XV LEGISLATURA
Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 119 di lunedì 5 marzo 2007
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI
La seduta comincia alle 14.
ANTONIO MAZZOCCHI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 27 febbraio 2007.
(È approvato).
Missioni.
PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, i deputati Albonetti, Amato, Bersani, Bindi, Boato, Bonino, Capodicasa, Catone, Cesario, Chiti, Colucci, D'Alia, D'Antoni, Damiano, De Angelis, Francesco De Luca, De Piccoli, Di Gioia, Di Pietro, Donadi, Fioroni, Folena, Forgione, Franceschini, Galante, Gentiloni Silveri, Giuditta, Grimaldi, Iacomino, Iannuzzi, Landolfi, Lanzillotta, Levi, Lomaglio, Mascia, Melandri, Meta, Minniti, Morrone, Leoluca Orlando, Parisi, Pecoraro Scanio, Camillo Piazza, Pisicchio, Pollastrini, Prodi, Ranieri, Rugghia, Paolo Russo, Rutelli, Saglia, Santagata, Santelli, Sgobio, Tremonti, Violante, Visco, Elio Vito e Zaccaria sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente sessantaquattro, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali (A.C. 2193-A) (ore 14,03).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali.
(Discussione sulle linee generali - A.C. 2193-A)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari L'Ulivo e Forza Italia ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, presidente Ranieri, ha facoltà di svolgere la relazione.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, nella riunione delle Commissioni affari esteri e difesa si è svolta un'intensa e utile discussione - preceduta anche da audizioni di numerosi soggetti, il cui pensiero era utile per valutare l'andamento delle nostre missioni all'estero e giungere ad un voto sulla Pag. 2base di una conoscenza dei vari aspetti della situazione - che consente, a nostro giudizio, la prosecuzione degli interventi di natura civile e militare volti a garantire la stabilizzazione e la ricostruzione istituzionale di diverse aree di crisi del mondo, dall'Afghanistan al sud del Libano ai Balcani.
Credo sia importante ricordare, prima di tutto, che l'impegno dei militari italiani in operazioni internazionali avviene in conformità ai principi costituzionali e a quanto previsto dai trattati stipulati dal nostro paese. La nostra partecipazione a missioni militari trova legittimità nel rispetto integrale dell'articolo 11 della Costituzione, un articolo che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, consentendo al nostro paese l'assunzione di responsabilità in missioni decise dalle Nazioni Unite. Insomma, i nostri militari - dai Balcani all'Afghanistan - operano in base al principio, codificato nella Carta delle Nazioni Unite, che vieta l'uso della forza contro l'integrità di qualsiasi Stato e lo considera ammissibile solo se intrapreso per legittima difesa o su autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A questi principi si uniforma il nostro paese quale membro delle Nazioni Unite e, per i prossimi due anni, membro non permanente del Consiglio di sicurezza, nonchè quale paese fondatore della Comunità europea e membro della NATO.
Del resto, l'appartenenza agli organismi internazionali costituisce la dimensione naturale della politica estera italiana ed in tale appartenenza trova fondamento lo specifico interesse nazionale italiano a valorizzare la dimensione multilaterale, una dimensione che costituisce - è stato ricordato in più occasioni - l'asse della politica estera seguita dal Governo del nostro paese, una politica estera che si sforza di riportare al centro dell'azione multilaterale la dimensione europea, di quell'Europa di cui l'Italia è membro autorevole.
Noi lavoriamo per un'Europa unita, politicamente salda, in grado di assumersi responsabilità sulla scena del mondo globale, nel quadro degli orientamenti delle Nazioni Unite. In questo quadro generale, l'azione concreta delle missioni italiane nei vari teatri ha mirato a rendere possibili interventi di ricostruzione civile, istituzionale, interventi umanitari in realtà sconvolte dalle conseguenze di crisi che spesso si sono trascinate a lungo rimanendo irrisolte, o in missioni volte a garantire il rispetto di accordi che ponevano termine a conflitti.
Ecco perché vorrei esprimere, come in molte occasioni è accaduto in questa Camera, un forte apprezzamento per i militari italiani che hanno profuso, in questi anni, il massimo impegno per realizzare obiettivi di pacificazione e di stabilizzazione; mi auguro sempre che le nostre discussioni che hanno al centro valutazioni e giudizi sulle missioni tengano conto di questo lavoro e dei risultati che esso ha consentito di raggiungere.
Vorrei svolgere, a questo punto del mio intervento, alcune considerazioni di politica estera connesse con la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali. Penso che non sia semplice orientarsi di fronte al caotico mondo nel quale siamo immersi dopo la fine della «guerra fredda».
Parto, in queste considerazioni, da un bilancio sul cosiddetto contrasto globale, o guerra globale, al terrorismo, che ha caratterizzato la vicenda internazionale nel corso di questi anni, in particolare dopo l'11 settembre 2001. Le classi dirigenti più avvertite, sia dell'Europa sia degli Stati Uniti, si interrogano su come siano andate le cose nel contrasto al fenomeno del terrorismo e su questo punto si concentrano le analisi di uomini politici, di accademici, di studiosi sulle due sponde dell'Atlantico. Per fare una sintesi, che certamente non consente una valutazione approfondita di questioni di tale delicatezza, e pur non volendo sottovalutare i risultati raggiunti nel corso degli ultimi anni nel contrasto al terrorismo, penso che non debbano essere sottaciuti i limiti, le contraddizioni e gli aspetti non accettabili Pag. 3che, nel corso di tale lotta contro il terrorismo, si sono manifestati negli ultimi anni.
Dinanzi alla necessità di un bilancio, alcuni fatti emergono in modo molto evidente ed occorre tenerne conto scrupolosamente. La questione irachena rimane aperta oggi più che mai, mentre sul futuro di quel paese si allargano, sempre più sinistre, le ombre di un infinito dopoguerra. I gruppi terroristici che si rifanno al fondamentalismo islamico continuano a rappresentare una minaccia letale per la stabilità internazionale e le posizioni più radicali in termini politico-religiosi hanno aumentato la propria capacità di proselitismo in Medio Oriente e nell'universo musulmano. L'area che rappresenta l'epicentro dell'instabilità nel mondo globale, il grande Medio Oriente, conosce conflitti e tensioni acuti. Il quadro, nell'ambito del quale giungere a una valutazione e ad un bilancio relativamente a come sono andate le cose in questi anni, è molto complesso, quindi, e sbaglieremmo a non vedere le ombre, i problemi aperti e le contraddizioni.
Non intendo avventurarmi in un'analisi retrospettiva, che pure sarebbe utile per capire come sono andate le cose, dal 2001 ad oggi. Certamente, credo che nello svolgimento della lotta al terrorismo abbia pesato negativamente l'indirizzo unilaterale che, negli anni immediatamente successivi all'11 settembre 2001, ha caratterizzato la politica estera statunitense. Mi riferisco a quella strategia verso la quale si orientarono gli Stati Uniti, i quali sottostimarono le valutazioni delle Nazioni Unite e ridimensionarono il ruolo degli alleati e della stessa Unione europea. Del resto, è proprio in questo contesto di sottovalutazione della dimensione multilaterale che si giunse a quello che, a mio avviso, è stato il più grave errore della politica estera degli Stati Uniti dagli anni difficili e dolorosi del Vietnam, cioè la decisione del ricorso alla guerra unilaterale in Iraq. Questa scelta fu all'origine di incomprensioni e tensioni tra gli Stati Uniti e alcuni paesi dell'Unione europea. Nel corso di questi anni, il confronto tra paesi europei e Stati Uniti ha ruotato intorno ai caratteri che la lotta contro il terrorismo ha progressivamente assunto. Da parte europea si è sottolineata sempre di più l'esigenza che tale lotta non si esaurisse soltanto nell'uso della forza militare e che il ricorso alla stessa si collocasse nell'ambito di una strategia più ampia, di natura politica, diplomatica, economica e culturale, proprio per contrastare il rischio che si determinasse una scissione fra le dimensioni diverse che la lotta contro il terrorismo deve avere, cioè la dimensione politica, quella economica e quella militare. È apparso sempre di più evidente il rischio che a prevalere, fino ad esaurirsi in essa, fosse la dimensione militare.
Alla luce delle vicende di questi anni, noi crediamo che l'unilateralismo abbia mostrato la corda e non sia apparso all'altezza di una strategia capace di affrontare i problemi, le sfide e le minacce che stanno dinanzi alla comunità internazionale. Del resto, ci pare che anche in settori dell'amministrazione americana si faccia strada questa stessa consapevolezza. Noi lavoriamo affinché, di fronte ai problemi con cui dobbiamo fare i conti e nella stessa lotta contro il terrorismo, a prevalere sulla scena internazionale sia un approccio multilaterale nell'ambito del quale il rapporto tra gli Stati Uniti e gli alleati, in particolare gli Stati europei, sia equilibrato.
Insieme alla consapevolezza del valore e della portata strategica della relazione euroatlantica e della necessità di un ruolo certo degli Stati Uniti, vi deve essere anche il riconoscimento del ruolo dell'Europa, che di quelle relazioni euro-atlantiche deve costituire un pilastro da considerare e rispettare nella sua capacità di iniziativa e di valutazione politica.
In questo contesto - mi avvio a concludere - si colloca la nostra riflessione sulla missione in Afghanistan, un paese aspro e difficile, che è stato soggetto e oggetto di drammatiche vicende belliche nel corso degli ultimi secoli.
La sconfitta del regime talebano ha aperto in quel paese una difficile fase di Pag. 4ricostruzione delle istituzioni e del tessuto sociale. Noi non sottovalutiamo alcun risultato ottenuto nel corso di questi anni (dai progressi compiuti nella ricostruzione istituzionale, al ritorno a scuola di tanti bambini), ma sbaglieremmo se tacessimo delle difficoltà, dei rischi e degli errori. Occorre dirsi la verità: in Afghanistan oggi il livello di corruzione resta molto elevato; il confine tra legalità ed illegalità è difficile da percepire; la produzione di oppio, lo scorso anno, ha conosciuto un incremento del 50 per cento rispetto all'anno precedente; gli introiti del narcotraffico hanno alimentato la corruzione e finanziato i signori della guerra.
Sembra impossibile, ma si legge che nelle province del sud si ricomincia a guardare favorevolmente addirittura ai talebani e il fatto più preoccupante è che strati della popolazione locale manifestino segni di insofferenza verso le istituzioni che faticosamente si è cercato di costruire in quel paese. Del resto, la permanenza di uno stato di grave povertà e la mancanza di sicurezza sono fattori che pesano.
In una situazione del genere, sarebbe suicida sostenere che occorre mandare più soldati e tirare avanti, ma nessuno è tanto folle da ritenere che in Afghanistan la stabilizzazione possa essere perseguita senza la presenza di una solida forza militare multinazionale e, anche per questo, il contingente militare italiano nel quadro delle Nazioni Unite, che opera nell'ambito di una missione voluta dalle Nazioni Unite sotto comando NATO, non potrà che continuare ad assolvere al proprio compito a Kabul e ad Herat.
Tuttavia, il punto dal quale muovono le nostre considerazioni è che ormai è evidente che non c'è una soluzione militare della crisi afghana. Avvertiamo l'esigenza di ripensare la strategia finora adottata dalla comunità internazionale, per lo meno in due direzioni. In primo luogo, occorre accrescere mezzi e risorse da destinare alla ricostruzione economica e civile del paese e intensificare la lotta al narcotraffico. La droga è diventata per molte famiglie l'unica possibilità di sopravvivenza e non si convince un contadino afghano a passare dalla coltivazione dell'oppio all'ortofrutta con le parole. Lo si potrà persuadere solo con un sostegno finanziario, garantendogli la sicurezza dal narcotraffico.
Sappiamo che l'ipotesi di una produzione controllata di oppio per uso medicinale e sanitario non è condivisa dalle stesse Nazioni Unite e che, comunque, è una questione controversa su cui si discute. Noi non escludiamo, però, che in questa direzione una ricerca ulteriore debba essere perseguita con serietà e sulla base di dati fondati.
L'altro aspetto che si accompagna alla decisione di mantenere le nostre forze militari in Afghanistan è l'impegno del Governo italiano a proseguire nel lavoro politico e diplomatico per organizzare una conferenza internazionale sull'Afghanistan, con l'obiettivo di coinvolgere nel processo di stabilizzazione anche i grandi paesi ad esso limitrofi. Non è facile, come abbiamo visto negli scorsi mesi quando la proposta italiana si è scontrata con forti resistenze. Tuttavia, il Governo italiano intende continuare a lavorare affinché maturino le condizioni politico-diplomatiche per svolgere la conferenza. Traggo fiducia nella possibilità favorevole dall'annuncio di incontri negoziali imminenti che porteranno allo stesso tavolo, per quanto riguarda l'Iraq, americani, siriani, iraniani, insieme ad altri partecipanti. Mi pare il segno importante di una possibile evoluzione positiva in quel tormentato paese.
Allora, perché non riflettere anche sul valore che l'avvio di contatti negoziali di tale natura potrebbe avere anche sull'Afghanistan, pur sapendo bene che un problema specifico in quella realtà è il rapporto tra Afghanistan e Pakistan? Comunque, in un contesto negoziale come quello auspicato dal Governo italiano, potrebbe essere affrontato anche un tema di questo tipo.
Nel decreto-legge sono presenti i finanziamenti per la missione in Libano. Abbiamo ampiamente parlato in Assemblea del Libano e della novità che rappresenta un'assunzione di responsabilità delle Nazioni Unite in quella realtà, con una forte Pag. 5presenza europea nella missione che opera nel sud del paese. Ciò è molto importante, perché, da un lato ha prodotto con il «cessate il fuoco» risultati efficaci e una situazione di relativa stabilizzazione e, dall'altro, apre una prospettiva di ripresa del multilateralismo.
Anche per quanto riguarda il Kosovo abbiamo approvato, in Commissione, una risoluzione unitaria che conferma la presenza dei nostri militari in quella realtà, pur in un contesto in cui le questioni relative allo status della regione vanno affrontate con molta misura e sulla base di una ricerca condivisa dai protagonisti, serbi e kosovari.
PRESIDENTE. La invito a concludere.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Concludo ricordando che sono queste le missioni di particolare rilevanza su cui dobbiamo esprimerci.
PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, presidente Pinotti, ha facoltà di svolgere la propria relazione.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, il provvedimento che portiamo oggi all'esame dell'Assemblea è stato oggetto di discussione nelle sedi parlamentari dove, in seduta congiunta, le Commissioni esteri e difesa lo hanno esaminato, emendato ed approvato. Poi, è stato anche oggetto di discussione pubblica tra le forze politiche e sugli organi di informazione.
Esso definisce i tempi, le modalità e le risorse con cui il nostro paese è presente in molte aree di crisi ed è impegnato in vario modo (con gli strumenti della cooperazione civile, con forme di assistenza diretta e indiretta, con la presenza di contingenti militari e di polizia, con l'iniziativa diplomatica) nelle sedi internazionali.
L'obiettivo di questo impegno, decisamente considerevole dal punto di vista sia delle risorse umane sia di quelle finanziarie, è di contribuire a risolvere le tante crisi in atto e, quello ancora più ambizioso, di contribuire a spegnere, ad uno ad uno, i troppi focolai di guerra che sono andati moltiplicandosi negli ultimi anni.
Con questa ispirazione ideale, il nostro Governo si è fatto carico dei doveri di continuità coerenti con gli interessi strategici generali, i principi costituzionali e il rispetto della storia del nostro paese, ma ha anche saputo cambiare strada quando gli stessi venivano messi in discussione. Assolutamente lontani da qualunque tentazione di protagonismo, ma profondamente convinti che in un mondo sempre più interdipendente e globalizzato fosse necessario recuperare autorevolezza alle posizioni multilaterali delle istituzioni sovranazionali, in sostanza ci si è mossi lungo tre direttrici: il rilancio dell'unità europea, la necessità di una svolta in Medio oriente nella lotta al terrorismo ed un allargamento degli orizzonti e delle relazioni internazionali nel nostro paese.
Già il 19 luglio 2006, l'Assemblea della Camera si è occupata delle missioni italiane all'estero, non solo in occasione dell'esame del disegno di legge di conversione che ne autorizzava il rifinanziamento per il secondo semestre dell'anno appena trascorso, ma anche nell'ambito della discussione delle mozioni annesse.
L'atto di indirizzo allora approvato dalla Camera dei deputati definisce il quadro politico entro il quale si muovono le nostre missioni all'estero, sia quelle umanitarie sia quelle militari e delle Forze di polizia. In quella mozione si sottolineava la necessità che l'Italia si facesse promotrice nelle sedi internazionali di un'ampia fase di approfondimento relativa a tutti gli strumenti con cui le Nazioni Unite e la NATO operano in Afghanistan. Vi si indicava l'impegno fondamentale a concludere la partecipazione dell'Italia alla missione Enduring freedom e, anzi, a promuoverne il superamento. Inoltre, si impegnava il Governo ad accedere ad una separazione tra la cooperazione e gli interventi militari.
In particolare, il dibattito aveva evidenziato l'esigenza che il Governo stesso implementasse il proprio impegno nella prevenzione dei conflitti e nella gestione dei Pag. 6processi di pace nell'ambito delle iniziative delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte, con particolare riferimento alla situazione israelo-libanese, allora appena deflagrata.
In questo senso, alla luce del ruolo che di lì a poco, il 1o gennaio 2007, l'Italia avrebbe assunto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, la mozione conteneva l'impegno del Governo italiano a porre in quell'autorevole consesso la questione della formazione di una forza militare permanente sotto il comando del Segretario generale dell'ONU.
Come in Libano, nella cui crisi l'Italia ha assunto un ruolo fondamentale per proiettare l'iniziativa europea e dare protagonismo alle Nazioni Unite, si sta sperimentando una delle più importanti missioni guidate dalle Nazioni Unite dopo anni in cui si era verificata una concreta difficoltà a gestire missioni militari con tale guida.
Per quanto riguarda il disegno di legge approvato nel luglio scorso, esso prevedeva, coerentemente con il programma di Governo - programma che tutte le forze di maggioranza hanno voluto e condiviso - il rientro del contingente militare dall'Iraq. Tale rientro è puntualmente avvenuto con modalità di attuazione concordate con le autorità irachene e le forze alleate in modo da assicurare, al popolo iracheno, la necessaria assistenza sui fronti della ricostruzione civile ed economica e di aiuto alla formazione.
Sento il dovere di riconoscere ancora una volta alle Forze armate italiane la professionalità con cui è stato organizzato e portato a termine il rientro. I militari italiani hanno curato la fase di rientro con particolare attenzione agli aspetti di collaborazione civile, curando il passaggio di responsabilità ai responsabili iracheni. È questo un approccio definito, dai militari degli altri eserciti, the italian way, nel condurre questo tipo di operazioni. Esso è molto apprezzato in ambito internazionale.
Taluni commentatori hanno però voluto vedere nelle modalità di intervento delle nostre Forze armate un limite; i più critici di loro, anzi, sono giunti ad identificare in esse l'intenzione di celare alquanto la scarsa capacità operativa o la presunta inadeguatezza a sostenere situazioni ad alta intensità conflittuale. Tali perplessità hanno avuto un'eco anche nella discussione parlamentare svoltasi in sede di Commissioni. Alcuni parlamentari si sono chiesti se i nostri contingenti presenti in Afghanistan, in Libano ed in Kosovo siano sufficientemente equipaggiati per poter far fronte, senza correre rischi inutili, ai pericoli derivanti da una possibile recrudescenza della situazione in questi tre teatri. Il Capo di Stato maggiore della Difesa, nella sua autorità, ha chiarito la situazione con le seguenti testuali dichiarazioni: «(...) riteniamo di essere equipaggiati al meglio di quelli che sono i nostri mezzi, le nostre possibilità e le nostre dotazioni (...); non abbiamo nulla da invidiare ad altri».
Per quanto riguarda invece le critiche ed i commenti sul nostro comportamento a Dikar - sono comparsi su alcune pubblicazioni straniere (anch'esse ricordate nel dibattito svoltosi in sede di Commissioni riunite) -, ritengo che possano essere smentite dalla concretezza dei risultati ottenuti. In Iraq, il nostro contingente è riuscito a mantenere un perfetto equilibrio tra la missione operativa assegnata ed il naturale e progressivo disimpegno. Tutti i contatti diretti avuti con le autorità locali, le organizzazioni non governative e la popolazione civile sono stati gestiti in modo da non compromettere i risultati della fase di disimpegno e di trasferimento delle responsabilità. Nella provincia di Dikar, che ricadeva sotto la nostra responsabilità, la situazione è migliorata molto più rapidamente che altrove. Certo, anche per tutta una serie di fattori interni relativi alla vita nazionale irachena: ma vi è comunque stato un contributo delle nostre Forze armate alla stabilizzazione del paese.
Come ulteriore forma di supporto alla ripresa di migliori condizioni di vita, l'Italia ha lasciato in dotazione alle rispettive strutture irachene circa 800 prefabbricati completi di ogni servizio e impianti di Pag. 7illuminazione e di potabilizzazione. Dal mese di giugno a dicembre vi è stato un graduale rientro dei 3.500 militari e dei circa 1650 mezzi del contingente italiano trasportati da quarantadue velivoli, tra militari e civili, e da otto vettori navali.
È stata un'operazione complessa che ha garantito il trasferimento in Italia di migliaia di uomini, di mezzi blindati, di supporti logistici e di attrezzature che erano state schierate in quel territorio nel corso dei 1273 giorni in cui è durata la missione Antica Babilonia. Ritengo che, soprattutto in questa sede - luogo in cui si decidono gli impegni delle missioni internazionali -, non si possano dimenticare coloro (militari e civili) che non sono tornati a casa. A nome di tutti i componenti delle Commissioni esteri e difesa, rinnovo i sentimenti di riconoscenza nei loro confronti e di vicinanza e solidarietà delle istituzioni parlamentari alle loro famiglie.
Grande attenzione è stata giustamente riservata, nel dibattito politico, alla situazione afgana. Nel corso della discussione parlamentare dello scorso luglio si invocava una riflessione più approfondita a cinque anni dall'intervento militare autorizzato dall'ONU in quel teatro, ma non si mettevano in discussione il mantenimento degli impegni assunti dall'Italia con l'ONU e con la NATO, nella consapevolezza che in Afghanistan sono presenti i principali paesi europei e che nessuna decisione è opportuno assumere fuori dalle sedi multilaterali.
Dopo l'abbattimento del regime talebano, sono stati conseguiti alcuni risultati, già ricordati peraltro dal presidente Ranieri (vi sono stati alcuni passaggi istituzionali: l'Autorità provvisoria, la nomina del Presidente Kharzai, successivamente confermato dalle elezioni presidenziali; prima, vi era stata l'approvazione della Costituzione e, dopo le elezioni presidenziali, si sono svolte le elezioni del Parlamento). Si tratta di risultati che abbiamo salutato, e salutiamo ancora oggi, come importanti; tuttavia, non ci nascondiamo che la situazione, in quel paese, non si è evoluta con la nettezza e con la rapidità sperate e, anzi, rimane di estrema gravità.
La situazione è grave per la rinata capacità militare dei talebani, per le condizioni materiali di vita della popolazione ancora disastrose, per la mancata individuazione di un'efficace strategia di contrasto e di riconversione delle coltivazioni illegali di oppio, che, anzi, sono notevolmente aumentate ed alimentano una condizione di ricattabilità dei contadini afghani da parte dei mercanti di droga e dei cosiddetti signori della guerra, i quali utilizzano gli elevati proventi del traffico illegale per i propri fini.
La serie inquietante di eventi cruenti e drammatici registrati negli ultimi cinque giorni ci dice quanto siano precarie le condizioni di sicurezza in Afghanistan e come la situazione venga via via logorandosi. La sequenza ha avuto inizio con l'attentato suicida compiuto durante la visita del Vicepresidente americano Dick Chaney nella base di Bagram. L'attentato, che è stato rivendicato dai talebani, ha lasciato sul terreno venti morti ed altrettanti feriti ed ha dimostrato, ancora una volta, quanto siano pericolose le capacità militari di questi gruppi. Bagram dista appena sessanta chilometri da Kabul. La visita del Vicepresidente americano era stata organizzata con tutte le attenzione possibili alla sicurezza. Il programma stesso delle attività era stato modificato per ragioni meteorologiche. Nonostante ciò, ancora una volta, siamo stati costretti a contare morti e feriti. Il giorno dopo, c'è stato un altro attentato nella regione di Farah e, subito dopo, un altro in quella di Kandahar. Sabato scorso, un ordigno piazzato su una bicicletta è stato fatto esplodere ad Herat, sulla strada che conduce dall'aeroporto alla sede del contingente italiano: il bilancio è di tre morti e quindici feriti.
PRESIDENTE. La invito a concludere.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, ho ancora cinque minuti o sono già stati utilizzati dal collega relatore per la III Commissione?
Pag. 8PRESIDENTE. Sono già stati utilizzati.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. In tal caso, signor Presidente, chiedo che sia autorizzata la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna del testo integrale della mia relazione, che era stato era calibrato su una durata dell'intervento di venti minuti.
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Ultima, in ordine di tempo, è la strage più grave. Vi è stato un attentato suicida ad un convoglio militare americano, cui è seguito, secondo la versione degli USA, uno scontro a fuoco che ha coinvolto i civili presenti. Fonti afghane parlano, invece, di una reazione a fuoco da parte dei militari americani contro civili disarmati. L'unica cosa certa è che sono rimasti sul terreno, se le notizie sono corrette, sedici morti e trenta feriti. Ferma la condanna della strage da parte del Presidente Kharzai. È di questa mattina, infine, la notizia di un raid aereo della NATO a nord di Kabul, lanciato dopo un attacco notturno contro una base ISAF nella provincia di Kapisa da parte dei clan talebani, in cui sarebbero rimasti uccisi nove civili, tra cui tre ragazzi e cinque donne.
La drammatica sequenza di questi ultimi giorni conferma il rischio di una «irachizzazione» del conflitto afghano: il moltiplicarsi degli attentati suicidi, una modalità estranea alla guerriglia afghana fino ad a poco più di un anno fa, e l'intreccio di interessi già visti durante la guerra dell'oppio ne sono i segnali più evidenti. Fino al 2005, si erano registrati 21 attacchi; nel 2006, gli attacchi sono saliti a 139, molti dei quali condotti da kamikaze.
Nella parte finale della relazione, signor Presidente, mi soffermo sull'opera svolta in Afghanistan grazie al finanziamento (in particolare, della cooperazione civile), sulle missioni in Kosovo, sulla missione in Libano (particolarmente importante anche per il lavoro di sminamento che stanno effettuando le nostre truppe) e sulle altre missioni; propongo le mie valutazioni ed invito all'approvazione del disegno di legge di conversione in esame, al fine di consentire la continuazione di queste nostre missioni.
Nel consegnare il testo della mia relazione, in modo che possa rimanere agli atti, la ringrazio, signor Presidente (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, La Rosa nel Pugno e Verdi).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. La ringrazio.
È iscritta a parlare la deputata Bandoli. Ne ha facoltà.
FULVIA BANDOLI. Onorevole Presidente, membri del Governo, nelle due relazioni testè svolte ho naturalmente apprezzato gli elementi di novità presenti, che sottolineerò anche nel corso del mio intervento.
In principio, però, dal momento che parliamo di politica estera, vorrei ristabilire alcuni punti di verità un po' strapazzati nelle ultime settimane da varie parti. Alcuni singoli comportamenti non rappresentano, come è sembrato a qualcuno, l'insieme di un complesso, variegato, ma sicuramente sempre pacifico e civile, movimento della pace. Il movimento della pace è stato definito da tanti di noi una potenza mondiale per la forza che ha avuto, anche in momenti difficili, nello svelare inganni, come è accaduto durante la guerra in Iraq, quando ci trovammo di fronte alla pesante bugia delle armi di distruzione di massa. Il movimento della pace non è strabico come certi piccoli gruppi di disobbedienti che vedono solo Pag. 9ciò che vogliono, ma è un'altra cosa. Esso è un grande movimento non violento e non accorgersene sarebbe sbagliato.
Vorrei dire anche pochissime parole sulla vicenda di Vicenza, essendo io rimasta in silenzio per tutte queste settimane. A questo punto mi sembra doveroso dire che in quel caso abbiamo assistito ad un esempio di pessima informazione e di falsificazione politica perpetrata per tante e tante settimane. Come si possono definire antiamericani 50 mila cittadini di Vicenza che da oltre 50 anni ospitano tre basi americane, solo perché chiedono di poter discutere sulla quarta base, come è stato fatto da tutti i telegiornali e da molti giornali italiani? Abbiamo forse definito in questo modo il Presidente della regione Sardegna Soru quando è riuscito a contrattare le servitù militari rispetto alla questione della Maddalena? Non mi pare che questo fosse il tono, anzi tutti hanno applaudito. Insomma, sinceramente la vicenda non mi convince, non si capisce perché non si possano avere atteggiamenti più equilibrati anche quando si discutono situazioni complicate come questa.
Vengo ora al tema, in particolare alla missione in Afghanistan di cui affronterò brevemente soltanto alcuni punti, quelli per me più problematici. Siamo in Afghanistan con l'ONU e con la comunità internazionale, è questo un dato che diversifica questa missione e che io colgo in tutta la sua pienezza, ma dopo quasi sei anni è legittimo che coloro che si trovano lì - tutti - si interroghino sugli effetti della missione. Non chiedo un ritiro unilaterale, perché sarebbe incomprensibile; resto all'interno del multilateralismo che anima questa missione, ma non riesco a non vedere come una permanenza che si rinnova nel tempo senza alcuna riflessione collettiva dei protagonisti e di coloro che la sostengono rischi di essere problematica, difficile e difficilmente compresa, non solo dalle popolazioni, ma anche dalla comunità internazionale.
Vedete, le guerre è molto semplice iniziarle e, come diceva qualcuno, difficilissimo terminarle. I civili colpiti aumentano ogni volta: siamo arrivati a percentuali inquietanti, oltre il 93 per cento di vittime sono civili, ed è così anche in Afghanistan.
Aspettiamo di conoscere le reali dinamiche dell'incidente accaduto ieri; tuttavia, vorrei osservare che numerosi giornali, nazionali ed internazionali, hanno definito «sproporzionata» - per usare un eufemismo - la reazione dei militari statunitensi.
I civili, insomma, pagano costi insostenibili in termini di vite umane, e credo che tale elemento dovrebbe essere maggiormente considerato nella nostra riflessione.
Ci vuole un impegno politico, civile ed economico; occorre effettuare, altresì, quel monitoraggio serio che, dal voto scorso a quello attuale, non è stato ancora realizzato. Vorremmo, inoltre, che il Parlamento ricevesse una relazione puntuale circa l'andamento delle diverse parti della missione, l'impiego delle risorse finanziarie e l'equilibrio tra gli investimenti destinati ai beneficiari e ciò che, invece, spendiamo per il mantenimento delle strutture. Vorremmo capire, in altri termini, quale sia l'efficacia della missione, nonché quale sia stato l'equilibrio delle sue diverse componenti.
Ci rendiamo perfettamente conto, invece, dello sforzo che il Governo sta compiendo (e che apprezziamo), attraverso il ministro degli affari esteri ed il suo Ministero, per chiedere la convocazione della conferenza di pace. Auspichiamo che, nei prossimi giorni, il ministro D'Alema, che illustrerà all'ONU queste proposte, riesca a raccogliere il consenso, importante e necessario, per realizzare un passaggio così essenziale.
Rispetto a tali temi, ci interessa molto - soprattutto a me - capire quali siano le concrete politiche finalizzate a potenziare gli interventi civili, nonché le risorse finanziarie ad essi destinate. Ciò perché, nelle ultime settimane, abbiamo purtroppo registrato prese di posizione, anche da parte di autorevoli esponenti del Governo, che ci hanno preoccupato.
Non concordo, ad esempio, con alcuni membri dell'Esecutivo, i quali hanno gettato ombre sulla cooperazione in Afghanistan, confondendo spesso il ruolo delle Pag. 10organizzazioni non governative (molto marginale) con quello svolto dalle organizzazioni governative ed intergovernative, che stanziano e gestiscono fondi anche significativi.
Vorrei ricordare, dal momento che ho esaminato le cifre, che la nostra cooperazione governativa fa registrare parametri altamente significativi. Il 94,20 per cento delle risorse stanziate per i progetti di cooperazione diretti dall'agenzia del Governo italiano, infatti, è andato ai beneficiari, mentre il 5,80 per cento è stato destinato alla gestione in loco.
Si tratta di dati assai seri, ed io attendo di conoscere gli esiti economici, nonché gli stessi importi dei vari progetti gestiti dai militari in materia di ricostruzione. Vorrei conoscere, inoltre, il rapporto tra spese militari ed aiuti destinati ai civili ed alla ricostruzione, poiché ciò rappresenterebbe un contributo alla trasparenza.
Non ci convince neppure la considerazione che solo piccoli progetti, come è stato affermato da esponenti militari, possano essere risolutivi, oppure più semplici da realizzare o più significativi per la popolazione. Infatti, i trenta piccoli progetti realizzati a Khost, sul confine pakistano (costati 600 mila euro), hanno avuto un impatto molto inferiore (quasi insignificante), se paragonati al grande progetto italiano, da 2 milioni di euro (forse il più significativo di tutti), che riguarda il rifacimento dell'ospedale di Esteqlal di Kabul. Tale struttura, infatti, ha un bacino di utenza di 800 mila abitanti, comporta un costo medio pari a 4 euro per ogni assistito ed ha avuto un impatto socialmente straordinario sulla popolazione afghana.
Ebbene, vorrei osservare che si tenta di consegnare nelle mani dei militari anche i progetti di cooperazione, e ciò non ci vedrebbe d'accordo; allo stesso modo, chiediamo che il Governo chiarisca la sua posizione, spiegando quale delle due in campo è quella autentica.
Aderiamo, inoltre, alla proposta - avanzata anche dal Senlis Council, ripresa dal ministro Amato e riproposta al G8 di Mosca - che prevede la commercializzazione dell'oppio afghano a scopi terapeutici, nonché per la produzione di farmaci antidolore. Sosteniamo tale proposta anche se si tratta, peraltro, di una strada invisa alle lobby farmaceutiche (ma se ne comprende il motivo), e forse anche ai trafficanti di oppio afghani.
Si tratta, senza dubbio, di una strada più efficace di quella avanzata da altri, secondo la quale dovrebbe essere la comunità internazionale ad acquistare la droga dai narcotrafficanti per poi mandarla al macero. È una strada di dubbia moralità, che devolverebbe gran parte dei soldi della cooperazione ai narcotrafficanti per l'acquisto di droga.
I militari, dal canto loro, possono fare molto di più di ciò che hanno fatto fino ad oggi. A me sembra che l'elemento più carente riguardi l'addestramento delle polizie di frontiera, ancora quasi inesistenti, della guardia di finanza per il controllo delle merci in entrata ed uscita, del corpo dei vigili del fuoco, che in Afghanistan non esiste, dei corpi addetti agli scali aeroportuali, che mancano, dei vigili urbani, in un paese nel quale non esiste neppure il codice della strada.
Insomma, se vogliamo rafforzare le istituzioni, radicarle sul territorio in modo che la popolazione possa riconoscersi in esse, dobbiamo essere capaci di uscire fuori dai nostri fortilizi militari, esercitando una funzione più civile e forse meno militare, pur se svolta da militari.
Il punto - come è affermato dai diretti responsabili della nostra cooperazione governativa in Afghanistan - si potrebbe riassumere nell'importante sostegno della comunità internazionale all'Afghanistan. Tuttavia, come è affermato dai relatori, una risposta militare da sola non basta, anzi rischia di essere perdente, soprattutto quando si manifesta con azioni difficilmente accettabili come quella avvenuta ieri.
Dobbiamo puntare di più sulla ricostruzione, ma quest'opera non può essere affidata solo a logiche militari; essa va svolta dalle agenzie tecnicamente specializzate in cooperazione. Ecco perché il bilanciamento dei fondi e delle risorse deve essere riequilibrato se vogliamo trovare Pag. 11una soluzione politica della crisi afghana, o almeno cominciare una strada nuova.
Aspetti fondamentali devono essere: la Conferenza di pace multilaterale; il monitoraggio della missione, che mi sento di chiedere con più forza e alla quale chiedo che il Governo risponda non solo nell'imminenza del rinnovo delle missioni, ma anche periodicamente nelle Commissioni; il riequilibrio delle risorse sulla ricostruzione; il rafforzamento delle istituzioni civili afghane.
Se il decreto conterrà, come sembra, questi punti, avrà il mio voto. Si tratterà di un voto non convintissimo, soprattutto su alcuni dei punti sollevati, che tuttavia esprimo lealmente all'interno di una maggioranza che deve essere coesa in politica estera. Si tratta di un'esigenza che sento, che non va messa a rischio, che non possiamo scambiare con nessun protagonismo individuale, ma sulla quale dobbiamo esercitare un grande senso di responsabilità (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Verdi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gregorio Fontana. Ne ha facoltà.
GREGORIO FONTANA. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, ci troviamo a svolgere la discussione sulle linee generali del provvedimento che dispone il rifinanziamento delle missioni internazionali dopo una crisi di Governo che ha segnato non poco l'agenda politica del nostro paese. Pertanto, il dibattito sul ruolo dell'Italia in politica estera è ancora una volta protagonista anche in questa fase. Dunque, è inevitabile ed utile, proprio in questa sede, svolgere e approfondire alcuni nodi politici che permangono.
Forza Italia esprimerà un voto favorevole sul rifinanziamento delle missioni in Afghanistan, in Libano e nei Balcani. Il Presidente Berlusconi è stato chiaro: quando è in gioco il ruolo internazionale del nostro paese, quando si tratta di discutere del sostegno politico ai nostri soldati, quando si tratta di dare ai militari il segnale di una classe politica compatta e, idealmente e sostanzialmente, vicina a loro, l'opposizione non solo è presente, ma sarà parte attiva, sempre. Come nella precedente occasione, il nostro «sì» al rifinanziamento delle missioni italiane all'estero è quindi fuori discussione e ci sarà!
Cercheremo, comunque, di far valere il nostro punto di vista con i singoli emendamenti che abbiamo presentato, ma il nostro sarà un «sì» che avrà molteplici significati: con il nostro voto intendiamo, in primo luogo, garantire il pieno sostegno ai soldati italiani che si trovano impegnati nei teatri internazionali e la costruzione della pace in quegli scenari, nei quali si sta sviluppando la guerra alimentata dai terroristi fondamentalisti.
Inoltre, con il nostro voto favorevole, vogliamo che sia chiaro a tutti in Italia e nel mondo, e soprattutto a quanti, tra gli alleati internazionali, guardano con crescente allarme alle incertezze della nostra politica internazionale, che la coalizione di centrodestra non consentirà che vengano compromesse le alleanze e gli impegni internazionali che competono all'Italia.
Deve essere chiaro, insomma, che grazie a noi, oggi ed in futuro, quando la parentesi di questa esperienza di Governo sarà conclusa, i nostri alleati possono e potranno contare su un'Italia che non si arrende e che è decisa ad assumersi le proprie responsabilità con lealtà, senza furbizie e con tutte le conseguenze che ne derivano.
Si rassegnino gli esponenti della sinistra radicale ed anche quanti, nella sinistra moderata o riformista, si affannano ad esercitarsi su come affermare una discontinuità che non ci può essere, perché non c'è futuro e agibilità politica per la discontinuità alla quale essi pensano, quella di sempre per certa sinistra che è sempre la stessa: antioccidentale ed antiamericana! Una discontinuità che ci collocherebbe in una terra di nessuno, lontana anche dall'Europa, al cui interno sono maturati (pensiamo anche alla Germania di Angela Merkel) orientamenti decisamente Pag. 12in sintonia con la tradizione che vuole più vicine le coste dell'Atlantico; orientamenti che sembrano riflettersi anche sulle evoluzioni in corso nella Francia, alla vigilia di decisive elezioni presidenziali.
Vedremo. Per ora, per quanto riguarda il nostro paese, non ci rassicura la constatazione che chi, nella maggioranza, sembra consapevole di quanto anacronistica sia questa impostazione che sopravvive alla bocciatura della storia si vede costretto a tortuosi e quotidiani giri di parole per non dispiacere i cosiddetti antagonisti! Non ci rassicura, soprattutto, il fatto che anche il nostro ministro degli esteri D'Alema sia costretto troppe volte ad alzare la voce contro gli Stati Uniti e quanti ne condividano scelte e responsabilità; e ciò solo - così almeno sembra - per celare i dissidi della coalizione di Governo e tentare di placarne le ali estreme, dispiacendo gli uni e gli altri, come dimostra del resto, nelle scorse settimane, la lettera dei sei ambasciatori che ci hanno richiamati al dovere della coerenza e del rigore, con un'iniziativa che non ha precedenti e che ha segnalato l'apprensione con la quale, nelle cancellerie dei paesi alleati e amici, si guarda al degradante spettacolo che offre la coalizione di Governo italiana.
Non basta dire che certa sinistra c'è e c'è sempre stata; il problema è che oggi questa sinistra è rappresentata al Governo. Il problema è che il Governo nelle sue scelte è quotidianamente condizionato e ricattato, dimostrando che la maggioranza è ormai ostaggio della sinistra estrema!
Non basta dire che, comunque, il rifinanziamento delle missioni, compresa quella in Afghanistan, sarà votato da una larghissima maggioranza anche al Senato, senza magari aggiungere in termini espliciti che ciò sarà possibile grazie ai voti dell'opposizione, perché si dovrebbe anche ammettere che la maggioranza non c'è e non c'è mai stata sulla politica estera e, dunque, non c'è un Governo che abbia credibilità e forza e, soprattutto, una linea sostenibile e autosufficiente.
Meno male, si potrebbe osservare con una punta di malizia. Meno male perché, viceversa, questo Governo avrebbe persino combinato guai peggiori; tuttavia, di guai in otto mesi di Governo della sinistra se ne sono provocati se si guarda alla caduta di credibilità del paese. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, l'Italia è ritornata un po' ad essere l'«Italietta»: altro che recupero di un ruolo nel mondo, quel ruolo che il Governo Berlusconi - come si è ripetuto da sinistra in modo ossessivo - avrebbe fatto perdere al nostro paese: certamente, è vero il contrario!
Tutti gli analisti più seri ormai denunciano l'irrilevanza, ma anche il potenziale dannoso della politica del Governo Prodi. È di qualche giorno fa l'impietosa corrispondenza da New York del giornalista Maurizio Molinari de La Stampa, un quotidiano che, certo, non ha mai mostrato ostilità nei confronti dell'attuale maggioranza. «Torna l'Italietta esclusa dal gran gioco dell'ONU» era il titolo del servizio di Molinari, che ricordava le ragioni per le quali siamo esclusi dal gruppo che sta definendo la nuova risoluzione che mira a bloccare il programma nucleare iraniano. Siamo esclusi perché coltiviamo rapporti la cui opportunità non è riconosciuta dai nostri alleati e partner, perché non siamo chiari sulle sanzioni che stanno per essere inasprite, ma anche perché - è il caso di aggiungere - la tutela dei nostri interessi commerciali ed economici non giustifica né la resistenza ad entrare in sintonia con i nostri alleati né la mancanza di adeguate reazioni ad un atteggiamento dei governanti iraniani che nessun paese occidentale sembra disposto a tollerare ancora a lungo. Inoltre, non reagiamo come si dovrebbe alle provocazioni di chi a Teheran proclama di voler distruggere Israele e nega persino l'Olocausto; c'è un limite che si pensava non fosse superabile e che, invece, viene praticamente cancellato.
Non si può dire che la posizione italiana sia stata conseguente, come avrebbe dovuto e come dovrebbe essere: dunque, non possiamo stupirci se si guarda con sempre maggiore diffidenza a Roma, anche per quanto concerne l'Afghanistan. Ci Pag. 13è persino toccato di subire le rampogne - purtroppo, pienamente giustificate - del ministro degli esteri inglese che, giustamente, ha lamentato nell'aula del Parlamento di Londra la mancanza di solidarietà di alcuni paesi europei, tra cui l'Italia, che non consentono agli elicotteri stanziati in Afghanistan neppure operazioni di soccorso medico in favore degli alleati impegnati in prima linea nella guerra contro i talebani. Si tratta purtroppo di una guerra e non solo di una missione che comporta l'impegno della ricostruzione e della creazione delle strutture che consentiranno alla democrazia afgana di funzionare.
Noi siamo in Afghanistan coinvolti in questa guerra - sia pure nelle retrovie - perché lo ha voluto l'ONU; eppure, il Governo parla di una conferenza di pace. Chi dovrebbe partecipare e sedersi al tavolo di questa conferenza di pace? I talebani? Bin Laden? Non a caso, il Presidente Karzai ha reagito con eloquente freddezza a questa proposta, come del resto tutti i nostri partner e i paesi che dovrebbero esserne coinvolti. La realtà è che i talebani stanno preparandosi all'offensiva di primavera e tutti ormai hanno capito che è sempre più difficile sottrarsi ad un impegno maggiore sul campo da parte di tutti gli alleati. Anche per i soldati italiani si prepara una fase molto dura che richiederà il massimo del supporto da parte di tutti noi e la solidarietà di tutto il paese. Tutti lo hanno capito, anche quanti chiedono una exit strategy e si preparano a votare e a dettare questa condizione. Per quel che ci riguarda, si tratta di una condizione del tutto inaccettabile: non è tollerabile che si possa pensare ad un'iniziativa unilaterale dell'Italia; dall'Afghanistan non potremo scappare, ed è impossibile fissare oggi scadenze per il futuro in maniera solitaria. Tutto sarà deciso con l'ONU e con i nostri alleati, i quali debbono anche sapere che siamo pronti a fare la nostra parte.
Non vogliamo assumerci la responsabilità di compromettere tutto quello che è stato fatto sinora e di rendere così inutile anche il sangue che è stato versato per consentire a quel popolo di conquistare le condizioni del vivere civile ed allontanare dal mondo la minaccia dei talebani.
Sono di queste ore le notizie di nuovi attentati in Afghanistan, in vista dell'offensiva talebana di primavera. Si stanno preparando il clima e le condizioni per alzare il livello della tensione. La reazione dei soldati americani agli attentati di cui sono stati bersaglio, ancora una volta ha comportato il sacrificio di vittime civili tra la popolazione. Ma la responsabilità ricade non su chi ha reagito all'attacco, bensì su chi ha provocato questa guerra. Come in Iraq, ricade sugli artefici di una strategia del terrore che mira ad annientare il fondamento del nostro vivere civile e della nostra concezione del mondo.
Lascia annichiliti il fatto che qualcuno, come l'onorevole Rizzo, si sia spinto a paragonare gli americani ai nazisti e che il partito di cui fa parte, i Comunisti Italiani - partito di Governo - gli consenta di militare ancora nelle sue file. Abbiamo l'ennesima conferma, d'altra parte - se ce ne fosse ancora bisogno -, di quanto sia radicato l'antiamericanismo e la deriva antiamericana dalla quale il paese rischierebbe di essere travolto se non riusciremo a porre un argine. Tale argine è rappresentato dal nostro rigore, dalla volontà di guardare sempre e comunque alla salvaguardia della collocazione internazionale dell'Italia nelle sue alleanze anche in Afghanistan e nello scenario dei conflitti che sembrano destinati ad inasprirsi.
Se fosse possibile raggiungere l'obiettivo in un altro modo, credo che tutti, l'ONU in prima fila, ma anche gli americani e quanti si sono impegnati in prima linea, sarebbero felici di poterlo fare. Tuttavia, questa prospettiva, purtroppo, non si intravede ancora. E non sarà certo realizzabile con la riproposizione dei temi di una sterile retorica pseudopacifista che mira in realtà ad interdire quanti si battono per disarmare chi attenta agli equilibri di pace nel mondo. Sono costoro i veri nemici della pace e non ci stancheremo mai di denunciarne le responsabilità.Pag. 14
Con questo provvedimento finanzieremo nuovamente - tra l'altro - le delicate missioni dei Balcani e anche la missione in Libano. Nella Terra dei cedri i nostri soldati stanno vivendo un'esperienza molto delicata e molto pericolosa. Le regole d'ingaggio non consentono di disarmare Hezbollah, che sta ricostruendo le sue linee a poche centinaia di metri dalle postazioni UNIFIL. Queste regole non consentono neppure di controllare il traffico di armi, che è sempre molto intenso.
La missione, delicata e pericolosa, rischia anche di essere molto meno utile di quanto si potesse prevedere. Se l'attività di Hezbollah dovesse continuare, l'esito della missione potrebbe essere persino contraddittoria, come le finalità che le erano state assegnate. Ci si dovrà chiedere prima o poi se Israele, con la presenza della missione UNIFIL, sia più o meno sicura rispetto a prima, quando - per lo meno - poteva difendersi nel caso in cui la sua sicurezza fosse stata messa in discussione da Hezbollah.
Un altro punto (forse l'aspetto che veramente desta maggiore preoccupazione nella politica del Governo) è quello dell'equidistanza tra Israele e i sui nemici, elemento chiave per noi inaccettabile. Anche per queste ragioni, prima il Governo Prodi lascerà palazzo Chigi, meglio sarà. Tuttavia, nell'attesa varrà forse la pena di riflettere a fondo sulla situazione che si è venuta a determinare in Libano e di chiedersi se non sia il caso di approfondire una revisione delle regole di ingaggio, in sede di Nazioni Unite e con quanti condividono con noi la responsabilità di questa missione.
Il nostro «sì» alla conversione del decreto-legge - lo ripeto - è senza condizioni. Proprio per questo, sento il dovere di chiedere al Governo l'impegno a non sottovalutare questo richiamo alla missione in Libano, ai limiti nei quali si è costretti ad operare e al rischio che consegue ad una missione che può sostanzialmente diventare inutile, mettendo per giunta in serio pericolo anche la vita dei nostri soldati.
Detto questo, Presidente, una cosa è il sostegno alle operazioni di peace keeping in Afghanistan e nei Balcani, un'altra sono le valutazioni politiche che devono essere fatte durante e dopo questo dibattito parlamentare sul rifinanziamento. Così come è accaduto nel corso della votazione sulla fiducia, all'indomani della crisi di Governo, Prodi e il suo Esecutivo, anche per l'Afghanistan, dovranno dimostrare la loro autosufficienza, dovranno cioè calcolare i voti della maggioranza al netto di quelli dell'opposizione e dei senatori a vita.
Non dimentichiamo che tra i dodici punti posti da Prodi come condizione per restare premier, di cui anche il Presidente Napolitano ha preso atto, uno dei più importanti riguarda proprio l'Afghanistan. Non solo: essendo il Governo caduto sulla politica estera, è su questa che si deve misurare in Parlamento, nel paese e nei confronti dei nostri militari.
Se quindi, come appare probabile, il provvedimento sul rifinanziamento della missione in Afghanistan dovesse passare al Senato solo grazie ai voti indispensabili dell'opposizione e dei senatori a vita, il Governo dovrà essere considerato nuovamente in crisi. Questo è un dato irrinunciabile. L'opposizione darà comunque il suo voto, in continuità con la politica estera del Governo Berlusconi, ma se il provvedimento sul rifinanziamento - ripeto - dovesse passare esclusivamente grazie alla Casa delle libertà e ai senatori a vita, Prodi dovrebbe ammettere di non essere più sostenuto da una maggioranza e di non avere la fiducia e dovrebbe dimettersi, questa volta - mi auguro - irrevocabilmente (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia)!
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Deiana. Ne ha facoltà.
Testo sostituito con l'errata corrige del
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, in apertura di questo mio intervento voglio anche io ricordare che in Afghanistan si prepara una campagna di primavera nelle forme guerreggiate di una guerra asimmetrica, in cui la forza degli uni, della NATO e del Pentagono per quanto riguarda la Pag. 15parte più orientale del paese, è affidata ai bombardamenti e alla tecnologia più sofisticata, mentre quella degli altri, dei taleban e dei loro supporter, è affidata ai kamikaze suicidi.
Voglio ricordare anche che l'Italia, insieme ad altri paesi della NATO, fra cui la Germania e la Spagna, è sottoposta da altri paesi dell'Alleanza - in primis dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma anche dal Canada - nonché dal segretario generale dell'Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, ad un ostinato pressing perché riduca o annulli le clausole di restrizione nell'ingaggio e metta i nostri militari a completa disposizione dei comandi NATO.
Chiedo al collega Fontana, che nel suo intervento ha sostenuto che la dignità e la credibilità del nostro paese sul piano internazionale dipendono - o dipenderebbero, non ho capito bene - dalla capacità e dalla disponibilità a dire sempre «sì» ai diktat degli Stati Uniti, cosa abbiano in comune Italia, Germania e Spagna per essere sottoposti a questo pressing. Non credo che la Germania di Angela Merkel subisca i condizionamenti di una sinistra radicale.
Inoltre, voglio ricordare che dall'Afghanistan giungono in questi giorni notizie, non solo di un crescendo di rischi di attentati o di veri e propri attentati, anche in zone ritenute fino a ieri più tranquille, come la provincia di Herat, sotto il controllo italiano, ma anche di un coinvolgimento diretto di unità speciali italiane in azioni di contrasto alla guerriglia.
Oggi su El Pais c'è la notizia che il Governo spagnolo ha deciso l'invio di nuove truppe per timore di uno sfondamento nelle zone ad ovest del paese, dove sono impegnati i nostri militari nel Prt di Herat.
Credo che si debba fare la massima chiarezza su tutto ciò, perché il Parlamento ed il paese devono conoscere realmente la posta in gioco e le responsabilità che il Governo dell'Unione si assume di fronte ad una evidentissima escalation delle dinamiche di guerra in Afghanistan.
Voglio infine ricordare che nella realtà afghana di oggi le azioni di guerra della NATO - e nella parte orientale del paese le azioni direttamente messe in atto dai militari statunitensi - sono condotte contro le popolazioni civili, i pashtun in particolare, come gli episodi terribili di questi giorni dimostrano. Si tratta di un problema enorme, quello degli effetti collaterali che colpiscono le popolazioni inermi, povere, sottoposte ad una situazione di straordinario disagio.
Come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, abbiamo posto con grande nettezza - e continueremo a farlo - la questione di un disimpegno militare del nostro paese dall'Afghanistan. La ricerca di soluzioni alternative alla gestione bellica della NATO, ricerca che riteniamo indispensabile e doverosa, non può non partire dalla consapevolezza che la permanenza di una situazione di conflitto rende remota, se non impossibile, ogni altra soluzione. La guerra, il conflitto militare come elemento costitutivo e i continui rischi di escalation, come sta accadendo, aggravano e non risolvono i problemi endemici di quel paese. L'accentuazione del carattere militare della missione Isaf, messa sotto il comando della NATO, non risponde certamente alle esigenze delle popolazioni, né rappresenta un efficace strumento di contrasto al terrorismo.
Al contrario, essa aggrava l'adattamento e la dipendenza delle popolazioni locali dai signori della guerra - quei war lord dell'alleanza del nord che sostengono, con molte eccezioni, il Governo Karzai e controllano il territorio, standosene, con il ruolo di eletti, nella Wolesi Jirga - e dai taleban, che stanno riprendendo quota e consensi nella zona pashtun.
La guerra aggrava la dipendenza dei contadini dalla coltivazione dell'oppio e concede massima libertà di azione ai narcotrafficanti. Infine, la guerra aggrava i processi di corruzione degli apparati, l'inefficienza delle esilissime istituzioni promosse dall'Isaf, il caos sociale, civile, l'insoddisfazione crescente della popolazione locale.
Riteniamo che l'impegno del Governo italiano a lavorare nei prossimi mesi per una Conferenza internazionale sull'Afghanistan Pag. 16sia un passo importante, per la cui attuazione abbiamo dato e diamo, come gruppo parlamentare, un contributo decisivo: esso è il motivo di fondo della nostra decisione di votare a favore del provvedimento, nonostante il giudizio negativo sulla missione, che permane. Altrettanto importante sarà l'iniziativa del ministro degli esteri D'Alema, che mi sembra si sia impegnato, stando alle dichiarazioni dei giorni scorsi, a sollevare in tutte le sedi internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza in ambito NATO, la questione della insostenibilità di questo impegno e della necessità di cercare altre strade.
Si tratta di un lavoro propedeutico per la conferenza di pace assolutamente necessario, perché tale conferenza può nascere soltanto all'interno di una discussione internazionale che affronti con chiarezza e determinazione tutti gli aspetti della vicenda.
In ogni caso, la decisione di un impegno italiano per una conferenza internazionale sarebbe importante, qualora venisse sancito dal Parlamento, perché servirebbe a rompere la logica claustrofobia dell'escalation militare a tutti costi, invocata dalla presidenza Bush. Inoltre, chiama tutti a misurarsi su un terreno diverso e decisivo per il nostro futuro: le politiche di pace contro le politiche di guerra, in una fase storica, come quella che viviamo, in cui conflitti e focolai di guerra sembrano destinati a moltiplicarsi. Dopo l'impegno per il Libano, che, insieme al ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, ha segnato un parziale passo di discontinuità in politica estera, rispetto alla pedissequa osservanza del Governo Berlusconi alle linee guida dell'amministrazione Bush, anche questa nuova iniziativa può e deve concorrere a ridisegnare un profilo dell'Italia ispirato al primato della diplomazia, del ruolo delle istituzioni e del diritto internazionali, della pace e della condivisione di responsabilità fra i diversi paesi, rilanciando contemporaneamente il ruolo dell'ONU e dell'Europa.
Tuttavia, non possiamo e non voglio io nascondere i punti di divergenza. Voglio qui mettere a tema alcuni aspetti di fondo, che stanno alla base del nostro giudizio negativo sulla missione in Afghanistan e su come noi intendiamo affrontare, ed affrontiamo, alcuni snodi fondamentali della politica internazionale.
Voglio cominciare dal punto più lontano e più ostico, che ci rimanda all'11 settembre e alle strategie di contrasto del terrorismo, che da lì partirono. L'attentato alle Torri gemelle dettò, come era giusto che avvenisse, una dura presa di posizione delle Nazioni Unite contro il terrorismo, una presa di posizione che fu definita e argomentata nella risoluzione n. 1368 del 12 settembre 2001. Nel preambolo di quella risoluzione, il Consiglio di sicurezza, oltre ad invitare tutti gli Stati ad incrementare la cooperazione e l'azione contro il terrorismo, si dichiarava pronto ad intraprendere tutti i passi necessari per rispondere agli attacchi terroristici dell'11 settembre e per combattere tutte le forme di terrorismo, in conformità alle sue responsabilità secondo la Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia le Nazioni Unite non poterono fare nessun passo in questa direzione. Non ebbero il tempo di verificare responsabilità e fatti. Nessuna verifica fu possibile circa il coinvolgimento, nell'attacco alle Torri gemelle, del regime di Kabul o di settori di quel regime. Com'è noto, l'iniziativa unilaterale degli Stati Uniti - la missione di guerra contro Kabul, denominata Enduring freedom - ruppe gli indugi e aprì una nuova pagina nella politica internazionale, che via via si configurò come unilateralismo, violazione del diritto internazionale, teoria della guerra preventiva. Si affermò in quell'occasione un'impostazione strategica da parte della Presidenza Bush tesa ad affermare e a consolidare la supremazia globale degli Stati Uniti: solo loro erano legittimati ad operare in nome dell'ordine mondiale e fecero la guerra in modo unilaterale per difendere i propri interessi. L'emarginazione degli organismi internazionali fu decisiva ed era funzionale a questa visione del mondo e del potere globale.
Gli USA, come sappiamo, non hanno retto alla prova dei fatti ed oggi ne vediamo Pag. 17i frutti nefasti, oltre ad assistere al tentativo della Casa Bianca di coinvolgere tutti gli alleati nelle avventure militari, vecchie e nuove, programmate in funzione di questa impostazione strategica, nei fatti sconfitta, come stanno a dimostrare i vari pantani di guerre mai concluse, che tuttavia la Presidenza Bush non vuole abbandonare, continuando a riporre su di esse l'idea di una rivincita. Emblematico, al riguardo, il modo in cui alla Casa Bianca viene affrontata la questione dell'Iran.
L'emarginazione dell'ONU dopo l'11 settembre fu una scelta calcolata e gli organismi internazionali vennero concepiti - Bush in realtà ancora li considera così - come mere casse di compensazione della politica degli Stati Uniti, sotto il loro esclusivo controllo. Kaplan, teorico delle strategie «bushane», ipotizzava una ristrutturazione dell'ONU che ridimensionasse gli europei ed escludesse i paesi disordinati, potenzialmente «canaglia», o comunque ininfluenti nel decidere le sorti del mondo.
La decisione di organizzare la missione Enduring freedom fu realizzata, voglio ripeterlo, con tempi così accelerati, che non permisero alle Nazioni Unite di capire quali fossero in quelle circostanze i suoi compiti e i passi più efficaci da compiere. Il 12 settembre, cioè il giorno dopo l'attentato, il Consiglio atlantico si riunì e convenne che l'attacco subito dagli Stati Uniti dovesse essere considerato come coperto dall'articolo 5 del trattato, quello che parla di autodifesa di un paese colpito da un nemico e dell'aiuto degli alleati a questo paese. Le prove della colpevolezza, non solo dei terroristi di Al Qaeda ma del regime di Kabul, vennero rapidamente fornite il 4 ottobre dall'ambasciatore statunitense ai ministri degli esteri e della difesa dei paesi alleati, e non fu necessario altro che quel rapporto, su cui nessuno chiese delucidazioni, per dare il via ai bombardamenti su Kabul. L'Italia partecipò fin dall'inizio alla coalizione di Stati a guida statunitense, in un primo tempo con un gruppo navale d'altura con il ruolo di controllo nel Golfo persico e successivamente, dal 15 marzo al settembre del 2003, con la task force Nibbio sul confine tra l'Afghanistan e il Pakistan.
L'ampiezza della coalizione che partecipò ad Enduring freedom non giustifica a nostro avviso l'assenza di condizioni di legittimità nel procedere con un'azione violenta di guerra per affrontare una vicenda di terrorismo internazionale - sia pure di vaste proporzioni come quella che colpì gli Stati Uniti, che richiede, invece, modi e mezzi tutt'affatto differenti -, contemporaneamente estendendo la responsabilità dell'atto terroristico ad un intero popolo, oltre che al regime dominante in quel paese. I cosiddetti effetti collaterali sono stati in questi anni numerosissimi - sono stati ricordati anche in questo dibattito - e continuano ad esserlo: sono la cifra della guerra in Afghanistan.
Dunque, per noi l'origine della guerra in Afghanistan ebbe una forte connotazione di unilateralismo ed arbitrarietà. Tale arbitrarietà risulta, a mio giudizio, evidente anche dai continui spostamenti interpretativi sul perché si fosse andati in Afghanistan, dai continui espedienti giustificativi della guerra, che vanno dall'idea, reiterata in più occasioni, di esportare la democrazia, di insegnare agli afghani ad essere civili e moderni - dopo tutti i silenzi e le complicità che gli Stati Uniti intrattennero con i taleban - all'ideologia della liberazione delle donne dal burka.
L'ONU fu chiamata successivamente ad autorizzare quanto era stato fatto. La risoluzione n. 1386 del dicembre 2001 autorizzò la costituzione di una forza di intervento internazionale (ISAF), con il compito di garantire l'area di Kabul e di tutelare l'autorità provvisoria afghana. Si trattò con tutta evidenza di un'autorizzazione ex post, con lo scopo di contenere e circoscrivere il ruolo delle truppe occupanti, vigilare sul destino del paese - salvaguardandone per il futuro l'indipendenza e la sovranità territoriale -, coinvolgere la comunità internazionale nella ricerca di una soluzione in tal senso, non dissimile nella logica ispiratrice, se non nelle soluzioni concrete, dalle analoghe risoluzioni che il Consiglio di sicurezza Pag. 18avrebbe votato nel 2003 sull'Iraq. La risoluzione n. 1483 del 22 maggio 2003 ribadiva, per esempio, i principi della tutela dei diritti di indipendenza e sovranità dell'Iraq, riconosceva l'autorità provvisoria e faceva appello alla comunità internazionale a che concorresse alla soluzione dei problemi. Il minor ruolo che l'ONU ha avuto direttamente in Iraq è dipeso in larghissima misura dalla difficoltà a consolidare una sua presenza continuativa in quel territorio. Le autorizzazioni ex post rimandano a compiti delle Nazioni Unite diversi da quello di assumersi la responsabilità di intervenire direttamente per dirimere le controversie internazionali secondo il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, come è stato nel caso Libano.
Tanto più valgono queste mie osservazioni se pensiamo che nel 2003 in Afghanistan è subentrata la NATO per una decisione maturata a Washington, che con l'ONU non ha molto a che vedere e che mette in scena un uso spregiudicato dell'Alleanza atlantica da parte degli Stati Uniti. Siamo, cioè, di fronte a quella strategia a «geometria variabile» che ha dominato la scena internazionale dopo l'attentato alle Torri gemelle. In Italia, l'entrata della NATO nel teatro afghano non è stata minimamente discussa in sede parlamentare e questo è un altro elemento di forte dissenso da parte nostra.
È tempo di riaprire una discussione di fondo sulla NATO, non astrattamente, non come storia, non come realtà di alleanza tra paesi europei e tra paesi europei e gli Stati Uniti, ma nella sua funzione concreta, nell'evoluzione che essa ha avuto al riparo da discussioni negli organismi delle rappresentanze democratiche, nella relazione che intercorre oggi tra l'Europa e gli Stati Uniti, in rapporto alle questioni della difesa e della politica internazionale, e tra gli Stati europei. In altre parole, noi non accettiamo come un fatto normale che la NATO esca dai confini disegnati dal trattato del 1949 e vada in giro per il mondo a risolvere i problemi strategici degli Stati Uniti d'America, coinvolgendo tutti gli alleati nell'azione, in quanto decisione della NATO stessa. Il problema afghano è, oggi, tutt'uno con quello della NATO. Il destino di quest'ultima, che, per la prima volta, nella logica del nuovo concetto strategico messo a punto nel summit di Washington del 1999 - anche in questo caso una rivisitazione fatta al di fuori dei Parlamenti - si proietta in un territorio extraeuropeo, con compiti di risoluzione di un aspro completo bellico, in una regione, il Centroasia, di primaria importanza geopolitica, il destino della NATO, lo ripeto, dipende da come essa uscirà dalla vicenda afghana, da come riuscirà a risolvere la questione. Vi è una sovradeterminazione della NATO rispetto alle decisioni dei paesi che sono coinvolti nella vicenda militare, che deve essere interrotta; altrimenti non se ne uscirà mai.
Non siamo, infatti, soltanto noi ad essere sottoposti a pressing, perché diamo l'assenso ad un libero uso dei nostri contingenti. Il problema è, dunque, cosa sia oggi la NATO, cosa sia dal punto di vista degli Stati Uniti e cosa sia per l' Europa. Per gli Stati Uniti, sicuramente, la NATO - che il Pentagono e le autorità militari statunitensi, non a caso, chiamano organizzazione e non alleanza - costituisce un utile magazzino di risorse militari. Oggi, essa concorre a tenere sotto controllo il teatro afghano, mentre gli Stati Uniti sono costretti ad impegnarsi sempre più in quello iracheno; per il Pentagono rappresenta, insomma, una struttura al servizio della sicurezza nazionale e delle proiezioni internazionali. Per l'Europa è un grande equivoco: andrebbe chiarita l'alleanza tra l'Europa e gli Stati uniti, che nessuno vuole mettere discussione; essa deve essere ridefinita su basi completamente nuove, perché la NATO, proprio per le ragioni che ho esposto, rappresenta un organismo obsoleto, il quale impedisce che decolli seriamente, in Europa, una discussione approfondita sulle scelte di politica internazionale dell'Europa stessa e sull'idea di difesa europea del nostro continente.
Ho colto, nelle relazioni del presidente Ranieri e della presidente Pinotti il segno di una riflessione che, se non è critica, certo mostra forti preoccupazioni sull'evoluzione Pag. 19delle vicende in quel territorio. Mi auguro, ed auguro al Governo che sosteniamo, che la riflessione sia veramente ampia e la spinta a cercare soluzioni diverse, attraverso l'impegno per la Conferenza internazionale e la discussione in tutte le sedi internazionali competenti, dia frutti positivi in tempi ragionevoli, tali da giustificare il voto a favore del provvedimento che noi, come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, esprimeremo domani (Applausi dei deputati del gruppo Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, in apertura di questo mio intervento voglio anche io ricordare che in Afghanistan si prepara una campagna di primavera nelle forme guerreggiate di una guerra asimmetrica, in cui la forza degli uni, della NATO e del Pentagono per quanto riguarda la parte più orientale del paese, è affidata ai bombardamenti e alla tecnologia più sofisticata, mentre quella degli altri, dei taleban e dei loro supporter, è affidata ai kamikaze suicidi.
Voglio ricordare anche che l'Italia, insieme ad altri paesi della NATO, fra cui la Germania e la Spagna, è sottoposta da altri paesi dell'Alleanza - in primis dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma anche dal Canada - nonché dal segretario generale dell'Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, ad un ostinato pressing perché riduca o annulli le clausole di restrizione nell'ingaggio e metta i nostri militari a completa disposizione dei comandi NATO.
Chiedo al collega Fontana, che nel suo intervento ha sostenuto che la dignità e la credibilità del nostro paese sul piano internazionale dipendono - o dipenderebbero, non ho capito bene - dalla capacità e dalla disponibilità a dire sempre «sì» ai diktat degli Stati Uniti, cosa abbiano in comune Italia, Germania e Spagna per essere sottoposti a questo pressing. Non credo che la Germania di Angela Merkel subisca i condizionamenti di una sinistra radicale.
Inoltre, voglio ricordare che dall'Afghanistan giungono in questi giorni notizie, non solo di un crescendo di rischi di attentati o di veri e propri attentati, anche in zone ritenute fino a ieri più tranquille, come la provincia di Herat, sotto il controllo italiano, ma anche di un coinvolgimento diretto di unità speciali italiane in azioni di contrasto alla guerriglia.
Oggi su El Pais c'è la notizia che il Governo spagnolo ha deciso l'invio di nuove truppe per timore di uno sfondamento nelle zone ad ovest del paese, dove sono impegnati i nostri militari nel Prt di Herat.
Credo che si debba fare la massima chiarezza su tutto ciò, perché il Parlamento ed il paese devono conoscere realmente la posta in gioco e le responsabilità che il Governo dell'Unione si assume di fronte ad una evidentissima escalation delle dinamiche di guerra in Afghanistan.
Voglio infine ricordare che nella realtà afghana di oggi le azioni di guerra della NATO - e nella parte orientale del paese le azioni direttamente messe in atto dai militari statunitensi - sono condotte contro le popolazioni civili, i pashtun in particolare, come gli episodi terribili di questi giorni dimostrano. Si tratta di un problema enorme, quello degli effetti collaterali che colpiscono le popolazioni inermi, povere, sottoposte ad una situazione di straordinario disagio.
Come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, abbiamo posto con grande nettezza - e continueremo a farlo - la questione di un disimpegno militare del nostro paese dall'Afghanistan. La ricerca di soluzioni alternative alla gestione bellica della NATO, ricerca che riteniamo indispensabile e doverosa, non può non partire dalla consapevolezza che la permanenza di una situazione di conflitto rende remota, se non impossibile, ogni altra soluzione. La guerra, il conflitto militare come elemento costitutivo e i continui rischi di escalation, come sta accadendo, aggravano e non risolvono i problemi endemici di quel paese. L'accentuazione del carattere militare della missione Isaf, messa sotto il comando della NATO, non risponde certamente alle esigenze delle popolazioni, né rappresenta un efficace strumento di contrasto al terrorismo.
Al contrario, essa aggrava l'adattamento e la dipendenza delle popolazioni locali dai signori della guerra - quei war lord dell'alleanza del nord che sostengono, con molte eccezioni, il Governo Karzai e controllano il territorio, standosene, con il ruolo di eletti, nella Wolesi Jirga - e dai taleban, che stanno riprendendo quota e consensi nella zona pashtun.
La guerra aggrava la dipendenza dei contadini dalla coltivazione dell'oppio e concede massima libertà di azione ai narcotrafficanti. Infine, la guerra aggrava i processi di corruzione degli apparati, l'inefficienza delle esilissime istituzioni promosse dall'Isaf, il caos sociale, civile, l'insoddisfazione crescente della popolazione locale.
Riteniamo che l'impegno del Governo italiano a lavorare nei prossimi mesi per una Conferenza internazionale sull'Afghanistan sia un passo importante, per la cui attuazione abbiamo dato e diamo, come gruppo parlamentare, un contributo decisivo: esso è il motivo di fondo della nostra decisione di votare a favore del provvedimento, nonostante il giudizio negativo sulla missione, che permane. Altrettanto importante sarà l'iniziativa del ministro degli esteri D'Alema, che mi sembra si sia impegnato, stando alle dichiarazioni dei giorni scorsi, a sollevare in tutte le sedi internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza e in ambito NATO, la questione della insostenibilità di questo impegno e della necessità di cercare altre strade.
Si tratta di un lavoro propedeutico per la conferenza di pace assolutamente necessario, perché tale conferenza può nascere soltanto all'interno di una discussione internazionale che affronti con chiarezza e determinazione tutti gli aspetti della vicenda.
In ogni caso, la decisione di un impegno italiano per una conferenza internazionale sarebbe importante, qualora venisse sancito dal Parlamento, perché servirebbe a rompere la logica claustrofobia dell'escalation militare a tutti costi, invocata dalla presidenza Bush. Inoltre, chiama tutti a misurarsi su un terreno diverso e decisivo per il nostro futuro: le politiche di pace contro le politiche di guerra, in una fase storica, come quella che viviamo, in cui conflitti e focolai di guerra sembrano destinati a moltiplicarsi. Dopo l'impegno per il Libano, che, insieme al ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, ha segnato un parziale passo di discontinuità in politica estera, rispetto alla pedissequa osservanza del Governo Berlusconi alle linee guida dell'amministrazione Bush, anche questa nuova iniziativa può e deve concorrere a ridisegnare un profilo dell'Italia ispirato al primato della diplomazia, del ruolo delle istituzioni e del diritto internazionali, della pace e della condivisione di responsabilità fra i diversi paesi, rilanciando contemporaneamente il ruolo dell'ONU e dell'Europa.
Tuttavia, non possiamo e non voglio io nascondere i punti di divergenza. Voglio qui mettere a tema alcuni aspetti di fondo, che stanno alla base del nostro giudizio negativo sulla missione in Afghanistan e su come noi intendiamo affrontare, ed affrontiamo, alcuni snodi fondamentali della politica internazionale.
Voglio cominciare dal punto più lontano e più ostico, che ci rimanda all'11 settembre e alle strategie di contrasto del terrorismo, che da lì partirono. L'attentato alle Torri gemelle dettò, come era giusto che avvenisse, una dura presa di posizione delle Nazioni Unite contro il terrorismo, una presa di posizione che fu definita e argomentata nella risoluzione n. 1368 del 12 settembre 2001. Nel preambolo di quella risoluzione, il Consiglio di sicurezza, oltre ad invitare tutti gli Stati ad incrementare la cooperazione e l'azione contro il terrorismo, si dichiarava pronto ad intraprendere tutti i passi necessari per rispondere agli attacchi terroristici dell'11 settembre e per combattere tutte le forme di terrorismo, in conformità alle sue responsabilità secondo la Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia le Nazioni Unite non poterono fare nessun passo in questa direzione. Non ebbero il tempo di verificare responsabilità e fatti. Nessuna verifica fu possibile circa il coinvolgimento, nell'attacco alle Torri gemelle, del regime di Kabul o di settori di quel regime. Com'è noto, l'iniziativa unilaterale degli Stati Uniti - la missione di guerra contro Kabul, denominata Enduring freedom - ruppe gli indugi e aprì una nuova pagina nella politica internazionale, che via via si configurò come unilateralismo, violazione del diritto internazionale, teoria della guerra preventiva. Si affermò in quell'occasione un'impostazione strategica da parte della Presidenza Bush tesa ad affermare e a consolidare la supremazia globale degli Stati Uniti: solo loro erano legittimati ad operare in nome dell'ordine mondiale e fecero la guerra in modo unilaterale per difendere i propri interessi. L'emarginazione degli organismi internazionali fu decisiva ed era funzionale a questa visione del mondo e del potere globale.
Gli USA, come sappiamo, non hanno retto alla prova dei fatti ed oggi ne vediamo i frutti nefasti, oltre ad assistere al tentativo della Casa Bianca di coinvolgere tutti gli alleati nelle avventure militari, vecchie e nuove, programmate in funzione di questa impostazione strategica, nei fatti sconfitta, come stanno a dimostrare i vari pantani di guerre mai concluse, che tuttavia la Presidenza Bush non vuole abbandonare, continuando a riporre su di esse l'idea di una rivincita. Emblematico, al riguardo, il modo in cui alla Casa Bianca viene affrontata la questione dell'Iran.
L'emarginazione dell'ONU dopo l'11 settembre fu una scelta calcolata e gli organismi internazionali vennero concepiti - Bush in realtà ancora li considera così - come mere casse di compensazione della politica degli Stati Uniti, sotto il loro esclusivo controllo. Kaplan, teorico delle strategie «bushane», ipotizzava una ristrutturazione dell'ONU che ridimensionasse gli europei ed escludesse i paesi disordinati, potenzialmente «canaglia», o comunque ininfluenti nel decidere le sorti del mondo.
La decisione di organizzare la missione Enduring freedom fu realizzata, voglio ripeterlo, con tempi così accelerati, che non permisero alle Nazioni Unite di capire quali fossero in quelle circostanze i suoi compiti e i passi più efficaci da compiere. Il 12 settembre, cioè il giorno dopo l'attentato, il Consiglio atlantico si riunì e convenne che l'attacco subito dagli Stati Uniti dovesse essere considerato come coperto dall'articolo 5 del trattato, quello che parla di autodifesa di un paese colpito da un nemico e dell'aiuto degli alleati a questo paese. Le prove della colpevolezza, non solo dei terroristi di Al Qaeda ma del regime di Kabul, vennero rapidamente fornite il 4 ottobre dall'ambasciatore statunitense ai ministri degli esteri e della difesa dei paesi alleati, e non fu necessario altro che quel rapporto, su cui nessuno chiese delucidazioni, per dare il via ai bombardamenti su Kabul. L'Italia partecipò fin dall'inizio alla coalizione di Stati a guida statunitense, in un primo tempo con un gruppo navale d'altura con il ruolo di controllo nel Golfo persico e successivamente, dal 15 marzo al settembre del 2003, con la task force Nibbio sul confine tra l'Afghanistan e il Pakistan.
L'ampiezza della coalizione che partecipò ad Enduring freedom non giustifica a nostro avviso l'assenza di condizioni di legittimità nel procedere con un'azione violenta di guerra per affrontare una vicenda di terrorismo internazionale - sia pure di vaste proporzioni come quella che colpì gli Stati Uniti, che richiede, invece, modi e mezzi tutt'affatto differenti -, contemporaneamente estendendo la responsabilità dell'atto terroristico ad un intero popolo, oltre che al regime dominante in quel paese. I cosiddetti effetti collaterali sono stati in questi anni numerosissimi - sono stati ricordati anche in questo dibattito - e continuano ad esserlo: sono la cifra della guerra in Afghanistan.
Dunque, per noi l'origine della guerra in Afghanistan ebbe una forte connotazione di unilateralismo ed arbitrarietà. Tale arbitrarietà risulta, a mio giudizio, evidente anche dai continui spostamenti interpretativi sul perché si fosse andati in Afghanistan, dai continui espedienti giustificativi della guerra, che vanno dall'idea, reiterata in più occasioni, di esportare la democrazia, di insegnare agli afghani ad essere civili e moderni - dopo tutti i silenzi e le complicità che gli Stati Uniti intrattennero con i taleban - all'ideologia della liberazione delle donne dal burka.
L'ONU fu chiamata successivamente ad autorizzare quanto era stato fatto. La risoluzione n. 1386 del dicembre 2001 autorizzò la costituzione di una forza di intervento internazionale (ISAF), con il compito di garantire l'area di Kabul e di tutelare l'autorità provvisoria afghana. Si trattò con tutta evidenza di un'autorizzazione ex post, con lo scopo di contenere e circoscrivere il ruolo delle truppe occupanti, vigilare sul destino del paese - salvaguardandone per il futuro l'indipendenza e la sovranità territoriale -, coinvolgere la comunità internazionale nella ricerca di una soluzione in tal senso, non dissimile nella logica ispiratrice, se non nelle soluzioni concrete, dalle analoghe risoluzioni che il Consiglio di sicurezza avrebbe votato nel 2003 sull'Iraq. La risoluzione n. 1483 del 22 maggio 2003 ribadiva, per esempio, i principi della tutela dei diritti di indipendenza e sovranità dell'Iraq, riconosceva l'autorità provvisoria e faceva appello alla comunità internazionale a che concorresse alla soluzione dei problemi. Il minor ruolo che l'ONU ha avuto direttamente in Iraq è dipeso in larghissima misura dalla difficoltà a consolidare una sua presenza continuativa in quel territorio. Le autorizzazioni ex post rimandano a compiti delle Nazioni Unite diversi da quello di assumersi la responsabilità di intervenire direttamente per dirimere le controversie internazionali secondo il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, come è stato nel caso Libano.
Tanto più valgono queste mie osservazioni se pensiamo che nel 2003 in Afghanistan è subentrata la NATO per una decisione maturata a Washington, che con l'ONU non ha molto a che vedere e che mette in scena un uso spregiudicato dell'Alleanza atlantica da parte degli Stati Uniti. Siamo, cioè, di fronte a quella strategia a «geometria variabile» che ha dominato la scena internazionale dopo l'attentato alle Torri gemelle. In Italia, l'entrata della NATO nel teatro afghano non è stata minimamente discussa in sede parlamentare e questo è un altro elemento di forte dissenso da parte nostra.
È tempo di riaprire una discussione di fondo sulla NATO, non astrattamente, non come storia, non come realtà di alleanza tra paesi europei e tra paesi europei e gli Stati Uniti, ma nella sua funzione concreta, nell'evoluzione che essa ha avuto al riparo da discussioni negli organismi delle rappresentanze democratiche, nella relazione che intercorre oggi tra l'Europa e gli Stati Uniti, in rapporto alle questioni della difesa e della politica internazionale, e tra gli Stati europei. In altre parole, noi non accettiamo come un fatto normale che la NATO esca dai confini disegnati dal trattato del 1949 e vada in giro per il mondo a risolvere i problemi strategici degli Stati Uniti d'America, coinvolgendo tutti gli alleati nell'azione, in quanto decisione della NATO stessa. Il problema afghano è, oggi, tutt'uno con quello della NATO. Il destino di quest'ultima, che, per la prima volta, nella logica del nuovo concetto strategico messo a punto nel summit di Washington del 1999 - anche in questo caso una rivisitazione fatta al di fuori dei Parlamenti - si proietta in un territorio extraeuropeo, con compiti di risoluzione di un aspro completo bellico, in una regione, il Centroasia, di primaria importanza geopolitica, il destino della NATO, lo ripeto, dipende da come essa uscirà dalla vicenda afghana, da come riuscirà a risolvere la questione. Vi è una sovradeterminazione della NATO rispetto alle decisioni dei paesi che sono coinvolti nella vicenda militare, che deve essere interrotta; altrimenti non se ne uscirà mai.
Non siamo, infatti, soltanto noi ad essere sottoposti a pressing, perché diamo l'assenso ad un libero uso dei nostri contingenti. Il problema è, dunque, cosa sia oggi la NATO, cosa sia dal punto di vista degli Stati Uniti e cosa sia per l' Europa. Per gli Stati Uniti, sicuramente, la NATO - che il Pentagono e le autorità militari statunitensi, non a caso, chiamano organizzazione e non alleanza - costituisce un utile magazzino di risorse militari. Oggi, essa concorre a tenere sotto controllo il teatro afghano, mentre gli Stati Uniti sono costretti ad impegnarsi sempre più in quello iracheno; per il Pentagono rappresenta, insomma, una struttura al servizio della sicurezza nazionale e delle proiezioni internazionali. Per l'Europa è un grande equivoco: andrebbe chiarita l'alleanza tra l'Europa e gli Stati uniti, che nessuno vuole mettere discussione; essa deve essere ridefinita su basi completamente nuove, perché la NATO, proprio per le ragioni che ho esposto, rappresenta un organismo obsoleto, il quale impedisce che decolli seriamente, in Europa, una discussione approfondita sulle scelte di politica internazionale dell'Europa stessa e sull'idea di difesa europea del nostro continente.
Ho colto, nelle relazioni del presidente Ranieri e della presidente Pinotti il segno di una riflessione che, se non è critica, certo mostra forti preoccupazioni sull'evoluzione delle vicende in quel territorio. Mi auguro, ed auguro al Governo che sosteniamo, che la riflessione sia veramente ampia e la spinta a cercare soluzioni diverse, attraverso l'impegno per la Conferenza internazionale e la discussione in tutte le sedi internazionali competenti, dia frutti positivi in tempi ragionevoli, tali da giustificare il voto a favore del provvedimento che noi, come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, esprimeremo domani (Applausi dei deputati del gruppo Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Giuditta. Ne ha facoltà.
PASQUALINO GIUDITTA. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, il provvedimento in discussione, che prevede la proroga della partecipazione del nostro paese alle missioni internazionali umanitarie, è un atto fondamentale ed è conforme ai principi costituzionali.
La partecipazione dei nostri militari alle missioni di pace nelle quali siamo impegnati è nel rispetto di quanto sancito dall'articolo 11 della Carta costituzionale, che prevede - è bene ricordarlo - il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. In base a questo dettato, previsto anche nella Carta delle Nazioni Unite, ci è stato assegnato il doveroso compito di partecipare come soggetto attivo alla soluzione delle controversie internazionali.
In questa ottica si inserisce il nostro ruolo di protagonista nell'azione di rafforzamento dell'Organizzazione delle Nazioni Unite quale organo di governo condiviso e multilaterale dei grandi problemi internazionali. Le grandi questioni che affliggono l'umanità non possono essere risolte da un solo paese, per potente che sia: soltanto attraverso una azione internazionale coordinata è possibile affrontarle.
Come hanno dimostrato gli eventi accaduti in Bosnia, in Somalia e in Afghanistan, trovare il modo di gestire gli Stati in dissoluzione, ponendo fine ai genocidi e alle carestie e riportandoli gradualmente alla piena sovranità, non è un compito facile. C'è bisogno, pertanto, di un impegno comune e costante e di molto tempo. È nostra convinzione, infatti, che soltanto attraverso organismi internazionali forti ed autorevoli sarà possibile diffondere nel mondo i valori della pace, della democrazia, della sicurezza e dello sviluppo. Soltanto in questo modo potrà realizzarsi quel multilateralismo efficace che abbiamo indicato nel programma del centrosinistra come la strada maestra per dirimere le controversie internazionali e che sarà il cardine dell'azione del nostro Governo in politica estera.
Siamo convinti che le soluzioni unilaterali non portino a risultati, come hanno dimostrato anche le recenti difficoltà degli Stati Uniti in Iraq. Per questo motivo, riteniamo che l'Italia debba lavorare ad una ridefinizione e ad un rilancio delle Nazioni Unite e ad un rafforzamento del ruolo politico dell'Unione europea, armonizzando le posizioni europee in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU di cui l'Italia, oggi, è membro non permanente.
L'Italia deve svolgere anche un forte ruolo di spinta nella costruzione europea e per l'ammodernamento delle sue istituzioni, ricercando una politica forte e coesa tra i paesi dell'Unione che deve permettere all'Europa di esercitare, senza complessi, quell'efficace ruolo internazionale che le compete. Riaffermare la lealtà alle Nazioni Unite e all'alleanza atlantica e rilanciare il ruolo unitario dell'Europa in politica estera sono gli obiettivi prioritari sui quali dobbiamo concentrare i nostri sforzi.
In tale contesto, è urgente anche che la Nato intraprenda un processo di ammodernamento e di aggiornamento della propria missione alla luce dei mutamenti dello scenario internazionale, senza che sia messo in discussione, tuttavia, il ruolo che questa alleanza ha svolto a partire dal secondo dopoguerra.
Anche in occasione del recente vertice della Nato, che si è svolto Riga, è stata ribadita la necessità della sua trasformazione da strumento della guerra fredda, dedicato alla sicurezza dell'Europa occidentale contro l'Unione sovietica, ad organizzazione Pag. 20del ventunesimo secolo, con una missione globale, capacità globali e partner globali. Dovrà essere una organizzazione più duttile, capace di affrontare le nuove minacce del terrorismo e di fare avanzare la libertà e la democrazia del mondo. Anche l'alleanza con gli Stati Uniti d'America, troppo spesso minata, soprattutto, da una condizione ideologica, deve mantenere un ruolo centrale nella nostra politica estera, pur nell'autonomia delle scelte.
Onorevoli colleghi, nonostante i grandi progressi raggiunti nel campo dell'integrazione economica europea, manca ancora una vera integrazione politica e di difesa che, pure, il grande progetto unitario prevedeva. Non esiste ancora, infatti, una Europa politica in senso stretto, così come appaiono fortemente deficitarie, dal punto di vista della democrazia e della partecipazione, le istituzioni comunitarie. Anche la difesa appare non adeguatamente integrata e, malgrado alcuni sforzi in tale direzione, la politica europea della sicurezza e della difesa, introdotta dal trattato di Nizza, rimane ancora lontana ma necessaria, al pari della prospettiva di un esercito europeo coordinato da organismi dipendenti, pur nell'ambito dell'Alleanza atlantica. In tale direzione è rivolta anche una nostra proposta volta a realizzare un esercito europeo di pace al servizio della politica estera comune che sia in grado di rispondere, indipendentemente delle singole decisioni dei Governi nazionali, alle esigenze di pacificazione presenti in tutti mondo e di intervenire nei teatri di guerra internazionali.
Onorevoli colleghi, il vivace dibattito politico di questi giorni ha creato un clima di incertezza e di indebolimento dell'Italia nello scacchiere internazionale, mentre avevamo costruito faticosamente un'affidabilità anche all'indomani della crisi libanese, quando abbiamo assunto il comando della missione Unifil, dove abbiamo dimostrato di essere un interlocutore credibile per i paesi del Medio Oriente e per gli Stati Uniti d'America. Non solo abbiamo riconquistato credibilità nel mondo arabo, ma, per la prima volta, Israele ha accettato il dispiegamento di una forza internazionale lungo i suoi confini, ritenendo che potesse essere utile alla sua sicurezza.
Anche la recente lettera degli ambasciatori, che non condividiamo, è scaturita dalla nostra incertezza. In politica estera bisogna evitare le forme di estremismo che non trovano riscontro e sono l'anticamera del populismo.
Dobbiamo evitare che lo scontro tra Occidente ed Islam si configuri come uno scontro di civiltà. Dopo l'11 settembre la guerra globale contro il terrorismo deve vedere più attente e protagoniste le classi dirigenti del nostro paese, dell'Europa, degli Stati Uniti d'America e dei paesi arabi moderati, che debbono cooperare alla ricostruzione della pace in Medio Oriente, condizione necessaria per la sconfitta del terrorismo e per la sicurezza internazionale.
Serve una politica di pace e di cooperazione. Dobbiamo difenderci dal terrorismo e dal fondamentalismo e non possiamo esimerci dal dare il nostro contributo, anche perché, come hanno dimostrato i fatti, dopo il crollo delle Torri gemelle, nel mondo globalizzato siamo tutti possibili bersagli. La promozione della democrazia e delle riforme, necessaria a favorire l'affermazione dei diritti umani, civili e politici, è un obiettivo primario del nostro paese e dell'Europa. Tuttavia, riteniamo che la democrazia non possa essere esportata, perché anche la nostra esperienza ha dimostrato che la democrazia è il compimento di un percorso storico e che le riforme sono il frutto di processi lunghi, di sacrifici e di circostanze specifiche.
Onorevoli colleghi, è stato opportuno avviare il nostro rientro dalla missione in Iraq, in quanto si trattava di un'operazione militare decisa senza uno specifico mandato delle Nazioni Unite e con motivazioni deboli, che il tempo ha dimostrato essere persino infondate. La missione afghana, invece, che è il frutto di un'iniziativa integrata e condivisa, ha la finalità di fornire un'adeguata cornice di sicurezza alla ricostruzione materiale e istituzionale Pag. 21di quel paese. Solidarietà e cooperazione debbono essere gli obiettivi imprescindibili delle nostre missioni di pace e in questa direzione l'Afghanistan non è solo una missione militare, ma anche di civiltà, tesa a garantire pace e stabilità in quel paese.
Dal 2002, ovvero dall'inizio del nostro intervento, sono stati compiuti grandi passi verso la stabilizzazione del paese, ma è indubbio che ne debbono essere fatti molti altri e che si intravedono ancora molti rischi.
L'episodio della mancata maggioranza al Senato, che ha portato all'apertura della crisi del Governo sulla politica estera, dimostra che sul tema delle missioni di pace spesso prevalgono sentimenti ideologici e demagogici rispetto ad una razionale valutazione dei fatti. Riteniamo necessario rafforzare in Afghanistan il processo di riconciliazione nazionale per far crescere le istituzioni democratiche e favorire la cooperazione economica, perché le missioni di pace internazionali diventino un importante motore di progresso civile e di sviluppo.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, nella storia l'Afghanistan è sempre stato un paese di frontiera, luogo di incontro di popoli e di culture millenari. Oggi, in questo paese, dopo l'invasione sovietica, le guerre tribali, il regime talebano e il terrorismo islamico, anche grazie agli aiuti internazionali si sta procedendo faticosamente alla ricostruzione del tessuto sociale, economico e politico. In Afghanistan è cresciuta anche la principale cellula terroristica, autrice dei più recenti ed efferati attentati nel mondo. Inoltre, esso è il più grande produttore al mondo di oppio, il cui traffico è controllato dal regime talebano.
La droga e il terrorismo sono piaghe che vanno debellate in maniera radicale, intervenendo militarmente, ma anche cooperando a garantire condizioni di vita adeguate alla popolazione. La missione ISAF è delicata e rischiosa, ma anche doverosa. È evidente, quindi, che alla presenza militare va abbinata una strategia politica, umanitaria ed economica più efficace, che sia di sostegno alla transizione democratica e alla ripresa del paese, tenendo conto fino in fondo dei bisogni immediati della popolazione e della sensibilità degli afghani.
Fin dall'inizio, il Governo italiano ha appoggiato il processo di pace in Afghanistan svolgendo il ruolo di compositore dei rapporti tra il Governo e la comunità internazionale ed impegnandosi a sostenere la ricostruzione del paese avviata con la Conferenza di Tokio del gennaio 2002.
In tale quadro, il nostro paese ha assunto l'impegno di coordinare gli interventi in uno dei settori più delicati, la ricostruzione dell'amministrazione della giustizia, dove attualmente non esiste il confine fra legalità ed illegalità. La nostra missione ha anche l'obiettivo di accrescere gli investimenti per la lotta al narcotraffico, migliorare le condizioni di vita ed affiancare le istituzioni per favorire la maturazione e la crescita della democrazia nel paese.
Il decreto-legge in esame, infatti, è stato migliorato e ridefinito proprio nell'ottica di raggiungere gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo. Anche l'organizzazione della Conferenza di Roma sulla giustizia in Afghanistan, prevista nel provvedimento, è volta a promuovere un piano di azione in grado di migliorare la capacità di intervento nei settori strategici della sicurezza e della lotta al narcotraffico, realizzando anche un adeguato coinvolgimento dei paesi della regione nella stabilizzazione del paese.
Il nostro impegno, però, non si ferma qui. Proporremo, in Assemblea, l'approvazione di un ordine del giorno necessario per un ulteriore approfondimento, volto a promuovere un tavolo di studio e di concertazione su tutte le altre problematiche relative ai processi di pacificazione in corso nei territori in cui l'Italia è impegnata in missioni internazionali di pace.
Il lavoro che il nostro paese e la comunità internazionale stanno svolgendo, quindi, non può dirsi concluso. Infatti, il decreto-legge ha ad oggetto contesti internazionali molto diversi tra loro, ma con un denominatore comune, consistente in una Pag. 22situazione di grande instabilità che, senza l'intervento internazionale, rischierebbe di degenerare in un conflitto aperto.
L'Italia è entrata da poco a far parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite come membro non permanente e, di conseguenza, il peso politico del nostro paese è più incisivo. Accanto all'azione militare, dovrà essere maggiormente intensificato l'impegno nel settore della ricostruzione dello sviluppo e il sostegno al consolidamento delle istituzioni locali in tutti i territori in cui si svolgono le missioni ONU.
Da questo punto di vista, il terrorismo internazionale e la questione irachena dimostrano che, nell'affrontare simili situazioni, l'azione proposta dai singoli non paga. È questa la via intrapresa in Libano, ad esempio, dove l'Italia ha dato un importante contributo in termini diplomatici, finanziari e militari alla costituzione di una forza di interposizione inviata dall'ONU, svolgendo un ruolo di catalizzatore per il rafforzamento della missione e per la partecipazione ad essa di altri paesi europei. L'intervento UNIFIL in Libano, come gli interventi ONU in India, Pakistan, Siria, Israele, Egitto, nel Sahara occidentale, in Etiopia, Eritrea, Senegal, ma soprattutto in Kosovo, dimostra il positivo appoggio dell'Italia ad una condizione di azione efficace.
In conclusione, le missioni internazionali in cui è impegnata l'Italia sono espressione della politica di pace che il Governo sta attuando, senza peraltro sottrarsi alle proprie responsabilità sul piano militare.
Ai militari impegnati in queste missioni, che lavorano con tanto dovere, professionalità e grande senso di responsabilità per la pacificazione e la stabilizzazione di queste diverse regioni del mondo, va il nostro sentito ringraziamento, anche per i possibili rischi che tali missioni comportano. Non va assolutamente dimenticato il sacrificio dei nostri militari caduti sul campo, che hanno offerto un grandissimo contributo per la costruzione della pace in questi paesi.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, annuncio con grande convinzione il voto favorevole del gruppo Popolari-Udeur per l'approvazione della proroga della partecipazione italiana alle missioni umanitarie e internazionali, ritenendo che il provvedimento possa avere la più ampia convergenza delle forze politiche, perché accentua sempre di più l'azione umanitaria delle nostre missioni.
Concludo con un pensiero di John Kennedy, ancora attuale. John Kennedy sosteneva che la politica estera, a prescindere da quanto possiamo desiderare, sovrasta qualsiasi altra cosa per l'impatto che ha sulla vita quotidiana, perché tutto dipende dalla fondamentale questione della guerra e della pace.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gasparri. Ne ha facoltà.
MAURIZIO GASPARRI. Onorevole Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, il gruppo di Alleanza Nazionale ha annunciato da tempo il proprio voto favorevole sulla prosecuzione delle missioni in questione, in coerenza sia con la posizione già espressa su provvedimenti analoghi approvati in passato sia, soprattutto, con l'azione che il Governo Berlusconi aveva avviato con la prima operazione militare che ha visto protagonisti in Afghanistan i nostri militari. Ovviamente, il provvedimento in discussione riguarda anche altri scenari.
La discussione del decreto giunge in una fase molto delicata della vicenda afgana, con una escalation estremamente preoccupante degli attentati; il Parlamento deve avere consapevolezza, nel compiere le sue scelte, di cosa si sta verificando sul territorio e di quale tipo di missione noi proroghiamo con il rifinanziamento.
Nei giorni scorsi, intervenendo nella discussione sulla fiducia al Governo, il presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, ha fatto un richiamo molto chiaro sul capitolo afgano rilevando come l'azione che coinvolge i nostri militari non sia da considerarsi né una gita né soltanto, come pure è, una spedizione umanitaria.
In queste ore di polemica e di rinnovati attentati, è stato registrato un intensificarsi Pag. 23della offensiva dei talebani e dei fondamentalisti islamici, che con pratiche terroristiche stanno aggredendo le truppe internazionali ma anche la popolazione afgana, con il chiaro scopo di impedire il consolidarsi, difficile, lento e faticoso, di un processo di democratizzazione di quel martoriato paese.
L'Afghanistan non da oggi - potremmo dire: da secoli - vive una situazione complessa e difficile di guerra e di conflitti, di invasioni e di scontri che fanno di quella parte del mondo, così accidentata fisicamente, una delle zone più tormentate da tutti i punti di vista. Ebbene, cito da un articolo pubblicato oggi sul Corriere della sera un elenco che vorrei fosse oggetto di riflessione da parte di tutti coloro che, alla Camera e al Senato, si accingono a votare su questo provvedimento. Nell'edizione odierna della citata testata, si ripercorre la «scia di sangue degli ultimi 63 giorni»: «kamikaze a Kabul, 3 morti (12 gennaio); 2 inglesi uccisi, 2 canadesi feriti (13 e 15); 5 olandesi feriti (19); kamikaze alla base Salerno, 10 morti (23); kamikaze nell'"italiana" Herat, 12 feriti (30)» - la base italiana di Herat, dunque - «conquista talebana di Musa Qala (2 febbraio); kamikaze a Kandahar (4); 3 stranieri uccisi a Zabul, 4 poliziotti in un'imboscata (8 e 10); annuncio di 200 kamikaze pronti a Helmand (14); attacco a un villaggio di Helmand (15); annuncio di 10 mila jihadisti pronti per marzo, impiccagione di tre informatori NATO (16); 2 soldati feriti (17); elicottero precipitato, 8 americani morti, kamikaze ucciso a Kandahar (18); conquista talebana di Bakwa, area italiana (19); soldato USA ucciso a Naray, kamikaze travestito da medico a Khost, 7 feriti (20); uccisa una soldatessa spagnola di scorta agli italiani, sequestro-lampo di due giornalisti di Al Jazeera (21); attentato suicida a Bagram, dov'è il vicepresidente USA Cheney (26 febbraio)» - notizia che ha fatto il giro del mondo! - «bomba al mercato di Farah, zona italiana, 2 morti (1o marzo)» - e ancora, venendo alla cronaca di queste ore - «3 autobomba contro convoglio Isaf a Uruzgan (2 marzo); bici-bomba a poca distanza dalla base italiana di Herat, 3 morti (3 marzo)...».
Questa è la cronaca dall'inizio dell'anno: una cronaca di attentati e morti che ci dice quanto è preoccupante la situazione in Afghanistan. La fonte che ho voluto citare è uno degli inviati i quali ci raccontano, quotidianamente, cosa accade in quella parte del mondo.
Rifinanziando la missione noi ci assumiamo la nostra quota di responsabilità. È un bene che ciò avvenga, perché contro il terrorismo talebano, contro le madrasse, nelle quali vengono insegnati a bambini di pochi anni sentimenti di odio verso l'umanità e, in particolare, verso il mondo occidentale, contro una situazione di oppressione del popolo afghano si deve reagire sicuramente con le armi della libertà e della democrazia, ma anche con la forza militare, complemento di un processo, difficile e drammatico, di costruzione di una realtà istituzionale che possa garantire quei diritti che gli afgani per primi si vedono negati.
Debbo dire, peraltro, che il decreto-legge in esame fa anche riferimento alla condizione delle donne ed all'inesistenza dei diritti civili. Recentemente, cronache e reportage giornalistici hanno dimostrato come, in molte zone interne dell'Afghanistan, nonostante il perdurare della missione militare, l'oppressione e la negazione dei diritti, soprattutto a danno delle donne, siano fatti costanti e regolari. Ciò dimostra che non bisogna sospendere né le operazioni umanitarie né quelle con caratteristiche più spiccatamente militari e che, semmai, bisognerebbe spingersi oltre su questa strada perché, evidentemente, quanto è stato fatto non è stato ancora sufficiente.
A chi parla di un fallimento delle missioni chiediamo quale sia l'alternativa: andarsene? Lasciare il campo alle madrasse? Lasciare il campo ai talebani? Lasciare il campo al fanatismo di chi ha già seminato lutti e morti, non solo in quella parte del mondo? Dobbiamo ricordare le complicità, l'ospitalità, l'appoggio logistico, ideologico e di ogni specie ad Al Qaeda ed a tutte le formazioni terroristiche Pag. 24che hanno devastato gran parte del mondo, dai paesi asiatici a quelli nordafricani, dalle vicende drammatiche di Madrid agli attentati di Londra, nonché a quelli, ovviamente mai dimenticati, dell'11 settembre del 2001 a New York ed a Washington: l'Afghanistan è stato il luogo in cui molte di queste operazioni sono state concepite, organizzate e, in qualche modo, sostenute. Ecco perché la vicenda della democrazia, della libertà e dell'affermazione dei diritti in Afghanistan riguarda non soltanto quel popolo, ma anche i nostri. Ecco la ragione del nostro voto.
Non ci nascondiamo, peraltro, anche gli aspetti di polemica. Anche in queste ultime ore si sono verificati fatti drammatici. Mi riferisco anche alle reazioni dei militari americani, le quali sono provocate da un contesto che non è quello di una gita scolastica. Vi sono state ripercussioni sui civili, come avviene, purtroppo, drammaticamente, dolorosamente, in scenari così travagliati, così coinvolti in quello che è un conflitto. Tuttavia, noi non accetteremo mai l'equiparazione con il nazismo che è stata proposta, in queste ore, da autorevoli esponenti del centrosinistra, della maggioranza di Governo. Alcune dichiarazioni sono state rese da esponenti del partito di Diliberto, quello che - ricordiamolo! - ha organizzato manifestazioni nel corso delle quali è risuonato il drammatico ed inaccettabile slogan «dieci, cento, mille Nassiriya»! Certo, il segretario obietta che quegli slogan non sono stati pronunciati, scanditi od urlati da militanti del partito; tuttavia, a parte il fatto che non possiamo saperlo (non è che, durante i cortei, si chiedano le tessere di appartenenza ai partiti...), credo che avere organizzato un corteo che attrae quel tipo umano capace di urlare «dieci, cento, mille Nassiriya» dovrebbe essere già motivo di riflessione e di autocritica per quel partito, al di là delle responsabilità dirette od oggettive.
Più specificamente, non accettiamo il parallelo tra Stati Uniti e nazismo che è stato proposto da un esponente del partito in parola, l'onorevole Rizzo, in una dichiarazione rilasciata in queste ultime ore. Ripeto che l'iniziativa americana, tutta da accertare e da definire, è sicuramente inquadrabile nel dramma di un conflitto che, come tutti i conflitti, determina spesso conseguenze sulle popolazioni civili inermi, le quali sono due volte vittime: di chi ne opprime i diritti e di chi, dovendo riaffermare la garanzia di quei diritti, si trova, a volte, coinvolto in operazioni belliche che danneggiano in maniera drammatica ed irreparabile anche le popolazioni civili.
Vorremmo sapere dal Governo, in sede di replica, che cosa pensa di queste affermazioni fatte da un esponente di primo piano di un partito della maggioranza, un esponente che sembra più simile a quelli che hanno urlato «dieci, cento, mille Nassiriya» nei cortei promossi dal suo partito che non agli esponenti di una maggioranza di un paese occidentale il cui premier si vanta di confermare legami di alleanza pluridecennali con gli americani. Siamo alleati dei «nazisti» di Washington, se si dà seguito alla lettura dei comunisti che fanno parte del Governo, o di una grande potenza democratica occidentale, come noi pensiamo, a cui molto si deve per la difesa dei diritti in Europa, in Italia e oggi in Afghanistan e in altre parti del mondo?
Non accettiamo questo linguaggio nei confronti degli Stati Uniti e riteniamo che esso sia pericoloso in quanto potrebbe fomentare comportamenti e condotte inaccettabili anche sul fronte interno. Abbiamo anche mostrato molta meraviglia di fronte alle bizzarrie contenute in una prima stesura di questo decreto. Mi riferisco, ad esempio, all'azione mirante ad un sostanziale narcotraffico planetario che anche il nostro Governo avrebbe dovuto alimentare. La prima stesura, poi opportunamente corretta per iniziativa degli stessi relatori, prevedeva la possibilità di acquisto a scopi - tutti da verificare - farmaceutici dell'oppio e delle sostanze trasformate. Gli stessi relatori hanno proposto la soppressione di questa parte del primo articolo del decreto in quanto non si capisce quali garanzie, quali tipi di Pag. 25cooperazione con le industrie farmaceutiche e quale tipo di struttura complessa si sarebbe dovuto mettere in piedi.
Sappiamo che il problema della coltivazione di papavero e della produzione di oppio e di tutti i suoi derivati, che determinano una circolazione enorme di sostanze stupefacenti, rappresentano una emergenza non risolta della realtà afgana e riteniamo, anzi, che in questo campo, più che organizzare una cosa del genere, sia preferibile una iniziativa forte della comunità internazionale finalizzata alla riconversione delle coltivazioni, al condizionamento attraverso le politiche di aiuti umanitari e alla collaborazione con le nascenti autorità locali.
Si tratta di una questione ormai alla nostra attenzione da molti lustri, che non sempre ha trovato facili soluzioni e che talvolta potrebbe aver portato ad una colpevole sottovalutazione, quasi che a qualcuno che smetta di fare terrorismo si possa concedere la possibilità di svolgere attività di produzione di sostanze stupefacenti. Questo sospetto in chi come me è impegnato da molto tempo nella lotta alla droga e al traffico internazionale è affiorato più volte, ma certamente la soluzione non è quella di acquisire partite di droga. Vediamo che anche su questo vi è una lacerazione nella maggioranza. Ho letto le dichiarazioni di un ministro, l'ineffabile Ferrero, che proponeva questa iniziativa poi depennata dal testo che stiamo discutendo e che approveremo. Ulteriore sconfitta, quindi, delle bizzarre proposte di alcuni ministri.
Ritengo che vi siano poi altre affermazioni molto ideologiche. Si parla di ordini del giorno che dovrebbero tranquillizzare la sinistra radicale o antagonista, in quanto strumenti atti a permettere un monitoraggio delle missioni militari. C'è bisogno dell'ordine del giorno? Il Parlamento è sovrano in qualsiasi momento! Il Parlamento, in questi anni di missioni militari all'estero, ha costantemente seguito, conosciuto, apprezzato, sostenuto e verificato l'impegno dei nostri militari fin dalle prime missioni di questa stagione più che ventennale, iniziata ai tempi del Libano. Costantemente il Parlamento ha visitato, ascoltato e verificato, ma ora bisogna concedere lo zuccherino alla sinistra radicale affinché questa possa giustificarsi davanti allo specchio. Ci mancherebbe pure che ci si debba vantare di avere ottenuto l'approvazione di un ordine del giorno che contempla il monitoraggio parlamentare. Il monitoraggio parlamentare, come con enfasi viene chiamato, è l'esercizio costante della democrazia: in qualsiasi momento il Parlamento potrebbe votare un provvedimento o una decisione che ponesse fine a delle missioni militari o ne cambiasse la natura! Qual è questa vittoria della sinistra radicale? Devono raccontare a qualche personaggio di qualche centro sociale che hanno vinto perché hanno ottenuto il monitoraggio del Parlamento!
Il monitoraggio del Parlamento, la sovranità del Parlamento esistono non perché così sta scritto negli ordini del giorno.
Quindi, anche in questo caso vi è solo il tentativo patetico di giustificarsi in qualche modo!
Del resto, che ci si trovi di fronte ad un Governo ridicolo è dimostrato dai fatti. Conservo come un'icona il titolo del principale quotidiano italiano in cui D'Alema - prima del celebre voto al Senato, mercoledì 21 febbraio, che ha fatto registrare la sconfitta dell'Esecutivo - annunciava: «A casa se non c'è maggioranza»!
Nella votazione sulla politica estera seguita all'intervento di D'Alema al Senato la maggioranza non vi fu, così come era mancata «politicamente» qualche giorno prima, in occasione delle comunicazioni del ministro della difesa Parisi: alla fine, però, dopo avere preso a cazzotti un senatore sui treni - infatti, tra l'altro, in queste settimane è accaduto anche che il senatore Rossi è stato aggredito su un treno: se fosse accaduta una cosa del genere a ruoli inversi, pensate quale can can vi sarebbe stato, ma la cosa è stata messa a tacere! - anche il senatore Rossi ha votato a favore della fiducia!
Questo non è un Governo a maggioranze variabili, come sostiene oggi il ministro Pag. 26dell'interno, ma che picchia i parlamentari sui treni, per evitare che votino in maniera diversa!
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Il Governo?
MAURIZIO GASPARRI. Si tratta di un fatto assolutamente grave e spiacevole! Per carità, si è ottenuta la fiducia, ma non so chi prenderanno a cazzotti quando il provvedimento in esame andrà al Senato!
FABIO EVANGELISTI. Non ti candidare!
MAURIZIO GASPARRI. Alla Camera non ve n'è bisogno, ma il fatto che vi sia il nostro voto a favore eviterà aggressioni ai senatori Rossi, Turigliatto, Bulgarelli e a tutti gli altri che hanno già dichiarato che non voteranno a favore del decreto-legge in esame.
Tuttavia, siccome il Parlamento e le Ferrovie dello Stato non sono un ring, il problema politico sussiste. Ora, sappiamo che quello attuale è un Governo di «quaquaraquà» dei quali D'Alema è il principe. Egli infatti ha affermato che tutti sarebbero andati a casa se non vi fosse stata la maggioranza, ma continua a fare il ministro degli affari esteri, sbeffeggiato in giro per il mondo: chi volete che dia credibilità a questo intelligentissimo leader politico, che rimane attaccato alla poltrona come l'ultimo dei trasformisti, di cui tante volte si rincorre il voto in questa o in quell'aula del Parlamento?
Questa maggioranza anche al Senato politicamente non c'è, come vedremo. Non so se si trarranno conseguenze politiche dal fatto che probabilmente, da quello che si legge, non vi saranno 158 voti di senatori eletti nel centrosinistra a favore della conversione del decreto-legge in esame. Prodi ha affermato che avrà 300 voti: forse ne avrà anche 308, non lo so.
Noi voteremo a favore del provvedimento in esame perché siamo coerenti e non siamo dei «quaquaraquà» come il ministro D'Alema, il quale ha affermato che sarebbe andato a casa se non vi fosse stata la maggioranza. Egli sta ancora al Governo, altrimenti farebbe una brutta figura se dovesse tornare a casa senza la poltrona di ministro, come già gli è successo nel passato e come presto tornerà a succedergli.
Noi siamo coerenti, perché votiamo come abbiamo fatto in passato. Noi conduciamo una politica estera contro il terrorismo, i talebani, il fondamentalismo, per la democrazia e per l'esportazione dei diritti, anche se qualcuno non ama tale locuzione. Il ministro D'Alema, invece, si attacca alla «poltroncina», come l'ultimo trasformista di periferia.
Resta comunque il fatto che, se al Senato non vi sarà l'autosufficienza della maggioranza, avremo un altro problema politico! Questa è la ragione per la quale il ministro Amato afferma oggi in un'intervista che sono possibili maggioranze variabili: la legge elettorale verrà approvata assieme a Tizio, la prosecuzione della missione in Afghanistan assieme a Caio.
Per carità, si può anche pensare di tirare a campare così, ma non si va lontano, soprattutto quando si profila una primavera drammatica in Afghanistan con l'annunciata offensiva dei talebani, come è stato già osservato.
La scansione degli eventi verificatisi in Afghanistan dall'inizio dell'anno ad oggi, con una cadenza quotidiana e drammatica, ci fa tuttavia rilevare che purtroppo non è la primavera la data di avvio di questa offensiva, poiché essa è già in atto.
Se ne rendono conto coloro i quali votano a favore della prosecuzione di questa missione, assumendo atteggiamenti realistici. Vorrei evidenziare che vi sono aspetti perfino grotteschi: giorni fa, infatti, si è letto addirittura che un portavoce dei nostri militari in Afghanistan è stato richiamato urgentemente in patria. Colgo l'occasione della presenza del rappresentante del Governo per avere lumi in sede di replica.
Come dicevo, si è letto che questo militare ha affermato in un'intervista che i nostri soldati avevano contribuito all'edificazione di una piccola chiesa; dopodiché, risulta che tale militare sia stato richiamato Pag. 27urgentemente in patria, come se avesse commesso chissà quale tipo di reato. È possibile o no costruire una piccola chiesa per chi volesse frequentarla, senza imporre niente a nessuno, nel paese dove vi sono le madrasse coraniche, dove si insegna l'odio e si instilla il germe del terrorismo nella mente dei bambini?
FABIO EVANGELISTI. Questa l'hai già detta!
MAURIZIO GASPARRI. L'ho detto e lo ridico, perché è così! Se ti dispiace, caro amico mio, te ne farai una ragione: c'è libertà in Parlamento! Puoi anche prendermi a cazzotti, come fai con il senatore Rossi, ma continuerò a parlare, perché non sono un vigliacco come quelli che, presi due cazzotti, si allineano alla volontà del Governo (Commenti del deputato Evangelisti)!
In conclusione, lasciami parlare; riuscite a disturbare anche il lunedì, quando siamo così pochi «intimi»...
PRESIDENTE. Per favore, deputato Evangelisti!
MAURIZIO GASPARRI. Detto ciò, riteniamo che questa offensiva sia già in atto e vorremmo sapere dal Governo se ne abbia la consapevolezza. Vorrei anche sapere - si tratta di una mia curiosità personale, anche questo rientra nel monitoraggio parlamentare - se sia vero che quel portavoce sia stato richiamato solo perché in un'intervista ad un giornale si era gloriato del fatto che, a dimostrazione del fine umanitario e prevalentemente pacifico della missione, i nostri militari avevano contribuito ad edificare una piccola chiesa. Magari potessero occuparsi solo di questo, senza dover fronteggiare bombe, bici-bomba e kamikaze di varia natura!
Cari colleghi, riteniamo che non saranno eludibili alcuni nodi politici da parte del Governo, il quale sconfitto in Parlamento sulla politica della difesa e sulla politica estera, una volta rabberciata in qualche modo la situazione oggi si accinge a varare questo decreto. Qui alla Camera i voti saranno più di 500, si sfiorerà un plebiscito; vedremo poi cosa succederà al Senato.
La teoria politica che anche le massime istituzioni della Repubblica hanno sostenuto in occasione della recente crisi è quella secondo cui, qualora il Governo non avesse ottenuto 158 voti a favore da parte dei senatori eletti dal popolo, si sarebbe rilevata l'impossibilità di proseguire nell'azione di Governo. Senza nulla togliere ai senatori a vita, si era realizzata una sorta di congelamento della loro valutazione rispetto alla consistenza numerica della maggioranza. Il Governo ha ottenuto 158 voti al Senato, pertanto è rimasto in carica a seguito di una valutazione non soltanto numerica, ma anche politica della maggioranza dei senatori eletti.
Dunque, occorre fare un sillogismo: se questo principio è valso in occasione del voto di fiducia, varrà politicamente in occasione della conversione in legge del decreto al Senato? Insomma, il Governo potrà rimanere in carica se non saranno favorevoli a questo decreto 158 senatori eletti dal popolo o dovrà prendere atto della sua impossibilità di fronteggiare queste crisi?
I nostri militari, le nostre operazioni (anche quelle umanitarie, che sono importantissime e che devono essere ampliate) hanno bisogno di un sostegno forte e chiaro. Non possiamo assistere al valzer delle maggioranze variabili. Noi esprimeremo un voto favorevole perché sarebbe un atto di idiozia politica smentire le nostre scelte. D'altra parte, abbiamo operato scelte di coerenza anche in epoche lontane da un punto di vista parlamentare. Ricordo le osservazioni critiche di molti nostri elettori quando, all'epoca del primo Governo Prodi, votammo a favore della missione in Albania. Anche allora vi erano lacerazioni all'interno del centrosinistra e noi votammo a favore perché ritenevamo che la politica estera di un paese dovesse avere una continuità. Facemmo bene perché anche quella coerenza e quella nostra serietà poi condussero alle successive Pag. 28crisi dei governi dell'epoca e poi all'affermazione elettorale del centrodestra nel 2001.
Riteniamo che l'atteggiamento che stiamo dimostrando in questa occasione non sia soltanto un gesto di sostegno, di appoggio, di solidarietà alle nostre Forze armate, ma anche l'occasione per dimostrare la nostra coerenza.
In questo paese si assiste a cose strane. Qualche settimana fa, in questa stessa aula, abbiamo votato una nuova legge sui servizi segreti. L'argomento è pertinente, perché in questi contesti difficili - ci si riferisce all'Iraq, al Libano e all'Afghanistan - non soltanto alcuni giornalisti, ma anche operatori delle missioni umanitarie sono stati rapiti e i nostri servizi di sicurezza, nonché i militari che ne fanno parte, hanno contribuito alla salvezza e al rilascio di quegli ostaggi. Poi capita di leggere che la procura di qualche città vuole conoscere tutti i risvolti, che hanno caratterizzato l'attività di indagine dei servizi in occasione di questi rapimenti.
La nuova legge sui servizi, che abbiamo recentemente approvato, tutela più fortemente il segreto di Stato e l'azione dei membri dei servizi di sicurezza.
Come si pretende di alimentare le missioni umanitarie - cosa giusta, che condividiamo - per poi dolersi da parte degli stessi schieramenti politici se non viene fatta la cronaca in diretta, come se si trattasse di Tutto il calcio minuto per minuto? Se i dirigenti dei servizi di sicurezza contattano un certo personaggio, bisogna farne la telecronaca? Come il Grande fratello che trasmette in diretta la vicenda di alcuni sventurati, così dovremmo rivelare in diretta le misure approntate dai servizi di sicurezza sui nostri militari, con la conseguenza che probabilmente alcuni ostaggi, alcune persone sequestrate e poi liberate avrebbero potuto andare incontro ad un amaro destino come quello di Quattrocchi, che è stato ucciso in Iraq!
Pertanto, invito tutta la sinistra ad una maggiore real politik, perché tutto si tiene: se si avverte la necessità di incrementare le operazioni umanitarie in territori difficili, occorre intelligence e protezione militare a vantaggio di chi svolge quelle azioni di tipo umanitario; se occorre l'intelligence per intervenire nei momenti drammatici, non si può pretendere che siano rivelati tutti gli aspetti della situazione (compresi gli informatori) e tutte le azioni poste in essere in quel contesto. Se l'intelligence funzionasse come il Grande fratello o Tutto il calcio per minuto minuto probabilmente non riuscirebbe a sventare alcun sequestro, alcun attentato o alcuna situazione di pericolo; purtroppo, la riservatezza - bisogna prenderne atto - è assolutamente indispensabile in alcuni contesti.
Pertanto, anche se la nostra intenzione è quella di esprimere voto favorevole sul rifinanziamento di missioni internazionali, non ci sentiamo assolutamente impegnati a sostenere un Governo, che è privo di credibilità nel paese e nel contesto internazionale e che paradossalmente si sostiene leggendo ogni mattina i sondaggi, i quali, invece, dimostrano una notevole perdita di consenso da parte del Presidente del Consiglio, che in questi giorni si è vantato di come fossero «belli» la sua impopolarità ed i consensi calanti nel paese. Quindi, più leggono quei dati, più capisco che intendono restare attaccati alla poltrona. Mi riferisco anche a chi dissente sulle operazioni militari, su quella che in sostanza è una guerra, cari amici! Questa è la vera realtà!
Non volete pronunciare questa parola, ma vi è una guerra dichiarata contro l'Occidente, contro l'Italia da parte di alcune frange del mondo islamico fondamentalista, dei talebani, dei gruppi del terrorismo fondamentalista derivante dall'insana lettura di una religione, che invece in altre parti del mondo viene interpretata e praticata in maniera più accettabile e condivisibile.
Questa è la situazione di fronte alla quale ci troviamo. Questa è la situazione - e mi rivolgo anche agli esponenti della sinistra radicale o antagonista - su cui verrà espresso il voto. Dopodiché, si potrebbe anche sostenere che vi sarà una sorta di monitoraggio parlamentare (di cui Pag. 29ho già parlato, pertanto non mi ripeto), di verifica costante - ci mancherebbe pure! - ma vi è anche la volontà di essere schierati con una realtà internazionale, multinazionale, sotto l'egida, nel caso afghano ed in altri, delle Nazioni unite, che comporta un impegno e un rischio rilevanti anche per l'Italia.
Noi votiamo a favore, nella consapevolezza che una grande nazione, quale è e deve essere l'Italia, nonostante un piccolo e meschino Governo come quello che oggi ha la sventura di avere, debba saper affrontare la sua quota di rischi e assumersi la sua parte di responsabilità.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIA MELONI (ore 16,15)
MAURIZIO GASPARRI. I nostri militari lo hanno fatto e anch'io voglio ricordare, concludendo questo intervento, i militari feriti e caduti: ve ne sono stati anche in Afghanistan, ancor di più in Iraq ed anche in altri scenari di guerra, nell'ex Jugoslavia, in Africa e via seguitando. Si tratta di militari che hanno difeso e difendono il prestigio e la credibilità dell'Italia assai meglio di certi governi; di militari che lavorano per la democrazia e la libertà molto più di presunti cortei pacifisti, che in genere propongono la resa unilaterale ieri a chi dislocava i missili contro l'Occidente, oggi a chi attua le stragi nelle stazioni, nelle metropolitane, negli aeroporti o sui grattacieli delle capitali dell'Occidente e non solo. Le prime vittime del terrorismo fondamentalista sono gli africani, gli iracheni (non se ne parla più); noi non siamo più presenti con le truppe militari, ma mi pare che in Iraq non passi giorno in cui non vi siano attentati o eventi drammatici e devastanti. Pertanto, abbiamo il dovere di contribuire a consolidare certi diritti.
La scelta di votare a favore è quindi consapevole e lucida; è una scelta sulla quale le nostre forze armate hanno potuto contare ieri, possono contare oggi e conteranno domani, quando sarà chiusa la parentesi del Governo «quaquaraquà» del ministro D'Alema, che aveva affermato: «Se non ho i numeri, vado a casa!»: ebbene, non ha avuto i numeri, ma è rimasto sulla poltrona, come un Mastella qualunque!
Riteniamo, pertanto, che la credibilità, la fermezza e la coerenza delle nostre posizioni possano rappresentare una risorsa per la democrazia in Italia e nel mondo!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Elia. Ne ha facoltà.
SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, colleghe e colleghi, Viceministro Intini, le missioni italiane all'estero - di cui, con questo provvedimento, stiamo per decidere la proroga ed il rifinanziamento - riguardano molte aree di crisi sul nostro pianeta; è indubbio, comunque, che quella più importante e controversa riguarda l'Afghanistan e su questa concentrerò il mio intervento.
In generale si tratta di attività ed interventi del nostro paese svolti in un quadro multilaterale, la cui fonte di legittimazione giuridica e politica risiede nelle Nazioni Unite. La responsabilità di conduzione, laddove prevale soprattutto l'aspetto militare, è affidata alla NATO. Vi è poi anche un vincolo europeo per il nostro paese: in quanto parte dell'Unione europea, siamo infatti vincolati alla politica estera e di difesa comune che su queste missioni l'Europa ha concordato.
Da questo punto di vista, dico subito che se, a partire da questo provvedimento, noi svolgessimo un dibattito sulla continuità o discontinuità dell'impegno italiano in politica estera non si tratterebbe, secondo me, di un dibattito vero, importante; ritengo, infatti, vera ed importante l'una e l'altra cosa, sia la continuità sia la discontinuità.
Le Nazioni Unite, la NATO e l'Unione europea erano presenti nelle missioni all'estero finanziate dal Governo precedente, come sono presenti nelle missioni finanziate dall'attuale Governo, missioni che non esito a definire di pace e non di guerra; quindi, vi è piena continuità. D'altra Pag. 30parte, le ragioni e le necessità del multilateralismo di un'alleanza politico-militare relativa all'appartenenza dell'Italia alla Comunità europea non possono essere d'un tratto ed in modo estemporaneo superate nel passaggio da un Governo ad un altro. Anche per questo credo - mi pare, tra l'altro, che si stia andando in tale direzione se si leggono le interviste rilasciate dal presidente Ranieri e dal ministro Amato - che sarebbe opportuno e giusto riguardo a questo provvedimento cercare in Parlamento il consenso più ampio, non ponendo la questione di fiducia. Infatti, in tutte le democrazie occidentali sulla politica estera e di difesa non esistono maggioranze e minoranze compatte e contrapposte, divisioni nette fra democratici e repubblicani, laburisti o conservatori. Quindi, non vedo la necessità di un maggioranza politica da blindare come una caserma, dentro la quale rinchiudere alcuni obbiettori di coscienza, ma vedo l'opportunità di una massima convergenza di maggioranza e di opposizione; infatti, sulla politica estera e di difesa non si espone al mondo un Governo, ma si rappresenta un intero paese.
Detto questo, è pur vero ed importante sottolineare che vi sono degli elementi di discontinuità in questo provvedimento volto al rifinanziamento delle missioni; ciò, non solo rispetto al Governo precedente, ma anche rispetto allo stesso decreto di luglio emanato da questo Governo.
Intanto va detto che l'Afghanistan di oggi non è lo stesso paese di quello dominato dai talebani: risulta impossibile negare i progressi compiuti in questi anni dopo la loro caduta. Ora c'è un governo legittimo, un presidente legittimamente e direttamente eletto dal popolo e un Parlamento eletto otto mesi fa che registra una presenza delle donne pari al 27 per cento. Sono tornati a scuola centinaia di migliaia di bambini, un terzo dei quali sono di sesso femminile.
Certo, l'Afghanistan non rappresenta una democrazia né liberale né compiuta, ma c'è un po' più di rispetto dei diritti umani, più libertà di opinione, più libertà e diritti per le donne.
È una lotta che iniziammo già alcuni anni fa, prima della caduta dei talebani, attraverso un'iniziativa di Emma Bonino, che si recò a Kabul per sostenere le donne afgane e che fu incarcerata, anche se per poche ore.
È una lotta che abbiamo continuato come partito radicale e che ha visto registrare nel primo governo afgano la presenza di donne proprio come segno di discontinuità rispetto al regime dei talebani. L'Afghanistan di oggi non è più quello dei talebani che vietavano alle donne di lavorare, di andare a scuola o anche uscire di casa se non accompagnate dai parente maschi della famiglia. I talebani vietavano alle donne l'ascolto della musica, il ballo, la radio, la televisione. Ora c'è una Corte suprema, mentre al tempo dei talebani c'era quel famigerato governo per la promozione della virtù e della prevenzione del vizio, che faceva giustizia con la lapidazione delle adultere negli stadi, l'amputazione degli arti ai ladruncoli, le fustigazioni per i comportamenti - per così dire - islamicamente scorretti.
Se consideriamo l'Afghanistan di oggi in base ai criteri internazionali di libertà, democrazia e stato di diritto, esso è assolutamente inadeguato, ma se lo confrontiamo con gli standard talebani di umanità, civiltà giuridica, qualità della vita la differenza è abissale. Allora, restare in Afghanistan significa semplicemente tentare di impedire di riconsegnare il paese ai talebani, al medioevo della storia di quel paese.
Ciò detto, occorre andare avanti sulla strada della democrazia, dello sviluppo e della sicurezza di quei paesi. Questo decreto-legge segna un piccolo passo in avanti nella direzione giusta, nel senso di una discontinuità rispetto non solo ad un passato remoto, ma anche al passato prossimo del precedente provvedimento. Infatti, vi sono alcuni segnali volti a rafforzare la dimensione politica ed umanitaria della nostra missione. Si presta maggiore Pag. 31attenzione alla realtà socioeconomica afgana, ai bisogni e alle aspettative delle popolazioni e delle istituzioni per una vita migliore.
La ricostruzione e lo sviluppo sono elementi presenti in questo decreto-legge, come anche un piccolo cambiamento di rotta che possiamo definire una riqualificazione della missione in senso umanitario, con una più positiva previsione di stanziamenti per le attività sociali di ricostruzione, nonché una maggiore distinzione tra cooperazione e componente militare, che rimane comunque ancora prevalente.
D'altra parte, come ci ha ricordato in un'audizione che abbiamo svolto nelle Commissioni riunite difesa ed esteri il capo di Stato maggiore della difesa, l'ammiraglio Di Paola, «non c'è sviluppo senza sicurezza, come non ci può essere sicurezza senza sviluppo». Il problema enorme è che sullo sviluppo e anche sulla sicurezza dell'Afghanistan pesa come un macigno un dato di fatto che ha un nome preciso: l'oppio o, meglio, l'oppio illegale.
I dati delle Nazioni Unite sono molto evidenti. Secondo l'ONU, nel 2006, la produzione illecita di oppio in Afghanistan ha superato le 6.100 tonnellate, un incremento del 50 per cento rispetto all'anno precedente. Nonostante la politica di eradicazione delle colture illecite di papavero, l'unica politica imposta militarmente in base alla dottrina della guerra alla droga - e con scarsi risultati - è questa guerra delle Nazioni Unite.
Nel 2006, secondo lo stesso ufficio dell'ONU per le droghe e il crimine, il cosiddetto UNDC, la superficie dell'Afghanistan dedicata alla coltura illecita del papavero ha raggiunto la dimensione record di 165 mila ettari, con un incremento del 59 per cento rispetto al 2005. Si tratta di più del doppio rispetto al 2003. Le Nazioni Unite certificano poi che solo 6 su 34 province afgane non conoscono la produzione di papavero.
Si tratta di un giro d'affari mondiale che, oltre a condizionare pesantemente la politica e a minare le basi della sovranità stessa dell'Afghanistan, perturba in maniera significativa anche il mercato globale, il quale è interessato da attività di riciclaggio di denaro, derivante da traffico di eroina afgana, in una misura che, secondo le stesse Nazioni Unite, va dal 3 al 5 per cento dell'intero mercato globale, dai 590 ai 1500 miliardi di dollari.
Di fronte a questa situazione così preoccupante, che non accenna a cambiare, abbiamo avanzato una proposta al Governo italiano. Non abbiamo ritirato una nostra proposta emendativa, come supponeva il collega Gasparri poco fa, ma, avendo la Commissione affari sociali espresso su di essa un parere contrario, abbiamo deciso di trasfonderne il contenuto in un ordine del giorno. Mi rendo conto della forzatura che sussisteva nell'inserire in un testo di legge, che ha un valore prescrittivo, un emendamento che aveva più i caratteri dell'ordine del giorno, visto che impegnava il Governo a portare all'attenzione delle Nazioni Unite la proposta di una sperimentazione sulla riconversione delle colture di oppio illecito in oppio legale.
Ne abbiamo parlato oggi in una conferenza stampa, insieme alla collega De Zulueta, al presidente dei Verdi, Bonelli, al presidente di Rifondazione Comunista, Migliore, con la presenza significativa non di un narcotrafficante, collega Gasparri, ma del presidente della Croce Rossa internazionale, Massimo Barra, che è d'accordo su questa proposta, perché è ragionevole ed umanitaria. Di cosa si tratta, più precisamente? Noi proponiamo che una parte di coltivazione illecita di oppio sia legalizzata, cioè sia trasformata in coltivazione legale, affinché quel prodotto, l'oppio, sia messo a disposizione dell'Organizzazione mondiale della sanità, della Croce Rossa internazionale, del mercato farmaceutico, non per fare spaccio di droga, come dice il collega Gasparri, ma per produrre morfina, che serve per affrontare situazioni di sofferenza estrema - penso ai malati terminali - nella terapia del dolore.
È diventato un tabù, la sola parola oppio crea delle avversioni, ma l'oppio non può essere considerato come il demonio, come era considerato lo zolfo nel Medioevo; Pag. 32l'oppio, come peraltro lo zolfo, può essere adoperato per fini medici e scientifici, ed è paradossale che la coltivazione di oppio - forse questo il collega Gasparri non lo sa - sia legale in Francia, in Ungheria, in Spagna, in Australia, in India e in Turchia, che non sono Stati narcotrafficanti, onorevole Gasparri. Anche se l'Italia rendesse legale la coltivazione di oppio, quindi, lo farebbe come lo stanno facendo questi paesi democratici, la cui produzione legale di oppio, peraltro, è assolutamente insufficiente a coprire la crescente richiesta mondiale di oppiacei per le terapie del dolore.
Invece, l'oppio, secondo la politica dell'ONU, va totalmente eradicato in Afghanistan, in un paese che siede sull'oppio e vive di oppio: il 13 per cento della popolazione afgana è legato alla produzione di oppio (per la stragrande maggioranza sono piccoli contadini). L'Afghanistan vive di oppio e ne produce 6 mila tonnellate l'anno, eppure la morfina lì è sconosciuta negli ospedali, dove si opera senza anestesia. C'è una sorta di razzismo, a ben vedere, in tutto questo, se consideriamo, inoltre, che il 79 per cento della produzione globale di morfina al mondo si consuma in soli sei paesi. Possiamo immaginare quali sono: si tratta di quei paesi nei quali i cittadini hanno un istruzione, hanno la pelle bianca e magari sono cristiani.
Questi possono avere la terapia contro il dolore a base di morfina (che è un ricavato dell'oppio), mentre nei paesi in via di sviluppo (che rappresentano circa l'80 per cento della popolazione mondiale) si registra solo il 6 per cento del consumo globale di morfina. Della serie: sono neri, sono poveri, possono morire tra atroci sofferenze, come avviene ad esempio in Africa, dove i malati terminali per l'AIDS muoiono senza essere neanche alleviati nel loro dolore con l'uso della morfina.
L'Italia peraltro è al centotreesimo posto per l'utilizzo della morfina contro il dolore, un fatto probabilmente che si può spiegare solo in un paese in cui la storia oscurantista, il retaggio più oscuro della Chiesa pesa evidentemente ancora con l'equivalenza, appunto: oppio uguale zolfo, uguale demonio.
Potete immaginare, quindi, che cosa potrebbe rappresentare questa sperimentazione, che cosa potrebbero comportare le possibilità di legalizzazione della produzione di oppio in Afghanistan in senso lato, non soltanto a fini terapeutici, ma anche per la vita civile e la vita democratica di quel paese.
Una delle discontinuità che noi auspichiamo nella strategia politica del nostro impegno in Afghanistan è sicuramente questa riguardante l'oppio.
Vi è però un'altra discontinuità più strategica, più strutturale, che noi auspichiamo, sia nella nostra politica estera, sia nella nostra politica di difesa.
La nostra politica estera non può coincidere e puntare alla stabilizzazione di regimi dittatoriali o illiberali. La stabilizzazione non può essere considerata un bene supremo di per sé, se essa coincide poi con lo status quo di regimi che negano diritti umani fondamentali: il diritto alla libertà, innanzitutto, e il diritto alla democrazia. Questo perché è la natura di questi regimi, il loro nazionalismo, la loro avversione alla democrazia, a costituire la causa strutturale e permanente, il fattore di crisi di guerre internazionali e di guerre civili.
Per fare dei nomi e cognomi, cito il regime iraniano, ad esempio, che viene considerato parte della soluzione del problema iracheno, ma anche poi di quello libanese, ed anche di quello palestinese. Credo invece che l'Iran faccia parte del problema e non della soluzione delle questioni presenti in Iraq e, in generale, nel Medio oriente.
L'infiltrazione di migliaia di agenti dei Mullah in Iraq, l'armamento di Hezbollah in Libano ed il finanziamento di Hamas in Palestina non rispondono ad altro se non ad una strategia di destabilizzazione dell'area mediorientale, che è la condizione necessaria perché non si metta in discussione la stabilità interna iraniana, lo status quo di un regime che perseguita gli oppositori Pag. 33politici, programma l'armamento nucleare e progetta la distruzione dello Stato di Israele.
Sulla nostra missione in Libano, sulla sicurezza dei nostri soldati, e in generale sulla pace tra Libano e Israele pende una spada di Damocle: la condizione che non si metta in discussione, appunto, il regime dei Mullah.
Lo stesso discorso vale anche in una certa misura per il Pakistan, che ha interesse ad un'Afghanistan instabile sul fronte sud e talebano per la sua propria stabilità interna, ed ugualmente per la Siria, che con Hezbollah condiziona la vita politica libanese, affinché la realtà di un regime dittatoriale non sia condizionata dalla comunità internazionale.
Il diritto quindi alla democrazia non può essere un lusso che si possono permettere solo i popoli civilizzati dell'occidente, del nord del mondo, mentre viene negato a centinaia di milioni di cittadini che vivono sotto la schiavitù di regimi totalitari, autoritari e illiberali.
Non si tratta di esportare nulla, di esportare la democrazia, tanto meno i valori occidentali; si tratta invece di negare aiuti a regimi dittatoriali e sostenere invece le aspirazioni democratiche di popoli, di persone, di gruppi, che pure esistono e lottano dall'interno contro tali regimi.
Il Governo italiano, nei suoi rapporti bilaterali e in sede di Unione europea, si impegni intanto ad affermare e praticare una regola semplicissima: nessun soldo ai dittatori. Si tratta poi, in una visione più strategica, di cominciare a convertire la spesa per la difesa e a riconvertire almeno parzialmente l'apparato militare-industriale, nel senso di una politica di difesa non violenta.
Occorre prevedere più consistenti ed apposite risorse nei bilanci delle politiche di difesa nazionali e rivedere profondamente il rapporto tra i fondi destinati alla spesa militare tradizionale e le risorse messe a disposizione di un sempre più necessario interventismo democratico. Occorre ben altro e qualcosa di diverso rispetto agli strumenti militari tradizionali: bombe dell'informazione e non bombe vere; armi di attrazione di massa contro le armi di distruzione di massa; organizzazione mondiale delle democrazie, che è il progetto e la linea del partito di cui faccio parte, il partito radicale transnazionale. Queste sono le soluzioni più efficaci.
Occorre sviluppare un'azione di conoscenza e di informazione e controinformazione a sostegno di chiunque si opponga nel mondo a regimi totalitari e illiberali. Nessun intervento armato, ma solo questa colossale operazione di informazione e di conoscenza, che è fondamentale, a sostegno soprattutto di chi si oppone a regimi dittatoriali. La nostra politica estera e quella europea e il multilateralismo segneranno davvero una svolta se si confronteranno con le cause strutturali delle instabilità e della guerra, che sono l'ideologia nazionalista, il mito della sovranità assoluta, dello Stato nazione e la realtà di regimi assolutisti, fondamentalisti e illiberali. Questo è anche il senso del manifesto appello per un satiagrà mondiale per la pace lanciato da Marco Pannella e rivolto innanzitutto all'Europa e poi a tutto il sud del Mediterraneo, dove affondano le radici della storia e della cultura europee.
Solo quando Israele e Palestina - alla quale non possiamo però imporre uno Stato qualsiasi ma uno Stato democratico, rispettoso dei principi dello Stato di diritto e dei diritti civili e politici, così come sono sanciti dal diritto internazionale -, ma anche un Libano democratico, la Giordania, con la Turchia e il Marocco - che peraltro aveva già chiesto ufficialmente nel 1987 di aderire all'Unione europea -, solo quando questi paesi potranno sentirsi parte di una comunità umana, civile, politica, giuridica ed economica più ampia, nella quale popoli e persone potranno godere degli stessi diritti civili, politici e sociali, avremo posto le basi di una pace vera, giusta e duratura.
Concludendo, signor Presidente, il multilateralismo non può significare solo Nazioni Unite o NATO (o magari in alternativa Stati Uniti o Israele); multilateralismo significa anche federalismo e primato dei Pag. 34patti internazionali sui diritti civili e politici. L'alternativa alla guerra non può essere una mera petizione di principio. Non basta dire «pace, pace, pace». Occorre che la pace sia costruita, e il modo più efficace per farlo è che si stabiliscano e che si consolidino ovunque nel mondo Stati democratici e federazioni di Stati democratici, in cui si affermino diritti civili e politici, libertà individuali e pubbliche. La storia dell'Europa, il federalismo europeo, il manifesto di Ventotene, non sono altro che, l'uno l'antidoto, l'altro una visione, un sogno, che si è realizzato proprio come superamento di una realtà, quale era quella dell'Europa, di Stati che facevano guerre fratricide. Tutto ciò è servito alla comunità europea.
Bisogna che l'Europa abbia una visione più ampia ed una missione che vada al di là del proprio continente e che possa guardare al sud del Mediterraneo. La storia, anche più recente, non solo quella europea, ci dice essere rare, se non addirittura inesistenti, guerre tra Stati democratici. In questa semplice verità c'è quindi la soluzione del problema della guerra. Questa è dunque la discontinuità che noi auspichiamo.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Venier. Ne ha facoltà.
IACOPO VENIER. Signora Presidente, signor viceministro, noi siamo qui a discutere uno dei decreti-legge più delicati e più importanti che il Parlamento è chiamato ad approvare quest'anno, perché abbiamo modificato le regole per il rinnovo delle autorizzazioni delle missioni e quindi ci troveremo ad affrontare di nuovo il tema delle missioni militari tra un anno.
Credo che, in questo momento, tutti noi dobbiamo affermare i principi con i quali valutare la coerenza di questo provvedimento rispetto all'impianto costituzionale - la prima norma che ci vincola -, al programma politico ed elettorale con cui l'Unione si è presentata agli elettori e ai patti politici e al programma di Governo, votato e sostenuto dal Parlamento pochi giorni or sono.
Stiamo esaminando, dunque, un provvedimento che affronta questioni diverse. Questo è un primo problema. Infatti, affrontare i temi della politica estera solo quando sono connessi direttamente a scelte di carattere militare, come quella dell'invio dei nostri soldati nelle aree di crisi, è un errore politico che non ci consente di svolgere una valutazione piena sulla coerenza di ogni singola missione rispetto all'impianto generale di politica estera e, conseguentemente, una valutazione più libera sull'impatto che ogni una singola missione ha rispetto alla collocazione internazionale del nostro paese e più complessivamente sulla politica estera.
Avremmo preferito (lo abbiamo sempre detto) che il Governo ci presentasse un provvedimento per ogni missione, come del resto più volte avevamo chiesto e come era scritto nel programma dell'Unione. Infatti, valutare tutte insieme le missioni internazionali non consente un esame approfondito nel tempo dei diversissimi impegni internazionali a cui i nostri militari danno corpo. Probabilmente in quest'aula nessuno parlerà della missione Minurso nel Sahara occidentale, una missione che si trascina da molto tempo a causa dell'irrisolta questione dell'indipendenza del Sahara occidentale, occupato da decenni dal Marocco e dove non si riesce a realizzare l'accordo di pace sottoscritto dalle Nazioni Unite, con la previsione di un referendum per l'autodeterminazione.
Stiamo autorizzando nuovamente la presenza dei nostri militari e contemporaneamente approviamo una missione in Kosovo, con riferimento alla quale, sul piano dell'impianto del diritto internazionale, seguiamo il principio opposto: mentre nel Sahara occidentale la missione serve a riaffermare un confine determinato dai processi di decolonizzazione (i confini fondamentali dei paesi che non devono essere modificati, pena l'esplosione dell'instabilità generale in varie aree del mondo), in Kosovo siamo in una fase cruciale che vede nascere una nuova statualità che avrà conseguenze nell'area del Balcani, in tutta la zona del Caucaso e in Pag. 35tutte le aree nelle quali i movimenti indipendentisti rivendicano la creazione di nuova statualità.
Oggi, il nostro paese, nel quadro delle Nazioni Unite, si batte per il riconoscimento dei processi di autodeterminazione nell'ambito di determinati confini riconosciuti sul piano internazionale. Contemporaneamente, si pone il tema delle nuove nazionalità, dei nuovi contesti di statualità che rivendicano un proprio ruolo del mondo. Questi temi avrebbero bisogno di un approfondimento maggiore.
Riteniamo che, sulla vicenda delicatissima del Kosovo, per esempio, andrebbe fatto un supplemento di discussione. Infatti, l'apertura di una nuova fase di conflitto al centro dei Balcani imporrebbe al nostro paese una riflessione sull'esito della lunga guerra che si è svolta nel territorio dell'ex Jugoslavia e rispetto alla quale tutti i paesi europei, anche il nostro, hanno importanti responsabilità.
Tale guerra non ha visto, nonostante la presenza delle truppe internazionali, un processo di stabilizzazione definitiva, ed anzi temiamo, insieme alla comunità internazionale ed alla stessa popolazione dei Balcani, che la riduzione di quella presenza potrebbe provocare una nuova esplosione del conflitto in un'area che, secondo le stesse determinazioni del Governo, anche per ovvi motivi di continuità territoriale, è prioritaria dal punto di vista della sicurezza e dello sviluppo del nostro Paese e dell'intera Europa.
Per questi motivi avremmo bisogno che il Parlamento avesse gli strumenti per svolgere un approfondimento maggiore riguardo alle conseguenze di questi impegni. Pertanto, consideriamo positivamente la decisione della Commissioni congiunte III (Esteri) e IV (Difesa) che hanno deciso di deliberare un'indagine conoscitiva. Vorremmo che tale indagine non si dedicasse soltanto alle missioni più scottanti, su cui maggiore è l'attenzione dell'opinione pubblica e della politica, ma riguardasse concretamente anche le condizioni di attuazione, e magari di conclusione, di missioni che si trascinano e sono in piedi ormai da decenni.
Quando noi e il nostro Governo affermiamo che il Mediterraneo è il centro dell'azione politica, nonché il luogo in cui il nostro Paese deve svolgere fino in fondo il proprio ruolo di potenza di pace, tocchiamo un altro punto - e quindi altri missioni - che avrebbe bisogno di essere affrontato.
Mi riferisco alla missione in Libano, ma anche alle altre tre operanti nell'ambito del conflitto israelo-palestinese. Sarebbe necessario che tutti noi ponessimo la questione di come la missione relativa al valico di Rafah (non ho problemi a dirlo) sia sostanzialmente fallita. Infatti, tale valico, pur essendo sotto il controllo dell'autorità militare italiana, viene chiuso, aperto o bloccato dal Governo israeliano a seconda delle sue esigenze, autonomamente determinate, senza alcuna valutazione del loro impatto sulla popolazione civile palestinese rinchiusa nello spazio di Gaza. Il Governo italiano con la sua presenza militare non può che accettare, pur agendo nell'ambito di una missione ONU, ciò che altri in modo illegittimo, con la continua forzatura della legalità internazionale, ovvero il diritto delle Nazioni Unite, determinano.
In proposito ricordo quanto avvenuto la scorsa estate, quando per molti mesi vi è stata la chiusura dell'intera area di Gaza, dove oltre un milione di palestinesi sono stati «sequestrati» nella loro possibilità di vita e allo stesso tempo bombardati dal Governo israeliano. Il nostro Paese dovrebbe capire come il suo impegno riguardo ad una missione «terza» rispetto alle parti in conflitto, come è quella portata avanti a nostro avviso positivamente in Libano, possa utilmente sfociare in un'iniziativa politica anche in quest'area per la realizzazione di una conferenza internazionale di pace basata sul diritto delle Nazioni Unite.
Signor sottosegretario, quando la maggioranza e il Governo dichiarano la piena compatibilità di tutte le nostre missioni all'estero in base alla legittimità derivante dalle Nazioni Unite - pur mantenendo forti perplessità sulla questione afgana, di cui parlerò successivamente - dobbiamo Pag. 36dire che le stesse Nazioni Unite non si comportano allo stesso modo a seconda dei soggetti che hanno di fronte, in particolare in Medio Oriente. Decine e decine di risoluzioni del Consiglio di sicurezza vengono da decenni costantemente ignorate, non applicate e completamente disattese, prima di tutto dal Governo israeliano, senza che ciò comporti una reazione determinata da parte della comunità internazionale, volta a ristabilire l'applicazione delle proprie decisioni.
Allora, diciamolo chiaramente: quella in Libano è una missione che abbiamo dovuto e voluto costruire in un quadro nuovo - un quadro di discontinuità totale con l'impianto di politica estera e di difesa che aveva caratterizzato il Governo precedente - nell'ambito delle Nazioni Unite e con una forte presenza dell'Unione europea. Ma quella missione ha un senso solo se contribuisce ad una soluzione politica più ampia, riconducendo la questione mediorientale, ossia la questione palestinese, nell'ambito del diritto internazionale, a partire dalla necessità della nascita - già decisa decenni fa dalle Nazioni Unite - di uno Stato della Palestina, che possa considerarsi tale, pienamente indipendente, con confini certi e con una propria piena sovranità, condizione per la sicurezza stessa dello Stato di Israele.
Vorrei anche ricordare a lei, signor viceministro, ed all'Assemblea, la missione a Cipro; una missione dimenticata, citata magari nelle carte delle Commissioni o nelle esplicazioni dei nostri comandanti militari, di cui nessuno parla, ma che ha una sua piena autorità dal punto di vista dell'impianto della politica estera del nostro paese in relazione alla Turchia. Si tratta di una questione che, ancora una volta, non affrontiamo nella sua complessità.
È un paradosso che vi sia una missione, come quella a Cipro, e che, nello stesso momento, si dica che il problema di Cipro - come il problema dei curdi - non è questione che impedisca il dialogo per un'eventuale adesione della Turchia all'Unione europea. Anche su questo punto, il Parlamento, le Commissioni, tutti noi, avremmo bisogno di un supplemento di discussione al fine di verificare come le nostre missioni e i nostri militari che inviamo nel contesto internazionale agiscono nell'ambito più generale della politica estera del nostro paese, anche rispetto al suo ruolo internazionale.
Allo stesso modo, in relazione alle decisioni che abbiamo assunto insieme, come Unione, dobbiamo rilanciare il nostro ruolo nelle Nazioni Unite, nell'ambito del multipolarismo e del multilateralismo mondiale: vi sono missioni che hanno una scarsa relazione con questo multipolarismo, che rispondono invece a un disegno unipolare - e non multipolare - come quella in Afghanistan.
Chiaramente, signor viceministro, vediamo lo sforzo delle ultime ore compiuto dal nostro Governo: rispetto alla comunità internazionale, innanzitutto nel contesto delle Nazioni Unite, ma anche nei contesti multilaterali cui partecipiamo, si è portata una posizione non ancora sufficientemente critica, come vorremmo; ma è una posizione diversa, che trae un bilancio dell'esperienza fino ad oggi sostenuta in Afghanistan. Lo abbiamo sentito nelle parole del ministro D'Alema, l'avremmo voluto sentire anche da parte di qualche collega della destra. Avremmo voluto sentire parole diverse rispetto a quello che è successo solo questa notte in Afghanistan, laddove si è applicata la legge del taglione: gli americani hanno scaricato sui civili la rabbia per una situazione di conflitto che non si riesce a placare. Sentiamo che cresce la consapevolezza di questo pericolo.
Il ministro D'Alema proprio oggi ha detto che sarà una sconfitta se i civili sentiranno la NATO come un nemico in Afghanistan. Credo che sia la stessa sconfitta che si è determinata in Iraq: purtroppo alcuni esponenti del centrodestra italiano e il Governo di allora pensavano di poter partecipare a una sorta di banchetto, di tranquilla cavalcata verso una nuova conquista; mentre ci si è trovati di fronte a un problema enorme. La nostra Costituzione pone un principio, non soltanto Pag. 37di carattere morale ed etico. Essa dice che l'Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Le controversie internazionali non si risolvono con la guerra, né con gli strumenti militari. Questa consapevolezza apparteneva ai costituenti, ma oggi, purtroppo, è poco diffusa nella consapevolezza delle nuove classi dirigenti di questo paese.
Ecco che in Afghanistan ci stiamo giocando un pezzo importante della nostra credibilità internazionale. Per questo riteniamo che si debba partire da un giudizio sul modo in cui quella missione è iniziata, su quali fossero i suoi scopi e sul fatto che essa non abbia raggiunto alcuno degli obiettivi che si era prefissata.
È ovvio che noi Comunisti italiani abbiamo aborrito e continuiamo a contrastare nel modo più radicale, netto e totale i talebani, la loro idea di società, la loro ferocia contro la loro stessa popolazione. Crediamo che quella sia stata una risposta terribile ad un'altra invasione e che l'egemonia talebana sull'Afghanistan sia stata sostenuta da elementi esterni (come ad esempio è il ruolo del Pakistan) per conto degli Stati Uniti, che hanno costruito, armato, fomentato la guerriglia talebana, consentendo ad essa di conquistare il Governo di Kabul.
Nello stesso modo in cui siamo contrari in modo radicale e totale ad ogni ammiccamento verso posizioni di quel genere di radicalismo, integralismo e fanatismo religioso, non possiamo non capire che per vincere sul piano della proposta democratica e della costruzione di livelli più avanzati di civiltà e di diritto, gli elementi più devastanti, sbagliati e portatori di sconfitta siano l'utilizzo, come è stato finora, dello strumento militare e la confusione - su questo punto nel decreto-legge vi sono elementi di novità, che occorre però approfondire - che sin qui ha regnato tra azione militare da una parte e aiuti alla cooperazione e allo sviluppo dall'altra.
Vede, signor viceministro, noi riteniamo che non si debba mai confondere l'azione diretta, che le organizzazioni non governative e la società civile conducono nella costruzione di una relazione tra società, con la presenza militare, altrimenti si creerebbero pericoli sia per la presenza militare, sia per quella della cooperazione: in quel modo non si farebbe alcun passo in avanti nella costruzione di quella relazione positiva, che è l'unica strada attraverso la quale è possibile far conoscere e superare le diffidenze reciproche e costruire quel clima, che impedisca ogni guerra di civiltà.
In Afghanistan, purtroppo, si sono sperimentati i PRT, un tipo di azione che ancora oggi abbiamo in piedi e la cui efficacia noi contestiamo. Il decreto-legge aumenta e chiarisce gli elementi di avanzamento della cooperazione allo sviluppo non collegata all'azione militare, ma quel tipo di intervento non è efficace, non porta a nulla, non ci interessa anche sul piano delle realizzazioni: infatti, se i nostri militari devono essere lì, non devono assolutamente venire coinvolti in quel tipo di azione, che invece può essere efficacemente realizzata in altri modi.
Allo stesso modo in cui siamo avversi ai talebani - mi permetterei di dirlo al collega D'Elia, se fosse qui - lo siamo ai signori della guerra, che rappresentano l'altra faccia della medaglia, spesso collusi con il traffico internazionale di eroina. Mi riferisco a quegli stessi signori della guerra che hanno impregnato le nuove autorità afghane, che hanno ricostituito quel terribilmente famoso dipartimento per la promozione delle virtù e la repressione del vizio, che oggi agisce di nuovo in Afghanistan. Ecco, siamo in una situazione di grande contraddizione, in cui i passi in avanti non possono certamente essere determinati da un maggiore investimento dal punto di vista militare.
È importante, dunque, che in questo decreto-legge siamo riusciti a difendere i cosiddetti caveat, cioè almeno un minimo di approccio differente e di non disponibilità dell'Italia a mettersi al servizio di una guerra, che è tale e che ha come obiettivo non più quello di colpire un gruppo di terroristi, ma quello di combattere una guerra campale con migliaia e Pag. 38migliaia di combattenti, magari non regolari, che rappresentano ormai una parte della popolazione afghana, che si sta ribellando e che sta insorgendo contro quella che considerano una occupazione.
Guai se l'Italia - con gli impegni, anche politici, che ci stiamo assumendo - fosse coinvolta nell'escalation militare che gli Stati Uniti ed altri paesi stanno pensando di organizzare in primavera per lanciare un'offensiva che non ha alcuna caratteristica di lotta al terrorismo! Questa, infatti, non va condotta in questi termini, ma colpendo nuclei separati o che sono usciti dalla logica del consenso della popolazione: di fronte a migliaia e migliaia di combattenti, quindi di fronte ad una realtà politica, la risposta deve essere politica. Non a caso - a mio avviso, in modo positivo - abbiamo condotto una discussione interna e franca affinché all'interno del decreto, nel corpo del provvedimento, si contenesse l'impegno per la conferenza internazionale di pace. Anche ciò è importante perché, come ha osservato il Primo ministro Prodi, noi siamo dinanzi ad un conflitto e dobbiamo operare affinché quella guerra si concluda attraverso una conferenza di pace, che coinvolga tutti gli attori della regione, quindi anche la Cina, la Russia, il Pakistan e anche l'Iran. Con quest'ultimo Stato deve essere mantenuta una relazione politica e di dialogo in quanto, senza tale tipo di approccio, non otterremmo alcun risultato in Afghanistan e rischieremmo una sconfitta, che è già scritta se non avvenisse null'altro che la riproposizione degli schemi passati.
Avevamo considerato con favore l'inserimento nel decreto di una sperimentazione nell'acquisto dell'oppio; troveremo le forme di intervento più opportune e già altri colleghi hanno presentato contributi in tal senso. Non è però possibile ritenere che il raddoppio della produzione di oppio in Afghanistan - che rappresenta ormai il novanta per cento di quella mondiale - avvenga senza una qualche connivenza, comunque con il non intervento delle truppe internazionali presenti sul posto. Noi dobbiamo esserne consapevoli e dire che non si può far ricorso a strumenti che, per l'appunto, scatenino di nuovo una guerra contro la popolazione. Al riguardo gli aiuti internazionali apprestati per l'Afghanistan devono tener conto del fatto che, quando si introducono derrate alimentari in quel paese, si fa uscire l'agricoltura afgana da ogni compatibilità economica con quel contesto sociale: si facilita così la produzione di oppio, espellendo le produzioni locali dal mercato. Tali distorsioni avvengono anche semplicemente con la sola presenza diretta dei militari a Kabul, la cui esplosione, anche dal punto di vista urbanistico è sicuramente drogata appunto dalla presenza delle truppe internazionali; inoltre l'inflazione che colpisce il popolo afgano è un altro elemento che produce nuove povertà e nuove disparità. Tutto ciò alimenta, insieme alla corruzione di quel paese, anche un clima a causa del quale il Governo afgano ha scarsissima credibilità, anzitutto nei confronti dalla propria stessa popolazione.
Bisogna ricostruire completamente l'impianto del ragionamento sull'Afghanistan e dobbiamo seguire lo schema che ci ha spinto al ritiro delle truppe dall'Iraq. Infatti, le due missioni sono cominciate con la stessa logica e secondo la stessa logica dobbiamo giudicarle; esse, purtroppo, sono entrambe all'interno del terribile fallimento storico dell'impianto dell'amministrazione Bush. Si tratta di un'amministrazione che ha scatenato una guerra mondiale, definita «lotta al terrorismo», in realtà tesa alla costruzione del dominio statunitense sul futuro e al controllo degli elementi geopolitici e geostrategici fondamentali.
Di fronte a tali questioni, chiedo ai colleghi della destra, in particolare al collega Gasparri, se quando affermano che di fronte all'inasprirsi del conflitto in Afghanistan si debba intensificare l'azione militare, si rendano conto che ci stanno chiedendo di uscire dall'impianto costituzionale, di rinunciare ad un elemento fondamentale della nostra cultura politica e dei patti fondamentali che legano il sistema politico italiano.
Nessuno può pensare che l'Italia dichiari guerra ad un altro paese o si Pag. 39imbarchi in un'azione di carattere neocoloniale pur di far piacere a qualche potente alleato!
Mi avvio alla conclusione, signor Presidente, signor viceministro, riassumendo gli elementi che ci hanno portato a definire la nostra posizione, sia pure all'interno di un quadro di critica. Come sanno anche il Presidente Prodi e tutta l'Italia, avremmo voluto una più chiara exit strategy, un segno più chiaro della prospettive di un differente approccio; la nostra coalizione ha tuttavia scritto un programma, che è basato su un impegno multilaterale, sul diritto internazionale, sul ruolo dell'Europa e delle Nazioni Unite ed ha elaborato un impianto permeabile alla discussione. Su questa base, abbiamo compiuto alcuni passi in avanti: in particolare, si presenta la possibilità di intravedere un processo di riflessione anche nelle sedi internazionali.
Gli elementi di cui dicevo sono i seguenti: conferenza di pace; aumento della cooperazione allo sviluppo; limiti alle azioni territoriali ed al mandato delle nostre truppe; impegni politici espliciti dei massimi vertici del Governo riguardo al tema della critica all'unilateralismo militare, con cui gli Stati Uniti stanno conducendo la campagna in Afghanistan; da ultimo, comitato di monitoraggio, che non sarà una soluzione, ma consentirà forse un lavoro più approfondito ed un supplemento di discussione tra noi.
Avremmo preferito discutere separatamente le diverse missioni nelle quali sono coinvolti i nostri militari, riguardo ai quali occorre spendere qualche parola. Innanzitutto mai c'è stata da parte nostra la sottovalutazione del ruolo delle nostre Forze armate. È chiaro che esse operano nell'ambito dei mandati che i Governi attribuiscono loro. Purtroppo non sempre tali mandati sono stati coerenti con l'impianto costituzionale. Purtroppo, a volte, i nostri militari sono stati chiamati ad operare fuori dal predetto contesto. Purtroppo, a volte, abbiamo avuto anche vittime - tante vittime - a causa degli errori gravi che sono stati compiuti dalla destra nella precedente legislatura e che, ne sono certo, noi non commetteremo. È proprio perché siamo affezionati a questi uomini ed a queste donne, che non li vogliamo coinvolti in missioni impossibili, sbagliate, nelle quali la loro vita può essere messa a repentaglio in vista di obiettivi che non saranno raggiunti. Li vogliamo a casa sani e salvi, non esposti a pericoli maggiori.
Noi pensiamo che le nostre Forze armate debbano servire alla difesa, concetto che non può essere ampliato, portato fuori contesto, rilanciato sul piano globale e mescolato con un'idea di guerra permanente e preventiva. La difesa del nostro paese è prima di tutto politica. Ci dobbiamo dotare di strumenti adeguati proprio per garantire la sicurezza del nostro paese, non per portarlo in avventure sempre più gravose.
Questa è la ragione per la quale - e concludo - noi riteniamo che il decreto-legge in esame corrisponda in larghissima parte all'impianto politico definito nel nostro programma. Per quanto concerne la parte del provvedimento che non ci convince, sulla quale manteniamo una differenza di valutazione, registriamo comunque alcuni passi in avanti, che ci consentono di esprimere un voto favorevole.
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Venier.
È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.
FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, nel ringraziare l'autorevole rappresentante del Governo e gli onorevoli colleghi presenti, sottolineo che giunge all'attenzione di quest'Assemblea un provvedimento che alla valenza di politica internazionale e di sicurezza ne aggiunge un'altra, di non minore rilievo, di politica interna.
Debbo dire che ho molto apprezzato la relazione dell'onorevole Ranieri (mi dispiace che il relatore non sia presente in questo momento, anche se ho già avuto modo di anticiparglielo personalmente), che mi è sembrata, tuttavia, almeno da un punto di vista temporale, un po' troppo decontestualizzata.Pag. 40
Avrei preferito una lettura un po' più aggiornata della situazione, soprattutto con riferimento alle ultime vicende in Afghanistan; tuttavia, devo riconoscere che, da questo punto di vista, l'onorevole Pinotti ha provveduto egregiamente, con il suo intervento.
Intendo sottolineare questa necessità perché non possiamo dimenticare che, proprio su tali tematiche (vale a dire, sulla politica estera e sulle politiche di sicurezza), si è aperta, pochi giorni fa, una crisi di Governo e che la sua conclusione positiva non ha del tutto dissipato i dubbi che albergavano, ed albergano tuttora, in una parte della maggioranza. Ciò al punto che, da due giorni, il refrain delle più autorevoli dichiarazioni ruota attorno alla costituzionalità o meno di un assetto variabile del consenso che si registra o si può registrare, in Parlamento, su questo o quel provvedimento.
Quindi, dobbiamo essere consapevoli che, oltre alla dimensione umanitaria ed alla sua proiezione all'estero, il nostro dibattito assume un interesse tutto politico. Ciò non svilisce la riflessione - anzi -, ma certamente la condiziona. Ecco il motivo per cui, in primo luogo, mi sento di rivolgere un invito affinché si avvii un confronto tra maggioranza ed opposizione che, senza annacquare differenze di ruoli e di responsabilità, sia attento a non smarrire i contenuti del decreto-legge in esame. Mi scuso, quindi, se poco fa ho interrotto un collega: infatti, avevo proprio la sensazione che si andasse oltre ed al di fuori del significato del nostro dibattito.
Del resto, si è molto discusso - ed ancora si discuterà - dell'atteggiamento che alcune forze che sostengono l'attuale Esecutivo (mi riferisco ad una parte della sinistra) mantengono rispetto alla missione a Kabul, immaginandola soprattutto come una sorta di linea di demarcazione tra il bene ed il male, tra la pace e la guerra, tra la fiducia e la sfiducia al Governo Prodi.
Ciò significa che, indipendentemente dal giudizio che ciascuno di noi dà, può dare e vuole dare a questo tipo di impostazione - che, francamente, faccio fatica a condividere -, occorre prestare attenzione alle motivazioni che vengono addotte a sostegno di essa, se non altro perché sono condivise da una parte dell'associazionismo pacifista e dalle stesse organizzazioni non governative.
Ciò anche se, in verità, nel corso delle audizioni che hanno accompagnato l'esame del provvedimento in sede di Commissioni, si è colta un'apertura di credito significativa a favore della rimodulazione del decreto-legge che è stata operata, poiché, a differenza dei provvedimenti precedenti, a fianco della nostra presenza militare si sottolinea maggiormente l'aiuto alle popolazioni civili.
Come dicevo, vi è la necessità di prestare attenzione alle motivazioni addotte, poiché le notizie che giungono dall'Afghanistan sono quanto mai allarmanti. Ieri, infatti, sedici civili sono stati uccisi da soldati americani dopo un tentato attentato terroristico; stamane, si sono registrate altre nove morti, mentre dieci giorni fa ha avuto luogo un attentato nei confronti del vicepresidente statunitense Cheney. Sono tutti elementi che inducono a nutrire preoccupazione, anche se faccio fatica a considerare quanto avvenuto una sorta di rappresaglia «nazista». Anche in questo caso, invito a misurare i toni, ma non vi è dubbio che le notizie ci fanno immaginare che la temuta offensiva talebana sia anticipata almeno quanto la primavera stessa!
Non so se sia rituale il riferimento che mi accingo a compiere, tuttavia vorrei dire che mi ha molto colpito, in queste settimane, un libro famoso, che molti avranno senz'altro letto. Si tratta de Il cacciatore di aquiloni, di Khaled Hosseini, che racconta la storia dell'Afghanistan degli ultimi decenni. È una storia terribile, fosca e tragica; è un puzzle di orrori composto con le tessere di vite spezzate, di esistenze straziate ed umiliate e di infanzie rubate, passando dall'occupazione russa alla piaga talebana, dai bombardamenti americani alla presa del potere da parte del governo «fantoccio» dell'Alleanza del nord.
Un romanzo che non è soltanto un romanzo, ma è uno spaccato della vita di quel paese e parte da una metafora splendida: Pag. 41il periodo in cui nel cielo di Kabul volavano gli aquiloni, lo sport nazionale afgano, le cui eleganti evoluzioni rappresentavano la libertà del paese. Il romanzo finisce appunto nella tragicità di questi nostri anni, di questi ultimi trent'anni, quando ormai il paese è diventato una landa desolata in cui vagano donne invisibili, dove i marciapiedi sono carichi di relitti umani ammassati gli uni su gli altri, dove avere un padre o un fratello maggiore è un lusso dopo gli stermini talebani, dove gli occhi della gente restano incollati al selciato per timore di incrociare fatalmente lo sguardo sbagliato. Una realtà, appunto, dove gli aquiloni non volano più.
Vede, signor Presidente, sulla stampa questa mattina - si tratta di un'intervista rilasciata a L'Unità - il presidente della Commissione affari esteri, Umberto Ranieri, è stato molto più attento di quanto non abbia fatto nella relazione di oggi. Nell'intervista, infatti, ha affermato che bisogna ripensare alcuni aspetti della strategia finora adottata dall'Italia nel paese mediorientale. Dice Ranieri: «In primo luogo occorre accrescere i mezzi e le risorse da destinare alla ricostruzione economica e civile dell'Afghanistan ed intensificare la lotta al narcotraffico; in secondo luogo» - aggiunge - «si deve proseguire nel lavoro politico e diplomatico per una conferenza internazionale sull'Afghanistan».
Queste parole io le sottoscrivo, così come, però, voglio anche sottoscrivere quelle dell'onorevole Bandoli, che chiede di fare almeno un primo bilancio dei nostri sei anni in quel paese. Del resto, proprio ieri, non una radio italiana magari ispirata dai no-global - dico questo anche all'indirizzo del collega Gasparri -, ma la CNN ha mandato in onda un documentario su Malalai Joya, una deputata afgana di 28 anni - la sua età, immagino, Presidente -, una giovane donna coraggiosa e determinata eletta un anno fa. Ebbene, Malalai Joya si oppone all'amnistia che il Parlamento afgano vuole che il Presidente Karzai firmi per i signori della guerra e per i trafficanti di droga, molti dei quali siedono proprio in Parlamento. Malalai Joya è minacciata di morte, vive sotto scorta e cambia residenza ogni due o tre giorni.
Questo è solo un esempio di cos'è l'Afghanistan oggi. Fuori Kabul il potere legittimo del Presidente Kharzai e delle truppe alleate è precario se non totalmente nullo. I parlamentari eletti fuori Kabul raramente riescono a raggiungere la capitale per partecipare alle relative sedute. La sicurezza delle persone è un miraggio, la povertà è ai massimi livelli da anni, la condizione della donna non migliora, la produzione ed il traffico dell'oppio aumentano.
Di fronte a tutto questo noi crediamo si debba esaminare bene ed in maniera approfondita il tema del rifinanziamento della missione militare; pensiamo che questa realtà debba essere tenuta ben presente e che debbano essere offerte delle proposte serie e dei progetti che vedano uno sbocco concreto. Certamente non crediamo sia saggio, come Italia dei Valori, mettere un limite temporale alla presenza militare, ma certamente occorre che l'analisi della situazione sia rivista e meditata su basi più accurate e che le finalità siano mirate su obiettivi misurabili. Laddove si dovessero riscontrare limiti invalicabili al loro conseguimento e la nostra presenza divenisse inutile e per gli afgani addirittura dannosa, dovremmo riconsiderarla.
Occorre, quindi, che sia innanzitutto ridiscusso il senso della missione militare. Non si può, infatti, combattere il terrorismo se non se ne combattono i presupposti sociali ed economici. Non si può accettare il dominio sociale incontrastato dei signori della guerra e della droga, che si servono dei dettami del fondamentalismo per garantire un immobilismo sociale funzionale ai loro interessi. Se si vuole un'efficace guerra al terrore e alla coperture di Al Qaeda allora si deve prosciugare lo stagno di arretratezza ideologico-religiosa che annega il paese; su questo terreno devono essere valorizzate e protette le esperienze e la presenza delle organizzazioni governative e dell'assistenza tecnico-istituzionale dei paesi alleati; si deve Pag. 42inoltre spronare il Governo afgano a liberarsi della timidezza verso i signori della guerra.
Occorrono risorse, si dirà. Benissimo, ma allora si impieghino denari anche per campagne mediatiche e culturali, per la costruzione di ospedali e scuole, ancor più di quanto non si è fatto, e siano presidiate militarmente queste infrastrutture.
Quel che è importante è che sia visibile nella nostra presenza militare il senso del progresso civile e non la mera ostentazione di armi e munizioni. Un'ostentazione che finisce per accomunare un esercito all'altro, una graduato ad un altro, un incidente ad un altro.
Bene hanno fatto quindi i relatori a ricordare come la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali sia figlia di una cultura di politica estera fondata su accordi internazionali, su intese e sull'appartenenza dell'Italia agli organismi multilaterali - quali l'Unione europea, l'ONU, la NATO - impegnati nella promozione e nella valorizzazione dello Stato di diritto, della sicurezza internazionale e della tutela dei diritti, affinché l'uso della forza sia sempre commisurato a ragioni di sicurezza e controllo del territorio; della tutela dei diritti umani; della promozione della democrazia e della stabilizzazione per favorire processi di costruzione delle istituzioni statali e locali.
Pertanto, lo scopo del decreto-legge in oggetto è proprio quello di assicurare la prosecuzione degli interventi e delle attività destinate a garantire il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni dei territori teatro di violenti conflitti; mi riferisco non solo all'Afghanistan, ma anche al Darfur, al Libano e allo stesso Iraq.
Nel merito, intendo sottolineare come all'articolo 1 sia da considerare positivamente il fatto che lo stanziamento previsto per l'Afghanistan venga destinato in buona parte a contribuire ai principali fondi fiduciari attivati da agenzie dell'ONU. In particolare, l'ARTF (fondo per la ricostruzione in Afghanistan) e il CNTF (fondo per l'implementazione della strategia nazionale afgana di lotta alla droga), ai quali l'Italia ha già erogato risorse lo scorso anno, pari rispettivamente a 7 milioni di euro e ad 1 milione di euro.
Sono da considerare inoltre i contributi erogati ad organismi internazionali riguardanti il settore dei minori, del sostegno alle donne e alla giustizia. Per quanto riguarda il Libano, è apprezzabile il contributo destinato alla realizzazione di interventi nel campo della formazione professionale e della microimprenditoria locale, nonché dei settori dell'energia e del rafforzamento istituzionale.
Appare apprezzabile anche l'attività condotta in Sudan in ambito sanitario, dell'educazione e della gestione delle acque, con un'attenzione particolare al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione.
Per quanto riguarda infine la situazione irachena, sono da considerare lodevoli gli sforzi per la prosecuzione della missione umanitaria di stabilizzazione e di ricostruzione del paese, con uno stanziamento di 30 milioni di euro, al fine di fornire sostegno al Governo provvisorio nella ricostruzione e nell'assistenza della popolazione.
Va inoltre sottolineata la prevista prosecuzione degli interventi indicati nel settore sanitario per la riabilitazione e la riorganizzazione delle strutture clinico-assistenziali, nel settore delle infrastrutture, nel settore scolastico, nel settore della conservazione del patrimonio.
E, ancora, è da considerare positivamente l'autorizzazione di spesa per più di 1 milione di euro per le missioni nell'ambito della PESD (politica europea di sicurezza e difesa). Ricordiamo, infatti, come i compiti fondamentali di tale missione siano fondamentalmente tre: missioni umanitarie e di soccorso; attività di mantenimento della pace; missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace.
Questi obiettivi di ricostruzione civile e di mantenimento della pace, perseguiti dal decreto-legge in esame, si possono raggiungere solo attraverso un'azione coesa, congiunta e decisa di tutte le forze schierate Pag. 43in campo, sia militari sia civili. Un'azione che deve essere al tempo stesso organizzata, razionalizzata e coordinata, in maniera tale da ottimizzare i costi, i tempi e anche la qualità degli obiettivi perseguiti. Per qualità degli obiettivi intendo un radicamento forte e duraturo di quei valori che sono alla base di ogni società civile.
Con le nostre missioni... Spero di avere ancora un po' di tempo...
PRESIDENTE. Onorevole Evangelisti, lei ha a disposizione altri 15 minuti di tempo.
FABIO EVANGELISTI. Con le nostre missioni dobbiamo cercare, infatti, di gettare solide basi di civiltà e di sviluppo, sulle quali le genti, per così dire, autoctone possano costruire un futuro solido ed una società scevra da oppressione e tirannie.
Il raggiungimento di tali fini, purtroppo, non è sempre possibile con il dialogo tra i popoli, con la partecipazione ad un unico tavolo di confronto. La presenza militare in alcuni particolari contesti, quale appunto, in primo luogo, l'Afghanistan, costituisce uno strumento di salvaguardia della vita di sicurezza della collettività. Spesso, i nostri militari sono chiamati ad intervenire nel quadro di una coalizione internazionale di difesa, di aiuto e di sostegno alle popolazioni. Una tale azione, come si evince anche dal provvedimento in esame, necessita anche di un coordinamento e di un'integrazione delle forze armate con organizzazioni civili, come le organizzazioni non governative, la cui opera è di supporto alla ricostruzione del paese.
Sollecitando una sempre maggiore attenzione per le attività sociali di ricostruzione, auspichiamo una maggiore chiarezza e distinzione, tuttavia, tra l'azione di cooperazione civile e l'azione militare, con una maggiore razionalizzazione delle attività di ognuno.
Distinzione non significa contrapposizione, ma chiarezza sulla diversità dei ruoli e delle attività. Un tale distinguo di competenza ha permesso, infatti, in precedenti esperienze di crisi internazionali, forme di interlocuzione e, talvolta, positiva collaborazione tra componente civile e componente militare per un più sicuro avvio della ricostruzione sociale, fisica e politica dei paesi da sostenere.
Da questo punto di vista, l'attenzione posta sulla vicenda afgana è massima e sicuramente altissima su quella libanese, ma sono d'accordo con il relatore quando ha sottolineato la necessità di mantenere un'adeguata presenza in Kosovo, perché in quella regione la situazione davvero potrebbe registrare nuove impennate e nuove fiammate.
È, soprattutto, sul piano della politica internazionale e della politica estera che il nostro paese si deve caratterizzare, aiutando gli organismi internazionali a migliorare l'approccio. Penso, ad esempio, alla necessità di fare in modo che il protagonismo nuovo del leader iraniano che, in questi giorni, si è recato a Riad per interloquire con l'Arabia Saudita, possa essere accolto come l'opportunità di una ripresa del dialogo per dare più spazio alla politica e meno all'azione militare.
Ritengo, quindi, che il 2007 debba rappresentare per il Governo italiano l'anno dell'approfondimento, della chiarezza e della trasparenza. La politica dovrà ribadire il ruolo prioritario come grande mezzo di coesione e di intesa tra i popoli.
L'annunciata conferenza internazionale sul tema della giustizia in Afghanistan potrà essere l'occasione per individuare un nuovo percorso che, partendo dalla realtà afgana e dal programma strategico per sostenere e rafforzare la sovranità dello Stato, faccia da modello per affrontare meglio eventuali e future crisi internazionali.
Senza un piano d'azione chiaro, deciso e razionale, senza un'azione politica fondata su larghe intese, sul confronto e su coerenti decisioni condivise, qualsiasi presenza militare diventa alla lunga inefficace, inopportuna e dannosa (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Zulueta. Ne ha facoltà.
TANA DE ZULUETA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor viceministro, il disegno di legge alla nostra attenzione costituisce di fatto buona parte della risposta italiana alla sfida della pace nel mondo; la sfida che noi ci siamo impegnati ad affrontare attraverso la piena attuazione dell'articolo 11 della Costituzione.
Molto è stato fatto e anche in poco tempo: il ritiro dei nostri soldati dall'Iraq, il ruolo guida dell'Italia per la costituzione di una forza di interposizione sotto la bandiera dell'ONU per porre fine al conflitto scoppiato l'anno scorso tra Israele e Libano sono solo due delle scelte recenti più importanti.
Il decreto-legge in esame porta i segni di una sostanziale mutazione nell'atteggiamento del Governo italiano nel campo delicato delle missioni militari internazionali ed anche qualche significativo cambiamento rispetto alla sua prima stesura.
Il primo segno è la scomparsa di ogni riferimento al codice militare di guerra, applicato fino al luglio dell'anno scorso anche alla missione ISAF in Afghanistan, oltre che ai nostri militari impegnati in Iraq. A tutti i militari italiani all'estero, senza eccezioni, sarà applicato il codice militare di pace, così com'era nella consuetudine dai tempi delle prime missioni militari italiane per conto dell'ONU.
L'Italia non partecipa più alla coalizione dei volenterosi a guida statunitense denominata Enduring freedom, che fu sperimentata in Afghanistan - è ancora in atto - con operazioni di sostegno anche in mare. Il quadro entro il quale operano i nostri militari è ormai esclusivamente multilaterale (Nazioni Unite, Unione europea, NATO): ne prendiamo atto e lo consideriamo motivo di sollievo e soddisfazione.
Ritengo che l'atteggiamento del Governo italiano di fronte alle crisi internazionali che si sono susseguite in questi nove mesi è stato coerente, con quel multilateralismo annunciato all'inizio del suo mandato dal Presidente Prodi come bussola per la propria azione.
Dall'inizio della guerra in Libano l'Italia chiese con fermezza il cessate il fuoco: ricordo che non tutti i nostri alleati lo avevano fatto. La soluzione che l'Italia propose - una forza d'interposizione sotto il comando ONU, con una forte e decisiva presenza europea - ha rinvigorito l'immagine (un po' appannata a dire il vero) delle Nazioni Unite come garanti di pace nel mondo.
Ci sono stati altri segnali incoraggianti, anche se non rientrano nelle materie oggetto di questo decreto-legge. Comunque, voglio ricordare che l'Italia, ad esempio, ha svolto un ruolo positivo nella Conferenza di Oslo, appena conclusa, a favore di una convenzione internazionale per la messa al bando delle bombe a grappolo. L'esito positivo della Conferenza, tutt'altro che scontato, deve molto al fatto che l'Europa, per la prima volta, ha votato unita per la messa al bando. Si tratta di un risultato che il nostro Parlamento non può che salutare positivamente visto il voto unanime che si è registrato in Commissione difesa su una risoluzione, proposta dalla presidente Pinotti, che si proponeva lo stesso obbiettivo.
A luglio dell'anno scorso abbiamo votato in Assemblea una mozione della maggioranza che disegnava il quadro politico entro il quale si muovono le nostre missioni militari e di polizia all'estero. Sempre attraverso quell'atto di indirizzo abbiamo impegnato il Governo a riportare davanti al Consiglio di sicurezza, di cui faremo parte per il prossimo biennio, la questione della formazione di una forza militare permanente sotto il comando del Segretario Generale dell'ONU. Oggi, anche grazie all'alto profilo di UNIFIL 2, questa proposta, che fu parte del progetto iniziale del fondatore delle Nazioni Unite, non sembra più un obbiettivo impraticabile.
Nella stessa mozione abbiamo sottolineato la necessità che l'Italia si facesse promotrice di un'ampia verifica, in tutte le sedi, degli strumenti con cui le Nazioni Unite e la NATO operano in Afghanistan.Pag. 45
Questa discussione, a quanto pare, non è stata semplice per un'apparente riluttanza, anche dei nostri partner europei, ad aprire una riflessione critica che potesse portare ad un ripensamento della strategia NATO. Eppure le difficoltà - ahimè - sono evidenti; penso, solo per citare i casi più recenti, ai due attentati, alla morte di civili in due episodi condannabili, su cui spero vi sarà un'inchiesta. Gli episodi riguardano spari contro agenti vicino a Jalallabad e il bombardamento avvenuto oggi in cui, secondo le autorità afgane, sono morti donne e bambini.
Anche gli squilibri della presenza internazionale sono evidenti. Dal 2001 sono stati spesi 82 miliardi di dollari in operazioni militari in Afghanistan e soltanto 7 miliardi di dollari per la ricostruzione. Ci preoccupa l'annunciata operazione NATO sotto il comando del generale americano John McNeill. Faccio notare per inciso che quest'ultimo viene chiamato dai suoi colleghi «bomber» McNeill, subentrando al comando delle forze ISAF.
Il mandato dell'ISAF (International Security Assistance Force) di cui l'Italia fa parte dall'inizio, è stato cambiato. La forza internazionale per garantire la sicurezza alle istituzioni transitorie che dovevano governare il paese ha una forza militare di guerra, assorbendo i compiti e, in certe zone del paese, le modalità di Enduring freedom. Se è vero che l'Italia non dovrebbe essere direttamente coinvolta nell'offensiva militare in preparazione al sud del paese, ne siamo in qualche modo corresponsabili. In questo quadro, sono estremamente importanti gli impegni presi dal ministro D'Alema e dal Presidente Prodi per rilanciare le iniziative per una soluzione politica del conflitto, coinvolgendo tutti i paesi dell'area.
La proposta di una conferenza di pace per l'Afghanistan è sancita dal decreto con un apposito capitolo di spesa. Lo stesso Presidente Prodi afferma che l'idea, poco condivisa all'inizio, sta guadagnano consenso. Non può essere che così. Pensare di vincere la guerra tribale nelle montagne dell'Afghanistan contando esclusivamente su forze occidentali, senza attivare un processo di sostegno politico insieme ai paesi limitrofi, sarebbe da sordi in primo luogo alla lezione della storia, ma anche alle parole degli stessi afgani. Questi ultimi desiderano la sicurezza, ma non di vedere il proprio paese trasformato in un campo di battaglia in cui le vite umane vengono derubricate a meri danni collaterali.
Questo ci hanno detto i componenti della Commissione difesa del Parlamento afghano che abbiamo incontrato a Kabul nell'agosto dello anno scorso. Gli stessi parlamentari ci hanno detto che bisogna prendere atto che gli insorti contro i quali si combatte in Afghanistan sono soprattutto cittadini delusi e in rivolta. Il problema è dunque politico, anche nelle sue dinamiche interne.
L'altra cosa che ci hanno chiesto i colleghi afghani era una maggiore attenzione alla cooperazione e alla ricostruzione paese. Questo intende fare il decreto al nostro esame, aumentando le risorse disponibili alla cooperazione a 40 milioni di euro. In questo modo spero che daremo attuazione ad un riequilibrio delle nostre priorità.
Ricordo, come già ha fatto la presidente Pinotti, che la mozione che ho citato prima impegnava altresì il Governo lavorare per una chiara separazione tra le azioni e le responsabilità dei militari, da una parte, e l'attività di cooperazione e assistenza umanitaria, dall'altra. Questa separatezza continua ad essere richiesta non solo da varie organizzazioni non governative italiane, ma anche dalla Croce rossa internazionale, a tutela del principio di neutralità.
L'apertura di una nuova sede, separata da quella del contingente militare per gli operatori della cooperazione italiana a Herat, è un passo nella giusta direzione. L'avvio di un'indagine conoscitiva sulle missioni internazionali da parte delle Commissioni esteri e difesa, dovrebbe consentirci di seguire la piena attuazione di questo principio già accolto dal Governo.
L'evolversi della situazione in Afghanistan, ma anche in Libano, in Kosovo, in Palestina o nel Darfur, è di una tale delicatezza che merita davvero un monitoraggio Pag. 46parlamentare continuo. Ci eravamo impegnati a farlo e adesso - finalmente oso dire - diamo seguito a questo impegno.
Menziono brevemente due ordini del giorno che - come Verdi - portiamo all'attenzione del Governo. Il primo - di cui ha anche parlato il collega d'Elia - riguarda il problema, assolutamente irrisolto della produzione di oppio in Afghanistan. Questo poverissimo Stato è oggi, di fatto, il fornitore mondiale di oppio e, dunque, di eroina.
Una specie di narco-Stato sotto tutela internazionale, un paradosso insostenibile. Le risposte in atto, però, sono contraddittorie e, per certi versi, potenzialmente pericolose. I Verdi ritengono che la strada proposta della sperimentazione della produzione legale di oppio per uso nella terapia del dolore sia una valida alternativa, anche sul piano simbolico, alla crescente militarizzazione del contrasto.
Infine, signor Presidente, signor rappresentante del Governo, ho presentato un ordine del giorno a tutela di una nuova e mai citata istituzione afgana: la Commissione indipendente per la tutela dei diritti umani. Ritengo che essa meriti attenzione e sostegno per il suo prezioso lavoro, per esempio, di visita alle carceri afghane, che ha portato al rilascio di circa 500 persone illegalmente detenute - non è un risultato da poco -, di sostegno e protezione delle donne afghana colpite da abusi collegati al sempre vigente codice di onore, o di iniziativa a favore dei minori (da qui il partenariato con importanti ONG internazionali). La Commissione ha anche il merito di essere indipendente; essa ha criticato, per esempio, la recente amnistia che il Parlamento si è autoconcesso nei confronti dei signori della guerra, che si erano macchiati di crimini nella guerra civile precedente. Il lavoro della Commissione si svolge in un contesto ancora caratterizzato da una pesante cultura dell'impunità - lo scrive la stessa Commissione nel suo rapporto annuale - e io ritengo che potrebbe e dovrebbe essere complementare e sinergico rispetto al compito, che l'Italia si è assunta, di sostegno alla giustizia afghana. Costruire le carceri non basta, bisogna anche controllare che non diventino teatro di nuovi abusi; pertanto spero che il Governo risponda in senso positivo all'ordine del giorno.
Signor Presidente, la prima volta che abbiamo votato l'autorizzazione delle missioni, a luglio, ho menzionato l'exit strategy, che tutte le missioni internazionali dovrebbero darsi come regola base. Sembrava che non se ne dovesse neanche parlare, invece oggi ne parla anche Jaap de Hoop Scheffer, il segretario generale della NATO, che dice che la exit strategy della NATO in Afghanistan è la formazione di un efficace ed autonomo esercito afghano e di una forza di polizia degna di questo nome. Se così è, siamo in ritardo, e considero importante e positivo l'annuncio che l'Unione europea si impegnerà direttamente nella formazione della polizia afgana: di questa ancora non si è parlato e spero che ci sarà un seguito. Ringrazio per l'attenzione (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo e Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Forlani. Ne ha facoltà.
ALESSANDRO FORLANI. Signor Presidente, signor viceministro, onorevoli colleghi, collega relatrice, così come nelle precedenti occasioni condivido con convinzione la proroga delle missioni menzionate nel provvedimento in esame, ritenendo che in queste aree tormentate del mondo sia ancora richiesta la presenza internazionale per la tutela della sicurezza delle popolazioni, per favorire la ricostruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture, che consenta il ritorno ad una normalità nella sicurezza e nella coesistenza pacifica e la creazione di condizioni di autosufficienza economica di paesi a lungo travagliati e devastati dalla guerra.
Tra gli scenari più inquietanti e impegnativi sono il Libano, il Kosovo, il Sudan, l'Afghanistan, paesi ancora gravati dal rischio della guerra civile e da pesanti incognite rispetto agli assetti politici, non Pag. 47ancora condivisi e definiti da tutte le parti in causa o comunque contestati nelle loro attuali configurazioni istituzionali. Si tratta di realtà storiche, sociali e politiche profondamente diverse, ma caratterizzate tutte da questa analogia di fondo: a causa delle profonde divisioni esistenti rispetto ai destini politici dei singoli paesi, esse non appaiono ancora in grado di garantire autonomamente alle proprie popolazioni condizioni minimali di pace e di sicurezza, di serena ripresa delle proprie attività, di tutela della propria libertà e incolumità e dei propri diritti fondamentali.
E se per quanto riguarda Sudan, Kosovo, Palestina e Libano il ruolo del nostro paese e delle rispettive missioni cui aderisce appare abbastanza chiaro, rispondente a quella esigenza di riportare l'Europa al centro delle crisi internazionali in un quadro multilaterale - l'Europa come espressione di una cultura dei diritti e delle libertà in grado di contemperare con il giusto equilibrio la tutela della sicurezza e il conseguente impegno anche militare con un'adeguata azione di bonifica, di ricostruzione, di assistenza, di formazione e di ricostruzione giuridica e civile - il tema più controverso, anche nel nostro dibattito politico nazionale, resta quello dell'Afghanistan.
Tale tema è aggravato dall'incombere della possibile offensiva talebana o, se si vuole definirla così, anti-talebana.
Si tratta in ogni caso del rischio dell'esplosione di una nuova guerra, che secondo alcuni osservatori sarebbe già cominciata, come peraltro attestano le vicende di questi ultimi giorni e mesi e in particolare il terribile episodio di sangue verificatosi proprio ieri a Jalalabad.
Dopo cinque anni di impegno della comunità internazionale in Afghanistan, nonostante risultati importanti, azioni di sostegno e di ricostruzione, il quadro si presenta tuttora fortemente critico ed evidenzia gravi carenze sotto diversi profili.
Vi sono ancora condizioni di precarietà e rischi di involuzione e di ritorno al passato. Vi è un legittimo Governo che non riesce ad affermare la propria autorità, nonostante sia stato democraticamente eletto, il Parlamento, quindi il presidente, che ha poi formato il Governo.
Sono state insediate istituzioni rappresentative, che non appaiono però in grado di consentire il recupero della capacità di autogoverno da parte del popolo afghano.
Le istituzioni sono permeate dalla corruzione e dagli influssi del narcotraffico, mentre i signori della guerra, che condizionano istituzioni e comunità locali, non sono interessati ad una effettiva democratizzazione e affermazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Vi sono le realtà rurali e montane, in cui lo stato non arriva in modo adeguato e il potere di fatto è esercitato solo dalle jrga locali, le assemblee spontanee locali, che, per carità, hanno un importante ruolo di surrogazione del potere statale, che andrebbe quantomeno integrato con un coordinamento, con delle indicazioni e delle direttive di massima dal centro.
Vi sono ancora la produzione enorme di oppiacei, fortemente aumentata negli ultimi anni; la rinnovata diffusione del fondamentalismo; la povertà, che colpisce aree molto ampie della popolazione; il ritorno al potere e alla ricezione di consenso da parte dei talebani in molte realtà locali, così come quello dei signori del narcotraffico, i quali almeno garantiscono ad alcuni quella sopravvivenza, che invece la nostra presenza non è riuscita ad assicurare in maniera diffusa.
Siamo di fronte ad uno scenario, che dopo cinque anni di continuativa presenza e partecipazione deve essere lucidamente e consapevolmente ripensato.
Sono visibili a tutti gli errori, le inefficienze e i ritardi. Il paese non è stato posto in condizione di conquistare l'autosufficienza economica e tornare a produrre sufficienti risorse. Non è stato ricostruito un tessuto produttivo in grado di consentire condizioni di minima e dignitosa sopravvivenza alle popolazioni.
Anziché limitarsi ad un apporto di appoggio e assistenza, diverse organizzazioni non governative internazionali hanno di fatto surrogato le legittime istituzioni (quelle che avrebbero dovuto riprendere in Pag. 48modo efficace il controllo del territorio) e si è affievolita così anche l'auto-stima e la responsabilizzazione degli afghani rispetto ai propri destini.
Ciò è accaduto anziché consolidare la capacità non soltanto di autogoverno, attraverso strutture statuali gestite dagli stessi afghani, ma anche di ripresa produttiva e commerciale.
Si avverte la sensazione che lo stato afghano non sia stato posto in condizione di svolgere le funzioni connesse alla sua sovranità, di recuperare il controllo del territorio e gestire i programmi di sviluppo, mentre a questo provvedono le organizzazioni internazionali con le loro reti articolate. Lo stato afghano si mostra assente nelle campagne e l'apparato statale spesso è inefficiente e corrotto.
Sono stati tentati - come è avvenuto anche in altri casi - processi di occidentalizzazione e di modernizzazione, con intenti e modalità di eccessiva rapidità, che non tengono conto delle sensibilità, delle culture e della forte immedesimazione delle popolazioni con i valori tradizionali. Quindi da molti osservatori viene percepita la sensazione degli afghani che da parte delle presenze internazionali non si rispetti né la loro identità, né il loro ordine sociale.
Dove si coglie dunque questa rinnovata sovranità popolare, questa restituzione di dignità e di libertà al popolo afghano, della possibilità di governarsi in virtù del consenso popolare? Tanti sono i problemi rimasti sul tappeto: la carenza delle infrastrutture e della ricostruzione materiale; il ritorno dei talebani; il disprezzo a volte di tradizioni locali appunto da parte degli operatori internazionali; l'aver disatteso una modernizzazione con criteri di gradualità, che apparisse autoctona, gestita o cogestita dal popolo afghano; il fallimento economico; il mancato potenziamento produttivo e le mancate riconversioni delle colture al di fuori dell'enorme produzione di oppio. Al riguardo, c'è stato questo diffuso processo di eradicazione anche negli ultimi giorni, ma non è stato avviato un processo di conversione delle colture, che consentisse di reintegrare l'eradicazione con nuove forme di coltura agricola a chi fosse privato di quella, che pure nella sua negatività è una fonte di sopravvivenza.
I contadini sono alla mercé dei narcotrafficanti, perché non sono protetti e spesso sono senza alternative di sopravvivenza. In tutte le sfere della vita pubblica si registrano impunità e corruzione, che paralizzano le funzioni dello Stato e vanificano l'affermazione del principio di legalità, che pure in gran parte abbiamo cercato di riaffermare in quel paese attraverso il ruolo dell'Italia. Per quanto riguarda la condizione popolare, il dato inquietante è quello del ritorno al consenso nei confronti dei talebani, che erano stati cacciati e che erano stati in una certa fase invisi a gran parte della popolazione. Questa oggi appare stanca di promesse non mantenute, pentita della fiducia accordata agli occidentali e a Karzai, nonché vittima non soltanto di corruzioni, intimidazioni ed angherie perpetrate a volte dalle forze dell'ordine, ma in taluni casi anche di brutalità di alcune reazioni militari, sia pure indotte a volte dalla percezione dell'emergenza e del pericolo.
Si aggiungano le denunce di corruzione nei confronti delle ONG e alcune volte la percezione di un intento delle presenze occidentali di portare una cultura, che agli occhi delle sensibilità tradizionali può apparire depravata o inconsueta in quelle aree, tra quelle popolazioni. Vi è poi il disgusto nei confronti della permanenza al potere dei signori della guerra e la presenza straniera militare viene percepita a volte come occupazione, mentre quella relativa all'amministrazione civile come lenta ed autoreferenziale.
Non sono state dunque raccolte in modo adeguato e sufficiente le aspettative che erano state riposte nelle nuove istituzioni e nello stesso processo di ricostruzione: pochi fondi gestiti autonomamente dallo Stato, insufficiente autonomia nella decisione sui progetti di sviluppo, mentre dovrebbe essere lo stesso Stato afghano ad avere il potere di decidere sul loro sviluppo e sulla loro gestione. Solo lo Stato - e non le organizzazioni internazionali - Pag. 49in quanto espressione di quella popolazione può colmare la distanza che oggi lo separa dalla gente e far capire che agisce in nome del popolo. Solo lo Stato può farsi accettare, cooptando il consenso delle rappresentanze locali delle comunità.
Pure essendo doverosa la nostra presenza ineludibile l'esigenza di una permanenza della comunità internazionale in quel paese, pur non essendoci le condizioni per garantire autonomamente la sicurezza nell'immediato, sarà difficile per noi raggiungere il nostro scopo di mettere quel paese in condizioni di camminare con le proprie gambe ed emanciparsi per sempre dai signori della guerra, dai talebani, dai narcotrafficanti, se non promuoveremo con l'azione di cooperazione civile la rimozione dei fenomeni, che stanno portando alla nuova spirale bellica; se non svilupperemo il potenziamento delle infrastrutture, la lotta alla povertà; se non offriremo modalità di sopravvivenza; se non sapremo proporre quei processi produttivi e di reintegrazione commerciale, che consentano l'autosufficienza dell'economia locale.
Esprimo pieno appoggio all'idea della Conferenza internazionale per esaminare ciò che ancora deve essere realizzato, come correggere errori, coinvolgere nuovi attori, con particolare riferimento ai paesi limitrofi, troppo poco coinvolti fino ad ora: la Repubblica popolare cinese, la Repubblica iraniana, la Repubblica pakistana. Non possiamo ritirarci, ma dobbiamo affiancare gli afghani nell'impegno per la sicurezza con questa iniziativa politica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garofani. Ne ha facoltà.
FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Signor Presidente, signor viceministro, onorevoli colleghi, le convergenze parlamentari annunciate sul decreto-legge riguardante il rifinanziamento delle missioni internazionali sono il segno di una responsabilità politica condivisa che sa trovare un punto di incontro nell'interesse nazionale e soprattutto nel sostegno doveroso dei militari italiani impegnati in contesti tanto difficili e rischiosi.
Questa condivisione che, a mio avviso, dovrebbe essere tenuta al riparo da certe bizzarre argomentazioni paracostituzionali, come alcune tra quelle pronunciate qui da qualche collega dell'opposizione, non annulla né nasconde analisi politiche diverse sugli scenari di crisi, sui possibili esiti né sulle scelte politiche che ci hanno diviso negli ultimi anni.
Tuttavia, la replica di una polemica su continuità e discontinuità della politica estera italiana rappresenterebbe un inutile esercizio accademico, se non riguardasse l'orizzonte più ampio nel quale si colloca la domanda, per molti aspetti ancora inevasa, di come si costruisce oggi la sicurezza globale.
Questo è il punto rispetto al quale dobbiamo misurare l'efficacia delle strategie messe in campo negli ultimi anni a livello internazionale, per combattere il terrorismo ed eventualmente stabilire, questa volta sì, continuità e discontinuità in una visione di ampio respiro.
Le cronache dell'orrore dell'Iraq, ma anche i drammatici fatti di queste ore in Afghanistan, ci dicono ogni giorno di più che l'approccio dell'amministrazione americana alla lotta al terrorismo si è dimostrato inadeguato ed inefficace; in particolare, la via dell'unilateralismo, con il suo corollario di volenterosi, sembra consumata in un progressivo e sostanziale fallimento.
La bocciatura di quella strada emerge, del resto, non soltanto dai giudizi, che potrebbero essere interessati, di una maggioranza di Governo, di una parte politica, ma dalla stessa opinione pubblica americana, come hanno dimostrato le recenti elezioni interne.
L'alternativa in campo è quella che chiamiamo multilateralismo efficace (se ne è parlato anche oggi). Questa è la linea di politica estera del nostro Governo. Al consolidarsi di questa prospettiva, l'Italia sta dando un contributo importante che poggia su due pilastri: una forte ripresa Pag. 50dell'iniziativa europeista ed una più efficace ed equilibrata collaborazione euro-atlantica.
Questo impegno è messo alla prova. Cito due elementi nuovi che hanno caratterizzato questi mesi dall'ultima discussione sul rifinanziamento ad oggi: l'elezione dell'Italia al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2007-2008; il ruolo assunto dall'Italia nella risposta alla grave crisi libanese e la volontà di coinvolgere in questa azione di pace l'Europa nel suo insieme, ma anche i paesi arabi, la Russa e la Cina.
Porre il problema dell'efficacia di un'azione politica che recuperi la centralità delle istituzioni sopranazionali, a partire dall'ONU significa, tuttavia, interrogarsi sui contenuti dell'intervento internazionale, sulla qualità di questo intervento. In altre parole, il multilateralismo ha bisogno di tempo, di risultati, non solo militari. Ha bisogno di risultati economici, di sviluppo, di rafforzamento delle istituzioni, di crescita delle società civili; insomma, di una risposta globale che preveda strumenti diplomatici, economici e culturali.
È a questi aspetti che fanno riferimento i contenuti del decreto-legge alla nostra attenzione. Naturalmente al centro della nostra discussione vi è soprattutto l'Afghanistan. Nelle numerose audizioni svolte nelle scorse settimane presso le Commissioni riunite III (affari esteri) e IV (difesa) abbiamo ricevuto molti elementi che confermano preoccupazioni, difficoltà, limiti, contraddizioni che segnano il lento processo di state building in Afghanistan. L'inasprisrsi dei combattimenti e degli attacchi dei talebani alle forze NATO, il ripetersi di voci relative ad imminenti nuove offensive non fanno che rafforzare questi timori. Tuttavia, siamo chiamati a rispettare i nostri impegni con e nella comunità internazionale.
La risoluzione n. 1368 del Consiglio di sicurezza dell'ONU indica nel consolidamento delle istituzioni politiche e della sicurezza in Afghanistan il mandato della missione ISAF, in attuazione degli accordi di Bonn. Quindi, non siamo in guerra, come detto dal collega Gregorio Fontana, ma in una missione di pace e nel pieno rispetto dell'articolo 11 della Costituzione. Per la rilevanza della posta in gioco, relativa alla sicurezza globale, ma anche per le difficoltà già ricordate, questo impegno richiede di aprire una riflessione nuova che riguarda oggi come stare in Afghanistan e come ricostruire una soluzione politica a quella crisi per il domani.
Dalle audizioni è emersa la necessità di uno sforzo multidisciplinare, che vada oltre la presenza militare senza tuttavia poter prescindere da essa. Si tratta della posizione condivisa dalla stragrande maggioranza delle organizzazioni non governative che abbiamo ascoltato. Andare oltre l'azione militare significa concretamente aumentare gli sforzi, i mezzi e le risorse da destinare alla ricostruzione ed allo sviluppo e rafforzare il ruolo civile della cooperazione. In questo senso dalle organizzazioni non governative sono venute indicazioni chiare, largamente recepite anche dal decreto-legge in esame, che mirano a distinguere le operazioni militari di contrasto al terrorismo da quelle più propriamente umanitarie. Nella ricostruzione della fiducia questa azione civile non è meno importante di quella diplomatico-militare. È anche questa azione che può contribuire a superare quella crisi di fiducia diffusasi nel popolo afgano quando è parso che lo sforzo della comunità internazionale nella lotta ai talebani si andasse in qualche modo diradando ed indirizzando verso altre direzioni, a causa dell'apertura di altri fronti di crisi.
Il problema di oggi riguarda ancora la presenza in Afghanistan nel quadro multilaterale. Quindi, riguarda il come rimanere, con quali garanzie, con quali possibilità di monitorare realmente il processo di stabilizzazione, con quali strumenti tradurre gli obiettivi in risultati, garantendo maggiore coordinamento, trasparenza ed efficienza.
Restare in Afghanistan per salvare il multilateralismo ed il ruolo dell'Italia all'interno di quella prospettiva è una risposta forte, ma essa non sarebbe esaustiva se contenesse in qualche modo una Pag. 51qualche rassegnazione, l'espressione di volontà passiva o la mancanza di un dopo. Il dopo è il futuro che dobbiamo costruire. È un futuro che ha bisogno di politica, di un'ambizione politica alta, capace di guardare ad orizzonti più lontani, oltre a questo faticoso presente. Il futuro afgano ha bisogno di soluzioni di politica multilaterale (lo abbiamo detto), da ricercare nelle sedi istituzionali multilaterali. È lì che l'Italia è chiamata ad operare oggi ed a farlo con maggiore responsabilità. Porre questo obiettivo per l'Afghanistan anche attraverso una conferenza internazionale di pace nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, come ha fatto il Governo e come prevede anche il decreto-legge, può essere considerato nelle difficoltà che attraversiamo, innegabili anche nel centrosinistra, un passo velleitario o una fantasiosa divagazione. Per il gruppo dell'Ulivo si tratta di una scelta di responsabilità, l'unica possibile, da costruire insieme nella comunità internazionale, con le armi del diritto e della legalità (Applausi dei deputati del gruppo L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Brusco. Ne ha facoltà.
FRANCESCO BRUSCO. Signor Presidente, la ringrazio per la sensibilità dimostrata. Poiché non vi è lo spazio per poter intervenire, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.
PRESIDENTE. Onorevole Brusco, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto parlare l'onorevole Cacciari. Ne ha facoltà.
PAOLO CACCIARI. Signor Presidente, signor sottosegretario, mi limiterò a parlare su una sola delle missioni autorizzate dal decreto-legge in oggetto, ovvero quella in Afghanistan. Siamo infatti entrati nel sesto anno della guerra in Afghanistan, un tempo che giustamente il Presidente Prodi ha definito già troppo lungo.
Un'immensa quantità di vite umane e di risorse materiali è stata bruciata senza ottenere i risultati sperati né nella lotta alle centrali del terrorismo internazionale, né nella pacificazione e ricostruzione di quel paese.
Si prospetta, a detta dell'amministrazione degli Stati Uniti d'America, una presenza prolungata a tempo indefinito e, forse, anche un ulteriore inasprimento e allargamento del conflitto, come già è avvenuto e sta avvenendo in Iraq.
I dati del centro nazionale di controterrorismo dicono che gli attentati terroristici nel mondo sono paurosamente in aumento: 208 nel 2003, con 4.271 individui uccisi o feriti; 3.168 attacchi nel 2004, con 9.300 individui uccisi o feriti; 11.111 attacchi nel 2005, con 40 mila individui uccisi o feriti. Come si vede, un'escalation spaventosa. E non dobbiamo dimenticarci che le vittime sono civili e variano dal 95 al 98 per cento.
Si temono per questa primavera offensive e controffensive tra le forze ISAF e i ribelli con un bagno di sangue del tutto prevedibile: le vicende di sabato ne sono un preludio drammatico.
Pur apprezzando lo sforzo prospettato dal Governo italiano per avviare un percorso di maggior coinvolgimento dell'ONU, per l'inizio di una Conferenza di pace, per il rafforzamento della cooperazione civile che conduca ad una graduale fine dell'intervento militare in Afghanistan, esiste una larga parte dell'opinione pubblica nel nostro paese, in Europa e negli stessi Stati Uniti d'America che ritiene che questa guerra sia stata segnata, fin dall'inizio, da errori di valutazione tali da comprometterne irrimediabilmente l'esito.
Esattamente come è avvenuto per l'Iraq, non è stato dimostrato che l'organizzazione degli attentati sia avvenuta per responsabilità diretta del Governo di Kabul. Arabia Saudita, Pakistan e altri paesi islamici si sono dimostrati permeabili e retroterra fertile alle organizzazioni terroristiche quanto e come l'Afghanistan.
Agli occhi delle popolazioni islamiche l'intervento militare USA, prima, e NATO, poi, è apparso come una ritorsione indiscriminata Pag. 52e ingiusta agli attentati dell'11 settembre, ed è per questo motivo che sta avendo un effetto controproducente nell'obiettivo di isolare e togliere consenso ai gruppi terroristici. Cresce un risentimento popolare contro tutte le truppe straniere.
Non vorrei apparire troppo strumentale, ma su questo punto concordo con il senatore Cossiga, quando dice che l'intervento militare in Afghanistan è stato politicamente e militarmente sbagliato.
Tutti i più seri osservatori di cose militari insistono nel dirci che le tecniche per individuare e smantellare le basi terroristiche non sono più appropriate e non sono quelle militari, ma sono quelle dell'intelligence e della polizia, dell'infiltrazione, della prevenzione e della dissuasione.
Viceversa, la guerra in Afghanistan ha finito per coinvolgere e confondere in un unico fascio fenomeni diversi che sarebbe utile, invece, tenere distinti: Al Qaeda, i taleban, gli studenti di teologia, i fondamentalisti sunniti, gli islamisti, i musulmani sunniti, le popolazioni di particolari territori, etnie e gruppi tribali che abitano in territori di confine con il Pakistan o nelle montagne del nord, movimenti di vario orientamento politico, ma contrari all'occupazione prolungata del proprio territorio da parte di eserciti stranieri. Oppure semplici poveri, disoccupati, contadini senza terre, profughi interni, centinaia di migliaia, che insorgono contro un Governo, quello di Karzai, giudicato incapace di affrontare i problemi più gravi di un paese che è il quinto nella graduatoria per povertà e denutrizione dell'intero pianeta.
Con grande cautela e prudenza non posso però sottacere anche informazioni, che ci vengono da chi è impegnato in missioni umanitarie, circa l'esistenza di ampie fasce di corruzione, di clientelismo, di familismo nella gestione degli stessi aiuti umanitari e di disparità enormi, vistose negli stili di vita tra le élite governative di Kabul e la gente comune.
Non basta certo sradicare i papaveri, operazione che pure riuscirono a fare i talebani, per definire accettabile un regime di un paese, ma è difficile pensare che una democrazia possa fondarsi sui narcotraffici.
Ritengo, assieme a molti altri osservatori, che sia stato un grave e pericoloso errore quello di entrare in una guerra senza piani d'uscita, senza prevedere un end state, un punto di caduta, senza cioè prefissare obiettivi verificabili, misurabili, traguardabili. Anche in una guerra bisognerebbe rispettare delle regole per limitare il ricorso alla violenza e tra esse dovrebbero esservi anche i limiti della durata, prestabiliti, altrimenti saremmo nella dimensione barbarica della guerra preventiva, infinita, teorizzata dai neocon texani. Se la guerra é sospensione dei diritti e delle regole democratiche, non è possibile che essa duri a tempo indeterminato.
Concordo con le affermazioni del presidente Ranieri, che dice che non vi è una soluzione militare in Afghanistan, e con quelle del Governo, secondo cui non sarà mai possibile ottenere la pace senza una soluzione diplomatica e politica; ma ritengo altresì che l'obiettivo di una piena vittoria militare da perseguire ad ogni costo sia d'ostacolo all'avvio della riconciliazione delle parti e delle etnie in conflitto in Afghanistan.
Ritengo quindi che servirebbe uno scatto di verità e di realismo, pari a quello che fu di Robert Kennedy e dei democratici repubblicani agli inizi degli anni '70, di fronte all'evidente fallimento dell'avventura tardo-coloniale nel sud-est asiatico. Sono molto speranzoso di ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti e che mi pare foriero di nuove stagioni di pace.
Anch'io apro una parentesi, come ha fatto Fulvia Bandoli, sulla base di Vicenza. Il suolo d'Italia non può essere concepito come un supporto inerte ad una forza militare che si muove nel mondo in modo unilaterale; in questo caso un po' di orgoglio e di autonomia nazionale non guasterebbero.
Sono cosciente comunque che la soluzione del conflitto e la stabilizzazione in Afghanistan o avverranno a livello regionale o non saranno mai. Difficile pensare Pag. 53ad un Afghanistan isola felice di stabilità, pace e prosperità in mezzo ad una regione geopolitica, strategica per le risorse petrolifere e sconvolta da varie guerre, i cui confini sono stati segnati sulla carta dal colonialismo inglese, e in particolare quello fra Afghanistan e Pakistan, una regione dove prosegue la guerra imperiale Usa in Iraq, dove proseguono le tensioni tra Pakistan e India in Kashmir (due potenze atomiche), dove proseguono le tensioni tra ONU e Iran a causa dei programmi nucleari.
La soluzione in Afghanistan non si può estrapolare e isolare dal comportamento degli Stati Uniti d'America in Iraq, che contamina tutta l'area. La concertazione multilaterale non può essere concepita come un intervento a scacchiera: lì i caschi blu dell'ONU, qui gli interventi NATO, lì gli Usa da soli. La strategia militare degli USA, in un mondo interconnesso, compromette anche le missioni umanitarie; agli occhi delle popolazioni locali, è impossibile far capire differenze raffinate che anche noi abbiamo difficoltà a comprendere.
È vero, come ci spiegano i funzionari ONU, che vi è differenza tra Iraq e Afghanistan ma, nella missione ISAF, le nostre Forze armate sono contigue a quelle degli Stati Uniti e della Gran Bretagna; peggio, la catena di comando della missione risale, di fatto, al Pentagono. In questo quadro, la pretesa di essere considerati distintamente dai nostri alleati è irrealistica.
Comprendo, signor sottosegretario, che esistono vincoli politici internazionali e alleanze militari all'interno delle quali il nostro paese è collocato e che le soluzioni finali devono essere trovate al loro interno; ma ritengo che in tale ambito possa trovare spazio l'opzione del ritiro delle forze militari da parte di un paese membro senza per questo interrompere i vincoli di amicizia e di collaborazione tra tutti i contraenti.
Non tutti i paesi aderenti all'ONU partecipano a tutte le missioni patrocinate; anche in ambito NATO debbono poter persistere le autonomie nazionali. Ha dichiarato il generale Fabio Mini, ex comandante della NATO: «Nella Nato nessuno si stupisce se un paese prende decisioni diverse o se intende contribuire alle missioni in modo diverso dagli altri».
Infine, vi è un'altra dimensione all'interno della quale deve collocarsi la valutazione che ognuno di noi deve esprimere sui provvedimenti legislativi che sanciscono di fatto, sebbene con certe modalità, il proseguimento del coinvolgimento del nostro paese in una guerra. Si tratta di questioni che implicano considerazioni etico-politiche in ordine alle conseguenze irreversibili sulla vita e sulla morte delle persone coinvolte; esattamente come avviene per altri temi legislativi che hanno implicazioni così rilevanti, non iscrivibili nel repertorio delle decisioni politiche ordinarie, nutro la speranza che i gruppi parlamentari - il mio, anzitutto; ma, unitamente, quelli dell'Unione, che so essere sensibili e aperti su questo ordine di questioni - possano lasciare libera possibilità di scelta nel giudicare i provvedimenti di legge in esame.
Ho letto, del resto, che partiti cui certo non si può negare senso di responsabilità e cultura di Governo - come la SPD tedesca - sull'Afghanistan hanno lasciato ai loro parlamentari libertà di voto. So bene che in molti - uomini e donne che leggo e stimo, da Umberto Galimberti a Rossana Rossanda a Furio Colombo - hanno obiettato che la coscienza degli individui virtuosi che scelgono di mettersi in politica deve misurarsi con le limitate possibilità di azione a disposizione in quel momento nel repertorio delle decisioni politiche.
A questi richiami al realismo, alla necessità e alla responsabilità vorrei contrapporre due questioni per me insolute. La prima è relativa al criterio del buon funzionamento democratico secondo cui non è bene che istanze e orientamenti culturali ampiamente presenti nell'opinione pubblica non siano politicamente rappresentati nelle istituzioni. Al riguardo, Fulvia Bandoli ha ricordato la seconda potenza del mondo, ovvero il grande movimento pacifista che attraversa le nostre Pag. 54società dalla guerra in Iraq in poi; sarebbe paradossale che questo movimento, che chiede il ritiro delle truppe dai territori in guerra, non solo non trovasse ascolto ma neanche qualche collegamento.
In molti, in questi giorni, teorizzano la inevitabilità della separazione tra movimenti dei cittadini attivi e la «politica di palazzo», i primi dediti alle relazioni sociali, solidali e collaborative e via dicendo; la seconda, dedita alle mediazioni ed ai compromessi più arretrati.
Non credo che il decreto-legge in esame rappresenti una mediazione al ribasso; anzi, con l'inserimento della Conferenza di pace e con l'accentuazione degli interventi della cooperazione civile, esso ci fa fare un passo in avanti. Tuttavia, dobbiamo sapere che ciò non basta a rassicurare, a rasserenare i nostri concittadini, giustamente preoccupati ed inorriditi davanti alle conseguenze della guerra. Chi asserisce di poter controllare gli esiti della violenza illude se stesso ed inganna i propri interlocutori.
Non è vero che non esistano alternative alla guerra soltanto perché quasi mai esse vengono prese in considerazione e sperimentate. Sono pronto a scommettere con chiunque che, se i 500 miliardi di dollari (secondo alcune stime, a tanto ammonta la somma spesa finora in Afghanistan, in un paese con 24 milioni di abitanti) fossero stati impegnati diversamente, i risultati sarebbero stati diversi. Penso alle politiche ed alle pratiche di confidence-building, al peace-keeping non armato, alle forze civili di pace, ai processi di riconciliazione garantiti da terzi neutrali, alle iniziative diplomatiche di base dal basso ed alla importante rete di organizzazioni e gruppi di volontari che lavorano da anni (in Italia, abbiamo esempi concreti di eccellenza che dovrebbero inorgoglirci e che dovrebbero indicarci la direzione da prendere: indico, per tutti, le strutture di Emergency di Gino Strada).
Per spiegare la seconda e più complicata questione del rapporto tra coscienza, sentire comune e politica, mi faccio aiutare da Hannah Arendt, la quale ha scritto nel libro La disubbidienza civile, edito nel 1970: «La coscienza è apolitica, ma non c'è dubbio che una obiezione fondata sulla coscienza possa assumere un significato politico quando i suoi scrupoli si trovino in un certo numero di coscienze e quando questi obiettori decidano di farsi ascoltare sulla pubblica piazza. Ma, allora, non si tratta più di individui: la decisione presa in foro coscientiae fa ormai parte della pubblica opinione e la forza dell'opinione dipende dal numero di coloro che la condividono».
Ancora oggi, dobbiamo registrare una divaricazione grande tra desiderio di pace, che è in ognuno di noi ed in tutti i popoli del mondo, e la coazione dei Governi più potenti del mondo a perseverare con opzioni militari e violente: vorrei che questa contraddizione potesse essere registrata anche in quest'aula. Grazie (Applausi dei deputati dei gruppi Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Comunisti Italiani).
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Cacciari.
È iscritto a parlare l'onorevole Picchi. Ne ha facoltà.
GUGLIELMO PICCHI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, signor rappresentante del Governo, l'Italia è impegnata in missioni internazionali che da moltissimo tempo svolge con grandissima autorevolezza e riscuotendo grande apprezzamento da parte della comunità internazionale.
Tutte le missioni alle quali l'Italia partecipa hanno luogo, di norma, sotto l'egida dell'ONU (se non direttamente, in base a delega dell'ONU nell'ambito di altri organismi internazionali). L'Italia è inserita in un sistema di alleanze e fa parte di organismi internazionali. Ricordiamo che il nostro paese è membro dell'ONU, farà parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU nel biennio 2007-2008, è membro della NATO e paese fondatore dell'Unione europea. Dunque, la partecipazione dell'Italia agli organismi internazionali le pone una serie di limiti o, se si vuole, traccia una via riguardo al comportamento che essa può avere in ambito internazionale.Pag. 55
Per la prima volta, dobbiamo registrare, purtroppo, seri dubbi sulla credibilità e sull'affidabilità dell'Italia nel contesto internazionale. Tali dubbi derivano, fondamentalmente, da una politica estera e di difesa del Governo in carica che, oltre ad essere assolutamente poco chiara, poco tracciabile, ondivaga e, spesso, frutto del ricatto (userei proprio questa parola forte) della politica interna, non ha avuto la fiducia del Parlamento in ben due votazioni.
È vero, il Governo è stato rimandato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; tuttavia, il giorno stesso in cui la fiducia è stata data, alcuni membri della maggioranza di sinistra che avevano fatto mancare il sostegno alla politica estera del Governo hanno detto che non avrebbero sostenuto la politica estera del Governo e in particolare il rifinanziamento alle missioni. Quindi, il nodo politico di fondo non è stato sciolto.
Noi, come opposizione, come Forza Italia e come centrodestra tutto, ribadiamo il nostro sostegno all'Italia come membro delle organizzazioni internazionali e avvertiamo il dovere morale di sostenere i nostri militari all'estero nonché tutte le iniziative militari e di pace che abbiamo intrapreso all'estero. Tuttavia, se da un lato non faremo mancare il nostro sostegno a questo provvedimento legislativo con cui rifinanziamo le missioni all'estero, questo non fa venir meno, dall'altro lato, l'obbligo morale della maggioranza di garantire, appunto, una maggioranza politica al nostro paese in politica estera. Qualora mancassero dei voti al Governo, al netto del voto del centrodestra, credo che esso dovrebbe prenderne atto. Siccome questa evenienza non è poi così lontana, già oggi sui giornali si leggono le dichiarazioni di autorevoli esponenti delle maggioranze variabili, come se la mancanza di una maggioranza in politica estera fosse una cosa del tutto accettabile. Credo che in altri paesi se il Governo non avesse ottenuto in un voto parlamentare la fiducia da parte delle Camere non avrebbe avuto il coraggio di ripresentarsi in Parlamento.
Passando al merito del provvedimento, esso prevede una novità sostanziale, data dal cambiamento del titolo: non si parla più di missioni internazionali, ma di missioni umanitarie e internazionali. Da un certo punto di vista, ciò è assolutamente condivisibile. Anche noi infatti apprezziamo il fatto che si vada nella direzione di destinare maggiori risorse alla cooperazione. Tuttavia, abbiamo un dubbio su come questi fondi debbano essere spesi e anche sull'ammontare dei fondi stessi. Indubbiamente 75 milioni di euro, ripartiti 40 all'Afghanistan, 30 al Libano e 5,5 al Sudan, rappresentano una somma importante, ma, anche in base a quanto emerso dalle audizioni informali tenute in Commissione, abbiamo delle riserve sull'effettiva capacità del Governo di controllare come questi fondi vengano spesi. Riteniamo pertanto ineludibile verificare periodicamente come questi fondi siano utilizzati e, in particolare, vorremmo avere la certezza che i soldi spesi per le consulenze di cui all'articolo 1, comma 3, siano effettivamente impiegati per aiutare la popolazione locale, facendo utilizzo di personale locale e non per organizzazioni non governative, spesso non ben identificate e autoreferenziali, rischiando di trasformarsi in un sovvenzionamento ad un sistema di cooperazione e non alla cooperazione stessa.
L'altro dubbio che rimane è quello se così ampi finanziamenti non rischino di andare a finanziare attività più o meno dubbie ed i potentati dei signori della guerra.
Sempre con riferimento all'Afghanistan, dobbiamo rilevare che non riteniamo positiva la separazione tra la cooperazione civile e la cooperazione militare. Infatti, nutriamo il dubbio che, in questa fase, la creazione di due tipi di cooperazione (quella civile e quella militare) vanifichi gli interventi sul territorio e duplichi sia le attività di coordinamento, sia quelle logistiche, sottraendo risorse alla stessa cooperazione.
Quanto alla parte strettamente militare dell'intervento in Afghanistan, credo, come hanno affermato numerosi esponenti della Pag. 56maggioranza finora intervenuti, che si debba sciogliere il nodo di fondo. Noi stiamo in Afghanistan, con i nostri militari, sicuramente per sostenere il popolo afghano, per favorire lo sviluppo e per incoraggiare la nascita di uno Stato afgano democratico. Abbiamo il dovere di dire all'opinione pubblica del nostro paese, tuttavia, che siamo in quel paese non con le bandiere della pace, ma con le armi. Ciò perché potremmo trovarci nella condizione di dover difendere, con le armi, il nostro contingente, la popolazione locale e la cooperazione.
Noi abbiamo il dovere di dirlo. Infatti, se i talebani, come i recenti episodi tendono a dimostrare, riprenderanno l'iniziativa, questa non si limiterà solamente ad alcune parti dell'Afghanistan. Potrebbero essere colpiti i nostri militari, ed allora il dubbio è: dobbiamo difenderci con le bandiere della pace, oppure con le armi?
Si tratta di un equivoco da cui numerosi esponenti della sinistra radicale devono uscire. Essi, infatti, devono sapere che vi sono le armi e credo che, come maggioranza di Governo, abbiano il dovere morale di dire ai militari, con chiarezza, cosa stanno a fare in quell'area, quali sono gli obiettivi da raggiungere e quali sono i mezzi a disposizione per farlo.
L'altra novità che è stata introdotta nell'ambito del decreto-legge in esame, sempre relativamente all'Afghanistan, è la convocazione di una conferenza internazionale di pace. Si tratta di un'iniziativa che anche noi apprezziamo e che, in un diverso momento politico, avrebbe probabilmente una sua funzione logica. Ritengo però che sia stata inserita nel testo del provvedimento, in questo momento, non tanto perché si creda che vi sia la reale possibilità di tenere questa conferenza, quanto piuttosto per compiacere una certa parte della maggioranza di Governo.
Vorrei osservare che da fonti diplomatiche (in particolare, dall'Iran), nonché da quanto emerge dalla stampa internazionale, risulta evidente che alcuni attori che dovrebbero prendere parte alla conferenza sull'Afghanistan legano indissolubilmente la questione afghana allo sviluppo di quella irachena. Pertanto, gli attori che eventualmente partecipassero a tale vertice attenderebbero, in ogni caso, prima gli esiti di una conferenza di pace sull'Iraq, per poi partecipare eventualmente a quella sull'Afghanistan.
Prendiamo atto dello stanziamento di 500 mila euro per organizzare la conferenza di pace per l'Afghanistan; tuttavia, ci domandiamo: 500 mila euro per quale iniziativa? Non crediamo, infatti, che tale conferenza sia realizzabile in questo momento. Ci auguriamo che il Governo riesca in questo intento, perché la pace in Afghanistan a noi fa certamente piacere, ma riteniamo che questo non sia il momento politico in cui ciò sia attuabile.
L'ultima nota sull'Afghanistan riguarda la querelle sull'oppio. Francamente, mi sembra poco credibile e poco serio ritenere che si possa risolvere il gravissimo problema dell'oppio in Afghanistan prevedendone l'acquisto a scopo terapeutico da parte dei Governi occidentali. Credo si tratti non di un tentativo di riconvertire le culture e di sostenere il popolo afgano, bensì dell'ennesima boutade della sinistra.
Con riferimento al Libano, secondo gli accordi intercorsi, l'Italia ha assunto il comando della missione UNIFIL nello scorso mese di febbraio. Sicuramente il nostro paese ha fornito sul campo un contributo molto importante, sia in termini di uomini sia attraverso lo stanziamento di importanti fondi per la cooperazione militare e civile. Tuttavia, rimane un dubbio di fondo: cosa siamo effettivamente andati a fare in Libano? Dovevamo aiutare il processo di disarmo delle milizie di Hezbollah, facendo da supporto all'esercito regolare libanese nello spiegamento nella parte meridionale del paese, della quale non aveva mai avuto il controllo. Da fonti di stampa e da operatori che hanno visitato il Libano apprendiamo che, in effetti, Hezbollah sta riorganizzandosi, si è rianimato e ha provveduto a rafforzare le proprie fortificazioni a nord del fiume Litani. A questo punto ci chiediamo cosa abbia intenzione di fare Hezbollah e, visto che il nostro contingente si trova spiegato tra le milizie Hezbollah a nord e l'esercito Pag. 57israeliano a sud, se vi sia una situazione di vera sicurezza per i nostri militari. Pertanto, chiedo al Governo se siamo equipaggiati in maniera adeguata per fronteggiare situazioni di crisi e, soprattutto, se siamo consapevoli - mi rivolgo in particolare alla sinistra, che voterà questo decreto - che la situazione può degenerare.
L'altra grande novità inserita nel decreto riguarda la modificazione da semestrale ad annuale del rifinanziamento delle missioni. Si tratta di un principio che a noi del centrodestra fa sicuramente piacere, anche se dobbiamo prendere atto che nella precedente legislatura ci è stato di fatto impedito di trasformare il finanziamento delle missioni da semestrale ad annuale. Pertanto, se da un lato, in linea di principio, siamo d'accordo, dall'altro, non possiamo che prendere atto che questo è stato fatto solo per scopi di bassa politica interna, vale a dire per cercare di evitare di trovarsi ogni sei mesi a dover votare le missioni sotto lo scacco di quei senatori o di quei deputati che non sono intenzionati a votare il rifinanziamento.
A tale proposito, pertanto, anche considerando che la situazione è in rapida evoluzione su più scenari, abbiamo presentato un emendamento che riporta il carattere del finanziamento delle missioni da annuale a semestrale, perché riteniamo che ciò non debba essere interpretato come strumento di politica interna, ma come misura che consente al Parlamento di modificare un decreto di rifinanziamento anche alla luce di eventuali sviluppi maturati nella politica estera in Afghanistan o in Iraq o in qualsiasi altro scenario in cui i nostri militari sono impegnati.
Dunque, siamo di fronte ad un Governo, ad una maggioranza che non hanno una vera e propria politica estera. Prima, abbiamo assistito all'episodio di Vicenza, poi alla bocciatura da parte del Senato della politica estera del Governo. Ci chiediamo quale sarà il prossimo episodio in cui la politica estera ancora una volta verrà meno: forse, ciò accadrà relativamente a questo decreto di rifinanziamento o in merito ad altre questioni. Penso, ad esempio, al fatto che sia stata scelta la base di Cameri a Novara per l'assemblaggio dei Joint strike fighter F35, per i quali ricordo che è stato erogato uno stanziamento di oltre 800 milioni di dollari, di cui 139 milioni di euro previsti proprio nell'ultima legge finanziaria. Mi chiedo - e mi rivolgo ai «compagni della sinistra» - se questa sia la svolta pacifista del Governo!
Concludo, riconfermando il nostro «sì» al supporto alle missioni internazionali. Devo dire che, forse, può bastare alla maggioranza, per placare la coscienza, un'operazione di cosmesi, cambiando nome al titolo del provvedimento e prevedendo per la cooperazione l'erogazione a pioggia di risorse. Ciò, tuttavia, non è sufficiente per far diminuire i rischi delle operazioni in cui i nostri militari sono impegnati (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Rossi Gasparrini. Ne ha facoltà.
FEDERICA ROSSI GASPARRINI. Signor Presidente, la Commissione lavoro ha competenza sul trattamento normativo e retributivo del personale impiegato nelle missioni umanitarie ed internazionali. Si tratta, quindi, di un ruolo di rilievo, perché riferito al trattamento economico ed assicurativo, compresa l'indennità di missione che viene calcolata in misura diversificata, a seconda delle missioni stesse.
Va ricordato che l'indennità viene riconosciuta a decorrere dalla data di entrata nel territorio, nelle acque territoriali o nello spazio aereo dei paesi interessati e fino alla data di uscita degli stessi per rientrare nei territori nazionali ed è attribuita per tutto il periodo della missione in aggiunta allo stipendio o alla paga o agli altri assegni a carattere fisso e continuativo.
A tale indennità devono essere detratte le indennità ed i contributi eventualmente corrisposti dagli organismi internazionali.
La Commissione lavoro, avendo discusso ampiamente sulla relazione illustrata Pag. 58dalla sottoscritta in qualità di relatore, ha espresso, in data 21 febbraio 2007, all'unanimità parere favorevole al decreto-legge n. 4 del 2007, A.C. 2193.
Il parere espresso all'unanimità dalla Commissione lavoro testimonia il rispetto e la vicinanza dei parlamentari componenti la Commissione stessa all'azione che i nostri militari svolgono spesso in situazioni difficilissime, a favore dello sviluppo della pace e della crescita generalizzata dei diritti civili e democratici nei paesi interessati.
Come parlamentare, vorrei soffermarmi sulla drammaticità della situazione in Afghanistan, che anche nelle ultime ore si è resa evidente.
Lavorare per una conferenza di pace può sembrare illusorio; invece questa è una proposta concreta che va perseguita con estremo impegno.
Auspico che il Presidente Prodi e tutti i ministri competenti riescano a coinvolgere sul tavolo della pace internazionale per l'Afghanistan ogni forza, rappresentanza, istituzione che vuole, appunto, la pace.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Burgio. Ne ha facoltà.
Testo sostituito con l'errata corrige del
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, esprimerò il mio voto sul decreto-legge di proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali attenendomi agli orientamenti del mio gruppo. Ritengo comunque necessario chiarire che considero del tutto infondate sia talune notizie diffuse da parte dei sostenitori della cosiddetta missione di pace in Afghanistan sia le argomentazioni di chi afferma l'impossibilità di decidere il ritiro delle nostre truppe dal teatro afgano.
Si dice che in Afghanistan le cose vanno sempre meglio; sarebbe in atto un processo di superamento dello stato di guerra; sarebbe in atto la tendenza allo sradicamento del terrorismo e sarebbe ormai pressoché compiuto il processo di democratizzazione del paese.
Si dice che in Afghanistan siamo in missione di pace, dunque impegnati in un'impresa del tutto coerente con i principi della nostra Costituzione.
Si dice ancora che in Afghanistan siamo su mandato ONU ed in conformità ad impegni inderogabili assunti con l'Unione europea e con gli alleati della NATO.
Credo e avverto il dovere politico di dire che le cose non stanno in questi termini. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan: basterebbero, a questo proposito, gli accadimenti delle ultime quarantotto ore. Sabato 3 marzo un attentato in una via centrale di Herat (gli osservatori ritengono si sia trattato della bomba più potente mai scoppiata in quella città, che ha lanciato schegge fino ad un chilometro di distanza dal luogo dell'esplosione) ha mancato per qualche secondo due Jeep che trasportavano nostri militari.
Poiché risuonano frequenti in questi giorni gli appelli al senso di responsabilità (rivolti a chi da tempo chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan), penso che una manifestazione di responsabilità sarebbe chiedersi in quale clima politico si troverebbe il nostro paese e si svolgerebbe questa nostra discussione se quei pochi secondi non avessero salvato i militari italiani e oggi dovessimo commemorare altri nostri caduti.
Ieri a Jalalabad si è poi compiuta una delle più orribili stragi di civili, certo non la più grave per il numero di vittime (si parla di sedici morti e di oltre trenta feriti), ma per le modalità. I superstiti e i testimoni hanno descritto una vera e propria azione di rappresaglia, riporto testualmente la testimonianza di uno dei superstiti: «Gli americani correvano e tiravano, hanno aperto il fuoco su quattordici o quindici macchine che stavano passando, accostavano e tiravano su chiunque fosse: in auto o a piedi». La stampa parla chiaramente di «licenza di uccidere, di troppi soldati nervosi che hanno perso la testa» e della «certezza della quasi impunità in una missione di pace che ogni giorno spara all'impazzata su qualunque cosa si muova».Pag. 59
Ma questi gravissimi eventi rimandano ad un contesto generale, forse ancor più grave.
La missione in Afghanistan è sempre più una guerra sanguinosa. Nel corso del 2006 sono state seimila le vittime civili, il triplo rispetto all'anno precedente, più della somma di tutti morti causati dal conflitto a partire dal 2002.
Quest'anno si annuncia ancor più sanguinoso, se consideriamo che sono già 500 i morti civili nei primi due mesi e che nello stesso periodo dell'anno scorso le vittime erano 200. Il conflitto si è esteso da sud verso ovest, dove il controllo delle milizie talebane sul territorio è pressoché totale e si spinge verso le province orientali, cioè nella zona sotto comando militare italiano.
Questo mentre si annuncia una massiccia offensiva talebana o, più probabilmente, una massiccia offensiva delle forze ISAF-NATO. La missione avrebbe dovuto sradicare il terrorismo. Sta di fatto che, ad oltre cinque anni dall'inizio della guerra, presso la grande maggioranza della popolazione - anche tra quanti accolsero favorevolmente la cacciata dei talebani - cresce il favore delle milizie talebane stesse le quali appaiono alla gran parte della popolazione l'unico ombrello difensivo contro gli occupanti.
Leggo che il ministro degli affari esteri sostiene che certa sinistra, contraria alla presenza armata, non capisce che cosa significa un nuovo regime degli studenti islamici a Kabul e dovrebbe quindi leggere i testi fondamentalisti. Osservo che più di un'ipotesi - non saprei dire quanto fondata - pesa sulla realtà: il disastro di una guerra che sta regalando ai talebani il consenso della popolazione e che, oltre a seminare lutti e violenza, sta incendiando l'intera regione rischiando di raggiungere l'Iran. Ciò con effetti che tutti - tranne chi spinge per una nuova guerra preventiva - considerano potenzialmente catastrofici.
A proposito di violenza, è un fatto che la presenza di oltre 35 mila militari stranieri nella capitale afgana e in altri centri urbani non basti ad impedire che gli operatori delle organizzazioni non governative e delle Nazioni Unite vengano rapiti alla luce del giorno. Gli attentati si moltiplicano. Secondo l'ONU, l'Afghanistan sta affrontando disastri sanitari ancora peggiori di quelli causati dallo tsunami che si abbattè sulle coste filippine nel 2004.
La miseria dilaga: con un PIL pro-capite di 600 euro l'anno, l'Afghanistan continua ad essere tra i paesi più poveri del mondo. Diciamo che siamo lì per avviare il paese lungo la strada dello sviluppo, ma destiniamo briciole a questo fine. Gli Stati Uniti spendono per il sostegno allo sviluppo dell'Afghanistan appena il 3,5 per cento di quanto spendono in totale. L'Italia non arriva al 10 per cento. L'ultima legge finanziaria ha stanziato 30 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo, contro 310 milioni per il mantenimento delle truppe e dei mezzi militari.
Diciamo che siamo lì per favorire la riconversione delle colture del papavero, mentre assistiamo ad un'inedita intensificazione della produzione di oppio che fa ormai dell'Afghanistan il produttore del 90 per cento dell'oppio prodotto in tutto il mondo. Stando alle stime dell'ONU, i profitti provenienti dalla produzione di eroina coprono circa il 52 per cento delle PIL afgano.
Da ultimo, la democrazia. Si ripete che le elezioni presidenziali che hanno alla elezione di Hamid Karzai sono state molto partecipate e che ora c'è un Parlamento eletto dove siedono anche alcune deputate. Ma non si dice che stupri e violenze sulle donne sono considerati reati veniali, che vige la sharia, che dietro il paravento vi è una democrazia formale esportata con la forza in osservanza a modelli occidentali e che vige con assoluta saldezza il tradizionale regime feudale. Soprattutto, si omette di ricordare che i signori della guerra, che controllano in autonomia intere aree del paese, esprimono i massimi vertici dei servizi segreti e dell'esercito e partecipano al cosiddetto «governo democratico» dell'Afghanistan, con ben 14 ministri, tra i quali quello degli interni, quello delle attività religiose e quello dell'energia.Pag. 60
Da questo punto di vista, si capisce che tanti impegni assunti in occasione del voto di luglio non abbiano poi avuto un seguito. Si parlò allora di istituire un Comitato parlamentare per il monitoraggio permanente delle missioni internazionali di pace in cui è impegnata l'Italia: in effetti, c'è da chiedersi perché monitorare attraverso un Comitato parlamentare ciò che è puntualmente monitorato dagli organi di stampa e dagli operatori della cooperazione presenti sul territorio. E si parla, già nella mozione votata il 19 luglio scorso, di promuovere una nuova conferenza internazionale sull'Afghanistan allo scopo di favorire un dialogo a livello regionale; qualcosa, dunque, di molto simile alla conferenza di pace che oggi viene presentata come un grande progresso e come il segno di un nuovo orientamento politico, benché qualche giorno fa, in una intervista ad un grande quotidiano italiano, il ministro D'Alema non abbia mancato di definirla con un termine molto colorito volto a chiarire che egli per primo ritiene questa conferenza a di poco improbabile. Ad ogni modo, si capisce che tutti questi impegni stentino a tradursi in realtà.
È difficile pensare ad una conferenza di pace mentre la guerra infuria e si estende e la pace appare quanto di più distante dagli intenti dei protagonisti del conflitto; il che, tuttavia, non toglie che è grave che impegni formalmente assunti rimangano sulla carta.
Quanto alla presunta connotazione pacifica della missione, sulla quale anche il Presidente Napolitano ha insistito con grande forza, a garanzia della piena conformità della missione ai principi costituzionali, potrebbe essere sufficiente ricordare quanto disse il 13 giugno dell'anno scorso il senatore Lamberto Dini, presidente della Commissione affari esteri, esponente indubbiamente autorevole di questa maggioranza: «Non mi pare» - così si espresse - «che ci sia spazio per ridiscutere la nostra presenza in Afghanistan. Nessuno ha mai detto che era una missione di pace». Sarebbe anche istruttivo ricordare in che termini definisca la missione in Afghanistan il senatore Cossiga, il quale è tra i più aspri oppositori di questa missione, non già perché auspichi la fine delle ostilità, ma perché, ben conscio della guerra in corso, vorrebbe che le truppe italiane fossero poste in condizione di combatterla fino in fondo, al pari dei militari americani e inglesi. Ma è utile soprattutto citare brevemente quanto ha affermato il 24 gennaio 2007 un osservatore competente e imparziale come il generale Fabio Mini, ex comandante NATO, poc'anzi citato anche dal collega Cacciari: «La guerra ai talebani non è metaforica come la guerra del merluzzo o del vino. E non è più nemmeno un episodio della guerra al terrorismo. Lo scopo della guerra, inizialmente incentrato sulla distruzione delle basi terroristiche, si è trasformato in quello di abbattimento di un regime. Ora la guerra continua contro gli stessi sostenitori o appartenenti a quel regime. La NATO oggi partecipa attivamente a questa guerra. Farla passare per un'operazione di pace è veramente un'ipocrisia. Ma anche far passare tutti gli avversari come affiliati di Al Qaeda o come terroristi è scorretto». Sono parole che credo si commentino da sé e valgono molto più di assicurazioni retoriche, pur provenienti da fonti autorevolissime.
Resta da dire qualcosa sulla copertura giuridica della missione e sul connotato stringente, cogente dei nostri impegni. Si mette in mezzo l'ONU, quando si sa che l'ONU autorizzò la missione il 20 dicembre del 2001, due mesi dopo i bombardamenti a tappeto degli aerei americani su Kabul, e quando si sa che da quattro anni a questa parte, precisamente dall'aprile del 2003, con un vero colpo di mano, la NATO ha riassunto il comando della missione ISAF, divenuta sostanzialmente tutt'uno con la missione Enduring Freedom.
Si chiama in causa l'Unione europea che, pur avendo promosso in questi mesi un intervento finalizzato all'addestramento delle forze di polizia afgane, non ha invece mai esplicitamente ratificato l'avallo alla missione ISAF.
La verità è che quella in corso in Afghanistan è una guerra della NATO, dunque una guerra saldamente guidata Pag. 61dalla catena di comando americana. È vero: noi siamo parte della NATO, ma anche a questo riguardo corrono troppe omissioni in questa nostra discussione. Si sostiene che non ci si può sottrarre alle decisione di alleanze di cui si è parte, ma si dimentica che sono molti i precedenti di paesi membri che hanno detto «no» alla richiesta di cooperare ad imprese belliche decisa dall'Alleanza atlantica. La Grecia, nel marzo del 1999, si rifiutò di concedere le proprie truppe, e persino sostegni logistici, a quella che considerò, peraltro a ragione, una guerra di aggressione nei confronti della Serbia. Nel 2003, la Turchia si rifiutò di partecipare all'attacco contro l'Iraq, definendolo una avventura ingiustificata, e negò le truppe e le autorizzazioni al sorvolo per i cacciabombardieri americani.
Ma, al di là dei dati di fatto, c'è un dato di diritto che va considerato con particolare attenzione: l'articolo 5 del nuovo statuto della NATO, che il ministro D'Alema conosce assai bene, essendo il frutto degli accordi di Washington che egli sottoscrisse a nome dell'Italia nel 1999, chiarisce che «i paesi membri dell'Alleanza concordano insieme le misure di autodifesa individuale o collettiva», ma chiarisce altresì che ciascun paese membro della Alleanza metterà in atto quelle misure di autodifesa che esso, «individualmente», riterrà necessarie.
Non è vero dunque che i singoli paesi siano obbligati a concorrere ad una guerra di cui non condividano finalità e metodi. Forse sarebbe più giusto che si dicesse che l'Italia ha scelto e continua a scegliere di condividere le decisioni della NATO e degli Stati Uniti.
Si tratta di una scelta, precisamente come a Vicenza, della quale bisognerebbe assumersi la responsabilità, evitando di farsi schermo con presunti vincoli indisponibili, che peraltro mortificherebbero l'idea stessa della sovranità nazionale.
Detto questo, come affermavo all'inizio di questo mio intervento, mi atterrò alle decisioni che prenderemo insieme, nel mio gruppo. Ciò per spirito di disciplina, certo, ma anche per un'altra ragione che forse tutti noi dovremmo prendere in maggiore considerazione.
Questa legislatura vede una drammatizzazione esasperata della dialettica parlamentare. Ogni voto viene sovraccaricato di significati impropri, che eccedono il merito delle questioni discusse; ogni voto tende ad assumere il significato improprio di un voto di fiducia.
Questa è una patologia del sistema politico, prodotta da un bipolarismo coercitivo non rispondente alla composizione politica del paese reale.
È una patologia che rischia di cancellare la centralità del Parlamento e di impedirne la libera espressione. È questa una materia alla quale occorre pensare con attenzione e lungimiranza e senza partigianeria, adesso che si riapre la discussione per riformare la legge elettorale.
Bisognerebbe avere chiaro che non vi può essere democrazia (nemmeno quella democrazia «governabile e governante» di cui ha parlato il presidente Prodi in occasione del recente dibattito sulla fiducia), se si assume in modo unilaterale e talora ossessivo il vincolo della governabilità. L'esigenza della governabilità è reale ma va tenuta in tensione ed equilibrio con il vincolo della rappresentanza, che viene rispettato solo se il Parlamento torna ad essere un luogo di formazione e non di semplice ratifica della decisione politica.
Concludo, signor Presidente, con un'ultima breve considerazione. Qualche giorno fa, un membro assai autorevole del Governo ha ritenuto di dire che ne L'Unione ci sono partiti di Governo e partiti (che egli ha definito «sinistra radicale o massimalista») di semplice testimonianza, che riterrebbero sia loro compito solo «piantare delle bandierine». Si potrebbe osservare che non è certo il modo più rispettoso di riferirsi ai convincimenti dei propri alleati, né tantomeno il più unitario. Ma non è questo il punto politico. Il punto politico è che, con questa rappresentazione, il presidente Rutelli mostra di ritenere che governare equivalga per forza di cose a prendere determinate decisioni, Pag. 62ad assumere determinate scelte, a perseguire ben determinate finalità, e che invece, facendo altro, mirando ad altro, compiendo altre scelte, governare sarebbe semplicemente impossibile.
Non è così. Noi pensiamo esattamente il contrario: che sarebbe possibile non soltanto governare ma governare meglio, in un modo più aderente alla nostra Costituzione e a quanto vuole la nostra gente, facendo scelte diverse: in questo caso, venendo via dalla guerra afgana, riportando a casa le nostre truppe dai teatri di guerra in cui sono impegnate. Purtroppo il Governo non ha ancora maturato questo orientamento, ma noi rimaniamo impegnati per affermarlo e continueremo a lavorare con determinazione, affinché ad esso si ispirino le scelte prossime di questo Governo (Applausi dei deputati dei gruppi Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Comunisti Italiani).
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, esprimerò il mio voto sul decreto-legge di proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali attenendomi agli orientamenti del mio gruppo. Ritengo comunque necessario chiarire che considero del tutto infondate sia talune notizie diffuse da parte dei sostenitori della cosiddetta missione di pace in Afghanistan sia le argomentazioni di chi afferma l'impossibilità di decidere il ritiro delle nostre truppe dal teatro afgano.
Si dice che in Afghanistan le cose vanno sempre meglio; sarebbe in atto un processo di superamento dello stato di guerra; sarebbe in atto la tendenza allo sradicamento del terrorismo e sarebbe ormai pressoché compiuto il processo di democratizzazione del paese.
Si dice che in Afghanistan siamo in missione di pace, dunque impegnati in un'impresa del tutto coerente con i principi della nostra Costituzione.
Si dice ancora che in Afghanistan siamo su mandato ONU ed in conformità ad impegni inderogabili assunti con l'Unione europea e con gli alleati della NATO.
Credo e avverto il dovere politico di dire che le cose non stanno in questi termini. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan: basterebbero, a questo proposito, gli accadimenti delle ultime quarantotto ore. Sabato 3 marzo un attentato in una via centrale di Herat (gli osservatori ritengono si sia trattato della bomba più potente mai scoppiata in quella città, che ha lanciato schegge fino ad un chilometro di distanza dal luogo dell'esplosione) ha mancato per qualche secondo due Jeep che trasportavano nostri militari.
Poiché risuonano frequenti in questi giorni gli appelli al senso di responsabilità (rivolti a chi da tempo chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan), penso che una manifestazione di responsabilità sarebbe chiedersi in quale clima politico si troverebbe il nostro paese e si svolgerebbe questa nostra discussione se quei pochi secondi non avessero salvato i militari italiani e oggi dovessimo commemorare altri nostri caduti.
Ieri a Jalalabad si è poi compiuta una delle più orribili stragi di civili, certo non la più grave per il numero di vittime (si parla di sedici morti e di oltre trenta feriti), ma per le modalità. I superstiti e i testimoni hanno descritto una vera e propria azione di rappresaglia, riporto testualmente la testimonianza di uno dei superstiti: «Gli americani correvano e tiravano, hanno aperto il fuoco su quattordici o quindici macchine che stavano passando, accostavano e tiravano su chiunque fosse: in auto o a piedi». La stampa parla chiaramente di «licenza di uccidere, di troppi soldati nervosi che hanno perso la testa» e della «certezza della quasi impunità in una missione di pace che ogni giorno spara all'impazzata su qualunque cosa si muova».
Ma questi gravissimi eventi rimandano ad un contesto generale, forse ancor più grave.
La missione in Afghanistan è sempre più una guerra sanguinosa. Nel corso del 2006 sono state seimila le vittime civili, il triplo rispetto all'anno precedente, più della somma di tutti morti causati dal conflitto a partire dal 2002.
Quest'anno si annuncia ancor più sanguinoso, se consideriamo che sono già 500 i morti civili nei primi due mesi e che nello stesso periodo dell'anno scorso le vittime erano 200. Il conflitto si è esteso da sud verso ovest, dove il controllo delle milizie talebane sul territorio è pressoché totale e si spinge verso le province orientali, cioè nella zona sotto comando militare italiano.
Questo mentre si annuncia una massiccia offensiva talebana o, più probabilmente, una massiccia offensiva delle forze ISAF-NATO. La missione avrebbe dovuto sradicare il terrorismo. Sta di fatto che, ad oltre cinque anni dall'inizio della guerra, presso la grande maggioranza della popolazione - anche tra quanti accolsero favorevolmente la cacciata dei talebani - cresce il favore delle milizie talebane stesse le quali appaiono alla gran parte della popolazione l'unico ombrello difensivo contro gli occupanti.
Leggo che il ministro degli affari esteri sostiene che certa sinistra, contraria alla presenza armata, non capisce che cosa significa un nuovo regime degli studenti islamici a Kabul e dovrebbe quindi leggere i testi fondamentalisti. Osservo che più di un'ipotesi - non saprei dire quanto fondata - pesa la realtà: il disastro di una guerra che sta regalando ai talebani il consenso della popolazione e che, oltre a seminare lutti e violenza, sta incendiando l'intera regione rischiando di raggiungere l'Iran. Ciò con effetti che tutti - tranne chi spinge per una nuova guerra preventiva - considerano potenzialmente catastrofici.
A proposito di violenza, è un fatto che la presenza di oltre 35 mila militari stranieri nella capitale afgana e in altri centri urbani non basti ad impedire che gli operatori delle organizzazioni non governative e delle Nazioni Unite vengano rapiti alla luce del giorno. Gli attentati si moltiplicano. Secondo l'ONU, l'Afghanistan sta affrontando disastri sanitari ancora peggiori di quelli causati dallo tsunami che si abbattè sulle coste filippine nel 2004.
La miseria dilaga: con un PIL pro-capite di 600 euro l'anno, l'Afghanistan continua ad essere tra i paesi più poveri del mondo. Diciamo che siamo lì per avviare il paese lungo la strada dello sviluppo, ma destiniamo briciole a questo fine. Gli Stati Uniti spendono per il sostegno allo sviluppo dell'Afghanistan appena il 3,5 per cento di quanto spendono in totale. L'Italia non arriva al 10 per cento. L'ultima legge finanziaria ha stanziato 30 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo, contro 310 milioni per il mantenimento delle truppe e dei mezzi militari.
Diciamo che siamo lì per favorire la riconversione delle colture del papavero, mentre assistiamo ad un'inedita intensificazione della produzione di oppio che fa ormai dell'Afghanistan il produttore del 90 per cento dell'oppio prodotto in tutto il mondo. Stando alle stime dell'ONU, i profitti provenienti dalla produzione di eroina coprono circa il 52 per cento delle PIL afgano.
Da ultimo, la democrazia. Si ripete che le elezioni presidenziali che hanno condotto alla elezione di Hamid Karzai sono state molto partecipate e che ora c'è un Parlamento eletto dove siedono anche alcune deputate. Ma non si dice che stupri e violenze sulle donne sono considerati reati veniali, che vige la sharia, che dietro il paravento vi è una democrazia formale esportata con la forza in osservanza a modelli occidentali e che vige con assoluta saldezza il tradizionale regime feudale. Soprattutto, si omette di ricordare che i signori della guerra, che controllano in autonomia intere aree del paese, esprimono i massimi vertici dei servizi segreti e dell'esercito e partecipano al cosiddetto «governo democratico» dell'Afghanistan, con ben 14 ministri, tra i quali quello degli interni, quello delle attività religiose e quello dell'energia.
Da questo punto di vista, si capisce che tanti impegni assunti in occasione del voto di luglio non abbiano poi avuto un seguito. Si parlò allora di istituire un Comitato parlamentare per il monitoraggio permanente delle missioni internazionali di pace in cui è impegnata l'Italia: in effetti, c'è da chiedersi perché monitorare attraverso un Comitato parlamentare ciò che è puntualmente monitorato dagli organi di stampa e dagli operatori della cooperazione presenti sul territorio. E si parla, già nella mozione votata il 19 luglio scorso, di promuovere una nuova conferenza internazionale sull'Afghanistan allo scopo di favorire un dialogo a livello regionale; qualcosa, dunque, di molto simile alla conferenza di pace che oggi viene presentata come un grande progresso e come il segno di un nuovo orientamento politico, benché qualche giorno fa, in una intervista ad un grande quotidiano italiano, il ministro D'Alema non abbia mancato di definirla con un termine molto colorito volto a chiarire che egli per primo ritiene questa conferenza a di poco improbabile. Ad ogni modo, si capisce che tutti questi impegni stentino a tradursi in realtà.
È difficile pensare ad una conferenza di pace mentre la guerra infuria e si estende e la pace appare quanto di più distante dagli intenti dei protagonisti del conflitto; il che, tuttavia, non toglie che è grave che impegni formalmente assunti rimangano sulla carta.
Quanto alla presunta connotazione pacifica della missione, sulla quale anche il Presidente Napolitano ha insistito con grande forza, a garanzia della piena conformità della missione ai principi costituzionali, potrebbe essere sufficiente ricordare quanto disse il 13 giugno dell'anno scorso il senatore Lamberto Dini, presidente della Commissione affari esteri, esponente indubbiamente autorevole di questa maggioranza: «Non mi pare» - così si espresse - «che ci sia spazio per ridiscutere la nostra presenza in Afghanistan. Nessuno ha mai detto che era una missione di pace». Sarebbe anche istruttivo ricordare in che termini definisca la missione in Afghanistan il senatore Cossiga, il quale è tra i più aspri oppositori di questa missione, non già perché auspichi la fine delle ostilità, ma perché, ben conscio della guerra in corso, vorrebbe che le truppe italiane fossero poste in condizione di combatterla fino in fondo, al pari dei militari americani e inglesi. Ma è utile soprattutto citare brevemente quanto ha affermato il 24 gennaio 2007 un osservatore competente e imparziale come il generale Fabio Mini, ex comandante NATO, poc'anzi citato anche dal collega Cacciari: «La guerra ai talebani non è metaforica come la guerra del merluzzo o del vino. E non è più nemmeno un episodio della guerra al terrorismo. Lo scopo della guerra, inizialmente incentrato sulla distruzione delle basi terroristiche, si è trasformato in quello di abbattimento di un regime. Ora la guerra continua contro gli stessi sostenitori o appartenenti a quel regime. La NATO oggi partecipa attivamente a questa guerra. Farla passare per un'operazione di pace è veramente un'ipocrisia. Ma anche far passare tutti gli avversari come affiliati di Al Qaeda o come terroristi è scorretto». Sono parole che credo si commentino da sé e valgono molto più di assicurazioni retoriche, pur provenienti da fonti autorevolissime.
Resta da dire qualcosa sulla copertura giuridica della missione e sul connotato stringente, cogente dei nostri impegni. Si mette in mezzo l'ONU, quando si sa che l'ONU autorizzò la missione il 20 dicembre del 2001, due mesi dopo i bombardamenti a tappeto degli aerei americani su Kabul, e quando si sa che da quattro anni a questa parte, precisamente dall'aprile del 2003, con un vero colpo di mano, la NATO ha riassunto il comando della missione ISAF, divenuta sostanzialmente tutt'uno con la missione Enduring Freedom.
Si chiama in causa l'Unione europea che, pur avendo promosso in questi mesi un intervento finalizzato all'addestramento delle forze di polizia afgane, non ha invece mai esplicitamente ratificato l'avallo alla missione ISAF.
La verità è che quella in corso in Afghanistan è una guerra della NATO, dunque una guerra saldamente guidata dalla catena di comando americana. È vero: noi siamo parte della NATO, ma anche a questo riguardo corrono troppe omissioni in questa nostra discussione. Si sostiene che non ci si può sottrarre alle decisione di alleanze di cui si è parte, ma si dimentica che sono molti i precedenti di paesi membri che hanno detto «no» alla richiesta di cooperare ad imprese belliche decisa dall'Alleanza atlantica. La Grecia, nel marzo del 1999, si rifiutò di concedere le proprie truppe, e persino sostegni logistici, a quella che considerò, peraltro a ragione, una guerra di aggressione nei confronti della Serbia. Nel 2003, la Turchia si rifiutò di partecipare all'attacco contro l'Iraq, definendolo una avventura ingiustificata, e negò le truppe e le autorizzazioni al sorvolo per i cacciabombardieri americani.
Ma, al di là dei dati di fatto, c'è un dato di diritto che va considerato con particolare attenzione: l'articolo 5 del nuovo statuto della NATO, che il ministro D'Alema conosce assai bene, essendo il frutto degli accordi di Washington che egli sottoscrisse a nome dell'Italia nel 1999, chiarisce che «i paesi membri dell'Alleanza concordano insieme le misure di autodifesa individuale o collettiva», ma chiarisce altresì che ciascun paese membro della Alleanza metterà in atto quelle misure di autodifesa che esso, «individualmente», riterrà necessarie.
Non è vero dunque che i singoli paesi siano obbligati a concorrere ad una guerra di cui non condividano finalità e metodi. Forse sarebbe più giusto che si dicesse che l'Italia ha scelto e continua a scegliere di condividere le decisioni della NATO e degli Stati Uniti.
Si tratta di una scelta, precisamente come a Vicenza, della quale bisognerebbe assumersi la responsabilità, evitando di farsi schermo con presunti vincoli indisponibili, che peraltro mortificherebbero l'idea stessa della sovranità nazionale.
Detto questo, come affermavo all'inizio di questo mio intervento, mi atterrò alle decisioni che prenderemo insieme, nel mio gruppo. Ciò per spirito di disciplina, certo, ma anche per un'altra ragione che forse tutti noi dovremmo prendere in maggiore considerazione.
Questa legislatura vede una drammatizzazione esasperata della dialettica parlamentare. Ogni voto viene sovraccaricato di significati impropri, che eccedono il merito delle questioni discusse; ogni voto tende ad assumere il significato improprio di un voto di fiducia.
Questa è una patologia del sistema politico, prodotta da un bipolarismo coercitivo non rispondente alla composizione politica del paese reale.
È una patologia che rischia di cancellare la centralità del Parlamento e di impedirne la libera espressione. È questa una materia alla quale occorre pensare con attenzione e lungimiranza e senza partigianeria, adesso che si riapre la discussione per riformare la legge elettorale.
Bisognerebbe avere chiaro che non vi può essere democrazia (nemmeno quella democrazia «governabile e governante» di cui ha parlato il presidente Prodi in occasione del recente dibattito sulla fiducia), se si assume in modo unilaterale e talora ossessivo il vincolo della governabilità. L'esigenza della governabilità è reale ma va tenuta in tensione ed equilibrio con il vincolo della rappresentanza, che viene rispettato solo se il Parlamento torna ad essere un luogo di formazione e non di semplice ratifica della decisione politica.
Concludo, signor Presidente, con un'ultima breve considerazione. Qualche giorno fa, un membro assai autorevole del Governo ha ritenuto di dire che ne L'Unione ci sono partiti di Governo e partiti (che egli ha definito «sinistra radicale o massimalista») di semplice testimonianza, che riterrebbero sia loro compito solo «piantare delle bandierine». Si potrebbe osservare che non è certo il modo più rispettoso di riferirsi ai convincimenti dei propri alleati, né tantomeno il più unitario. Ma non è questo il punto politico. Il punto politico è che, con questa rappresentazione, il presidente Rutelli mostra di ritenere che governare equivalga per forza di cose a prendere determinate decisioni, ad assumere determinate scelte, a perseguire ben determinate finalità, e che invece, facendo altro, mirando ad altro, compiendo altre scelte, governare sarebbe semplicemente impossibile.
Non è così. Noi pensiamo esattamente il contrario: che sarebbe possibile non soltanto governare ma governare meglio, in un modo più aderente alla nostra Costituzione e a quanto vuole la nostra gente, facendo scelte diverse: in questo caso, venendo via dalla guerra afgana, riportando a casa le nostre truppe dai teatri di guerra in cui sono impegnate. Purtroppo il Governo non ha ancora maturato questo orientamento, ma noi rimaniamo impegnati per affermarlo e continueremo a lavorare con determinazione, affinché ad esso si ispirino le scelte prossime di questo Governo (Applausi dei deputati dei gruppi Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Comunisti Italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marcenaro. Ne ha facoltà.
PIETRO MARCENARO. Signor Presidente, signor viceministro Intini, il fatto che questa discussione si svolga ad una così breve distanza da quella che è avvenuta in queste aule qualche giorno fa, a proposito della crisi di Governo, permette di dare per scontato e per conosciuto il dibattito generale sulla politica estera del paese. In quella discussione, mi pare si sia riaffermata la linea e la posizione di un Governo, e di una maggioranza, che, consapevole del duro dilemma e della difficile crisi nella quale oggi si svolgono le relazioni e la politica internazionale, è impegnato nella costruzione, nel quadro delle sue alleanze e del suo sistema di relazioni, di un'alternativa alla crisi oramai evidente dell'unilateralismo - che ha governato per molto tempo le relazioni internazionali e che è alla base anche di molte delle difficoltà che oggi noi affrontiamo - e nella costruzione di quello che è stato definito, da ultimo anche in questo dibattito, un multilateralismo efficace.
Penso che indubbiamente sia vero che esiste una relazione ed un'interdipendenza di tutte le questioni. Questa interdipendenza vale quando esaminiamo i comportamenti altrui e i fatti del mondo, ma questa interdipendenza vale anche quando esaminiamo le nostre scelte. Ed io ritengo che troppo sovente ci si dimentichi, considerandola quasi un fatto isolato, che la scelta che noi abbiamo compiuto a proposito dell'Iraq, quando abbiamo deciso - nelle modalità che abbiamo scelto e che abbiamo concordato con i nostri alleati e con il Governo iracheno - il ritiro del contingente militare, sia un elemento che illumina e che dà ancora oggi un segnale all'insieme delle scelte politiche che noi conduciamo in materia di politica estera.
Penso che, per questa ragione, sia del tutto convincente l'affermazione che anche oggi abbiamo sentito fare, quando si è stato sostenuto che le scelte sulle quali stiamo discutendo e che il provvedimento in esame propone avvengono pienamente nel rispetto dell'articolo 11 della Costituzione, che per tutti noi è un punto di riferimento indispensabile.
Naturalmente, quando parliamo di tali scelte e delle missioni militari degli italiani all'estero, è nostro dovere collocare le decisioni e le missioni all'interno di un quadro politico. Il nostro problema è chiedersi se siamo capaci di collocare queste scelte, molto spesso difficili, all'interno di un'iniziativa politica del Governo italiano che, in Europa e sulla scena internazionale, le renda efficaci per la costruzione della pace e delle relazioni internazionali.
Sotto questo profilo, credo che ogni singola missione dovrebbe essere considerata, discussa e valutata. Ognuna di queste missioni ha le sue caratteristiche, la sua storia; ognuna merita un esame specifico. Molto rapidamente, proverò ad esaminare alcune questioni. Parto da un problema sul quale, forse, oggi, si è discusso meno e che riguarda la nostra presenza in Kosovo.
Siamo alla vigilia di decisioni molto importanti. Il rappresentante delle Nazioni Unite, il presidente Ahtisaari, ha formulato le sue proposte con riferimento al futuro del Kosovo. Sappiamo che, nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, ci avvieremo ad un negoziato difficile. Sappiamo, Pag. 63altresì, che, nell'ambito di questo negoziato, il nostro paese e l'Europa sono chiamati a svolgere un doppio ruolo e che all'esito di questa missione, di fronte a rischi, che pure esistono, di riacutizzazione di un conflitto le cui ragioni e cause non sono del tutto spente, possiamo dare un contributo, se abbiamo presenti due aspetti: in primo luogo, che una garanzia internazionale, ancora per un determinato periodo del quale per il momento non sappiamo giudicare la lunghezza, sarà essenziale per lo svolgimento e l'evoluzione politica della situazione in quella regione (non a caso, il presidente Ahtisaari ha parlato di indipendenza vigilata); in secondo luogo (a mio parere tale aspetto è ancora più importante), che solo nell'integrazione di quella regione e, in generale, di quell'area nel processo di costruzione europea, la prospettiva di pace per quanto riguarda il Kosovo può trovare risposte convincenti.
A tale riguardo, la convinzione e l'unità del Governo, della maggioranza e - ancora di più - del Parlamento e delle forze politiche italiane, possono essere la fonte di un contributo molto importante su una questione che, lo ripeto, è stata molto difficile nelle relazioni internazionali degli ultimi anni.
Un altro aspetto che merita una valutazione riguarda la nostra missione in Libano. Molti hanno parlato dell'importanza che questa scelta ha assunto nei mesi scorsi, non solo come elemento di svolta sul piano della nostra iniziativa internazionale, ma anche come dimostrazione della capacità dell'Italia di assumere nuovamente un ruolo nello scenario internazionale, a partire dall'Europa.
Tuttavia, sappiamo che il destino ed i risultati dell'iniziativa italiana ed UNIFIL in Libano sono fortemente legati all'evoluzione di una dinamica complessiva che ha le sue polarità, da un lato, nello sviluppo del rapporto tra israeliani e palestinesi e, dall'altro, nell'evoluzione della situazione in Iran e nei relativi collegamenti con la stessa situazione irachena.
Viceministro Intini, mi pare che nei giorni scorsi l'Italia si sia mossa (e lei è stato uno dei sostenitori più convinti) per favorire un dialogo tra le diverse parti del mondo palestinese, in particolare tra Fatah ed Hamas, per sostenere la formazione di un Governo di unità nazionale che superasse i conflitti così aspri in corso ed offrire anche allo Stato di Israele un interlocutore capace di prendere iniziative ed assumersi le proprie responsabilità in un negoziato. Anche in questo caso siamo di fronte ad una situazione da cui emerge sempre più chiaramente la difficoltà di trovare soluzioni transitorie.
Oggi è sempre più difficile pensare, nel contesto dei rapporti tra palestinesi ed israeliani, a situazioni elencabili sotto il capitolo della tregua e sempre di più si configura la necessità di pensare ad una soluzione generale di pace come l'unica in grado di garantire una prospettiva effettiva. Tuttavia, questo comporta - e mi pare che anche il Governo italiano si stia muovendo in questa direzione - iniziative che coinvolgano l'insieme della regione e la capacità di riaprire un rapporto con Siria e di Iran (prospettiva ricordata anche dal nostro Governo nel corso di questi ultimi mesi), sapendo cosa questo significa. Infatti, è molto difficile pensare ad una soluzione della questione israelo-palestinese fuori da questo contesto.
Vi sono forti elementi di novità, come l'annuncio dello svolgimento a Bagdad di una conferenza regionale con la partecipazione di Siria e di Iran, nei confronti della quale gli Stati Uniti hanno dichiarato la propria disponibilità a partecipare. Si tratta di un fatto importante e di un'iniziativa politica che dà il senso della missione che svolgiamo in Libano, collocandola nel quadro di iniziative per la pace.
Infine, vorrei trattare la questione dell'Afghanistan. Essa è nata dopo che l'11 settembre 2001 la comunità internazionale - e non solo la NATO - convenne sulla liquidazione di uno Stato che si presentava come un covo del terrorismo internazionale ed al tempo stesso come responsabile di una vera e propria barbarie sul piano dei diritti e delle libertà delle persone. Tale liquidazione costituiva una condizione per l'apertura di un nuovo processo, Pag. 64oltre che la risposta ad una minaccia terroristica che si presentava in forme sempre più pesanti.
Naturalmente anche in questo caso abbiamo conosciuto grandi contraddizioni e visto situazioni in cui si sono intrecciate posizioni diverse. Voglio ricordare che quando si parla della crisi della politica americana in Iraq - crisi evidente a molte forze, comprese in modo rilevante anche quelle presenti all'interno degli stessi Stati Uniti - non ci si riferisce ad una politica abbandonata, perché sappiamo che essa continua a dare i suoi effetti. Ancora oggi in Afghanistan esistono forze - che esercitano un peso rilevante - che vedono nel terreno militare forse non quello esclusivo ma certamente quello predominante per la loro azione. Dalle consultazioni da noi svolte e dalle forze da noi sentite per la discussione di questo decreto abbiamo avuto un quadro radicalmente diverso.
In primo luogo - e mi rivolgo all'onorevole Cacciari - i movimenti pacifisti e i volontari che si trovano in Afghanistan non sono andati a chiedere il ritiro del contingente militare. Non hanno chiesto una exit strategy, bensì una strategia capace di produrre risultati, di modificare positivamente la situazione.
Al tempo stesso, abbiamo ascoltato con interesse l'ambasciatore italiano in Afghanistan, che nelle Commissioni riunite affari esteri e difesa ha presentato un'analisi differenziata degli interlocutori che abbiamo di fronte. Egli ha affermato che quelle che, genericamente, riassumiamo sotto l'etichetta «talebani» sono, in realtà, forze differenziate, che comprendono componenti legate ad Al Qaeda o ispirate ad essa, ma anche tante altre realtà. L'ambasciatore italiano ci ha fornito un quadro che ci fa comprendere come sia possibile una strategia articolata, che punti a contrastare ed a combattere esplicitamente certe forze, a neutralizzarne altre ed a considerarne altre ancora come interlocutori.
Lo dico perché questo è il punto politico reale: la presenza militare in un paese si giustifica come elemento transitorio volto a compensare la mancanza di legittimità, di forza, di autonomia, di rappresentatività che uno Stato ha in sé e a garantire un passaggio verso una maggiore forza. Ciò vuol dire identificare, in quel paese, forze capaci di colmare questo vuoto e questo limite, mettendo in moto un processo diverso, affrontando i problemi e le difficoltà che abbiamo di fronte. Penso che nessuno di noi abbia interesse a delineare la situazione esistente in Afghanistan ignorando le preoccupazioni, le contraddizioni e tutti i rischi che essa presenta.
Occorre perseguire una linea politica di costruzione della pace e di sviluppo positivo della situazione in Afghanistan, di relazioni internazionali e di prospettive nelle relazioni internazionali diversa da quella che è entrata in crisi in Iraq e che abbiamo conosciuto in questi anni. Ritengo che, per questo motivo, quella che il Governo ha compiuto - e che la maggioranza sostiene - sia una scelta di responsabilità, una scelta attiva.
Infine, ritengo che una scelta così difficile abbia bisogno del sostegno e della condivisione del paese. Penso anche che abbia bisogno, in particolare, di quelle enormi energie che si sono mobilitate negli anni scorsi intorno alla questione della pace. Non credo esse siano riassumibili come posizioni che, in qualche modo, appaiono preoccupate solo di se stesse, incapaci di affrontare il tema della responsabilità politica. A mio avviso, questo è un punto molto importante.
Credo che ciò valga, in generale, quando parliamo della funzione della politica, ma ritengo che sia ancora più vero con riferimento alla politica estera: non possiamo chiederci solo cosa è bene e cosa è male, senza porci una domanda su cosa è meglio e cosa è peggio, collocando in una dimensione relativa, nel quadro di un principio di etica della responsabilità, la valutazione delle nostre scelte. E questo mi pare ciò che stiamo facendo.
Nonostante molti problemi e molte difficoltà esistenti per quanto riguarda, in generale, l'azione del nostro Governo, ritengo che la politica estera costituisca un tema rispetto al quale il nostro rapporto Pag. 65con il paese - nonostante tutto e nonostante le dialettiche esistenti nella maggioranza, che finalmente si sviluppano su questioni di contenuto e di merito, e non su scaramucce - è solido e ci può consentire di sviluppare un'iniziativa che abbia forte carattere di novità.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Franco Russo. Ne ha facoltà.
FRANCO RUSSO. Presidente, basterebbero gli avvenimenti delle ultime quarantotto ore, che riporterò in quest'aula utilizzando brani di giornali non dell'estrema sinistra o della sinistra radicale, per farci comprendere come la questione della guerra non riguardi più ormai gli eserciti armati, i militari in divisa, ma da decenni, a partire sicuramente dalla seconda guerra mondiale, sia indirizzata contro i civili, sia un qualcosa cioè che non distrugge gli eserciti dei nemici, ma che, per distruggere gli eserciti dei nemici, utilizza gli attacchi indiscriminati ai civili, annientando economie, relazioni sociali, infrastrutture.
Signor Presidente, signor viceministro, voi, come me, sapete sicuramente quello che è accaduto in Afghanistan: la strage di civili - come riporta Il Corriere della Sera - dopo l'imboscata agli Stati Uniti. E commenta Francesco Battistini, quindi non un radicale di sinistra: Le licenze ad uccidere di troppi soldati nervosi nelle province a rischio talebano, questa è la causa. La certezza della quasi impunità in una missione di pace dove ogni giorno si spara. Il risultato è una mattinata di follia, blindati che corrono impazziti per sei chilometri d'autostrada e all'impazzata tirano su qualunque cosa si muova. Questa è la realtà dell'Afghanistan.
Ma la realtà della guerra in Afghanistan - voglio citare un altro giornale che non è anch'esso espressione della sinistra radicale, Il Sole 24 ore - non sono solo i civili uccisi in Afghanistan nei teatri di guerra, ma è qualcosa che va oltre, di cui noi ci dimentichiamo; e pur essendo oggi gli eserciti di professionisti da contratto, questa guerra causa decine e decine di migliaia di feriti, i quali per tutta la loro intera esistenza porteranno sui propri corpi e nelle menti i segni della guerra stessa.
Sempre Il Sole 24 ore - riporta: i feriti, dramma nascosto della guerra (si scopre che i feriti sono quelli degli Stati Uniti, feriti maltrattati dentro quello che doveva essere il gioiello degli ospedali di Washington, e che invece è pieno di topi e scarafaggi che convivono con quei feriti); e, attraverso il servizio de Il Sole 24 ore, scopriamo quante decine di migliaia di soldati americani porteranno per il resto della loro vita i segni della guerra in Iraq e in Afghanistan.
La guerra quindi non solo non è uno strumento per risolvere le controverse internazionali, ma è uno strumento, e tale rimane ed è sempre stato, di distruzione: per questo occorre porre fine alla guerra.
Non penso - e su questo ritornerò alla fine del mio intervento - che si tratti di bilanciare fra etica della responsabilità ed etica della convinzione. Penso che, per quanto riguarda la pace e la guerra, si tratti di trovare le azioni giuste per porre fine ai conflitti armati, che, in questa fase storica, sappiamo essere provocati fondamentalmente da quella che viene denominata «la lotta al terrorismo», ma che è invece «la guerra preventiva infinita», portata avanti dall'Amministrazione Bush, e in luoghi lontani dagli Stati Uniti d'America, che si riflette all'interno degli Stati Uniti d'America stessi, in un processo di cancellazione anche dei diritti civili, come testimonia il Patriotic Act.
La guerra va dunque interrotta e subito, con tutti i mezzi possibili e immaginabili e le truppe - per questo è giusta la rivendicazione della movimento pacifista, non solo italiano ma mondiale - vanno ritirate; si tratta di truppe che, come ha detto giustamente il mio collega di gruppo, Burgio, non siamo obbligati a tenere in Afghanistan, poiché non vi è un obbligo da parte della Nato, neanche nei patti del 1999, a tenere le truppe in quel territorio.
Un'altra via è possibile, e l'ha individuata proprio il Ministero degli affari esteri italiano, anche con il contributo del viceministro qui presente, onorevole Intini, Pag. 66e cioè il modello del Libano, quel modello per cui l'ONU interviene per porre fine, e non per coprire, le guerre.
Ricordiamo che le guerre, quand'anche condotte sotto l'egida dell'ONU, sono illegittime in quanto l'articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite impedisce azioni di guerra. L'ONU ha la funzione di garantire la sicurezza, anzitutto delle popolazioni civili ed interviene, dunque, per dividere i contendenti, come è successo in Libano. Ha ragione Iacopo Venier, quando sostiene che male ha fatto il Governo, contraddicendo gli stessi impegni assunti con il programma dell'Ulivo, ad intervenire su tutte le diverse missioni con un unico provvedimento perché così mal si ragiona e mal si sceglie. Quando, infatti, con un unico decreto-legge si statuisce in ordine alle diverse presenze a Rafah, ad Hebron, in Libano ed in Afghanistan, il Parlamento e le forze politiche di maggioranza non possono discutere singolarmente le missioni e decidere con cognizione di causa.
Onorevole Intini, mi consenta la seguente osservazione. Certamente lei, rivestendo l'incarico di viceministro degli affari esteri, conosce i fatti meglio di me, ma noi dobbiamo ricostruire cosa effettivamente sia accaduto in Afghanistan e se sia vero, come si continua a sostenere, che le operazioni condotte in Afghanistan a partire dal 2001 sarebbero legittimate dall'ONU. Ebbene, il Consiglio di sicurezza dell'ONU, con risoluzione n. 1368 del 12 settembre del 2001, prendeva posizione contro gli attacchi orribili che gli Stati Uniti d'America avevano subito alle Torri gemelle, in Pennsylvania, con migliaia di morti. L'ONU giustamente richiamava gli Stati ad una lotta al terrorismo - terrorismo che condannava senza equivoci -; ma tale richiamo era nel senso di un impegno comune degli Stati per assicurare alla giustizia - e, dunque, ai tribunali - chi aveva organizzato, pensato e sponsorizzato gli attacchi terroristici. Tale era il contenuto della risoluzione del 12 settembre 2001; contemporaneamente, gli Stati Uniti d'America iniziavano un'operazione che, dapprima denominata «giustizia infinita», cambiava poi nome in Enduring freedom.
Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti, con una sorta di alleanza dei volenterosi, come era successo in Iraq, intraprendono la loro azione, che comincia il 7 ottobre 2001 con i bombardamenti pesanti sull'Afghanistan. L'azione degli Stati Uniti prosegue in maniera brutale per rovesciare il regime dei talebani, senza però colpire Al Qaeda, come emerge in questi giorni (l'organizzazione è infatti ancora in piedi).
Le Nazioni Unite, lungi dal contrastare Enduring freedom, l'accompagnano; non ripeterò in questa occasione, data l'ora tarda, tutte le risoluzioni adottate: mi limito a citare la n. 1373 del 28 settembre 2001, con la quale il Consiglio di sicurezza impone agli Stati contraenti di astenersi da qualsiasi forma di supporto, attivo o passivo, alle entità terroristiche e di adottare tutte le misure necessarie per prevenire e bloccare il finanziamento del terrorismo. Quindi, il Consiglio di sicurezza, imponendo agli Stati l'adozione di misure politiche atte a bloccare le vie di sussistenza del terrorismo, li richiama a collaborare in tal senso e costituisce, quindi, un organo ausiliario - un Comitato competente a verificare l'implementazione della risoluzione - al quale gli Stati dovranno fare riferimento.
Ancora, il 14 novembre 2001, con risoluzione n. 1378, il Consiglio di sicurezza, intervenendo ancora sull'Afghanistan, chiede, sempre agli Stati contraenti, di fornire l'assistenza umanitaria necessaria, in considerazione del fatto che gli Stati Uniti d'America, con la loro alleanza dei volenterosi, non solo stanno colpendo i terroristi, ma stanno anche distruggendo l'Afghanistan. Ho ricordato situazioni note, che però è bene rimangano agli atti di questa Assemblea. Quando, signor ministro, viene deciso un appoggio militare?
In verità, l'appoggio militare è arrivato dopo che gli Stati Uniti stavano già vincendo la guerra contro il regime dei talebani. Nelle risoluzioni del dicembre 2001 (sia in quella del 6 sia in quella del 20 dicembre) viene istituita la missione ISAF Pag. 67(più precisamente, la risoluzione è la n. 1386 del 20 dicembre 2001). Due giorni dopo, le truppe americane entrano a Kabul e al regime talebano succede un'istituzione di transizione guidata da Kharzai. Questi sono i fatti. Quindi, al più, si può dire che l'ONU ha «accompagnato» l'azione americana e che soltanto in seguito, con l'istituzione della missione ISAF, ha tentato di sostituirsi agli Stati Uniti, ma senza che ciò avvenisse.
Per questo, la missione in Afghanistan è diversa sia da quella in Libano sia da quella in Iraq. Sull'onda degli attentati devastanti e disumani alle Torri gemelle, le Nazioni Unite hanno «accompagnato» la lotta al terrorismo. In Afghanistan, ci troviamo in una situazione nella quale continua l'operazione Enduring Freedom, dalla quale l'Italia si è finalmente ritirata il 31 dicembre 2006 (dopo la decisione presa, nel luglio del 2006, in occasione dell'approvazione del penultimo provvedimento di finanziamento). Inoltre, siamo impegnati, ora, nell'operazione ISAF.
Il fatto grave, nella ricostruzione che vi sto offrendo, è che, ad un certo punto, dopo che la Gran Bretagna, l'Irlanda del Nord e la Turchia avevano preso la direzione della missione ISAF, dal mese di aprile del 2003 (se non erro), la NATO invia al Consiglio di sicurezza una lettera nella quale propone di assumere la guida della missione ISAF. Quindi, in questo momento, ci troviamo a partecipare a due missioni: una è guidata dalla NATO, con catena di comando americana; l'altra è la missione Enduring Freedom, una guerra voluta, organizzata e diretta dagli Stati Uniti d'America, che hanno utilizzato il barbaro attacco terroristico subito sul loro territorio per portare avanti la loro guerra.
Pertanto, penso sia giusto avere l'obiettivo di porre fine alla guerra in Afghanistan, una guerra che non si può vincere, così com'è stato dimostrato che non si può vincere la guerra in Iraq: si possono vincere le battaglie contro i regimi dittatoriali, come abbiamo visto accadere in Iraq ed in Afghanistan, ma non si può vincere contro i popoli; non si può vincere sperando di esportare il diritto internazionale o gli istituti civili o la democrazia sulle punte dei missili e sulle punte delle attuali «baionette», che sono armi micidiali. Sebbene siano utilizzate armi di distruzione di massa e tecniche distruttive, non si vince la guerra! Per questo, la guerra va interrotta: su questo, Rifondazione Comunista tutta è impegnata; su questo, Rifondazione Comunista non si è mai divisa dai movimenti pacifisti; il nostro obiettivo è, appunto, quello di porre fine alla guerra.
Ci siamo battuti insieme affinché questo Parlamento riconoscesse come giusta la decisione di ritirare le nostre truppe dall'Iraq, ed il Governo dell'Unione l'ha fatta propria. Si trattava di una guerra sbagliata, di una decisione sbagliata presa dal Governo di centrodestra per supina acquiescenza ai voleri dell'amministrazione Bush. Mi sono posto due questioni.
La prima questione è che anche dopo il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, la guerra è continuata in maniera ancora più feroce, perché si è scatenata ormai un conflitto civile fra etnie. Il punto è che non basta soltanto ritirare le truppe per porre un problema politico all'alleato americano.
Come facciamo noi a porre fine alla guerra in Iraq e come facciamo a porre fine alla guerra in Afghanistan?
Per questo, viceministro, vorrei riprendere i temi che sono stati trattati dal collega Marcenaro e dal mio collega di gruppo Paolo Cacciari. Ho letto le riflessioni di un intelligentissimo e coltissimo editorialista, Piero Ignazi - che peraltro, se non sbaglio, è anche un docente di dottrine politiche - secondo cui il difetto della sinistra cosiddetta radicale è quello di non scegliere fra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità, come richiamava appunto poco fa il collega Marcenaro.
Come tutti noi sappiamo, queste sono le grandi categorie che Weber elabora nel suo saggio del 1919 intitolato La politica come professione. Devo dire che mentre le categorie dell'etica della convinzione e dell'etica della responsabilità sono molto perspicue nel rendere chiari i problemi che si hanno davanti quando si tratta di scegliere Pag. 68in occasione di fatti tragici come la guerra e la pace, trovo che l'accentuazione di Weber sia non convincente. Non a caso egli parla ed esalta il professionismo della politica, mentre la sinistra nella sua tradizione, non solo radicale, non ha mai esaltato il professionismo della politica ma ha invece sempre esaltato la partecipazione ed il fatto che tutti i cittadini e tutte le cittadine debbano prendere parte all'azione collettiva, perché di questo noi parliamo quando pensiamo alla politica.
Non mi convince, inoltre, la scissione che Weber opera fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Non mi convince perché penso che il distacco che esiste fra questi comportamenti, il superamento di quello che Weber pensa come un abisso, io credo che invece vada riempito con l'azione politica. In questo condivido quanto sostiene il mio collega di gruppo, Cacciari, perché penso che la politica si ispiri all'etica e che debba essere guidata dai principi. Lo dico con la consapevolezza di non fare un'affermazione di coscienza che appartiene ad una parte politica; lo dico con la consapevolezza che i principi, dopo la seconda guerra mondiale, guidano la politica e le istituzioni. Basti pensare, viceministro Intini, al primo articolo del Grundgesetz, quando dice che la dignità umana è a fondamento delle istituzioni e che le istituzioni pubbliche devono ispirarsi al rispetto della dignità umana e fare in modo che essa venga attuata e rispettata in ogni azione pubblica. Penso ai principi della nostra Carta costituzionale, che stanno al di sopra di tutti i titoli in cui si riparte la nostra Costituzione.
Quindi, non scopro niente di nuovo quando dico che l'etica è parte della politica e che noi nel XXI secolo non possiamo fare delle scelte politiche a prescindere dalle grandi questioni etiche. Non vi è dubbio che la guerra deve essere posta al di fuori della storia; non vi è dubbio che questo principio deve ispirare la nostra linea. Il punto è che i fondamenti etici devono trovare la possibilità e la capacità di tradursi in azione politica, e qui ricordo quando noi tutti organizzammo la grande manifestazione del 15 febbraio del 2003 - manifestazione definita dal New York Times come la seconda potenza del mondo - partita dal Social forum di Firenze del 2002, che coinvolse decine e decine di milioni di persone e che a Roma portò in piazza un milione e mezzo di persone, con la presenza di Scàlfaro e di Pietro Ingrao a difesa dell'articolo 11 della Costituzione.
Ebbene, dopo quella manifestazione del 15 febbraio, il 17 marzo partì l'attacco americano all'Iraq. Noi tutti - non solo nelle forze politiche, ma anche nei movimenti - ci ponemmo il problema dell'efficacia dell'azione dell'opinione pubblica e delle manifestazioni di protesta. Ci interrogammo, cioè, su come tradurre quelle lotte, quella consapevolezza diffusa e quelle centinaia di migliaia di bandiere della pace, esposte nelle finestre, in una decisione pubblica vincolante l'azione di governo.
Noi ci ponemmo e ci siamo posti, quindi, la questione dell'efficacia dell'azione di lotta e di mobilitazione. Per questo motivo, rimanemmo frustrati quando non riuscimmo ad impedire lo scatenarsi della guerra e quando, per tre anni pieni - perché l'uscita dalla guerra in Iraq è avvenuta nel 2006 -, abbiamo organizzato manifestazioni per portare le truppe italiane fuori da quel paese.
Ciò è avvenuto con il Governo dell'Unione. Dobbiamo riflettere su questo aspetto, perché non è vero che l'attività di Governo, oppure il far parte di una maggioranza o il sostenere un Esecutivo siano in contraddizione con gli ideali e le aspirazioni pacifisti. Al contrario, far parte del Governo può significare aprire uno spazio e, come si dice in gergo, rendere permeabile l'Esecutivo stesso alle iniziative, alle istanze ed ai valori dei movimenti.
Per questo motivo, come Rifondazione Comunista, tutti insieme non abbiamo condiviso il giudizio espresso dal Presidente Prodi sulla manifestazione di Vicenza: si tratta, infatti, di ascoltare, di farsi contaminare e di riflettere su quanto i cittadini e le cittadine vanno affermando sulle basi militari e sulla questione della pace!Pag. 69
Pertanto, onorevoli colleghi, ritengo che oggi sia non l'obbedienza alle decisioni del gruppo (ho una visione diversa dal collega Burgio), ma la mia valutazione personale ad indurmi a sostenere il disegno di legge di conversione del decreto-legge sulla proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie ed internazionali oggi in esame. Ciò perché ritengo vi siano alcuni punti migliorativi rispetto al passato decreto-legge, che ricordo di non aver votato.
Alcuni di questi punti sono contenuti nello stesso decreto-legge: si tratta, ad esempio, del comma 6-bis dell'articolo 1, che prevede l'organizzazione della Conferenza internazionale di pace per l'Afghanistan. La scelta innovativa compiuta dal presente provvedimento rispetto al passato è, per l'appunto, la convocazione di tale conferenza. Pertanto, il giudizio politico espresso da numerose forze politiche di maggioranza, a partire dal presidente Ranieri - vale a dire, che la soluzione dei problemi dell'Afghanistan è solo e semplicemente politica - si traduce in uno strumento normativo vincolante sia per il Governo, sia per il Parlamento. Tale strumento prevede un'indicazione politica, come la convocazione della Conferenza di pace, la quale si deve svolgere con la partecipazione dei nemici e di tutte le forze che sono coinvolte, coinvolgibili o interessate a risolvere la questione afgana.
Mi sembra sia questa la grande novità recata dal decreto-legge in esame. Vi è sicuramente chi può ironizzare su tale scelta o sminuirla; tuttavia, ai miei occhi si tratta di un passaggio importante e cruciale, perché si pone in una prospettiva che, se non garantisce una exit strategy immediata, apre la via ad una soluzione diversa da quella della guerra guerreggiata!
Quindi, spero che il Governo si impegni a fondo nell'organizzazione di tale Conferenza di pace. Ciò sapendo, naturalmente, che i vertici sia della NATO sia dell'Amministrazione americana non sono d'accordo, anche se questa è l'unica via possibile e praticabile. Non si tratta, dunque, solo di ritirare le truppe, poiché bisognerà farlo in corrispondenza degli impegni assunti nella Conferenza internazionale di pace.
Devo dire che sono rimasto alquanto deluso dalla cancellazione di una parte della proposta emendativa, presentata in sede di Commissioni, relativa a questa Conferenza. Consentitemi di citare tale passaggio.
Si diceva esattamente che la Conferenza di pace avrebbe comportato anche la determinazione delle modalità della presenza italiana in Afghanistan. Quindi, ritengo che eliminando questa parte si sia compiuto un passo indietro, comunque non tale da cancellare l'opzione della Conferenza di pace. Infatti, si definisce la Conferenza di pace e il modo di essere all'interno del teatro di guerra afgano; sappiamo che vi è un impegno politico nella mozione di luglio volto a delimitare la presenza delle forze militari italiane in regioni geograficamente circoscritte, impedendo alle nostre truppe di prender parte a comportamenti offensivi, dovendo usare le armi solo in chiave difensiva.
Un'altra questione è stata sollevata dal ministro D'Alema al Senato nel famoso mercoledì 21 febbraio, quando ha ricordato (leggo il resoconto stenografico della seduta) che l'Italia ha chiesto ed ottenuto di poter essere il paese leading, quello che promuove e organizza il dibattito sul rinnovo del mandato della missione civile delle Nazioni Unite che si svolgerà a marzo. Poi, quando si discuterà in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l'Italia si impegna a discutere i compiti futuri dell'ONU sul piano politico e militare in Afghanistan.
Si tratta, onorevole Intini, di fare la stessa operazione - anche se con anni di ritardo e con morti e distruzioni - che si è compiuta in Libano. L'ONU deve tornare ad essere strumento di pace, l'ONU deve tornare ad essere strumento di pacificazione!
Per questo ritengo che il rapporto che intercorre tra le scelte ideali e l'azione politica può determinare una frattura che può essere colmata da un'azione politica guidata dai principi. Oggi, credo in questa Pag. 70opzione della Conferenza di pace, credo nell'impegno del Governo a non far sì che le nostre truppe portino avanti azioni offensive; credo profondamente che, nell'ambito del Consiglio di sicurezza, l'Italia si impegnerà a trasformare le missioni di guerra.
Per questo penso anche che ad un certo punto l'Italia potrà utilizzare il ritiro delle proprie truppe quale ulteriore strumento di pressione per portare avanti l'azione di pace. Per tale motivo, non per disciplina, ma per convincimento, esprimerò un voto favorevole sul provvedimento in esame (Applausi del deputato Venier).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 2193-A)
PRESIDENTE. Prendo atto che i relatori rinunciano alla replica.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, onorevoli deputati, vorrei pronunciare qualche parola per sintetizzare l'opinione del Governo e per rispetto dei deputati intervenuti, a ciascuno dei quali si deve una risposta.
Gli onorevoli Ranieri e Pinotti hanno spiegato con efficacia la logica seguita dal Governo, che è quella di valorizzare la dimensione multilaterale e, in particolare, la dimensione europea.
Per noi gli interventi umanitari, gli interventi che riguardano la società civile sono i più importanti. L'azione militare è necessaria, ma non sufficiente, anzi costituisce una precondizione per l'azione umanitaria e civile e non un fine in sé. Ciò è ancor più vero in una situazione in cui ci troviamo a combattere il terrorismo. Contro il terrorismo occorre il soft power e non l'hard power, occorre soprattutto la propaganda, l'intelligence, la politica.
Com'è stato affermato oggi, sono necessarie armi di attrazione di massa e non di distruzione di massa! Queste armi sono più importanti dell'azione militare; sempre più la lotta al terrorismo assomiglia ad un'azione di polizia contro la criminalità più che ad un'azione di guerra tradizionale.
Il dibattito quest'oggi si è incentrato, soprattutto, sull'Afghanistan.
Credo che sull'Afghanistan si debbano evitare due posizioni estreme: la prima è quella per cui si dice: «Veniamo via da soli!» Ciò non è possibile per una ragione di principio, perché contraddirebbe proprio alle ragioni del multilateralismo, cui facevo riferimento poc'anzi. Non è possibile anche per una ragione pratica e psicologica, non soltanto per un problema di vincoli. Ci troviamo in Libano innanzitutto con i nostri alleati europei: con i francesi, i tedeschi, gli spagnoli. È possibile dire loro in Libano stiamo insieme, mentre a Kabul vi lasciamo da soli? Non credo! Non ci facciamo, dunque, schermo dei vincoli; evitiamo di restare isolati non soltanto nella NATO ma anche in Europa, anche fra gli europei che furono ostili alla guerra in Iraq.
Vi è poi l'estremo opposto di chi dice: «Va bene così, l'impegno militare continuerà a tempo indeterminato!» Invece non va bene per niente. Vi è un paradosso evidente che è stato ricordato più volte oggi. In Afghanistan spendiamo il massimo di impegno mondiale da parte della comunità internazionale e, nel contempo, vi è il massimo di produzione di oppio che avvelena il mondo. Abbiamo un «narco-Stato», come è stato osservato oggi, sotto tutela internazionale.
Allora, occorre una prima riflessione: la distruzione delle piantagioni di oppio sino a questo momento non ha funzionato. Forse, è necessario individuare strade alternative, vagliarle anche a titolo sperimentale. Io stesso, a luglio, proprio da questi banchi, ho avanzato l'ipotesi di perseguire il tentativo sperimentale di acquistare l'oppio per fini dell'industria farmaceutica, Pag. 71per produrre morfina ed antidolorifici. Mi pare un'idea da valutare senza pregiudizi.
La NATO è intervenuta in Afghanistan per una ragione solida ed urgente: perché bisognava combattere e sradicare il santuario, costruito per Bin Laden, dal quale era stato pianificato un attacco devastante nel centro di New York; ma alla NATO non si può chiedere di reggere da sola ed in eterno una guerra infinita.
Occorre una exit strategy, certo, una soluzione politica, un coinvolgimento maggiore della comunità internazionale! Bisogna passare il testimone al legittimo Governo di Kabul.
Coinvolgimento della comunità internazionale significa innanzitutto coinvolgimento dei paesi confinanti attraverso la conferenza di pace che è stata più volte ricordata. Ranieri lo ha detto: persino in Iraq si fa strada il concetto di una conferenza di pace. Tra pochi giorni a Baghdad si siederanno insieme, con il consenso ovviamente degli Stati Uniti, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, l'Iran, la Siria, la Giordania ed i paesi confinanti.
Tutti i paesi confinanti vanno coinvolti per quanto riguarda la situazione afghana. L'Iran vede nei talebani il suo nemico storico e avverte l'esigenza di difendere dal fondamentalismo sunnita le minoranze sciite. L'Iran soffre per l'arrivo di enormi quantità di droga e per l'insicurezza della frontiera collegata proprio al traffico di droga.
La Cina e la Russia sono insidiate dal fondamentalismo islamico e dal terrorismo di Al Qaeda che penetra dall'Afghanistan oltre il confine cinese e verso le repubbliche sovietiche. La Russia, non a caso e non solo per mire imperialiste, ha combattuto in Afghanistan una guerra devastante.
Il Pakistan, a Peshawar o a Quetta, si trova in prima linea; sul suo territorio i talebani si riorganizzano, trovano solidarietà, minacciano o condizionano il Governo centrale. L'Iran, la Cina, la Russia, il Pakistan, le repubbliche ex sovietiche devono essere chiamati in una conferenza internazionale, dunque, a concordare con l'Europa, gli Stati Uniti e la NATO una strategia comune. Trovare una soluzione politica e puntare alla stabilizzazione dell'Afghanistan è interesse loro quanto nostro.
Nel 2000-2001 nel Governo Amato mi sono occupato di Afghanistan e ho imparato qualcosa. Innanzitutto che bisogna prevenire piuttosto che reprimere. A Roma, all'Olgiata, abitava il re dell'Afghanistan che è tornato in patria, un leader rispettato, il quale ci consigliava una strada che si poteva percorrere: mi riferisco alla convocazione di una Loya Jirga, un'assemblea dei capi tribali che in quel momento avrebbe forse potuto avere un importante effetto.
Ho incontrato il generale Massud nella zona che controllava: abbiamo dialogato con lui grazie al fatto che Emergency international aveva costruito e gestiva un ospedale in quella zona. Emergency ha costruito un ospedale anche a Kabul e ciò ci ha consentito di dialogare con i talebani, in particolare con il ministro degli esteri talebano Mutawakkil.
Una trattativa di pace tra talebani e Massud era a portata di mano; naturalmente era necessario che la comunità internazionale aiutasse militarmente il generale Massud, affinché i talebani non si facessero l'idea di poter prevalere sul piano esclusivamente militare. Uno dei pochi ambasciatori a Kabul era quello pakistano; secondo il generale Massud molti talebani erano reclutati ed armati dai servizi di sicurezza pakistani e le pressioni sul Pakistan erano formidabili, soprattutto da parte della Russia che premeva affinché si smettesse di aiutare i talebani. Abbiamo imparato che una chiave della situazione afgana sta ad Islamabad.
I signori della guerra c'erano allora e ci sono anche oggi; erano responsabili di prepotenze, vessazioni e, da sempre, le popolazioni semplici quando sono vessate cercano soccorso dal prete. In Afghanistan i preti sono i fondamentalisti religiosi e in definitiva, spesso, i capi dei talebani.Pag. 72
Dunque, contro la talebanizzazione dell'Afghanistan il baluardo è la società civile, è lo sviluppo democratico.
In Italia sappiamo, l'abbiamo imparato da queste esperienze, che è decisiva per quel paese non soltanto la forza militare, ma la trattativa, l'intelligence. Il generale Massud ci ricordava che quando la sera prima programmava l'attacco di un villaggio, spesso il mattino dopo entrava in quel villaggio senza colpo ferire; ciò, perché nella notte qualcuno con una valigia di dollari era andato dal capo tribale e aveva risolto la questione in modo informale, se così si può dire.
In Afghanistan nulla è irreversibile, spesso le cose non sono bianche o nere, ma grigie. A quel tempo trattammo con il ministro degli esteri Mutawakkil che appariva una persona ragionevole: che ne è stato di lui? Ha partecipato all'ultima campagna elettorale, si è candidato e opera libero nella sua area tribale.
Ho ascoltato con attenzione gli interventi in questo lungo ed interessante dibattito. Vi sono stati accenti diversi, spunti polemici, ma una sostanziale unità e un consenso di maggioranza ed opposizione sulle nostre missioni all'estero: Afghanistan, Libano e sulle altre. Coglierò qualche spunto dagli interventi di ciascuno.
L'onorevole Fulvia Bandoli ci ha ricordato che il movimento per la pace è ormai una potenza mondiale: infatti è per noi non un ostacolo, ma un alleato, un interlocutore, un consigliere rispettato quando si è d'accordo sulle sue proposte e quando non lo si è.
Ringrazio l'onorevole Fontana per l'appoggio al decreto-legge sulle missioni e lo voglio rassicurare su un punto. Gli Stati Uniti sono alleati di oggi e di domani; non alziamo la voce contro di loro; esprimiamo, da alleati, critiche alla politica dell'attuale Governo. Si tratta di critiche più autorevoli e credibili nella misura in cui si resta alleati leali della nazione americana. Parlo di critiche non diverse da quelle espresse dal Congresso degli Stati Uniti e dalla maggioranza dei paesi europei.
L'Italia ha uno scarso ruolo internazionale? Non credo. Tutti riconoscono al nostro paese il ruolo decisivo, addirittura storico, nel determinare l'intervento in Libano che ha posto nuovamente al centro come protagonista della situazione internazionale non soltanto l'Italia, ma soprattutto l'Europa.
L'onorevole Deiana ha apprezzato l'iniziativa per una conferenza internazionale. La ringrazio per questo apprezzamento e per l'osservazione che in questo modo si supera un'impostazione claustrofobica e puramente militare. Convengo sulla necessità di avviare una discussione di fondo sulla NATO. Essa è sorta oltre mezzo secolo fa e va adattata ad un mondo diverso. D'altronde, non dispiacerà all'onorevole Deiana se ricordo che l'onorevole Andreotti insiste spesso su questo concetto ed esattamente con queste parole.
L'onorevole Giuditta ha insistito su un punto chiave che mi trova molto d'accordo: occorre rilanciare il ruolo unitario dell'Europa e ottenere un'Europa non soltanto del mercato comune, della moneta comune, ma della politica estera comune e di una politica di difesa comune, sino ad ottenere un esercito europeo di pace.
Vorrei rassicurare l'onorevole Gasparri sul fatto - e su questo vi è il concorso di tutta la maggioranza - che l'Italia resta un alleato degli Stati Uniti, il che non esclude di essere critici qualche volta nei confronti degli stessi Stati Uniti, che sono di certo una grande nazione democratica. D'altronde, l'onorevole Gasparri ama l'Italia e tuttavia non questo Governo italiano, che ha definito con dovizia di aggettivi non propriamente rispettosi. Lo vogliamo rassicurare anche sul fatto che - certo - intendiamo contrastare i talebani e il terrorismo, ma non insinuando che propagandare il Corano significhi propagandare il terrorismo. Questa insinuazione, infatti, è esattamente quella che porta alle guerre di civiltà, ovvero all'obiettivo principale perseguito dai terroristi stessi.
L'onorevole D'Elia ci ha ricordato che in Afghanistan - nonostante tutto - le cose vanno meglio e non peggio e che il medioevo talebano è pur sempre alle Pag. 73spalle, ed è così. Inoltre, ci ha ricordato ciò che più ci inquieta e cioè che è aumentata la produzione di oppio del 50 per cento rispetto all'anno precedente ed il giro di affari mondiale che ne consegue è di 400-500 miliardi di dollari: un'enormità.
L'onorevole D'Elia, inoltre, come altri parlamentari, ha indicato una strada che va almeno tentata e valutata, quella dell'impiego sperimentale dell'oppio afghano per la produzione farmaceutica di morfina. In ciò, onorevole Gasparri, non c'è nulla di scandaloso o irragionevole. Anzi, ciò che è irragionevole è il paradosso che abbiamo di fronte: nel più grande paese produttore di oppio - lo ricordava D'Elia - si opera negli ospedali senza anestetici e senza morfina.
L'onorevole Venier, tra le altre cose, ha espresso il giusto consenso per un'indagine conoscitiva, non limitata alle missioni più scottanti, ma estesa alle decine di missioni in atto da decine di anni. Ha sollecitato un particolare interesse all'area del Mediterraneo, Cipro, Sahara e altri problemi da approfondire.
Nelle parole dell'onorevole Evangelisti mi ha colpito il riferimento alla realtà di un paese dove gli «aquiloni non volano più». Questi riferimenti mi ricordano le parole del generale Massoud, il quale mi faceva osservare come in un paese come l'Afghanistan tutto può precipitare e risalire. Quando ero un giovane studente di ingegneria - mi disse Massud - le ragazze frequentavano l'università in minigonna. Quando la società civile si riformerà - e ciò può avvenire presto - forse gli aquiloni torneranno a volare. Questo è l'obiettivo principale, prima ancora di quello militare. Ha ragione l'onorevole Evangelisti.
Concordo con l'onorevole De Zulueta sulle sue valutazioni e la ringrazio per aver riconosciuto la coerenza del Governo italiano nel rimanere fedele al principio fondamentale indicato nel suo programma, vale a dire il multilateralismo. La ringrazio anche per aver apprezzato il maggior peso dato dal Governo alla spesa per la cooperazione.
Condivido l'idea dell'onorevole Forlani che l'Europa debba essere un punto di riferimento per una cultura dei diritti e delle libertà. L'onorevole Forlani ha sottolineato errori, inefficienze e ritardi nell'azione internazionale in Afghanistan. Ciò ci incoraggia nella convinzione che, come dicevo all'inizio, è necessario cambiare, e a fondo, la strategia internazionale.
L'onorevole Garofani ha detto che il multilateralismo ha bisogno di risultati non solo militari, ma anche economici. I risultati economici sono esattamente il nostro obiettivo e per questo abbiamo moltiplicato gli investimenti destinati allo sviluppo. In Afghanistan, osservava l'onorevole Garofani, il dopo è il futuro che dobbiamo costruire.
L'onorevole Cacciari ci ha ricordato che siamo nel sesto anno di impegno militare in Afghanistan e ciò, di per sé, fa pensare che ci siano stati degli errori.
Concordo sul fatto che non tutto il Governo talebano del 2001 si è dimostrato, in modo inconfutabile, responsabile per l'attentato alle Torri gemelle, ma ricordo ciò che solo pochi giorni fa il capo talebano in Afghanistan ha dichiarato: «Bin Laden è, grazie al cielo, vivo e lotta insieme ai talebani».
Preferiamo non appartarci rispetto alla NATO, ma influenzare nel modo che ci sembra giusto la strategia della stessa NATO.
Il Parlamento e il centrosinistra hanno bisogno sì di voci diverse, onorevole Cacciari, ma anche, alla fine, di una sintesi comune e di una decisione comunemente seguita.
Ringrazio l'onorevole Picchi per il sostegno del suo gruppo alle nostre missioni; tuttavia, il Governo non è ondivago. Per il Governo, che ha appena avuto la fiducia al Senato, certo gli esami non finiscono mai, ma gli esami confermano sempre una cosa: vi possono essere dissensi individuali, però tutti i partiti della maggioranza appoggiano la politica estera del Governo; anche i singoli parlamentari in dissenso appoggiano gli elementi fondamentali della politica estera del Governo, non tutta, ma certo gli elementi fondamentali.Pag. 74
Concordo, infine, con l'onorevole Picchi sulla necessità di privilegiare, nell'attività di cooperazione all'estero, l'impiego di personale locale.
Ringrazio l'onorevole Rossi Gasparrini per essersi soffermata sulle esigenze delle donne e degli uomini in armi all'estero, che sono anche lavoratori ed operatori di pace.
Vorrei dire all'onorevole Burgio, del quale ho ascoltato con attenzione l'intervento, che certo le cose non vanno meglio in Afghanistan, ma andrebbero peggio se la comunità internazionale gettasse la spugna sul piano militare. A proposito dell'ultima tragedia, delle morti di civili di ieri e di oggi, ripeto che il Governo è molto preoccupato e turbato per quanto è avvenuto e che giustamente il presidente Karzai ha chiesto un'inchiesta.
Tutti hanno parlato quasi esclusivamente di Afghanistan; l'onorevole Marcenaro ha fatto bene a ricordare che la scelta politica compiuta sull'Iraq caratterizza più di ogni altra la politica estera dell'Italia. Lo ringrazio per aver allargato l'orizzonte agli altri scenari di crisi e per aver ricordato che, quando si parla di talebani, si parla di forze differenziate.
Le considerazioni dell'onorevole Russo, infine, sull'etica della responsabilità e l'etica della convinzione, mi sembrano condivisibili. Siamo contrari anche noi alla guerra preventiva, ma in Afghanistan c'è stata una guerra non preventiva, bensì successiva all'attacco di Bin Laden, protetto dal Governo afgano, contro le Twin Towers. C'è stata una guerra successiva, che però, bisogna riconoscerlo, non ha portato alla cattura di Bin Laden e che non può durare in eterno.
Concludo, onorevoli deputati, ringraziando ancora una volta tutti gli intervenuti, assicurandoli che il Governo sa anche ascoltare e far tesoro dei suggerimenti provenienti dal Parlamento, quelli avanzati dalla maggioranza e quelli avanzati dall'opposizione. Sono suggerimenti che spesso coincidono e questo è un elemento di forza - ne siamo orgogliosi - per l'azione internazionale dell'Italia. (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Rifondazione comunista - Sinistra europea e Comunisti italiani).
PRESIDENTE. Ringrazio il viceministro Intini.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Ordine del giorno della seduta di domani.
PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.
Martedì 6 marzo 2007, alle 10:
1. - Svolgimento di una interpellanza e di interrogazioni.
(ore 14)
2. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Conversione in legge del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali (2193-A).
- Relatori: Ranieri, per la III Commissione e Pinotti, per la IV Commissione.
La seduta termina alle 20,15.
TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO ROBERTA PINOTTI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 2193-A
Testo sostituito con l'errata corrige del 6 MARZO 2007
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Il provvedimento che portiamo oggi all'esame dell'Aula è stato oggetto di discussione nelle sedi parlamentari dove, in seduta congiunta, le Commissioni esteri e difesa lo hanno esaminato, emendato ed approvato, ma è stato anche oggetto di discussione pubblica tra le forze politiche e sugli organi di informazione.
Esso definisce i tempi, le modalità e le risorse con cui il nostro paese è presente in molte aree di crisi ed è impegnato, in vario modo, con gli strumenti della cooperazione civile, con forme di assistenza diretta e indiretta, con la presenza di contingenti militari e di polizia, con l'iniziativa diplomatica nelle sedi internazionali. L'obiettivo di questo impegno decisamente considerevole sia dal punto di vista delle risorse umane che di quelle finanziarie è quello di contribuire a risolvere le tante crisi in atto e quello ancor più ambizioso di contribuire a spegnere ad uno ad uno i troppi focolai di guerra che negli ultimi anni sono andati moltiplicandosi.
Con questa ispirazione ideale il nostro Governo si è fatto carico dei doveri di continuità coerenti con gli interessi strategici generali, i principi costituzionali e il rispetto della storia del nostro paese, ma ha anche saputo cambiare strada quando gli stessi venivano messi in discussione.
Assolutamente lontani da qualunque tentazione di protagonismo ma profondamente convinti che in un mondo sempre più interdipendente e globalizzato fosse necessario recuperare autorevolezza alle posizioni multilaterali nelle istituzioni sopranazionali, in sostanza, ci si è mossi lungo tre direttrici: Il rilancio dell'unità europea, la necessità di una svolta in Medio Oriente e nella lotta al terrorismo, un allargamento degli orizzonti e delle relazioni internazionali del nostro paese.
Già il 19 luglio 2006 l'Assemblea della Camera si è occupata delle missioni italiane all'estero non solo in occasione dell'esame del disegno di legge che ne autorizzava il rifinanziamento per il secondo semestre dell'anno appena trascorso, ma anche nell'ambito della discussione delle mozioni annesse.
L'atto di indirizzo allora approvato dalla Camera dei deputati definisce il quadro politico entro il quale si muovono le nostre missioni all'estero, sia quelle umanitarie che quelle militari e delle forze di polizia.
In quella mozione si sottolineava la necessità che l'Italia si facesse promotrice di un'ampia fase di approfondimento nelle sedi internazionali di tutti gli strumenti con cui le Nazioni Unite e la NATO operano in Afghanistan. Vi si indicava l'impegno fondamentale a concludere la partecipazione dell'Italia alla missione Enduring freedom, e anzi, a promuoverne il superamento. Inoltre, si impegnava il Governo ad accedere ad una separazione tra la cooperazione e gli interventi militari, e soprattutto il dibattito aveva evidenziato l'esigenza che il Governo stesso implementasse il proprio impegno nella prevenzione dei conflitti e nella gestione dei processi di pace nell'ambito delle iniziative delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte, con particolare riferimento alla situazione israelo-libanese, allora appena deflagrata.
In questo senso, alla luce del ruolo che di lì a poco avrebbe assunto l'Italia nel Consiglio di sicurezza dell'ONU (1o gennaio 2007), la mozione conteneva l'impegno del Governo italiano a porre in quell'autorevole consesso la questione della formazione di una forza militare permanente sotto il comando del Segretario generale dell'ONU.
Proprio in Libano, crisi nella quale l'Italia ha assunto un ruolo fondamentale per proiettare l'iniziativa europea e dare protagonismo all'ONU, si sta sperimentando una delle più importanti missioni guidate dalle Nazioni Unite dopo anni in cui si era verificata una concreta difficoltà a gestire missioni militari con tale guida.
Per quanto riguarda il disegno di legge approvato nel luglio scorso, esso prevedeva, coerentemente con il programma di Governo - che tutte le forze di maggioranza hanno voluto e condiviso - il rientro del contingente militare dall'Iraq.
Tale rientro è puntualmente avvenuto con modalità di attuazione concordate con le autorità irachene e le forze alleate, in modo da assicurare al popolo iracheno la necessaria assistenza sul fronte della ricostruzione civile ed economica e di aiuto alla formazione.
Sento il dovere di riconoscere ancora una volta alle Forze Armate italiane la professionalità con cui è stato organizzato e portato a termine il rientro. I militari italiani hanno curato la fase di rientro con particolare attenzione agli aspetti di collaborazione civile, curando il passaggio delle responsabilità delle attività agli iracheni. È questo un approccio, definito dai militari di altri eserciti «The Italian Way», nel condurre questo tipo di operazioni molto apprezzato in ambito internazionale.
Ci sono stati però anche commentatori che hanno voluto vedere in questo modo di fare delle nostre Forze Armate un limite, e i più critici di loro sono arrivati a identificarlo come una modalità voluta per mettersi al riparo da una scarsa capacità operativa o da una presunta inadeguatezza a sostenere situazioni «ad alta intensità conflittuale». Queste perplessità hanno avuto un'eco anche nella discussione parlamentare in sede di Commissione. Alcuni parlamentari si sono chiesti se i nostri contingenti presenti in Afganistan, Libano e Kosovo sono sufficientemente equipaggiati per poter far fronte, senza correre rischi inutili, a quelli che potrebbero essere i pericoli derivanti da una possibile recrudescenza della situazione in questi tre teatri? Il Capo di Stato maggiore della Difesa, nella sua autorità, ha chiarito che «riteniamo di essere equipaggiati al meglio di quelli che sono i nostri mezzi, le nostre possibilità e le nostre dotazioni: non abbiamo nulla da invidiare ad altri.»
Per quanto riguarda invece le critiche e i commenti sul nostro comportamento a Dikar, comparsi in alcune pubblicazioni straniere, anche queste ricordate nel dibattito in Commissione, ritengo che possono essere smentiti dalla concretezza dei risultati ottenuti. In Iraq il nostro contingente è riuscito a mantenere un perfetto equilibrio tra la missione operativa assegnata e il naturale e progressivo disimpegno. Tutti i contatti diretti avuti con le autorità locali, le organizzazioni non governative, la popolazione civile sono stati gestiti in modo da non compromettere i risultati della fase di disimpegno e di trasferimento delle responsabilità. Nella provincia di Dikar, che ricadeva sotto la nostra responsabilità, la situazione è migliorata molto più rapidamente che altrove. Certo, anche per tutta una serie di fattori interni alla vita nazionale irachena, ma noi abbiamo contribuito a stabilizzarla.
Come ulteriore forma di supporto alla ripresa di migliori condizioni di vita, l'Italia ha lasciato in dotazione alle corrispettive strutture irachene circa 800 prefabbricati completi di ogni servizio e impianti di illuminazione e potabilizzazione. Dal mese di giugno a dicembre 2006 vi è stato il graduale rientro dei 3500 uomini e dei circa 1650 mezzi del contingente italiano trasportati da 42 velivoli tra militari e civili e da 8 vettori navali.
Un'operazione complessa che ha garantito il trasferimento in Italia di migliaia di uomini, di mezzi blindati, di supporti logistici e di attrezzature che erano state schierate in quel territorio nel corso dei 1.273 giorni in cui è durata la missione Antica Babilonia. Ritengo che, soprattutto in questa sede che è il luogo in cui si decidono gli impegni delle missioni internazionali, non si possano dimenticare coloro, militari e civili, che non sono tornati a casa.
A nome di tutti i componenti delle Commissioni esteri e difesa, rinnovo i sentimenti di riconoscenza nei loro confronti e di vicinanza e solidarietà delle istituzioni parlamentari alle loro famiglie.
Grande attenzione è stata giustamente data, nel dibattito politico, alla situazione afgana. Nella discussione parlamentare dello scorso luglio si invocava una riflessione più approfondita, a cinque anni dall'intervento militare autorizzato dall'ONU, in quel teatro, ma non si mettevano in discussione il mantenimento degli impegni assunti dall'Italia con l'ONU e con la NATO, nella consapevolezza che in Afghanistan sono presenti i principali paesi europei e che nessuna decisione è opportuno assumere fuori dalle sedi multilaterali.
Dopo l'abbattimento del regime talebano sono stati conseguiti sicuramente alcuni risultati: una serie di passaggi istituzionali (autorità provvisoria afghana, dicembre 2001, e nomina a Presidente di Karzai da parte della Loya Jirgah, giugno 2002) hanno consentito di arrivare alla Costituzione del 5 gennaio 2004 e alle elezioni presidenziali nell'ottobre 2004; infine le elezioni generali del 18 settembre 2005, che hanno portato in Parlamento il 27 per cento di donne e confermato Karzai presidente.
Detto questo non ci nascondiamo che la situazione in quel paese non è evoluta con la nettezza e la rapidità sperate ed anzi rimane di estrema gravità.
Grave per la rinata capacità militare dei talebani, per le condizioni materiali di vita ancora disastrose della popolazione, per la mancata individuazione di una efficace strategia di contrasto e di riconversione delle coltivazioni illegali di oppio, che anzi sono aumentate, e alimentano una condizione di ricattabilità dei contadini afgani da parte dei mercanti di droga e dei cosiddetti «signori della guerra» che utilizzano i rilevanti proventi del traffico illegale per i propri fini.
La serie inquietante di eventi cruenti e drammatici registrati negli ultimi cinque giorni ci dice quanto siano precarie le condizioni di sicurezza in Afghanistan e come la situazione venga via via logorandosi. Una sequenza iniziata con l'attentato suicida compiuto durante la visita del Vicepresidente americano Dick Cheney nella base di Bagram. L'attentato è stato rivendicato dai talebani, ha lasciato sul terreno 20 morti e altrettanti feriti e ha dimostrato ancora una volta quanto siano pericolose le capacità militari di questi gruppi. Bagram dista appena 60 chilometri da Kabul, la visita del Vicepresidente americano era stata organizzata con tutte le attenzioni possibili alla sicurezza e il programma stesso delle attività era stato modificato per ragioni meterologiche. Nonostante ciò siamo stati ancora una volta costretti a contare morti e feriti.
Il giorno dopo c'è stato un altro attentato nella regione di Farah e subito dopo un' altro in quella di Kandahar. Sabato scorso un ordigno piazzato su una bicicletta è stato fatto esplodere ad Herat sulla strada che conduce dall'Aeroporto alla sede del contingente italiano; bilancio: tre morti e 15 feriti. Ultima in ordine di tempo la strage più grave con un attentato suicida ad un convoglio militare americano cui è seguito - secondo la versione USA - uno scontro a fuoco che ha coinvolto i civili presenti. Fonti afgane parlano invece di una reazione a fuoco da parte dei militari americani su civili disarmati. Unica cosa certa è che sono rimasti sul terreno 16 morti e 30 feriti; ferma la condanna di questa strage da parte del Presidente Karzai.
È di questa mattina, infine, la notizia di un raid aereo della NATO, a nord di Kabul, lanciato dopo un attacco notturno contro una base ISAF nella provincia di Kapisa da parte dei talebani, in cui sarebbero rimasti uccisi 9 civili tra cui tre ragazzi e cinque donne. La drammatica sequenza di questeiultimi giorni conferma il rischio di una «irachizzazione» del conflitto afgano. Il moltiplicarsi degli attentati suicidi, una modalità estranea alla guerriglia afghana fino a poco più di un anno fa, ne sono i segnali più evidenti. Fino al 2005 si erano registrati 21 attacchi, nel 2006 sono saliti a 139, non pochi dei quali condotti da kamikaze.
L'emergenza di oggi rischia di mettere in ombra anche ciò che è stato fatto finora sul fronte umanitario e della cooperazione, dove numerosi sono stati gli interventi finanziari realizzati nel 2006. In particolare, ricordo l'erogazione di un contributo all'Afghanistan pari a 7 milioni di euro, al fine di fornire sostegno finanziario ai costi di gestione dell'Amministrazione statale afgana e ai progetti di investimento, quali sviluppo rurale, riabilitazione e sviluppo di infrastrutture di base. Ricordo anche l'erogazione di un altro contributo, pari a 1 milione di euro, con l'obiettivo di mobilitare risorse addizionali per l'implementazione della strategia nazionale afgana di lotta alla droga, al fine di combattere la coltivazione, la produzione ed il traffico di droga e gli altri contributi agli organismi internazionali nei settori dei minori, della giustizia e del sostegno delle donne.
Per quanto riguarda lo stanziamento previsto dal presente decreto, sottolineo che esso sarà destinato, tra l'altro, al rafforzamento istituzionale ed al sostegno all'Amministrazione afgana attraverso nuovi contributi a favore dei principali Trust Fund di ricostruzione attivati dalle agenzie delle Nazioni Unite, nonché al settore della giustizia, nel quale l'Italia ha un ruolo preminente, che viene riconfermato da una previsione normativa contenuta in questo decreto (articolo 1, comma 6) per l'organizzazione della Conferenza di Roma sulla giustizia in Afghanistan.
Inoltre, proseguiranno le attività di cooperazione civile nella zona di Herat, dove si è deciso di operare una netta distinzione tra la componente della cooperazione civile e quella militare, individuando una sede logistica diversa, destinata unicamente alla gestione dei programmi di cooperazione, per la quale si è comunque previsto l'allestimento di tutte le misure di sicurezza attiva e passiva per assicurare la protezione del personale civile.
Nella discussione del provvedimento a Commissioni riunite, sono state approvati emendamenti significativi. Uno riguarda l'incremento di risorse per le attività di cooperazione civile per 10 milioni di euro e l'altro stanzia risorse per la promozione e l'organizzazione di una Conferenza internazionale di pace per l'Afghanistan proposta dal Governo italiano. Come si vede si lavora per dare uno sbocco politico alla crisi afgana. Per riuscirci dobbiamo operare dentro le istituzioni multinazionali.
Anche da questo punto di vista, la fine prematura dell'operazione ISAF non sarebbe senza conseguenze. Infatti essa non significherebbe la fine della violenza che tutti auspicano e non creerebbe una situazione migliore, ma aprirebbe problemi e scontri tra prepotenze tribali rappresentate da signori della guerra, pronti ad agire per conquistarsi maggiori spazi di potere e di malaffare, e potrebbe costituire l'occasione per un ritorno, altrettanto feroce e oscuro, dei talebani con le loro ossessioni, pubbliche atrocità e collusioni con le centrali terroristiche di Al Qaeda. Se è vero che la chiusura anticipata di ISAF non appare opportuna, una riqualificazione della missione che sia più attenta alla ricostruzione della società civile, a mio avviso, risulta invece ineludibile. Il decreto-legge in esame si muove in questa direzione, in continuità con il precedente provvedimento di proroga, ed anzi accentua l'impegno umanitario dell'Italia. La direzione di marcia è quindi quella giusta e deve avere come orizzonte la realizzazione di una conferenza internazionale per la stabilizzazione e il rilancio sociale, politico ed economico dell'Afghanistan.
La situazione in Afghanistan necessità di sostegno politico a un progetto sul quale registrare un forte e convinto consenso internazionale. Non solo le popolazioni afgane, che rappresentano la priorità non trarrebbero immediato giovamento da un disimpegno italiano, ma verrebbe sminuito anche il ruolo dello Stato italiano, quale convinto promotore della necessità di una conferenza internazionale sull'Afghanistan. I militari italiani presenti in Afghanistan sono 1938 (di cui 1200 a Kabul e 800 ad Herat), e fanno parte di un contingente di 32.800 uomini provenienti da 37 paesi: alcuni facenti parte della NATO, che dal 2003 guida la missione, e altri che non ne fanno parte. Gli Stati Uniti hanno chiesto ai paesi europei un maggior impegno operativo in termini di uomini e mezzi. Al momento solo Inghilterra e Australia hanno deciso di inviare altre truppe. Il nostro contingente rimane invariato, per rafforzarne la sicurezza viene integrato con un elicottero velivolo da trasporto e uno da ricognizione senza pilota.
Quindi, a distanza di sette mesi dalla discussione sul rifinanziamento delle missioni all'estero per il secondo semestre 2006, sono stati raggiunti risultati tangibili.
È stato completato il rientro dall'Iraq, a dicembre 2006 e sempre in conformità con gli impegni contenuti nella mozione di luglio, è terminata la partecipazione dell'Italia alla missione Enduring Freedom.
L'orizzonte dell'Italia, come dimostrano i primi mesi di Governo, è il multilateralismo nell'ambito delle istituzioni sopranazionali. A questo fine assume grande rilevanza il ruolo dell'Unione europea anche nella politica di difesa, in quanto nessun paese europeo è in grado di gestire da solo in maniera credibile le situazioni di crisi all'estero. Se l'Unione europea si muove nel contesto di un'azione comune, invece, il suo contributo può rivelarsi significativo.
Dal 2003 l'Unione ha svolto 4 operazioni militari - 3 concluse e una ancora in corso in Bosnia; una delicata operazione civile e militare in Sudan, una in Darfur - in appoggio alla missione dell'Unione africana - 9 operazioni civili, di cui 4 concluse e 5 in corso. Attualmente, si sta impegnando in 3 nuove ampie operazioni civili in Kosovo, in Afghanistan e nella Repubblica democratica del Congo, a seguito del compimento della fase costituzionale del nuovo Governo.
Significativo è l'impegno finanziario per consentire la continuità della presenza militare nei Balcani dove siamo presenti con 4 missioni: in Kosovo, in Albania, in Bosnia-Erzegovina e con la Joint Enterprise nell'intera area balcanica, da poco pacificata e dove la situazione resti comunque difficile e renda quindi necessario il mantenimento dei contingenti multinazionali.
In questi giorni è stato presentato dall'inviato dell'Onu per il Kosovo, Martti Ahtisaari, il piano per uno status definitivo della provincia. Il fatto che il piano sia stato respinto dalla Serbia e accolto con molte riserve dalla Russia non fa che aumentare la nostra preoccupazione, ma proprio per questo ritengo debbano moltiplicarsi gli sforzi politici per una soluzione condivisa nella quale l'adesione all'Unione europea deve essere per i paesi dei Balcani occidentali l'elemento qualificante.
Ciò corrisponde agli interessi della pace nell'area e a quelli diretti dell'Italia per ragioni geopolitiche ed economiche, ma anche dal punto di vista della lotta alla criminalità. Significativa per l'Europa deve essere ritenuta anche la missione nella regione del Darfur in Sudan. La partecipazione dei militari italiani nella formazione del contingente multinazionale ha consentito lo schieramento, a partire dall'estate del 2004, di un contingente dell'Unione africana, che dispone anche di osservatori, elementi di polizia e personale civile, per fare fronte all'emergenza umanitaria che ha reso necessario l'intervento. L'Unione europea contribuisce alla missione con finanziamenti e personale impiegato nell'ambito degli organi di staff del citato contingente dell'Unione africana. Ricordo che attualmente contingenti di nostro personale militare sono impegnati in altre due missioni molto delicate di cui abbiamo il comando: con il generale Pistolese, comandante dell'operazione Rafa di monitoraggio alla frontiera fra Gaza e l'Egitto, e con il generale Coppola, responsabile della missione di polizia in Bosnia.
L'apertura del valico di Rafa, che assume sicura rilevanza nel più ampio tentativo di pacificazione tra Israele e Palestina, subisce purtroppo le alterne condizioni dei rapporti tra i due governi.
Nel contesto di un rafforzamento del ruolo e del peso politico dell'Unione europea nella gestione delle crisi, l'Italia ha dato un grande contributo, in termini diplomatici, finanziari e militari, alla costituzione della forza di interposizione inviata dall'ONU nello scorso settembre al confine israelo-libanese. In Libano, il contributo italiano di 30 milioni di euro, stanziato nel 2006, ha rappresentato il primo, immediato segnale dell'impegno dell'Italia alla prima fase di riabilitazione e ricostruzione del Libano. L'impegno finanziario dell'Italia si è tradotto in un Programma di cooperazione straordinario i cui fondi sono stati completamente erogati.
In particolare, hanno preso avvio interventi di emergenza anche tramite le organizzazioni non governative italiane presenti in loco, per un valore di 15 milioni di euro. Tali progetti riguardano interventi di carattere socio-economico (scuole, servizi, sanità, ambiente).
Inoltre sono stati erogati alle agenzie delle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni internazionali 10 milioni di euro per realizzare interventi in diversi settori, tra i quali quelli dello sminamento umanitario, della sanità e materno - infantile, dell'agricoltura e dell'assistenza ai rifugiati palestinesi in Libano.
Il programma di sminamento in Libano prosegue e si arricchisce, con il provvedimento che stiamo esaminando, di un ulteriore contributo per consentire la cessione a titolo gratuito alle forze armate libanesi di rilevatori di ordigni esplosivi per un valore di 300.000 euro, così come è stato richiesto dalle autorità libanesi. Importante lavoro sullo sminamento sta compiendo direttamente il nostro contingente militare: 2830 cluster bomb, 120 proiettili di artiglieria, 17 razzi e 6 bombe di aereo. È stato altresì concesso ed erogato un contributo di 5 milioni di euro direttamente al Governo libanese per la ricostruzione della infrastruttura viaria danneggiata dagli eventi bellici. Il nuovo contributo di 30 milioni di euro sarà destinato alla realizzazione di interventi individuati nell'ambito dell'Action Plan presentato il 4 gennaio scorso dal governo libanese.
In particolare, l'intervento italiano è destinato alla realizzazione di iniziative nel settore della formazione professionale, al sostegno alla microimprenditoria locale, alla riabilitazione di infrastrutture nei settori idrico-ambientale ed energetico nonché al rafforzamento istituzionale, nell'ambito degli interventi che in tale campo verranno effettuati dalla Commissione europea.
L'impegno finanziario previsto nel decreto-legge in oggetto dà anche l'esatta misura della dimensione del contingente militare italiano presente in Libano con la missione UNIFIL di cui il generale Graziano ha assunto proprio in questi giorni il comando. Sono schierati in teatro 2.450 militari, uomini e donne, con un assetto operativo organizzato su due reggimenti dotati di supporti tattici, logistici e unità di manovra. L'impegno sul terreno e un intenso lavoro diplomatico dimostrano come l'Italia stia cooperando attivamente alla gestione di un difficile processo di pacificazione tra le parti in conflitto, nonché a tutte le iniziative finalizzate a scongiurare una nuova fase conflittuale, dando così attuazione ad un preciso indirizzo politico formulato dal Parlamento.
L'elenco delle missioni che il decreto proroga, compresa quella in Afghanistan, consente di dare un giudizio complessivo sugli aspetti generali della politica di intervento dell'Italia all'estero.
Fattore comune di tanti contesti così diversi è, a mio avviso, una situazione di grande instabilità. Si tratta spesso di una tregua intervenuta a fatica dopo conflitti cruenti o di equilibri difficili che senza l'intervento internazionale rischierebbero di degenerare in conflitto aperto.
È questa la nostra fatica quotidiana per la costruzione e il mantenimento della pace adottata in sintonia con gli organismi internazionali ed è a questo fine che impegniamo anche un significativo numero di nostri militari. Non è quindi un caso che nel testo del decreto-legge sia prevista, per tutte le missioni militari, l'applicazione del codice penale militare di pace.
Il ricorso allo strumento militare può essere inevitabile di fronte a gravi minacce per la pace e la sicurezza collettiva, e l'Italia non si tira indietro. Esso deve essere però sempre l'estrema ratio e deve essere esercitato nei limiti e sulla base del diritto internazionale, come prevede l'articolo 11 della nostra Costituzione.
Passando ad una illustrazione sintetica delle disposizioni del decreto-legge riferite alle missioni militari e delle forze di polizia, sottolineo il fatto che l'articolato reca il differimento del termine della partecipazione italiana alle predette missioni e le rispettive autorizzazioni di spesa, con la precisazione che per ciascuna di esse il termine temporale del differimento viene stabilito al 31 dicembre 2007. La proroga viene quindi disposta con cadenza annuale (ad eccezione della missione Althea).
Rinvio infine alla relazione governativa per la disamina delle consuete norme in materia di trattamento economico ed assicurativo del personale, di valutazione del servizio prestato e di eventuale richiamo in servizio per esigenze connesse alle missioni medesime, nonché per quanto attiene ai profili contabili correlati all'organizzazione delle missioni.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Il provvedimento che portiamo oggi all'esame dell'Aula è stato oggetto di discussione nelle sedi parlamentari dove, in seduta congiunta, le Commissioni esteri e difesa lo hanno esaminato, emendato ed approvato, ma è stato anche oggetto di discussione pubblica tra le forze politiche e sugli organi di informazione.Pag. 75
Esso definisce i tempi, le modalità e le risorse con cui il nostro paese è presente in molte aree di crisi ed è impegnato, in vario modo, con gli strumenti della cooperazione civile, con forme di assistenza diretta e indiretta, con la presenza di contingenti militari e di polizia, con l'iniziativa diplomatica nelle sedi internazionali. L'obiettivo di questo impegno decisamente considerevole sia dal punto di vista delle risorse umane che di quelle finanziarie è quello di contribuire a risolvere le tante crisi in atto e quello ancor più ambizioso di contribuire a spegnere ad uno ad uno i troppi focolai di guerra che negli ultimi anni sono andati moltiplicandosi.
Con questa ispirazione ideale il nostro Governo si è fatto carico dei doveri di continuità coerenti con gli interessi strategici generali, i principi costituzionali e il rispetto della storia del nostro paese, ma ha anche saputo cambiare strada quando gli stessi venivano messi in discussione.
Assolutamente lontani da qualunque tentazione di protagonismo ma profondamente convinti che in un mondo sempre più interdipendente e globalizzato fosse necessario recuperare autorevolezza alle posizioni multilaterali nelle istituzioni sopranazionali, in sostanza, ci si è mossi lungo tre direttrici: Il rilancio dell'unità europea, la necessità di una svolta in Medio Oriente e nella lotta al terrorismo, un allargamento degli orizzonti e delle relazioni internazionali del nostro paese.
Già il 19 luglio 2006 l'Assemblea della Camera si è occupata delle missioni italiane all'estero non solo in occasione dell'esame del disegno di legge che ne autorizzava il rifinanziamento per il secondo semestre dell'anno appena trascorso, ma anche nell'ambito della discussione delle mozioni annesse.
L'atto di indirizzo allora approvato dalla Camera dei deputati definisce il quadro politico entro il quale si muovono le nostre missioni all'estero, sia quelle umanitarie che quelle militari e delle forze di polizia.
In quella mozione si sottolineava la necessità che l'Italia si facesse promotrice di un'ampia fase di approfondimento nelle sedi internazionali di tutti gli strumenti con cui le Nazioni Unite e la NATO operano in Afghanistan. Vi si indicava l'impegno fondamentale a concludere la partecipazione dell'Italia alla missione Enduring freedom, e anzi, a promuoverne il superamento. Inoltre, si impegnava il Governo ad accedere ad una separazione tra la cooperazione e gli interventi militari, e soprattutto il dibattito aveva evidenziato l'esigenza che il Governo stesso implementasse il proprio impegno nella prevenzione dei conflitti e nella gestione dei processi di pace nell'ambito delle iniziative delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte, con particolare riferimento alla situazione israelo-libanese, allora appena deflagrata.
In questo senso, alla luce del ruolo che di lì a poco avrebbe assunto l'Italia nel Consiglio di sicurezza dell'ONU (1o gennaio 2007), la mozione conteneva l'impegno del Governo italiano a porre in quell'autorevole consesso la questione della formazione di una forza militare permanente sotto il comando del Segretario generale dell'ONU.
Proprio in Libano, crisi nella quale l'Italia ha assunto un ruolo fondamentale per proiettare l'iniziativa europea e dare protagonismo all'ONU, si sta sperimentando una delle più importanti missioni guidate dalle Nazioni Unite dopo anni in cui si era verificata una concreta difficoltà a gestire missioni militari con tale guida.
Per quanto riguarda il disegno di legge approvato nel luglio scorso, esso prevedeva, coerentemente con il programma di Governo - che tutte le forze di maggioranza hanno voluto e condiviso - il rientro del contingente militare dall'Iraq.
Tale rientro è puntualmente avvenuto con modalità di attuazione concordate con le autorità irachene e le forze alleate, in modo da assicurare al popolo iracheno la necessaria assistenza sul fronte della ricostruzione civile ed economica e di aiuto alla formazione.
Sento il dovere di riconoscere ancora una volta alle Forze Armate italiane la professionalità con cui è stato organizzato Pag. 76e portato a termine il rientro. I militari italiani hanno curato la fase di rientro con particolare attenzione agli aspetti di collaborazione civile, curando il passaggio delle responsabilità delle attività agli iracheni. È questo un approccio, definito dai militari di altri eserciti «The Italian Way», nel condurre questo tipo di operazioni molto apprezzato in ambito internazionale.
Ci sono stati però anche commentatori che hanno voluto vedere in questo modo di fare delle nostre Forze Armate un limite, e i più critici di loro sono arrivati a identificarlo come una modalità voluta per mettersi al riparo da una scarsa capacità operativa o da una presunta inadeguatezza a sostenere situazioni «ad alta intensità conflittuale». Queste perplessità hanno avuto un'eco anche nella discussione parlamentare in sede di Commissione. Alcuni parlamentari si sono chiesti se i nostri contingenti presenti in Afganistan, Libano e Kosovo sono sufficientemente equipaggiati per poter far fronte, senza correre rischi inutili, a quelli che potrebbero essere i pericoli derivanti da una possibile recrudescenza della situazione in questi tre teatri? Il Capo di Stato maggiore della Difesa, nella sua autorità, ha chiarito che «riteniamo di essere equipaggiati al meglio di quelli che sono i nostri mezzi, le nostre possibilità e le nostre dotazioni: non abbiamo nulla da invidiare ad altri.»
Per quanto riguarda invece le critiche e i commenti sul nostro comportamento a Dikar, comparsi in alcune pubblicazioni straniere, anche queste ricordate nel dibattito in Commissione, ritengo che possono essere smentiti dalla concretezza dei risultati ottenuti. In Iraq il nostro contingente è riuscito a mantenere un perfetto equilibrio tra la missione operativa assegnata e il naturale e progressivo disimpegno. Tutti i contatti diretti avuti con le autorità locali, le organizzazioni non governative, la popolazione civile sono stati gestiti in modo da non compromettere i risultati della fase di disimpegno e di trasferimento delle responsabilità. Nella provincia di Dikar, che ricadeva sotto la nostra responsabilità, la situazione è migliorata molto più rapidamente che altrove. Certo, anche per tutta una serie di fattori interni alla vita nazionale irachena, ma noi abbiamo contribuito a stabilizzarla.
Come ulteriore forma di supporto alla ripresa di migliori condizioni di vita, l'Italia ha lasciato in dotazione alle corrispettive strutture irachene circa 800 prefabbricati completi di ogni servizio e impianti di illuminazione e potabilizzazione. Dal mese di giugno a dicembre 2006 vi è stato il graduale rientro dei 3500 uomini e dei circa 1650 mezzi del contingente italiano trasportati da 42 velivoli tra militari e civili e da 8 vettori navali.
Un'operazione complessa che ha garantito il trasferimento in Italia di migliaia di uomini, di mezzi blindati, di supporti logistici e di attrezzature che erano state schierate in quel territorio nel corso dei 1.273 giorni in cui è durata la missione Antica Babilonia. Ritengo che, soprattutto in questa sede che è il luogo in cui si decidono gli impegni delle missioni internazionali, non si possano dimenticare coloro, militari e civili, che non sono tornati a casa.
A nome di tutti i componenti delle Commissioni esteri e difesa, rinnovo i sentimenti di riconoscenza nei loro confronti e di vicinanza e solidarietà delle istituzioni parlamentari alle loro famiglie.
Grande attenzione è stata giustamente data, nel dibattito politico, alla situazione afgana. Nella discussione parlamentare dello scorso luglio si invocava una riflessione più approfondita, a cinque anni dall'intervento militare autorizzato dall'ONU, in quel teatro, ma non si mettevano in discussione il mantenimento degli impegni assunti dall'Italia con l'ONU e con la NATO, nella consapevolezza che in Afghanistan sono presenti i principali paesi europei e che nessuna decisione è opportuno assumere fuori dalle sedi multilaterali.
Dopo l'abbattimento del regime talebano sono stati conseguiti sicuramente alcuni risultati: una serie di passaggi istituzionali (autorità provvisoria afghana, dicembre Pag. 772001, e nomina a Presidente di Karzai da parte della Loya Jirgah, giugno 2002) hanno consentito di arrivare alla Costituzione del 5 gennaio 2004 e alle elezioni presidenziali nell'ottobre 2004; infine le elezioni generali del 18 settembre 2005, che hanno portato in Parlamento il 27 per cento di donne e confermato Karzai presidente.
Detto questo non ci nascondiamo che la situazione in quel paese non è evoluta con la nettezza e la rapidità sperate ed anzi rimane di estrema gravità.
Grave per la rinata capacità militare dei talebani, per le condizioni materiali di vita ancora disastrose della popolazione, per la mancata individuazione di una efficace strategia di contrasto e di riconversione delle coltivazioni illegali di oppio, che anzi sono aumentate, e alimentano una condizione di ricattabilità dei contadini afgani da parte dei mercanti di droga e dei cosiddetti «signori della guerra» che utilizzano i rilevanti proventi del traffico illegale per i propri fini.
La serie inquietante di eventi cruenti e drammatici registrati negli ultimi cinque giorni ci dice quanto siano precarie le condizioni di sicurezza in Afghanistan e come la situazione venga via via logorandosi. Una sequenza iniziata con l'attentato suicida compiuto durante la visita del Vicepresidente americano Dick Cheney nella base di Bagram. L'attentato è stato rivendicato dai talebani, ha lasciato sul terreno 20 morti e altrettanti feriti e ha dimostrato ancora una volta quanto siano pericolose le capacità militari di questi gruppi. Bagram dista appena 60 chilometri da Kabul, la visita del Vicepresidente americano era stata organizzata con tutte le attenzioni possibili alla sicurezza e il programma stesso delle attività era stato modificato per ragioni meterologiche. Nonostante ciò siamo stati ancora una volta costretti a contare morti e feriti.
Il giorno dopo c'è stato un altro attentato nella regione di Farah e subito dopo un' altro in quella di Kandahar. Sabato scorso un ordigno piazzato su una bicicletta è stato fatto esplodere ad Herat sulla strada che conduce dall'Aeroporto alla sede del contingente italiano; bilancio: tre morti e 15 feriti. Ultima in ordine di tempo la strage più grave con un attentato suicida ad un convoglio militare americano cui è seguito - secondo la versione USA - uno scontro a fuoco che ha coinvolto i civili presenti. Fonti afgane parlano invece di una reazione a fuoco da parte dei militari americani su civili disarmati. Unica cosa certa è che sono rimasti sul terreno 16 morti e 30 feriti; ferma la condanna di questa strage da parte del Presidente Karzai.
È di questa mattina, infine, la notizia di un raid aereo della NATO, a nord di Kabul, lanciato dopo un attacco notturno contro una base ISAF nella provincia di Kapisa da parte dei talebani, in cui sarebbero rimasti uccisi 9 civili tra cui tre ragazzi e cinque donne. La drammatica sequenza di questeiultimi giorni conferma il rischio di una «irachizzazione» del conflitto afgano. Il moltiplicarsi degli attentati suicidi, una modalità estranea alla guerriglia afghana fino a poco più di un anno fa, ne sono i segnali più evidenti. Fino al 2005 si erano registrati 21 attacchi, nel 2006 sono saliti a 139, non pochi dei quali condotti da kamikaze.
L'emergenza di oggi rischia di mettere in ombra anche ciò che è stato fatto finora sul fronte umanitario e della cooperazione, dove numerosi sono stati gli interventi finanziari realizzati nel 2006. In particolare, ricordo l'erogazione di un contributo all'Afghanistan pari a 7 milioni di euro, al fine di fornire sostegno finanziario ai costi di gestione dell'Amministrazione statale afgana e ai progetti di investimento, quali sviluppo rurale, riabilitazione e sviluppo di infrastrutture di base. Ricordo anche l'erogazione di un altro contributo, pari a 1 milione di euro, con l'obiettivo di mobilitare risorse addizionali per l'implementazione della strategia nazionale afgana di lotta alla droga, al fine di combattere la coltivazione, la produzione ed il traffico di droga e gli altri contributi agli organismi internazionali nei settori dei minori, della giustizia e del sostegno delle donne.Pag. 78
Per quanto riguarda lo stanziamento previsto dal presente decreto, sottolineo che esso sarà destinato, tra l'altro, al rafforzamento istituzionale ed al sostegno all'Amministrazione afgana attraverso nuovi contributi a favore dei principali Trust Fund di ricostruzione attivati dalle agenzie delle Nazioni Unite, nonché al settore della giustizia, nel quale l'Italia ha un ruolo preminente, che viene riconfermato da una previsione normativa contenuta in questo decreto (articolo 1, comma 6) per l'organizzazione della Conferenza di Roma sulla giustizia in Afghanistan.
Inoltre, proseguiranno le attività di cooperazione civile nella zona di Herat, dove si è deciso di operare una netta distinzione tra la componente della cooperazione civile e quella militare, individuando una sede logistica diversa, destinata unicamente alla gestione dei programmi di cooperazione, per la quale si è comunque previsto l'allestimento di tutte le misure di sicurezza attiva e passiva per assicurare la protezione del personale civile.
Nella discussione del provvedimento a Commissioni riunite, sono state approvati emendamenti significativi. Uno riguarda l'incremento di risorse per le attività di cooperazione civile per 10 milioni di euro e l'altro stanzia risorse per la promozione e l'organizzazione di una Conferenza internazionale di pace per l'Afghanistan proposta dal Governo italiano. Come si vede si lavora per dare uno sbocco politico alla crisi afgana. Per riuscirci dobbiamo operare dentro le istituzioni multinazionali.
Anche da questo punto di vista, la fine prematura dell'operazione ISAF non sarebbe senza conseguenze. Infatti essa non significherebbe la fine della violenza che tutti auspicano e non creerebbe una situazione migliore, ma aprirebbe problemi e scontri tra prepotenze tribali rappresentate da signori della guerra, pronti ad agire per conquistarsi maggiori spazi di potere e di malaffare, e potrebbe costituire l'occasione per un ritorno, altrettanto feroce e oscuro, dei talebani con le loro ossessioni, pubbliche atrocità e collusioni con le centrali terroristiche di Al Qaeda. Se è vero che la chiusura anticipata di ISAF non appare opportuna, una riqualificazione della missione che sia più attenta alla ricostruzione della società civile, a mio avviso, risulta invece ineludibile. Il decreto-legge in esame si muove in questa direzione, in continuità con il precedente provvedimento di proroga, ed anzi accentua l'impegno umanitario dell'Italia. La direzione di marcia è quindi quella giusta e deve avere come orizzonte la realizzazione di una conferenza internazionale per la stabilizzazione e il rilancio sociale, politico ed economico dell'Afghanistan.
La situazione in Afghanistan necessità di sostegno politico a un progetto sul quale registrare un forte e convinto consenso internazionale. Non solo le popolazioni afgane, che rappresentano la priorità non trarrebbero immediato giovamento da un disimpegno italiano, ma verrebbe sminuito anche il ruolo dello Stato italiano, quale convinto promotore della necessità di una conferenza internazionale sull'Afghanistan. I militari italiani presenti in Afghanistan sono 1938 (di cui 1200 a Kabul e 800 ad Herat), e fanno parte di un contingente di 32.800 uomini provenienti da 37 paesi: alcuni facenti parte della NATO, che dal 2003 guida la missione, e altri che non ne fanno parte. Gli Stati Uniti hanno chiesto ai paesi europei un maggior impegno operativo in termini di uomini e mezzi. Al momento solo Inghilterra e Australia hanno deciso di inviare altre truppe. Il nostro contingente rimane invariato, per rafforzarne la sicurezza viene integrato con un velivolo da trasporto e due da ricognizione senza pilota.
Quindi, a distanza di sette mesi dalla discussione sul rifinanziamento delle missioni all'estero per il secondo semestre 2006, sono stati raggiunti risultati tangibili.
È stato completato il rientro dall'Iraq, a dicembre 2006 e sempre in conformità con gli impegni contenuti nella mozione di luglio, è terminata la partecipazione dell'Italia alla missione Enduring Freedom.
L'orizzonte dell'Italia, come dimostrano i primi mesi di Governo, è il multilateralismo nell'ambito delle istituzioni sopranazionali. A questo fine assume grande Pag. 79rilevanza il ruolo dell'Unione europea anche nella politica di difesa, in quanto nessun paese europeo è in grado di gestire da solo in maniera credibile le situazioni di crisi all'estero. Se l'Unione europea si muove nel contesto di un'azione comune, invece, il suo contributo può rivelarsi significativo.
Dal 2003 l'Unione ha svolto 4 operazioni militari - 3 concluse e una ancora in corso in Bosnia; una delicata operazione civile e militare in Sudan, una in Darfur - in appoggio alla missione dell'Unione africana - 9 operazioni civili, di cui 4 concluse e 5 in corso. Attualmente, si sta impegnando in 3 nuove ampie operazioni civili in Kosovo, in Afghanistan e nella Repubblica democratica del Congo, a seguito del compimento della fase costituzionale del nuovo Governo.
Significativo è l'impegno finanziario per consentire la continuità della presenza militare nei Balcani dove siamo presenti con 4 missioni: in Kosovo, in Albania, in Bosnia-Erzegovina e con la Joint Enterprise nell'intera area balcanica, da poco pacificata e dove la situazione resti comunque difficile e renda quindi necessario il mantenimento dei contingenti multinazionali.
In questi giorni è stato presentato dall'inviato dell'Onu per il Kosovo, Martti Ahtisaari, il piano per uno status definitivo della provincia. Il fatto che il piano sia stato respinto dalla Serbia e accolto con molte riserve dalla Russia non fa che aumentare la nostra preoccupazione, ma proprio per questo ritengo debbano moltiplicarsi gli sforzi politici per una soluzione condivisa nella quale l'adesione all'Unione europea deve essere per i paesi dei Balcani occidentali l'elemento qualificante.
Ciò corrisponde agli interessi della pace nell'area e a quelli diretti dell'Italia per ragioni geopolitiche ed economiche, ma anche dal punto di vista della lotta alla criminalità. Significativa per l'Europa deve essere ritenuta anche la missione nella regione del Darfur in Sudan. La partecipazione dei militari italiani nella formazione del contingente multinazionale ha consentito lo schieramento, a partire dall'estate del 2004, di un contingente dell'Unione africana, che dispone anche di osservatori, elementi di polizia e personale civile, per fare fronte all'emergenza umanitaria che ha reso necessario l'intervento. L'Unione europea contribuisce alla missione con finanziamenti e personale impiegato nell'ambito degli organi di staff del citato contingente dell'Unione africana. Ricordo che attualmente contingenti di nostro personale militare sono impegnati in altre due missioni molto delicate di cui abbiamo il comando: con il generale Pistolese, comandante dell'operazione Rafa di monitoraggio alla frontiera fra Gaza e l'Egitto, e con il generale Coppola, responsabile della missione di polizia in Bosnia.
L'apertura del valico di Rafa, che assume sicura rilevanza nel più ampio tentativo di pacificazione tra Israele e Palestina, subisce purtroppo le alterne condizioni dei rapporti tra i due governi.
Nel contesto di un rafforzamento del ruolo e del peso politico dell'Unione europea nella gestione delle crisi, l'Italia ha dato un grande contributo, in termini diplomatici, finanziari e militari, alla costituzione della forza di interposizione inviata dall'ONU nello scorso settembre al confine israelo-libanese. In Libano, il contributo italiano di 30 milioni di euro, stanziato nel 2006, ha rappresentato il primo, immediato segnale dell'impegno dell'Italia alla prima fase di riabilitazione e ricostruzione del Libano. L'impegno finanziario dell'Italia si è tradotto in un Programma di cooperazione straordinario i cui fondi sono stati completamente erogati.
In particolare, hanno preso avvio interventi di emergenza anche tramite le organizzazioni non governative italiane presenti in loco, per un valore di 15 milioni di euro. Tali progetti riguardano interventi di carattere socio-economico (scuole, servizi, sanità, ambiente).
Inoltre sono stati erogati alle agenzie delle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni internazionali 10 milioni di euro per realizzare interventi in diversi settori, tra i quali quelli dello sminamento umanitario, Pag. 80della sanità e materno - infantile, dell'agricoltura e dell'assistenza ai rifugiati palestinesi in Libano.
Il programma di sminamento in Libano prosegue e si arricchisce, con il provvedimento che stiamo esaminando, di un ulteriore contributo per consentire la cessione a titolo gratuito alle forze armate libanesi di rilevatori di ordigni esplosivi per un valore di 300.000 euro, così come è stato richiesto dalle autorità libanesi. Importante lavoro sullo sminamento sta compiendo direttamente il nostro contingente militare: 2830 cluster bomb, 120 proiettili di artiglieria, 17 razzi e 6 bombe di aereo. È stato altresì concesso ed erogato un contributo di 5 milioni di euro direttamente al Governo libanese per la ricostruzione della infrastruttura viaria danneggiata dagli eventi bellici. Il nuovo contributo di 30 milioni di euro sarà destinato alla realizzazione di interventi individuati nell'ambito dell'Action Plan presentato il 4 gennaio scorso dal governo libanese.
In particolare, l'intervento italiano è destinato alla realizzazione di iniziative nel settore della formazione professionale, al sostegno alla microimprenditoria locale, alla riabilitazione di infrastrutture nei settori idrico-ambientale ed energetico nonché al rafforzamento istituzionale, nell'ambito degli interventi che in tale campo verranno effettuati dalla Commissione europea.
L'impegno finanziario previsto nel decreto-legge in oggetto dà anche l'esatta misura della dimensione del contingente militare italiano presente in Libano con la missione UNIFIL di cui il generale Graziano ha assunto proprio in questi giorni il comando. Sono schierati in teatro 2.450 militari, uomini e donne, con un assetto operativo organizzato su due reggimenti dotati di supporti tattici, logistici e unità di manovra. L'impegno sul terreno e un intenso lavoro diplomatico dimostrano come l'Italia stia cooperando attivamente alla gestione di un difficile processo di pacificazione tra le parti in conflitto, nonché a tutte le iniziative finalizzate a scongiurare una nuova fase conflittuale, dando così attuazione ad un preciso indirizzo politico formulato dal Parlamento.
L'elenco delle missioni che il decreto proroga, compresa quella in Afghanistan, consente di dare un giudizio complessivo sugli aspetti generali della politica di intervento dell'Italia all'estero.
Fattore comune di tanti contesti così diversi è, a mio avviso, una situazione di grande instabilità. Si tratta spesso di una tregua intervenuta a fatica dopo conflitti cruenti o di equilibri difficili che senza l'intervento internazionale rischierebbero di degenerare in conflitto aperto.
È questa la nostra fatica quotidiana per la costruzione e il mantenimento della pace adottata in sintonia con gli organismi internazionali ed è a questo fine che impegniamo anche un significativo numero di nostri militari. Non è quindi un caso che nel testo del decreto-legge sia prevista, per tutte le missioni militari, l'applicazione del codice penale militare di pace.
Il ricorso allo strumento militare può essere inevitabile di fronte a gravi minacce per la pace e la sicurezza collettiva, e l'Italia non si tira indietro. Esso deve essere però sempre l'estrema ratio e deve essere esercitato nei limiti e sulla base del diritto internazionale, come prevede l'articolo 11 della nostra Costituzione.
Passando ad una illustrazione sintetica delle disposizioni del decreto-legge riferite alle missioni militari e delle forze di polizia, sottolineo il fatto che l'articolato reca il differimento del termine della partecipazione italiana alle predette missioni e le rispettive autorizzazioni di spesa, con la precisazione che per ciascuna di esse il termine temporale del differimento viene stabilito al 31 dicembre 2007. La proroga viene quindi disposta con cadenza annuale (ad eccezione della missione Althea).
Rinvio infine alla relazione governativa per la disamina delle consuete norme in materia di trattamento economico ed assicurativo del personale, di valutazione del servizio prestato e di eventuale richiamo in servizio per esigenze connesse alle missioni Pag. 81medesime, nonché per quanto attiene ai profili contabili correlati all'organizzazione delle missioni.
TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO FRANCESCO BRUSCO IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 2193-A
FRANCESCO BRUSCO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, ritengo certamente positivo - e questo è un punto che voglio premettere ad ogni successiva argomentazione - il fatto di veder finalmente riconosciuta alla politica estera e di difesa l'importanza che essa merita, soprattutto in questa epoca in cui diventa sempre più difficile governare le grandi emergenze sociali e le gravi tensioni politiche che rendono la sicurezza un bene sempre più prezioso e prioritario.
II mondo è cambiato. Dagli scenari post coloniali e della guerra fredda, le vicende attuali ci proiettano verso equilibri planetari e molto complessi.
Sono sul tappeto problematiche che minacciano seriamente il futuro dell'umanità: la povertà, la penuria di risorse energetiche tradizionali e innovative, il degrado dell'ambiente e, soprattutto, le minacce alla pace e alla stabilità, segnate anche dal sorgere di nuove grandi potenze regionali e, in prospettiva, mondiali.
Questi mutamenti sono in parte originati dalla profonda trasformazione subita dal quadro delle minacce e dei rischi. La fine del confronto tra i due blocchi ha di fatto allargato la possibilità di condurre guerre «limitate»: locali, regionali o anche «specialistiche» (come la guerra al terrorismo).
Nuove minacce, fortemente «asimmetriche», portano a guerre anch'esse più «asimmetriche» di quanto si ritenesse probabile.
La progressiva globalizzazione dei fattori economici, finanziari, culturali, tecnologici, e, naturalmente, anche dell'informazione e delle comunicazioni, è parte integrante del processo di sviluppo economico, ma è anche un terreno aperto al verificarsi di nuove sfide, per la ragione che l'interdipendenza del mercato porta con sé la ineluttabilità dello scontro, con gravi problemi giuridici, di costo e, più in generale, di governabilità internazionale.
I rischi di conflitto non possono più essere identificati solo sulla base delle capacità militari dell'avversario, bensì sulla base dell'impatto che essi possono avere sulle percezioni di sicurezza, di benessere o di stabilità dell'opinione pubblica: la dimensione mediatica dei pericoli e delle scelte strategiche che debbono contrastarli diviene prevalente e complica notevolmente il quadro previsionale.
In questa situazione, lo strumento militare non si organizza tanto in funzione di una minaccia precisa e ben identificata, quanto in funzione delle operazioni che può essere chiamato a condurre. Gli scenari prevedibili escludono, per il momento, l'ipotesi di una guerra generalizzata che coinvolga l'intero continente europeo. In compenso, sono prevedibili numerose crisi sia nell'area geograficamente più vicina all'Italia e all'Europa (Mediterraneo, Balcani, Medio Oriente) sia in aree più lontane (Caucaso, Asia Centrale, Africa subsahariana, eccetera), con il coinvolgimento di importanti interessi europei.
Proprio la complessità di questo scenario, e le difficoltà che i nostri paesi incontrano per affrontarla in maniera accettabile, sono causa di serie problematiche di carattere politico e finanziario al livello dei singoli Stati e determinano la necessità di fare ricorso alle alleanze, ossia a un consorzio di forze in grado di garantire, mediante interventi militari integrati, una più efficace risposta a ogni tipo di minaccia.
Nel quadro di queste situazioni e di queste prospettive l'Italia, insieme a paesi amici e/o alleati, partecipa agli sforzi della comunità internazionale per governare le principali crisi del pianeta.
Lo fa principalmente con le sue Forze Armate.
Lo fa grazie a tanti giovani delle nostre contrade che ogni anno si arruolano e danno vita a uno straordinario volontariato Pag. 82in armi, saldamente ancorato ai valori della Costituzione e della tradizione civile e umanistica del nostro popolo.
A loro, a questi «soldati della Repubblica» e a questi «cittadini in divisa» vanno il mio pensiero e il mio profondo apprezzamento, che desidero rinnovare di fronte a voi.
Come già, in passato, a Beirut, in Iraq del nord, in Mozambico, in Somalia, in Etiopia/Eritrea, a Timor Est, in Sudan e, attualmente, nei Balcani, in Afghanistan e nel Libano, le nostre Forze Armate, su mandato delle Nazioni Unite o inserite nelle missioni a guida NATO, sono parte significativa di uno sforzo e di una sfida formidabile per la tutela della pace e della stabilità internazionali.
E per assolvere efficacemente questi nuovi e impegnativi compiti, esse, nell'ultimo decennio, si sono rinnovate e rimodulate attraverso trasformazioni epocali, quali: la sospensione del servizio di leva, con la conseguente immissione di un notevole numero di volontari; l'inserimento dell'elemento femminile; i mutamenti ordinativi e strutturali, che hanno puntato a dare maggiore connotazione interforze all'organizzazione, all'insegna di un più elevato standard di efficienza e di qualità. In tale periodo, in particolare, sono stati compiuti passi decisivi per fare assumere allo strumento militare nuove responsabilità nel campo della difesa e della sicurezza europea, sviluppando una politica che non si è posta in antitesi al rafforzamento del pilastro europeo dell'Alleanza Atlantica, nel quadro del citato progetto ESDI. I primi tentativi in questa direzione sono stati orientati a creare nuovi meccanismi e moderne strutture per consentire all'Unione Europea di intervenire con efficacia e tempestività in tutte le situazioni di crisi nei più diversi scenari politico-strategici (il processo in corso prevede anche un progressivo avvicinamento tra gli strumenti militari nazionali e il passaggio dalla interoperabilità alla standardizzazione dei sistemi d'arma); è stato portato avanti un articolato programma di formazione permanente del personale, che ha consentito alla Difesa di disporre di ufficiali, sottufficiali e volontari professionalmente ben preparati, con sensibilità, cultura ed esperienza giunte a maturazione per operare in contesti interforze e multinazionali; sono stati posti in essere strumenti normativi per incentivare la vocazione al volontariato e rendere il mondo militare più competitivo sul mercato del lavoro.
Per le nostre Forze Armate, la stagione delle missioni internazionali - senza minimamente sottovalutare l'opera da esse svolta per la difesa del territorio nazionale, per la sorveglianza degli obiettivi sensibili, per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, per dare cornice di sicurezza allo svolgimento di importanti eventi nazionali (G8, eventi NATO, olimpiadi invernali, ecc.) e per soccorrere le popolazioni in occasione di calamità naturali - è diventata quanto mai onerosa sia per l'entità del personale coinvolto sia per le difficoltà logistiche sia per la mutevolezza delle condizioni ambientali e del livello di minaccia.
In ogni giorno dell'anno, militari dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica e dell'Arma dei Carabinieri sono impegnati in ogni parte del globo: attualmente più di diecimila uomini e donne sono distribuiti tra Bosnia, Kosovo, Albania, Macedonia, Afghanistan (risale a poche settimana fa l'operazione «Itaca» che ha visto rientrare in patria più di duemila soldati italiani dall'Iraq), Libano (l'ultimo impegno d'oltremare che ha comportato lo schieramento nella terra dei cedri di circa tremila militari), senza contare le altre missioni a Cipro, Malta, Hebron, in Marocco, India, Pakistan, Medio Oriente, Congo e nel Sahara occidentale.
Per sostenere tutti questi onerosi impegni di carattere internazionale si impone l'utilizzazione di almeno quarantamila militari, dovendo far fronte al periodico avvicendamento del personale nei diversi teatri operativi (a tutto questo vanno poi sommati almeno altri trentamila soldati che fino a qualche mese fa hanno contribuito a garantire il soddisfacimento delle esigenze nazionali cui accennavo prima).Pag. 83
La vocazione internazionale delle Forze Armate italiane è confermata, infine, dal contributo assicurato ai principali organismi interalleati ed europei che si occupano di sicurezza.
Il quadro generale presentato, pur nella sua scarna essenzialità, descrive apoditticamente l'ampiezza e la latitudine dei nuovi compiti e delle responsabilità operative che il Parlamento e il Governo della Repubblica, anche per rispondere alle numerose chiamate della comunità internazionale, hanno affidato alle Forze Armate nazionali.
L'esperienza da esse maturata in tante operazioni d'oltremare fa sì che i nostri soldati si dimostrino sicuramente all'altezza delle capacità espresse dai principali alleati e partner europei ed extraeuropei: ne è testimonianza il fatto che, in più circostanze, sia stata e sia anche oggi attribuita all'Italia la responsabilità di comando di missioni interalleate.
I successi conseguiti dalle Forze Armate in Italia e sulla scena internazionale le hanno viste accreditate di una rinnovata attenzione e sensibilità da parte del mondo politico, dei mass media e dell'opinione pubblica, talché, all'alba del terzo millennio, l'Esercito, la Marina, l'Aeronautica e l'Arma dei Carabinieri possono autorevolmente proporsi al paese come: un organismo compatto, omogeneo e motivato; un punto di riferimento nazionale e internazionale di alto livello; un'organizzazione animata da valori forti, nella quale la disciplina, la concezione etica della vita e dello Stato e l'impegno civile si fanno intimo convincimento e straordinaria forza morale.
Ma questi successi sono dovuti anche al fatto che le Forze Armate nel nostro paese non sono separate dal popolo ma sono dentro la volontà popolare, come è scritto nella Costituzione e come è scritto nell'esperienza di più di mezzo secolo di storia repubblicana, durante il quale esse hanno esercitato, secondo la peculiarità delle specifiche funzioni, lealmente e fino in fondo il loro dovere.
Possiamo affermare con legittimo orgoglio che oggi sediamo al tavolo dei negoziati internazionali con l'autorevolezza che ci consente di riscuotere piena accoglienza alle nostre idee e alle nostre proposte politiche.
Ma se siamo ascoltati e rispettati, questo si deve, prioritariamente, alle scelte occidentali che l'Italia ha fatto nel secondo dopoguerra e, nondimeno, alla circostanza che lo strumento militare ha contribuito a rafforzare il nostro prestigio sulla scena internazionale, consentendo al paese di assumere e onorare i difficili impegni sul terreno della difesa comune e della tutela dei diritti dei più deboli.
All'interno di queste riflessioni si colloca il tema della proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali, con particolare riferimento al nostro impegno militare in Afghanistan.
Su questa materia voglio essere molto chiaro. L'attuale Governo, ignorando l'ultimo invito della NATO e dell'Amministrazione americana, tenta in ogni modo e disperatamente di mettere al riparo il voto sul rifinanziamento dalle trappole che vengono preparate dalla sua maggioranza al Senato.
Una scelta, obbligata ma mortificante, che impedisce di mettere a fuoco una delicata problematica di politica estera, artatamente stemperata dal proposito (manifestamente surrettizio) di organizzare a Roma una conferenza internazionale di pace (in verità ancora molto vaga), che i partiti della sinistra estrema vogliono contestualizzare nel decreto in discussione.
Una iniziativa dalle finalità assai ambiziose, che necessita di tempi lunghi e che potrebbe non trovare valore di concretezza prima dell'offensiva di primavera (anche questa ignorata dal Governo Prodi) dei talebani e dei tanti terroristi di diverse nazionalità che quotidianamente si infiltrano nel sud dell'Afghanistan.
Siamo ormai vicini a una situazione di schizofrenia politica («vorrei, ma non posso»): un atteggiamento che nuocerà certamente agli eccellenti risultati fin qui ottenuti e di cui l'Italia è giustamente orgogliosa.Pag. 84
Nei cinque anni del Governo Berlusconi abbiamo portato avanti e onorato un impegno militare, civile e umanitario che colloca il nostro paese tra i maggiori contributori alla sfida di riportare quella lontana nazione alla pace e al progresso civile dopo trent'anni di guerre e di devastazioni.
Con il suo procedere pudibondo e con le sue scelte basate sulla lesina, questa maggioranza rischia di compiere un pessimo gesto politico, disattendendo, tra l'altro, gli impegni assunti dal nostro paese, nel 2005, di rafforzare il contingente nazionale in vista dell'offensiva cui facevo cenno.
La politica estera è fatta certamente di tante cose, ma arriva sempre un momento fatale in cui essa deve essere fatta di iniziative ferme e decise, implicanti anche l'uso della forza per difendere i più deboli e tutelare la certezza del diritto, la pace e il progresso dei popoli.
Anche in questa circostanza non è possibile credere che la politica internazionale del nostro paese si possa basare sulle fiaccolate pacifiste o sulle esternazioni di irresponsabili urlatori.
Il gruppo politico cui mi onoro di appartenere, coerentemente con le scelte coraggiose e responsabili operate nella precedente legislatura in materia di politica estera, e più significativamente ancora prima, quando per cinque anni Forza Italia è stata forza di opposizione, voterà a favore del rifinanziamento delle missioni umanitarie e internazionali.
Un voto che è espressione della convinta consapevolezza che oggi l'Italia è un grande paese, rispettato e rispettabile nel concerto europeo e mondiale; che contiamo non perché siamo aggressivi, ma perché siamo autorevoli; che siamo autorevoli anche perché le nostre scelte occidentali, la nostra cultura e la nostra umanità ci hanno portato a partecipare, soprattutto negli ultimi anni, alla costruzione di un mondo migliore; che contiamo per la nostra capacità di intelligenza e di lavoro, per una vocazione alla pace, che appartiene a una nostra attitudine più autentica, per i valori della nostra Costituzione, per la tradizione civile e umanistica del nostro popolo e, non ultima ragione - come rimarcavo più sopra -, per le prove di efficienza, professionalità e umana solidarietà che le Forze Armate nazionali hanno saputo fornire nell'assolvimento dei difficili compiti di ristabilimento e di consolidamento della pace nelle aree più tormentate del pianeta.
Ecco, noi vogliamo che questo prestigio, questa politica, questa autorevolezza e questa rispettabilità vengano tutelati e consolidati. E siamo convinti che, per riuscirci, non possiamo e non dobbiamo sottrarci alle chiamate della comunità internazionale.