Allegato B
Seduta n. 217 del 4/10/2007

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INTERNO

Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):

I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere - premesso che:
in Italia l'aumento esponenziale del fenomeno dell'immigrazione da paesi di cultura islamica ha messo a dura prova le politiche di integrazione facendo emergere problematiche di diversa natura estremamente complicate e difficili da dirimere. Se da un lato è difatti connaturata alla storia democratica del nostro Paese una politica di integrazione e tolleranza, dall'altro lato non è più accettabile procrastinare interventi volti a garantire il rispetto della legalità da parte delle comunità musulmane presenti nel nostro territorio;
molti immigrati, superata la fase di adattamento e di risposta alle prime necessità di sopravvivenza, si trovano a dover scegliere a quale modello culturale fare riferimento. Questa doppia identità sfocia per molti di loro nell'odio ideologico e nel tentativo anche violento di affermare la superiorità delle proprie dimensioni culturali e di fede rispetto a un mondo che in termini storici non sentono proprio;
la strada da seguire è quella della presa di coscienza che in Occidente c'è una «cultura di riferimento» che non può accettare continue deroghe. In sostanza se si viene in Europa si viene alle nostre regole e non per portarne altre;
sempre più spesso, stando alle notizie pubblicate dagli organi d'informazione, ci troviamo dinnanzi a casi emblematici dove è facilmente riscontrabile da un lato il rifiuto di parte delle comunità musulmane presenti in Italia di rispettare le normative vigenti e di adeguarsi alla regole comportamentali e culturali del nostro Paese e dall'altro lato l'atteggiamento superficiale delle istituzioni che non comprendendone i rischi adottano semplicistiche soluzioni, mettendo conseguentemente in pericolo la sicurezza dei cittadini. Due casi emblematici ed esemplari in merito a quanto detto si sono verificati in questi giorni nel comune di Oggiono (Lecco) e nel comune di Moncalieri (Torino);
in occasione del periodo del Ramadan, l'amministrazione Comunale di Oggiono, provincia di Lecco, ha autorizzato la concessione all'utilizzo, per l'esercizio del culto, della sala istituzionale consiliare, alla comunità musulmana presente nel territorio;
il regolamento comunale prevede la possibilità discrezionale da parte dell'amministrazione di concedere la sala civica per fini di aggregazione, qualora i cittadini del comune ne facciano richiesta. L'interpretazione logica della disposizione del

regolamento, non può non essere inquadrata, nel senso di rendere fruibile ai cittadini la struttura istituzionale del Comune per lo svolgimento di attività connesse, direttamente o indirettamente, alla partecipazione attiva dei cittadini alla vita sociale della comunità. È ovvio per gli interpellanti quindi che appare un paradosso inaccettabile il rilascio di tale concessione per un fine strettamente privato, come può essere quello di un incontro di preghiera;
dalle indiscrezioni pubblicate sugli organi di stampa, si deduce che nei momenti di incontro della Comunità musulmana per l'esercizio del culto del Ramadan la sala consiliare, massima aula di rappresentanza popolare del comune, viene completamente modificata nel suo arredamento istituzionale, e trasformata di fatto in una moschea: tolte le sedute per lasciare il posto ai tappeti, coperti i simboli istituzionali e dell'appartenenza identitaria, tradizionale e spirituale, parte integrante e fondamento inscindibile della cultura nazionale (gonfalone, crocifisso eccetera);
in merito alla concessione della sala consiliare da parte del sindaco di Oggiono alla comunità musulmana per le celebrazioni del Ramadan si sono espressi anche i parroci di Oggiono e Imberido. I prevosti criticando la scelta dell'amministrazione comunale, attraverso dichiarazioni per mezzo stampa, hanno specificato che la loro presa di posizione non è dovuta ad una paura nei confronti dell'islam ed ad una discriminazione verso i fedeli musulmani ma, soltanto, ad un senso di profondo rispetto delle istituzioni nel loro ruolo di rappresentanza laica;
dal settembre 2004 nel comune di Moncalieri (Torino) all'interno di uno stabile adibito a centro commerciale, in un locale accatastato come magazzino, è sita una moschea abusiva;
da quanto si apprende dalle notizie pubblicate in questi giorni sugli organi di stampa, l'amministrazione comunale in risposta ad una interrogazione, presentata da alcuni consiglieri comunali di minoranza, ha ribadito che al momento l'attività svolta nella moschea di via Pininfarina (comune di Moncalieri) deve considerarsi illecita in quanto esercitata all'interno di locali realizzati per altri fini e altre destinazioni e privi conseguentemente delle necessarie autorizzazioni;
sono passati oramai tre anni dall'attivazione abusiva della moschea nel comune di Moncalieri ed ancora dagli atti ufficiali dell'Amministrazione Comunale non risulta nessuna azione volta al ripristino della legalità;
la zona in cui al momento sorge la moschea abusiva versa in uno stato di degrado sociale ed è fortemente a rischio marginalizzazione;
da quanto risulta dalle indiscrezioni riportate dai media, la comunità musulmana organizzata nel centro culturale islamico di via Pininfarina si sta attivando per realizzare la costruzione di una nuova moschea che dovrebbe sorgere su un area di 350 metri quadrati, sempre all'interno dello stesso edificio ad oggi occupato abusivamente;
la comunità islamica del comune di Moncalieri, attraverso la diffusione di materiale informativo sta cercando di sensibilizzare i fedeli al fine di raccogliere fondi per l'acquisto del locale. È ovvio che le ingenti risorse necessarie per la realizzazione di tale progetto non potranno essere accumulate secondo gli interroganti attraverso la donazione spontanea dei fedeli musulmani. È ipotizzabile infatti immaginare che dietro un così ambizioso progetto vi siano finanziatori ben più influenti. In virtù dell'antico principio del «chi paga comanda» è opportuno anche chiedersi chi finanzia la costruzione e il mantenimento delle moschee in Italia. Non è un segreto per nessuno, infatti, che gran parte delle moschee e dei centri islamici d'Europa vengono finanziati da Governi stranieri, in particolare l'Arabia Saudita, che impone anche imam di sua fiducia;

nel territorio della provincia di Torino sorgono già ben otto moschee e centri islamici. Questo dato è di fondamentale importanza per mettere in evidenza da una lato l'assenza di una reale necessità di edificare nuove moschee per garantire l'esercizio del culto ai musulmani presenti nel territorio e dall'altro il reale obiettivo di tali iniziative, ossia quello di perseguire la realizzazione del progetto politico-culturale di islamizzazione del Paese;
proprio le due principali moschee di Torino, di via del Cottolengo e via Saluzzo, recentemente sono state al centro di un inchiesta giornalistica andata in onda nella trasmissione televisiva Anno zero condotta da Michele Santoro. L'inchiesta giornalistica, grazie all'utilizzo di telecamere e microfoni nascosti, ha documentato la presenza in Italia di un radicato fondamentalismo islamico, che incita alla guerra santa, alla sottomissione delle donne e alla conseguente islamizzazione del nostro Paese;
è noto che la moschea, oltre ad essere sede di attività religiosa, diventa anche centro della vita sociale e politica della comunità musulmana;
l'Islam si presenta fin dalle origini come un progetto globale che include tutti gli aspetti della vita. Include un modo di vivere, di comportarsi, di concepire il matrimonio, la famiglia, l'educazione dei figli, perfino l'alimentazione. In questo sistema di vita è compreso anche l'aspetto politico: come organizzare lo Stato, come agire con gli altri popoli, come rapportarsi in questioni di guerra e di pace, come relazionarsi agli stranieri, eccetera. Tutti questi aspetti sono stati codificati a partire dal Corano e dalla sunna e sono rimasti «congelati» nei secoli. La legge religiosa determina la legge civile e gestisce la vita privata e sociale di chiunque vive in un contesto musulmano, e se questa prospettiva è destinata a rimanere immutata come è accaduto finora, la convivenza con chi non appartiene alla comunità islamica non può che risultare difficile;
per l'Islam «l'adunata per l'esercizio del culto» è la massima espressione di fede e in quel momento il leader della comunità musulmana, l'imam, rappresenta, in sintesi, quello che per noi sono insieme il vescovo, il sindaco e il preside di una scuola;
la legge islamica, rivolgendosi l'Islam a tutta l'umanità, è una legge personale e non dipende in nessun modo dall'elemento territoriale. La stessa nazionalità non è collegata, come avviene nella tradizione occidentale, allo jus sanguinis e allo jus loci, ma allo jus religionis, cioè, alla appartenenza ad una comunità di credenti che non le è legata all'esistenza di un entità statuale;
mentre oramai è palese a giudizio degli interpellanti che anche sul nostro territorio all'interno di alcune comunità islamiche si annidi la presenza di gruppi eversivi allo stesso tempo non è invece facilmente riscontrabile una collaborazione con le Forze dell'ordine e la magistratura da parte di quei musulmani che si dichiarano moderati e che continuano a chiedere diritti dimostrando la volontà di volersi integrare nella nostra società;
è stato più volte documentato da fonti giornalistiche che molto spesso, in occasione di funzioni religiose, gli imam predicano odio nei confronti della cultura occidentale e sentenziano condanne contro tutti coloro che non si comportano secondo i dettami coranici (inutile ribadire come questi, in molti casi, siano antitetici ai principi e ai valori su cui è fondata la nostra tradizione culturale e che come tali si ritrovano anche nella Costituzione italiana);
è necessario quindi ribadire come non vi potrà mai essere integrazione senza la preventiva accettazione da parte di tutta la comunità islamica del principio fondamentale della separazione inequivocabile tra la sfera laica e quella religiosa e delle normative vigenti in materia di libertà individuale e di pensiero, di obbligo scolastico, di autodeterminazione e di uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge, lo status giuridico o religioso delle donne, il rispetto del diritto di famiglia

e dell'istituto del matrimonio, dei minori e dei non credenti e il trattamento degli animali;
sul nostro territorio il fenomeno sociale della diffusione di centri islamici e moschee, in molti casi abusivi, sta subendo negli ultimi anni un allarmante crescita esponenziale e il caso del comune di Moncalieri rappresenta soltanto uno degli ultimi verificatosi in ordine cronologico;
l'assenza di azioni istituzionali volte a scoraggiare tale fenomeno ha conseguentemente portato alla diffusione di uno stato di illegalità nel quale le organizzazioni islamiche di matrice fondamentalista hanno potuto operare in piena libertà;
secondo gli interpellanti è necessario intervenire in tempi rapidi anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza per stabilire che le Regioni, in attuazione di quanto stabilito in materia di governo del territorio dal terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione, possano concedere l'autorizzazione per la realizzazione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto, per la ristrutturazione o il loro cambiamento d'uso, alle confessioni religiose che non abbiano stipulato intesa con lo Stato secondo quanto disposto dall'articolo 8 della Costituzione, solo previa presentazione da parte del richiedente di apposita domanda da presentare alla Regione interessata corredata di progetto edilizio, dal piano economico finanziario e dall'elenco degli eventuali finanziatori italiani o esteri, sottoscritta da un numero di aderenti all'associazione stessa con atto notarile e approvata mediante referendum da parte della popolazione del Comune interessato, secondo le disposizioni del relativo statuto comunale -:
quali provvedimenti il ministro intenda adottare, nell'ambito delle sue competenze, per garantire da un lato la sicurezza dei cittadini, il rispetto della legalità da parte delle comunità musulmane presenti in Italia, il rispetto del principio fondamentale della laicità dello Stato (che si manifesta anche, logicamente, nell'utilizzo delle sedi istituzionali esclusivamente quale luogo civile di rappresentanza di tutti i cittadini) e dall'altro lato il diritto all'esercizio del culto a tutte le confessioni religiose presenti nel nostro Paese.
(2-00773) «Bodega, Cota, Allasia».

Interpellanza:

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere - premesso che:
a proposito della manifestazione tenutasi a Bologna sabato 29 settembre 2007, (cosiddetto Rave), il Sindaco di Bologna ha pronunciato delle affermazioni che chiamano pesantemente in causa il Prefetto e il Questore di Bologna di fatto, ad avviso dell'interpellante, addebitando ai medesimi una sostanziale latitanza, incapacità o mancanza di volontà nell'impedire la manifestazione svoltasi con danno di cose e persone nonostante il divieto di svolgimento;
il Sindaco di Bologna ha dichiarato di non voler più partecipare al Comitato Provinciale per l'Ordine Pubblico ed ha preannunciato in un comunicato pubblico una lettera di protesta al Ministro dell'interno Amato;
appare lecito chiedersi se ai rappresentanti dello Stato sia stata data la necessaria copertura politica per reprimere con tutti i mezzi consentiti dalla legge atti contrari alla medesima, oppure se gli stessi siano stati lasciati a gestire la situazione interamente sotto la propria responsabilità;
la vicenda del CPT di via E. Mattei, i problemi di ordine pubblico connessi alla Moschea in zona CAAB, volutamente ignorati o sottovalutati dal Sindaco e dalla sua Giunta che comprende esponenti dell'Ultrasinistra i quali ad avviso dell'interpellante sono sempre disposti a trovare attenuanti e giustificazioni a comportamenti di fatto lesivi delle elementari regole di diritto, dimostrano dove risiedono i veri problemi e le responsabilità nella città di Bologna;

occorre peraltro dire che le titubanze di chi è preposto alla tutela dell'ordine pubblico non sono pienamente comprensibili e che di fronte al venir meno dei principi fondamentali dello Stato di diritto, lo Stato doveva intervenire anche ordinando la carica contro i manifestanti, colpevoli di avere violato precise disposizioni di legge;
evidentemente, ad avviso dell'interpellante, Prefetto e Questore sapevano di non avere la copertura del sindaco e del Ministro dell'interno, del quale sarebbe interessante conoscere l'opinione, ciò che appunto è lo scopo della presente interpellanza;
occorre che ci si renda conto da parte di tutti che la legge va rispettata, anche a costo di rischi evidenti, pena il venir meno del rispetto dei cittadini nei confronti della legge medesima -:
quale sia il parere del Ministro interrogato su quanto accaduto a Bologna, ed in particolare se condivida le accuse particolarmente gravi rivolte a Prefetto e Questore i quali, in questa vicenda, a parere dell'interpellante, si sono comportati correttamente, arginando la manifestazione (ed infatti, ci si chiede se, per impedire guai maggiori, dovessero forse caricare i manifestanti);
che cosa possano fare Prefettura e Questura quando il clima politicosociale della città di Bologna congiura contro ogni corretta iniziativa di repressione della violenza.
(2-00775) «Garagnani».

Interrogazioni a risposta orale:

NESPOLI. - Al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
nell'imminenza delle elezioni amministrative del maggio 2006 presso il comune di Castello di Cisterna i rappresentanti della lista civica «L'Aurora» segnalavano al prefetto di Napoli ed alle forze dell'ordine una serie di anomalie verificatesi nel corso delle consultazioni e del successivo spoglio;
in particolare si dava conto di episodi di schede vidimate e non votate portate fuori dai seggi, schede fotografate con il telefonino, e addirittura casi di sostituzione di persone;
è stata altresì segnalata la presenza e l'attività nella citata campagna elettorale e nell'imminenza delle elezioni di pregiudicati e personaggi notoriamente collegati ai locali clan camorristici Rega, Veneruso e Ianuale che avrebbero influito, secondo quanto consta all'interrogante, sul risultato elettorale;
la procura della Repubblica e la commissione d'accesso della Prefettura stanno accertando la sussitenza di fatti che possano comprovare ingerenze della criminalità organizzata nella gestione del comune, fatti peraltro più volte oggetto di denuncia da parte delle forze di opposizione;
l'Amministrazione di Castello di Cisterna è infatti, come risulta da vari articoli di stampa, al centro di scandali di varia natura tanto che in un articolo di stampa del 12 settembre 2007 si sostiene esplicitamente che «non c'è atto dell'amministrazione che non sia passato al vaglio degli inquirenti» -:
se non intenda intervenire per accelerare i lavori della Commissione di accesso nominata dal prefetto in modo da acquisirne rapidamente le risultanze e, qualora venissero confermati gli elementi di grave inquinamento della vita amministrativa indicati in premessa, se non intenda procedere allo scioglimento del comune di Castello di Cisterna ai sensi dell'articolo 143 del decreto legislativo n. 267 del 18 agosto 2000.
(3-01301)

NESPOLI.- Al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
il Ministero dell'Interno ed il Prefetto di Napoli risultano essere già stati precedentemente interessati circa una serie impressionante

di anomalie verificatesi prima, durante e dopo le recenti elezioni amministrative presso il Comune di San Giuseppe Vesuviano (Napoli);
tra queste, tra le più eclatanti, la nomina a scrutatore di parenti diretti e congiunti di candidati al Consiglio Comunale in liste collegate al candidato Sindaco, Sig. Antonio Agostino Ambrosio;
la stranissima disposizione di servizio da parte del preposto Dirigente comunale mediante la quale si disponeva l'impegno di ben due unità lavorative, dipendenti del Comune, presso i seggi elettorali e, tra questi, presso i Seggi elettorali n. 25 e 26, finanche del genitore, poi allontanato, di un candidato alla carica di Consigliere collegato al sindaco Ambrosio;
l'assunzione immediatamente prima la data delle elezioni amministrative, presso le ditte Coopgas e Gori, di soggetti poi risultati candidati a sostegno del sindaco Ambrosio;
ben 17 dei 20 candidati alla carica di Consigliere Comunale nella lista «MIMOSA» risultano inseriti negli elenchi di contratti di lavoro ex legge 328/2000 così come altri 60 candidati presenti in ognuna delle liste elettorali di supporto al Sindaco Ambrosio;
son stati eseguiti, alla vigilia delle elezioni, lavori di pavimentazione ed illuminazione stradale per centinaia di migliaia di euro anche presso terreni privati come nel caso di Via Masseria del Principe ove, alla presenza degli Agenti della Polizia Locale e dell'Arma dei Carabinieri, si è riscontrata la presenza e l'operatività di un mezzo di proprietà della ditta affidataria dei lavori di manutenzione alla viabilità comunale impegnata a realizzare lavori e manufatti in assenza di ogni preventiva e propedeutica concessione edilizia;
l'utilizzo, senza alcuna autorizzazione, da parte di candidati collegati al Sindaco Ambrosio di strutture comunali le quali, in fine, hanno riportato anche danni alle strutture ed alle suppellettili;
l'alienazione, brevi manu di beni demaniali a prezzi assolutamente sottodimensionati a favore di cittadini palesemente sostenitori della candidatura del Sindaco Ambrosio;
l'annosa, ed ormai nota anche agli Organi Prefettizi, vicenda dell'affidamento del servizio di smaltimento R.S.U. prima ad una ditta risultata interessata da infiltrazioni camorristiche così come comunicato all'Amministrazione Comunale, in data 5 agosto 2005, dalle Prefetture di Napoli e Milano e, poi, ad altra impresa non munita né dei mezzi, né degli indispensabili requisiti SOA per legge richiesti;
altre ambigue vicende sono legate all'espletamento di alcuni concorsi interni alla struttura del Comune di San Giuseppe Vesuviano;
questa serie di eventi di cui si fà cenno solamente in parte ha certamente condizionato la libera espressione democratica del voto popolare in occasione di quella tornata elettorale -:
quali improcrastinabili iniziative il Ministro dell'Interno intenda adottare al fine di fare piena luce sugli eventi accaduti, anche valutando l'opportunità di inviare presso il Comune di san Giuseppe Vesuviano la «Commissione di Accesso» così da restituire a quella Comunità il sacrosanto diritto di esprimere liberamente un diritto al voto finalmente legittimo e senza condizionamento esterno alcuno.
(3-01302)

Interrogazioni a risposta scritta:

DANIELE FARINA. - Al Ministro dell'interno, al Ministro per le politiche giovanili e le attività sportive. - Per sapere - premesso che:
a sei mesi dall'applicazione della delibera n. 14 dell'8 marzo 2007 dell'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni

Sportive, recante le procedure di ammissibilità di striscioni e bandiere, si può tracciare un primo bilancio, che è, senza dubbio, negativo;
le suddette procedure hanno prodotto, come primo risultato, un'impopolarità diffusa nei confronti delle istituzioni presso larghe fette di spettatori che si recano allo stadio, i quali non ne comprendono l'utilità nella lotta alla violenza;
i tifosi, già vessati dall'introduzione del biglietto nominativo, e dalle lunghe file che continuano a fare per assistere alle partite, si sono ritrovati a dover fare i conti con questa nuova rigidità procedurale che ha comportato, troppo spesso, il sequestro di strumenti di tifo inoffensivi;
alcuni tifosi sono in balia, quando vanno in trasferta, dell'interpretazione delle Questure competenti (in alcuni casi vengono sequestrate anche le magliette e le sciarpe), che spesso introducono nuovi e creativi divieti, producendo una forte disomogeneità nell'applicazione delle norme sul territorio nazionale;
molti gruppi ultras e club si sono rifiutati di seguire la procedura, particolarmente vessatoria, di mandare un fax con misure e contenuti degli striscioni la settimana prima della partita alla Società calcistica, che a sua volta lo gira alla Questura che decide quali e quanti striscioni possono entrare allo stadio;
queste forzature dell'Osservatorio hanno comportato un danno al tifo popolare, che si distingue per iniziative finalizzate alla promozione di uno sport pulito, contro ogni forma di discriminazione e razzismo;
la caratteristica comune a tutti gli stadi di oggi, a differenza di quanto avviene in tutto il resto d'Europa, è il clima di tristezza che ha soppiantato quello di festa e di divertimento. Senza bandiere, senza punti di riferimento per i cori (anche i megafoni sono proibiti) senza gli striscioni dei gruppi, goliardici ed ironici, senza le bellissime coreografie da derby, lo stadio in Italia perde una delle sue caratteristiche fondamentali e un fascino che tutta Europa ci invidiava, ripercuotendosi anche sui meccanismi economici che interessano il gioco del calcio;
migliaia di giovani che frequentano le curve, in questo modo sono stati privati della libera capacità di espressione attraverso creatività, colore e ed energie positive (tutto ciò che si può definire cultura popolare del tifo), aumentando così il rischio che, in alcune realtà sociali, l'unico ambito possibile di partecipazione attiva sia proprio quello che lo Stato sta cercando di combattere: l'aggressività e la violenza;
le misure speciali adottate per legge sono risultate inefficaci nella lotta alla violenza, non intervenendo sulla questione culturale ed educativa, come ci dimostrano gli incidenti nel recente derby di Genova, una volta famoso per la capacità delle due tifoserie di competere in maniera splendida attraverso coreografie, sfottò e striscioni ironici e, in ordine di tempo, quelli fuori l'olimpico di Roma con due tifosi interisti accoltellati e quelli nel derby di Torino;
si succedono ogni domenica casi paradossali di divieto di ingresso di striscioni e di persone nello stadio. Esempi significativi: i tifosi della Sampdoria non sono stati fatti entrare con uno striscione che recitava l'articolo 21 della costituzione; a Pisa ad un tifoso con le stampelle è stato vietato l'accesso in curva; a cinque ragazzi sono state combinate cinque diffide per un anno per aver organizzato una coreografia con lancio di 2.500 rotoli di carta igienica (motivo: «è infiammabile»); in quasi tutti gli stadi sono state sequestrate migliaia di sciarpe e bandiere con la dicitura «Ultras»; ad un bimbo di 5 anni è stata sequestrata la bandierina; a Roma non è stato autorizzato lo striscione «Addio Vanessa» dopo la morte della ragazza uccisa in metropolitana; un tifoso è stato diffidato per tre anni con obbligo di firma perché ha esposto uno striscione con la frase «A noi ce s'è rotto il fax»; uno zio che ha portato due nipotini, uno di tre e

uno di dieci, allo stadio per tre partite casalinghe, ha visto passarsi il più piccolo al metal detector e sottrarsi le sciarpe con scritto Ultras, dopo le tre partite sono stati i nipotini stessi a chiedere allo zio di non andare più allo stadio;
rimane inspiegabile la discrezionalità con cui si decidono gli ingressi degli strumenti del tifo: a Bologna controlli in curva di casa serrati su tutto il materiale recante la scritta «ultras» (dalla bandierina alla sciarpa e alla maglietta); a Genova sono tollerati i bandieroni, in altri stadi no; a Roma e a Napoli si chiude un occhio sugli striscioni dei gruppi di casa e si è fiscalissimi su quelli in trasferta;
la Ministra Melandri ha assunto ad agosto, dopo aver accolto le richieste del Comitato «Il tifo popolare nel calcio che vogliamo», precisi impegni per rivedere immediatamente le posizioni dell'Osservatorio in materia;
diverse componenti sociali e politiche insistono perché, superata la fase emergenziale, si apra una riflessione sul mondo del calcio e le dinamiche che lo attraversano, cominciando a prevedere interventi per la mediazione del conflitto, per un'educazione allo sport nelle scuole, per la rivalutazione del tifo popolare nel nostro Paese -:
se siano al corrente della situazione createsi dall'approvazione della legge ad oggi e se non sia il caso di promuovere un'indagine sull'effettiva applicazione e sull'efficacia della stessa, coinvolgendo tutti i soggetti interessati, compresi i tifosi;
se si siano attivati per dare delle risposte concrete alle richieste dei tifosi di poter esprimere, attraverso gli strumenti di tifo, i propri pensieri senza offendere nessuno;
se ritengano anch'essi necessaria una rivisitazione delle disposizioni dell'osservatorio e della legge, prevedendo un allentamento della repressione e favorendo percorsi di prevenzione attraverso interventi socio-educativi;
se siano d'accordo nel riconoscere il tifo popolare quale componente essenziale per un rilancio del gioco del calcio, rappresentando, attraverso le buone pratiche messe in atto, un elemento facilitatore di processi relazionali e socio-culturali positivi dentro e fuori gli stadi;
se, infine, siano consapevoli che da ormai un decennio la stragrande maggioranza degli episodi violenti avviene fuori e/o lontano dagli stadi e non all'interno degli impianti e che le misure restrittive riguardanti gli strumenti del tifo risultano essere assolutamente inefficaci, impopolari oltre che esageratamente punitive per l'intera categoria dei tifosi.
(4-05095)

ALEMANNO e TAGLIALATELA. - Al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
di recente un'indagine della Magistratura napoletana ha portato ad un provvedimento di sequestro preventivo dei banchetti mobili utilizzati per la esposizione e vendita di generi alimentari insistenti a Napoli, sull'area compresa tra Piazza Porta Nolana, via Carmignano, via Soprammuro, via Porta Nolana II e III traversa corso Garibaldi (il cosiddetto mercato di Porta Nolana);
tale provvedimento è giunto nell'ambito di un'indagine penale scaturita dall'esito di un intervento del N.A.S. nell'area mercatale e che ha portato ad una serie di denunce nei confronti di alcuni operatori che ponevano in vendita generi alimentari in condizioni igieniche a rischio;
le ragioni che hanno giustificato il sequestro dei banchi sono state ravvisate dall'Autorità Giudiziaria nell'esistenza di «una situazione di pericolo concreto ed attuale per le condizioni generali in cui versa l'area mercatale, registrandosi la presenza di condizioni igienico sanitarie allarmanti e determinanti un obbiettivo pericolo per la salute pubblica»; la stessa Autorità ha ritenuto non potersi «attendere i tempi burocratici per la risistemazione dell'area medesima» che, per i sottoscrittori

del presente atto, è assolutamente raggiungibile con interventi non trascendentali;
il Comune di Napoli, nel 2001 (deliberazione di C.C. n. 46 del 9 marzo 2001), si era dotato del piano commerciale per la individuazione dei mercati al dettaglio su aree pubbliche senza tuttavia dar luogo agli interventi di riqualificazione e di realizzazione delle attrezzature necessarie a garantire la piena funzionalità delle aree individuate escludendo, tra l'altro, l'area del mercato di Porta Nolana;
con successivo atto deliberativo di G.C. n. 2684 del 2 agosto 2007, il Comune di Napoli affermava che l'assenza del mercato di Porta Nolana dall'elenco approvato dal Consiglio Comunale dei mercati esistenti sul territorio cittadino sarebbe dipeso da un «mero errore materiale» tanto che, con l'atto deliberativo di G.C. n. 1929 del 17 maggio 2007, si provvedeva a proporre al Consiglio Comunale l'adozione di un atto correttivo;
negli anni seguenti, tuttavia, il Comune di Napoli, con una condotta di immobilismo totale, ha determinato le gravi condizioni di precarietà igienica che sono poste a base del provvedimento della Magistratura;
oltre alla mancanza di un qualunque intervento di pulizia delle fogne e delle caditoie, il servizio di rimozione dei rifiuti appare inefficiente, mentre non risultano interventi di disinfestazione e derattizzazione dell'area;
la mancata istituzionalizzazione del mercato di Porta Nolana ha fatto sì che gli operatori, certamente più di 100, negli anni non hanno mai potuto regolarizzare la propria posizione chiedendo la relativa autorizzazione amministrativa mentre quelli che erano titolari di vecchie autorizzazioni hanno subito, con provvedimento del Comune, la decadenza del titolo;
gli adempimenti che renderebbero agibile il mercato non sono ascrivibili agli operatori i quali si trovano così ad essere solo vittime incolpevoli dello stato di degrado in cui si è lasciato cadere il mercato di Porta Nolana;
oltre all'impatto fortemente negativo sul tessuto economico e sull'occupazione di una realtà come quella napoletana, il sequestro descritto ha compromesso anche un utile e richiesto servizio per la popolazione della zona di Porta Nolana che ha diritto ad un mercato pulito e sano ma anche regolarmente aperto;
la protesta dei venditori, che si sentono danneggiati, ha assunto il carattere dell'emergenza di ordine pubblico per la scelta di protestare attraverso blocchi stradali e l'occupazione dei binari della vicina Circumvesuviana;
l'Amministrazione Comunale, nonostante la grave situazione in cui ha messo queste famiglie, sembra non avere né la volontà né la capacità di assumere iniziative che possano da un lato rimuovere le cause dell'ordinanza della Procura e dall'altro emanare un provvedimento temporaneo per consentire la ripresa delle attività;
le condizioni igienico-sanitarie che la Magistratura ha rilevato nel mercato di Porta Nolana sono comuni a quasi tutti i mercati di Napoli sempre per l'incuria in cui il Comune tiene queste zone;
sempre più spesso nelle grandi città si sente il bisogno di regolamentare il commercio su aree pubbliche e soprattutto si avverte l'esigenza che i comuni garantiscano tutte le attrezzature ed i servizi necessari a sostenere adeguati livelli di condizioni igienico-sanitarie nei mercati a garanzia dei consumatori -:
quali urgenti iniziative, anche attraverso il Prefetto di Napoli, intenda assumere per evitare ulteriori possibili manifestazioni di protesta da parte dei commercianti contribuendo a individuare soluzioni alle problematiche descritte in premessa.
(4-05100)

PROVERA. - Al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
già a marzo 2007 con altra interrogazione è stato posto il problema delle condizioni operative della Polizia di Stato di servizio presso i valichi di frontiera di Paglino e Ponte Ribellasca nel Verbano Cusio Ossola;
purtroppo la situazione ad oggi risulta essere assolutamente invariata sia per la Polizia che per la Guardia di Finanza di servizio ai suddetti valichi al confine italo-svizzero che risultano essere i soli in Piemonte ad essere attualmente presidiati dalle Forze dell'Ordine che con dedizione svolgono i loro colpiti seppur in presenza di molte difficoltà di carattere logistico e di sicurezza personale;
la carenza di personale, il limitato numero di trasferimenti autorizzato in questi anni a chi opera in quelle sedi, l'assenza di adeguate strutture e servizi di conforto, sono le criticità con cui si confrontano i lavoratori destinati al delicato compito di vigilanza frontaliera: una missione sensibile eseguita tra freddo e lunghe trasferte automobilistiche;
a tutt'oggi i lavori di adeguamento delle postazioni richiesti dalla Prefettura nel 2004, e menzionati nella risposta alla precedente interrogazione, non hanno ancora avuto seguito;
gli stessi peraltro in molti casi assegnati da anni a questo servizio, senza che venga riconosciuta la condizione di sede disagiata, senza che vengano concessi i trasferimenti che, in alcuni casi, ormai da anni sono richiesti dal personale e senza che vengano ammessi nel frattempo incentivi a compensazione temporanea di tal disagio (nel caso della Polizia di Stato, il riconoscimento del lavoro straordinario per il tragitto percorso) come già, di fatto, avviene in altri valichi a parità di condizioni lavorative;
le suddette criticità sono per altro confermate da rappresentanti istituzionali che nel mese di luglio hanno visitato le postazioni in oggetto potendo così dialogare con il personale e i responsabili della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato nonché con i rappresentanti del COBAR e del SIULP Piemontese, e tali condizioni di disagio, risultano davvero essere estremamente gravose per chi ogni giorno svolge servizio in tali postazioni;
nel versante svizzero i controlli sono arretrati nel territorio facendo a meno di postazioni fisse ed aprendo di fatto alla circolazione;
le problematiche in questo territorio di confine, non si limitano alle sole forze dell'ordine che vi operano, ma si estendono a moltissimi cittadini residenti in Val Vigezzo, lavoratori frontalieri che ogni giorno attraversano il confine per recarsi al lavoro oltre Alpi e che ormai da anni, anche organizzandosi in un attivissimo comitato, chiedono l'apertura 24 ore su 24 del valico di Ponte Ribellasca, di norma invece regolarmente chiuso nelle ore notturne dalle 01,00 alle 05,00, e che di fatto crea un assoluto disagio che si aggiunge alle già critiche condizioni della Strada Statale 337 che porta al confine;
l'apertura del valico in questione è stata provvisoriamente concessa per il periodo estivo fino 15 settembre 2007, grazie all'incremento temporaneo del personale addetto al controllo;
nella risposta alla succitata interrogazione di marzo si rappresenta che l'adesione della Svizzera al Trattato di Schengen, approvata dai cittadini elvetici con voto referendario nel 2005, sarà operativa sì dal 2008 ma troverà applicazione concreta solo dal 1o novembre dello stesso anno lasciando di fatto ancora immutate queste gravi condizioni per lungo tempo;
le problematiche descritte in narrativa sono oggetto di una richiesta di incontro avanzata al Ministro interrogato dal Consigliere regionale del Piemonte Juri Bossuto -:
quali iniziative intenda attivare per affrontare la situazione nel suo complesso e quali interventi di adeguamento delle strutture intenda promuovere;

come intenda procedere per soddisfare le legittime richieste di trasferimento che da anni hanno avanzato questi lavoratori di Polizia e Guardia di finanza e se non valuti utile inoltre lo studio di una più generale regolamentazione che preveda una permanenza solo temporanea dei lavoratori in zone di servizio disagiate a cui faccia seguito un normale e regolare ricambio;
quali iniziative intenda intraprendere per garantire sin da ora il transito 24 ore del valico di Ponte Ribellasca che tanto migliorerebbe le condizioni di vita di centinaia di lavoratori frontalieri e delle loro rispettive famiglie residenti in Val Vigezzo.
(4-05107)

CATANOSO. - Al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
secondo quanto riporta un comunicato congiunto di tutte le sigle sindacali di Polizia, il Prefetto di Catania avrebbe comunicato l'intenzione del Ministero dell'interno di chiudere la caserma «Cardile» di Catania in attuazione del cosiddetto «Patto per la Sicurezza», siglato dal vice Ministro dell'interno Minniti con il sindaco ed il presidente della Provincia di Catania;
in ottemperanza a tale Patto, il Prefetto ed il Questore di Catania hanno presentato un piano che prevede il rilascio immediato della caserma «Cardile» ed il collocamento degli alloggiati presso un reparto dell'Ospedale «Tomaselli» e presso la Scuola di Polizia Penitenziaria di S. Pietro Clarenza, mentre gli uffici verrebbero «trasferiti» nel garage della Questura di Catania;
a giudizio dell'interrogante, condividendo quanto denunciato dai rappresentanti sindacali, la decisione del ministro risulta scellerata e dannosa per il livello di sicurezza generale della città;
la caserma «Cardile» è una struttura efficiente ed è un valido presidio per la sicurezza del centro storico della città ed è strategico anche per il reparto della Squadra Mobile mentre non se ne avvede l'utilizzo, ai fini della sicurezza generale e dell'ordine pubblico catanese, da parte della Provincia regionale di Catania;
le sigle sindacali tutte, come il Sindacato Italiano Appartenenti Polizia, la Federazione Sindacale di Polizia dell'Ugl ed il Coisp hanno già proclamato lo stato di agitazione e sono pronti a mettere in campo tutte le azioni che riterranno più opportune per il bene della città e della sicurezza dei suoi cittadini -:
se quanto riferito in premessa corrisponda al vero e se sia intenzione del ministro interrogato proseguire nella sua decisione di chiudere la caserma «Cardile».
(4-05115)

FRIAS, DE ZULUETA, FRANCO RUSSO, VENIER, VACCA, SINISCALCHI e MASCIA. - Al Ministro dell'interno, al Ministro degli affari esteri. - Per sapere - premesso che:
il governo eritreo è accusato di gravi violazioni dei diritti umani da Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters sans Frontières, Nazioni Unite, Ahcs, Aiei, Ahei, Asper, Mossob, Asdge, Pde, oltre che dalla stessa Unione europea. Nonostante il patto di non belligeranza firmato congiuntamente da Eritrea ed Etiopia ad Algeri nel 2000, lo stato di guerra di fatto continua dal 1998. Ragazzi e ragazze, raggiunta la maggiore età, sono obbligati alla coscrizione militare a tempo indeterminato e i disertori sono puniti col carcere. Nel giugno 2005, sono stati fucilati 161 tra ragazzi e ragazze, accusati di diserzione, essendo scappati dalle caserme. Negli ultimi mesi la polizia eritrea sta procedendo agli arresti, ad Asmara, dei familiari dei giovani fuggiti dall'esercito. Le famiglie sono costrette a pagare somme ingenti per evitare il carcere. Vengono inoltre perseguitati giornalisti, obiettori di coscienza, uomini politici e leader religiosi. Nel 2001 in Eritrea sono stati incarcerati senza processo 11 ministri: chiedevano che fosse approvata in Parlamento la costituzione

già da tempo elaborata. Nulla si sa della loro sorte. È vietata la costituzione di organismi politici di opposizione. L'Università di Asmara è stata chiusa e molti dei suoi studenti e insegnanti sono detenuti. I giornali non governativi sono stati chiusi e molti giornalisti arrestati. Viene regolarmente praticata la tortura nelle prigioni. Il Patriarca Ortodosso Antonios è stato rimosso dalla sua posizione il 13 gennaio 2006 per aver criticato le ingerenze governative nelle attività della Chiesa. Antonios, che allora era stato posto agli arresti domiciliari, è stato recentemente trasferito ad una destinazione detentiva ignota;
secondo i dati del Ministero dell'interno, dei 22.016 cittadini stranieri entrati illegalmente sulle coste italiane nel 2006, ben 2.859 erano eritrei. E delle 10.438 richieste d'asilo politico presentate nello stesso anno, il 20,8 per cento erano di eritrei. E secondo l'Acnur, il 60 per cento dei richiedenti asilo politico arriva via mare, dal 2000;
per raggiungere la Sicilia, gli eritrei si imbarcano dalle coste occidentali della Libia, tra Tripoli e Zuwarah, come accertato dalle testimonianze degli eritrei e documentato dal sito fortresseurope.blogspot.com e da altri siti delle principali agenzie umanitarie come Human Righs Watch ed Amnesty International;
nel corso di operazioni di contrasto all'immigrazione clandestina verso l'Ue, in Libia sono stati arrestati 1.451 cittadini stranieri nel solo mese di giugno 2007 e 2.137 nel mese di maggio 2007. Rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch, Afvic, Fortress Europe, e lo stesso «Rapporto sulla missione tecnica in Libia dell'Unione europea» (dicembre 2004) denunciano gravi abusi commessi dalle autorità libiche ai danni dei migranti: arresti arbitrari, detenzioni senza processo, maltrattamenti, violenze sessuali e torture nei centri di detenzione dei migranti, spesso sovraffollati e insalubri. Gli stessi rapporti denunciano il rimpatrio di potenziali rifugiati politici nei paesi di origine, come pure il riaccompagnamento forzato alla frontiera sud della Libia con il Niger e con il Sudan, dove migliaia di migranti ogni anno sono abbandonati in pieno deserto;
secondo i rapporti di Amnesty International, Fortress Europe, Habeshia e Islamic Human Rights Commission, oltre 600 cittadini eritrei arrestati nel corso di operazioni di polizia contro l'immigrazione clandestina in Libia, sono detenuti da oltre un anno nel transit center di Misratah, in Libia. La notizia è confermata dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Le persone sono state arrestate in mare, al momento dell'imbarco o durante retate a Tripoli. La situazione sanitaria nel centro, estremamente sovraffollato, è allarmante, con casi di scabbia e tubercolosi. Tra i detenuti si contano più di 100 donne e almeno 50 bambini, di cui due nati in carcere negli ultimi mesi. Durante le prime settimane di detenzione alcune donne sono state stuprate. I detenuti rischiano tutti l'espulsione. 114 dei detenuti sono titolari dello status di rifugiato politico, riconosciuto loro dalle missioni Acnur in Sudan e in Etiopia e quindi inespellibili in virtù della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite (mai sottoscritta dalla Libia) e della Convenzione sui rifugiati dell'Unione africana (che la Libia ha invece sottoscritto). Altre 49 delle donne con bambini sono state riconosciute rifugiate durante una visita dell'Acnur nel centro di Misratah all'inizio di agosto 2007. Quattro Paesi, tra cui l'Italia, si sarebbero detti interessati ad accoglierle;
il 27 agosto 2004, un aereo partito da Tripoli per rimpatriare 75 eritrei venne dirottato dagli stessi a Khartoum, in Sudan. 60 dei 75 passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite;
secondo il Rapporto della missione tecnica in Libia dell'Unione europea (dicembre 2004), l'Italia avrebbe pagato le operazioni di rimpatrio aereo da Tripoli nei rispettivi paesi di origine di 5.524 cittadini di Paesi terzi, imbarcati su 47 voli della Air Libya Tibesti e della Buraq Air,

tra il 16 agosto 2003 e il dicembre 2004. Uno di quei voli era diretto ad Asmara, in Eritrea, con 109 eritrei a bordo;
secondo lo stesso Rapporto, tra il 2003 e il 2004, l'Italia ha fornito alla Libia 100 gommoni, 6 fuoristrada, 3 pullman, 40 visori notturni, 50 macchine fotografiche subacquee, 500 mute da sub, 150 binocoli, 12.000 coperte di lana, 6.000 materassi e cuscini, 50 navigatori satellitari, 1.000 tende da campo, 500 giubbotti di salvataggio e 1.000 sacchi per cadaveri. L'Italia, continua il rapporto, avrebbe finanziato anche la costruzione di due strutture, a Sebha e a Kufrah, sulle quali ha riferito in risposta a una recente interpellanza parlamentare il sottosegretario Marcella Lucidi;
tra settembre e ottobre del 2002, Malta rimpatriò 223 cittadini eritrei. Tornati in Eritrea, furono detenuti e torturati. Lo hanno testimoniato ad Amnesty Intemational i pochi riusciti a evadere, oggi rifugiati politici nel Nord America e nei Paesi scandinavi. Trattenuti prima nella prigione di Adi Abito e poi, in seguito a un tentativo di fuga, nel carcere di massima sicurezza di Dahlak Kebir, alcuni sono stati uccisi;
il 19 gennaio 2007, commentando i dati degli arresti in Libia dei candidati all'immigrazione clandestina, il Ministro dell'interno Giuliano Amato parlava di «buoni frutti» della collaborazione tra Italia e Libia. Ancora più recentemente, 11 giugno 2007, il Ministro ha chiesto a chiare lettere la partecipazione della Libia ai pattugliamenti aeronavali congiunti dell'agenzia Frontex nel Canale di Sicilia, per «impedire l'uscita dai porti delle navi»;
il 18 settembre 2007, l'Adnkronos/Aki ha battuto la notizia secondo cui l'Unione europea, su mandato dei ministri dell'Interno, avvierà i negoziati con la Libia per la cooperazione sul controllo della frontiera Sud del paese. Il ministro Amato, sempre secondo l'agenzia ha commentato così la decisione «si tratterà di fornire alla Libia un sistema di sorveglianza elettronica del confine meridionale» come già dall'accordo di massima preso alcuni mesi fa dal commissario alle Relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner con le autorità libiche dopo la conclusione della vicenda delle infermiere bulgare e del medico palestinese incarcerati per anni in Libia. Il ministro ha poi dichiarato che il mandato è stato ottenuto «dopo che io l'ho proposto e il vicepresidente della Commissione europea Franco Frattini mi ha espresso il suo appoggio». Le prassi di respingimento collettivo in mare introdotte in base al decreto interministeriale del 14 luglio 2003, in attuazione della legge Bossi-Fini, possono derivare da decisioni delle autorità politiche, che si sovrappongono agli interventi umanitari e di salvataggio, ponendosi in contrasto con il diritto internazionale del mare e con i divieti di respingimento affermati dall'articolo 19 del testo unico sull'immigrazione. In questo modo si alimenta il rischio di nuove stragi. Queste prassi amministrative possono costituire una gravissima lesione del diritto di asilo, riconosciuto a livello internazionale e dalla Costituzione italiana;
in base alla Convention on Maritime Search and Rescue (SAR) del 1979, si impone a tutti, mezzi militari e commerciali, un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare regardless of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found, stabilendo altresì oltre l'obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un «luogo sicuro». È dal momento dell'arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione, eccetera). Con l'entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all'annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli -

viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, i cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso. Per quanto detto in precedenza la Libia non può essere considerata un luogo sicuro;
l'articolo 3 della Convenzione contro la tortura dell'Onu vieta l'espulsione di persone che rischiano torture o trattamenti degradanti nel Paese di origine. Il principio di non espulsione dei rifugiati è sancito dall'articolo 33 della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite e dell'Unione africana. Gli articoli 4 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali, vietano torture e trattamenti degradanti, ed espulsioni collettive o in Paesi dove gli espellendi rischiano la tortura;
il Libro verde sul futuro regime europeo in materia di asilo, presentato dalla Commissione europea nel giugno scorso, ribadisce che i flussi migratori sono ormai «flussi misti», composti in altri termini da richiedenti asilo, oltre che di migranti economici. Un dato confermato dall'Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. La Commissione europea ricorda come occorra «migliorare l'effettivo accesso alla possibilità di presentare una domanda di asilo» e quindi ottenere protezione internazionale nel territorio dell'Ue-:
quali rapporti siano intercorsi e intercorrano, dalla fine del 2004 ad oggi, tra l'Italia e la Libia in materia di cooperazione per il contrasto dell'immigrazione clandestina, e in particolare se l'Italia abbia finanziato voli di rimpatrio per l'espulsione di cittadini di Paesi terzi dalla Libia, se l'Italia abbia finanziato sedute di formazione delle forze armate libiche, se l'Italia abbia fornito fondi e/o materiale tecnico alla Libia per le operazioni di pattugliamento, se l'Italia collabori con la Guardia costiera libica e/o con la Marina militare libica in operazioni di soccorso in mare;
se l'Italia concederà dei visti di ingresso ai rifugiati politici eritrei detenuti a Misratah, con particolare riguardo alle donne e ai minori non accompagnati;
se l'Italia intenda fare pressioni diplomatiche sulla Libia, per impedire il rimpatrio dei 600 eritrei, che in Eritrea rischiano torture e trattamenti degradanti;
quali garanzie offra il Ministero dell'interno circa il rispetto dei diritti umani dei migranti in Libia se la Libia dovesse accettare di partecipare ai pattugliamenti aeronavali congiunti di Frontex, accettando quindi di riammettere sul suolo libico tutti i migranti fermati nelle acque libiche del Canale di Sicilia, alla luce delle gravi denunce dei rapporti sopra citati.
(4-05116)