Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento difesa | ||
Titolo: | Informazioni sulla missione italiana in Afghanistan (Estratto, con aggiornamenti, dal dossier La Missione italiana in Afghanistan 30 marzo 2010) | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 144 | ||
Data: | 18/05/2010 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | IV-Difesa |
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Informazioni sulla missione italiana in Afghanistan |
(Estratto, con aggiornamenti, dal dossier La Missione italiana in Afghanistan 30 marzo 2010) |
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n. 144 |
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18 maggio 2010 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Difesa ( 066760-4172 – * st_difesa@camera.it |
Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici: |
Servizio Studi – Dipartimento Esteri ( 066760-4172 – * st_affari_esteri@camera.it
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Il presente aggiornamento del dossier Missione italiana in Afghanistan è stato predisposto in occasione dell’informativa del Ministro della Difesa all’Assemblea sull’attentato contro i militari italiani in Afghanistan del 17 maggio 2010, svolta nella seduta del 18 maggio 2010. |
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I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge. |
File: DI0239.doc |
INDICE
Le Missioni ISAF e EUPOL in Afghanistan
§ Lo strumento militare nel contesto internazionale
Il contributo italiano ad ISAF
§ I caveat per l’impiego del contingente italiano in operazioni militari
La missione “EUPOL Afghanistan”
Il contributo italiano ad EUPOL
Recenti sviluppi del quadro politico afghano (a cura del Dipartimento Affari esteri)
Le Missioni ISAF e EUPOL in Afghanistan
Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 che colpirono gli Stati Uniti, fu avviata l’operazione Enduring Freedom (Libertà duratura), in Afghanistan, con l'obiettivo di combattere il terrorismo internazionale ed i regimi nazionali che lo sostengono.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il giorno successivo agli eventi, adottò la risoluzione n. 1368, nel cui preambolo si riconosceva il diritto di legittima difesa individuale e collettiva degli Stati Uniti. Va aggiunto che il paragrafo 1 definiva gli attacchi terroristici “una minaccia alla pace” e nel paragrafo 5 si affermava che il Consiglio era “pronto ad adottare tutte le misure necessarie per rispondere agli attacchi terroristici”.
Lo stesso 12 settembre 2001, il Consiglio atlantico adottò una determinazione nella quale si affermava che, qualora fosse stato accertata l’origine esterna degli attacchi terroristici, avrebbe trovato applicazione l’articolo 5 del Trattato NATO, ai sensi del quale un attacco armato contro un membro dell’Alleanza deve essere considerato come un attacco contro tutti i membri dell’Alleanza stessa. Il Consiglio ha riconosciuto, il successivo 3 ottobre, per la prima volta nella storia dell'Alleanza, l’esistenza delle condizioni per l'applicazione dell’articolo 5 del Trattato.
Una coalizione di Stati a guida statunitense, di cui favevano parte sia Paesi dell'Alleanza Atlantica che Paesi non facenti parte della NATO, ha quindi autonomamente avviato l’operazione Enduring Freedom contro obiettivi militari e basi terroristiche in territorio afgano, con l’obiettivo, in particolare, di colpire le cellule dell’organizzazione terroristica Al Qaeda presenti nel Paese.
Le operazioni militari, iniziate il 7 ottobre con una serie di attacchi aerei contro obiettivi militari e basi terroristiche in territorio afgano, sono proseguite nei due mesi successivi provocando la caduta del regime talebano e la costituzione, a seguito della Conferenza di Bonn del 5 dicembre, svoltasi sotto il patrocinio dell'ONU, di un governo ad interim, con il compito di governare il paese per i primi sei mesi del 2002.
L’Italia ha partecipato all’operazione dal 18 novembre 2001 con compiti di sorveglianza, interdizione marittima, nonché di monitoraggio di eventuali traffici illeciti. La partecipazione italiana alla missione si è conclusa il 3 dicembre 2006.
L’operazione Enduring Freedom ha progressivamente sviluppato una diversa configurazione e si è proposta di realizzare la definitiva pacificazione e stabilizzazione del Paese, oltre che con lo svolgimento di attività militari di contrasto degli insorti e delle formazioni terroriste, anche attraverso un supporto alle operazioni umanitarie.
A tale fine è stata costituita la missione ISAF (International Security Assistance Force), a seguito della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1386 del 20 dicembre 2001 che, come previsto dall'Accordo di Bonn, ha autorizzato la predisposizione di una forza di intervento internazionale con il compito di garantire, nell'area di Kabul, un ambiente sicuro a tutela dell'Autorità provvisoria afghana, guidata da Hamid Karzai, che si è insediata il 22 dicembre 2001 e del personale delle Nazioni Unite presente nel Paese.
La missione è iniziata nel gennaio 2002 ed è stata inizialmente svolta dai contingenti di 19 Paesi sotto la guida inglese.
Il 13 giugno 2002 la Loya Jirga (l'Assemblea tradizionale) ha eletto il premier Hamid Karzai alla guida del governo per un periodo di due anni, fino allo svolgimento delle elezioni generali, che si sono tenute il 9 ottobre 2004 e che hanno confermato presidente Karzai.
Successivamente il vertice NATO di Praga del novembre 2002, ha approvato un nuovo concetto militare che stabilisce un approccio globale per la difesa contro il terrorismo e consente alle forze dell’Alleanza di intervenire ovunque i suoi interessi lo richiedano (quindi anche fuori dall’area dei Paesi membri). Anche a seguito di tali determinazioni, il 16 aprile 2003 il Consiglio Nord Atlantico (NAC) ha deciso l'assunzione, da parte della NATO, del comando, del coordinamento e della pianificazione dell’operazione ISAF, senza modificarne nome, bandiera e compiti. La decisione è stata resa operativa l'11 agosto 2003, con l'assunzione della guida della prima missione militare extraeuropea dell'Alleanza Atlantica.
La risoluzione ONU n. 1510 del 13 ottobre 2003, oltre a prevedere l’ulteriore proroga del mandato di ISAF, ha, altresì, autorizzato l'espansione delle attività della missione anche al di fuori dell'area di Kabul.
La guida politica dell’operazione è esercitata dal NAC, in stretto coordinamento con i Paesi non NATO che contribuiscono all’operazione. Secondo il memorandum sottoscritto fra i Paesi partecipanti e l'Autorità provvisoria afghana il 4 gennaio 2002, mentre le “Coalition Forces, sono quegli elementi militari nazionali della Coalizione guidati dagli Stati Uniti che conducono la guerra al terrorismo in Afghanistan […] ISAF non è parte delle Forze della Coalizione" e rimane pertanto distinta da Enduring Freedom, mantenendo le due missioni differenti mandati e rispondendo a catene di Comando differenti, l'una facente capo al Comando Supremo Alleato della NATO ed al Consiglio Atlantico, l'altra al Central Command statunitense di Tampa (Florida). Le due missioni rimangono però in costante coordinamento operativo, attraverso il Deputy Chief of Staff Operations di ISAF, statunitense, responsabile del raccordo con le Forze di Enduring Freedom.
Lo svolgimento della missione ISAF è articolato in cinque fasi:
- la prima fase ha riguardato l’attività di analisi e preparazione;
- la seconda fase ha avuto l’obiettivo di realizzare l’espansione sull’intero territorio afgano, in 4 distinti stages che hanno riguardato in senso antiorario le aree Nord, Ovest, Sud e d Est;
- la terza fase è volta a realizzare la stabilizzazione del Paese;
- la quarta fase riguarda il periodo di transizione;
- la quinta fase prevede il rischieramento dei contingenti.
I quattro stages della seconda fase sono stati realizzati progressivamente con la sostituzione degli Stati Uniti, da parte della NATO, nella guida delle operazioni di stabilizzazione nelle diverse aree del Paese. La fase di espansione è stata completata nell’ottobre 2006 con l’assunzione del controllo ISAF anche sulla regione orientale del paese.
La fase dell’espansione è stata realizzata attraverso la costituzione in ogni area di una FSB (Forward Support Base), ovvero una installazione militare aeroportuale avanzata necessaria innanzitutto per fornire supporto operativo e logistico ai PRT (Provincial Reconstruction Team) presenti nella stessa regione. In alcune regioni (tra le quali Herat) i PRT erano già stati istituiti nell’ambito dell’operazione Enduring Freedom.
Il PRT è una struttura mista composta da unità militari e civili con il compito di assicurare il supporto alle attività di ricostruzione condotte dalle organizzazioni nazionali ed internazionali operanti nella regione. Ogni PRT é strutturato in base al rischio, alla posizione geografica ed alle condizioni socio economiche della regione in cui opera.
Fin dall’inizio della missione, ISAF, accanto alle attività militari, ha svolto il compito di assicurare la fornitura di beni di necessità alla popolazione e promuovere la ricostruzione delle principali infrastrutture economiche; a tal fine, la missione intrattiene relazioni con numerose organizzazioni internazionali e non-governative e collabora in modo stretto con l’Assistance Mission delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).
La missione ISAF è stata da ultimo prorogata con la risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1890/2009 fino al 13 ottobre 2010.
L’operazione ISAF si configura quindi come operazione di peace enforcing (per approfondimenti cfr. box sotto)
Il sistema delle Nazioni Unite
Nel sistema delineato dalla Carta delle Nazioni Unite, al Consiglio di Sicurezza è attribuita (articolo 24) la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, da esercitarsi mediante l’esercizio dei poteri attribuiti dai capitoli VI, VII, VIII e XII della Carta medesima.
Il capitolo VI della Carta, dedicato alla soluzione pacifica delle controversie internazionali, disciplina quella che può essere definita, in senso lato, la funzione conciliativa del Consiglio di Sicurezza.
Il capitolo VII attribuisce al Consiglio di Sicurezza la competenza a reagire alle situazioni di minaccia alla pace, violazione della pace ed aggressione (articolo 39), in primo luogo attraverso misure non implicanti l'uso della forza, quali le sanzioni economiche e l'interruzione delle relazioni diplomatiche (articolo 41) e, successivamente, in caso di inadeguatezza di queste, mediante "azioni di polizia internazionale" implicanti l'uso della forza per il ristabilimento della pace (articolo 42). Per le azioni previste dall'articolo 42 il Consiglio può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione necessaria per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. A tal fine gli articoli 43 e 47 prevedono l'impegno degli Stati membri di mettere a disposizione del Consiglio – in conformità ad un accordo o ad accordi speciali - le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni necessarie.
L’articolo 48, comma 2, prevede poi che le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale sono eseguite dagli Stati membri dell’ONU direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano membri.
L’articolo 51 della Carta riconosce altresì, nel caso di attacco armato contro uno Stato membro dell’ONU, il diritto di autotutela individuale o collettiva, fino a quando il Consiglio di Sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per il mantenimento della pace. Le misure prese nell’esercizio di tale diritto devono essere immediatamente comunicate al Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano i suoi poteri in ordine alle azioni per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
Il contrasto tra i due blocchi in cui si divise il mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la conseguente mancanza di unanimità all'interno del Consiglio di Sicurezza, rese di fatto inutilizzabile il capitolo VII della Carta, con la sua previsione di dotare l’ONU di una specifica Forza armata. A questa situazione l’ONU ha reagito attraverso una prassi di intervento che ha visto il Consiglio di Sicurezza decidere l’utilizzo di forze militari appartenenti agli Stati membri al fine di contribuire al mantenimento della pace, o, più raramente, per agire coercitivamente nei confronti di uno Stato membro reo di aver violato norme di diritto internazionale consuetudinario e/o obblighi derivanti dal Trattato.
In sostanza, e in prima approssimazione, si possono enucleare due tipologie d'intervento adottate dal Consiglio di sicurezza:
a) creazione di Forze delle Nazioni Unite incaricate, con compiti per lo più limitati, di operare per il mantenimento della pace, con delega di poteri al Segretario Generale che, a sua volta, conclude gli accordi con gli Stati membri per il reperimento dei contingenti armati (caschi blu) e assume il comando delle operazioni che si svolgono direttamente sotto l'egida dell'ONU;
b) autorizzazione ad uno o più Stati membri o ad Organizzazioni regionali ad usare la forza per il ripristino della pace. Tale seconda tipologia, che consiste in una delega a questi Paesi ed Organizzazioni dell'esercizio del diritto di usare la forza proprio del Consiglio di Sicurezza, viene adottata in quei casi in cui la complessità e l'ampiezza dei compiti operativi sconsiglia l'impegno diretto delle strutture dell'ONU.
Le operazioni per il mantenimento della pace
Le operazioni per il mantenimento della pacesono state caratterizzate nel corso degli anni da una rilevante evoluzione qualitativa e quantitativa. Si possono individuare sinteticamente differenti tipologie di operazioni di pace, pur nella consapevolezza sia della relatività delle classificazioni, sia della compresenza di differenti tipologie all'interno delle operazioni realizzate:
a) operazioni di formazione della pace e prevenzione del conflitto (peace-making): sono utilizzate in presenza di una controversia che determina un conflitto. Si tratta, perciò, di attività volte prevalentemente alla soluzione pacifica delle controversie attraverso il ricorso ai mezzi diplomatici tipici del diritto internazionale per la soluzione dei conflitti;
b) operazioni di peace-keeping: si tratta di operazioni militari volte a prevenire, limitare od eliminare situazioni di conflitto tra Stati o all'interno di Stati, al fine di mantenere o ristabilire la pace. In particolare, le funzioni cui assolvono tali operazioni hanno un contenuto variabile che va dai compiti di osservazione e verifica (che comprendono il controllo del cessate il fuoco, della liberazione del territorio e del conseguente ritiro delle forze di occupazione) a quelli di interposizione (che comporta l'assunzione di un ruolo di mera presenza tra le due parti in conflitto, allo scopo di ridurre la tensione tra le stesse e di prevenire gli scontri) e a quelli di mantenimento dell'ordine e del rispetto del diritto;
c) operazioni di imposizione della pace (peace-enforcing): si tratta di operazioni militari volte ad imporre con la forza alle parti in conflitto o al soggetto individuato come aggressore, l'attuazione delle misure di controllo e riduzione della situazione di conflittualità decise dall'organizzazione internazionale che invia o autorizza l'operazione. Ciò implica la possibilità di vere e proprie azioni di combattimento;
d) operazioni di assistenza internazionale: si tratta di attività volte a realizzare le condizioni per una pace duratura poste in essere al termine di un conflitto o di una guerra civile, al fine di evitare che sorgano nuove controversie e si determinino altre situazioni di conflittualità. Rientrano in tale categoria tutte le attività che consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria e comprendono programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitaria, soprattutto nella fase successiva alla cessazione delle operazioni militari.
La missione ISAF si trova attualmente nella sua terza fase: quella di stabilizzazione. L’attività di stabilizzazione ha incontrato crescenti difficoltà per l’insorgenza “talebana” contro la presenza internazionale che è andata col tempo notevolmente rafforzandosi.
Le origini dell’insorgenza possono essere fatte in realtà risalire già al 2002, pochi mesi dopo, quindi, la caduta del regime talebano in Afghanistan ad opera della coalizione internazionale guidata dagli USA e dell’Alleanza del Nord afghana, composta prevalentemente da elementi tagiki e uzbeki (merita ricordare che tuttavia Hamid Karzai, da subito individuato come leader del nuovo Afghanistan è invece un pashtun). Infatti, fin dall’aprile del 2002, si iniziarono a registrare attacchi, in particolare nelle zone di Kandahar, Khowst, Jalalabad, Kabul ad opera di talebani, di forze del movimento Hezb-I-Islami del signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar (già protagonista delle vicende afghane negli anni Novanta del Novecento, successivamente alla caduta del regime filosovietico del presidente Najibullah) e di elementi jihadisti stranieri riconducibili ad Al Qaeda. Dal 2004 le forze della coalizione hanno potuto registrare un aumento delle capacità della guerriglia in termini di penetrazione nel territorio, testimoniato anche dal passaggio all’impiego di unità di combattimento più piccole, di meno di dieci elementi, capaci di creare maggiori difficoltà alla coalizione[1]. Nello stesso periodo l’insorgenza ha potuto trovare sostegno oltre la frontiera con il Pakistan, nelle zone tribali delle province nord-occidentali di quel paese. L’insorgenza si è ulteriormente intensificata nel corso del 2008 e del 2009 in modo particolare nel Sud e nell’Est del paese.
Il deterioramento della situazione è testimoniato dall’incremento di vittime civili, provocate non solo delle forze dell’insorgenza ma anche dagli errori delle forze governative afghane e di quelle di ISAF e di Enduring Freedom. Dal gennaio all’agosto 2008, secondo fonti dell’Alto commissariato ONU per i diritti umani e di UNAMA, sono risultati uccisi 1445 civili con un aumento del 39 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le vittime della guerriglia talebana e delle altre forze antigovernative (800 nel medesimo periodo) sono raddoppiate rispetto ai primi otto mesi del 2007 e sono pari a circa il 55 per cento del totale delle vittime registrate. Nello stesso periodo è aumentato il numero di civili uccisi dalle forze governative e dalle forze militari internazionali: un totale di 577 morti, di cui 395 per raid aerei[2]. Secondo il rapporto annuale di Human Rights Watch, le Nazioni Unite indicano in circa 2021 i civili uccisi dalle forze dell’insorgenza antigovernativa e da quelle governative e internazionali dal gennaio all’ottobre 2009. Di queste il 69 per cento sono attribuite alle forze dell’insorgenza e il 23 per cento alle forze militari internazionali. Le perdite civili attribuibili alle forze militari internazionali registrano un decremento rispetto alla percentuale del 2008, attribuibile ad una revisione nelle modalità operative delle forze NATO e di Enduring Freedom[3].
Esistono diverse interpretazioni del deterioramento della situazione afghana: secondo alcuni l’impegno internazionale in Afghanistan si è posto, dopo il crollo del regime talebano nel dicembre 2001, obiettivi troppo ambiziosi (rispetto a quello essenziale di combattere il terrorismo di Al Qaeda) di State Building e di democratizzazione del Paese per i quali non si era impostato una chiara strategia e non si erano approntati i mezzi necessari, anche a causa del concomitante impegno (in particolare degli USA e della Gran Bretagna) in Iraq[4]. Secondo altri, le forze della coalizione internazionale così come gli Stati confinanti con l’Afghanistan hanno in tutti questi anni privilegiato la ricerca di intese con i leader locali (spesso ex-signori della guerra del periodo successivo alla fine dell’occupazione sovietica), anziché impegnarsi effettivamente in un’opera maggiormente dispendiosa, in termini di uomini e mezzi impiegati, di State building, di promozione della rule of law e di rafforzamento del governo centrale[5].
Nell’insorgenza si devono poi distinguere diverse componenti:
- una componente ideologicamente talebana (all’interno della quale diverse fonti prospettano la presenza di una “filiera talebano-pachistana”, vale a dire la presenza, a partire dal 2003, dell’afflusso di guerriglieri del Kashmir, appartenenti al movimento talebano Lashkar-e-Tayyba, che in molti casi avrebbero ricevuto sostegno dai servizi segreti pachistani per insediarsi nella zona di confine tra Pakistan e Afghanistan del Waziristan)
Secondo numerose fonti, le forze talebane avrebbero trovato sostegno e rifugio principalmente nelle zone tribali della provincia nord-occidentale del Pakistan, al confine con l’Afghanistan, soprattutto a seguito degli accordi tra il governo Pakistano e i capi tribù locali nel sud del Waziristan tra 2004 e 2005 e nel nord del Waziristan nel 2006, che hanno posto fine ai tentativi dell’allora leader pakistano Musharraf di ottenere un effettivo controllo della regione e hanno condotto alla riduzione dei posti di blocco e della presenza dell’esercito pakistano in quelle zone. Nel febbraio 2009 anche il nuovo presidente pachistano Zardari ha raggiunto un accordo con i leader talebani locali per l’applicazione della Sharia nella zona di Malakand e nel distretto di Swat nella provincia nord-occidentale, in cambio dell’impegno al disarmo delle milizie. Nel corso del 2009 si sono però anche succedute offensive dell’esercito pachistano nella provincia nord-occidentale del paese per porre un argine alla crescente “talebanizzazione” della zona (in Pakistan agisce anche il movimento dei talebani pakistani di Tehrik-e-Taliban). Si ritiene poi che parte consistente della leadership talebana afghana sia attiva nella città di Quetta nel Pakistan occidentale.
- la cosiddetta “rete Haqqani” guidata da Jalaluddin Haqqani, ex-comandante Mujaheddin contro i sovietici, e dal figlio Sirajuddin, fortemente integrata con i talebani della zona di Kandahar e con i gruppi attivi nella provincia nord-occidentale del Pakistan
- il movimento Hizb I Islam del signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, ex-primo ministro, già protagonista delle vicende afghane negli anni Novanta del Novecento, successivamente alla caduta del regime filosovietico del presidente Najibullah. Merita segnalare che lo scorso 22 marzo è avvenuto un incontro tra il presidente Karzai e Hekmatyar; l’incontro potrebbe precludere ad un cessate il fuoco con questa componente dell’insorgenza, nel quadro della politica di riconciliazione avviata da Karzai.
- componenti, per così dire “nazionaliste pashtun” che temono la prevalenza in Afghanistan degli elementi dell’Alleanza del Nord prevalentemente tagika e uzbeka, ai danni dell’etnia maggioritaria pashtun,
- componenti tribali in rotta con il potere centrale[6].
Non deve essere sottovalutato inoltre il canale di finanziamento dell’insorgenza rappresentato dalla produzione di oppio che rappresenta il maggior settore dell’economia nazionale afghana (nel 2008 l’Afghanistan rappresentava il maggior produttore mondiale di oppio)[7]
L’evoluzione degli eventi ha quindi indotto ad una revisione della strategia della missione ISAF. In particolare la NATO, a partire dal 2008, ha promosso un comprehensive approach alla questione afghana (poi ribadito nel vertice di Strasburgo-Kehl del 3-4 aprile 2009) insistendo sul sostegno al rafforzamento delle istituzioni afghane ed inviando nuovo personale, non solo militare, ma anche civile. Da parte statunitense fin dal marzo 2010, l’amministrazione Obama ha delineato un comprehensive approach alla questione afghano-pakistana postulando la distruzione di Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan e la stabilizzazione dell’area mediante un incremento della presenza militare in Afghanistan accompagnata ad un maggior sostegno finanziario e organizzativo alla crescita civile dei due paesi. Dopo un lungo dibattito all’interno dell’Amministrazione, inoltre, nel dicembre 2010, gli USA hanno annunciato l’invio di 30.000 ulteriori soldati USA e, allo stesso tempo, ha indicato il luglio 2011 come data dell’inizio di un graduale ritiro delle truppe USA. Contestualmente la NATO ha annunciato un incremento della propria presenza complessiva di circa 7.000 unità.
Da ultimo, la Conferenza internazionale di Londra ha insistito nelle sue conclusioni del 28 gennaio 2010 sulla necessità di recuperare alla vita civile ai combattenti dell’insorgenza non riconducibili al nucleo più ideologicamente talebano e ad Al Qaeda che accettino la rinuncia alla violenza(a tale proposito è stato istituito anche un apposito trust fund per la “pace e la reintegrazione”); sull’opportunità di incrementare gli aiuti umanitari e sulla ricerca di un maggiore coinvolgimento di tutte le componenti afghane e dei paesi confinanti nella ricerca della pace.
In questo quadro devono essere collocati i tentativi di riconciliazione con componenti dell’insorgenza avviati dal governo afghano: tra questi meritano di essere ricordati i contatti con il movimento Hizb I Islam di Hekmatyar, a cui già sopra si è fatto riferimento,nonché quelli con componenti talebane. Nell’ambito di queste complesse trattative anche il Pakistan si sta muovendo per rivendicare il suo ruolo e la sua influenza nella regione. Secondo alcune fonti, anche il recente arresto in Pakistan del leader dell’insorgenza talebana Baradar, indicato come interlocutore del governo afghano nelle trattative, rientrerebbe in questa logica. Il Pakistan si starebbe comunque anche muovendo autonomamente al fine di raggiungere nuove intese con componenti talebane per limitare la violenza nelle zone di confine, nonché un modus vivendi con l’Alleanza del Nord afghana, rivale storico dei tentativi pakistani di ricondurre l’Afghanistan alla propria sfera di influenza[8].
Per una più ampia analisi della situazione afghana fin qui descritta cfr. anche infra il paragrafo “I recenti sviluppi della situazione in Afghanistan”.
Per ulteriori approfondimenti si segnalano inoltre, oltre alle fonti già citate in nota, i seguenti documenti dell’Osservatorio di politica internazionale: Dinamiche etniche, tribali e politiche in Afghanistan e Focus Mediterraneo e Medio Oriente (gennaio-marzo 2010), a cura del CESI; Afghanistan: le sfide dello sviluppo e le alternative all’economia illegale dell’oppio, a cura del CESPI.
Elemento fondamentale nell’ambito della nuova strategia NATO è lo sviluppo di una capacità autonoma di difesa afgana. Al riguardo si rinvia al box sotto.
La riorganizzazione delle forze armate e di sicurezza afghane
Il comunicato finale della Conferenza di Londra ha apprezzato i progressi compiuti nell’organizzazione delle Forze di sicurezza afghane e l’impegno del governo afghano di far assumere all’esercito nazionale afghano e alla polizia nazionale afghana la capacità di guidare e condurre la maggioranza delle operazioni nelle aree insicure dell’Afghanistan entro tre anni e di assumere la responsabilità per il mantenimento della sicurezza nel paese entro cinque anni. Gli Stati e le organizzazioni internazionali partecipanti si sono anche impegnate a garantire il necessario supporto al raggiungimento dell’obiettivo di incrementare, entro l’ottobre 2011, l’esercito nazionale afghano fino 171.600 unità e la polizia nazionale afghana a 134.000 unità.
Fonti NATO indicano, al 22 dicembre 2009, la consistenza dell’esercito nazionale afghano in 100.130 unità. L’esercito dispone di truppe capaci di pianificare ed eseguire operazioni a livello di battaglione senza supporto esterno. In particolare, in simili operazioni possono essere impiegati 26 battaglioni, due quartier generali di corpi d’armata, 8 quartier generali di brigata, 7 unità di supporto alle guarnigioni, 2 quartier generali speciali di supporto alle brigate di sicurezza della città di Kabul.
Dal 2008 è attiva anche l’aviazione afghana che vede impiegate 2.876 uomini e donne, con una flotta di 46 aerei (l’obiettivo è di raggiungere entro il 2016 un personale di oltre 8000 unità con una flotta di 152 aerei).
A partire dall’agosto 2008 l’esercito nazionale afghano sta gradualmente assumendo la responsabilità per la sicurezza nella provincia di Kabul.
Sempre fonti NATO, indicano, alla fine di dicembre 2009, in 96830 unità gli effettivi della polizia nazionale afghana (con 7650 unità attualmente in addestramento). Degli effettivi 12.800 sono impegnati nella polizia di confine, 3431 nelle forze di ordine pubblico interno (recentemente ridenominate “Gendarmeria”) e 2695 nella polizia antinarcotici.
Nel febbraio del 2010 le truppe ISAF e quelle afghane sono state impiegate in un’importante operazione militare, l’operazione Moshtarak. Al riguardo, si rinvia al box sotto.
L’operazione moshTArak
Il 13 febbraio 2010 è iniziata la più vasta offensiva della coalizione internazionale dal 2001, con il coinvolgimento anche dell’esercito afghano: l’operazione “moshtarak” (in lingua dari “insieme”). Obiettivo dell’operazione sono state le roccaforti talebane di Marjah e di Nad Ali localizzate nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan.
Fonti nato indicano in 15.000 unità l’entità delle forze della coalizione ed afghane coinvolte.
In particolare sono state impiegate:
- cinque brigate afghane, con il coinvolgimento dell’esercito nazionale afghano e della polizia nazionale afghana (in particolare della polizia di confine e della gendarmeria afghana).
- forze del comando regionale meridionale di Isaf appartenenti ai contingenti degli Usa, del Regno Unito, della Danimarca, dell’Estonia e del Canada.
La resistenza talebana è stata inizialmente debole, quindi più forte. l’operazione è stata dichiarata comunque conclusa da un portavoce del ministero dell’interno afghano il 4 marzo 2010, con la caduta di Marjah nelle mani delle forze della coalizione e la bonifica di parti del distretto di Nad Ali.
Si sono registrate vittime civili nelle zone interessate dall’operazione. Fonti della missione ONU in Afghanistan indicano in 27.770 i civili che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni nella provincia di Helmand a causa dei combattimenti. Secondo alcune analisi dell’operazione, comunque, le nuove direttive del generale McChrystal avrebbero consentito una riduzione dei civili feriti e caduti, in particolare attraverso la limitazione degli interventi di supporto aereo e l’avviso alla popolazione locale delle operazioni con anticipo[9].
Dopo la conclusione dell’operazione Moshtarak è annunciata l’intenzione di avviare operazioni militari e di intelligence nella provincia di Kandahar.
ISAF comprende attualmente (dati del 16 aprile 2010) circa 102.554 militari appartenenti a contingenti di 46 Paesi. Il contributo maggiore è fornito dagli Stati Uniti (62.415 unità), seguiti dal Regno Unito (9.500), dalla Germania (4.665), dalla Francia (3.750), dal Canada (2.830), dall’Italia (3.300), dalla Polonia (2.515) e dall’Olanda (1.885).
I dati sopra riportati sono ripresi dal sito della NATO (www.nato.int). La nota aggiuntiva al bilancio del Ministero della difesa del marzo 2010 indicava invece una consistenza effettiva del contingente italiano di 3.191; la relazione tecnica all’ultimo provvedimento di proroga del finanziamento delle missioni internazionali (decreto-legge n. 1 del 2010) indicava comunque che, in coerenza con l’autorizzazione di spesa, veniva finanziato l’impiego complessivo nelle missioni ISAF ed EUPOL in Afghanistan di 3.451 unità.
Di seguito si fornisce il quadro completo dei diversi contingenti nazionali di ISAF, e la loro dislocazione sul terreno (fonte: NATO):
Di seguito è invece fornito un confronto nell’evoluzione della partecipazione dei principali contingenti nazionali alla missione ISAF. Le ultime due colonne riportano gli ultimi aggiornamenti in ordine temporale forniti dalla NATO, risalenti rispettivamente al 5 marzo 2010 e al 16 aprile 2010. Dal raffronto in particolare di tali dati si evidenzia la progressiva attuazione di incremento delle truppe presenti in Afghanistan posta in essere dalla NATO.
Contingente missione ISAF in Afghanistan |
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data |
29/1/2007 |
6/2/2008 |
12/1/2009 |
5/3/2010 |
16/4/2010 |
Paesi |
37 |
40 |
41 |
44 |
46 |
Totale militari di cui |
35.460 |
43.250 |
55.100 |
89.480 |
102.554 |
USA |
14.000 |
15.000 |
23.220 |
50.590 |
62.415 |
Regno Unito |
5.200 |
7.800 |
8.910 |
9.500 |
9.500 |
Germania |
3.000 |
3.210 |
3.405 |
4.335 |
4.665 |
Francia |
1.000 |
1.515 |
2.890 |
3.750 |
3.750 |
Italia |
1.950 |
2.880 |
2.350 |
3.160 |
3.300 |
Canada |
2.500 |
2.500 |
2.830 |
2.830 |
2.830 |
Polonia |
160 |
1.100 |
1.590 |
2.140 |
2.515 |
Olanda |
2.200 |
1.650 |
1.770 |
1.880 |
1.885 |
Turchia |
800 |
675 |
800 |
1.835 |
1.795 |
Australia |
500 |
1.070 |
1.090 |
1.550 |
1.550 |
Spagna |
550 |
740 |
780 |
1.075 |
1.270 |
Merita segnalare che la prosecuzione della partecipazione ad ISAF ha provocato una crisi politica in Olanda. Con una mozione approvata dal parlamento olandese nell’ottobre 2009, infatti la data del ritiro delle truppe di quel paese è stato fissato per l’agosto 2010; la NATO ha quindi richiesto il prolungamento della missione per un altro anno. Questa richiesta ha visto, all’interno del governo olandese, favorevoli i cristiano-democratici del primo ministro Balkenende ma contrari i laburisti. Si è quindi aperta una crisi di governo che condurrà il paese ad elezioni anticipate nel prossimo giugno.
Infine, di notevole importanza potrebbe risultare la ristrutturazione, annunciata da alcune fonti di stampa, della presenza statunitense in Afghanistan. In particolare, sarebbe in corso di trasferimento sotto il comando NATO l’azione delle forze speciali attualmente operanti nel quadro dell’operazione USA Enduring Freedom; ciò potrebbe precludere alla piena integrazione di Enduring Freedom nella missione ISAF (attualmente, come sopra ricordato, le due missioni risultano distinte, anche se entrambe sono poste sotto il comando del generale USA Mc Chrystal).
La partecipazione italiana, iniziata il 10 gennaio 2002, è inizialmente consistita in un contingente di 450 unità, di cui 400 militari dell’Esercito a Kabul e 50 unità dell’Aeronautica, con compiti di supporto, di stanza ad Abu Dhabi (negli Emirati Arabi).
L’Italia ha assunto, dal giugno 2005, il compito di coordinare la FSB di Herat ed i PRT della regione ovest del Paese (che comprende le province di Farah, Badghis e Ghor, oltre a quella omonima di Herat). L’impegno italiano, accresciuto in questa fase da 600 a 2.000 unità, è stato ulteriormente rafforzato anche in vista dell'assunzione del comando ISAF, che è stato ricoperto dall’Italia dal 4 agosto 2005 al 4 maggio 2006.
Il 2 aprile 2007 il Consiglio supremo di difesa ha fornito concrete indicazioni per un rafforzamento in uomini e mezzi del contingente militare italiano in Afghanistan, quale attuazione dell’impegno assunto dall’Esecutivo in Parlamento, senza mutamenti nel carattere della missione, ma in previsione di una sua durata non breve e di maggiori pericoli potenziali. L’operazione è stata completata nel giugno successivo, con l’arrivo di due velivoli UAV Predator, di cinque elicotteri da combattimento A-129 Mangusta e due plotoni di bersaglieri con otto cingolati Dardo.
In seguito, la componente aerea del contingente è stata rafforzata con la dotazione dei velivoli senza pilota Predator (da giugno 2007), da ricognizione e sorveglianza e degli elicotteri A129 Mangusta (da giugno 2007), per il supporto aereo e successivamente, da dicembre 2008, dei velivoli Tornado (sostituiti dai caccia AMX nel dicembre 2009), per assicurare al contingente nazionale un maggior livello di sicurezza e protezione.
Come già sopra ricordato, la nota aggiuntiva al bilancio di previsione del Ministero della difesa del marzo 2010 indica l’impiego di un contingente effettivo di 3.191 unità, mentre fonti NATO indicano, al 16 aprile 2010, una presenza effettiva di 3.300 unità. A seguito della nuova strategia per l’Afghanistan annunciata dall’Amministrazione Obama e delle conseguenti decisioni assunte in sede NATO, il Consiglio dei ministri, nella riunione del 3 dicembre 2009, ha deciso un incremento di 1.000 unità del contingente impegnato in Afghanistan, da attuare con gradualità nel corso del 2010 e con una maggiore incidenza nella seconda parte dell’anno (sul punto si vedano le comunicazioni dei ministri degli esteri e della difesa alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del 10 dicembre 2009).
La missione italiana ha fin qui principalmente interessato le aree di Kabul e di Herat. Al riguardo si segnala che:
Ø nell’area di Kabul, il 30 ottobre 2009, la missione del contingente italiano a Kabul denominata “ITALFOR XX” è ufficialmente terminata, con il passaggio di consegne al contingente turco.
Ø nell’area di Herat, il contingente italiano ha la responsabilità del Regional Command West (RC-W), ampia regione dell'Afghanistan Occidentale (pari al Nord Italia) che si estende dal Capoluogo Herat fino a toccare la Provincia di Farah. L’ossatura principale di RC-W è costituita dal personale proveniente dalla Brigata meccanizzata "Sassari", anche se è presente un significativo contributo di uomini e mezzi della Marina Militare, dell’Aeronautica, dei Carabinieri e della guardia di Finanza[10].
Tenendo conto delle ultime due vittime dell’attentato del 17 maggio 2010, durante la missione ISAF hanno perso la vita ventitre militari italiani, di cui 15 in seguito ad attentati o conflitti armati.
Nella medesima zona dove ha avuto luogo l’attentato del 17 maggio, Bala Murghab, il contingente italiano era stato fatto oggetto, nei primi giorni di gennaio 2010, di ripetuti attacchi da parte di consistenti nuclei di insorti con colpi di arma da fuoco, mitragliatrici pesanti e razzi controcarro nel corso di attività di consolidamento di avamposti strategici[11]
I caveat per l’impiego del contingente italiano in operazioni militari
Durante le comunicazioni sugli sviluppi relativi alle missioni internazionali, che sono state svolte nella seduta delle Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera e del Senato l’11 giugno 2008, i Ministri degli affari esteri e della difesa hanno riferito in merito alle modifiche dei cosiddetti caveat[12] per la missione ISAF in Afghanistan.
Il Ministro degli esteri Frattini ha richiamato il Vertice NATO di Bucarest (2-4 aprile 2008), che ha deciso di rafforzare il sostegno militare e politico all'ISAF, considerando la riflessione sui caveat come lo sviluppo di tale decisione.
Il Ministro della difesa La Russa ha precisato che le non esiste “alcuna limitazione all'utilizzo del nostro contingente nelle regioni ovest, nord e della capitale: lì il dispiegamento è già autorizzato. Nelle regioni est e sud, invece, a differenza di molte altre nazioni che operano nel contingente, il nostro contingente può essere dislocato solo per operazioni di eccezionale necessità e urgenza, senza bisogno di alcuna autorizzazione politica, per una scelta che può fare direttamente il comandante della missione. Si tratta di quelle che vengono definite in gergo in extremis operation”.
Qualora “in queste regioni, il comando ISAF, per specifiche e limitate operazioni in tempi ben definiti, chieda che il nostro contingente venga dispiegato” La Russa ricordava che, fino a quel momento, “il caveat prevede che si possa fare, purché ci sia l'ok delle autorità italiane. Il tempo che gli italiani si sono riservati per dare una risposta è di 72 ore” precisando che in “sostanza, non si è mai verificata, fino ad ora, una utilizzazione in questa direzione.”
Il Ministro sottolineava che, invece, “nell'ipotesi in cui ne avessimo bisogno, non avendo gli altri questi caveat, otterremmo in tempi immediati la disponibilità da parte di altri, sempre su richiesta del comando dell'ISAF” e che pertanto era necessario “che la risposta deve arrivare in tempi brevissimi: entro 6 ore anziché entro 72 ore.“
La Russa puntualizzava che “questa variante non deve portare a preoccupazioni in ordine ad un eventuale nuovo utilizzo del contingente (…)” e che “l'eventuale uso della forza da parte dei nostri militari avviene unicamente in funzione delle circostanze e in misura proporzionale alla situazione, nel rispetto del diritto internazionale, delle norme e degli usi sui conflitti armati, nonché delle leggi e dei regolamenti nazionali e in coerenza con quelli delle forze cooperanti. Non modificheremo assolutamente nulla della qualità di impiego dei nostri soldati.”
Il Ministro della difesa ammetteva “che da più parti, in via formale o informale, è pervenuta la richiesta di (…) poter già considerare disponibili all'impiego in altri quadranti i nostri soldati” ma che il Governo italiano aveva unicamente “modificato il termine temporale all'interno del caveat” e non “consentito che si aprisse una discussione su «caveat sì» o «caveat no».”
Il Ministro La Russa riconosceva infine che, con questa modifica, potrebbe “anche capitare che (…) avremo un effettivo maggiore impiego dei nostri soldati. D'altronde, non avremmo potuto evitarlo neanche con l'attuale previsione di 72 ore (…) perché da parte nostra sarebbe stato strano, a seguito di una richiesta urgente, aspettare 72 ore per rispondere.”
Nel quadro del processo di riforma della polizia afgana, il Consiglio dell’Unione europea ha predisposto, con l’azione comune 2007/369/PESC del 30 maggio 2007, un’attività di pianificazione connessa alla iniziativa PESD denominata European Police Afghanistan (EUPOL AFGHANISTAN).
La missione ha il compito di favorire lo sviluppo di una struttura di sicurezza afgana sostenibile ed efficace, in conformità agli standard internazionali. Tale iniziativa è finalizzata allo svolgimento delle attività di monitoring, training, advising e mentoring a favore del personale afgano destinato alle unità dell’Afghan National Police (ANP), e dell’Afghan Border Police (ABP). Essa prevede, per l’Italia, lo schieramento di uomini dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Attualmente sono presenti 12 carabinieri e 4 unità della Guardia di finanza.
La missione ha sede a Kabul (organismo di direzione) ed è previsto che operi a livello sia regionale (presso i 5 Comandi regionali della Polizia nazionale afgana) sia provinciale (presso i PRT).
Nel corso della riunione del Consiglio UE affari generali e relazioni esterne, tenutasi a Bruxelles il 26 maggio 2008, i ministri degli Esteri dei ventisette Paesi hanno deciso di raddoppiare da 200 a 400 il numero degli effettivi della missione.
In base alla nota aggiuntiva al bilancio di previsione del Ministero della difesa del marzo 2010, il contributo italiano alla missione EUPOL ammonta attualmente a 16 militari dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza.
Il 19 dicembre 2009 è stato presentato alla Camera bassa afghana il nuovo governo di Hamid Karzai, nel quale metà dei ministri erano già presenti nella precedente compagine che era stato oggetto di critiche e accuse in relazione a episodi di corruzione. Karzai ha confermato tutti i responsabili dei dicasteri-chiave, suscitando da subito una forte opposizione parlamentare. Il braccio di ferro è culminato il 2 gennaio 2010 con la bocciatura in Parlamento di 17 dei 24 ministri proposti dal presidente Karzai: il carattere prevalentemente interno alle dinamiche politiche afghane del risultato della votazione è attestato dal fatto che il Parlamento ha dato il via libera per i dicasteri i cui responsabili designati sono apparsi sostenuti dalla Comunità internazionale, come per il caso della Difesa e dell'Interno. Successivamente, il 4 gennaio Karzai ha firmato un decreto di revoca della pausa invernale dei lavori parlamentari - che sarebbe durata altrimenti fin oltre la metà di febbraio -, allo scopo di giungere più rapidamente al completamento dell'organico dell'esecutivo, e dunque all'inizio dell'azione di governo. E’ stato rilevato dagli osservatori il legame di questa accelerazione imposta da Karzai con la Conferenza di Londra del 28 gennaio 2010 sull'Afghanistan, alla quale il presidente intendeva evidentemente giungere con un governo nel pieno dei propri poteri. Il 16 gennaio il Parlamento ha nuovamente bocciato 10 dei 17 ministri ripresentatisi , ma in quella circostanza il presidente ha però ottenuto il via libera per alcuni importanti Dicasteri, qual gli Esteri, la Giustizia e l’Economia.
La Conferenza di Londra, tenutasi alla fine di gennaio, ha fatto emergere un orientamento favorevole all’inizio di un recupero alla vita civile dei combattenti inquadrati dai talebani, ma in molti casi stanchi e sfiduciati: a tale scopo è stato stanziato un Fondo di 140 milioni di dollari, quasi interamente a carico di Germania e Giappone, a valere sul quale – come ha rilevato il Ministro degli Esteri On. Frattini – saranno finanziati specifici progetti (l’Italia ha mostrato preferenza per la formazione dei diplomatici afghani). Un ruolo di primo piano nella mediazione nei confronti dei talebani è stato affidato alla monarchia saudita, che ha peraltro escluso da ogni trattativa i talebani che fossero in diretto collegamento con Al Qaeda. In questa cornice il Presidente Karzai ha inoltre annunciato la convocazione di una Loya Jirga di riconciliazione nazionale, e un inasprimento della lotta alla corruzione. Durante la Conferenza è stato ribadito da parte britannica e americana che nel 2010 inizierà il passaggio (assai graduale) alle forze nazionali afghane della responsabilità della sicurezza in determinati territori, destinato a completarsi, negli auspici della Conferenza, entro cinque anni. Già prima della Conferenza i dirigenti talebani avevano definito l’appuntamento di Londra una perdita di tempo.
Nonostante le speranze alimentate dalla Conferenza di Londra la situazione della sicurezza in Afghanistan è rimasta difficile: in gennaio vi è stata una serie di attentati nella capitale con un bilancio di oltre dieci morti e settanta feriti, mentre il 3 febbraio una pattuglia italiana è stata oggetto di un attentato mediante una bomba posta sul ciglio della strada al passaggio del blindato, fortunatamente senza serie conseguenze.
Il 13 febbraio è iniziata la più vasta offensiva della coalizione internazionale dal 2001, con largo impiego di uomini e mezzi, inizialmente per cacciare i talebani dalla roccaforte di Marjah e dal distretto di Nad Ali, nella provincia di Helmand. L’operazione denominata Moshtarak (“insieme” in lingua dari), che un portavoce del Ministero dell’interno afghano ha dichiarato conclusa il 4 marzo con la conquista di Marjah e la bonifica di parti del distretto di Nad Ali, ha avuto sostanzialmente successo ma, confermando le preoccupazioni preventivamente espresse da Karzai, non ha potuto evitare il coinvolgimento di alcuni civili. Il 7 marzo in visita a Marjah il Presidente afghano, accompagnato anche dal generale Stanley Mc Chrystal, ha incontrato circa 300 capi tribali dell’area ai quali ha chiesto appoggio politico promettendo la costruzione di infrastrutture civili.
Il 21 febbraio in un’altra area dell’Afghanistan un errore della NATO ha provocato 27 morti tra i civili che viaggiavano su un convoglio di minibus, scambiati per guerriglieri.
Una notizia positiva per la coalizione è venuta dalla capitale pakistana, ove i servizi di intelligence, in collaborazione con gli USA, avevano arrestato già il 7 febbraio il numero due dei talebani fedeli al mullah Omar, Abdul Ghani Baradar, con importanti compiti organizzativi militari e finanziari. Il 4 marzo le forze di sicurezza pakistane hanno arrestato Motasim Agha Jan, ex ministro delle finanze all’epoca del governo dei talebani (1996-2001), considerato dal Pakistan il numero sette nella lista dei “most wanted” degli Stati Uniti.
Va segnalato che la prosecuzione della missione NATO in Afghanistan è stata all’origine, il 20 febbraio scorso, della crisi del governo Balkenende, nei Paesi Bassi: i laburisti infatti hanno ritirato il loro sostegno all’Esecutivo in quanto contrari alla proroga di un anno richiesta dall’Alleanza atlantica al contingente olandese (le elezioni politiche anticipate si svolgeranno a giugno 2010).
In un attentato compiuto a Kabul nella giornata del 26 febbraio 2010 è deceduto il funzionario dell’Ambasciata italiana in Afghanistan Pietro Antonio Colazzo. Della serie di attentati suicidi coordinati compiuti nel centro di Kabul nella medesima giornata sono rimaste vittime 17 persone tra le quali almeno 9 cittadini indiani e un cittadino francese. In un Consiglio di sicurezza nazionale riunito il 28 febbraio da Karzai erano state per il momento respinte le dimissioni del capo della polizia di Kabul, generale Abdul Rahman Rahman, del suo vice, e del capo del Dipartimento anticrimine, generale Abdul Ghafar Seyedzada, incaricati di portare a termine le indagini sul gravissimo attentato di Kabul che, secondo una tesi prevalente sebbene non ufficiale, sarebbe da ricondurre all’azione di un commando venuto dall’estero e mirante a scoraggiare il coinvolgimento dell’India nella soluzione della crisi afghana.
Il 6 marzo la parlamentare Fozia Kofi, ex vicepresidente della Camera bassa afghana, è uscita illesa da un attentato di un gruppo talebano al convoglio che la accompagnava da Jalalabad verso Kabul, costato invece il ferimento di due guardie del corpo.
In un incontro ad Islamabad il 10 marzo, il presidente afghano Karzai ed il suo omologo pakistano Asif Ali Zardari si sono accordati per il rilancio del processo di una grande Jirga (Assemblea) congiunta a sostegno del processo di pace e riconciliazione proposto dal governo afghano. Secondo una sorta di road map concordata tra le due capitali, alla grande Jirga “consultativa” inizialmente convocata da Karzai a Kabul dal 29 aprile (e poi spostata a fine maggio) dovrebbe fare seguito una piccola assemblea (Jirgagai) e quindi una nuova grande Jirga a Islamabad. L’intento è anche quello di studiare il ruolo che le tribù pashtun residenti lungo la frontiera comune possono svolgere per arginare i talebani e al Qaeda.
Secondo il New York Times del 16 marzo, il generale McCrystal, comandante delle forze americane in Afghanistan, avrebbe deciso di assumere il controllo diretto dei reparti delle Forze speciali USA al fine di migliorare il coordinamento tra i reparti militari in campo e limitare gli incidenti che hanno frequentemente causato vittime tra i civili.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il 22 marzo la risoluzione 1917(2010) che proroga per un altro anno la missione UNAMA a capo della quale è stato da poco nominato Staffan de Mistura in sostituzione di Kai Eide. La risoluzione, approvata all’unanimità, ha accolto le considerazioni espresse nel Rapporto del Segretario generale dell’ONU del 17 marzo, nel quale venivano indicate tre grandi aree di intervento: il coordinamento della ricostruzione civile con il governo di Kabul; l'assistenza in vista delle prossime elezioni legislative; la riconciliazione con i Talebani moderati in seno alla Loya Jirga convocata nelle prossime settimane.
Si segnala infine lo svolgimento di un colloquio, avvenuto il 22 marzo, tra il presidente Karzai e una delegazione del movimento ribelle Hezb-i-Islami, guidato da Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra, comandante della guerriglia antisovietica ed ex primo ministro. Hizb-i-Islami è la seconda più grande fazione militare islamica di etnia Pashtun dopo i talebani, ma molto più piccola in rapporto ad essi. Tuttavia, un’intesa tra Hizb-i-Islami e il governo segnerebbe un punto a favore di Karzai e della sua politica di riconciliazione, anche se questo non significherebbe necessariamente un passo in avanti verso la possibilità di negoziare anche con i talebani. In un’audizione resa il 24 marzo davanti alla Camera dei rappresentanti, il segretario della difesa Robert Gates, reduce da una missione in Afghanistan, da un lato ha affermato che la riconciliazione politica è assolutamente necessaria e dall’altro che il governo Karzai si trova in una posizione ancora non sufficientemente forte per convincere i talebani che essi non possono prevalere.
I rapporti tra il presidente afghano e i paesi della coalizione hanno conosciuto un momento di tensione all’inizio di aprile, quando Karzai, nel corso di una conferenza stampa, ha accusato organismi internazionali (Onu), i paesi europei e le rappresentanze diplomatiche straniere a Kabul di aver organizzato i brogli elettorali in occasione delle elezioni presidenziali dell'agosto 2009 e che erano stati imputati agli ambienti vicini allo stesso presidente. Gli osservatori avevano sottolineato come la denuncia di Karzai fosse avvenuta subito la bocciatura, da parte del Parlamento afghano, di un decreto di riforma della legge elettorale volto a revocare la maggioranza di membri stranieri all’interno della Commissione di controllo delle elezioni Ecc; va rammentato che a settembre 2010 è previsto lo svolgimento delle elezioni legislative per il rinnovo della Wolesi Jirga.
Immediata la richiesta di chiarimenti da parte segretario di Stato Usa, Hillary
Clinton, alla quale Karzai - nel sostenere di essere stato frainteso - ha confermato la “gratitudine del popolo e del governo afghani per il sostegno e il sacrificio della comunita' internazionale per la pace in Afghanistan e nel mondo''.
La divisione del Parlamento tra Senato (Meshrano Jirga) che appoggia Karzai nel tentativo di emendare la legge elettorale, e camera bassa che, come accennato, lo ha respinto, ben rappresenta il clima di incertezza che caratterizza l’attuale quadro politico interno afghano.
Nonostante l’inquietudine espressa dall’Amministrazione americana per i commenti di Karzai sulle ingerenze occidentali nelle elezioni del paese il previsto incontro a Washington, tra i presidenti afghano e statunitense ha avuto luogo (11-14 maggio). Dopo le tensioni degli ultimi mesi, l’amministrazione Usa ha ribadito al presidente afghano di considerarlo ''un partner affidabile'' nella lotta contro l'estremismo radicale, ma a patto che anche l'Afghanistan faccia la sua parte, e cominci a pensare alla sua sicurezza in termini di ''transizione''. Nel corso degli incontri è stata ribadita l’importanza della piena collaborazione da parte del governo afghano sia per quanto riguarda la lotta alla corruzione, sia per quanto riguarda la percezione delle truppe da parte della popolazione. Karzai, per parte sua, ha assicurato l’impegno afghano nel rafforzamento delle istituzioni per progredire “verso il suo futuro a passi decisi''.
Nel frattempo, la più volte annunciata assemblea di pace (Jirga) dovrebbe svolgersi alla fine di maggio 2010 a Kabul; si tratta di uno strumento concepito dal capo dello Stato per dare sostanza al processo di pace nazionale, ed aprire una porta anche alla componente talebana, in cambio di una disponibilità ad abbandonare violenza, alla quale dovrebbero partecipare oltre 13.000 delegati da tutto il paese, in rappresentanza del complesso mosaico di interessi etnici, tribali e geografici.
Si segnala infine, che in un rapporto diffuso dal Pentagono alla fine di aprile, il governo Karzai conterebbe su seguaci e simpatizzanti soltanto nel 24% del territorio afghano ''d'importanza critica'', ovvero solo in 29 dei 121 distretti considerati strategici nella guerra ai Talebani e ad Al Qaida.
[1] S. Jones, Averting Failure in Afghanistan, in “Survival”, Spring 2006, pp.111-128 (nel sito dell’International Institute for Strategic Studieswww.iiss.org)
[2] La situazione in Afghanistan, “Osservatorio di politica internazionale”a cura del CeSPI, 16 dicembre 2008
[3] In www.hrw.org
[4] Per questa interpretazione cfr. ad esempio S. Silvestri, Che fare in Afghanistan, in www.affarinternazionali.it, 9 febbraio 2010
[5] Per questa interpretazione cfr. ad esempio S. Jones, Averting Failure in Afghanistan, in “Survival”, Spring 2006, pp.111-128 (nel sito dell’International Institute for Strategic Studies www.iiss.org) e N. Grono – C. Rondeaux, Dealing with brutal Afghan warlords is a mistake, Boston Globe 17 gennaio 2010, (nel sito dell’International Crisis Group, www.crisisgroup.org)
[6] Su questi aspetti cfr. La situazione in Afghanistan, “Osservatorio di politica internazionale”a cura del CeSPI, 16 dicembre 2008 e www.crisisgroup.org/Afghanistan
[7] Su questi aspetti cfr. La produzione di oppio in Afghanistan, “Osservatorio di politica internazionale” a cura dell’ISPI, 9 febbraio 2009.
[8] D. Giammaria, L’ago della bilancia dei negoziati in Afghanistan (26 marzo 2010) in www.affarinternazionali.it
[9] Cfr. Focus Mediterraneo e Medio Oriente, gennaio-marzo 2010, a cura del CESI.
[10] Fonte: Scheda notizie sulla partecipazione italiana alla missione NATO ISAF (aggiornata al 26 novembre 2009) in www.difesa.it
[11] Fonte: Notizie dal teatro sulla partecipazione italiana alla missione NATO ISAF (4 gennaio 2010) in www.difesa.it
[12] I caveat sono i limiti all'impiego delle forze nazionali nell’ambito di una missione militare internazionale. Le singole forze nazionali possono applicare tali limitazioni (caveat) alle regole generali dettate per tutti i contingenti della missione.