Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||||
Titolo: | Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo - A.C. 1538 - Schede di lettura e riferimenti normativi | ||||
Riferimenti: |
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Serie: | Progetti di legge Numero: 104 | ||||
Data: | 23/01/2009 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | II-Giustizia |
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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SERVIZIO STUDI |
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Progetti di legge |
Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo A.C. 1538 |
Schede di lettura e riferimenti normativi |
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n. 104 |
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23 gennaio 2009 |
Dipartimento giustizia
SIWEB
I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
File: GI0132.doc
INDICE
§ Contenuto della proposta di legge
§ Costituzione della Repubblica Italiana (art. 111)
§ Codice di Procedura Penale (artt. 51 e 629-647)
§ Camera dei Deputati – XIV Legislatura – Testo unificato A.C. 1447-1992 - A
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata elaborata in seno al Consiglio d’Europa, aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950, e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Nello spirito dei suoi autori si trattava di prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di alcuni diritti enunciati dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.
La Convenzione consacra da un lato una serie di diritti e libertà civili e politiche, e stabilisce dall’altro un sistema diretto a garantirne il rispetto da parte degli Stati contraenti. Tre istituzioni si dividono la responsabilità di questo controllo: la Commissione europea dei diritti dell’uomo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ed il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, composto dai Ministri degli affari esteri degli Stati membri o dei loro rappresentanti.
Dopo l’entrata in vigore della Convenzione sono stati adottati 14 Protocolli addizionali, alcuni dei quali hanno aggiunto diritti e libertà a quelli consacrati dalla Convenzione.
Tra le disposizioni della Convenzione particolare importanza rivestono quelle di cui all’articolo 6 dirette a garantire il diritto ad un processo equo: la norma citata, infatti, esordisce affermando il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole da parte di un tribunale indipendente ed imparziale. Tale diritto potrà essere fatto valere, oltre che davanti al giudice nazionale, anche innanzi alla Corte europea di Strasburgo.
Con l’inserimento nella Costituzione dei principi del “giusto processo” di cui all’art. 111 (legge cost. n. 2/1999) il legislatore italiano ha recepito pressoché integralmente, al livello più elevato nella gerarchia delle fonti normative, il contenuto del citato articolo 6 della Convenzione. In tal senso, quindi, le decisioni della Corte europea di Strasburgo, competente a pronunciarsi su tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Carta internazionale, divengono un punto d’osservazione anche al fine di comprendere il concreto atteggiarsi di quei principi nel diritto interno.
Va ricordato che la legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. legge Pinto) ha inteso fornire una risposta adeguata di diritto interno alla violazione del principio del tempo ragionevole del processo, introducendo la previsione espressa del diritto ad un’equa riparazione per chiunque abbia subito un danno patrimoniale e non patrimoniale per effetto della violazione del diritto ad ottenere una decisione giudiziaria nel “termine ragionevole” previsto dall’articolo 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La legge non specifica la durata del termine ragionevole, la cui definizione, quindi, è rimessa al giudice anche e soprattutto con l’ausilio della giurisprudenza che in materia si è formata presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre non si tratta di un risarcimento commisurato all’entità del danno ma di un’equa riparazione, sia pure determinata ai sensi dell’articolo 2056 del codice civile, concernente la valutazione del danno risarcibile nel caso di responsabilità extracontrattuale.
Più in particolare, il paragrafo 3 dell’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazione alle garanzie di difesa:
- garantisce all’accusato il diritto ad essere informato, nel più breve tempo possibile e in una lingua a lui dettagliata, del contenuto dell’accusa elevata a suo carico;
- di disporre del tempo e delle facilitazioni necessari per preparare la sua difesa;
- di difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di sua scelta,
- e in caso di mancanza di mezzi economici, di godere dell’assistenza gratuita di un avvocato d’ufficio quando lo esigono gli interessi della giustizia;
- di interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni dell’accusa;
- di farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usta in udienza.
Il procedimento per l’accesso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in base all’articolo 35 della Convenzione presuppone il previo esaurimento delle vie di ricorso interne………ed entro un periodo di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva. La procedura innanzi alla Corte di Strasburgo presuppone quindi l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza.[1]
In relazione alla forza vincolante delle pronunce della Corte europea, l’art. 46 della Convenzione prevede che i Paesi contraenti “s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti”.
Tuttavia, il sistema processuale italiano non prevede, ad oggi, specifici meccanismi in grado di permettere la revisione del processo penale a seguito di sentenze della CEDU che abbiano acclarato un vulnus al diritto dell’imputato-.condannato ad un processo equo.
Va, tuttavia, segnalato come l’evoluzione giurisprudenziale in ordine alla efficacia vincolante delle sentenze pronunciate dalla Corte di Strasburgo rileva la progressiva affermazione della tesi - anche a seguito delle corrispondente evoluzione normativa - secondo la quale, per gli Stati convenuti, la sentenza di condanna della Corte di Strasburgo pone l’obbligo di adottare sia le misure di carattere generale necessarie volte a prevenire ulteriori casi, sia quelle di natura individuale a carattere ripristinatorio.
La recente sentenza n. 129 del 30 aprile 2008dellaCorte costituzionale - pur dichiarando l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a), c.p.p. “nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l’impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo” - si conclude rivolgendo “al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU”.
Sul fronte normativo si segnalano, in particolare, l’adozione di due dei Protocolli alla Convenzione (n. 11 del 1994 e n. 14 del 2004) ratificati dall’Italia, rispettivamente, con la legge 28 agosto 1997, n. 296 e con legge 15 dicembre 2005, n. 280 che - modificando il citato art. 46 della Convenzione - hanno rafforzato l’obbligo degli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie di cui erano parti, sotto il controllo del Comitato dei Ministri ed attribuendo a quest’ultimo più incisivi poteri di controllo e di impulso; tale organo, sia pur a maggioranza qualificata dei 2/3, può investire la Corte della mancata esecuzione di una sentenza da parte dello Stato convenuto, provocandone una pronuncia prodromica ad eventuali sanzioni successive decise dal Comitato stesso.
Il DPR 28 novembre 2005, n. 289, regolamento integrativo del TU sul casellario giudiziale (DPR 14 novembre 2002, n. 313) prevede l’iscrizione nel casellario giudiziale anche della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente “provvedimenti giudiziali ed amministrativi definiti dalle autorità nazionali e già iscritti” (articolo 1). Anche se si tratta di una innovazione alla quale certamente non può annettersi il significato di rimozione del giudicato, tuttavia, va sottolineato come, nel parere reso in ordine al citato regolamento, il Consiglio di Stato (Sezione consultiva, parere del 24 ottobre 2005, n. 430) ha sostenuto che: «ove la giurisdizione interna sia stata esercitata in violazione dei ... precetti della Convenzione, il soggetto che da tale cattivo esercizio abbia subito lesione ben potrà far valere nell’ordinamento interno gli effetti, se non pur l’efficacia diretta della pronuncia della Corte ...».
Con la legge 9 gennaio 2006, n. 12 è stato, inoltre, attribuito alla Presidenza del Consiglio dei ministri l’onere di promuovere “gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano”, anche a mezzo delle opportune comunicazioni istituzionali al fine di sollecitare le iniziative parlamentari sul punto.
Il Comitato dei Ministri europeo è intervenuto, in maniera sempre più ricorrente, nei confronti degli Stati contraenti. Dal gennaio 2000, con la raccomandazione, R/2000/2, indirizzata a tutti gli Stati contraenti, sollecitava il riesame o la riapertura di casi nazionali oggetto delle censure della Corte europea, attribuendosi il potere di verifica del modo, pur del tutto discrezionale, in cui lo Stato destinatario della pronuncia di condanna aveva ritenuto di adempiere, sia con misure individuali, al fine di fare cessare la violazione, sia attraverso misure generali volte a prevenire situazioni illecite similari future.
Proprio l’Italia è stata nel tempo oggetto di numerose pronunce di condanna da parte della CEDU, essendo il nostro Paese rimasto inadempiente nell’adozione di adeguati strumenti legislativi che permettano di conformarsi alle statuizioni della Corte.
Già dal 1998, con il caso Dorigo(sentenza 9 settembre 1998, Dorigo c./Italia), la Corte europea aveva riconosciuto la violazione del diritto a un giusto processo compiuta dalle autorità italiane ai danni del ricorrente, condannato sulla base delle dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari da tre coimputati che – avvalendosi della facoltà di non rispondere – si erano poi rifiutati di confermarle in dibattimento, negando così il diritto dell’imputato a “esaminare o far esaminare i testimoni a carico”.
In relazione a tale caso, la Commissione europea, con rapporto del 9 settembre 1998 – fatto proprio dal Comitato dei Ministri – aveva dichiarato la non equità del processo in relazione all’articolo 6, paragrafo 3, lettera d), della CEDU,. Peraltro, con tre ulteriori risoluzioni interinali (19 febbraio 2002, 10 febbraio 2004 e 12 dicembre 2005), il Comitato dei Ministri aveva constatato come, fino a quel momento, non fosse stato adottato alcuno strumento tecnico per la riapertura del processo a carico del Dorigo, sicché la violazione accertata permaneva con i suoi effetti pregiudizievoli. Lo «stato di osservazione» si è risolto in una mera interlocuzione, solo in ragione dei lavori legislativi allora in corso volti a garantire il rispetto della detta decisione (si trattava, al tempo, dei disegni di legge di iniziativa parlamentare AC nn. 1447 e 1992, oggetto di esame congiunto nel corso del 2003 e, successivamente, AS n. 2441, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato nel 2004, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo”). Sulla vicenda Dorigo, stante la prolungata inerzia legislativa è, infine, intervenuta in funzione di supplenza la Suprema giurisprudenza di legittimità (Cassazione, I sez., 25 gennaio 2007, n. 2800, per la quale v. ultra).
In seguito - per quanto riguarda la sola Italia e le violazioni dell’art. 6 della Convenzione (diritto ad un processo equo) - vanno ricordate le ulteriori pronunce della Corte europea, a partire dalla fondamentale sentenza 13 luglio 2000 (Scozzari e Giunta c/Italia). In tale decisione, secondo la Corte, la restitutio in integrum conseguente alla accertata violazione dei diritti umani resta un obbligo gravante integralmente sullo Stato membro, stante l'accessorietà dell'equo soddisfacimento, rispetto all'obbligo delle Parti contraenti a conformarsi alle decisioni della Corte. La sentenza ha stabilito, per la prima volta in modo esplicito ed incisivo, che l'equa soddisfazione costituisce solo una delle conseguenze di una sentenza: essa ha infatti chiaramente affermato che lo Stato condannato è chiamato non solo a versare agli interessati le somme eventualmente accordate a titolo di equa soddisfazione ma anche, e innanzitutto, a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali destinate a porre termine alla violazione constatata e a rimuoverne, per quanto possibile, le conseguenze (§ 249 della sentenza). La Corte ha tenuto inoltre a precisare, e trattasi di un'altra rilevante novità, che lo Stato, sempre sotto il controllo del Comitato dei Ministri, è libero di scegliere le modalità con cui adempiere tale obbligo a condizione che queste restino compatibili con le conclusioni della Corte (§ 249 della sentenza).
Nel solco di tale svolta interpretativa della CEDU si ricordano le sentenze 27 febbraio 2001 (Lucà c/Italia); 18 maggio 2004 (Somogyi c/Italia); 10 novembre 2004 e 1º marzo 2006 (Sejdovic c/Italia); 8 febbraio 2007 (Kollcaku c/Italia; Pititto c/Italia); 11 dicembre 2007 (Drassich c/Italia).
In particolare, nella sentenza 18 maggio 2004 (Somogyi c/Italia) la Corte - avendo constatato l’inottemperanza all’articolo 6 della CEDU per non essere stato il ricorrente - giudicato in contumacia - messo in grado di esercitare il suo diritto di partecipare al processo, dopo il rigetto dell’istanza di restituzione in termini – affermava la necessità “... di rinnovare il processo a carico dell’interessato ovvero di riaprire la procedura in tempo utile e nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 6 della Convenzione” (paragrafo 86).
Più recentemente, nella sentenze 8 febbraio 2007 (Kollcaku c/Italia e Pititto c/Italia), la Corte europea ha affermato che quando un soggetto è stato condannato in seguito ad una procedura viziata ex art. 6 CEDU “lo strumento più appropriato di risarcimento è un nuovo processo o la riapertura del precedente”.
Tale linea interpretativa risulta ribadita dalla sentenza 11 dicembre 2007 (Drassich c/Italia) in cui la Corte ha affermato che “quando un ricorrente è stato condannato all’esito di un procedimento in cui sono state violate disposizioni dell’art. 6 della Convenzione, in linea di principio, il mezzo appropriato di ristoro di tali violazioni è costituito dalla riapertura di un nuovo processo o della riapertura del processo già svolto, a domanda dell’interessato (precedenti: Ocalan c/Turchia, sentenza 12 maggio 2005 e Unsal c/Turchia del 20 febbraio 2007)”.
Occorre, inoltre, non trascurare il fatto che alcuni giudici dell’esecuzione – proprio a causa dell’assenza di un rimedio normativo diretto alla rinnovazione del processo – hanno seguito un percorso interpretativo secondo il quale essi non possono disconoscere gli effetti della decisione di Strasburgo. E ciò perché, compito del giudice dell’esecuzione, cui spetta il controllo sulla legalità del titolo esecutivo formatosi nell’ordinamento interno, è quello di valutare la validità del titolo detentivo, anche alla luce di quelle sopravvenienze (come ad esempio la sentenza della Corte europea), che gli potrebbero consentire di escludere la conformità all’articolo 13 della Costituzione di uno stato di detenzione che consegua ad un processo, sia pur in parte, non conforme ai princìpi di equità fissati dall’articolo 6 della CEDU.
Tale linea interpretativa risulta autorevolmente confermata dalla Corte di cassazione (Dorigo, I sez. penale, sentenza 1º dicembre 2006-25 gennaio 2007, n. 2800) che - dopo aver criticato l’Italia per la prolungata inerzia nell’adeguamento alle decisioni definitive della CEDU - ha sostenuto l’illegittimità del titolo detentivo perché sorretto da un processo iniquo. Ha , infatti, osservato la Corte come il diritto al nuovo processo sia stato riconosciuto all’imputato dalla Corte europea in relazione ad una essenziale garanzia dell’imputato (quella di “interrogare o fare interrogare i testimoni a carico”) e che la violazione è stata reputata di determinante influenza sull’esito del giudizio.
È stato pertanto fissato il seguente principio di diritto: “Il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’articolo 670 del codice di procedura penale, l’ineseguibilità del giudicato, quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’articolo 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo”.
Tale via giurisprudenziale era del resto già stata tracciata dalla Suprema Corte con le sentenze nn. 32678 del 2006 (che ha esteso l’applicabilità della restituzione nel termine di cui all’art. 175 c.p.p. anche a fattispecie chiuse in primo grado con sentenze definitive) e 4395 del 2007 (che, pur escludendo nella fattispecie di poter dichiarare l’ineseguibilità della condanna definitiva a seguito di sentenza della Corte EDU, ha ritenuto l’applicabilità dell’art. 175 c.p.p. anche a seguito di giudicato).
La possibilità di dichiarare l’ineseguibilità del giudicato, tuttavia, se verrà in prosieguo condiviso dai giudici dell’esecuzione, è in grado di determinare un’anomala conseguenza: la pendenza di un processo che vanamente attenderà una revisione, nell’inesistenza di una disciplina legislativa che assicuri in concreto tale obbligo, a fronte dell’accoglimento dell’istanza di sospensione dell’esecuzione e quindi dell’inesecuzione del giudicato.
Contenuto della proposta di legge
La proposta di legge in esame è volta ad introdurre – mediante il nuovo art. 630-bis c.p.p. - la possibilità di chiedere la revisione della sentenza e dei decreti penali di condanna, quando una pronuncia definitiva della C.E.D.U. abbia constatato l’iniquità del processo celebrato in Italia per la violazione delle disposizioni di cui all’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione (articolo 1, comma 1).
In particolare, l’AC 1538 in esame riproduce, con alcune modifiche, il contenuto del testo unificato (AC 1447-A) approvato il 28 luglio 2003 (XIV legislatura) dalla Camera dei deputati e trasmesso al Senato (AS. 2441), il cui iter parlamentare non ha avuto seguito.
Nella XV legislatura è stato presentato al Senato un disegno di legge del Governo (AS 1797) “Disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell' uomo” che prevedeva interventi più articolati, per le stesse finalità. Anche il citato disegno di legge non ha, tuttavia, avuto alcun seguito parlamentare.
La revisione (disciplinata dagli artt. 629 e ss., c.p.p.) - a differenza dell’appello e del ricorso per cassazione - è un mezzo straordinario di impugnazione, idoneo,quindi, a travolgere il giudicato. Essa ha ad oggetto sentenze (e decreti penali) di condanna e sentenze di patteggiamento (ex art. 444 c.p.p.)irrevocabili ed è esperibile senza limiti di tempo. Più precisamente, assoggettabili a revisione sono soltanto le pronunce irrevocabili con contenuto di condanna.
Proprio in relazione alla sua capacità di sfociare nella revoca “straordinaria” della sentenza di condanna, la revisione è necessariamente confinata a quattro ipotesi tassative attinenti:
- alla inconciliabilità dei fatti posti a suo fondamento con quelli di altra sentenza irrevocabile;
- alla sopravvenuta revoca della sentenza pregiudiziale, civile o amministrativa;
- alla sopravvenienza di nuove prove di innocenza (che dimostrano che il reato è estinto o che il condannato deve essere assolto ovvero prosciolto con sentenza di non doversi procedere);
- alla falsità in atti o in giudizio o di altro fatto reato su cui si sia basata la condanna.
Legittimati a richiedere la revisione sono il condannato, o altri soggetti in particolare rapporto con lui (prossimo congiunto, tutore, erede) e il procuratore generale presso la corte di appello competente; la competenza a decidere spetta alla corte d’appello individuata secondo i criteri di cui all’articolo 11 c.p.p.
Il procedimento di revisione, comprendente una fase per la valutazione dell’ammissibilità della richiesta, è poi disciplinato dagli articoli 633 e ss. del c.p.p.
Le novelle ai commi 2 dell’art. 633 e 1 dell’art. 634 c.p.p. in materia di forma della richiesta di revisione e di dichiarazione di inammissibilità rivestono semplicemente natura di coordinamento con l’introduzione del nuovo art. 630-bis (art. 1, comma 2, della p.d.l.).
L’art. 633 c.p.p. (Forma della richiesta) prevede al comma 2 che, nei casi previsti dall'articolo 630 comma 1 lettere a) e b), alla richiesta di revisione devono essere unite le copie autentiche delle sentenze o dei decreti penali di condanna ivi indicati.
L’art. 634 c.p.p. (Declaratoria di inammissibilità) stabilisce al comma 1 che, se la richiesta è proposta fuori delle ipotesi previste dagli articoli 629 e 630 o senza l'osservanza delle disposizioni previste dagli articoli 631, 632, 633, 641 ovvero risulta manifestamente infondata, la corte di appello anche di ufficio dichiara con ordinanza l'inammissibilità e può condannare il privato che ha proposto la richiesta al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da euro 258 a euro 2.065.
L’articolo 2 prevede, al comma 1, che la richiesta di revisione ai sensi del nuovo art. 630-bis c.p.p. può essere proposta soltanto entro sei mesi dalla data in cui la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è divenuta irrevocabile.
Si segnala che nel testo unificato approvato dalla Camera nella XIV legislatura (AC 1447-A) non era previsto alcun termine per la richiesta di revisione (analogamente a quanto previsto dal codice per gli altri casi di revisione). Nel medesimo testo era invece contemplata una norma transitoria in base alla quale la richiesta di revisione, nei casi di sentenze della CEDU pronunciate prima della data di entrata in vigore della legge, poteva essere proposta entro centottanta giorni dalla medesima data di entrata in vigore.
Va rilevato che il contenuto del comma 1 non appare coerente con la rubrica dell’articolo (Norme transitorie) posto che lo stesso prevede un termine ordinario per la richiesta di revisione. Al riguardo andrebbe valutata l’opportunità di formulare la disposizione in oggetto come novella al codice di procedura penale.
Il comma 2 dispone che la revisione delle sentenze e decreti penali di condanna coperti da giudicato emessi per uno dei gravi reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. non possa essere richiesta per una violazione di uno dei diritti di difesa (di cui all’illustrato art. 6, par. 3 della CEDU) commessa prima della data di vigenza del provvedimento in esame. Dalla disposizione si desume l’ammissibilità della richiesta di revisione per sentenze e decreti penali di condanna relativi a reati diversi anche per violazioni del richiamato art. 6, par. 3 CEDU, commesse prima della data di entrata in vigore della legge, salvo che non siano decorsi più di sei mesi dalla data in cui è divenuta definitiva la sentenza CEDU (vedi comma 1).
Il riferimento ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p è ai delitti di grave allarme sociale previsti dagli articoli 416, sesto comma (associazione per delinquere finalizzata alla tratta o alla riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù o all’acquisto e vendita di schiavi), 600 (riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e vendita di schiavi), 416-bis (associazione mafiosa) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) del codice penale; ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni d’intimidazione previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose, nonché dei delitti previsti dall'articolo 74 del DPR 309/1990 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) e dall'articolo 291-quater del DPR 43/1973 (TU doganale) (associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri).
Il riferimento al successivo comma 3-quater è ai delitti aventi finalità di terrorismo.
Costituzione della Repubblica Italiana
(art. 111)
Art. 111.
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (1).
Ogni processo si svolge nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata (2).
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo (3).
Il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore (4).
La legge regola i casi la cui formazione della prova non ha luogo in contradditorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita (5).
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati [Cost. 13, 14, 15, 21].
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale [Cost. 13], pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge [Cost. 137]. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei Tribunali militari in tempo di guerra [Cost. 103; disp. att. Cost. VI].
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione [Cost. 131].
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(1) Comma così inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300). L'art. 2 della stessa ha disposto che la legge regoli l'applicazione dei principi in essa contenuti, ai processi penali in corso alla data della sua entrata in vigore. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 25 febbraio 2000, n. 35, ha così stabilito: «Art. 1 - 1. Fino alla data di entrata in vigore della legge che disciplina l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ed in applicazione dell'articolo 2 della stessa legge costituzionale, i principi di cui all'articolo 111 della Costituzione si applicano ai procedimenti in corso salve le regole contenute nei commi successivi. 2. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità. 3. Le dichiarazioni possono essere comunque valutate quando, sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio, risulta che la persona è stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché si sottragga all'esame. 4. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse. 5. Nell'udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputato minorenne, il giudice, se ritiene di poter decidere allo stato degli atti, informa l'imputato della possibilità di consentire che il procedimento a suo carico sia definito in quella fase. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente.».
(2) Comma così inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300). L'art. 2 della stessa ha disposto che la legge regoli l'applicazione dei principi in essa contenuti, ai processi penali in corso alla data della sua entrata in vigore. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 25 febbraio 2000, n. 35, ha così stabilito: «Art. 1 - 1. Fino alla data di entrata in vigore della legge che disciplina l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ed in applicazione dell'articolo 2 della stessa legge costituzionale, i principi di cui all'articolo 111 della Costituzione si applicano ai procedimenti in corso salve le regole contenute nei commi successivi. 2. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità. 3. Le dichiarazioni possono essere comunque valutate quando, sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio, risulta che la persona è stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché si sottragga all'esame. 4. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse. 5. Nell'udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputato minorenne, il giudice, se ritiene di poter decidere allo stato degli atti, informa l'imputato della possibilità di consentire che il procedimento a suo carico sia definito in quella fase. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente.».
(3) Comma così inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300). L'art. 2 della stessa ha disposto che la legge regoli l'applicazione dei principi in essa contenuti, ai processi penali in corso alla data della sua entrata in vigore. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 25 febbraio 2000, n. 35, ha così stabilito: «Art. 1 - 1. Fino alla data di entrata in vigore della legge che disciplina l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ed in applicazione dell'articolo 2 della stessa legge costituzionale, i principi di cui all'articolo 111 della Costituzione si applicano ai procedimenti in corso salve le regole contenute nei commi successivi. 2. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità. 3. Le dichiarazioni possono essere comunque valutate quando, sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio, risulta che la persona è stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché si sottragga all'esame. 4. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse. 5. Nell'udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputato minorenne, il giudice, se ritiene di poter decidere allo stato degli atti, informa l'imputato della possibilità di consentire che il procedimento a suo carico sia definito in quella fase. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente.».
(4) Comma così inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300). L'art. 2 della stessa ha disposto che la legge regoli l'applicazione dei principi in essa contenuti, ai processi penali in corso alla data della sua entrata in vigore. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 25 febbraio 2000, n. 35, ha così stabilito: «Art. 1 - 1. Fino alla data di entrata in vigore della legge che disciplina l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ed in applicazione dell'articolo 2 della stessa legge costituzionale, i principi di cui all'articolo 111 della Costituzione si applicano ai procedimenti in corso salve le regole contenute nei commi successivi. 2. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità. 3. Le dichiarazioni possono essere comunque valutate quando, sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio, risulta che la persona è stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché si sottragga all'esame. 4. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse. 5. Nell'udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputato minorenne, il giudice, se ritiene di poter decidere allo stato degli atti, informa l'imputato della possibilità di consentire che il procedimento a suo carico sia definito in quella fase. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente.».
(5) Comma così inserito dall'art. 1, L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300). L'art. 2 della stessa ha disposto che la legge regoli l'applicazione dei principi in essa contenuti, ai processi penali in corso alla data della sua entrata in vigore. In attuazione di tale disposizione, l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 25 febbraio 2000, n. 35, ha così stabilito: «Art. 1 - 1. Fino alla data di entrata in vigore della legge che disciplina l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ed in applicazione dell'articolo 2 della stessa legge costituzionale, i principi di cui all'articolo 111 della Costituzione si applicano ai procedimenti in corso salve le regole contenute nei commi successivi. 2. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova, assunti o formati con diverse modalità. 3. Le dichiarazioni possono essere comunque valutate quando, sulla base di elementi concreti, verificati in contraddittorio, risulta che la persona è stata sottoposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché si sottragga all'esame. 4. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse. 5. Nell'udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputato minorenne, il giudice, se ritiene di poter decidere allo stato degli atti, informa l'imputato della possibilità di consentire che il procedimento a suo carico sia definito in quella fase. 6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche ai procedimenti che proseguono con le norme del codice di procedura penale anteriormente vigente.».
Codice di Procedura Penale
(artt. 51 e 629-647)
Art. 51.
Uffici del pubblico ministero. Attribuzioni del procuratore della Repubblica distrettuale (1).
1. Le funzioni di pubblico ministero [Cost. 107] sono esercitate (2):
a) nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado, dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale [o presso la pretura] (3);
b) nei giudizi di impugnazione dai magistrati della procura generale presso la corte di appello o presso la corte di cassazione.
2. Nei casi di avocazione [c.p.p. 372, 412], le funzioni previste dal comma 1 lettera a) sono esercitate dai magistrati della procura generale presso la corte di appello.
Nei casi di avocazione previsti dall'articolo 371-bis, sono esercitate dai magistrati della Direzione nazionale antimafia (4).
3. Le funzioni previste dal comma 1 sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente a norma del capo II del titolo I [c.p.p. 4].
3-bis. Quando si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto comma, 600, 601, 602, 416-bis e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e dall'articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43 le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (5).
3-ter. Nei casi previsti dal comma 3-bis e dai commi 3-quater e 3-quinquies, se ne fa richiesta il procuratore distrettuale, il procuratore generale presso la corte di appello può, per giustificati motivi, disporre che le funzioni di pubblico ministero per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente (6).
3-quater. Quando si tratta di procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (7).
3-quinquies. Quando si tratta di procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1, 600-quinquies, 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 640-ter e 640-quinquies del codice penale, le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), del presente articolo sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (8).
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(1) Rubrica così sostituita dall'art. 3, comma primo, D.L. 20 novembre 1991, n. 367, per il coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, convertito, con modificazioni in L. 20 gennaio 1992, n. 8. Questa disposizione entra in vigore il 22 novembre 1991 (art. 16) e si applica solo ai procedimenti iniziati successivamente a questa data (art. 15).
(2) Vedi gli artt. 70 sgg., R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, sull'ordinamento giudiziario. Vedi, anche, l'art. 50, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
(3) Le parole tra parentesi quadre sono state soppresse dall'art. 175, D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (Gazz. Uff. 20 marzo 1998, n. 66, S.O.), con effetto dal 2 giugno 1999, in virtù di quanto disposto dall'art. 247 dello stesso decreto, come modificato dall'art. 1, L. 16 giugno 1998, n. 188.
(4) L'ultimo periodo di questo comma è stato aggiunto con l'art. 3, comma primo del D.L. 20 novembre 1991, n. 367, sul coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, convertito, con modificazioni con la L. 20 gennaio 1992, n. 8. Questa disposizione entra in vigore dalla data di pubblicazione del decreto di entrata in funzione della Direzione Nazionale Antimafia (art. 16) e si applica solo ai procedimenti iniziati successivamente a questa data (art. 15). Vedi l'art. 110, ultimo comma, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, sull'ordinamento giudiziario. Con D.M. 5 gennaio 1993 (Gazz. Uff. 13 febbraio 1993, n. 36) è stata fissata al 15 gennaio 1993 la data di entrata in funzione della Direzione Nazionale Antimafia.
(5) Comma aggiunto con l'art. 3, primo comma, D.L. 20 novembre 1991, n. 367, per il coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata, convertito, con modificazioni con la L. 20 gennaio 1992, n. 8 e poi così modificato dall'art. 5, L. 19 marzo 2001, n. 92 e dall'art. 6, L. 11 agosto 2003, n. 228. Vedi, anche, l'art. 16 della stessa legge e il sesto comma dell'art. 157 del codice penale. Vedi, inoltre, l'art. 9, L. 16 marzo 2006, n. 146.
Il testo del presente comma in vigore prima della modifica disposta dalla citata legge n. 228 del 2003, era il seguente: «3-bis. Quando si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e dall'articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43 le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.».
Il testo in vigore prima della modifica disposta dalla legge n. 92 del 2001 era il seguente: «3-bis. Quando si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.».
(6) Comma aggiunto dall'art. 3, primo comma, D.L. 20 novembre 1991, n. 367, convertito in legge, con modificazioni, con L. 20 gennaio 1992, n. 8, e poi così modificato dal numero 1) della lettera 0a) del comma 1 dell'art. 2, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.
Il testo del presente comma in vigore prima della modifica disposta dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente:
«Nei casi previsti dal comma 3-bis, se ne fa richiesta il procuratore distrettuale, il procuratore generale presso la corte di appello può, per giustificati motivi, disporre che le funzioni di pubblico ministero per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente.».
(7) Le disposizioni del presente comma - aggiunto dall'art. 10-bis, D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 15 dicembre 2001, n. 438 e così modificato dal numero 2) della lettera 0a) del comma 1 dell'art. 2, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125 - si applicano solo ai procedimenti iniziati successivamente alla sua entrata in vigore (19 dicembre 2001, n.d.r.). Vedi, anche, il sesto comma dell'art. 157 del codice penale.
Il testo del presente comma in vigore prima della modifica disposta dal citato D.L. n. 92 del 2008 era il seguente:
«Quando si tratta di procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. Si applicano le disposizioni del comma 3-ter.».
(8) Comma aggiunto dal comma 1 dell'art. 11, L. 18 marzo 2008, n. 48, che ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica. Sui limiti dell'applicabilità delle disposizioni del presente comma vedi il comma 1-bis del citato articolo 11, aggiunto dall'art. 12-bis, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.
Art. 629.
Condanne soggette a revisione.
1. E' ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell'articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta [c.p. 171, 172, 173, 174] (1).
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(1) Comma così modificato dall'art. 3, L. 12 giugno 2003, n. 134. Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «E' ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta». La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 630.
Casi di revisione.
1. La revisione può essere richiesta:
a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale (1);
b) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall'articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall'articolo 479;
c) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'articolo 631;
d) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato (2).
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(1) La Corte costituzionale, con sentenza 16-30 aprile 2008, n. 129 (Gazz. Uff. 7 maggio 2008, n. 20 - Prima serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità della presente lettera, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 Cost.
(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 631.
Limiti della revisione.
1. Gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono, a pena d'inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli articoli 529, 530 o 531 (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 632.
Soggetti legittimati alla richiesta.
1. Possono chiedere la revisione:
a) il condannato o un suo prossimo congiunto ovvero la persona che ha sul condannato l'autorità tutoria [c.p.c. 357, 424] e, se il condannato è morto, l'erede o un prossimo congiunto;
b) il procuratore generale presso la corte di appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna. Le persone indicate nella lettera a) possono unire la propria richiesta a quella del procuratore generale (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 633.
Forma della richiesta.
1. La richiesta di revisione è proposta personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. Essa deve contenere l'indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano e deve essere presentata, unitamente a eventuali atti e documenti, nella cancelleria della Corte di appello individuata secondo i criteri di cui all'articolo 11 (1).
2. Nei casi previsti dall'articolo 630 comma 1 lettere a) e b), alla richiesta devono essere unite le copie autentiche delle sentenze o dei decreti penali di condanna ivi indicati.
3. Nel caso previsto dall'articolo 630 comma 1 lettera d), alla richiesta deve essere unita copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna per il reato ivi indicato (2).
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(1) Comma così sostituito dall'art. 1, L. 23 novembre 1998, n. 405, (Gazz. Uff. 25 novembre 1998, n. 276). L'art. 2 della stessa legge ha così disposto: «Art. 2. - 1. La competenza, individuata ai sensi del comma 1 dell'articolo 633 del codice di procedura penale, come sostituito dall'articolo 1 della presente legge, vale anche per i procedimenti di revisione in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, salvo che sia stato aperto il dibattimento ai sensi degli articoli 636 e 492 del codice di procedura penale o sia stata pronunciata ordinanza di inammissibilità a norma dell'articolo 634 dello stesso codice. 2. Lo spostamento della competenza di cui al comma 1 opera tuttavia anche per i procedimenti di revisione per i quali la Corte di cassazione ha annullato l'ordinanza di inammissibilità rinviando ad altra sezione della Corte di appello che ha pronunciato l'ordinanza annullata». Il testo del primo comma precedentemente in vigore prevedeva che la richiesta di revisione dovesse essere presentata nella cancelleria della Corte di appello nel cui distretto si trovava il giudice che aveva pronunciato la sentenza di primo grado o il decreto penale di condanna.
(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 634.
Declaratoria d'inammissibilità.
1. Quando la richiesta è proposta fuori delle ipotesi previste dagli articoli 629 e 630 o senza l'osservanza delle disposizioni previste dagli articoli 631, 632, 633, 641 ovvero risulta manifestamente infondata, la corte di appello anche di ufficio dichiara con ordinanza l'inammissibilità e può condannare il privato che ha proposto la richiesta al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da euro 258 a euro 2.065.
2. L'ordinanza è notificata al condannato e a colui che ha proposto la richiesta, i quali possono ricorrere per cassazione. In caso di accoglimento del ricorso, la Corte di cassazione rinvia il giudizio di revisione ad altra corte di appello individuata secondo i criteri di cui all'articolo 11 (1) (2).
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(1) Periodo così sostituito dall'art. 1, L. 23 novembre 1998, n. 405 (Gazz. Uff. 25 novembre 1998, n. 276.
Il testo precedentemente in vigore così disponeva: «In caso di accoglimento del ricorso, la corte di cassazione rinvia il giudizio di revisione ad altra sezione della corte di appello che ha pronunciato l'ordinanza prevista dal comma 1 o alla corte di appello più vicina».
(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 635.
Sospensione dell'esecuzione.
1. La corte di appello può in qualunque momento disporre, con ordinanza, la sospensione dell'esecuzione [c.p.p. 656] della pena o della misura di sicurezza, applicando, se del caso, una delle misure coercitive previste dagli articoli 281, 282, 283 e 284. In ogni caso di inosservanza della misura, la corte di appello revoca l'ordinanza e dispone che riprenda l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
2. Contro l'ordinanza che decide sulla sospensione dell'esecuzione, sull'applicazione delle misure coercitive e sulla revoca, possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero e il condannato (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 636.
Giudizio di revisione.
1. Il presidente della corte di appello emette il decreto di citazione a norma dell'articolo 601.
2. Si osservano le disposizioni del titolo I e del titolo II del libro VII in quanto siano applicabili e nei limiti delle ragioni indicate nella richiesta di revisione (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 637.
Sentenza.
1. La sentenza è deliberata secondo le disposizioni degli articoli 525, 526, 527 e 528.
2. In caso di accoglimento della richiesta di revisione, il giudice revoca la sentenza di condanna o il decreto penale di condanna e pronuncia il proscioglimento indicandone la causa nel dispositivo.
3. Il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.
4. In caso di rigetto della richiesta, il giudice condanna la parte privata che l'ha proposta al pagamento delle spese processuali [c.p.p. 691] e, se è stata disposta la sospensione [c.p.p. 635], dispone che riprenda l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 638.
Revisione a favore del condannato defunto.
1. In caso di morte del condannato dopo la presentazione della richiesta di revisione, il presidente della corte di appello nomina un curatore, il quale esercita i diritti che nel processo di revisione sarebbero spettati al condannato (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 639.
Provvedimenti in accoglimento della richiesta.
1. La corte di appello, quando pronuncia sentenza di proscioglimento a seguito di accoglimento della richiesta di revisione, anche nel caso previsto dall'articolo 638, ordina la restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie [c.p.p. 660], per le misure di sicurezza patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere [c.p.p. 691, 692] e per il risarcimento dei danni a favore della parte civile citata per il giudizio di revisione. Ordina altresì la restituzione delle cose che sono state confiscate, a eccezione di quelle previste nell'articolo 240 comma 2 n. 2 del codice penale (1).
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(1) Vedi l'art. 8, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, in L. 12 luglio 1991, n. 203, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza del buon andamento dell'attività amministrativa. La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 640.
Impugnabilità della sentenza.
1. La sentenza pronunciata nel giudizio di revisione è soggetta al ricorso per cassazione (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 641.
Effetti dell'inammissibilità o del rigetto.
1. L'ordinanza che dichiara inammissibile la richiesta o la sentenza che la rigetta non pregiudica il diritto di presentare una nuova richiesta fondata su elementi diversi (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 642.
Pubblicazione della sentenza di accoglimento della richiesta.
1. La sentenza di accoglimento, a richiesta dell'interessato, è affissa per estratto, a cura della cancelleria, nel comune in cui la sentenza di condanna era stata pronunciata e in quello dell'ultima residenza [c.c. 43] del condannato. L'ufficiale giudiziario deposita in cancelleria il certificato delle eseguite affissioni.
2. Su richiesta dell'interessato, il presidente della corte di appello dispone con ordinanza che l'estratto della sentenza sia pubblicato a cura della cancelleria in un giornale, indicato nella richiesta; le spese della pubblicazione sono a carico della cassa delle ammende (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 643.
Riparazione dell'errore giudiziario.
1. Chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.
2. La riparazione si attua mediante pagamento di una somma di denaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell'avente diritto e della natura del danno, mediante la costituzione di una rendita vitalizia. L'avente diritto, su sua domanda, può essere accolto in un istituto, a spese dello Stato.
3. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso, a norma dell'articolo 657 comma 2 (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 644.
Riparazione in caso di morte.
1. Se il condannato muore [c.p.p. 638], anche prima del procedimento di revisione, il diritto alla riparazione spetta al coniuge, ai discendenti e ascendenti, ai fratelli e sorelle, agli affini entro il primo grado e alle persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta.
2. A tali persone, tuttavia, non può essere assegnata a titolo di riparazione una somma maggiore di quella che sarebbe stata liquidata al prosciolto. La somma è ripartita equitativamente in ragione delle conseguenze derivate dall'errore a ciascuna persona.
3. Il diritto alla riparazione non spetta alle persone che si trovino nella situazione di indegnità prevista dall'articolo 463 del codice civile (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 645.
Domanda di riparazione.
1. La domanda di riparazione è proposta, a pena di inammissibilità, entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione [c.p.p. 637, 648] ed è presentata per iscritto, unitamente ai documenti ritenuti utili, personalmente o per mezzo di procuratore speciale, nella cancelleria della corte di appello che ha pronunciato la sentenza.
2. Le persone indicate nell'articolo 644 possono presentare la domanda nello stesso termine, anche per mezzo del curatore indicato nell'articolo 638 ovvero giovarsi della domanda già proposta da altri. Se la domanda è presentata soltanto da alcuna delle predette persone, questa deve fornire l'indicazione degli altri aventi diritto (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 646.
Procedimento e decisione.
1. Sulla domanda di riparazione la corte di appello decide in camera di consiglio osservando le forme previste dall'articolo 127.
2. La domanda, con il provvedimento che fissa l'udienza, è comunicata al pubblico ministero ed è notificata, a cura della cancelleria, al ministro del tesoro presso l'avvocatura dello Stato che ha sede nel distretto della corte e a tutti gli interessati, compresi gli aventi diritto che non hanno proposto la domanda.
3. L'ordinanza che decide sulla domanda di riparazione è comunicata al pubblico ministero e notificata a tutti gli interessati, i quali possono ricorrere per cassazione.
4. Gli interessati che, dopo aver ricevuto la notificazione prevista dal comma 2, non formulano le proprie richieste nei termini e nelle forme previsti dall'articolo 127 comma 2, decadono dal diritto di presentare la domanda di riparazione successivamente alla chiusura del procedimento stesso.
5. Il giudice, qualora ne ricorrano le condizioni, assegna all'interessato una provvisionale a titolo di alimenti (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
Art. 647.
Risarcimento del danno e riparazione.
1. Nel caso previsto dall'articolo 630 comma 1 lettera d), lo Stato, se ha corrisposto la riparazione, si surroga [c.c. 1203], fino alla concorrenza della somma pagata, nel diritto al risarcimento dei danni contro il responsabile (1).
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(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 13-28 luglio 2000, n. 395 (Gazz. Uff. 2 agosto 2000, n. 32 - Prima serie speciale), ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
L. 4 agosto 1955, n. 848.
Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del
Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952
(art. 6 della Dichiarazione)
(1) (2) (3)
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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 24 settembre 1955, n. 221.
(2) Il testo della Convenzione è stato modificato conformemente alle disposizioni del Protocollo n. 3, ratificato con L. 13 luglio 1966, n. 653, del Protocollo n. 5, ratificato con L. 19 maggio 1967, n. 448, del Protocollo n. 8, ratificato con L. 27 ottobre 1988, n. 496, del Protocollo n. 9, ratificato con L. 14 luglio 1993, n. 257, del Protocollo n. 10, ratificato con L. 2 gennaio 1995, n. 17 e del Protocollo n. 11, ratificato con L. 28 agosto 1997, n. 296.
(3) Vedi, anche, il Protocollo n. 2, ratificato con L. 13 luglio 1966, n. 653, il Protocollo n. 4 reso esecutivo con D.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, il Protocollo n. 6, ratificato con L. 2 gennaio 1989, n. 8, il Protocollo n. 7, ratificato con L. 9 aprile 1990, n. 98, il Protocollo n. 13, ratificato con L. 15 ottobre 2008, n. 179 e il Protocollo n. 14 ratificato con L. 15 dicembre 2005, n. 280.
Art. 1.
Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ed il Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952.
Art. 2.
Piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione e Protocollo suddetti, a decorrere dalla data della loro entrata in vigore.
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (4)
Traduzione non ufficiale
I Governi firmatari, Membri del Consiglio d'Europa;
Considerata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, proclamata dall'Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 (5);
Considerato che questa Dichiarazione tende a garantire il riconoscimento e l'applicazione universali ed effettivi dei diritti che vi sono enunciati;
Considerato che il fine del Consiglio d'Europa è quello di realizzare un'unione più stretta tra i suoi Membri, e che uno dei mezzi per conseguire tale fine è la salvaguardia e lo sviluppo dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali;
Riaffermato il loro profondo attaccamento a queste Libertà fondamentali che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell'Uomo a cui essi si appellano;
Risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale.
hanno convenuto quanto segue:
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(4) Il testo della Convenzione è stato modificato conformemente alle disposizioni del Protocollo n. 3, ratificato con L. 13 luglio 1966, n. 653, del Protocollo n. 5, ratificato con L. 19 maggio 1967, n. 448, del Protocollo n. 8, ratificato con L. 27 ottobre 1988, n. 496, del Protocollo n. 9, ratificato con L. 14 luglio 1993, n. 257, del Protocollo n. 10, ratificato con L. 2 gennaio 1995, n. 17 e del Protocollo n. 11, ratificato con L. 28 agosto 1997, n. 296.
Vedi, anche, il Protocollo n. 2, ratificato con L. 13 luglio 1966, n. 653, il Protocollo n. 4 reso esecutivo con D.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, il Protocollo n. 6, ratificato con L. 2 gennaio 1989, n. 8, il Protocollo n. 7, ratificato con L. 9 aprile 1990, n. 98.
(5) Approvata e proclamata, da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in data 10 dicembre 1948. Il testo ufficiale di tale Dichiarazione fu compilato nelle cinque lingue ufficiali dell'O.N.U., cioè francese, inglese, russa, spagnola e cinese.
Il testo che qui si riporta in lingua italiana è quello risultante dalla traduzione fatta fare dal segretario generale dell'O.N.U. in ottemperanza delle istruzioni a lui date dall'Assemblea che aveva disposto la diffusione della «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo» nel maggior numero possibile di lingue.
Tale Dichiarazione non essendo stata approvata sotto forma di trattato internazionale, non costituisce strumento giuridico in senso stretto, ma, in considerazione dell'argomento trattato, contiene principi generali di diritto che per il loro carattere morale, sono riconosciuti e perciò vincolanti per tutte le nazioni civili. Si ritiene pertanto opportuno riportare tale Dichiarazione anche in considerazione del fatto che essa è posta a base della stipulazione di vari accordi internazionali, come risulta dalle premesse ad essi poste.
«DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'UOMO
Preambolo
Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà della giustizia e della pace nel mondo;
considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell'uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità, e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo;
considerato che è indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione;
considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;
considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;
considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni:
L'ASSEMBLEA GENERALE
proclama
La presente dichiarazione universale dei diritti dell'uomo come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società avendo costantemente presente questa Dichiarazione si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
Art. 1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Art. 2. 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di ordine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita e di altra condizione.
2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Art. 3. Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Art. 4. Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
Art. 5. Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.
Art. 6. Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.
Art. 7. Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.
Art. 8. Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti della costituzione o dalla legge.
Art. 9. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
Art. 10. Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
Art. 11. 1). Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.
2). Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.
Art. 12. Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.
Art. 13 1). Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
2). Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Art. 14. 1). Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
2). Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Art. 15. 1). Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
2). Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
Art. 16. 1). Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.
2). Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
3). La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.
Art. 17. 1). Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
2). Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.
Art. 18. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.
Art. 19. Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Art. 20. 1). Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
2). Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.
Art. 21. 1). Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
2). Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
3). La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.
Art. 22. Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
Art. 23. 1). Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
2). Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3). Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
4). Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
Art. 24. Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.
Art. 25. 1). Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2). La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
Art. 26. 1). Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
2). L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
3). I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.
Art. 27. 1). Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, a godere delle arti e a partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
2). Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica letteraria e artistica di cui egli sia autore.
Art. 28. Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.
Art. 29. 1). Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
2). Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.
3). Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
Art. 30. Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati».
(omissis)
Art. 6.
Diritto ad un processo equo (11).
1. Ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti in causa, nella misura ritenuta strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia.
2. Ogni persona accusata di un reato si presume innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
3. Ogni accusato ha diritto soprattutto a:
a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico;
b) disporre del tempo e dei mezzi necessari per preparare la sua difesa;
c) difendersi personalmente o con l'assistenza di un difensore di propria scelta e, se non ha i mezzi per pagare un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;
d) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico;
e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata nell'udienza.
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(11) Rubrica aggiunta dal Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994 e ratificato con L. 28 agosto 1997, n. 296.
(omissis)
L. 16 febbraio 1987 n. 81.
Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo
codice di procedura penale
(art. 2)
(1)
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Pubblicata nella Gazz. Uff. 16 marzo 1987, n. 62, S.O.
(omissis)
Art. 2.
1. Il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. Esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, secondo i principi ed i criteri che seguono:
(omissis)
L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2.
Inserimento dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della
Costituzione.
(1)
--------------------------------------------------------------------------------
(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 23 dicembre 1999, n. 300.
Art. 1.
1. Al primo comma dell'articolo 111 della Costituzione, sono premessi i seguenti:
"La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel piu' breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facolta', davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilita' di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita".
Art. 2.
1. La legge regola l'applicazione dei princìpi contenuti nella presente legge costituzionale ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore (3).
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(3) In attuazione di quanto disposto dal presente articolo vedi l'art. 1, D.L. 7 gennaio 2000, n. 2.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 630 comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 22 marzo 2006 dalla Corte di appello di Bologna nel procedimento penale a carico di D. P., iscritta al n. 337 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale «nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l’impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».
Il rimettente premette di essere investito della delibazione di un’istanza di revisione, proposta dal difensore di persona sottoposta a regime di detenzione domiciliare in espiazione di una pena di tredici anni e sei mesi di reclusione, inflitta dalla Corte d’assise di Udine. Tale persona – divenuta irrevocabile la condanna – si era rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con sentenza del 9 settembre 1998, aveva stabilito la non equità del giudizio attraverso cui si era irrogata la condanna, per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; e ciò in quanto la condanna in questione era scaturita dalle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, giacchè si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.
Dopo la pronuncia della Corte europea, il Comitato dei ministri aveva più volte sollecitato – senza effetto – lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie per garantire l’adempimento della pronuncia del giudice di Strasburgo. Anche l’incidente di esecuzione – sollevato dal Procuratore della Repubblica per verificare la “legittimità” della detenzione, con contestuale richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena – era stato rigettato dalla competente Corte d’assise di Udine. Quest’ultima aveva rilevato che, in sede di incidente di esecuzione, l’indagine del giudice deve ritenersi limitata alla verifica della eseguibilità del titolo; mentre resta preclusa ogni valutazione sulla legittimità del giudizio di cognizione e sull’eventuale violazione delle regole interne ad esso.
Il giudice a quo evidenzia, inoltre, che la difesa del condannato ha sostenuto l’ammissibilità del giudizio di revisione ai sensi dell’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.: sia per l’esistenza del contrasto tra giudicati; sia per la circostanza che la decisione della Corte europea – ritenuta prevalente sul giudicato “interno”, in quanto proveniente da organo sopranazionale – potrebbe essere equiparata alla sentenza di un “giudice speciale”. Sempre secondo la prospettazione della difesa, se così non dovesse ritenersi, ne discenderebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede «come titolo per ottenere la revisione» la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il rimettente afferma, innanzitutto, di non condividere l’interpretazione secundum Constitutionem prospettata dalla difesa. Sarebbe impossibile ricondurre la Corte europea alla nozione costituzionale di “giudice speciale”, perché tale qualifica è riferibile esclusivamente ai tribunali militari, per «i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate»; ed alla Corte costituzionale, «in relazione alle accuse mosse al Presidente della Repubblica». D’altra parte – prosegue il giudice a quo – non è possibile neppure ritenere la sentenza della Corte europea quale “nuova prova” ai sensi dell’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.; essa «nulla aggiunge di diverso rispetto al fatto storico» – già apprezzato nel giudizio considerato “non equo” – mirando alla semplice “ripetizione”, ove possibile, delle prove ritenute invalide.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte rimettente ritiene rilevante il dubbio di costituzionalità prospettato dalla difesa, in quanto l’istanza di revisione dovrebbe essere dichiarata inammissibile ai sensi dell’art. 634 cod. proc. pen., perché proposta fuori dalle ipotesi previste dall’art. 630 del medesimo codice di rito.
In ordine alla non manifesta infondatezza, la Corte − ritenuto inconferente il parametro dell’art. 111 Cost., rispetto alla prospettazione difensiva dell’eccezione − afferma, per contro, la sussistenza di dubbi di compatibilità innanzitutto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza. L’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. – prevedendo il contrasto tra i fatti stabiliti dalla sentenza o dal decreto penale di condanna e quelli stabiliti nella sentenza penale di altro giudice, ai fini dell’ammissibilità della revisione – sembra innestare una «ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili», escludendo dai casi di revisione il riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea.
Secondo il giudice a quo, per “fatto” – ai fini della applicazione della norma censurata – non dovrebbe intendersi solamente «il fatto storico all’origine della vicenda processuale, ma anche l’accertamento dell’invalidità di una prova del precedente giudizio», poiché anche questo è un fatto da cui, comunque, dipende l’applicazione di norme processuali che determina il venir meno di prove legittimamente assunte. Né la situazione in esame discende da una modifica della disciplina processuale intervenuta successivamente al giudizio, in quanto la decisione della Corte europea scaturisce da un raffronto tra la normativa convenzionale previgente (art. 6 della Convenzione) e quella interna.
Un’ulteriore censura è prospettata in riferimento all’art. 10 della Costituzione, secondo il quale «l’ordinamento giuridico si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». A parere del giudice a quo, è vero che tale disposizione si riferisce alle norme del diritto internazionale consuetudinario; ma è altrettanto indubbio che alcune norme della Convenzione di Roma del 1950 − segnatamente, quelle che sanciscono garanzie fondamentali, quali il diritto alla vita (art. 2), il divieto di tortura (art. 3), l’inammissibilità della condizione di schiavitù (art. 4), la presunzione d’innocenza (art. 6) − sono «effettivamente riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella Comunità internazionale».
Secondo il giudice a quo, la presunzione di innocenza si sostanzia anche nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell’equo processo (nella specie, il diritto dell’accusato di interrogare e fare interrogare chi lo accusa, ai sensi dell’art. 6, comma 3, lettera d), della Convenzione europea). E, poiché tale presunzione – in quanto norma consuetudinaria di diritto internazionale – si adatta automaticamente all’ordinamento interno, ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost., l’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., si risolve conseguentemente in una violazione di quest’ultimo precetto costituzionale, nella parte in cui esclude la revisione del processo allorquando una sentenza della Corte europea abbia accertato un «vizio fondamentale nella procedura precedente».
Infine, la disciplina censurata contrasterebbe con il disposto dell’art. 27 della Costituzione – secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato – giacché quel principio «ha un senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a seguito di un processo giusto». Lo Stato non potrebbe esigere alcun dovere di rieducazione e riadattamento sociale nei confronti di un soggetto condannato secondo un processo privo di equità.
La stessa funzione retributiva della pena sembra posta in dubbio, nel caso in cui essa venga irrogata in esito ad un processo «le cui regole non garantiscono l’innocente». Se nell’ordinamento interno non è consentita la revisione del processo al condannato a seguito di una procedura giudicata non equa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo − le cui decisioni il nostro Paese si è impegnato a rispettare − ne deriverebbe, dunque, anche la violazione del precetto costituzionale che presidia la corretta funzione della pena.
Il rimettente evidenzia, infine, che, in ragione della non manifesta infondatezza della questione, ha provveduto alla sospensione dell’esecuzione della pena inflitta al condannato, ai sensi dell’art. 635 cod. proc. pen.
2. – Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per la manifesta infondatezza della questione.
La difesa erariale rileva, preliminarmente, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il rimettente. Ad avviso di essa, la nozione di “fatto”, richiamata dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non potrebbe estendersi fino a comprendere anche l’accertamento della invalidità di una prova di un precedente giudizio. Tale nozione, infatti, non risulterebbe conforme alla costante elaborazione giurisprudenziale del concetto, ricondotto da sempre al mero fatto storico emergente dal procedimento. Ciò determinerebbe l’irrilevanza della questione di costituzionalità prospettata, poichè dalla sentenza della Corte europea non emergerebbero fatti inconciliabili con quelli stabiliti a fondamento della sentenza di condanna.
L’Avvocatura generale deduce anche l’infondatezza della questione, innanzitutto sotto il profilo dell’impossibilità del contrasto tra le sentenze, posto che quella della Corte europea comporta una valutazione relativa soltanto alla procedura seguita per pervenire alla condanna, senza accertamento dei fatti di reato.
Inoltre, si assume l’infondatezza della censura relativa alla pretesa violazione dell’art. 10 Cost., attesa l’impossibilità di elevare il principio della revisione del processo – in caso di violazione di regole processuali – al rango di consuetudine internazionalmente riconosciuta. Tale rango può riconoscersi solo alla garanzia della presunzione di innocenza, che tuttavia - contrariamente a quanto opinato dal rimettente - non coinciderebbe con il diritto alla revisione, né lo implicherebbe.
Non sussisterebbe, infine, neppure la ipotizzata violazione dell’art. 27 della Costituzione, atteso che le esigenze di rieducazione in esso sancite «sono da riferire alle modalità esecutive della pena o, al più, alle modalità di computo della stessa e non al procedimento utilizzato per giungere alla sua applicazione».
Considerato in diritto
1. – La Corte di appello di Bologna solleva, in riferimento agli artt. 3, 10, e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude dai casi di revisione l’impossibilità di conciliare i fatti stabiliti a fondamento della sentenza (o del decreto penale di condanna) con la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Chiamata a delibare una istanza di revisione, proposta da un condannato con sentenza divenuta irrevocabile, la Corte rimettente ha sottolineato che il suo difensore – a sostegno della interpretazione proposta per la norma citata, o in subordine della eccezione di illegittimità costituzionale – aveva richiamato la sentenza del 9 settembre 1998 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima – su ricorso del condannato – aveva stabilito la non equità del giudizio cui il medesimo era stato sottoposto, per violazione dell’art. 6 della Convenzione; e ciò in quanto i giudici italiani avevano pronunciato la condanna «in base alle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio», essendosi costoro avvalsi, in dibattimento, della facoltà di non rispondere. A seguito della decisione della Corte europea, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva più volte sollecitato lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie a garantire l’osservanza della pronuncia di Strasburgo; ma tali sollecitazioni erano rimaste prive di effetto.
Il rimettente respinge la tesi avanzata dalla difesa del condannato, circa la possibilità di ricondurre alla revisione il contrasto di giudicati tra la decisione della Corte europea – ritenuta equiparabile alla sentenza di un “giudice speciale” – e quella del giudice nazionale; e ciò perché la Corte di Strasburgo non può essere qualificata come un giudice speciale.
D’altra parte, ad avviso della Corte rimettente, non è accettabile neppure la tesi avanzata dal procuratore generale requirente, di attrarre nel concetto di “prova nuova” la sentenza della Corte europea. Infatti – agli effetti dell’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., – tale decisione, «né da sola, né unita alle prove già valutate, [...] dimostrerebbe che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p. Quella sentenza, infatti, nulla aggiunge di diverso rispetto al fatto storico apprezzato nel giudizio considerato “non equo”, e ciò a cui essa mira è la ripetizione (ove possibile) delle prove ritenute invalide».
2. – Alla stregua di tali premesse, la Corte rimettente ritiene rilevante la questione. Inoltre, nel merito, essa ravvisa, in primo luogo, una violazione dell’art. 3 Cost., in quanto l’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. – nell’ammettere la revisione per l’ipotesi di contrasto tra i fatti stabiliti nella pronuncia di condanna del giudice penale e quelli posti a fondamento di altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale – non prevede anche l’ipotesi in cui il contrasto si verifichi rispetto alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea. Secondo il giudice a quo, «per “fatto” non deve semplicemente intendersi il fatto storico all’origine della vicenda processuale, ma anche l’accertamento della invalidità di una prova del precedente giudizio, essendo questo un fatto “dal quale dipende l’applicazione di norme processuali”, che determina il venir meno della legittimità delle prove assunte e, dunque, dei fatti sui quali la sentenza interna di condanna si è fondata».
La norma censurata sarebbe in contrasto anche con l’art. 10 Cost., in base al quale «l’ordinamento giuridico si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Secondo l’ordinanza di rimessione, è vero che il principio costituzionale evocato si riferisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario. Peraltro – come è stato posto in evidenza dalla dottrina - le norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che fanno riferimento a garanzie e valori inderogabili, sono «effettivamente riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella Comunità internazionale».
Posto, dunque, che tra i principi della Convenzione è prevista anche la presunzione di innocenza; e considerato che tale principio è annoverabile tra le norme internazionali di carattere consuetudinario, la stessa tutela – soggiunge il giudice a quo – dovrebbe essere riconosciuta a quell’aspetto della presunzione di innocenza «che si sostanzia nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell’equo processo». Non senza trascurare, al riguardo, che l’art. 4 del VII Protocollo aggiuntivo della Convenzione – relativo al divieto di bis in idem – consente espressamente la riapertura del processo, nella ipotesi in cui «un vizio fondamentale della procedura antecedente» sia in grado di inficiare la sentenza intervenuta.
Pertanto, secondo l’ordinanza di rimessione, venendo qui in discorso garanzie provenienti dal diritto internazionale consuetudinario – che rinvengono nell’art. 10, primo comma, Cost. la fonte del relativo adattamento automatico nell’ordinamento interno – la norma impugnata si porrebbe in evidente frizione con l’indicato parametro, nella parte, appunto, «in cui esclude la revisione del processo quando una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia accertato un “vizio fondamentale della procedura precedente”».
La disciplina censurata, infine, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 27 Cost., secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; detto principio «ha un senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a seguito di un processo giusto». L’ordinanza di rimessione sottolinea che «nessun condannato potrà sentire il dovere di rieducarsi e di riadattarsi alle regole sociali, se queste regole lo hanno condannato secondo un processo privo di equità; correlativamente, lo Stato non potrà pretendere dal condannato la rieducazione e il reinserimento nella società, se lo ha giudicato secondo regole inique».
3. – La questione di legittimità costituzionale nasce dalla assenza – nel sistema processuale penale – di un apposito rimedio, destinato ad attuare l’obbligo dello Stato di conformarsi (anche attraverso una eventuale rinnovazione del processo) alle conferenti sentenze definitive della Corte di Strasburgo, nell’ipotesi in cui sia stata accertata la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, secondo quanto prevede l’art. 46 della stessa Convenzione, nel testo modificato ad opera dell’art. 16 del Protocollo n. 14 , ratificato con la legge 15 dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali emendante il sistema di controlli della Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004).
Il Comitato dei Ministri e l’Assemblea del Consiglio d’Europa hanno stigmatizzato – con reiterate risoluzioni, risoluzioni interinali e raccomandazioni, proprio in riferimento alla vicenda del condannato nel giudizio a quo – l’inerzia dello Stato italiano nell’approntare adeguate iniziative riparatorie.
Da ultimo, il Comitato dei Ministri – facendo seguito a precedenti “moniti” – ha espressamente deplorato «il fatto che, più di sei anni dopo l’accertamento della violazione in questo caso, le autorità italiane non abbiano adottato alcuna misura per cancellare per quanto possibile le conseguenze della violazione (restitutio in integrum) e che non siano state attuate soluzioni alternative, quali la concessione della grazia presidenziale»; ed ha constatato, al tempo stesso, che «la riapertura del procedimento in questione resta lo strumento migliore d’assicurare la restitutio in integrum in questo caso» (Risoluzione interinale ResDH (2005) 85. V., anche, la Risoluzione finale CM/ResDH (2007) 83).
Allo stesso modo, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella Risoluzione n. 1516 (2006) – adottata il 2 ottobre 2006, in materia di attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo – ha deplorato la circostanza che «in Italia, e, in una certa misura, in Turchia, la legge non prevede ancora la riapertura dei processi penali per i quali la Corte abbia constatato violazioni alla CEDU e questi due Stati non hanno adottato altre misure per ripristinare il diritto dei ricorrenti ad un equo processo malgrado le domande pressanti e ripetute del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea (tra numerosi altri casi Dorigo c. Italia e Hulki Gunes c. Turchia)».
Tuttavia, nonostante l’evidente, improrogabile necessità che l’ordinamento predisponga adeguate misure – atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di “processo equo”, accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo – la questione sollevata dalla Corte di appello di Bologna, in riferimento a tutti i parametri evocati, deve ritenersi infondata.
4.1. – Il giudice a quo fonda la prima censura di illegittimità costituzionale su una premessa argomentativa le cui coordinate non possono condividersi né sul piano logico, né su quello sistematico. A base della dedotta irragionevole disparità di trattamento – a suo avviso derivante dalla mancata previsione della revisione delle condanne “in contrasto” con sentenze della Corte di Strasburgo, che abbiano accertato la violazione dei principi della Convenzione nel relativo processo – la Corte rimettente pone un postulato infondato di omologabilità fra i casi disciplinati dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., e la situazione in esame.
Secondo il giudice rimettente – considerato che la norma citata prevede, nelle ipotesi che legittimano la revisione della condanna, il contrasto tra i “fatti” stabiliti da due diverse sentenze – non dovrebbe necessariamente accedersi «alla accezione di “fatto” con esclusivo riferimento alle circostanze storiche della vicenda sottoposta a giudizio». Agli effetti che qui interessano, rappresenterebbe «un “fatto” anche l’accertamento dell’invalidità (iniquità) della prova assunta nel processo interno, intervenuto ad opera del giudice sopranazionale».
In realtà, però, il contrasto, che legittima – e giustifica razionalmente – l’istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale. Esso ha la sua ragione d’essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato “accadimento della vita” – essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda – può aver ricevuto all’esito di due giudizi penali irrevocabili.
Nella logica codicistica – secondo una affermazione costante della giurisprudenza di legittimità – il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze.
D’altra parte, ove così non fosse, la revisione, da rimedio impugnatorio straordinario, si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo (e di eventuale rescissione) della “correttezza”, formale e sostanziale, di giudizi ormai irrevocabilmente conclusi. Non è la erronea (in ipotesi) valutazione del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensì esclusivamente “il fatto nuovo” (tipizzato nelle varie ipotesi scandite dall’art. 630 del codice di rito), che rende necessario un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si è radicata la condanna oggetto di revisione.
La infondatezza della tesi sostenuta dal giudice a quo è confermata proprio dal referente normativo che il medesimo richiama a conforto del proprio percorso logico. La Corte rimettente sostiene che la possibilità di attrarre nella sfera del concetto di “fatto” anche la ipotesi dell’accertamento della «invalidità (iniquità) della prova assunta nel processo interno», si desumerebbe dall’art. 187, comma 2, cod. proc. pen.: una norma secondo la quale è “fatto” anche quello da cui dipende “l’applicazione di norme processuali”. Ma il richiamo a tale norma dimostra l’esatto contrario.
La disposizione citata – nel menzionare, come oggetto di prova, anche i fatti dai quali dipende l’applicazione delle norme processuali – si riferisce proprio agli accadimenti (ancora una volta, naturalisticamente intesi) costituenti il presupposto “materiale” che deve essere “provato”, perchè si generi un determinato effetto processuale: come la situazione di fatto a base del legittimo impedimento, che determina l’assoluta impossibilità di comparire; o l’evento che integra il caso fortuito o la forza maggiore, agli effetti della restituzione nel termine, e simili. Essa, evidentemente, non può riferirsi alla disposizione processuale la cui applicabilità può scaturire dall’accertamento di quei fatti; e meno ancora alla valutazione che il giudice abbia effettuato in ordine alla congruità della prova di quegli stessi fatti e della relativa idoneità a porsi quale premessa per la (equa) applicazione della regola processuale che venga, volta a volta, in discorso.
Infine, sotto il profilo sistematico, il concetto di “fatto” assunto a paradigma della ipotesi di conflitto “teorico” fra giudicati – previsto quale caso di revisione dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. – non può distinguersi dal concetto di medesimo “fatto” su cui si radica la disciplina del conflitto “pratico” tra giudicati, di cui all’art. 669, comma 1, cod. proc. pen. Ed è pacifico che quest’ultima norma risulta applicabile quando la pluralità di sentenze - oltre che lo stesso imputato - concerna il «medesimo fatto», inteso come coincidenza tra tutte le componenti delle fattispecie concrete. D’altronde, anche ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l’identità del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
La pretesa irragionevole disparità di trattamento – che il giudice a quo pone a fulcro della dedotta violazione dell’art. 3 della Carta fondamentale – deve ritenersi, dunque, infondata, proprio perchè la asserita assimilabilità delle situazioni poste a confronto non può essere condivisa.
4.2. – Allo stesso epilogo conduce lo scrutinio della questione alla stregua del parametro di cui all’art. 10 Cost.
A parere della Corte rimettente, alcune fra le garanzie fondamentali enunciate dalla CEDU coinciderebbero con altrettante “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” (così l’art. 10 Cost.) che, come tali, troverebbero “adattamento automatico” nell’ordinamento interno. Sicché, dovendosi annoverare tra quelle garanzie anche il principio di presunzione di innocenza, l’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede – tra i casi di revisione del processo – l’ipotesi in cui una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo «abbia accertato un “vizio fondamentale nella procedura precedente”».
L’assunto è per più versi infondato.
In primo luogo, il principio di presunzione di non colpevolezza non si pone in contrasto con la esigenza di salvaguardare il valore del giudicato, la cui ineludibile funzione è stata più volte affermata da questa Corte (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 74 del 1980; n. 294 del 1995; n. 413 del 1999 e le ordinanze nn. 14 e 501 del 2000). La presunzione di non colpevolezza accompagna lo status del “processando” ed impedisce sfavorevoli “anticipazioni” del giudizio di responsabilità; ma essa si dissolve necessariamente (sul piano sintattico, ancor prima che giuridico) allorché il processo è giunto al proprio epilogo, trasformando la posizione di chi vi è sottoposto da imputato – presunto non colpevole – in condannato, con una statuizione di responsabilità irrevocabile.
La revisione mira a riparare un (ipotetico) errore di giudizio, alla luce di “fatti” nuovi; non a rifare un processo (in ipotesi) iniquo. La presunzione di innocenza, in sé e per sé, non ha dunque nulla a che vedere con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali errores, in procedendo o in iudicando che siano.
In secondo luogo, la impossibilità di far leva sul parametro richiamato dal giudice a quo si evince dai principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte. Si è infatti in più occasioni (si vedano, da ultimo, le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) affermato che l’art. 10, primo comma, della Costituzione, con l’espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», intende riferirsi alle norme consuetudinarie; e dispone, rispetto alle stesse, l’adattamento automatico dell’ordinamento giuridico italiano. L’osservanza che a simili norme presta l’ordinamento internazionale, nel suo complesso, giustifica all’evidenza il postulato che ad esse si debba necessariamente conformare anche l’ordinamento “interno”; e ciò per evitare un intollerabile sfasamento circa la realizzazione “domestica” di principi universalmente affermati e, dunque, patrimonio comune delle genti.
Al contrario, la norma invocata dal remittente, in quanto pattizia e non avente la natura richiesta dall’art. 10 Cost., esula dal campo di applicazione di quest’ultimo. Se ne deve dedurre, pertanto, l’impossibilità di assumerla come integratrice di tale parametro di legittimità costituzionale.
4.3. – Ugualmente infondata si rivela, infine, la pretesa violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., il quale – nel sancire il principio della necessaria funzione rieducativa della pena – ad avviso del giudice rimettente «presuppone istanze etiche che trovano contrappunto in regole processuali non inique».
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo – in più occasioni – di puntualizzare i confini entro i quali il richiamato principio costituzionale è destinato ad operare; e ciò, anche a voler prescindere dal rilievo preliminare – e per certi aspetti assorbente – che, se si assegnasse alle regole del “giusto processo” una funzione strumentale alla “rieducazione”, si assisterebbe ad una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe – questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza.
Secondo tale giurisprudenza, «la necessità che la pena debba “tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Questa Corte ha ribadito «esplicitamente [...] che il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli della esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie» (sentenza n. 313 del 1990).
“Giusto processo” e “giusta pena” sono, dunque – per quel che qui interessa, soprattutto sul piano dei valori costituzionali che essi rispettivamente esprimono – termini di un binomio non confondibili fra loro; se non a prezzo, come si è già accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello “strumento” (il processo) nel “fine” cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da essa può conseguire).
D’altra parte, ove fosse valido l’assunto del rimettente, si dovrebbe ipotizzare, come soluzione costituzionalmente imposta, quella di prevedere - sempre e comunque - la revisione della condanna in tutti i casi in cui si sia realizzata nel processo una invalidità in rito, che ne abbia contaminato l’”equità”. Ciò – oltre a non essere neppure adombrato dal rimettente – risulterebbe apertamente in contrasto sia con l’esigenza dello stare decisis che scaturisce dalle preclusioni processuali; sia con la più volte riaffermata funzione costituzionale del giudicato.
5.– La complessa tematica dei rimedi “revocatori” è, d’altronde, contrassegnata, tanto nel settore del processo civile che di quello penale, da una nutrita serie di interventi di questa Corte; interventi ai quali hanno poi finito per corrispondere altrettanti significativi “innesti” normativi. Per un verso, ciò conferma quanto sia problematica l’individuazione di un punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare meccanismi riparatori, a fronte dei sempre possibili errori del giudice; e quella – contrapposta alla prima – di preservare la certezza e la stabilità della res iudicata. Per un altro verso, ciò sottolinea quanto risulti correlativamente ampia la sfera entro la quale trova spazio la discrezionalità del legislatore.
Così, ad esempio, questa Corte ha dichiarato la inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale degli artt. 629, 630 e seguenti del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non era prevista la revisione delle decisioni penali della Corte di cassazione per errore di fatto – materiale e meramente percettivo – nella lettura degli atti interni del giudizio. A tal fine la Corte ha sottolineato che l’istituto della revisione è un «modello del tutto eccentrico rispetto alle esigenze da preservare nel caso di specie, avuto riguardo: sia alla diversità dell’organo chiamato a celebrare tale giudizio (la corte di appello); sia alla duplicità di fase (rescindente e rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze; sia alle stesse funzioni che tale istituto è chiamato a soddisfare nel sistema» (sentenza n. 395 del 2000).
Il legislatore a sua volta – per soddisfare le esigenze e le lacune poste in luce nella pronuncia richiamata – ha introdotto, con l’art. 625-bis cod. proc. pen., un nuovo istituto per rimuovere gli effetti di quel tipo di errori commessi dalla Corte di cassazione, denominandolo significativamente “ricorso straordinario per errore materiale o di fatto”; ed assegnandogli una collocazione sistematica ed una disciplina avulse (e logicamente “alternative”) rispetto a quelle che caratterizzano la revisione.
6. – Ad ulteriore conferma della molteplicità di soluzioni suscettibili di prospettarsi con riferimento alla odierna questione di legittimità costituzionale e della correlativa esigenza di un intervento normativo di sistema, sta la recente iniziativa legislativa, indotta proprio dalle reiterate censure mosse al nostro Paese dal Comitato dei Ministri e dalla Assemblea del Consiglio d’Europa in relazione al caso Dorigo c. Italia.
Dopo diverse proposte di origine parlamentare – alcune delle quali menzionate anche dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa – il Governo, richiamandole, ha presentato al Senato, il 18 settembre 2007, il disegno di legge n. 1797 recante, appunto, «Disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». In esso si proponeva la introduzione di un Titolo IV-bis nel libro IX del codice di procedura penale, destinato a disciplinare una ipotesi di revisione “speciale” delle sentenze di condanna, «quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato con sentenza definitiva la violazione di taluna delle disposizioni di cui all’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848».
La relazione illustrativa al disegno di legge sottolinea come la scelta della collocazione sistematica, realizzata attraverso la previsione del nuovo «titolo IV-bis», fosse «diretta, da un lato, a confermare la natura straordinaria del rimedio; dall’altro, a tenere distinto l’istituto in esame da quello della revisione della sentenza di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. E ciò per una serie di ragioni, la prima delle quali risiede nella non automaticità della rinnovazione dell’intero processo (come precisato nel successivo articolo 647-septies), quando vi sia stata una pronuncia della Corte di Strasburgo che abbia riconosciuto la cosiddetta iniquità del processo celebrato in Italia; automatismo che rimane, invece, connotato essenziale della revisione dell’attuale sistema processuale».
Inoltre, attraverso l’istituto “speciale”, ipotizzato nel disegno di legge citato, si stabiliva la necessità della rinnovazione degli atti cui si fossero riferite le violazioni riscontrate dalla Corte di Strasburgo; con conseguente perdita di rilievo probatorio di quelli la cui pregressa assunzione era stata accertata come “iniqua”. Un simile epilogo non potrebbe scaturire dalla richiesta di sentenza additiva formulata dal giudice a quo, dal momento che la revisione “ordinaria” – per come positivamente disciplinata dagli artt. 629 e seguenti del codice di rito – non spiega, di per sé, effetti “invalidanti” sul materiale di prova raccolto nel precedente giudizio. Infatti, nel caso di revisione di cui all’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., le «nuove prove» – che devono dimostrare la necessità del proscioglimento – vanno apprezzate o da sole oppure «unite a quelle già valutate».
7. – Pur dovendosi quindi pervenire ad una declaratoria di infondatezza della questione proposta dalla Corte rimettente – con specifico riferimento ai parametri di costituzionalità che sono stati richiamati – questa Corte ritiene di non potersi esimere dal rivolgere al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione, dalla Corte di appello di Bologna con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2008.
N. 1447 – 1992 - A
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CAMERA DEI DEPUTATI ______________________________ |
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PROPOSTE DI LEGGE |
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n. 1447, d'iniziativa dei deputati
MARIO
PEPE, SAPONARA, LICASTRO SCARDINO,
Modifiche agli articoli 630 e 633 del codice di procedura penale in materia di revisione dei processi penali a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo Presentata il 31 luglio 2001
n. 1992, d'iniziativa del deputato COLA
Modifica agli articoli 630 e 633 del codice di procedura penale in materia di revisione delle sentenze di condanna e dei decreti penali di condanna Presentata il 20 novembre 2001
(Relatore: GIRONDA VERALDI)
------------------------------------------------------ NOTA: La II Commissione permanente (Giustizia), il 21 marzo 2002, ha deliberato di riferire favorevolmente sul testo unificato delle proposte di legge nn. 1447 e 1992. In pari data la Commissione ha chiesto di essere autorizzata a riferire oralmente. Per il testo delle proposte di legge nn. 1447 e 1992 si vedano i relativi stampati. |
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PARERE DELLA I COMMISSIONE PERMANENTE
(Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e
interni)
esaminato il testo unificato delle proposte di legge C. 1447 e C. 1992;
rilevato che esso incide sulla materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione
esprime
PARERE FAVOREVOLE
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proposta di legge ¾¾¾ |
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Testo unificato della Commissione
Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione dei processi penali a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo
Art. 1. (Modifiche al codice diprocedura penale).
1. Dopo l'articolo 630 del codice di procedura penale è inserito il seguente: "Art. 630-bis. - (Revisione a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo) - 1. Fuori dalle ipotesi previste dall'articolo 630, la revisione delle sentenze e dei decreti penali di condanna può essere richiesta se è accertato con sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che nel corso del giudizio sono state violate le disposizioni di cui all'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848".
2. All'articolo 631 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo le parole: "la revisione" sono inserite le seguenti: "nelle ipotesi previste dagli articoli 629 e 630";
b) dopo il comma 1, è aggiunto il seguente:
"1-bis. La richiesta di revisione ai sensi dell'articolo 630-bis è inammissibile se la violazione delle disposizioni ivi richiamate non ha avuto incidenza rilevante sulla decisione e se non permangono gli effetti negativi della esecuzione della sentenza o del decreto penale di condanna".
3. All'articolo 633, comma 2, del codice di procedura penale, dopo le parole: "dall'articolo 630 comma 1 lettere a) e b)" sono inserite le seguenti: "e dall'articolo 630-bis". 4. All'articolo 634 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo le parole: "dagli articoli 631," sono inserite le seguenti: "comma 1,";
b) dopo il comma 2, è aggiunto il seguente:
"2-bis. La corte d'appello, in camera di consiglio, osservando le norme di cui all'articolo 127, dichiara, con ordinanza, l'inammissibilità della richiesta, se questa è stata proposta nelle ipotesi di cui all'articolo 631, comma 1-bis".
Art. 2. (Norma transitoria). 1. La richiesta di revisione può essere proposta entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge anche nel caso in cui la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo o la decisione del Comitato dei ministri sia stata pronunciata prima di tale data. |
[1] Va rilevato tuttavia che, mentre in passato la disposizione relativa al termine di sei mesi veniva interpretata in maniera restrittiva, oggi si ritiene che sia possibile presentare un ricorso alla Corte di Strasburgo anche se non è stata pronunciata la decisione definitiva da parte dello Stato per i casi in cui si denunci l’eccessiva durata dei procedimenti davanti alle autorità nazionali.