie informatiche per scambiarsi informazioni fra funzioni aziendali interne all'impresa e l'11,9% integra i propri sistemi informatizzati di gestione degli ordini di acquisto e di vendita con quelli di altre aziende. Sul fronte del commercio elettronico, nel 2006 sono state il 29,7% le piccolissime aziende ad avere effettuato acquisti online, principalmente via Internet. In ogni caso, questa pratica è diffusa principalmente negli uffici dove sono presenti almeno 49 dipendenti.

Con riferimento all’attività innovativa e di ricerca e sviluppo (R&S), il "Documento di Programmazione Economico-Finanziaria 2008-2011" evidenzia una scarsa propensione alla ricerca da parte delle imprese italiane. Dai dati riportati nel documento emerge, infatti, che nel nostro Paese gli investimenti in R&S rappresentano l'1,1 per cento del PIL, contro l'1,81 dell'Europa a 25, il 2,7 degli USA, il 3,15 del Giappone (ll'obiettivo da raggiungere a medio termine sarebbe almeno  quello della media dei paesi dell'OCSE, e cioè il 2,5 per cento). Nel Documento si rileva inoltre che nel nostro Paese la quota di R&S finanziata dal Governo rispetto al totale degli investimenti nel settore  è più elevata tra i principali Paesi, mentre il contrario avviene per quanto riguarda la quota finanziata dall'industria. Più in dettaglio, in Italia il Governo finanzia circa della metà della spesa complessiva in R&S, a fronte del 30 per cento negli Stati Uniti e del 10 per cento in Giappone. In Italia l'industria finanzia il 43 per cento della spesa in R&S a fronte del 64 per cento circa negli Stati Uniti e del 75 per cento in Giappone (dati prevalentemente di fonte OCSE).

Secondo un recente studio dell’ISTAT (La ricerca e lo sviluppo in Italia nel 2005, Statistiche in breve, ottobre 2007) le imprese italiane sostengono oltre il 50% delle spese nazionali per R&S (il 47,4% di tali spesa è destinato alla ricerca applicata, il 47 % allo sviluppo sperimentale e il rimanente 5,6% alla ricerca di base). Il contributo alla spesa totale del settore delle imprese è sostenuto prevalentemente dalle unità produttive di maggiore dimensione. Infatti le imprese con almeno 500 addetti contribuiscono in ragione del 73,8% della spesa complessiva del settore, mentre le imprese con meno di 100 addetti contribuiscono per il 10%.

L’internazionalizzazione delle PMI e dei distretti

Lo sviluppo del tasso di internazionalizzazione del sistema produttivo (in particolare delle imprese di più piccole dimensioni) e della connessa propensione alle esportazioni, costituiscono una priorità strategica della politica economica, in particolare in un Paese, quale il nostro, dove una forte propensione all’export si combina con una struttura produttiva di piccole e medie imprese spesso non sufficientemente attrezzate nell’approccio al mercato globale e che ormai da diversi anni soffrono, soprattutto nei settori tradizionali del Made in Italy, dell’aumentata pressione concorrenziale delle nuove economie emergenti.

I dati dell’Istituto per il commercio estero (ICE), pur rilevando che a partire dal 1998 il numero delle imprese esportatrici è sempre aumentato, segnala l’arretramento in particolare delle piccole imprese in termini di quota sul valore delle esportazioni italiane. La perdita piuttosto marcata delle piccole imprese in termini di peso sulle esportazioni italiane (fra il 2000 e il 2004) evidenzia una particolare difficoltà di questa classe, che raccoglie oltre il 90 per cento degli esportatori italiani, a fronte di una forte accelerazione del commercio internazionale.

L’andamento differenziato delle diverse tipologie d’impresa sembra confermare la centralità della questione dimensionale nell’analisi dell’internazionalizzazione delle imprese. Non mancano infatti nel dibattito economico riflessioni critiche e analisi che vedono nel cosiddetto “nanismo” dell’industria italiana una delle principali cause delle difficoltà nelle esportazioni. Anche l’esperienza dei distretti industriali, che in passato aveva dimostrato la possibilità di superare i vincoli legati alla dimensione attraverso la flessibilità e i vantaggi del sistema produttivo locale, sembra mettere in luce segnali di debolezza. L’importanza degli aspetti legati alla taglia delle imprese appare inoltre rafforzata da un confronto con i principali paesi europei: la ridotta dimensione, che come si è detto costituisce uno degli aspetti caratteristici del sistema produttivo italiano, si riflette necessariamente sul suo modello di proiezione internazionale.

 

Anche il Rapporto ICE 2007/2008 conferma la tendenza dal 2001 al 2006 ad un lieve spostamento dei pesi verso le imprese di dimensioni maggiori riguardo alla capacità di operare nei mercati esteri. Secondo i dati del Rapporto, nel 2006 circa 175.000 imprese esportatrici, cioè l’85 per cento del numero totale, generavano non più del 4,6 per cento del valore delle esportazioni (una percentuale ancora inferiore al 5,8 per cento del 1998), mentre poco più di 9.000 imprese con fatturato esportato di almeno 5 milioni di euro generavano più dell’80 per cento delle esportazioni totali.

I dati confermerebbero un processo in corso di selezione e ristrutturazione del tessuto imprenditoriale degli esportatori. Considerando i dati per classi di addetti, disponibili fino al 2006, la tendenza era già visibile: il peso delle piccole imprese (con meno di 50 addetti) sul valore delle esportazioni italiane si è ridotto dal 31,5 al 28 per cento tra il 2000 e il 2006, a vantaggio delle medie imprese (da 50 a 249 addetti), passate dal 27 al 28,1 per cento, e soprattutto delle grandi imprese.

Secondo il Rapporto il peso delle piccole e soprattutto delle medie imprese è invece cresciuto negli ultimi anni sul terreno dell’internazionalizzazione produttiva, nonostante il ruolo preponderante ricoperto dalle imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), che esprimono oltre l’88 per cento del fatturato complessivo ed il 74,6 per cento del totale degli addetti all’estero.

Lo stesso Rapporto, tuttavia, sottolinea la difficoltà di comprendere la relazione che lega la capacità di effettuare investimenti diretti esteri alla dimensione dell’impresa investitrice. Infatti, anche se le dimensioni di impresa potrebbero costituire un forte vincolo alla capacità di effettuare investimenti all’estero (l’incidenza dei costi non recuperabili cresce al ridursi della dimensione d’impresa), non si può escludere che l’ingresso delle nuove tecnologie diminuisca i costi di internazionalizzazione (anche produttiva), consentendo così l’accesso anche alle imprese più piccole. Come si è detto, infatti, le imprese di classe dimensionale media (cui vanno attribuiti, nel 2006, oltre il 16 per cento del totale degli addetti e poco meno dell’8 per cento del fatturato complessivo) sono quelle che, nel corso degli ultimi anni, hanno accresciuto maggiormente il loro peso relativo, ed è cresciuta anche l’importanza delle aziende investitrici delle classi micro e piccola (in termini di addetti, sono passate dal 3,8 per cento del 1996 al 9,1 per cento attuale).

 

Quanto ai distretti industriali, mentre nel periodo 1995-2000 si segnala l’ascesa della quota dei distretti sulle esportazioni dell’Italia (in misura modesta per l’insieme  dei manufatti e più accentuata per i prodotti di specializzazione nazionale, in particolare nel settore della moda, che è quello a maggiore connotazione distrettuale), con riferimento al periodo 2000-2005 si segnala una inversione di tendenza. Infatti, per i settori degli alimentari e dellameccanicai distretti hanno contribuito all’aumento della quota dell’Italia sul commercio mondiale, mentre per i prodotti nel settore della moda, al contrario di quanto era avvenuto nel precedente quinquennio, il contributo è risultato negativo.

Una ripresa dell’export distrettuale emerge dai dati relativi al 2006, con particolare riferimento ai risultati positivi dei distretti specializzati nel sistema casa (beni per l’edilizia e manufatti vari) e nei prodotti in metallo per l’industria, ai quali si accompagna anche la crescita delle esportazioni dei distretti della meccanica strumentale, dell’alimentare e dei beni di consumo del sistema moda. Subiscono un nuovo calo delle esportazioni i produttori distrettuali di beni intermedi del sistema moda, che continuano a risentire delle pressioni competitive esercitate dai produttori dislocati nei paesi emergenti e delle strategie di revisione della localizzazione produttiva dell’industria mondiale della moda.

I più penalizzati dal nuovo contesto competitivo internazionale appaiono i distretti del Sud che, dopo aver sperimentato tassi di crescita sostenuti e superiori a quelli conseguiti nelle aree distrettuali del resto d’Italia, dal 2002 hanno subito perdite rilevanti. Sembrano, invece, aver superato almeno in parte il periodo di maggiore difficoltà i distretti del Centro-Nord per i quali si è registrata  una lieve ripresa delle esportazioni nel biennio 2004-2005, proseguita a tassi più sostenuti nel 2006, anche se viene rilevata una  notevole variabilità di risultati da distretto a distretto e da impresa a impresa.

Con riferimento al 2007 l’Osservatorio sull’internazionalizzazione dei distretti industriali dell’ICE (maggio 2008) segnala che il contributo di questi ultimi  alle esportazioni italiane è stato pari al 30,8%  del totale  manifatturiero (circa un punto in meno rispetto al 2006. La flessione registrata ha riguardato tutti i settori del Made in Italy ad eccezione del comparto alimentare, la cui quota di esportazione è salita in tutto il territorio fatta eccezione per il Nord Est.

Tale area ha registrato tra il 2006 e il 2007 la flessione più significativa  e il contributo dei distretti all’export dei prodotti tipici del Made in Italy ha raggiunto il 35,5%.

Per quanto riguarda l’Italia nord-occidentale si sottolineano i buoni risultati delle province specializzate nei settori meccanico e alimentare e il lieve ripiegamento dei distretti dell’arredamento e del sistema moda. Mentre per i distretti del Mezzogiorno si registra un aumento sensibile della quota di export del Made in Italy.

 

 

 


II Parte -
L
a cooperazione interuniversitaria
tra Italia e Turchia

 


Le relazioni culturali, scientifiche e tecnologiche
tra Italia e Turchia
(a cura del Ministero degli Affari esteri)

Il settore culturale ricopre un’importanza primaria nelle relazioni bilaterali, anche alla luce della vivissima attrazione in Turchia per tutto ciò che viene dall’Italia, della comune appartenenza alla matrice mediterranea europea e dell’interesse per settori nei quali ci viene riconosciuto un indiscusso primato (moda, design, architettura, conservazione del patrimonio artistico ed archeologico).

L’intesa di riferimento e’ l’Accordo di Cooperazione Culturale, Scientifica e Tecnica firmato nel 1954, il cui nuovo Protocollo esecutivo e’ stato sottoscritto ad Ankara il 6 dicembre 2006. Considerato il tempo intercorso e le novità emerse, e’ stato avviato il negoziato per un nuovo Accordo Culturale. Un testo e’ stato sottoposto alla controparte, ed un primo esame ha avuto luogo nella sessione negoziale svoltasi nel giugno 2006.

Dato il rilievo acquisito dal settore, si e’ inoltre predisposto un Accordo per la collaborazione scientifica e tecnologica, firmato nel 2002, il cui primo Protocollo Esecutivo è stato sottoscritto nel giugno 2007. Sulla base di quest’ultimo sono stati approvati 4 progetti per la mobilità dei ricercatori e 4 progetti di particolare rilevanza (settori prioritari: agricoltura, ambiente ed energia, sanità, informazione, nanoscienze, conservazione del patrimonio culturale).

Nel corso del 2006 sono stati inoltre sottoscritti un Protocollo tecnico nel settore degli Archivi di Stato ed un Accordo di coproduzione cinematografica che consentirà di realizzare congiuntamente film, animazioni, documentari e progetti audiovisivi in generale.

Cooperazione interuniversitaria tra Italia e Turchia

Occorre ricordare che la Turchia partecipò a fine gennaio 2005 alla Terza Conferenza di Catania, organizzata sotto l’egida italiana, ed in tale occasione firmò la dichiarazione congiunta sullo spazio comune dell’Istruzione superiore nel Mediterraneo. A latere della Conferenza venne anche firmata un’intesa tra le Università di Roma “La Sapienza”, Ankara ed Istanbul per la creazione in quest’ultima città di un Centro di alta formazione e ricerca nel settore giuridico.

Nel corso della visita del Presidente Ciampi a novembre 2005, la CRUI (Conferenza dei Rettori Italiani) aveva inoltre finalizzato con l’omologo ente turco YÖK (Consiglio per l’istruzione superiore) una significativa intesa di principio per aprire la strada ad una serie di collaborazioni tra Università italiane e turche nel settore dello scambio di studenti, di docenti, e didattica. I due enti hanno quindi formalizzato tale collaborazione in un Protocollo sottoscritto il 20 aprile 2007.

A settembre 2008 risultano 34 Accordi di collaborazione interuniversitaria, che coinvolgono un vasto numero di Atenei dei due Paesi.

Il numero degli studenti turchi nelle Università italiane è molto limitato, circa 200 (pari allo 0,65% degli studenti stranieri). Il numero delle mensilità per borse di studio offerte dall’Italia nell’anno accademico 2008/09 e’ stato di 200, con un notevole incremento. Di queste, 9 sono destinate al Diploma in Studi Europei presso il Collegio Europeo di Parma, 60 a corsi di laurea specialistica presso il Politecnico di Milano. Sono state inoltre attribuite 30 mensilità aggiuntive per il programma “Invest Your Talent in Italy”.

Università italo-turca ad Istanbul

Proposto da parte turca, il progetto prevede l’istituzione ad Istanbul di una nuova Università statale di diritto turco che in quanto tale possa ricevere finanziamenti governativi locali. La parte turca ha dichiarato infatti di impegnarsi sotto il profilo finanziario mentre alla parte italiana spetterebbe il compito di assicurare annualmente la presenza di un contingente di docenti in qualità di “visiting professors”. La localizzazione ad Istanbul dovrebbe permettere in prospettiva una sinergia con l’esistente Liceo Italiano, attualmente frequentato da oltre 400 studenti.

L’insegnamento avverrebbe in italiano e turco, con possibilità di prevedere corsi in inglese; i titoli di laurea verrebbero automaticamente riconosciuti dai due Paesi, sulla base dei principi dell’Accordo di Lisbona. A regime, l’ateneo comprenderà 3 Facoltà, relative ai settori di eccellenza dell’Italia (architettura, grafica e design, storia dell’arte, archeologia, restauro, ingegneria industriale ed informatica, facoltà di turismo, scienze e letteratura).

Nel progetto e’ stata coinvolta la Conferenza dei Rettori Italiani (CRUI) che aveva firmato nell’aprile 2007 un accordo con il Consiglio dell’Istruzione Superiore (YÖK) turco per rafforzare la collaborazione interuniversitaria tra i due Paesi.

Ad oggi si sono svolte due sessioni negoziali (ottobre 2007 e gennaio 2008) che hanno consentito di finalizzare dapprima una Dichiarazione congiunta sui principi generali dell’iniziativa, firmata dai due Ministri degli Esteri il 22 novembre scorso, e quindi il testo dell’Accordo intergovernativo, parafato dai due Segretari Generali dei MAE lo scorso febbraio e che dovrebbe essere sottoscritto in occasione del Vertice bilaterale il 14 novembre prossimo.

 

Riconoscimento dei titoli di studio

Il vigente Programma Esecutivo Culturale prevede lo scambio di informazioni sui rispettivi sistemi d’istruzione per concordare, attraverso i lavori di un gruppo tecnico misto, criteri di corretta valutazione comparativa dei rispettivi titoli, da raccomandare alle autorità competenti nei due Paesi per le decisioni di riconoscimento degli stessi. Allo stato attuale, i titoli finali della scuola secondaria turca si conseguono dopo 11 anni di scolarità e consentono l’immatricolazione universitaria in Italia solo se integrati dal superamento degli esami del 1° anno universitario in Turchia.

Diffusione della lingua italiana

L’interesse verso la cultura italiana si riflette nel successo delle attività di promozione culturale e linguistica condotte dagli Istituti Italiani di Cultura di Istanbul ed Ankara, nonché dal nostro Centro Culturale di Smirne, con un numero complessivo di oltre 9000 studenti nel 2007 (+10%) e una tendenza in ulteriore sviluppo. Ad essi si aggiungono gli studenti delle cattedre di italiano attivate nelle Università di Istanbul e di Ankara grazie ai contributi ministeriali e gli studenti del Liceo Italiano di Istanbul, che svolge un ruolo significativo nella formazione della classe dirigente turca.

Ad Ankara e ad Istanbul sono attivi da molti anni due Dipartimenti universitari di Filologia italiana di alto livello scientifico. Presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Smirne è attivo un corso d’italiano giuridico biennale. Tre lettori d’italiano operano rispettivamente preso l’Università di Istanbul, presso l’Università di Ankara e presso l’Università Egea di Smirne.

Nel 2008 sono stati concessi contributi alla Facoltà di Arte e Scienza dell’Università del Bosforo, all’Università Tecnica del Medio Oriente e alla Yedipete Universitesi di Instabul per l’assunzione di lettori locali.

Corsi di lingua italiana si tengono inoltre presso l’Università Bilkent e presso la Facoltà di Architettura dell’Istituto Superiore di Tecnologia.

Scuole italiane

- A Istanbul  sono presenti due complessi scolastici italiani: l’istituto statale “Istituti Medi Italiani”, che ospita un Liceo Scientifico - aperto anche a studenti turchi - e una scuola media, aperta solo a studenti italiani, ed il  Complesso scolastico gestito dalle “Suore d’Ivrea”, presso il quale funzionano  una scuola materna, una elementare e un liceo scientifico. Il quadro delle scuole italiane si completa con l’altro istituto privato “Evoluzione  e Crescita” parimenti funzionante per la scuola elementare e media con riconoscimento legale (gestita dai Padri Salesiani).

A Smirne è attiva la “Scuola Italiana” a livello materno ed elementare con presa d’atto, gestita dalle Suore d’Ivrea.

Il numero complessivo degli alunni delle nostre scuole è di 812 unità. Il MAE invia 30 unità di personale di ruolo. Nell’e.f. 2007 sono stati erogati 214.000 Euro per il funzionamento delle scuole italiane, 14.580 per cattedre d’italiano presso scuole turche.

La legge turca dell’agosto 1997,che ha previsto l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino alla terza media, ha reso necessari incontri ed intese bilaterali (Agreed minutes marzo 1998) al fine di evitare una drastica riduzione della nostra presenza scolastica in Turchia (per legge i cittadini turchi non possono infatti iscriversi a scuole straniere durante il periodo dell’obbligo). Tali intese prevedono, tra l’altro, l’inserimento dell’italiano fra le lingue straniere, e l’autorizzazione al funzionamento di scuole turco-italiane, al posto delle precedenti scuole medie italiane, con l’inserimento nei programmi turchi di un adeguato numero di ore d’insegnamento in lingua italiana.

Più recentemente, la legge turca del 2003 relativa ai permessi di lavoro ha reso più complessa e lunga (6 mesi) la procedura per la concessione dei permessi di lavoro e dei visti d’ingresso ai docenti italiani assegnati a istituzioni scolastiche o Università in Turchia, il che rende difficile la presenza dei docenti italiani fin dall’inizio dell’anno scolastico o accademico. La problematica resta aperta; una delle istanze delle Scuole italiane riguarda la possibilità di iscrivere bambini in possesso di doppia nazionalità turca ed italiana .

Missioni archeologiche

In Turchia la presenza italiana nelle missioni archeologiche è molto diversificata. A partire dalla missione del Politecnico di Torino, presente dal 1957, il nostro Paese può vantare, grazie alle principali Università italiane e non solo, 17 progetti di lavoro attualmente in corso di elaborazione, tra cui si segnalano il progetto per la copertura del Tempio di Augusto e Roma ad Ankara (Università di Trieste), la conservazione delle vestigia archeologiche di Kariye Museum ad Istanbul (Istituto Superiore per le tecniche e la conservazione dei beni culturali e dell’Ambiente A. De Stefano di Trapani), ed il progetto pilota a Tyana per lo scavo e la creazione di un parco archeologico in una città di frontiera fra Cappadocia e Cilicia.

Nel 2008 il MAE ha concesso contributi a 14 missioni archeologiche per un totale di 143.000 euro.

Programma “Invest your Talent in Italy”

Il programma e' nato nel corso del 2005, su iniziativa del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero del Commercio Internazionale (ora Ministero dello Sviluppo Economico), dell’ICE e del Sistema Camerale per rispondere a diverse, concomitanti esigenze provenienti dal mondo produttivo ed accademico ed, in particolare:

- la necessita', da parte del sistema delle imprese, di disporre di professionalita' manageriali per la propria internazionalizzazione nei grandi mercati emergenti;

- il crescente fabbisogno di qualificati ingegneri da parte delle imprese italiane nei settori tecnologici;

- l'opportunita' di effettuare la promozione del sistema universitario italiano nel proprio insieme, come centro di eccellenza e porta di accesso ad una grande economia avanzata;

- l'opportunita' di stimolare le Universita' italiane ad accrescere la propria offerta di corsi di master in lingua inglese e di servizi per studenti stranieri sul modello di alcune piccole Universita' d'eccellenza (Trento, Sant'Anna di Pisa).

L’attrazione dei cervelli costituisce, infatti, la nuova sfida per accrescere la competitività dei sistemi produttivi territoriali rendendoli maggiormente attrattivi agli investitori internazionali. Con una presenza di studenti stranieri nelle università italiane di circa il 2% - i nostri principali partner e  concorrenti internazionali superano il 10% -  l’Italia si trova nella necessità di intensificare gli sforzi sia di promozione all’estero, sia di adattamento delle strutture universitarie alle esigenze degli studenti stranieri.

Nel 2006 e nel 2007 il programma si è svolto in India, dove ha incontrato notevole successo. Dal 2008 esso viene esteso anche alla Turchia.

Il programma si articola su tre pilastri.  Il primo è costituito da un pacchetto formativo di lauree specialistiche biennali e di corsi di master (primo e secondo livello), in lingua inglese, da parte di qualificate Università in tre settori-chiave per le aziende (Ingegneria-Alte Tecnologie, Economia-Management e Architettura-Design) arricchito da stage aziendali. Il secondo è costituito da incentivi economici a favore di studenti stranieri, costituiti da borse di studio messe a disposizione da parte del Sistema Camerale e dell’ICE e dall’esenzione delle tasse scolastiche per gli stessi studenti offerta dalle Università partecipanti. Il terzo è costituito dall’attività di “marketing” del pacchetto di corsi e dei relativi incentivi, realizzata all’insegna non dei singoli Atenei ma del “Sistema Italia” come Paese dell’eccellenza tecnologica, delle imprenditorialità e dello stile di vita. La promozione delle Università si svolge nell’ambito del Road Show promozionale World Grad School Tour, organizzato dalla rivista americana specializzata QS.

Il Road Show promozionale in Turchia si è svolto ad Istanbul il pomeriggio del 12 ottobre 2008. Le Università che vi hanno preso parte sono: Bocconi (Milano); Politecnico di Milano; Universita’ Cattolica del Sacro Cuore (Milano); Istituto Marangoni (Milano); Politecnico di Torino; Universita’ di Macerata; Alma Mater Studiorum (Bologna); Universita’ di Trento; Luiss (Roma); Universita’ Tor Vergata (Roma); Scuola Sant’Anna di Pisa; Universita’ di Genova; Universita’ di Salerno.

Il Road Show è stato l’occasione per l’organizzazione di un Convegno - promosso da Ambasciata e ICE – sulla collaborazione interuniversitaria fra Italia e Turchia nel quale è stato presentato il progetto per la realizzazione di una Università Italo-turca.

Programma “Cultural Bridges”

Gli Istituti di Cultura di Istanbul e Ankara hanno partecipato, con il coordinamento dell’Ambasciata, alla "Call for proposal" della delegazione della Commissione Europea di Ankara nel quadro del programma "Cultural Bridges" valido per il biennio 2008-2010. Al termine del procedimento di selezione, alla proposta italiana sono stati attribuiti finanziamenti per 1.500.000 Euro (su un totale di 6 milioni).

Il programma si propone di incrementare il dialogo tra le società civili mediante iniziative culturali promosse da un paese membro pilota in collaborazione con istituzioni di almeno un altro paese membro e le Istituzioni turche, con la finalità precipua di effetti duraturi rivolti soprattutto al pubblico degli studenti e dei giovani.

Caratteristica del programma è la copertura dell’intero territorio turco e non solo delle principali città maggiormente aduse a un contatto con l’Europa.

L’Italia ha presentato un progetto dal titolo “Builders of Bridges”, comprendente una serie di attività in tutti i diversi settori culturali, concerti, masterclass, seminari, mostre, ecc. Si segnala in particolare una conferenza internazionale a margine della mostra “Venezia e l’Islam” che si svolgerà nel 2010 in un importante museo di Istanbul in concomitanza con “Istanbul Capitale della Cultura 2010” (partner del progetto italiano).

I principali partner dell’Istituto Italiano di Cultura a Ankara (che agisce da “focal point”) e dell’Istituto a Istanbul sono: la Middle East Technical University, la portoghese “Eugénio de Almedia Foundation”, la Shadow Theatre Karagoz in Bursa, le Ambasciate di Ungheria e Romania, la Regione Toscana, la Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo della Turchia, le Associazioni Concertino Praga e Music Conservatory of Thessaloniki.

Le attività avranno luogo a partire dalla metà del 2009 fino a tutto il 2010 su tutto il territorio.

Recupero di Villa Tarabya

In occasione della visita del Ministro Fini ad Istanbul il 14 luglio 2005 l’Ambasciata promuoveva la riunione di “comitato per il recupero di Villa Tarabya”, immobile demaniale già residenza estiva degli Ambasciatori ad Istanbul e da decenni in stato di abbandono. Al Comitato partecipavano anche il Dipartimento Protezione Civile – interessato per la collaborazione nello studio sismologico – Camera di Commercio Italiana di Istanbul e grandi imprese e banche attive in Turchia.

Dopo la fase di avvio, il Gruppo di analisi si e’ ricostituito a Roma, riunendosi a cadenza regolare nel corso del 2006 e svolgendo un sopralluogo nel luglio 2006.

E’ stato previsto di articolare l’intervento in tre fasi successive, ovvero gli interventi per la messa in sicurezza, il cantiere di studio e infine il restauro vero e proprio.

Una Convenzione e’ stata sottoscritta presso il MAE il 30 marzo 2007  per avviare la prima fase, i lavori di emergenza, dal costo di 68 mila Euro, che e’ stato assunto come sponsorizzazione da Finmeccanica e Italcementi (con progetto dell’”Associazione Palatina/Istanbul ed esecuzione ad opera di Prorestauro); il successivo cantiere di studio avrà un costo di circa 200 mila Euro, per il quale aveva offerto la propria disponibilità la Regione Friuli Venezia Giulia unitamente ad altre Regioni. Una volta messo in sicurezza l’immobile ed ultimato il cantiere che dovrà determinare i costi precisi di intervento, potrà quindi prendere avvio la terza fase (ad oggi vi sono state varie offerte di sponsorizzazione, tra le quali Pirelli, Italcementi, Enel). Si è registrato peraltro un forte ritardo nella procedura di autorizzazione delle Autorità turche, cui la domanda è stata presentata lo scorso agosto; l’autorizzazione è stata invece concessa solo ad inizio marzo. La prima fase dei lavori è stata completata lo scorso agosto.

Ospedale italiano di Istanbul

Denominato “Ospedale Giovanni Alberto Agnelli”, detiene, con i suoi quasi 180 anni di attività continuativa, il primato assoluto tra i nostri stabilimenti all’estero. Ristrutturato a seguito di un accordo con la Fondazione Koc, il nosocomio ospita un Centro oncologico ed un Centro di riabilitazione, oltre a svolgere, grazie ad una riserva di posti, funzioni di assistenza gratuita ai  connazionali indigenti.

La gestione dell’Ospedale italiano di Istanbul è stata assegnata nel 2007 a uno dei maggiori gruppi ospedalieri turchi, l’Universal Hospital Group, che gestisce più di 15 cliniche nel Paese. L’Ospedale dovrebbe diventare un centro di oncologia di eccellenza.

Nel negoziato sono stati ottenuti importanti vantaggi per i nostri connazionali: cure totalmente gratuite per gli indigenti in tutta la Turchia; sconti del 45% per i residenti e non residenti su ogni prestazione ospedaliera su tutto il territorio nazionale presso una delle strutture del gruppo; attivazione nella stagione estiva di un call center in lingua italiana per la segnalazione di emergenze. Oltre a cio’, verranno posti in essere programmi di collaborazione con prestigiosi centri di ricerca oncologica italiani.

 


Il sistema universitario italiano

L’autonomia universitaria

Il sistema universitario è stato interessato dalla riforma degli ordinamenti didattici avviata nel 1997, ormai entrata a regime, che è stata volta a conferire maggiore autonomia agli atenei nella definizione dei percorsi formativi, nell’ambito di indicazioni e vincoli fissati con decreti ministeriali. L’obiettivo della riforma è stato quello di avvicinare il sistema italiano a quello europeo delineato dalle dichiarazioni europee della Sorbona (1998)[11] e di Bologna (1999)[12]: queste ultime erano finalizzate alla realizzazione, entro il primo decennio del 2000, di uno spazio europeo dell’istruzione superiore articolato su due cicli di studio e volto a favorire la mobilità internazionale degli studenti, la libera circolazione dei professionisti e il riconoscimento internazionale dei titoli di studio.

Punti cardine della riforma, al fine di consentire la leggibilità e comparabilità dei titoli, sono la nozione di “credito formativo universitario” (che misura la quantità di lavoro di apprendimento richiesta allo studente[13]) ed il diploma supplement, rilasciato dalle università unitamente al titolo di studio per certificare, secondo modelli europei, il curriculum specifico dello studente.

Nel nuovo ordinamento universitario, inoltre, i corsi di studio dello stesso livello, comunque denominati dagli atenei, aventi gli stessi obiettivi formativi qualificanti e le conseguenti attività formative indispensabili – entrambi individuati con decreti ministeriali - sono raggruppati in classi di appartenenza[14]. I corsi istituiti dai diversi atenei hanno in questo modo alcuni elementi comuni a livello nazionale, che garantiscono la corrispondenza tra i titoli appartenenti a una stessa classe, ma variano per denominazioni e contenuti a seconda dell'università che li attiva.

L’articolazione dei corsi universitari

La nuova articolazione dei corsi universitari (cosiddetto 3+2) e dei relativi titoli è la seguente:

a)      laurea triennale, volta ad assicurare un’adeguata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali;

b)     laurea magistrale, conseguibile in ulteriori 2 anni di studio, finalizzata a garantire una formazione di livello avanzato[15];

c)      master universitario, annuale, di I o II livello (conseguibile, cioè, rispettivamente, dopo la laurea triennale e dopo quella magistrale), interamente affidato all’autonomia degli atenei, finalizzato all’offerta di formazione aggiuntiva;

d)     diploma di specializzazione, nei soli casi in cui lo prevedano specifiche disposizioni legislative e in applicazione di direttive dell’Unione europea: si tratta, in particolare, delle aree degli studi sanitari, della formazione degli insegnanti, della preparazione alle professioni legali;

e)     dottorato di ricerca, che gli atenei possono attivare anche in convenzione con soggetti pubblici o privati, e che è finalizzato ad indirizzare i giovani verso la “ricerca di alta qualificazione”, da svolgere anche in ambito non universitario.

L’alta formazione artistico-musicale

A seguito dell’intervento della legge n. 508 del 1999, all’alta formazione artistico-musicale è stato riconosciuto un livello equiparato a quello universitario (benchè da esso distinto) ed è stata attribuita autonomia simile a quella universitaria agli istituti che la impartiscono. Si tratta di Accademie di belle arti; Accademia nazionale di arte drammatica; Istituti superiori per le industrie artistiche; Conservatori di musica; istituti musicali pareggiati (non statali); Accademia nazionale di danza.

I titoli di studio conseguiti presso questi istituti hanno un’articolazione simile a quella descritta al paragrafo 2).

L’Istruzione e formazione tecnica superiore

Sempre nel 1999, con legge n. 144, è stata istituita un’ulteriore alternativa ai percorsi universitari, attraverso il sistema di istruzione e formazione tecnica superiore, al quale si accede, di norma, con il diploma di scuola secondaria superiore ovvero, in alcuni casi, con l’ammissione al quinto anno.

La programmazione dei corsi è affidata alle regioni, sulla base di linee guida definite d’intesa con le parti sociali e con i Ministri della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca, e del Lavoro.

I percorsi hanno una durata variabile dai 2 ai 4 semestri e afferiscono a settori quali l’agricoltura, l’artigianato, l’edilizia, il commercio, il turismo, i servizi assicurativi e finanziari, l’ICT (Information and Communications Technology).

Il sistema è stato recentemente riordinato con linee guida (DPCM 25 gennaio 2008) volte ad assicurare maggiore qualità all'offerta formativa e ad articolarla in maniera rispondente a fabbisogni differenziati.

La valutazione del sistema universitario

IlD.L. n. 262 del 2006[16]ha previsto l’istituzione della Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e di autonomia organizzativa, amministrativa e contabile: la finalità esplicitata è stata quella di razionalizzare il sistema di valutazione della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici, nonché dell’efficienza ed efficacia dei programmi statali di finanziamento e di incentivazione delle attività di ricerca e di innovazione.

All’Agenzia sono affidati:

a)  la valutazione della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca, sulla base di un programma annuale approvato dal Ministro dell’università e della ricerca;

b)  il coordinamento delle attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca[17];

c)  la valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei programmi statali di finanziamento e di incentivazione delle attività di ricerca e di innovazione.

I risultati delle attività di valutazione dell’ANVUR costituiscono criterio di riferimento per l’allocazione dei finanziamenti statali alle università e agli enti di ricerca.

Una volta entrato a regime il nuovo sistemacon l’effettiva operatività dell’ANVUR, è prevista la  soppressione degli attuali organismi preposti alla valutazione, ossia CIVR e CNVSU[18], nonché dei Comitati di valutazione del Consiglio nazionale delle ricerche e dell'Agenzia spaziale italiana.

Ai sensi del regolamento attuativo, adottatocon D.P.R. n. 64 del 2008, l’attività dell’Agenzia – che è articolata in 5 organi[19] - è oggetto di valutazione periodica, da effettuarsi mediante rapporti redatti da comitati di esperti internazionali nominati dal Ministro, anche sulla base di designazioni delle organizzazioni europee di settore.

Il D.P.R. n. 64 del 2008  dispone, altresì, che l’Agenzia propone al Ministero i criteri per la ripartizione per ciascun anno di:

Ø        una quota del Fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO)[20].

Ø        una quota del Fondo ordinario degli enti pubblici di ricerca[21].

L’Agenzia dispone, altresì, di un potere di segnalazione al Ministro per l’adozione di provvedimenti premiali o sanzionatori nei casi di università che hanno registrato rapidi miglioramenti o scostamenti negativi rispetto agli standard prefissati.

Infine, l’ANVUR svolge alcuni compiti complementari alle attività di valutazione, quali: raccolta e analisi dei dati, consulenza, formazione e promozione culturale. Inoltre, ha il compito di redigere un rapporto generale sullo stato del sistema nazionale delle università e della ricerca a cadenza biennale, da inviare al Governo e al Parlamento[22].

Inoltre, per effetto di altre disposizioni, l’Agenzia: a) valuta la qualità dell'attività scientifica e didattica dei ricercatori dopo tre anni dalla data di assunzione[23]; b) collabora con il MUR (ora, MIUR) alla realizzazione di un osservatorio nazionale sugli iscritti ai corsi di laurea[24].

 


 

 



[1]     Il codice della proprietà industriale, entrato in vigore a partire dal 19 marzo 2005, si compone di 246 articoli che sostituiscono, abrogandole, 39 tra leggi e provvedimenti previgenti tra i quali il R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. legge marchi) . L'obiettivo perseguito è stato quello di provvedere al riassetto della intera normativa in materia di proprietà industriale, alla semplificazione normativa ed al coordinamento delle fonti nazionali e comunitarie, nonché all’ampliamento della tutela riservata alla proprietà industriale ed alla ridefinizione delle relative competenze amministrative. Resta invece esclusa dal codice la materia del diritto d’autore, per la cui codificazione è stata conferita al governo una distinta delega dall’art. 10 della legge 6 giugno 2002, n. 137.

[2]     Accordo di Madrid del 1891 (riveduto a Lisbona il 31 ottobre 1958), recepito nell’ordinamento nazionale dalla legge n.676 del 1967.

[3]     Cfr. la sentenza della Corte UE del 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers Sohn et Co. contro Città di Brema; in tale sentenza sono stati chiaramente enucleati i motivi alla base dell’interpretazione dell’art. 28 (allora 30) del Trattato fatta dalla Corte, in tema di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici. In particolare, nel punto 24 della sentenza citata si afferma che “in effetti, in un mercato che deve possedere, nella misura del possibile, le caratteristiche di un mercato unico, il diritto a una denominazione di qualità per un prodotto dovrebbe dipendere – salve restando le norme da applicarsi in materia di denominazione di origine e indicazione di provenienza – unicamente dalle caratteristiche obiettive intrinseche dalle quali risulti la qualità del prodotto, rispetto allo stesso prodotto di qualità inferiore, ma non dalla localizzazione geografica di questa o di quella fase della produzione. Nel punto 25 della medesima sentenza si afferma, inoltre,   che “per quanto auspicabile, la politica di controllo della qualità da parte di uno Stato membro non può essere attuata, in ambito comunitario, se non con mezzi conformi ai principi fondamentali del Trattato; ne consegue che, se è vero che gli Stati membri sono competenti a stabilire norme di qualità dei prodotti messi in commercio sul loro territorio e possono subordinare l’uso di denominazioni di qualità al rispetto di queste norme, essi lo sono a condizione che queste norme e denominazioni, a differenza di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza, non siano legate alla localizzazione nel territorio nazionale del processo di produzione dei prodotti in questione, bensì unicamente al possesso delle caratteristiche obiettive intrinseche che danno ai prodotti la qualità richiesta dalla legge; sempre facendo eccezione per le regole relative alle denominazioni di origine e per le indicazioni di provenienza, è incompatibile con il mercato comune la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri (…).

[4]    Successivamente abrogato dal Regolamento (CE) n. 509/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006.

[5]    Successivamente abrogato dal Regolamento (CE)  510/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006

[6]     Articolo 517 del Codice penale: “Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a ventimila euro”.

[7]     A tale proposito si segnalano, in particolare, nella XV legislatura, le proposte di legge nn. 664, 790, 848, 1402 e 1448.

[8]    A valere sulle risorse suindicate, 1 milione di euro per ciascun anno del triennio 2007-2009 viene destinato al finanziamento di studi e ricerche diretti alla certificazione di qualità e salubrità dei prodotti tessili cardati, realizzati con materie prime secondarie, che valorizzino la tipicità delle lavorazioni e le caratteristiche ecologiche dei manufatti.

[9]    Decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante “Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”, conv. con. modif. dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

[10]   L’Alto Commissario sostituiva il Comitato nazionale anticontraffazione, la cui istituzione (in realtà mai avvenuta) presso il Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico) è stata disposta dai commi 72 e 73 dell’art. 4 della legge n. 350/03, abrogati dall’art. 246 del D.Lgs 10 febbraio 2005, n. 30, recante il nuovo “Codice della proprietà industriale”, in quanto confluiti nell’articolo 145 del Codice medesimo, oggetto a sua volta di abrogazione da parte del comma 5 dell’articolo 1-quater del DL 35/05.

[11]   Si tratta della dichiarazione congiunta su “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa”, sottoscritta dai Ministri per l’università di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia a Parigi il 25 maggio 1998.

[12]   Si tratta della dichiarazione congiunta su “Lo spazio europeo dell’istruzione superiore” ,sottoscritta da 29 Ministri europei dell’Istruzione intervenuti al Convegno di Bologna del 19 giugno 1999. 

[13]   A ciascun credito corrispondono, di norma, 25 ore di lavoro. Il lavoro di un anno corrisponde convenzionalmente a 60 crediti.

[14]   Attualmente, le classi di laurea sono 43, mentre le classi di laurea magistrale sono 94(Dm 16 marzo 2007).

[15]   Occorre segnalare che per le classi di laurea in medicina e chirurgia, veterinaria, farmacia, odontoiatria, in conformità con la disciplina recata da direttive comunitarie è prevista unicamente la laurea magistrale e non anche quella triennale. Anche per l’accesso alle professioni legali è prevista una classe di laurea magistrale quinquennale.

[16]   D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286.

[17]   I Nuclei di valutazione interna delle Università sono stati istituiti secondo le prescrizioni dell’art. 5, c. 2, della l. n. 537 del 1993 con il compito di verificare, mediante analisi comparative dei costi e dei rendimenti, la corretta gestione delle risorse pubbliche, la produttività della ricerca e della didattica, nonché l'imparzialità ed il buon andamento dell'azione amministrativa. Il ruolo e le funzioni di tali organismi di valutazione degli atenei sono stati successivamente rafforzati con le disposizioni della l. n. 370 del 1999 e dei decreti sulla programmazione del sistema universitario relativi agli ultimi trienni.

[18]   Il CNSVU è stato previsto dall'articolo 2 della legge n. 370 del 1999, in sostituzione del precedente Osservatorio per la valutazione del sistema universitario, con il compito, tra l’altro, di fissare i criteri generali per la valutazione delle attività delle università; predisporre una relazione annuale sulla valutazione del sistema universitario; promuovere la sperimentazione e la diffusione di metodologie e pratiche di valutazione; determinare la natura delle informazioni e dei dati che i nuclei di valutazione degli atenei sono tenuti a comunicare; attuare un programma annuale di valutazioni esterne delle università o di singole strutture didattiche. L’art. 4-bis, comma 18, del dl n. 97 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 128 del 2008, proroga al 31/05/09, ovvero, se ultimate prima di tale data, fino al completamento delle operazioni volte a dare piena operatività all'ANVUR, l’operatività del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario.

L’attività del  Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR), istituito dall’art. 5 del d.lgs. n. 204 del 1998, comprende la sperimentazione e diffusione di metodologie e tecniche pratiche di valutazione, la determinazione di criteri generali per le attività di valutazione svolte dagli enti di ricerca e dalle istituzioni scientifiche, la formulazione di criteri per la costituzione di appositi comitati interni di valutazione per gli enti di ricerca e, d’intesa con le pubbliche amministrazioni, la progettazione ed effettuazione di attività di valutazione esterna di enti di ricerca da esse vigilati o finanziati, nonché di progetti o programmi di ricerca da esse coordinati o finanziati. Inoltre, il CIVR effettua la valutazione dell’efficacia degli interventi statali per la ricerca applicata al fine di sostenere l’incremento quantitativo e qualitativo della ricerca industriale e delle sue applicazioni, nonché la ricaduta economico-finanziaria ed occupazionale.

[19]   Presidente, Consiglio Direttivo, Direttore, Comitato consultivo, Collegio dei revisori dei conti.

[20]   Di cui all'art. 5 della legge n. 537 del 1993.

[21]    Di cui all'art. 7 del D.Lgs. n. 204 del 1998.

[22]   La valutazione deve essere effettuata in riferimento sia al sistema nel suo complesso sia alle grandi aree disciplinari che lo compongono, ponendo attenzione a: a) i principali parametri qualitativi e quantitativi; b) il grado di raggiungimento degli obiettivi programmatici fissati dal Governo e dal Parlamento; c) il rapporto tra risorse e risultati.

[23]    Art. 3, co. 1-bis, d.l. 147/2007. La norma si applica ai ricercatori assunti dalle università a seguito di concorsi banditi successivamente alla data del 25 ottobre 2007.

[24]    Art. 3, co. 6, d.lgs. n. 21/2008.