Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Partecipazione alla 62° sessione dell¿Assemblea Generale dell¿ONU (New York, 24-29 settembre 2007)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 99
Data: 21/09/2007
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 

 

 

SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

Partecipazione alla 62° sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU

(New York, 24-29 settembre 2007)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 99

 

21 settembre 2007


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento affari esteri

 

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File:es0154.doc


INDICE

Schede di lettura

Ruolo e struttura delle Nazioni Unite  3

Il processo di riforma delle Nazioni Unite. Sviluppi recenti.6

La moratoria sulla pena di morte  9

§      Sviluppi recenti13

La questione del nucleare iraniano  15

§      Premessa - I rischi di un Iran nuclearizzato  15

§      Le tappe dell’escalation diplomatica e gli argomenti dell’Iran  16

§      I tentativi di mediazione europei17

§      L’intervento del Consiglio di sicurezza  18

§      I negoziati del gruppo 5+1 e il tentativo di negoziato dell’estate 2006  19

§      La Risoluzione 1696 del Consiglio di Sicurezza  19

§      La Risoluzione 1737 del Consiglio di Sicurezza e le reazioni iraniane  20

§      La scadenza dell’ultimatum dell’ONU e la Risoluzione 1747  23

§      La situazione interna e gli effetti economici delle sanzioni24

Cambiamento climatico ed equilibri internazionali27

§      Il negoziato internazionale sul Protocollo di Kyoto  27

§      Combustibili fossili: controllo delle risorse e delle aree attraversate dalla rete di distribuzione  32

§      Le nuove guerre per l’acqua e per la terra  38

La crisi in Darfur  46

§      Quadro di sintesi retrospettivo  46

§      Gli sviluppi successivi all’Accordo di Abuja e il problema delle sanzioni contro il Sudan  48

§      Recenti sviluppi55

Kosovo: gli sviluppi più recenti56

La cooperazione parlamentare in ambito ONU (a cura del Servizio Rapporti internazionali)59

Ministero degli Affari esteri  -  Partecipazione della delegazione parlamentare al dibattito generale della 62^ sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite  63

§      Quadro di sintesi e scenario  65

§      Il processo di riforma delle Nazioni Unite  70

§      Stato della riforma CdS   74

§      L’Italia in CdS   76

-       CAMERA – III Commissione (Affari esteri), seduta del 26 luglio 2007

Discussione e approvazione della risoluzione n.  7-00257 Ranieri sulla situazione in Darfur5

-       Commissioni riunite III (Affari esteri) della Camera dei Deputati e 3ª (Affari esteri) del Senato della Repubblica, seduta dell’ 11 settembre 2007

Comunicazione del Governo sulla presentazione presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite della proposta di risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali5

-       CAMERA – Assemblea, seduta del 18 settembre 2007

Relazione della VIII Commissione sulle tematiche relative ai cambiamenti climatici (Doc. XVI, n. 1)5

-       Testo della relazione della VIII Commissione sulle tematiche relative ai cambiamenti climatici (Doc. XVI, n. 1)

Documenti delle Nazioni Unite

§      Risoluzione n. 1747 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 24 marzo 2007, in: Affari esteri, aprile 2007  7

Pubblicistica

§      T. Hamel, Le programme nucléaire iranien, une équation aux multiples inconnues, in: Dèfense national, juillet 2007  11

§      Senato della Repubblica – Europa e America di fonte alla sfida del riscaldamento climatico – Contributi di Istituti di ricerca specializzati – dossier n. 75, luglio 2007  11

§      A. Troude, Serbie: l’adieu au Kosovo,in: Politique internationale, n. 116/2007  11

§      P. Quercia, Western Strategy for definition of Kosovo status in danger, in: Quarterly, estate 2007 (a cura del Cemis)11

Documentazione

§      The United Nations and Darfur – Fact Sheet15

 


Schede di lettura

 


Ruolo e struttura delle Nazioni Unite

L'Organizzazione delle Nazioni Unite è il più vasto organismo internazionale esistente, contando oggi l'adesione di 192 membri, ossia la quasi totalità degli Stati del pianeta.

L'adesione all'ONU comporta, da parte degli Stati, l'assunzione dell'impegno giuridico a cooperare nell'applicazione dei principi e nella realizzazione degli obiettivi enunciati nella Carta dell'ONU, ossia ad operare per eliminare la guerra, garantire i diritti dell'uomo, il rispetto della giustizia e del diritto internazionale, il progresso sociale e le relazioni amichevoli tra Stati.

La Carta delle Nazioni Unite (o Statuto) fu redatta verso la fine della II Guerra mondiale, al termine di un processo negoziale avviato nel 1941, dai rappresentanti di 50 nazioni riuniti a San Francisco nel giugno del 1945. L'adesione alla Carta è aperta a tutti i paesi del mondo che ne accettino gli impegni. L'ammissione viene decisa dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza.

I principali organi delle Nazioni Unite, istituiti dalla Carta, sono:

v   L'Assemblea generale: è la principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo delle Nazioni Unite, essendo composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. Le decisioni su questioni come la pace e la sicurezza, l'ammissione di nuovi membri o le decisioni di bilancio, sono prese a maggioranza dei due terzi, le altre a maggioranza semplice. Tra queste ultime vi sono le Risoluzioni, che hanno valore di raccomandazione etico-politica nei confronti degli Stati membri.

La sessione annuale ordinaria dell’Assemblea inizia il martedì della terza settimana di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre. All’inizio di ogni sessione vengono eletti un Presidente, 21 Vicepresidenti e i Presidenti delle sei Commissioni principali. L’elezione del Presidente segue una rigida rotazione su base geografica che vede alternarsi un rappresentante delle cinque aree nelle quali si suddividono i membri dell’Organizzazione (Africa, Asia, Europa orientale, America latina, Europa occidentale e altri). Le sedute straordinarie dell’Assemblea possono essere convocate dal Segretario Generale su proposta del Consiglio di sicurezza, della maggioranza degli Stati membri o anche di un solo Stato, purché riceva l’appoggio della maggioranza degli altri Paesi. A causa del gran numero di temi in agenda, l’Assemblea assegna la maggior parte delle questioni da discutere in sessione ordinaria alle sei Commissioni principali, che sono, nell’ordine:

1)               Disarmo e sicurezza internazionale

2)               Questioni economiche e finanziarie

3)               Questioni sociali, umanitarie e culturali

4)               Politica speciale e decolonizzazione

5)               Questioni amministrative e di bilancio

6)               Questioni giuridiche

Esistono poi un Comitato generale composto dal Presidente, dai 21 Vicepresidenti dell’Assemblea e dai Presidenti delle sei Commissioni e un Comitato per la verifica dei poteri, composto di nove membri designati dall’Assemblea, con il compito di riferire sulle credenziali dei rappresentanti.

 L’Assemblea elegge i 10 membri non permanenti del Consiglio di sicurezza e i 54 componenti del Consiglio economico e sociale. Inoltre, insieme al Consiglio di sicurezza, elegge i giudici della Corte internazionale di giustizia e, sempre su raccomandazione del Consiglio, nomina il Segretario Generale.

Si ricorda, infine, che nel novembre 1950 l’Assemblea Generale ha adottato la risoluzione “Uniting for peace” in base alla quale essa può intervenire attivamente nel caso di grave minaccia alla pace o del verificarsi di un atto di aggressione, allo scopo di superare il blocco determinato in seno al Consiglio di sicurezza dal veto posto da uno dei membri permanenti. In questo caso l’Assemblea ha il potere di considerare la questione immediatamente e di fare raccomandazioni agli Stati membri per l’adozione di misure collettive, compreso l’uso della forza armata se ciò fosse necessario a mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali.

v   Il Consiglio di sicurezza ha il ruolo, affidatogli dallo Statuto, di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. E' composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Federazione russa, Francia, Regno Unito, Stati Uniti) e 10 eletti dall'Assemblea generale per periodi biennali. Ciascun membro del Consiglio dispone di un voto; le decisioni su questioni di fondo sono assunte con una maggioranza di 9 voti, tra i quali devono figurare tutti i membri permanenti (diritto di veto). Il Consiglio di sicurezza ha il potere di adottare risoluzioni, di avviare indagini e di assumere decisioni vincolanti per gli Stati membri. Le principali funzioni del Consiglio di sicurezza sono disciplinate dai capitoli VI (Soluzione pacifica delle controversie) e VII (Azione rispetto alle minacce alla pace, alla violazione della pace ed agli atti di aggressione) della Carta delle Nazioni Unite. Ai sensi del capitolo VII il Consiglio di sicurezza può irrogare sanzioni o decidere l'impiego della forza, e tali decisioni sono vincolanti per gli Stati membri.

v   Il Segretariato generale è costituito da personale amministrativo dell'ONU (staff members), con a capo il Segretario generale nominato dall'Assemblea generale, su proposta del Consiglio di sicurezza. Il Segretario generale partecipa a tutte le riunioni dei principali organi delle Nazioni Unite e può sottoporre al Consiglio di sicurezza qualsiasi questione che, a suo avviso, rischi di minacciare la pace e la sicurezza. I funzionari delle Nazioni Unite non rappresentano gli Stati di appartenenza e devono agire in piena indipendenza nell'interesse dell'organizzazione.

v   Il Consiglio economico e sociale, ai sensi della Carta, è il principale organo di coordinamento delle attività economiche e sociali dell'ONU e dei suoi organismi ed istituzioni specializzate. E' composto dai rappresentanti di 54 Stati membri, eletti per periodi triennali, di cui un terzo è sostituito annualmente. Ciascun membro dispone di un voto e le decisioni sono prese a maggioranza semplice. Fanno capo all'ECOSOC importanti organi quali la Commissione dei diritti dell'uomo, la Sottocommissione contro la discriminazione e per la tutela delle minoranze, la Commissione sulla condizione della donna, e programmi quali il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Oltre 1.500 organizzazioni non governative hanno status consultivo presso l'ECOSOC, svolgendo azione di denuncia, pressione e proposta.

v   Al Consiglio di amministrazione fiduciaria, disciplinato nei capitoli XII e XIII dello Statuto e composto dai cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza, è affidato il compito di controllare l’amministrazione dei territori (ex colonie) in gestione fiduciaria. L’ultimo di questi undici territori, Palau (un gruppo di isole della Micronesia) ha ottenuto l’indipendenza nel novembre 1994 e il mese successivo è divenuto membro delle Nazioni Unite. Da allora il Consiglio ha formalmente sospeso la sua attività.

v   La Corte internazionale di giustizia è il principale organo giudiziario dell'ONU. Il suo statuto fa parte integrante della Carta delle Nazioni Unite, cosicché tutti gli Stati membri dell'Organizzazione sono automaticamente parte dello statuto della Corte. Alla Corte possono adire tutti gli Stati membri e, a determinate condizioni, anche i non membri. Oltre ad emettere sentenze su controversie giuridiche (e non politiche) tra Stati, la Corte esercita anche funzioni consultive per il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale, su richiesta di questi.


 

Il processo di riforma delle Nazioni Unite. Sviluppi recenti.

Negli ultimi anni le Nazioni Unite, considerate come sistema che comprende programmi, agenzie specializzate e fondi, hanno avviato un processo di riforma, finalizzato a rafforzare l'efficacia dell'organizzazione e renderla più vicina alle sfide del presente ed alle richieste dei suoi membri.

Tale processo di riforma è stato intrapreso a più livelli ed in diverse sedi. Tra di esse il World Summit, che si è svolto nel settembre 2005 a margine della 60° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel cui documento finale (Outcome Document) viene dichiarato l’obiettivo di rafforzare l’autorità e l’efficienza dell’Onu, ossia di riformare l’Organizzazione affinché possa effettivamente affrontare le sfide attuali (capitolo quinto).

 

Per quanto riguarda i due principali organi delle Nazioni Unite, l’Assemblea generale ed il Consiglio di sicurezza, tuttavia, l’Outcome Document si limita a fornire alcune indicazioni di carattere generale. Dell’Assemblea generale si afferma la posizione centrale quale principale organo deliberativo, politico e rappresentativo dell’Organizzazione. Si esprime consenso con le misure adottate, volte a rafforzare il ruolo e l’autorità del Presidente dell’Assemblea e si auspica un’intensificazione delle relazioni dell’Assemblea con gli altri organi delle Nazioni Unite al fine di garantire un coordinamento sulle questioni che richiedono un intervento concertato (par. 149-151).

Al Consiglio di sicurezza si riconosce la primaria responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza, e si sostiene l’opportunità di una riforma complessiva che lo renda maggiormente rappresentativo, più efficiente e più trasparente. Si raccomanda inoltre l’adozione di metodi di lavoro che consentano di coinvolgere gli Stati non membri del Consiglio (par. 152-154).

Va segnalato che nell’ultima seduta della 61ma Sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, tenutasi il 17 settembre 2007, è sembrata prevalere nettamente la tesi enunciata giusto un anno fa dal Presidente del Consiglio Prodi e dal Capo dello Stato pakistano Musharraf, secondo la quale non si deve procedere in tempi brevi ad un allargamento del Consiglio di Sicurezza, quanto piuttosto ad un rilancio del negoziato, senza precondizioni, per un accordo generale sulla materia.

Per il Consiglio economico e sociale si auspica un maggior ruolo in qualità di principale organo per il coordinamento, la valutazione delle politiche e la formulazione di raccomandazioni sui temi dello sviluppo economico e sociale. In particolare, si chiede che il Consiglio promuova un dialogo globale sulle tematiche di competenza, tenga un forum biennale sulla cooperazione allo sviluppo, divenga un luogo di verifica puntuale del conseguimento degli obiettivi di sviluppo, sostenga ed integri gli sforzi internazionali volti ad affrontare le emergenze, incluse quelle umanitarie, svolga un maggior ruolo nel coordinare fondi, programmi ed agenzie (par. 155-156).

 

Per dare priorità alla tutela dei diritti umani è stata decisa l’istituzione di un Consiglio per i diritti umani con il compito di promuovere la protezione dei diritti umani a livello internazionale e di curare il coordinamento con gli altri organi delle Nazioni Unite.

Dopo mesi di intensi negoziati, il 15 marzo 2006 l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato a larghissima maggioranza (170 a favore; 3 astenuti: Venezuela, Iran e Bielorussia; 4 contrari: USA, Israele, Isole Marshall e Palau) una risoluzione che ha istituito il nuovo Consiglio per i diritti umani, in sostituzione della vecchia, e molto criticata, Commissione di Ginevra.

Rispetto alla vecchia Commissione, il nuovo Consiglio ha lo status di organismo sussidiario dell’Assemblea Generale, si riunirà con maggiore frequenza e nella composizione si terrà conto della rappresentanza geografica.

Il Consiglio è composto di 47 membri, eletti, con voto segreto, dalla maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea Generale (96 voti). La partecipazione è aperta a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite. La distribuzione  dei seggi rispetta la rappresentanza geografica (13 ai Paesi africani; 13 ai Paesi asiatici; 6 dai Paesi dell’Europa orientale; 8 all’America Latina e Caraibi; 7 all’Europa occidentale e altri Stati).

L’Assemblea generale, con la maggioranza dei due terzi presenti e votanti, potrà sospendere il diritto di appartenenza ad un membro del Consiglio che commetta rilevanti e sistematiche violazioni dei diritti umani.

La prima sessione, che si è svolta dal 19 al 30 giugno, ha approvato, tra l’altro, il programma del primo anno di lavoro, ed ha adottato la Convenzione Internazionale contro la sparizioni forzate delle persone e la Dichiarazione sui diritti dei popoli autoctoni.

L’Outcome document sostiene la riforma interna già avviata dal Segretario generale per ottenere un Segretariato efficiente, efficace e responsabile (par. 161 e segg.). La riforma mira in particolare a rafforzare la responsabilità e il controllo, migliorare la qualità e la trasparenza della gestione e rafforzare l’eticità della condotta dei  funzionari.

Quanto alla riforma dell’amministrazione delle Nazioni Unite, l’Outcome Document riconosce la debolezza amministrativa dell’Organizzazione e la necessità di accrescere l’indipendenza delle strutture di controllo. Il Documento riconosce inoltre la necessità di introdurre nuovi criteri e modalità per la gestione delle risorse umane e finanziarie dell’Organizzazione ed invita il Segretario generale a sottoporre all’Assemblea generale un piano di riforme nel primo trimestre del 2006.

Al proposito, il 7 marzo 2006 il Segretario generale dell’ONU ha presentato il documento Investing in the United Nations: For a Stronger Organization Worldwide, sulla riforma dell’organizzazione che contiene 23 proposte sulla gestione del Segretariato. Sul testo, successivamente emendato, il 7 luglio 2006 l’Assemblea generale ha fatto conoscere la propria opinione  (proposta di risoluzione A/C.5/60/L.67).

Nel mese di giugno 2066 l’Assemblea generale ha esaminato una serie di proposte di ampia portata riguardanti il controllo e la responsabilità, le tecnologie dell’informazione della comunicazione, la concessione di limitati margini di manovra nel bilancio, le pratiche di gestione finanziaria, l’accesso pubblico ai documenti dell’ONU e le forniture.

Gli Stati membri hanno poi adottato le decisioni che consentiranno la realizzazione, nel corso dei prossimi quattro anni, delle misure richieste dal World Summit del 2005, tra le quali:

§         un aumento del limite di spesa fino a 20 milioni di $ per gli esercizi 2006-2007 e 2008-2009 del fondo discrezionale di cui il Segretario generale è titolare;

§         l’operatività dell’Ufficio per l’Etica che ha il compito di assistere il Segretario generale nella verifica del rispetto dei più alti standard di integrità richiesti allo staff dalla Carta delle Nazioni Unite, attraverso la promozione della deontologia, della trasparenza e della affidabilità;

§         la creazione di un Ufficio di Direttore generale dell’Informatica, con il compito di sovrintendere all’integrazione dei sistemi informatici e telematici;

§         la realizzazione di un sistema di gestione integrata di nuova generazione che sostituisca i vecchi sistemi;

§          l’adozione di norme contabili internazionali del settore pubblico;

§         un aumento del Fondo di cassa a 150 milioni di $;

§         lo stanziamento di circa 700mila $ per migliorare il sistema degli approvvigionamenti.

 

Oltre alla creazione del nuovo Consiglio per i diritti umani, il World Summit del 2005 ha deciso l’istituzione di altro organismo: la Commissione per il peacebuilding (terzo capitolo dell’Outcome Document, dedicato ai temi ai temi della pace e della sicurezza collettiva).

Il documento sottolinea l’importanza del peacebuilding per i Paesi che emergono da situazioni di conflitto e necessitano di complessi interventi di ricostruzione di carattere istituzionale ed economico, e propone quindi l’istituzione di un’apposita Commissione avente la natura di organo intergovernativo consultivo. La Commissione ha il compito di riunire tutti gli attori rilevanti per la mobilitazione delle risorse e per la definizione di strategie complessive per il peacebuilding e il ripristino delle condizioni di normalità dopo un conflitto, con particolare attenzione alla ricostruzione, al rafforzamento delle istituzioni ed all’elaborazione di strategie per uno sviluppo sostenibile.

La Commissione, che si è riunita per la prima volta il 23 giugno 2006, si convoca in varie configurazioni ed è costituita da un Comitato organizzativo e da Comitati che rappresentano specifici paesi. Dei 31 membri che formano il Comitato organizzativo, 7 provengono dal Consiglio di Sicurezza; 7 dall’ECOSOC, 5 dai primi dieci contributori al bilancio ONU; 5 dai dieci paesi che maggiormente contribuiscono alle missioni ONU dal punto di vista militare. Vi sono, infine, 7 membri addizionali la cui provenienza dovrà servire a bilanciare gli eventuali squilibri geografici.

Sempre in tema di peacebuilding, a seguito della presentazione del rapporto del Segretario generale “Arrangements for establishing the Peacebuilding Fund” l’Assemblea generale ha adottato l’8 settembre 2006, senza procedere al voto, il Documento A/60/L.63 sull’istituzione del Fondo per il Peacebuilding. Obiettivo del Fondo sarà l’immediata erogazione di risorse da destinarsi al sostegno degli interventi cruciali nei processi di peacebuilding. La gestione del Fondo sarà affidata all’UNDP (United Nations Development Programme) ma – sempre in base al Rapporto del Segretario generale – anche l’Assemblea Generale e la Commissione per il Peacebuilding avranno un ruolo nell’organizzazione dell’ amministrazione.

 

 

La moratoria sulla pena di morte

La questione della pena di morte ha rappresentato un terreno di confronto e spesso di scontro nella dialettica politica internazionale, essendo una delle tematiche più sentite e dibattute, in particolare a partire dalla fine degli anni 80.

Il Secondo Protocollo facoltativo al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, relativo all’abolizione della pena di morte, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre del 1989,  prevede, all’articolo 1, che “nessuna persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato parte al presente Protocollo sarà giustiziata”.

Il Protocollo - entrato in vigore l’11 luglio 1991 e ratificato ad oggi solo da 60 Paesi - non ammette riserve, fatta eccezione per quella che prevede l’applicazione della pena di morte in tempo di guerra; è di conseguenza esclusa la previsione della pena capitale per i militari in tempo di pace.

In quell’occasione l’Italia, a testimonianza della sensibilità a tale tematica, promosse una campagna per sostenere l’approvazione del Protocollo, avvenuta nel corso della 44a sessione dell’Assemblea generale con 55 voti favorevoli, 28 contrari e 45 astensioni.

A partire da quel momento, le Nazioni Unite si sono ripetutamente occupate dell’abolizione della pena di morte, sia in sede di Assemblea generale (che, tuttavia, ha sempre dovuto ritirare il punto dall’ordine del giorno stante la opposizione della maggior parte degli Stati) sia, soprattutto, all’interno della Commissione per i diritti umani (sostituita dal Consiglio per i diritti umani a partire dal maggio 2006): nel corso della 53a Sessione (Ginevra, marzo-aprile 1997) la Commissione ha approvato una importante risoluzione contro la pena di morte (risoluzione 1997/12) introdotta dall’Italia e co-presentata da altri 45 Paesi. La risoluzione invitava gli Stati che non avevano ancora abolito la pena di morte a prendere in considerazione la sospensione di tutte le esecuzioni.

Negli anni successivi, la Commissione Diritti Umani dell’ONU ha approvato altre risoluzioni che ribadiscono il principio che l’abolizione della pena di morte costituisce un rafforzamento della dignità umana e un progresso dei diritti umani fondamentali. Le risoluzioni prendono atto dell’evoluzione che sul tema c’è stata a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e richiamano, in Preambolo, tutti i documenti che hanno contribuito a limitare il ricorso alla pena capitale. In considerazione della tendenza abolizionista documentata dai rapporti annuali del Segretario generale dell’ONU, invitano gli Stati a rispettare le norme internazionali che limitano, o vietano, in alcuni casi, il ricorso alla pena capitale e chiedono agli Stati che ancora la mantengono a sospendere le esecuzioni in vista dell’abolizione della stessa.

Nel Preambolo delle risoluzioni approvate dalla Commissione per i diritti umani negli ultimi anni è altresì citato il Protocollo n. 13 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza, entrato in vigore il 1° luglio 2003.

Il Protocollo n. 13 vieta il ricorso alla pena di morte per qualsiasi reato commesso, compresi i crimini perpetrati in tempo di guerra o nel pericolo imminente di un conflitto, con questo superando il Protocollo n. 6 alla stessa Convenzione europea - adottato a Strasburgo il 28 aprile 1983 sotto gli auspici del Consiglio d’Europa ed  entrato in vigore il 1° marzo 1985 - che prevedeva eccezioni in questi casi. Il Protocollo n. 13, inoltre, esclude che gli Stati vi possano aderire ponendo deroghe o riserve alle disposizioni in esso contenute. L’Italia non ha ancora ratificato tale Protocollo, né, allo stato, risultano presentati alle Camere disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica.

Nonostante numerosi studi e rapporti – fra gli altri il Rapporto del Segretario generale dell’ONU del 10 febbraio 2006  - testimonino il rafforzamento della prassi abolizionista in molti Paesi, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha mai approvato una risoluzione sulla questione. Nella Sessione del 1994, una risoluzione a favore della moratoria internazionale, presentata dall’Italia, non fu accolta dalla III Commissione dell’Assemblea generale (affari sociali, umanitari e culturali) che la respinse per 8 voti, mentre nel 1999 l’Unione europea chiese l’aggiornamento (cioè il rinvio della trattazione) della sua risoluzione, firmata dai 15 Paesi appartenenti all’UE e da altri 57 Stati. La richiesta di aggiornamento era stata determinata dalla presentazione da parte di alcuni Paesi, fra i quali Egitto e Singapore, di emendamenti che - se accettati - avrebbero snaturato il significato della risoluzione, e dal conseguente isolamento delle posizioni italiane divergenti da quelle, oltranziste, di alcuni paesi del Nord Europa (Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania).

Lo scorso 19 dicembre è stata presentata all'Assemblea generale dell’ONU la dichiarazione sull'abolizione della pena di morte e sull'introduzione di una moratoria delle esecuzioni, predisposta dall'Unione europea su iniziativa italiana e sottoscritta ad oggi da 87 paesi membri dell'Onu.  Con l’ingresso dell’Italia, dal 1° gennaio 2007,  tra i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Governo si è impegnato ad avviare le procedure formali perché l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite metta all’ordine del giorno la questione della moratoria universale delle esecuzioni capitali sulla base del documento presentato a dicembre.

 Nella riunione, tenutasi il 22 gennaio scorso a Bruxelles, del Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne dell’Unione Europea, cui ha partecipato il Ministro D’Alema, è stata sollevata la questione dell’impegno italiano sulla moratoria internazionale della pena di morte, al fine di ottenere un’azione congiunta di tutti i membri dell’Unione Europea, e dell’Unione Europea in quanto tale, per rilanciare il dibattito nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.  Sebbene non siano maturate le condizioni per assumere una posizione comune, come auspicato dall’Italia – poste le perplessità non di principio ma sostanzialmente di metodo espresse dalla Gran Bretagna e da alcuni governi dell'Europa dell'est – la condivisa contrarietà alla pena capitale come principio fondamentale di carattere giuridico ed etico ha consentito di ottenere l'impegno, da parte della Presidenza tedesca, di seguire la questione in seno al Palazzo di vetro, consultando la presidenza dell'Assemblea generale al fine di individuare tempi e modi opportuni per riaprire il dibattito sulla moratoria durante la sessione in corso. Sul punto, il Ministro degli esteri D’Alema ha ricordato che la dichiarazione di moratoria universale presentata dall'Italia in sede Onu aveva fino ad allora raccolto un numero di adesioni che, per dimensioni, non ha precedenti.

Successivamente, il 1° febbraio 2007, una risoluzione favorevole alla moratoria universale sulla pena di morte è stata approvata con una larga maggioranza dal Parlamento europeo che -  con 591 voti a favore, 45 contrari e 31 astenuti - ha fatto propria la proposta italiana per la riapertura del  dibattito su questo argomento durante la sessione in corso dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Il citato Rapporto del Segretario generale dell’ONU del febbraio 2006, che copre il periodo 2004-2005, dà conto dei cambiamenti nella legislazione dei vari paesi, dei cambiamenti delle pratiche in uso e della tutela dei condannati a morte. Sulla base del Rapporto, risulta che nel 2004 almeno 7.395 persone sono state condannate a morte in 64 diversi Paesi, mentre sono stati giustiziati almeno 3.797 detenuti in 25 Paesi. Alla fine del 2005 i Paesi che mantenevano la pena di morte erano 65, i Paesi totalmente abolizionisti 85, i Paesi che avevano abolito la pena capitale per i soli crimini ordinari 12 e i Paesi abolizionisti di fatto 34.

Secondo i dati diffusi da “Amnesty International” nel mese di dicembre 2006, 88 Paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre altri 11 l'hanno abolita per tutti i reati salvo quelli eccezionali quali, ad esempio, i crimini di guerra. Altri 29 Paesi sono abolizionisti nella pratica, non avendo eseguito condanne negli ultimi dieci anni. I Paesi che invece conservano la pena di morte e ne fanno uso sono 69.

Sempre secondo Amnesty (che peraltro avverte come in alcuni casi le informazioni non siano complete e, di conseguenza, i dati a disposizione siano sicuramente al di sotto di quelli reali) nel 2005 sono state giustiziate 2.148 persone in 22 diversi paesi, mentre altre 5.186 sono state condannate a morte in 53 paesi. I Paesi che detengono il primato delle esecuzioni sono Cina, Iran, Arabia Saudita e Stati Uniti, dove state eseguite il 94 per cento delle condanne. In particolare, si ritiene che il numero di condanne dichiarate ufficialmente dalla Cina nel 2005 (1.770) sia in realtà di gran lunga superiore.

Ancora più grave, se possibile, appare l’uso della pena di morte contro i minori. Nonostante numerosi trattati internazionali, largamente sottoscritti, vietino la condanna a morte di coloro che, all’epoca del crimine, avevano meno di diciotto anni, dal 1990 sono state eseguite 47 condanne a morte in otto paesi su esseri umani che avevano compiuto un crimine anteriormente al compimento del loro diciottesimo compleanno. Gli otto paesi in questione sono: Cina, Repubblica democratica del Congo, Iran, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen.

Gli USA e l’Iran sono i due paesi che hanno eseguito il maggior numero di condanne a morte su minori: 19 negli Usa (a partire dal 1990) e 8 in Iran nel solo 2005. Tuttavia, grazie alla sentenza del 1° marzo 2005 della Corte Suprema, che ha stabilito che la pena di morte inflitta a chi aveva meno di diciotto anni al momento del reato viola l’VIII Emendamento della Convenzione federale, che vieta i “cruel and unusual punishments”, negli USA è stata abolita la pena di morte per i minori. Di recente, anche Cina, Pakistan e Yemen hanno elevato l’età minima per la condanna a morte a 18 anni.

Gli ultimi Paesi ad avere abolito la pena di morte per tutti i crimini sono stati Liberia e Messico nel 2005, e le Filippine nel 2006.

Leggermente differenti risultano i dati forniti nel Rapporto 2006 (la pubblicità delle condanne e, soprattutto, delle esecuzioni, non è sempre assicurata in tutti i Paesi) redatto dall’Associazione Nessuno tocchi Caino, una lega internazionale di cittadini e di parlamentari fondata nel 1993, secondo cui i paesi abolizionisti per legge o di fatto sono 142: fra di essi 90 sono totalmente abolizionisti, 10 hanno abolito la pena di morte solo per i crimini ordinari; 6 hanno introdotto una moratoria delle esecuzioni; 37 non eseguono condanne da almeno dieci anni. Il rapporto evidenzia inoltre che sono ancora 54 i Paesi che mantengono la pena di morte e fra di essi quelli che hanno eseguito il maggior numero di condanne sono la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita, la Corea del Nord e il Pakistan. L’unico paese europeo che mantiene la pena di morte è la Bielorussia.

Nel maggio 2007 i ministri degli esteri della UE hanno conferito all' Italia e alla presidenza tedesca il mandato unanime per preparare il testo della risoluzione sulla moratoria per la pena di morte da presentare all'Assemblea generale dell'Onu. Secondo quanto riferito dal ministro degli esteri D'Alema al termine della riunione Consiglio affari generali della Ue, a Italia e Germania è stato dato anche il compito di raccogliere la disponibilità per una co-sponsorship di grandi Paesi di diverse aree geografiche (tra gli Stati che potrebbero essere coinvolti sono stati citati il Brasile, il Sud Africa e la Nuova Zelanda), nonché di prendere contatto con la presidenza dell'Assemblea generale per riavviare la discussione del paragrafo 67 C (che riguarda i diritti umani) ONDE poter presentare la risoluzione. D'Alema ha comunque affermato di non poter fare previsioni sui tempi perchè questi "dipendono dal presidente di turno dell'Assemblea”, anche se l’Italia preferirebbe poterla presentare già nella sessione in corso. Si ricorda che con le adesioni di Gabon e Kazakhstan il totale degli stati i firmatari della dichiarazione di associazione presentata nel dicembre scorso è giunto a 92 (a fronte di una maggioranza necessaria in Assemblea generale pari a 96).

Sviluppi recenti

L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, riunita a Strasburgo il 26 giugno 2007 ha approvato all’unanimità la mozione di sostegno alla moratoria sulla pena di morte presentata dalla delegazione italiana.

Nello stesso mese due paesi dell’Asia centrale, Kirghizistan e Uzbekistan hanno approvato leggi che hanno definitivamente abolito la pena di morte.


La questione del nucleare iraniano

Premessa - I rischi di un Iran nuclearizzato

La questione del nucleare iraniano – dopo le recenti polemiche suscitate dalle dichiarazioni del Ministro degli Esteri francese - è tornata al centro della attività diplomatica internazionale.

Si ricorda preliminarmente che i termini tecnici della questione hanno una certa complessità. La contesa riguarda infatti - principalmente -un processo (l’arricchimento dell’uranio, fase principale del ciclo di produzione del combustibile nucleare) che non è – di per sé proibiti dal Trattato di Non Proliferazione (TNP), in quanto esso è necessario sia per la produzione di energia, sia per la fabbricazione di ordigni nucleari.

Tuttavia, violazioni da parte dell’Iran degli obblighi internazionali in materia nucleare sono accertati (e risalgono ormai a diversi anni fa). Infatti nel 2002 - grazie alla denuncia di un gruppo dissidente – la comunità internazionale seppe dell’esistenza di due impianti tenuti fino ad allora segreti dalle autorità di Tehran: Ad Arak, un reattore ad acqua pesante e a Natanz, un impianto per l’arricchimento dell’uranio. Tali attività non erano state notificate all’ Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Nel 2003 l’Iran, anche per reagire al discredito internazionale derivato dalla clamorosa scoperta, si impegnò a sospendere ogni attività di arricchimento dell’uranio.

L’ascesa di Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica islamica nell’agosto del 2005 e il suo dichiarato proposito di riprendere le attività di arricchimento dell’uranio su larga scala ha destato un allarme crescente nella comunità internazionale, sempre più persuasa che il piano nucleare iraniano non sottenda finalità solo civili bensì rifletta l’aspirazione dell’Iran a divenire una potenza nucleare nella regione del Golfo. E’ evidente come ciò possa avere un effetto destabilizzante sull’intero Medioriente, innescando un effetto moltiplicatore delle ambizioni nucleari – seppur in chiave difensiva - di altri Paesi dell’area (Arabia Saudita, Egitto e Turchia in primis).

La volontà dell’Iran di acquisire tecnologie potenzialmente impiegabili anche per la fabbricazione di armi nucleari, oltre ad indebolire il sistema internazionale di non-proliferazione nucleare, appare infatti in grado di produrre un sensibile mutamento nel sistema degli equilibri regionali, alimentando le ansie di sicurezza di Israele nonché l’antagonismo tra il governo clericale di Teheran e gli Stati Uniti, da anni impegnati nella stessa definizione degli equilibri dell’area attraverso una fitta rete di relazioni diplomatiche ed alleanze  con tutti gli Stati della regione, ad eccezione della Siria.

Dati gli attuali equilibri geopolitici, il possesso di un arsenale nucleare da parte dell’Iran determinerebbe un evidente mutamento dei rapporti di forza, accrescendo ulteriormente i fattori di rischio di una regione già altamente instabile, considerato lo stato di disordine in cui versa l’Iraq, le difficoltà nel processo di stabilizzazione in Afghanistan,  il terrorismo internazionale di matrice qaedista, che incrina l’affidabilità anche di paesi come l’Arabia Saudita, nonché le persistenti tensioni fra Israele e i palestinesi e fra Siria e Libano.

Il possesso di armi nucleari da parte dell’Iran potrebbe infine amplificare il rischio di un eventuale trasferimento di tecnologie nucleari ad organizzazioni terroristiche, mettendo ancor più a repentaglio la sicurezza internazionale.

Le tappe dell’escalation diplomatica e gli argomenti dell’Iran

Pur aderendo, fin dal 1970,  al Trattato di Non proliferazione (TNP)[1], l’Iran non ha garantito il pieno accesso degli ispettori dell’AIEA[2] ad alcune infrastrutture regolarmente denunciate, ed ha in un primo tempo accolto, ma in seguito apertamente disatteso, l’invito della stessa AIEA a sospendere il proprio programma di arricchimento dell’uranio.

Già nel febbraio 2003, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha confermato l’esistenza in Iran di un avanzato programma nucleare; da allora ha cominciato a diffondersi il sospetto che tale programma avesse in realtà una segreta destinazione militare.

Tale sospetto è alimentato da considerazioni: di ordine politico, in quanto un arsenale nucleare rafforzerebbe il ruolo dell’Iran nella regione e il suo prestigio a livello internazionale; economico, in quanto non sembra ragionevole per un paese con grandi risorse di gas e petrolio sviluppare un programma nucleare civile complesso e costoso; tecnologico, poiché la tipologia di infrastrutture nucleari che l’Iran aveva omesso di denunciare non sembra corrispondere ad ambizioni puramente pacifiche. 

Nel marzo 2004 l’AIEA ha quindi espresso preoccupazione per le omissioni nelle dichiarazioni dell’Iran a proposito delle sue attività in campo nucleare, oltre che per importazioni di uranio avvenute senza notifiche.

Dalle ispezioni dell’AIEA, effettuate dopo molte pressioni, si evince complessivamente come l’Iran sia impegnato a sviluppare l’intero ciclo del combustibile nucleare (alla base della possibile realizzazione di un dispositivo militare).

Da parte sua, l’Iran ha sempre sostenuto che gli scopi del programma di nuclearizzazione sono pacifici. Quanto alle mancate denunce all’AIEA, Tehran sostiene che l’interpretazione letterale del Trattato non impone la denuncia degli impianti, se non nell’imminenza dell’avvio delle attività di arricchimento dell’uranio, stadio al quale nel 2002 non si era ancora arrivati. Sostiene, inoltre, che era intenzione del governo effettuare la denuncia non appena si fosse pervenuti a questo stadio e che quindi non vi sono gli estremi giuridici per accusare l’Iran di violazione del TNP.

I tentativi di mediazione europei

All’attività dell’AIEA si è affiancata, a partire dall’agosto del 2003, l’iniziativa dei governi di Francia, Germania e Regno Unito per indurre l’Iran a sospendere temporaneamente le attività per la produzione di uranio arricchito, a fronte di una collaborazione a livello commerciale, tecnologico, nucleare ed economico.

Nel 2004 l’Unione europea ha deciso di associare al processo avviato dai tre paesi europei l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune, Javier Solana. Il negoziato condusse, nel novembre 2004, alla presentazione di un documento - condiviso dall’Iran - da parte dei tre paesi europei al Consiglio dei governatori dell’AIEA (c.d. Accordo di Parigi), nel quale si prevedeva la sospensione delle attività di Teheran nel settore della produzione di uranio arricchito in cambio di un pacchetto di incentivi, che includesse accordi commerciali e cooperazione nucleare, nonché dialogo politico sulle questioni di sicurezza cui l’Iran è più sensibile.

Nel marzo 2005 gli Stati Uniti, in origine sostanzialmente contrari a coinvolgere l’Iran in una trattativa, avevano deciso di appoggiare l’iniziativa degli europeic, pur rifiutandosi di partecipare direttamente ai negoziati. Ma nell’agosto del 2005 i negoziati promossi dalla Ue sono naufragati in seguito alla decisione unilaterale del governo iraniano di riprendere la conversione dell’uranio (un procedimento preparatorio dell’arricchimento), ritenuta dai tre paesi europei una violazione delle condizioni accettate dall’Iran nel novembre del 2004.

La situazione si era del resto già complicata in seguito all’elezione a presidente dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad (giugno 2005), esponente dell’ala più radicale e meno disponibile ai compromessi della leadership iraniana.

Il 17 settembre successivo il neo presidente iraniano, intervenendo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ribadiva quindi che l’Iran aveva la ferma intenzione di esercitare il suo diritto a sviluppare la tecnologia nucleare a ciclo completo.

L’estate 2005 segna dunque il fallimento del negoziato tra gli Ue-3 e l’Iran.

Gli europei, pur lasciando aperta la possibilità di riaprire un dialogo, hanno appoggiato la richiesta americana di porre la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, promuovendo in seno al Consiglio dei governatori dell’AIEA una risoluzione che ha dichiarato l’Iran “inadempiente” ai suoi obblighi internazionali per aver mancato di informare l’AIEA delle attività nucleari in corso,  invitandolo altresì ad una piena collaborazione con gli ispettori dell’agenzia.

La risoluzione, pur non contenendo meccanismi di deferimento immediato qualora l’Iran perseveri nelle violazioni contestategli, ha da allora conferito al contenzioso sul nucleare iraniano un più consistente peso internazionale.

L’intervento del Consiglio di sicurezza

Il 29 marzo 2006 il Consiglio di sicurezza, dopo aver espresso viva preoccupazione per il fatto che l’AIEA non era stata posta nelle condizioni di poter esprimere una valutazione conclusiva sul programma nucleare iraniano,  ha invitato l’Iran a sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e le attività connesse, nonché a riprendere la piena cooperazione con l’Agenzia. Il Consiglio di sicurezza, dopo aver espresso la convinzione che tale sospensione e l’osservanza delle condizioni richieste potessero contribuire ad una soluzione negoziata della questione, in grado di riconoscere all’Iran il diritto allo sviluppo del nucleare per scopi civili, richiedeva quindi un rapporto dell’AIEA entro 30 giorni.

Alla fine di aprile il rapporto del direttore generale dell’Aiea El Baradei lamentava il mancato adeguamento dell’Iran alle richieste dell’Onu e la conseguente impossibilità per l’agenzia di certificare l’assenza di attività nucleari non dichiarate.

In precedenza, l’11 aprile 2006, il presidente iraniano Ahmadinejad aveva annunciato pubblicamente che l’Iran era riuscito ad arricchire un piccolo quantitativo di uranio in una percentuale sufficiente ad essere impiegata in un reattore (3%) e che il Paese avrebbe continuato nel suo programma nucleare fino alla produzione in massa di uranio arricchito.

L’annuncio ha suscitato la reazione preoccupata di paesi come il Giappone e la Federazione russa, che hanno subito ribadito la richiesta all’Iran di sospendere sia le attività di arricchimento dell’uranio sia quelle di ricerca.

I negoziati del gruppo 5+1 e il tentativo di negoziato dell’estate 2006

Le iniziative internazionali per una soluzione negoziata sono state in seguito rilanciate dal gruppo dei paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) e dalla Germania (c.d. gruppo “5+1”), che nel corso di un incontro svoltosi a Vienna all’inizio del mese di giugno 2006 hanno definito una proposta di mediazione.

Tale proposta era il frutto dell’iniziativa congiunta di americani ed europei e derivava dalla decisione degli USA di ammorbidire le proprie posizioni intransigenti.

In cambio di un pacchetto di incentivi offerti all’Iran[3], si chiedeva all’Iran di rinunciare alla prosecuzione delle attività di arricchimento di uranio. L’alto Rappresentante Ue, Javier Solana, ha discusso di tali proposte con il rappresentante del Governo iraniano Ali Larijani il 6 giugno 2006. Le reazioni del governo iraniano sono state inizialmente positive, ma l’aggravarsi della crisi tra Israele ed Hezbollah libanesi – appoggiati dall’Iran -  l’intensificarsi degli scontri in atto nella regione meridionale del Libano e le ulteriori dichiarazioni del presidente iraniano circa il diritto del suo paese a proseguire il suo programma nucleare, hanno determinato un allontanamento di possibili soluzioni negoziate.

La Risoluzione 1696 del Consiglio di Sicurezza

Nel tentativo di vanificare tattiche dilatorie degli iraniani, il 31 luglio 2006 il Consiglio di Sicurezza ha approvato – con il solo voto contrario del Qatar – una risoluzione (n. 1696/2006) proposta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, con la quale si chiedeva all’Iran di sospendere entro il 31 agosto le proprie operazioni di arricchimento dell’uranio. In caso di inadempimento la risoluzione prevedeva misure provvisorie (ex art. 40 della Carta ONU) ed eventuali sanzioni economiche (ex art. 41), escludendo tuttavia l’uso della forza.

La reazione del Presidente iraniano alla decisione del Consiglio di Sicurezza è giunta il giorno successivo, il 1° agosto 2006, con una dichiarazione nella quale si ribadiva che “il popolo iraniano rivendica il diritto inalienabile di avvantaggiarsi della tecnologia per produrre energia nucleare per fini pacifici”.

Nonostante varie dichiarazioni di disponibilità da parte dell’Iran a intavolare negoziati ad ampio raggio, il termine del 31 agosto 2006 è scaduto senza che Teheran abbia interrotto le procedure di arricchimento dell’uranio, come risulta dal rapporto trasmesso dall’AIEA alla Presidenza del Consiglio di Sicurezza, nel quale peraltro l’Agenzia per l’energia atomica asserisce di non avere prove definitive dell’orientamento militare delle attività iraniane.

Il 6 settembre 2006 si è verificata una significativa evoluzione nelle posizioni russe, in seguito all’atteggiamento di rifiuto nei confronti delle aperture che Mosca aveva avanzato nei mesi precedenti: il Ministro degli esteri Lavrov si è infatti detto disposto a valutare l’ipotesi di sanzioni, pur continuando ad escludere con nettezza ogni possibilità di intervento militare contro l’Iran.

In occasione della Cinquantesima Sessione dell’Assemblea generale dell’AIEA (18 settembre 2006), il Direttore generale El Baradei ha ribadito che, in violazione della risoluzione 1696, l’Iran non ha sospeso le attività di arricchimento dell’uranio, ed ha affermato l’impossibilità per l’Agenzia di dare risposte alla questione a causa dell’assenza di trasparenza da parte dell’Iran.

Gli sviluppi sulla questione dell’Iran e la posizione dell’UE sono stati ulteriormente chiariti dall’Alto Rappresentante per la PESC, Solana, nel corso della riunione della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo  del 4 ottobre. In tale ambito Solana aveva rinviato ogni decisione al gruppo dei 5+1, ai quali spettava valutare se il dialogo potesse proseguire o se invece il caso doveva essere sottoposto nuovamente al Consiglio di Sicurezza.

La Risoluzione 1737 del Consiglio di Sicurezza e le reazioni iraniane

Nonostante i tentativi di dialogo tra USA da un lato ed Iran e Siria dall’altro, effettuati, in via informale, anche dall’ex segretario di Stato americano Baker, nonché segnali di disponibilità arrivati nel mese di dicembre 2006 dal nuovo capo del Pentagono Gates -  che si era detto pronto, ancorché scettico sui risultati, ad avviare un dialogo con Iran e Siria - il 23 dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, al termine di due mesi di trattative, ha approvato la risoluzione 1737, che impone sanzioni all’Iran per non aver interrotto il processo di arricchimento dell’uranio.

La risoluzione, proposta da Gran Bretagna, Francia e Germania e approvata il all'unanimità dal Consiglio di sicurezza,  richiama il capitolo 7, articolo 41, della Carta delle Nazioni Unite, che prevede l'applicazione obbligatoria delle misure, pur escludendo azioni di tipo militare.

In particolare, la risoluzione vieta di esportare in Iran materiali o tecnologie che contribuiscano alle attività relative all'arricchimento e al riprocessamento (dell'uranio) e alle attività legate all'acqua pesante, nonché allo sviluppo di sistemi di trasporto di testate nucleari, quali i missili balistici. Singoli Paesi possono peraltro decidere in autonomia se esportare materiali o tecnologie suscettibili di doppio uso (civile o nucleare), ma in tal caso hanno l’obbligo di verificarne finalità e destinazione e devono comunque informare il comitato per le sanzioni del Consiglio di sicurezza. Le sanzioni non si applicano invece a materiali per la costruzione di impianti nucleari ad acqua leggera o ad uranio a basso arricchimento quando questi sia una delle parti di un combustibile nucleare composito[4].

La risoluzione dispone poi il congelamento di finanziamenti o fondi di proprietà o controllati da persone, società o organizzazioni legate ai programmi nucleare o missilistico iraniani; tale congelamento si applica, tra l’altro, all'Organizzazione per l'energia atomica iraniana, a tutti gli impianti legati al programma iraniano di arricchimento dell'uranio, al reattore ad acqua pesante di Arak e all'impianto di centrifughe di Natanz. Viene inoltre fatto obbligo agli Stati di segnalare l’ingresso sul proprio territorio di persone legate al programma nucleare iraniano indicate nell’Annesso alla risoluzione stessa.

Le sanzioni possono essere sospese se il direttore generale dell'Aiea ritenga che l'Iran abbia interrotto l'arricchimento dell'uranio e la costruzione delle centrali ad acqua pesante e torni al tavolo dei negoziati, ma possono invece essere ulteriormente aggravate se l'Iran non si conforma ai dettami della risoluzione entro 60 giorni dall’adozione della medesima.

All'indomani dell'adozione della risoluzione, le reazioni del Governo di Teheran sono state durissime.

Il presidente Ahmadinejad ha dichiarato che i Paesi che l'hanno votata ''si pentiranno'' di questo ''atto superficiale'', definendo il documento ''un pezzo di carta straccia' che non potrà fermare il programma nucleare di Teheran ed accusando il Consiglio di Sicurezza di essere ''senza dignità' per il fatto di essere controllato ''dagli Usa, dalla Gran Bretagna e dal regime sionista''.

Il 27 gennaio 2007, il Presidente della Commissione esteri e difesa del Parlamento iraniano, ha annunciato l’inizio dell’installazione di 3.000 centrifughe[5] per l’arricchimento dell’uranio nel sito di Natanz, nell'Iran centrale, notizia tuttavia subito smentita dal responsabile delle pubbliche relazioni dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica.

Contestualmente all'annuncio e alla successiva smentita circa l’installazione delle suddette centrifughe si è registrata la dichiarazione del direttore generale dell'Aiea, Mohammed ElBaradei, secondo la quale nel confronto fra Iran e comunità internazionale, sarebbe opportuna una ''pausa'' che preveda la sospensione da parte dell'Iran delle sue attività di arricchimento dell'uranio a fronte della sospensione delle sanzioni Onu nei confronti della Repubblica islamica.

Tale posizione è stata subito condivisa dalla Russia, che attraverso il capo del Consiglio di Sicurezza, Igor Ivanov, ha ribadito l’esigenza di una soluzione politica e diplomatica del contenzioso in atto.

Il 29 gennaio il governo di Washington ha invece respinto nettamente la proposta del direttore dell'Agenzia El Baradei, ribadendo una posizione già espressa in passato, ossia che l'unica strada per sbloccare il negoziato è la rinuncia incondizionata di Teheran alle sue attività di arricchimento dell'uranio.  Nella medesima giornata il Presidente G. W. Bush ha inoltre lanciato severo monito a Teheran, annunciando che gli Stati Uniti reagiranno con fermezza se l'Iran dovesse accrescere il suo presunto coinvolgimento negli attacchi alle forze armate americane in Iraq attraverso il sostegno alle milizie sciite.

Successivamente, il Consiglio Affari generali e Relazioni esterne dell’Unione europea, riunitosi a Bruxelles il 12 febbraio 2007, ha approvato in via ufficiale la dichiarazione che impegna gli Stati membri ad applicare in modo ''pieno e rigoroso'' le sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, sottolineando tuttavia come l'Europa tenga aperta la porta del dialogo verso l'Iran e sia pronta a tornare al tavolo dei negoziati.

Pur non sposando la posizione degli Stati Uniti - che in precedenza avevano fatto pressioni per una estensione di fatto delle sanzioni oltre l’ambito circoscritto dalla risoluzione 1737 - la Ue non ha escluso l’eventuale possibilità per il futuro di irrigidire le sanzioni medesime, ad esempio estendendo la lista delle persone e delle entità soggette a misure restrittive quali il congelamento dei beni.

In concomitanza con la riunione del Consiglio Ue, sono intervenute le dichiarazioni del portavoce del ministero degli Esteri iraniano, secondo le quali l'Iran è pronto a discutere anche di una eventuale sospensione dell'arricchimento dell'uranio, ma solo dopo la ripresa dei negoziati con la Comunità internazionale e soprattutto a condizione che il caso torni dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu all'Agenzia internazionale per l'energia atomica.

La scadenza dell’ultimatum dell’ONU e la Risoluzione 1747

All’indomani della scadenza del termine di 60 giorni imposto all’Iran dalla risoluzione 1737 del 23 dicembre scorso, il direttore generale dell'Aiea Mohammed ElBaradei ha inviato al Consiglio di sicurezza dell'Onu il suo ultimo rapporto nel quale si certifica che Teharan ha ignorato l'intimazione delle Nazioni Unite a sospendere ogni attività nucleare.

In particolare, in base al rapporto, l'Iran non solo non avrebbe sospeso il processo di arricchimento dell'uranio ma, in aperta sfida alla Comunità internazionale, lo avrebbe persino intensificato. Oltre a non ottemperare a nessuna delle misure richieste di trasparenza, Teheran avrebbe proseguito l'attività di arricchimento nell'impianto pilota di Natanz con l'installazione di quattro cascate di 164 centrifughe (le macchine per produzione di combustibile nucleare) e pianificato l'allaccio progressivo entro maggio 2007 di tutte le 3.000 centrifughe previste per arrivare alla produzione di uranio arricchito su scala industriale.

A fronte di tali conclusioni, la reazione di Teheran è stata quella di alzare i toni dello scontro, ribadendo con fermezza la propria volontà di proseguire con il programma nucleare. Il vice presidente dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica, Mohammad Saidi, ha infatti affermato che l'Iran non può accettare la sospensione dell'arricchimento dell'uranio, poiché ciò contrasta con i suoi diritti e con il Trattato di non proliferazione nucleare, confermando che l’intenzione di mettere in funzione entro il mese di maggio le 3 mila centrifughe. Posizioni ancora più intransigenti sono state espresse dal Presidente iraniano Ahmadinejad, secondo il quale “l'Iran ha ottenuto la tecnologia nucleare, e procederà come un treno che non ha né freni nè retromarcia''; darà inoltre ''risposte appropriate ad ogni potenza globale che intraprenda delle azioni contro il Paese''. Il vice ministro degli Esteri Manuchehr Mohammadi ha inoltre avvertito che la Repubblica islamica è pronta ad ogni evenienza ''anche alla guerra'', sottolineando altresì che le attività di arricchimento dell'uranio continueranno anche se verrà approvata una nuova risoluzione dell'Onu.

Intanto, a partire dal marzo 2007, si registrava anche un certo peggioramento dei rapporti fra Iran e Russia e un crescente isolamento di Tehran che ha portato all’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio di Sicurezza di una nuova Risoluzione (la n. 1747), recante una nuova raffica di sanzioni (24 marzo 2007). Gli esperti hanno, comunque, giudicato sostanzialmente blande queste sanzioni (oltre che difficili da applicasrsi)[6].

Come risposta a questa nuova censura internazionale il Presidente iraniano, ha minacciosamente annunciato ad aprile che l’Iran è ormai in grado di produrre uranio arricchito “su scala industriale”, senza peraltro fornire dati sulle centrifughe attivate.

Ma, proseguendo nell’uso sapiente della tattica dello “stop and go”, poche settimane dopo  (13 luglio 2007) l’Iran ha dato il via libera alla ispezione AIEA del reattore di Arak, suscitando una incoraggiante risposta del Segretario Generale delle NU. A settembre, invece, dichiarazioni di tutt’altro tenore con la proclamazione del raggiungimento della soglia di 3000 centrifughe attive e con la minaccia di troncare ogni forma di collaborazione con l’AIEA.

Infine, si ricordano le recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri francese Kouchner improntate a forte pessimismo (e le reazioni suscitate), nonché l’annuncio da parte del Presidente iraniano di una sua presenza a New York e del suo intervento nella sede delle NU, del quale sarà ancora ospite (per la terza volta dalla sua elezione nel 2005).

La situazione interna e gli effetti economici delle sanzioni

Per quanto concerne la situazione politica del Paese, si rileva  come all’interno della leadership iraniana siano affiorate in modo sempre più marcato alcune divisioni tra il partito facente capo al Presidente, più incline all’intransigenza, e quello rappresentato dall’establishment clericale conservatore, facente capo alla guida suprema Ali Khamenei. Lo stesso partito del Presidente è in rotta anche con l’ala guidata da Rafsanjani, da cui è distante sia sui temi del confronto con l’Occidente, sia su quelli della politica economica. Si ricorda, in proposito che la forza politica di Rafsanjani appare invece in ascesa, dopo la recente vittoria (4 settembre 2007) nella elezione del Capo dell’Assemblea degli Esperti.

Ancora più radicato è il malcontento nei confronti del Presidente Ahmadinejad[7] degli ambienti riformisti che contestano apertamente la politica del muro contro muro adottata per gestire la crisi e il conseguente rischio di isolamento internazionale dell’Iran

In questo quadro, alcuni osservatori hanno sottolineato come le rivendicazioni nucleari di Teheran, assieme alle ripetute esternazioni di Ahmadinejad contro l’esistenza dello Stato di Israele siano temi che servono almeno in parte a coprire le divisioni interne al Paese e alla sua leadership politica e la perdita di consenso di Ahmadinejad. 

Occorre d’altra parte considerare come all’interno della classe dirigente e politica iraniana, sebbene sussistano diverse valutazioni in ordine al rapporto da tenere con il mondo occidentale, la divisione tra intransigenti e pragmatici sia sfumata (nella sostanza non esistono blocchi omogenei e chiaramente contrapposti), e l’ambizione a trasformare la Repubblica islamica in un attore regionale di primo piano sia largamente condivisa.

La questione nucleare assume poi i contorni di una questione di orgoglio nazionale su cui anche l’ala dei riformatori non sembra disposta a retrocedere o a subire una umiliazione.

Non è facile pervenire ad una valutazione oggettiva e condivisa delle sanzioni che stanno colpendo l’Iran[8]. Un primo motivo risiede nella non attendibilità di molte statistiche ufficiali fornite dalle autorità di Tehran. Un secondo motivo risiede nelle specificità dell’economia iraniana.

Certamente alcuni dati relativi ai trends economici (in primis, l’occupazione e l’inflazione) non sono positivi e queste difficoltà contribuiscono anche a spiegare il crescente malcontento verso la classe dirigente al potere registrato dagli osservatori. Invece, appare controversa l’interpretazione in merito a quanto queste tendenze dipendano (o siano influenzate) dalle sanzioni e quanto invece derivino dalla caratteristiche strutturali dell’economia iraniana.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale l’Iran è un’economia “dominata dallo stato”. Agricoltura e commercio interno sono in gran parte in mani private, ma la più grande risorsa economica del paese – le fonti energetiche, a cui si deve l’80% dei ricavi da esportazioni - è sotto il controllo dello stato. Una organizzazione statale controlla anche i prezzi di molti beni di consumo (cereali, zucchero, latte, carta, fertilizzanti, prodotti farmaceutici, macchine agricole, ecc.).

Alle sanzioni economiche fin qui approvate dalle NU – limitate al commercio di beni legati alla realizzazione del programma nuclare e a poche altre forniture militari – non non possono essere attribuiti impatti diretti significativi sulla situazione economica complessiva del paese.

Altra cosa è l’impatto di tipo indiretto, cioè sulla propensione all’investimento da parte di potenziali investitori esteri (a partire dal settore energetico). Qui gli effetti (già in corso) potrebbero invece essere molto dolorosi, soprattutto se considerati in combinazione con gli effetti delle sanzioni di carattere finanziario adottate dagli Stati Uniti (limiti all’attività delle banche Sepah e Saderat, limiti alle transazioni finanziarie fatte negli Stati Uniti da cittadini iraniani attraverso i circuiti finanziari iraniani, ecc.).

Queste sanzioni stanno pertanto incidendo sul livello degli investimenti esteri, e quindi sui livelli di vita della popolazione. Tuttavia, un’economia come quella iraniana (in gran parte dipendente dal bilancio statale) ed una società come quella iraniana (che convive da anni con uno stato di turbolenza rivoluzionaria permanente) potrebbero non essere piegate facilmente dalle sanzioni oggi in atto. Innalzamento dei prezzi del petrolio – come quelli in corso da anni – probabilmente hanno più che compensato molti degli effetti delle sanzioni.

Al contrario, un abbassamento del prezzo del petrolio, o sanzioni direttamente indirizzate all’import/export nel settore del petrolio e dei suoi derivati avrebbero conseguenze devastanti sul paese. Ma è difficile che sanzioni di questo tipo non abbiano invece effetti negativi proprio sul livello dei prezzi del petrolio, con effetti molto negativi sui paesi importatori.

 


Cambiamento climatico ed equilibri internazionali

La correlazione fra cambiamenti climatici, degrado delle condizioni ambientali del pianeta (e soprattutto di alcune definite aree geografiche) e tensioni interne ed internazionali è stata più volte denunciata da varie fonti e rientra a pieno titolo anche nel quadro concettuale entro cui si sviluppa l’attività delle Nazioni Unite. Basti ricordare in proposito la Risoluzione 60/1 adottata nell’ottobre 2005 dall’Assemblea Generale “2005 World Summit Outcome”, nella quale il cambiamento climatico viene riconosciuto come una delle grandi minacce in grado di produrre i suoi effetti in ogni parte del pianeta. Ancora più esplicitamente, in nuovo Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel suo discorso di insediamento, tenuto lo scorso 1° marzo, non solo ha paragonato i rischi derivanti dal cambiamento climatico a quelli di una guerra mondiale, ma ha anche definito i cambiamenti climatici come un fattore di destabilizzazione degli equilibri mondiali.

Il negoziato internazionale sul Protocollo di Kyoto

Nella fase più recente (almeno dal dicembre 2005, come si illustrerà nel seguito di questo paragrafo) il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici è focalizzato politicamente sulla definizione del quadro di riferimento entro il quale i 191 paesi firmatari della Convenzione si collocheranno a partire dal 2012, data di scadenza degli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto (si tratta, quindi, di quello che – con espressioni gergali – viene definito il “Kyoto 2”, o “il dopo-Kyoto”).

Si ricorda, infatti, che già nella undicesima Conferenza delle Parti della Convenzione (Montreal, dicembre 2005) era stato assunto formalmente l’impegno ad aprire i negoziati per l’estensione del Protocollo di Kyoto nella fase successiva alla scadenza del 2012, e quindi a creare un nuovo meccanismo di riduzione delle emissioni globali, concordato e vincolante per i paesi firmatari. Ma di tale nuova fase – che si aprirebbe dopo il 2012 - restano da stabilire non solo modalità e strumenti, ma anche i partner, cioè quali saranno i paesi coinvolti e disposti ad accettare i vincoli derivanti da un trattato internazionale, dal momento che – com’è noto – il Protocollo di Kyoto si riferisce ai soli 39 paesi industrializzati (elencati nell’Annex I del Protocollo stesso), laddove paesi responsabili di volumi notevoli e crescenti di emissioni – quali Cina e India – non sono tenuti (almeno fino al 2012) ad alcun obbligo. Anche criticando quest’ultima circostanza, gli Stati Uniti, pur compresi nell’Annex I, si sono dissociati dal Protocollo non appena esso è entrato nella fase più concreta della determinazione di vincoli e sanzioni, ritenendone i meccanismi troppo punitivi per lo sviluppo economico nei paesi già industrializzati e allo stesso tempo inefficaci.

Nella dodicesima (e più recente) Conferenza delle Parti della Convenzione, tenutasi a Nairobi (6-17 novembre 2006)[9] il tema di maggior rilievo politico è stato pertanto quello - affrontato nell’ambito delle sessioni dei cd. gruppi ad hoc - della modifica dell'attuale Protocollo di Kyoto (in base all'art. 9 dello stesso trattato) in vista della scadenza del 2012. La questione, in mancanza di accordo complessivo, è stata rinviata al 2008. Si è intanto concordato su alcune premesse minori: che il protocollo destinato ad entrare in vigore successivamente al 2012 dovrà contenere chiari obiettivi per l'adattamento ai cambiamenti climatici, comprese le modalità di cooperazione, in questo campo, tra paesi sviluppati ed in via di sviluppo. Nel corso della Conferenza è stato poi presentato un documento che afferma la necessità, ai fini della stabilizzazione delle emissioni, della loro riduzione di almeno il 50% rispetto al 2000 (senza peraltro indicare il termine temporale entro cui tale obiettivo ottimale andrebbe raggiunto). La Germania ha proposto una riduzione del 30% entro il 2020, la Finlandia a nome della UE ha ribadito la proposta di una riduzione fino al 60% entro il 2050. Gli USA, pur riconoscendo la necessità di raggiungere importanti obiettivi di riduzione, hanno ribadito la loro critica metodologica al Protocollo, sottolineato di non ritenere percorribile la strada dei vincoli e degli obblighi.

Il Forum di Washington e il G8 di Heiligendamm

Dopo la Conferenza di Nairobi si è svolto il Forum dei legislatori del Dialogo sul cambiamento climatico dei paesi G8 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti)+ 5 (Cina, India, Messico, Brasile e Sud Africa), il 14 e 15 febbraio 2007 a Washington. Il Forum aveva l'obiettivo di presentare una piattaforma comune sul cambiamento climatico al Vertice del G8 di Heiligendamm. Il Forum ha assunto come punto di partenza della discussione le prime conclusioni del quarto “Assessment Report” dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change: l’organismo scientifico internazionale che svolge funzioni sussidiarie e consultive della Convenzione sui cambiamenti climatici), pubblicate il 2 febbraio 2007, che sostiene esservi una probabilità del 95% che siano state le attività dell'uomo condotte dalla rivoluzione industriale ad oggi a determinare il riscaldamento del pianeta. Il Forum è stato caratterizzato da due elementi di particolare importanza nella politica relativa al cambiamento climatico:

1.      il mutamento nell'orientamento dell’amministrazione americana, rispetto ad una sostanziale sottovalutazione – negli anni scorsi - del problema dei cambiamenti climatici (si ricorda che anche sul piano scientifico le posizioni dell’IPCC non sono accettate in modo univoco e che esistono posizioni molto più problematiche in merito al nesso di casualità fra cambiamento climatico e attività umane). Secondo la nuova posizione dell’amministrazione americana, espressa ufficialmente a Washington, il tema del cambiamento climatico e delle sue interrelazioni con le attività umane viene accettato come terreno di discussione. Non solo, ma tale tema rappresenta “priorità assoluta” per gli USA. Si ricorda in proposito che già alcuni osservatori avevano rilevato di recente (e in particolare a partire dalla forte reazione dell’opinione pubblica americana seguita all’uragano Katrina, agosto 2005) come una geostrategia fondata su una nuova ideologia verde possa rappresentare oggi uno strumento idoneo alla riaffermazione del prestigio degli Stati Uniti, scosso dalla guerra in Iraq. Tale strategia presuppone la capacità di individuare con chiarezza le gravi minacce economiche, geopolitiche e climatiche generate dalla dipendenza dal petrolio e di individuare un piano concreto per ridurre il bisogno di combustibili fossili. Alla consapevolezza, ormai diffusa tra la popolazione americana, della sussistenza di alcune emergenze ambientali non corrisponde ancora un’altrettanto acuta coscienza degli sforzi e dei costi necessari a far progredire gli Stati Uniti prima, e il mondo poi, verso un’infrastrutturazione energetica quasi del tutto priva di emissioni. L’amministrazione americana intenderebbe agire anche per riempire questo gap. Si può ricordare, in questo contesto, che già da tempo analisti e osservatori internazionali sottolineano che una politica “geoverde” potrebbe produrre effetti rilevanti sui cambiamenti climatici, sulle guerre per l’energia e sulle diffuse aree di instabilità politica. Diminuendo la domanda di petrolio, si determinerebbe la caduta del prezzo del barile. Come dimostrato dall’esperienza degli ultimi decenni, nei paesi che fondano la propria ricchezza sulle risorse petrolifere, a un basso prezzo del barile corrispondono “indici di libertà” elevati, dipendenti dall’esigenza di procurarsi entrate; viceversa, in corrispondenza di un prezzo più alto, paesi come Russia, Iran, Nigeria, Venezuela, Arabia Saudita, Siria, Sudan, Egitto, Ciad, Angola, Azerbaigian hanno conosciuto un’ondata di “petroautoritarismo” consistente nella compressione degli spazi di libertà individuale ed economica. Un piano di stabilizzazione e un modo per incoraggiare le riforme politiche in Medio Oriente, Iraq compreso, passerebbe pertanto necessariamente attraverso una politica ambientale basata sulla riduzione della domanda di idrocarburi.

2.      la posizione in merito ai gas serra dell’Unione Europea, evidenziata dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha sottolineato come già nella primavera 2007 l'Unione europea dovrà sviluppare un programma post 2012 per i paesi industrializzati. In tale prospettiva, il conseguimento dell'obiettivo posto dall'Unione europea di prevedere interventi volti a limitare entro i 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura mondiale rispetto ai livelli preindustriali è il primo risultato da conseguire e la riduzione del 20 per cento delle emissioni di CO2 nei paesi UE da qui al 2020, il primo passo da compiere.

A Washington si è comunque registrato il permanere di una divaricazione: da una parte Europa, Giappone e Canada intenzionati a conseguire impegni vincolanti per dimezzare entro il 2050 le emissioni dei gas serra, e dall’altra Stati Uniti e Russia, contrari all’indicazione di cifre e vincoli senza il preventivo coinvolgimento di tutti i paesi inquinatori (innanzitutto Cina e India).

 

Rispetto a questo quadro, il G8 di Heiligendamm (6-8 giugno 2007) – che ha avuto fra i suoi temi centrali proprio il cambiamento climatico, e al quale hanno partecipato, nel quadro di un dialogo allargato, anche i cinque maggiori paesi emergenti, Cina, India, Sudafrica, Messico e Brasile (cd G8+5) - ha prodotto unaccordo di compromesso consistente nel riconoscimento della necessità di ridurre in modo sostanziale - ma senza precise indicazioni quantitative - le emissioni di gas serra per arginare il riscaldamento del pianeta, nonché nell’impegno a “considerare seriamente” la proposta di Unione europea, Canada e Giappone di dimezzare le emissioni globali entro il 2050. Il vertice ha inoltre stabilito che entro il 2009 la comunità internazionale dovrà trovare un accordo sul dopo-Kyoto entro la cornice ONU e non, come era stato proposto dal presidente degli Stati Uniti alla vigilia del G8, al di fuori di essa[10]. La prima fase negoziale è prevista per la prossima Conferenza delle Parti della Convenzione (Bali, dicembre 2007).

Il ruolo della Cina e degli altri “paesi emergenti”

I paesi emergenti (Cina, India, Sudafrica, Messico e Brasile) che rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale e hanno un ruolo crescente nell’economia e nel commercio planetario, hanno ribadito – in linea di principio - di non voler sacrificare la propria crescita ad un accordo internazionale per loro penalizzante. Nel comunicato congiunto approvato dai leader del G8 e di Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica viene tuttavia proclamato l’impegno comune per la stabilizzazione delle ''emissioni nocive ad un livello che eviti interferenze pericolose con il cambiamento climatico'' e viene sottolineato il ruolo centrale  degli investimenti (trasferimento di tecnologie pulite) per poter sviluppare le tecnologie necessarie a produrre una significativa diminuzione dell'impiego del carbone e delle altre fonti di energia altamente inquinanti. Il surriscaldamento e gli altri problemi climatici vanno affrontati – secondo questo documento ufficiale - nell'ambito di uno schema globale e di azioni concordate, anche tenendo conto, sul fronte energetico, dell’importanza dell'uso delle biomasse e dei biocombustibili, oltre che del carbone 'pulito'.

Questi rappresentano indubbiamente passi in avanti, anche se non si può trascurare la posizione sostenuta dalla Cina, cha ha presentato un piano ambientale alla vigilia del G8, pubblicato il 4 giugno scorso, in cui si sostiene a chiare lettere che per i paesi in via di sviluppo e per le economie emergenti del G5 gli effetti di un’eventuale limitazione della crescita potrebbero essere persino peggiori di quelli indotti dal cambiamento climatico. Secondo quanto dichiarato dal presidente cinese Hu Jintao davanti ai leader del G8 l’8 giugno 2007 (linea espressamente condivisa dal premier indiano Manmohan Singh), i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di consumare energia a sostegno delle proprie esigenze di industrializzazione, urbanizzazione e modernizzazione volte a migliorare la vita delle persone e non possono quindi accettare la fissazione di limiti che richiamino quelli posti dal Protocollo di Kyoto all’emissione di gas serra.

Le linee strategiche generali del piano ambientale cinese, fondato essenzialmente su investimenti peraltro non esattamente quantificati, prevedono, tra l’altro:

·         l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo di fonti di energia pulite e rinnovabili, per portare l’apporto percentuale di tali fonti dal 7,5% del 2005 al 10% nel 2010;

·         la riduzione delle emissioni di CO2 nella misura di 50 milioni di tonnellate entro il 2010 attraverso lo sviluppo della produzione idroelettrica nel Paese che è ampiamente dipendente dal carbone.

Gli elementi di maggiore novità sembrano pertanto riferibili alle posizioni di USA e Cina, che negli ultimi anni hanno rappresentato – insieme – il fattore di maggiore debolezza di tutto il quadro disegnato dal Protocollo di Kyoto.

Gli Stati Uniti, anche se appaiono ancora distanti dall’impostazione europea – basata su un approccio che affida gran parte della sua efficacia ad un sistema vincolistico e sanzionatorio – hanno dato chiari segnali di voler partecipare seriamente alla nuova fase negoziale che si è aperta a Montreal nel dicembre 2005 e che dovrebbe avere una tappa significativa nella Conferenza di Bali del prossimo dicembre.

La Cina, presentando il proprio piano prima dell’inizio del G8, ha voluto mostrare di non essere insensibile alle istanze ambientali. Ma – allo stesso tempo – ha anticipato i temi in discussione escludendo preliminarmente la propria adesione alla fissazione di limiti obbligatori alle emissioni e motivando tale posizione con l’argomento (tradizionale) che, essendo il surriscaldamento del pianeta la conseguenza di 200 anni di industrializzazione incontrollata delle nazioni occidentali non sarebbe giusto imporre un limite obbligatorio alle emissioni della Cina e degli altri paesi in via di sviluppo. Inoltre, è stato ribadito il noto argomento che i paesi già sviluppati, che pure hanno delocalizzato le proprie industrie manifatturiere anche in Cina, continuano ad avere quote di emissioni pro-capite ben più elevate di quelle cinesi.

Tuttavia, la firma del comunicato finale congiunto e l’enfasi in esso contenuta sulla diminuzione del ruolo del carbone, sul trasferimento di tecnologie pulite e sugli investimenti in questo settore, dimostrano una certa disponibilità, anche da parte della Cina, a partecipare comunque al processo in corso.

Probabilmente gli sviluppi futuri del negoziato vedranno il tentativo di raccogliere (in qualche misura) le istanze di Stati Uniti e Cina per dare fondamento – a partire dal 2012 - ad una seconda fase che non veda più esclusi i due paesi ai quali si deve il maggior carico di emissioni di gas serra del pianeta.

Infine – per quanto riguarda il nostro paese – si segnala la prima Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici, promossa dal Ministero dell’ambiente e tenuta a Roma il 12 e 13 settembre 2007.

Combustibili fossili: controllo delle risorse e delle aree attraversate dalla rete di distribuzione

Il problema del controllo globale delle emissioni di gas serra, e quindi della dipendenza dai combustibili fossili (che sono oggi responsabili dell’80% del livello complessivo di tali emissioni) ha potenzialmente effetti molto grandi sul quadro delle relazioni internazionali.

Infatti, la crescita del livello di dipendenza del sistema energetico mondiale dai combustibili fossili o idrocarburi (petrolio, carbone e gas naturale) – pari ormai a oltre l’80% - è entrata, negli ultimi anni in una fase quasi parossistica: negli ultimi 25 anni, il consumo di carbone è raddoppiato, quello di petrolio è quasi decuplicato e quello di gas naturale è cresciuto di 14 volte. I risultati di recenti indagini geologiche affermano che le riserve petrolifere del pianeta hanno – a questi ritmi – soli 30 anni, quelle di gas naturale 50 anni e quelle di carbone 200 anni[11].

Le nuove linee di tensione internazionale si sovrappongono in modo sempre più fedele ai confini che delimitano le aree geografiche sulle quali insistono le risorse energetiche fossili e le aree attraversate dalle infrastrutture di trasporto di tali risorse (pipeline).

Per gli stessi motivi, si impone una interpretazione sempre più intrecciata di politica internazionale e politica energetica: gli investimenti realizzati o programmati in questa rete di pipeline (peraltro continuamente mutevole) rappresentano chiavi indispensabili di lettura di rivalità, tensioni, alleanze strategiche.

Asia Centrale e Mar Caspio

La regione del Caspio rappresenta un caso emblematico di tale situazione in quanto vi si intrecciano gli interessi economici e politico-strategici delle potenze locali (le repubbliche dell’ex URSS, soprattutto Kazachstan e Azerbaigian, che sono i principali paesi che estraggono idrocarburi nell’area) e delle grandi potenze extraregionali.

L’importanza delle risorse di tale regione risalta in un quadro geostrategico complessivo, dove è essenziale la sicurezza energetica intesa come diversificazione geografica della produzione. In tale contesto, la rilevanza delle risorse in questione - la cui consistenza è stimata tra i 17 e i 44 miliardi di barili per il greggio[12] e in 6.570 miliardi di metri cubi di gas – risiede non tanto in tale entità – cospicua ma in ogni caso ritenuta non sufficiente a modificare in misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente - ma nella possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale rimanendo sotto il controllo delle compagnie che hanno investito nella regione e degli stati esportatori. A tale scopo, gli Stati Uniti si sono fatti promotori per l’esportazione degli idrocarburi dal Caspio di una Multiple Pipeline Strategy, strumento essenzialmente destinato  a rafforzare l’indipendenza e la sovranità degli stati del Caucaso (e dell’Asia centrale) sottraendo il controllo delle loro risorse energetiche alla vicina Russia.

In tale contesto risalta il rilievo strategico della Georgia che, sebbene sia priva di risorse di idrocarburi in una regione, quella del mar Caspio, che ne è ricchissima, si trova ad un incrocio obbligato sulle rotte delle pipeline - esistenti e future – che trasportano tali risorse verso i mercati europei ed occidentali, rappresentando l’unica alternativa geografica al passaggio obbligato sul suolo russo. Anche da questo derivano rapporti spesso critici con la Russia. Attualmente la strategia georgiana punta, con l’appoggio statunitense e NATO (cui il paese, contro la volontà di Mosca, vorrebbe aderire) alla ricomposizione dell’unità nazionale attraverso la riconquista delle repubbliche separatiste di Ossezia meridionale e Abkhazia[13], offrendo in cambio di proporsi come pilastro degli interessi occidentali nella regione, in particolare come alternativa alla Russia per il transito delle risorse energetiche della regione del Caspio.

 

Mosca, contraria a una politica filo-occidentale non in linea con i propri interessi strategici, ha inflitto a Tbilisi una serie di avvertimenti tra i quali gli analisti pongono l’attentato, mai rivendicato, che nel gennaio 2006 ha fatto saltare in territorio russo l’unico gasdotto che alimenta la Georgia, allora totalmente dipendente per il proprio approvvigionamento dal colosso russo Gazprom, lasciando il paese senza gas per un paio di settimane[14].

 

La Georgia è attraversata dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (porto turco sul Mediterraneo), voluto dagli Stati Uniti e inaugurato il 13 luglio 2006, che porta sulle coste del Mediterraneo 50 milioni di tonnellate di greggio azero l’anno. Il gasdotto di Shah Deniz, che unirà Baku alla capitale georgiana Tbilisi e a Erzurum in territorio turco è in via di ultimazione, mentre il gasdotto trans-caspico, che egualmente è destinato ad attraversare il territorio georgiano, dovrebbe riversare in Europa, ogni anno, 16 miliardi di metri cubi di gas proveniente dal Turkmenistan e sarà realizzato, risorse finanziarie permettendo, nei prossimi anni.

La centralità georgiana nella questione dell’approvvigionamento energetico coinvolge pienamente l’Europa e riguarda, altresì, le relazioni tra UE e Russia. L’Europa trae dal gas un quarto dei suoi consumi energetici totali (36 per cento l’Italia) ed è fortemente dipendente dalla fornitura russa[15]. Fermo restando che l’emancipazione da tale situazione è per l’Europa, nel campo dell’approvvigionamento delle risorse energetiche tradizionali[16], un obiettivo strategico, gli analisti considerano tale dipendenza un punto di forza per l’Europa nei confronti della Russia, in quanto l’attuale orientamento dei gasdotti del monopolista Gazprom rende l’Unione Europea l’unico acquirente obbligato per la sua intera esportazione, depotenziando, almeno nel breve termine,  la minaccia-ricatto russa di offrire il gas ai clienti dell’estremo oriente (India e Cina innanzitutto). Ciò almeno per qualche anno, fino a quando non saranno approntate le necessarie  le pipeline. 

Nel disegno strategico di emancipazione energetica europea dalla Russia rientra l’utilizzo delle risorse energetiche provenienti dal Caspio, come pure il già programmato gasdotto Nabucco destinato a collegare, a partire dal 2011-2012, i giacimenti iraniani[17] (e quelli di Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan) attraverso la Turchia e i Balcani fino all’Austria, con una “bretella” italiana che collegherà Salonicco a Otranto.

America Latina

Anche in America Latina è prevedibile che nei prossimi anni si creino nuove linee di instabilità e di tensione internazionale a causa delle risorse di combustibili fossili della parte settentrionale del continente e dei progetti di infrastrutture per il trasporto. Particolare interesse riveste, sotto questo profilo, il progetto del gran gasoducto del sur, destinato ad infilarsi nel cuore della foresta amazzonica per centinaia di chilometri determinando – fra l’altro - la formazione di nuovi insediamenti umani in parti ancora incontaminate di essa. Si tratta della pipeline lunga tra gli otto e i diecimila chilometri che dovrebbe congiungere il Venezuela con l’Argentina attraversando Brasile, Paraguay, Uruguay e forse anche Bolivia che, attualmente in fase di studio di fattibilità, ha tutti i requisiti, se realizzato[18], per costituire un elemento di tensione nei rapporti tra gli Stati Uniti e i vicini sudamericani.

Il progetto, successivo al trattato di integrazione energetica tra Venezuela, Brasile e Argentina messo a punto nel maggio 2005, e sostenuto in particolare dal presidente venezuelano Hugo Chavez, punta a incrementare la forza contrattuale degli stati sudamericani nell’economia globalizzata, affrancandoli dall’influenza degli USA. E’ nota infatti la rilevanza energetica del Venezuela, che è il terzo fornitore di petrolio degli Stati Uniti e il più grande fornitore di petrolio dell’America latina (di grande interesse per la forte domanda proveniente da Cina e India). Le riserve di petrolio del paese, per quanto ingenti e stimate intorno agli 80 miliardi di barili - equivalenti a quelle russe - risultano enormemente inferiori alle sue riserve di gas naturale, in gran parte inesplorate, valutate intorno ai 60 trilioni di metri cubi. 

Delta del Niger

Un’altra area geografica che ben rappresenta il complesso nucleo di problemi - geopolitici, sociali e ambientali – correlati al controllo delle fonti energetiche da idrocarburi e la crescita di instabilità che ne deriva è il delta del Niger.

La Nigeria è il paese africano più importante per la produzione di petrolio e gas, disponendo di riserve rispettivamente pari 35,8 miliardi di barili quanto a risorse offshore (ossia ricavabili dalla sua piattaforma continentale del golfo di Guinea), 30 miliardi di barili onshore nel delta del Niger, nonché sulla quota più cospicua degli oltre 450 trilioni di piedi cubi di gas naturale (dislocati on e off shore) che costituiscono il totale delle riserve di gas naturale stimate per il continente africano.

Nel delta del Niger la cinquantennale attività estrattiva delle compagnie petrolifere ha prodotto enormi ricavi e nessuna ricaduta positiva per la popolazione che rimane priva di elettricità e di acqua corrente pulita e che soffre delle conseguenze del degrado ambientale[19]. In un paese come la Nigeria - governato per decenni da leader militari arrivati al potere con un colpo di stato e poi sostenuti dai proventi dei contratti stipulati dallo stato nigeriano con le multinazionali - le compagnie petrolifere hanno agito in modo da non turbare gli equilibri politici interni, favorendo anche i regimi dittatoriali, purchè idonei a garantire ogni protezione militare ai grandi interessi economici in gioco.

La crisi sempre più grave in corso nel delta del Niger rende quest’area una delle più instabili, insicure e degradate dell’intero pianeta. I leader delle comunità locali (circa 27 milioni di abitanti concentrati in una delle aree a più alta densità abitativa del mondo, con una crescita demografica annuale del 3% circa) rivendicano il diritto delle popolazioni ad essere associate ai benefici della ricchezza derivante dallo sfruttamento delle risorse del territorio chiedendo una ridistribuzione dei profitti e adeguati investimenti per lo sviluppo socioeconomico della regione. Questa tensione politica sta mettendo economicamente in ginocchio il governo federale di Abuja per la violenza distruttiva con cui ha investito le infrastrutture dello sfruttamento petrolifero (oleodotti e piattaforme): la produzione di greggio, attestata intorno ad uno standard di 2,5 milioni di barili al giorno, ne risulta ridotta di almeno 200.000 barili, in gran parte vandalizzati o rubati e l’instabilità favorisce il dilagare della criminalità, della violenza giovanile e di megatraffici di petrolio sul mercato nero (bunkeraggio illegale). Al gruppo anglo-olandese Shell, che è il maggior operatore dell’area, e al governo federale, è mossa l’accusa politica di non aver investito in piani di sviluppo, limitandosi a massimizzare i profitti derivanti dalla rendita petrolifera.

Alla Shell viene attribuita poi una grave responsabilità ai fini del degrado ambientale e della emissione di gas serra: quella di bruciare il gas associato che fuoriesce insieme al getto petrolifero per non investire in impianti di separazione. La contestazione locale alla politica del “gas bruciato”, iniziata già alla metà degli anni ottanta, è stata sempre elusa dal governo federale che ha reiteratamente rimandato la soluzione del problema adducendo l’indisponibilità, a livello locale, di progetti adeguati all’assorbimento di quantitativi così ingenti di gas. In attesa di una soluzione concreta, ogni giorno nel cielo del delta viene bruciata circa metà dei 5 miliardi di piedi cubi di gas associato prodotto, con uno spreco enorme di risorse che procura un danno ambientale ingentissimo (l’ininterrotta combustione delle gigantesche fiaccole tipiche dello skyline dell’area provochrebbe un’ emissione di gas serra dall’area del delta del Niger superiore a quella riferibile a tutto il resto dell’Africa subsahariana[20]).

Complessivamente, questa regione rappresenta oggi forse l’area geografica che meglio rappresenta – nel mondo - l’intreccio fra combustibili fossili, inquinamento e conflitti armati.

Le nuove guerre per l’acqua e per la terra

Un secondo versante su cui è possibile leggere gli effetti del cambiamento climatico sulle relazioni internazionali è quello del degrado ambientale di vaste aree del pianeta a causa della desertificazione e della carenza di risorse idriche e degli effetti di tale degrado sulle condizioni di sicurezza e stabilità, sia interna che internazionale.

La crescente diffusione di conflitti armati (sia di carattere locale che internazionale) originati dal - o comunque connessi al - controllo di risorse idriche rappresenta ormai un dato ben noto e universalmente acquisito.

Eppure, appena 20 anni fa la previsione formulata da Ismail Seregeldin, vicepresidente della Banca mondiale – “se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI avranno come oggetto del contendere l’acqua” – fu prevalentemente accolta come un paradosso, se non respinta con incredulità.

La rapidità di questo cambiamento dello stesso quadro di relazioni internazionali ha sullo sfondo la rapidità e alla non sostenibilità dei processi di crescita economica e demografica, con una popolazione mondiale che aumenta di 85 milioni di persone all’anno e che richiede quantitativi di acqua dolce sempre maggiori per i diversi usi civili, industriali e soprattutto agricoli (già oggi il 65-70% delle risorse è destinato a scopi irrigui). Ma un fattore non irrilevante sembra essere rappresentato anche dai fenomeni di cambiamento climatico e desertificazione: si calcola che ormai ogni anno circa 6 milioni di ettari (il doppio della superficie del Belgio) subiscono un processo irreversibile di desertificazione. Conseguenza di questo fenomeno è l’allarmante processo di perdita di fertilità e produttività del suolo con stime che ne valutano in 20 milioni di ettari annui le dimensioni totali e al 35% dell’intera superficie utile del pianeta l’area del rischio ormai prossimo.

Numerosissimi conflitti del recente passato o in corso possono quindi (e dovrebbero) essere letti nel contesto di esasperazione che si determina allorquando trasformazioni rapidissime e catastrofiche dell’habitat naturale minacciano la sopravvivenza di intere popolazioni. Tali conflitti possono assumere – di volta in volta – carattere locale o internazionale. Essi possono costituire il terreno su cui si innestano anche rivalità politiche, etniche o religiose, ma il controllo delle risorse idriche, la desertificazione e la progressiva riduzione del suolo fertile appaiono orami fattori - permanenti e di primaria importanza - di instabilità di tensione. Infatti, un aumento della conflittualità appare ormai con evidenza nelle aree del pianeta sottoposte a grandi processi di degrado ambientale e desertificazione (prime fra tutte l’area sahariano-saheliana[21]).

Tensioni internazionali per l’acqua si riscontrano – in primo luogo - nei numerosi casi in cui i sistemi fluviali attraversano più paesi. E’ sufficiente richiamare quanto nello stesso conflitto israelo-palestinese sia riconducibile al controllo delle risorse idriche del Giordano e dei suoi affluenti e ai processi di desertificazione in corso nella regione. Il limitato rifornimento idrico naturale di Israele, Giordania e delle aree palestinesi raggiunge una media annua di 2,7 miliardi di metri cubi, provenienti da fiumi e falde acquifere rinnovabili, cioè diverse centinaia di milioni di metri cubi in meno di quanta se ne consuma. La popolazione totale, che nel 2006 era di 17 milioni di abitanti, nel 2040 potrebbe salire a 34 milioni. In questa ipotesi, la riserva pro capite scenderebbe molto al di sotto dei 125 metri cubi necessari per sostenere uno standard ragionevole di vita civile (il calcolo, effettuato dalla organizzazione Green Cross, è approssimato per difetto in quanto non tiene conto dell'impiego in agricoltura).

Su questo piano, la Siria ha messo in atto negli ultimi 30 anni una politica estremamente aggressiva nei confronti della Giordania, utilizzando in quantità sempre maggiori l'acqua del fiume Yarmuk, che costituisce parte del confine tra i due paesi arabi e costruendo dighe nel tratto superiore dello Yarmuk.

Israele poi dipende da acque che hanno in gran parte origine fuori dei suoi confini. Non solo i fiumi Banias e Hatzbani, che provengono dal territorio controllato o reclamato dalla Siria, sono affluenti primari del bacino del Giordano, ma mentre complessivamente solo il 3 % del bacino del Giordano si trova in territorio israeliano, si calcola che questo stato sfrutta il 60 % della portata del fiume per alimentare l’unica economia industriale dell’area.

Un’altra area di forte instabilità a causa del problema idrico è quella del bacino del Nilo - che attraversa Egitto, Tanzania, Sudan, Burundi, Ruanda ed interessa anche l’Etiopia, essendo alimentato anche dalle precipitazioni che si scaricano sul suolo di quel paese – esso rappresenta l’unica risorsa idrica per Sudan ed Egitto (che ne sono i principali fruitori e contendenti) nonché per l’ Etiopia, paesi ubicati in un’area particolarmente arida e semi-arida interessata, negli ultimi decenni, da un elevato sviluppo demografico. Le acque di questo storico fiume riforniscono una popolazione che nel 2025 potrebbe arrivare a 859 milioni di persone. Forti tensioni sono in atto in relazione, da un lato, al progetto egiziano di deviazione del corso del Nilo verso il Sinai settentrionale, dall’altro alla costruzione della diga di Hamadab/Merowe (Sudan settentrionale, a circa 350 km a nord di Khartum), iniziata nel 2005 e finanziata anche con capitale cinese[22], che ha causato forti ripercussioni sociali anche all’interno del paese. Ulteriori potenziali momenti di frizione sono rilevati dagli osservatori che segnalano come la pressione della domanda d’acqua sul Nilo sia destinata ad aumentare allorché anche Uganda, Tanzania e Kenia accresceranno lo sfruttamento delle acque del lago Vittoria, principale sorgente del Nilo Bianco, sottraendo acqua ai paesi a valle.

Sempre rimanendo nel continente africano, occorre almeno ricordare come all’origine della crisi del Darfur vi sia il controllo di porzioni decrescenti di terreni coltivabili e di risorse idriche scarse.

Il territorio della regione (500.000 chilometri quadrati, 6 milioni di abitanti) è popolato da gruppi etnici, arabi e non arabi, che possono esser proprietari di un “dar”, ossia di un territorio regolato dal diritto fondiario consuetudinario, ovvero che non godono dei diritti fondiari tradizionali e vivono, pertanto, sulle terre di altri gruppi. Questo è stato in origine il fattore scatenante di un conflitto nel quale ormai (dopo 4 anni) si intrecciano in modo inestricabile anche motivi politici e religiosi e grazie al quale si è avuto un fortissimo incremento della criminalità comune.

Ma la guerra – causata dal degrado ambientale – ha a sua volta accresciuto il degrado stesso: a seguito del conflitto fra milizie filo-governative di etnia araba e popolazione locale molte aree coltivate sono state abbandonate dalla popolazione in fuga e quindi sono ora più facilmente colpite da fenomeni di desertificazione. Oggi si stima che un abitante dell’area su tre sia profugo, sottratto ad ogni attività produttiva, di cura e manutenzione del suolo.

Tensioni locali o “conflitti a bassa intensità” determinate dal peggioramento delle condizioni ambientali, e in particolare dalla scarsezza di acqua e di suolo coltivabile sono rilevabili in moltissime regioni: Kazakistan, Kirghizistan ed Uzbekistan, gli stati costieri del Syr Daya, il fiume che affluisce nel Mare di Aral (praticamente secco), Cambogia, Laos, Tailandia e Vietnam, che condividono il fiume Mekong supersfruttato dalla pesca; mentre sopravvive la Commissione del Fiume Indo, nonostante il permanente dello stato di tensione militare tra India e Pakistan.

Inoltre, si può ricordare come il problema della scarsità di suolo coltivabile abbia influenzato – ad esempio - le tensioni in Ruanda (genericamente ma erroneamente ascritte al solo fattore etnico) e abbia determinato il conflitto in corso in Zimbabwe. In questo paese la riforma agraria annunciata nel 2000 dal presidente Robert Mugabe con intenti egualitari si è limitata a produrre l’espulsione dell’80 per cento dei cinquemila proprietari terrieri bianchi, sostituiti da dirigenti di regime che non sono in grado di sfruttare le terre acquisite; in conseguenza di ciò circa tre milioni – pari a un quarto della popolazione – degli abitanti del paese considerato un tempo una sorta di granaio dell’Africa australe dipendono dagli aiuti alimentari internazionali.

Lo spettro della guerra civile è invece presente in Costa d’Avorio dove dietro lo scontro tra ribelli nordisti e sostenitori sudisti del presidente Laurent Gbagbo si profila la battaglia per l’accesso a risorse idriche scarse e il possesso di terreni coltivabili insufficienti. Nel paese, ancora in gran parte rurale, una percentuale tra il 30 e il 40 per cento della popolazione è di origine straniera e proviene dal Burkina Faso, Mali e Guinea; tale popolazione ha ereditato i possedimenti dai genitori e rappresenta il pilastro dell’agricoltura ivoriana. La popolazione autoctona ha difficoltà ad accedere alla terra e non è protetta da efficaci sistemi di compensazione[23].

Il cospicuo aumento delle tariffe derivante dalle privatizzazioni dei servizi idrici ha provocato diffuse instabilità sfociate talvolta in guerriglia (Cochabamba, Bolivia, 1999), talvolta nella diffusione di gravi malattie (epidemia di colera in alcuni distretti del Sudafrica, 2000) causata dal ricorso da parte della popolazione non più in grado di sostenere i costi del servizio idrico ad acque non pulite.

La costruzione di dighe ha provocato in India le gravi violenze negli stati del Karnataka e del Tamil Nadu. Ciò rinvia – fra l’altro - al problema di scelte ambientali catastrofiche ai fini del mantenimento del bilancio idrico (fra questi, i progetti faraonici di deviazione di fiumi e costruzione di grandi dighe che hanno interessato, in particolare, India e Cina) e alla sostanziale assenza di un sistema di controlli sulle scelte di governi, la cui azione è svincolata da ogni obbligo di consultazione delle popolazioni interessate e non è sottoposta ad alcuna forma di controllo democratico[24].

Le interrelazioni fra accesso alle risorse idriche e sviluppo economico presentano alcune evidenze. Studi scientifici autorevoli hanno rilevato addirittura l’esistenza di una diretta correlazione tra scarsità delle precipitazioni e bassi livelli di GDP (PIL) pro capite; sulla base di tale correlazione è stato costruito un indice (Seasonal Storage Index, SSI) delle aree che necessitano di infrastrutture di stoccaggio dell’acqua, al fine di mitigare l’impatto della variabilità delle precipitazioni sulla disponibilità d’acqua non solo per l’alimentazione, ma anche per la produzione agricola di base, posto che è assodato che la pratica di quest’ultima in condizioni critiche limita significativamente le possibilità di sviluppo economico. I Paesi più bisognosi di tali infrastrutture, quindi i più poveri del mondo, sono risultati essere, per la maggior parte, Paesi africani[25].

Oggi si calcola che 1,2 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 1/3 della popolazione mondiale vive in condizioni di stress idrico. Nel 2025 saranno 5,5 miliardi (circa i 2/3 degli abitanti del pianeta) le persone a rischio idrico. Il consumo globale di acqua raddoppia ogni 20 anni, ad un tasso quindi più che doppio rispetto alla crescita della popolazione mondiale. L’allarme non riguarda più solo le regioni del pianeta tradizionalmente povere di acque, ma – in modo crescente – anche aree con maggiore disponibilità, caratterizzate da trend demografici non sostenibili (es. India) o da radicati stili di vita della popolazione che producono il saccheggio indiscriminato di risorse idriche (Stati Uniti, Europa)[26].

Ciò porta fondatamente ad affermare che l’accesso alla risorsa idrica (e quindi il cambiamento climatico strettamente interrelato ai fenomeni di desertificazione) rappresenta oggi uno dei massimi fattori di instabilità e di tensione internazionale.

 

La comunità internazionale ha – finora – sviluppato una iniziativa di limitata efficacia rispetto a tali problematiche.

L’elemento di maggiore interesse (oltre ai Summit mondiali sullo sviluppo sostenibile organizzati dalla Nazioni Unite)[27] è rappresentato dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione nei paesi gravemente colpiti dalla siccità e/o dalla desertificazione, UNCCD[28]. In questo ambito la desertificazione è stata definita come quel processo di "degrado dei terreni coltivabili in aree aride, semi-aride e asciutte sub-umide in conseguenza di numerosi fattori, comprese le variazioni climatiche e le attività umane". La Convenzione UNCCD, entrata in vigore il 26/12/1996 e a tutt’oggi ratificata da 191 paesi, tra cui l’Italia, ha come scopo principale l’adozione di strategie incentrate simultaneamente sul miglioramento della produttività delle terre, sul ripristino, sulla conservazione e sulla gestione sostenibile del suolo. La Convenzione è dotata di potere esecutivo e, pertanto, l’adesione ad essa comporta impegni nazionali precisi per un’azione concreta, in particolare a livello locale.

Recentemente a Buenos Aires (12-21 marzo 2007) si è svolta la quinta sessione del Comitato per l’applicazione della Convenzione (CRIC5), dedicata essenzialmente all’esame delle misure adottate dai paesi di Asia, America Latina e Carabi, Mediterraneo settentrionale ed Europa centrale e orientale interessati dal fenomeno della desertificazione.

L’ottava Conferenza delle parti sulla desertificazione (COP8), che segue la Conferenza svoltasi a Nairobi nell’ottobre 2005 (COP7)[29], si è invece tenuta a Madrid, dal 3 al 14 settembre 2007. La Conferenza delle parti, composta da tutti i governi che hanno ratificato la Convenzione, ne è l’organo supremo ed è preposto a garantirne l’attuazione, decidendo, tra il resto, il programma da attuare in ciascun biennio e il relativo budget. La Conferenza di Madrid ha lanciato l’obiettivo di dare vita ad un piano strategico decennale per fermare la piaga della desertificazione che colpisce già 250 milioni di persone e mette a rischio 1,2 miliardi di abitanti.

Una sede, non governativa, di dibattito internazionale mirante ad influenzare le politiche dell’acqua a livello globale è rappresentata dai Forum mondiali sull’acqua (World Water Forum), la cui quarta edizione si è svolta a Città del Messico nel marzo 2006.

Si segnala in proposito la risoluzione 7-00185 (De Zulueta e altri) presenta alla Camera dei deputati il 30 maggio 2007, approvata all’unanimità dalla III Commissione nella seduta del 14 giugno 2007.

 

Un secondo aspetto da considerare è connesso alle iniziative della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale.

Com’è noto, dalla metà degli anni ’90 i due organismi, insieme al WTO (istituito nel 1995) promuovono una vasta attività finalizzata alla liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi[30]. In questo contesto è da collocare la problematica della privatizzazione delle risorse idriche, in gran parte conseguenza inevitabile della stessa scarsezza della risorsa, ma anche particolarmente incentivata – soprattutto negli ultimi anni – dalle attività di finanziamento promosse dalla World Bank.

La necessità di un intervento dei privati nella gestione delle risorse idriche viene tradizionalmente motivato con la necessità di gestire in maniera economicamente efficace la risorsa acqua, assicurando quantità e qualità del servizio ed evitando sprechi nei consumi. Inoltre l’intervento di soggetti privati dovrebbe garantire risorse finanziarie (di cui spesso i soggetti pubblici non dispongono) da destinare ad interventi strutturali sulle reti e quindi alla riduzione delle perdite di rete che rappresentano una delle principali cause di spreco [31].

Esiste tuttavia una pubblicistica[32] che mette in discussione la fondatezza di tali aspettative. Il subentro dei privati al pubblico nella gestione dei servizi idrici, infatti, non garantirebbe – di per sé - migliori servizi né il rispetto delle esigenze di caratteriale ambientale o sociale, non sempre coincidenti con la massimizzazione dei profitti. Sul piano ambientale, le società private non applicherebbero politiche di sostenibilità a lungo termine, puntando piuttosto alla maggior crescita dei consumi nell’immediato: per esse, rimangono più convenienti i processi ambientalmente non virtuosi (desalinizzazione[33], deviazione di fiumi, costruzione di dighe) piuttosto che progetti a lunga scadenza basati sull’educazione al risparmio.

A parte valutazioni molto generali sulla idoneità o meno dei meccanismi di mercato a risolvere in modo efficace i grandi problemi sociali ed ambientali delle società contemporanee, è utile comunque riportare alcune stime di carattere economico relative ai processi di privatizzazione.

Si valuta in 400 miliardi di dollari annui il volume d’affari attuale delle forniture idriche, ma stime della Banca Mondiale prevedono che si arrivi, in tempi assai vicini, ad oltre 1.000 miliardi. L’industria idrica, le cui entrate già oggi sono pari al 40% di quelle petrolifere, diventa così, secondo gli analisti economici, il “miglior settore del prossimo secolo”, quello che consente, per giunta, i più ampi margini di crescita, visto che oggi solo il 5% della popolazione mondiale riceve acqua dalle corporations.

La prospettiva di consistenti profitti è alla base di vari progetti, ad alta intensità di capitale, ma anche ad alto rischio ambientale: processi di desalinizzazione, mega condutture, sistemi di canali, dighe e bacini artificiali in grado di convogliare l’acqua ad enormi distanze (ad esempio il NAWAPA, un mega canale che convoglierebbe le acque dell’Alaska fino allo Stato di Washington attraverso le Montagne Rocciose, creando un bacino artificiale della lunghezza di oltre 800 chilometri).

In ogni caso, i processi di privatizzazione delle risorse e di aumento delle tariffe rischiano di rappresentare, a loro volta, un nuovo fattore di tensione in paesi colpiti da gravi emergenze e catastrofi ambientali e da povertà[34].

 


La crisi in Darfur

Quadro di sintesi retrospettivo

Il conflitto del Darfur, in corso dal febbraio 2003, ha matrice economica (il possesso della terra) e tribale, connesso alla storica rivalità interetnica tra pastori arabi (prevalentemente) nomadi e agricoltori ed allevatori neri (prevalentemente) stanziali. Questi ultimi tradizionalmente marginalizzati dal governo sudanese (egemonizzato dai gruppi arabi). Diversamente da quanto accadde per la guerra civile sudanese (finita nel gennaio 2005 e durata quaranta anni), che ebbe una prevalente origine religiosa (in quanto vide contrapposti il nord musulmano e il sud cristiano e animista) nel Darfur la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana.

Si ricorda che tensioni – spesso sanguinose - fra popolazioni sedentarie e nomadi interessano l’intera fascia sudano-saheliana (dalla Mauritania, al Mali, fino al Sudan) e che conflitti per il possesso della terra – e quindi collegati da un lato alla desertificazione e ad altre forme di catastrofe ambientale e dall’altra ai grandi processi di esplosione demografica e urbanizzazione forzata - interessano numerose aree del continente africano (Zimbabwe, Costa d’Avorio, Sud Africa, Namibia), oltre ad avere interagito con altre cause (tribali o religiose) anche in altri grandi conflitti del recente passato (a partire dal Ruanda).

In Darfur, in particolare, quasi tutte le popolazioni non arabe sono fortemente interessate al mantenimento dei diritti tradizionali sulla terra, basati sul sistema dei dar (paesi o terre in arabo) e degli hawakir (territori). Contro tali diritti tradizionali si è iniziata a manifestare (ed imporre con la violenza, a partire dal 2003) una azione ostile delle popolazioni nomadi arabe. Questa azione è imperniata, quindi, sul disconoscimento dei diritti tradizionali e sul tentativo di stabilirsi su territori la cui proprietà era – su base consuetudinaria - riconosciuta ad altri.

In realtà sono ormai in atto da quattro anni in Darfur scontri molteplici, fra sedentari e nomadi, arabi ed africani, sudanesi e ciadiani, musulmani e non musulmani, con una componente quasi comune di volontà di sterminio della parte avversa (simile a quella manifestatasi nel Ruanda).

 

La ribellione sorta negli ultimi quattro anni è condotta principalmente dai gruppi ribelli dell'Esercito di Liberazione del Sudan (Sudan Liberation Movement/Army - SLM/A), del Movimento per la giustizia e l'equità (Justice and Equality Movement - JEM) e dal minoritario Movimento nazionale per la riforma e lo sviluppo  (Mnrd). Questi gruppi hanno iniziato a muoversi quando la trattativa sul conflitto fra Nord e Sud del Sudan (guerra civile sudanese) stava avviandosi verso una soluzione e minacciava di tagliarli fuori dai nuovi accordi che stavano conducendo ad un rifacimento dello Stato sudanese su base federale. La crisi si è sviluppata attraverso alterne vicende, e ha visto una reazione di Khartoum basata sull’armamento e sul sostegno – anche aereo - di gruppi nomadi del Nord, e quindi una progressiva intensificazione delle violenze perpetrate da tali gruppi (i pastori nomadi arabi, i famigerati “Janjaweed”, i “diavoli a cavallo”, responsabili di indiscriminati attacchi contro la popolazione civile e ormai non controllati completamente neanche dai loro mandanti).

E’ difficile calcolare esattamente le conseguenze della crisi: secondo alcune fonti (NU) essa avrebbe prodotto fino ad oggi circa 2,5 milioni di sfollati e rifugiati (in particolare nel Ciad, dove si conta circa mezzo milione di rifugiati), nonché tra le 180 e le 300 mila vittime; la maggior parte delle ONG stima invece un numero totale di morti vicino ai 400.000, su una popolazione di circa 6 milioni di persone.

 

Con la risoluzione n. 1564 del 2004, il Consiglio di Sicurezza ha espresso grave preoccupazione per la situazione in Darfur e ha prospettato la possibilità di prendere in considerazione l’adozione di sanzioni contro il Sudan, qualora il governo non ottemperasse alla richiesta di fornire sicurezza alla popolazione civile e di disarmare le milizie arabe responsabili delle violenze, assicurando i responsabili alla giustizia. La risoluzione ha inoltre istituito una Commissione con l’incarico di indagare sulla portata e la natura dei crimini commessi in Darfur, che gli Stati Uniti avevano espressamente qualificato in termini di genocidio.

Il governo sudanese, tuttavia, si è sempre opposto in questa fase all’ingresso di truppe ONU nel Darfur nonostante le richieste in tal senso della stessa Unione Africana.

Il 5 maggio 2006 ad Abuja è stato raggiunto un accordo (Darfur Peace Agreement - DPA) tra il Governo sudanese e l’ala maggioritaria del più importante dei movimenti ribelli del Darfur, l’SLM/A; in base all’intesa, il Governo di Khartoum dovrebbe procedere a disarmare le milizie janjaweed, mentre i guerriglieri del SLM/A – al cui disarmo provvederebbe il contingente dell’AMIS – sarebbero poi incorporati nell’esercito del Sudan. Il punto debole dell’accordo sta nel non esser stato siglato dagli altri due movimenti della guerriglia, e nel clima di perdurante violenza da parte dei janjaweed.

L’Accordo di maggio prevedeva, tra l’altro, l’istituzione di una Commissione per il cessate il fuoco, inaugurata nel giugno 2006, con il compito di favorire e monitorare le condizioni del cessate il fuoco.

Risale al periodo immediatamente successivo all’accordo una intensificazione delle pressioni dell’ONU e degli Stati Uniti per l’invio nel Darfur di caschi blu delle Nazioni Unite, a rilevare la presenza dell’Unione africana debole e male equipaggiata. Massacri di civili inermi, scontri dei ribelli con le truppe dell’UA, attacchi contro gli operatori umanitari delle Organizzazioni non governative (ONG), e nei confronti dei membri della missione ONU nel paese (UNMIS) non si sono mai interrotti.

Sostanzialmente, la questione sorta a seguito della conclamata insufficienza dell’accordo del maggio 2006 e del perdurare dei massacri perpetrati dai janjaweed è quella di un invio di una forza ONU consistente e dell’opposizione a tale invio da parte del governo sudanese (sostenuto dalla Lega araba).

Tuttavia, un grosso elemento di incertezza è dato dalla oggettiva difficoltà e improbabilità di un forte impegno internazionale, in un momento in cui altri scenari (Iraq, Afghanistan) appaiono assorbire risorse economiche e militari (statunitensi e di altri attori internazionali) in misura così rilevante.

 

Si sottolinea, comunque, che anche la pressione delle NU (e degli Stati Uniti) sul governo sudanese incontra un limite nei rischi che un collasso di tale governo potrebbe provocare nell’intera area, con effetti di anarchia (vista la complessità e la litigiosità del panorama politico sudanese) e di destabilizzazione completa di una regione geopoliticamente delicatissima, in quanto cerniera fra mondo arabo e mondo africano. Inoltre, non bisogna dimenticare che la classe di governo sudanese, con una svolta netta – tra il 1996 e il 1998 – riuscì a liberarsi  dal terrorismo islamico (che fino a quegli anni era stato influentissimo in tutte le strutture di quello stato) e ad espellere lo stesso Bin Laden che vi era giunto nel 1991, invitato da al-Turabi). La preoccupazione principale per gli Stati Uniti sembra oggi essere quella di evitare una nuova perdita di controllo del governo sudanese e una ricaduta di quest’ultimo sotto l’influenza del fondamentalismo.

Gli sviluppi successivi all’Accordo di Abuja e il problema delle sanzioni contro il Sudan

Il 31 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato la risoluzione 1706 che prevede l'invio di una forza internazionale di pace nella provincia del Darfur in Sudan. La risoluzione precisa che le truppe (fino a 22.500 uomini) non saranno dislocate senza un esplicito assenso da parte del governo di Khartoum. Hanno votato a favore 12 paesi, mentre tre paesi (Russia, Cina e Qatar) si sono astenuti. Anche se la risoluzione non necessita dell'autorizzazione del governo sudanese, il dispiegamento  delle truppe delle Nazioni Unite non è di fatto praticabile senza il consenso dello stato africano.

Al vertice di Addis Abeba del 16 novembre 2006, organizzato dall’ONU, hanno preso parte i rappresentanti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, l’UE, l’UA (che a sua volta ha invitato Libia, Nigeria, Ruanda, Senegal e Sudafrica), la Lega Araba, l’Egitto e il Gabon. Tutte le parti presenti hanno convenuto – in linea di principio – sulla ipotesi della forza ONU, ma non sono state superate alcune divergenze riguardanti le dimensioni e la natura della missione. In quella occasione il governo sudanese si è attestato su una posizione contraria ad una forza ONU superiore alle 11/12.000 unità e a composizione esclusivamente (o almeno prevalentemente) africana; dissenso da parte sudanese è stato anche espresso sulla ipotesi dell’invio di una forza di 3.000 uomini con funzioni di polizia.

La questione del Darfur è stata affrontata anche nel corso dell'VIII Vertice dell'Unione africana  che si è svolto ad Addis Abeba il 29 e 30 gennaio 2007. In quell’occasione il segretario generale dell’ONU ha ribadito l’urgenza e la necessità del dispiegamento di una forza ONU sul territorio, mentre da più parti si è manifestata la preoccupazione per le ripercussioni che il conflitto interno stanno avendo sugli stati confinanti (Ciad e e Repubblica Centroafricana). Nel vertice del gennaio 2007 il presidente sudanese Bashir si era impegnato ad accettare l'invio di caschi blu in tre fasi, e il loro affiancamento alla  forza di pace di 7.000 uomini dell'UA.

Nonostante la presidenza dell’UA dovesse spettare già da un anno al Sudan, proprio a causa del conflitto nel Darfur il Vertice di Addis Abeba ha deciso di eleggere John Kufuor (presidente del Ghana) nuovo presidente dell’organizzazione.

In un rapporto sulla situazione in Ciad del 23 febbraio 2007, il segretario generale dell'ONU  raccomanda il dispiegamento nel Ciad orientale e nel nordest della Repubblica centrafricana di una forza internazionale da 6.000 a 11.000 uomini per proteggere i civili coinvolti nel conflitto nel Darfur: la gran parte dei due milioni di persone fuggite dal Darfur, infatti, si è rifugiata proprio nel Ciad oggetto, a partire dal febbraio 2006, di sanguinose incursioni dei janjaweed a danno non solo dei rifugiati, ma anche gli abitanti del Ciad appartenenti alle medesime etnie dei rifugiati.

 Il rapporto dell’ONU proponeva due opzioni possibili per la ''forza multidimensionale'', che sarebbe stata costituita sia da una componente politica, incaricata soprattutto di facilitare il dialogo politico nei Paesi interessati, che da una componente militare. Secondo la prima opzione, la componente militare sarebbe consistita in circa 6.000 caschi blu fortemente equipaggiati di mezzi aerei per ricognizione e intervento, elicotteri in primo luogo. La seconda opzione, caldeggiata da Ban Ki-moon, prevedeva invece una forza di terra di circa 10.900 uomini, nel caso si fosse rivelato impossibile ottenere dai Paesi fornitori i mezzi aerei necessari per la prima.  In entrambi i casi la componente militare della forza avrebbe avuto base a Ndjamena, la capitale del Ciad.

In quell’occasione, tuttavia, anche il Ciad faceva sapere in un comunicato ufficiale che avrebbe rifiutato il dispiegamento di una forza militare dell'Onu sul suo territorio alla frontiera con il Sudan; sarebbe stato invece favorevole ad un intervento di forze civili composte di gendarmi e poliziotti che garantissero la sicurezza dei campi profughi sudanesi, degli sfollati e degli operatori umanitari.

Il 12 marzo 2007 sono state presentate a Ginevra le conclusioni dell’indagine compiuta dalla squadra di esperti nominata dal Consiglio per i diritti umani delle NU e guidata dal Premio Nobel per la pace Jody Williams.

Nel rapporto si afferma, fra l’altro, che “La comunità internazionale ha l'obbligo di proteggere i civili del Darfur dai crimini di guerra e contro l'umanità che continuano ad essere commessi nella regione sudanese con la partecipazione del governo di Khartoum”.

Il documento rappresenta un grave atto di accusa contro il governo sudanese, accusato non solo di avere “orchestrato e partecipato” ai gravi crimini commessi, ma anche di non avere alcuna intenzione di collaborare con le NU

Nel mese di aprile si è verificato un riacutizzarsi della crisi tra il Sudan e il Ciad. Le autorità del Ciad hanno  ammesso lo sconfinamento di reparti dell’esercito in Darfur per inseguire un gruppo di ribelli che avevano compiuto una serie di razzie in Ciad. Inoltre, il ministro per le comunicazioni Moussa Doumgor ha accusato le forze sudanesi di essere intervenute a protezione delle retroguardie dei ribelli del Cnt (Concordia nazionale del Ciad). Le autorità sudanesi sostengono invece di avere respinto un attacco nel Darfur occidentale: negli scontri, secondo un portavoce, ci sarebbero state ingenti perdite tra i civili. L’episodio ha rimesso in discussione gli accordi per la pacificazione della frontiera comune raggiunti, oltre ad aggiungere un ulteriore elemento destabilizzante alla crisi del Darfur.

Il rifiuto del Sudan di accettare sul proprio territorio la forza di pace autorizzata dall’ONU per affrontare la crisi del Darfur, ha sollevato da più parti la richiesta di sanzioni nei confronti di quel paese.

Il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha reso noto, il 21 marzo 2007, che gli Stati Uniti stanno esercitando pressioni su altri paesi affinché si raggiunga un consenso per l’applicazione di sanzioni contro il governo di Khartoum. Tuttavia, poiché alcuni membri dell’Onu - la Cina, in particolare, che un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell' Onu, quindi con diritto di veto – si sono dichiarati indisponibili ad approvare tali sanzioni, gli USA hanno affermato di essere disponibili ad intraprendere iniziative unilaterali.

Parallelamente all’adozione di misure sanzionatorie, l’allora primo ministro britannico Tony Blair ha chiesto all’ONU, il 28 marzo, che venisse creata una no-fly zone nei cieli del Darfur per mettere fine ai raid dell'aviazione sudanese contro le forze ribelli, che però colpiscono soprattutto la popolazione civile.

La Cina, che è tra i primi acquirenti del petrolio sudanese, si è ripetutamente dichiarata sfavorevole alla richiesta di sanzioni contro il Sudan. L’11 aprile il viceministro degli esteri cinese Zhai Jun, al rientro da un breve viaggio in Sudan  ha dichiarato di aver invitato con forza il governo di quel Paese a mostrare maggiore flessibilità riguardo la crisi del Darfur ma che è prematuro parlare di sanzioni. 

Nuove pressioni sul governo sudanese affinché accetti la forza di pace ONU in Darfur sono state effettuate da John Negroponte, il Vice segretario di Stato americano che, il 13 aprile, si è recato in viaggio a Khartoum. Sotto la forte pressione degli Usa e dell'Onu, il Sudan sembra avere accettato delle limitate aperture. La concessione, annunciata il 16 aprile, riguarda la cosiddetta “fase 2” del dispiegamento delle forze Onu: verrebbero accettate solo  3.000 presenze tra soldati, polizia e logistica, e l'arrivo di elicotteri da combattimento, mentre il piano delle Nazioni Unite prevedeva – come si è visto - il dispiegamento di un numero superiore di uomini.

Nonostante queste aperture, USA e Gran Bretagna sono tornate ad agitare la minaccia di sanzioni. Russia, Cina, Sud Africa  e altri paesi – fra i quali l’Egitto – hanno invece di recente sostenuto la loro contrarietà. In particolare, il Ministro degli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit, in visita a Khartoum il 23 aprile insieme al capo dei servizi di intelligence, Omar Suleimane, ha dichiarato che "Sarebbe più logico che la comunità internazionale accogliesse con favore e incoraggiasse il Sudan per la sua risposta positiva alla seconda fase del sostegno dell'Onu alla missione dell'Unione Africana (UA) in Darfur, invece di minacciare pressioni o sollevare dubbi sulla serietà della cooperazione del governo sudanese".

La questione del Darfur sembra comunque acquistare progressivamente rilievo nell’opinione pubblica mondiale: il 29 aprile, in una trentina di capitali, si sono svolte manifestazioni organizzate da varie Organizzazioni non governative, e con ampia adesione di noti esponenti del mondo dello spettacolo e del cinema.

Inoltre, l’8 maggio una denuncia di Amnesty International ha colpito Cina e Russia, che, nonostante l’embargo decretato contro il Sudan dalle Nazioni Unite, rifornirebbero il Paese africano di armi e munizioni, che il governo di Khartoum utilizzerebbe contro la popolazione del Darfur.

Si ricorda da ultimo che con la risoluzione n. 1755 del 30 aprile 2007 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prolungato il mandato della missione UNMIS fino al 31 ottobre 2007.

 

 

 

Il vertice del G8

 

Dal 6 all’8 giugno si è svolto ad Heiligendamm, in Germania, il vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi del G8.

I paesi del G8 si sono detti ''vivamente preoccupati'' per la grave situazione umanitaria nella regione sudanese del Darfur ed hanno espresso il pieno appoggio agli sforzi degli inviati di Nazioni Unite e Unione Africana finalizzati ad una ripresa dei negoziati per un accordo politico, rilevando peraltro come non esista una “soluzione militare al conflitto in Darfur”. I paesi del G8 hanno quindi invitato il governo sudanese a dare la sua approvazione a una missione di pace internazionale al fine di favorire una soluzione della crisi, sottolineando che se il governo sudanese o i movimenti dei ribelli dovessero continuare a disattendere i loro impegni, i paesi G8 appoggerebbero le misure che verranno adottate dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Durante il G8 il Presidente Sarkozy ha convocato per il 25 giugno a Parigi una Conferenza ministeriale per cercare una soluzione politica alla crisi del Darfur e per affrontare le urgenti questioni umanitarie connesse.

Nel corso della precedente riunione dei ministri degli esteri del G8 (Posdam, 30 maggio), il Ministro francese Kouchner aveva lanciato la proposta, sostenuta dal Ministro D’Alema, di aprire un corridoio umanitario a partire dal Ciad per far pervenire gli aiuti ai profughi del Darfur: il flusso dei profughi continua infatti ininterrotto anche verso la Repubblica Centrafricana dove, stando ai dati forniti il 12 giugno dall’Ufficio dell’ONU per i rifugiati (UNHCR), a partire dalla fine di maggio si calcola che più di 2650 persone abbiano lasciato il sud del Darfur per sfuggire ai ripetuti attacchi da parte di militari e bombardamenti aerei sulla città di Dafak e sui villaggi circostanti.

La “forza ibrida”

Il 25 maggio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha chiesto l’attuazione immediata della relazione congiunta ONU-UA che definisce il mandato e la struttura di una forza “ibrida” di peacekeeping  che affiancherebbe ai settemila soldati dell’Unione africana, circa 3000 uomini dell’ONU, tra soldati, poliziotti ed intendenza. La nuova missione costituirebbe la terza fase del processo avviato dal’Onu a sostegno della missione dell’UA in Darfur (AMIS) che, in precedenza, aveva fornito medicinali ed equipaggiamenti sanitari e aveva altresì svolto un ruolo di fondamentale importanza nella diffusione, a livello mondiale, delle notizie circa il dramma che sta vivendo la regione.

 

In seguito alla revisione del rapporto congiunto tra ONU e UA riguardante la “forza ibrida”, e alla forte pressione internazionale, il governo sudanese ha accettato, il 12 giugno, lo spiegamento di una forza internazionale che, nei limiti del possibile, sarà composta in prevalenza da truppe africane.

ONU, UA e Governo sudanese hanno infine concordato sulla necessità di un immediato cessate il fuoco, accompagnato da un processo politico globale e da un aumento dei contributi da parte dei paesi che forniscono le truppe e dei paesi donatori, per consentire un veloce dispiegamento della “forza ibrida”.

 

Si ricorda che durante la recente missione del Consiglio di Sicurezza nella regione, il Segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon ha attribuito al cambiamento climatico provocato dall'effetto serra le ragioni profonde del genocidio nella regione del Darfur. ''Normalmente discutiamo di Darfur usando una comoda interpretazione politica e militare, parlando di un conflitto etnico tra milizie arabe e contadini ribelli neri'', ha dichiarato in una intervista al Washington Post: ''Se però indaghiamo sulle radici degli scontri, scopriremo dinamiche più complesse''. Secondo il Segretario generale, il genocidio del Darfur è cominciato come una ''crisi ecologica'', dovuta, almeno in parte, al cambiamento climatico. Dal 1980 ad oggi le precipitazioni nella regione sono diminuite infatti del 40%. Secondo diversi scienziati, questo fenomeno è imputabile al riscaldamento del pianeta. ''Non a caso il conflitto del Darfur è esploso durante la siccità della regione subsahariana'', ha ancora sottolineato Ban Ki Moon: ''Per la prima volta non c'era abbastanza cibo e acqua per tutti:  sono così cominciati i primi scontri, che si sono trasformati nella tragedia che stiamo osservando''.

Secondo il Segretario generale, anche se la forza di pace ''aiuterà a moderare le violenze e a mantenere il flusso di aiuti umanitari verso la regione'', ''bisogna trovare una soluzione che vada alle radici del conflitto”, ed in questo quadro il problema fondamentale sembra essere il fatto che nella regione si registra una crescente scarsità di terreno fertile.

 

Il 25 giugno si è svolta a Parigi la riunione ministeriale del Gruppo di Contatto (decisa a margine del G 8, v. supra) allargato sul Sudan, che tuttavia ha rinunciato a partecipare. I temi della Conferenza - che si è svolta all’indomani dell’assenso da parte sudanese al dispiegamento di una "forza ibrida" dell’Unione Africana (UA) e delle Nazioni Unite – sono stati: l’avvio di un processo negoziale tra Governo e fazioni ribelli sulla base dell’iniziativa di pace congiunta condotta dall’UA e dall’ONU; il versante della sicurezza, con particolare riguardo all’esigenza di rafforzare l’attuale forza di pace dell’Unione Africana (AMIS) - il cui mandato è prossimo alla scadenza - per consentire la transizione alla forza ibrida delle ONU-UA; l’esigenza di assicurare l’accesso degli aiuti umanitari alle popolazioni della regione.

Alla riunione, fortemente voluta dal Presidente francese Sarkozy e dal suo ministro degli esteri Kouchner, hanno partecipato, oltre ai rappresentati dell’ONU, della Banca Mondiale e dell’Unione europea, numerosi Stati, fra i quali USA, Canada, Cina (che ha ribadito la propria contrarietà ad eventuali sanzioni), Russia, Giappone, Regno Unito, Italia, Germania e Svezia. Come già osservato, era assente il Sudan, che ha fatto sapere di giudicare “inopportuno” l’incontro del gruppo e di temere che altre iniziative al di fuori dall'Onu possano "disperdere gli sforzi di pace". C’è da segnalare, tuttavia, che, dopo l’atteggiamento di sospetto e il rifiuto a partecipare, il governo del Sudan ha accolto con favore i risultati della conferenza di Parigi, dichiarando che le decisioni assunte in quella sede potranno essere di sostegno agli sforzi dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite per risolvere la crisi nel Darfur.

Nel corso della riunione del gruppo di contatto, il Commissario europeo Louis Michel  ha annunciato l’impegno dell’Unione europea a contribuire sul piano finanziario con altri 71 milioni di euro, in aggiunta ai 460 già versati nel 2004. Nel dichiararsi soddisfatto per il risultato della riunione, il ministro D’Alema ha fatto sapere che l’Italia parteciperà all’operazione con il solo invio di un contributo finanziario.

Una seconda riunione del gruppo ministeriale di contatto è prevista per il prossimo settembre a New York.

 

Dal 1° al 4 luglio si è svolto ad Accra (Ghana) il Vertice dei capi di Stato dell’Unione Africana, che aveva all’ordine del giorno la discussione sui conflitti in  Darfur e in Somalia, oltre alla creazione degli Stati Uniti d'Africa obiettivo da anni del leader libico Muammar Gheddafi. Riguardo al Darfur, di cui si è parlato soprattutto nella prima giornata - nonostante l’assenza del presidente sudanese Omar el-Beshir - si registra l’impegno del segretario generale della Lega Araba Amr Moussa a cercare nuovi aiuti per la forza di pace dell'UA già presente nel territorio, in attesa dell’arrivo delle truppe dell'ONU.

Contestualmente, il presidente Beshir, a proposito dell'invio della forza ibrida nella regione del Darfur, ha ribadito che essa dovrà essere composta in prevalenza da truppe africane, avvertendo che il Sudan si opporrà con forza agli eventuali tentativi di imporre forze internazionali o occidentali ed evocando – in questo caso - uno scenario simile a quello iracheno. Inoltre, in risposta al suggerimento di alcune ONG, Bashir ha avvertito l’Occidente che il suo paese non sarà mai disposto ad accettare programmi umanitari sul tipo di quello “Oil for Food” applicato dalle Nazioni Unite all'Iraq dopo la Guerra del Golfo del 1990.

 

Recenti sviluppi

 

Il 15 e 16 luglio si è svolta in Libia la Conferenza internazionale sul Darfur, convocata e presieduta congiuntamente dall'Onu e dall'Unione africana. La Conferenza ha esaminato una Road map finalizzata a concentrare gli sforzi diplomatici in una unica iniziativa che trovi una soluzione politica al conflitto. Alla Conferenza, che si è chiusa in un clima di moderato ottimismo, hanno preso parte i rappresentanti di 18 paesi (fra i quali Sudan, Libia, Ciad, Egitto, Eritrea, Canada, Paesi Bassi, Norvegia e i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu, oltre a Unione Europea e Lega araba.

Purtroppo, già il 23 luglio, pochi giorni dopo la chiusura della Conferenza, il Sudan opponeva un rifiuto all’arrivo in Darfur della forza ibrida (denominata UNAMID), mentre il Consiglio di sicurezza approvava la Risoluzione n. 1769 (presentata dalla Gran Bretagna e fortemente sostenuta, fra gli altri, anche dall’Italia) favorevole all’invio immediato della forza.

Anche in occasione della recente (13-14 settembre) visita del presidente sudanese El Bashir a Roma – visita peraltro criticata da Amnesty International – le dichiarazioni ufficiali degli esponenti sudanesi non hanno consentito di chiarire defin itivamente la posizione di Karthoum. 

 


Kosovo: gli sviluppi più recenti

Dopo circa un anno di negoziati tra Pristina e Belgrado, il 3 aprile 2007 il mediatore Onu Martti Ahtisaari ha presentato ufficialmente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la propria proposta sullo status del Kosovo. Essa prefigura una sorta di “indipendenza sorvegliata” dalla presenza internazionale, in cui alla minoranza serba è riconosciuta ampia autonomia. Tra le prime reazioni, numerosi membri del Consiglio hanno espresso perplessità e la Russia ha richiesto che l'intero Consiglio si recasse in Kosovo e Serbia, missione che è stata compiuta dal 25 al 28 aprile 2007.

Da allora, sulla questione sono andati profilandosi tre schieramenti.

Da una parte gli Stati Uniti e le autorità kosovare, che sostengono l'opzione indipendenza, da raggiungere in tempi brevi. Poi l'Unione Europea che, seppur con alcune incertezze di alcuni dei Paesi membri (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia), sostiene il piano Ahtisaari, ma è pronta a compromessi e certamente non vuole rischiare il salto nel vuoto che deriverebbe da tempi troppo affrettati. Infine, un terzo schieramento è rappresentato in particolare da Serbia e Russia (assieme alla Cina), che vorrebbero per il Kosovo una forte autonomia, ma non l'indipendenza.

Dopo ulteriori consultazioni, il 31 maggio i paesi europei (Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia, Belgio e Slovacchia) assieme  gli Stati Uniti, hanno presentato al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione modificata che propone l'indipendenza del Kosovo sotto supervisione internazionale.

Il provvedimento recepisce nella sostanza le indicazioni contenute nel rapporto dell'inviato speciale dell'Onu per la regione a maggioranza albanese, limitandosi peraltro a manifestare "sostegno" anziché il pieno "accoglimento" formulato nella versione originaria; inoltre "chiede" la "piena attuazione" dei parametri relativi al rispetto delle regole democratiche, fissati da Ahtisaari, invece di "sottolineare" esplicitamente "l'importanza dell'adempimento" da parte kosovara degli obblighi previsti dal piano. Il progetto di risoluzione comporta, inoltre, diverse modifiche minori e tenta di tener conto del desiderio della Russia che il Kosovo conservi il suo carattere multietnico. In compenso, non contiene la proposta russa di nuovi negoziati tra la maggioranza albanese della provincia e la minoranza serba.

Alleata tradizionale della Serbia, la Russia ha immediatamente respinto la proposta, minacciando nel contempo di utilizzare il suo diritto di veto.

“L'introduzione di una versione aggiornata del testo non ha cambiato niente di quel che ci concerne”; occorre riflettere continuamente per trovare una soluzione accettabile da entrambe le parti per l'avvenire del Kosovo" ha dichiarato l'ambasciatore russo all'Onu, Vitaly Churkin. Interpellato sull'atteggiamento della Russia nel caso il testo fosse sottoposto al voto, Churkin ha quindi lasciato chiaramente intendere che Mosca utilizzerebbe il suo diritto di veto: "in queste circostanze, sfortunatamente, il risultato sarebbe evidente" ha detto, invocando un radicale cambiamento di linea: "invece di recepire il pacchetto del signor Ahtisaari, che non è stato concordato dalle parti, dovremmo incoraggiare ulteriori negoziati tra gli interessati". L'ambasciatore russo ha tuttavia affermato che Mosca sarebbe favorevole "al trasferimento della responsabilita' dall'Onu", oggi tutore del Kosovo, "all'Unione europea, ma sempre nel quadro dell'attuale status".

Nel mese di maggio 2007 gli Stati Uniti e alcuni paesi Ue che siedono nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu hanno nuovamente discusso una bozza di risoluzione che concederebbe a kosovari e serbi quattro mesi per raggiungere un accordo prima di sancire l'indipendenza di Pristina sotto supervisione internazionale. È un testo che ricalca le proposte lanciate dal presidente francese Nicolas Sarkozy ad aprile in occasione del G8.

Nel mese di luglio la Russia ha esplicitamente minacciato di porre il veto in Consiglio di sicurezza impedendo con questa mossa la presentazione della nuova risoluzione sullo status della regione. La situazione è quindi tornata nelle mani dei negoziatori del Gruppo di contatto. Si ricorda che ne fanno parte UE, Russia, USA, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia.

La riunione del Gruppo di contatto è stata preceduta, il 23 luglio, dal Consiglio dei ministri degli Esteri della UE che, riguardo al Kosovo, ha auspicato che il processo di negoziazione continui per 120 giorni con la seria e fattiva partecipazione di Belgrado e Pristina. Nonostante la bocciatura del Piano Ahtisaari causata dalla fermissima opposizione della Russia,  il commissario europeo per  l'allargamento, Olli Rehn, ha dichiarato che esso deve continuare ad essere il punto di partenza per ogni successiva proposta. Ma la Russia ha ribadito (24 luglio) che  la risoluzione Onu 1244 sullo statuto provvisorio del Kosovo resta in vigore e il piano Ahtisaari non può essere assunto come base per la discussione del gruppo di contatto. Intanto Ahtisaari, si è dimesso il 25 luglio dal proprio incarico dichiarando che il proprio lavoro è terminato e che non continuerà ad esercitare i suoi buoni uffici in caso di irrigidimento di una delle due parti.

Il Gruppo di contatto si è riunito a porte chiuse a Vienna – nella sede dell’ambasciata tedesca - il 25 luglio. Nella riunione si è decisa la costituzione della troika negoziale (UE, USA e Russia) ma non si è riusciti a raggiungere un accordo nemmeno sulla durata dei negoziati. I delegati europei proponevano 120 giorni, mentre la Russia si è detta contraria a qualsiasi scadenza temporale. Il Gruppo di contatto spera di definire la prossima settima le modalità dei nuovi negoziati sullo status del Kosovo.

 

Si ricorda – da ultimo – che un nuovo round negoziale si è svolto a Vienna alla fine di agosto. Ma le posizioni delle due delegazioni serba e albanese sono apparse ancora non conciliabili. In parallelo si è riunita la troika negoziale.

Una chiara percezione delle difficoltà presenti e della delicatezza della questione per l’Europa è emersa anche nella riunione informale UE esteri (Vienna, 7-8 settembre). Questa preoccupazione è anche accresciuta dalla difficoltà dell’UE a raggiungere prima di tutto al suo interno una posizione chiara e condivisa che consenta all’Europa di dialogare con USA e Russia su un terreno di parità. Su tale difficoltà ha fatto leva il primo ministro serbo, Kustunica che ancora di recente (12 settembre) ha fatto appello all’UE affinché non si compatti su una posizione sbilanciata a favore della componente albanese incoraggiando in tal modo una rischiosissima dichiarazione unilaterale di indipendenza.


La cooperazione parlamentare in ambito ONU
(
a cura del Servizio Rapporti internazionali)

 

La delegazione parlamentare italiana alle sessioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite è la principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo, composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. La sessione annuale ordinaria dell’Assemblea inizia il terzo martedì di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre e vi partecipano, invitate,in qualità di osservatori, delegazioni parlamentari degli Stati membri.

Nel corso della XIV e della XV legislatura, una delegazione parlamentare di componenti della Commissione Affari esteri si è recata a New York per ciascuna delle sessioni annuali, in concomitanza con la settimana ministeriale:

 

 

La partecipazione parlamentare alle principali Conferenze ONU

L'agenda delle Nazioni Unite non si esaurisce con l'attività istituzionale dei suoi organi e con le attività poste in essere dalle Agenzie e dagli altri organismi che vi fanno capo, ma, sotto l’egida dell'ONU, vengono organizzati Summit, Conferenze e altre iniziative volte a migliorare le legislazioni mondiali, tramite l'adozione di Convenzioni, e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulle questioni più delicate che l'ONU ha in agenda.

Il Parlamento italiano ha attribuito particolare rilevanza alle tematiche a carattere ambientale cui fanno riferimento diverse conferenze relative alla applicazione delle Convenzioni Quadro delle Nazioni Unite. Nel corso della XIV e della XV legislatura delegazioni della Camera dei Deputati hanno regolarmente partecipato alle Sessioni annuali della Conferenza delle Parti (COP) relativa alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (UNFCCC), che ha il compito di promuovere e controllare periodicamente l'applicazione della relativa Convenzione:

 

·         VI COP  Bonn, 18-21 luglio 2001

·         VII COP, Marrakech, 7-9 novembre 2001

·         VIII COP, Nuova Delhi, 30 ottobre-1° novembre 2002

·         IX COP, Milano, 10 -12 dicembre 2003

·         X COP, Buenos Aires, 13-18 dicembre 2004

·         XI COP, Montreal, 7-9 dicembre 2005

·         XII COP, Nairobi, 14 – 17 novembre 2006, cui ha partecipato per la Camera dei deputati l’on. Francesco Stradella (Forza Italia).

 

L’accordo finale raggiunto a Nairobi prevede che i Paesi aderenti al Protocollo di Kyoto dovranno approvare, entro il 2008, le nuove regole per il cosiddetto “Kyoto 2”, destinate a contenere le emissioni di gas serra a partire dal 1° gennaio 2013. L'intesa consentirà ad ogni Stato aderente di disporre del tempo necessario per approfondire gli aspetti tecnici e, soprattutto, per giungere a ratificare entro il 2012 le nuove misure decise per contenere il livello di inquinamento, fase in cui entreranno nel Protocollo anche Cina, India, Brasile, Sud Africa e Messico. Tuttavia, si è registrata la rinnovata impossibilità di giungere al momento al coinvolgimento diretto dei Paesi che non hanno ancora firmato il protocollo di Kyoto e che sono, peraltro, tra i maggiori produttori di gas ad “effetto serra”, come Cina, Stati Uniti, Australia, Corea e Brasile.

 

Tradizionalmente la Camera dei deputati partecipa alle riunioni della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (CSW) ed all’evento parlamentare che viene organizzato dalla Divisione delle Nazioni Unite per l’avanzamento delle donne e dall’Unione interparlamentare nel corso della riunione della Commissione. Il tema della 51ma Sessione della CSW, tenutasi a New York dal 29 febbraio al 9 marzo 2007, è stato “L’eliminazione di tutte le forme di violenza e discriminazione nei confronti delle bambine”. Il Presidente Bertinotti aveva investito della questione il Presidente del Comitato pari opportunità, Titti De Simone, ma per concomitanti impegni parlamentari non è stato possibile designare alcun parlamentare.

L’evento parlamentare, che si è svolto il 1° marzo, è stato dedicato al ruolo dei Parlamenti nella lotta alla discriminazione e alla violenza nei confronti delle bambine. Ai lavori ha partecipato l’on. Angela Napoli (AN).

 

 

Incontri bilaterali in ambito ONU

La cooperazione parlamentare in ambito ONU si è avvalsa in ripetute occasioni degli incontri tra gli Organi della Camera e i massimi rappresentanti dell’Organizzazione.

Il 18 aprile 2007 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha effettuato una visita ufficiale in Italia. In tale occasione ha incontrato il Presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti, nonché le Commissioni Affari esteri della Camera e del Senato riunite. Nel corso degli incontri ci si è soffermati sulla necessità di rafforzare le Nazioni Unite e di realizzare tale risultato mediante il consenso. Il Segretario Generale dell’ONU si è dichiarato favorevole alla proposta italiana per una moratoria della pena di morte ed ha anche osservato come vada crescendo nella comunità mondiale la tendenza a procedere all’abolizione delle pene capitali.

Il 27 febbraio 2007 il Presidente della 61ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, Haya Al Khalifa, ha effettuato una visita ufficiale in Italia. In tale occasione ha incontrato il Presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti, nonché  l’Ufficio di Presidenza della Commissione Affari esteri della Camera, integrato dai rappresentanti dei Gruppi. Quindi, la Presidente Al Khalifa ha incontrato il Presidente dell’Unione interparlamentare, Pier Ferdinando Casini. Nella stessa occasione il Presidente Al Khalifa ha partecipato, presso la Fondazione della Camera dei deputati, ad una conferenza sul tema “Verso una cultura dell’eguaglianza di genere nel XXI secolo”.

L’11 ottobre 2006 gli Uffici di Presidenza, integrati dai rappresentanti dei Gruppi, delle Commissioni Affari costituzionali (I) e Affari esteri (III) della Camera dei deputati, hanno incontrato Doudou Diène, Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, di discriminazione razziale, di xenofobia e relative intolleranze.

Lo scorso 12 luglio 2006 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha incontrato il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, il Presidente dell’Unione interparlamentare Pier Ferdinando Casini e le Commissioni Esteri della Camera e del Senato.

Sempre il 12 luglio il Presidente della Commissione Affari esteri, Umberto Ranieri, ha incontrato Tom Koenings, Capo della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan.

 

* * *

Si segnala che la Commissione Affari esteri della Camera dei deputati, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle Istituzioni ed i processi di governo della globalizzazione, ha svolto le seguenti audizioni di personalità del sistema delle Nazioni Unite: il 17 ottobre 2006, Kemal Dervis, Amministratore del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), ed Evelyn Herfkens, Coordinatore esecutivo della Campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio; il 19 ottobre 2006, Arba Diallo, Direttore esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD). Si segnala, per completezza di informazione, che nell’ambito della medesima indagine conoscitiva sono stati altresì auditi: il 24 ottobre 2006, Pascal Lamy, Direttore esecutivo dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC); il 7 novembre 2006, James Morris, Direttore esecutivo del World Food Programme (WFP); il 7 dicembre 2006, Lennart Båge, Presidente dell'International Fund for Agricoltural Development (IFAD); il 22 febbraio 2007, Michel Angel Gurria, Segretario Generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE); il 5 luglio 2007, Antonio Maria Costa, Direttore esecutivo dell'United Nations Office on Drugs and Crime Control and Prevention (UNODCCP); il 17 luglio 2007, António Manuel de Oliveira Guterres, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Una delegazione dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHCHR), guidata da Orest Nowosad, Coordinatore del Dipartimento Istituzioni Nazionali, ha incontrato il 4 dicembre 2006 gli onn. Violante, de Zulueta e Marcenaro in occasione del Seminario sull'Istituzione di un Organismo nazionale indipendente di promozione e tutela dei diritti umani svoltosi alla Camera dei deputati, Sala del Refettorio, il 5 dicembre 2006.


Ministero degli Affari esteri  -  Partecipazione della delegazione parlamentare al dibattito generale della 62^ sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite

 

 

 


DIREZIONE GENERALE

PER GLI AFFARI POLITICI MULTILATERALI

ED I DIRITTI UMANI

 

 

 

 

Partecipazione della delegazione parlamentare al dibattito generale della 62^ sessione dell’assemblea generale delle nazioni unite

(New York, settembre 2007)

 

 

 

 

 

 


Quadro di sintesi e scenario

 

La 62ma sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si apre in una fase di rilancio del multilateralismo e del ruolo delle Nazioni Unite. L’Organizzazione societaria è chiamata a dimostrare la propria capacità di fronteggiare efficacemente le sfide del nostro tempo nel campo della pace, dello sviluppo, della tutela e promozione dei diritti umani. Mentre nell’anno passato fu lanciata la maggiore operazione di Caschi Blu in Medio Oriente con il consistente rafforzamento di UNIFIL, nelle scorse settimane è stata autorizzata una imponente operazione mista ONU-Unione Africana – oltre 26.000 unità – per contribuire alla sicurezza del Darfur. Il Consiglio di Sicurezza si appresta ad esaminare un’altra rilevante missione di pace in Ciad e Repubblica Centrafricana, inizialmente condotta dall’Unione Europea cui subentreranno le stesse Nazioni Unite.

 

Questo crescente ricorso alle Nazioni Unite è sicuramente il segno di un’inversione di rotta da parte americana (tanto a livello dell’Amministrazione che del Congresso). Con il loro voto in Consiglio di Sicurezza e spesso con un ruolo politico attivo, gli Stati Uniti risultano determinanti per la significativa espansione delle operazioni di pace che hanno ormai raggiunto livelli senza precedenti nella storia dell’ONU (i Caschi Blu dovrebbero arrivare presto alle 100.000 unità, con un bilancio annuale nell’ordine di 7 miliardi di dollari rispetto ai circa 2 miliardi del 2002 quando i Caschi Blu non superavano le 48.000 unità). Il sempre maggiore numero di missioni e la loro crescente complessità ha inoltre reso improrogabile una ristrutturazione del Segretariato ONU, in particolare del suo Dipartimento per le Operazioni di Pace (DPKO), che è stata la prima iniziativa di riforma fatta propria dal nuovo Segretario Generale, Ban Ki-moon.

 

In tale quadro le Nazioni Unite sono chiamate a dare un rilevante contributo agli sforzi di pacificazione non solo in Sudan, ma anche in Afghanistan ed in Iraq. Per questi due Paesi si registra una tendenza ad un sempre maggiore coinvolgimento dell’ONU, sancito nelle risoluzioni che hanno rinnovato rispettivamente il mandato di UNAMA (Afghanistan) e UNAMI (Iraq). La “finestra di opportunità” apertasi per la questione israelo-palestinese vede le Nazioni Unite impegnate nel Quartetto, con un ruolo forse meno pronunciato rispetto al passato (nessuna risoluzione del CdS nel corso dell’ultimo anno, mentre l’ultimo veto USA risale al novembre 2006), ma che alla fine potrebbe rivelarsi più produttivo a sostegno degli sforzi di pace tra le parti interessate. Peraltro, le divergenti posizioni tra i membri più influenti del Consiglio di Sicurezza rischiano di indirizzare  altre importanti situazioni di crisi verso una gestione “al di fuori” del quadro societario: è il caso del Kossovo e potrebbe, in parte, essere quello dell’Iran, nell’ipotesi che il Consiglio non trovi un’intesa su ulteriori sanzioni.

 

L’evoluzione recente evidenzia un’altra rilevante caratteristica: l’intensificazione della collaborazione con le Organizzazioni regionali. Nel giugno scorso una missione del Consiglio di Sicurezza si è recata in vari Paesi africani, durante la quale il CdS ed il Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’UA hanno emesso un comunicato congiunto nel quale, fra l’altro, ci si impegna ad esaminare la questione del finanziamento delle operazioni di pace intraprese dall’UA sulla base del Capitolo VIII della Carta (si ricorda che la missione ibrida per il Darfur sarà finanziata sul bilancio del peacekeeping ONU).

 

L’Unione Europea diviene sempre più un attore chiave nel sostegno alle operazioni di pace. Quest’anno, durante il semestre di Presidenza tedesca dell’UE, è stata firmata una nuova Dichiarazione congiunta UE-ONU sulla gestione delle crisi sulla base di quella sottoscritta sotto Presidenza italiana nel 2003. Nel nuovo documento, oltre al rafforzamento dei meccanismi di coordinamento fra i rispettivi Segretariati già in atto, si prevedono anche forme di consultazioni politiche, in particolar modo sulle situazioni che possono formare oggetto di intervento congiunto, come è stato il caso nell’anno passato con la missione EUFOR Repubblica Democratica del Congo in sostegno alla missione ONU MONUC, o come sarà in futuro per la missione in Ciad, che inizierà come operazione PESD per poi passare a guida ONU dopo un anno.

 

Un altro sviluppo registrato in quest’ultimo anno riguarda il tentativo – per il momento con limitato successo – di portare le questioni dei diritti umani all’attenzione del Consiglio di Sicurezza (è stato il caso quest’anno con Myanmar, anche se un progetto di risoluzione è stato bloccato da un doppio veto russo-cinese). Si tratta di una scelta – degli Stati Uniti in primo luogo, sostenuti dai Paesi occidentali – dettata sia dalla consapevolezza del legame tra gravi violazioni dei diritti umani e minacce alla pace e alla sicurezza (si pensi al Darfur) sia dalla constatazione di un ancora insoddisfacente funzionamento del nuovo sistema ONU a tutela dei diritti umani, nato dopo il Vertice del 2005 con la costituzione di un nuovo organo, il Consiglio dei Diritti Umani.

 

* * *

 

La nostra presenza in Consiglio di Sicurezza per il biennio 2007-2008 ci sta consentendo di portare il nostro fattivo contributo ai tentativi di soluzione delle principali situazioni di crisi nell’agenda del Consiglio. Nella nostra veste di Paese “coordinatore” delle questioni Afghanistan in Consiglio, abbiamo predisposto le risoluzioni per il rinnovo del mandato di UNAMA a marzo e di ISAF nel corrente mese, cercando in entrambi i casi di porre un’enfasi sempre maggiore agli aspetti politico-civili della presenza internazionale in quel Paese. Per quanto riguarda il Libano, siamo stati co-autori della risoluzione che ha rinnovato il mandato di UNIFIL, ed abbiamo copatrocinato la risoluzione istitutiva del Tribunale Speciale. Per quanto riguarda l’Africa, abbiamo sostenuto la citata decisione di lanciare una forza ibrida per il Darfur e ci adoperiamo per far avanzare il processo politico nella crisi somala. Manteniamo altresì la Presidenza dei Comitati Sanzioni Sudan e Corea del Nord.

 

Si avvicina la nostra Presidenza di turno del CdS – prevista per il mese di dicembre 2007 – che rappresenterà un momento significativo per valorizzare le nostre priorità d’azione nel massimo foro societario.

 

Nel mese di ottobre si procederà altresì all’elezione dei nuovi membri non permanenti del CdS, con un prevedibile ingresso della Libia con la quale saremo chiamati a lavorare insieme principalmente sui temi africani e mediorientali. Si preannunciano inoltre accesi confronti elettorali nel Gruppo est-europeo tra Croazia (che sosteniamo sulla base di un accordo di reciproco sostegno a suo tempo concluso) e Repubblica Ceca, e nel Gruppo Latino-americano e caraibico, tra Costarica (che ugualmente sosteniamo sulla base di un accordo) e Repubblica Dominicana. Vietnam e Burkina Faso saranno gli altri due Paesi eletti sulla base di un clean slate.

 

* * *

 

Priorità per l’Italia in questa sessione dell’Assemblea Generale sarà il tema della pena di morte. Il 28 settembre si terrà un incontro a livello ministeriale al quale sono stati invitati tutti i Paesi firmatari della Dichiarazione sulla pena di morte del dicembre 2006 ed altri Paesi abolizionisti od in moratoria, nonché i Premi Nobel che hanno firmato l’appello di Nessuno Tocchi Caino. Nel frattempo un progetto di risoluzione verrà depositato in attesa di essere votato appena possibile in Terza Commissione. Il successo della nostra iniziativa dipenderà in larga misura dal grado di compattezza che i Paesi dell’Unione Europea ed i principali sostenitori di questa iniziativa nei vari gruppi regionali riusciranno a mantenere nelle settimane a venire, contrastando possibili emendamenti o contro-risoluzioni del campo avverso.

 

Questa sessione dell’Assemblea Generale sarà cruciale per un tema di assoluta importanza per l’Italia: la riforma del Consiglio di Sicurezza. Proprio in chiusura della 61ma Assemblea Generale, un gruppo di Paesi guidati da India, Sudafrica, Brasile e Nigeria ha presentato un nuovo progetto di “risoluzione quadro” sulla riforma del Consiglio di Sicurezza che contempla l’aumento dei membri permanenti e non permanenti. La risoluzione chiedeva al nuovo Presidente dell’Assemblea Generale di avviare immediatamente negoziati intergovernativi con l’obiettivo di concordare, preferibilmente entro la fine del 2007, una formula di riforma nel senso sopra indicato. Solo l’ultimo giorno utile il testo è stato ritirato a seguito di intensi negoziati che hanno portato ad un’intesa sul rapporto dell’Open Ended Working Group sulla riforma del CdS. La 62ma sessione dell’Assemblea Generale si preannuncia pertanto come un periodo rilevante per la prosecuzione dei dibattiti e soprattutto dei negoziati in materia. Una valenza particolare assume l’incontro con il Core Group del movimento Uniting for Consensus, previsto per il 27 settembre, che fornirà un’occasione significativa per fare il punto nella nuova fase che si è aperta e per concordare linee d’azione.

 

Fra le massime priorità di questa sessione dell’Assemblea Generale figurano senz’altro le questioni ambientali ed in particolare i cambiamenti climatici. Anche in ambito ONU si registra una sempre maggiore attenzione verso queste tematiche: il Presidente dell’Assemblea Generale ha proposto come filo conduttore del Dibattito Generale “Rispondere ai cambiamenti climatici”, e lo stesso Consiglio di Sicurezza aveva aperto la strada con una discussione sui problemi ambientali ed il loro nesso con la pace e la sicurezza nella riunione ministeriale sotto Presidenza britannica nell’aprile scorso. L’evento ad Alto Livello del 24 settembre contribuirà a rafforzare la consapevolezza sulla rilevanza di tali problematiche in vista della Conferenza sul Clima di Bali del dicembre prossimo, puntando alla definizione su scala mondiale di regole, politiche e strumenti, nel presupposto che le Nazioni Unite sono la sede naturale di questo percorso di rafforzamento della governance ambientale.

 

 


Il processo di riforma delle Nazioni Unite

 

Il processo di riforma dell’Organizzazione societaria e delle sue principali attività al fine di migliorarne il funzionamento e aumentarne l’efficacia d’azione è stato fortemente rilanciato dal Vertice ONU del 2005. Mentre risultati concreti si sono raggiunti nel campo delle attività di peace-building e dei diritti umani, importanti capitoli della riforma rimangono ancora aperti e richiederanno una continuazione degli sforzi anche durante la prossima Assemblea Generale.

Per l’Italia è strategicamente importante continuare a marcare che non resta sul tappeto la sola  riforma del Consiglio di Sicurezza, ma che sono invece ancora molti i volet di riforma delle Nazioni Unite su cui continuare a negoziare per rafforzare l’Organizzazione. E’ ugualmente importante continuare a sottolineare l’esigenza che le riforme avvengano in maniera consensuale, solo così infatti sarà garantito il successo della riforma stessa (come dimostrato nell’ultimo anno, la Commissione per il Consolidamento della Pace – istituita per consenso – sta già dando ottimi risultati; al contrario il Consiglio Diritti Umani – per la cui istituzione si è dovuto ricorre al voto – ha avuto un avvio molto complesso e oggetto di contestazioni).

Sia Ban ki Moon che il Presidente dell’assemblea Generale Kerim, nelle rispettive conferenze stampa del 18 settembre in occasione dell’apertura della nuova UNGA hanno indicato tra le proprie priorità  il proseguimento del processo di riforma; sarà quindi importante, nelle occasioni di incontro incoraggiare tale loro approccio.

 

Il primo e più importante filone di riforma ancora aperto è quello della rivitalizzazione dell’Assemblea Generale che, finora, non ha fatto segnare i progressi auspicati. Lo scorso agosto, infatti, è stata adottata una mera risoluzione procedurale che istituisce un apposito gruppo di lavoro per la 62esima sessione. Le difficoltà incontrate nelle discussioni tra Stati Membri non hanno consentito di adottare le proposte operative di rafforzamento dell'Assemblea Generale presentate soprattutto dal gruppo NAM/G77. In particolare, si continua a registrare una marcata ritrosia dei membri permanenti del CdS verso un esercizio volto ad ampliare e rendere più sostanziali le prerogative dell’Assemblea Generale come autentico foro di policy making e di indirizzo delle attività dell’Organizzazione.

 

 

Uno spazio rilevante potrebbe assumere il tema della UN System-Wide Coherence relativo all'azione delle Nazioni Unite nel campo dello sviluppo, dell’assistenza umanitaria e dell’ambiente. Le raccomandazioni per rendere più efficaci e coerenti gli interventi dei Fondi, Programmi e Agenzie delle Nazioni Unite nei paesi in via di sviluppo, contenute nel rapporto presentato nel novembre 2006 da un apposito Panel di esperti, tardano a tradursi in indicazioni operative per la perdurante divergenza di posizioni tra paesi donatori e paesi beneficiari. Anche su questo dossier è pressante la richiesta dei principali paesi contributori di un esercizio di razionalizzazione e coordinamento che porti le diverse componenti delle Nazioni Unite, che spesso si trovano ad operare contemporaneamente nel medesimo Paese, a evitare duplicazioni e migliorare l’efficacia degli interventi (cosiddetta politica One UN ovvero delivering as one).

 

Si dovrà inoltre proseguire la riforma del management della Nazioni Unite nel suo complesso. In tale contesto si segnala l’iniziativa, denominata Four Nations Initiative, che Svezia, Cile, Thailandia e Sud Africa hanno presentato nei mesi scorsi con l’obiettivo di contribuire al superamento delle rigide contrapposizioni tra gruppi regionali che hanno finora impedito di segnare progressi significativi in tale campo. Si tratta di una serie di raccomandazioni operative (come ad esempio la proposta di limitare il numero dei rapporti chiesti al Segretariato) per migliorare il funzionamento dell’Organizzazione, soprattutto nel campo dello sviluppo, dell’assistenza umanitaria e dell’ambiente. I Paesi promotori hanno finora privilegiato un dialogo informale per cercare di raggiungere un livello di consensi adeguato, sulla cui base avviare un vero e proprio negoziato intergovernativo presentando specifiche proposte al Presidente dell’Assemblea Generale.

 

Resta infine ancora aperto il volet della revisione dei mandati (nell’intento di limitare i fronti di impegno del Segretariato, che spesso tendevano ad espandersi sulla base di decisioni ripetitive accumulatesi negli anni). Si tratta di un capitolo della riforma al quale alcuni grandi paesi contributori (USA, Giappone, Gran Bretagna) annettono notevole importanza al fine di migliorare l’allocazione delle risorse e razionalizzare le attività del Segretariato, sul quale molto ancora resta da fare.

 

 

***

 

La Commissione per il Consolidamento della Pace, organo a funzione consultiva del cui comitato organizzativo l’Italia fa parte in quanto uno dei maggiori paesi impegnati in tale attività, ha finora preso in esame due paesi: il Burundi e la Sierra Leone (altri come Timor Est e Haiti si potrebbero aggiungere in futuro). A poco più di un anno dall’avvio dei lavori (giugno 2006), la valutazione sull’operato della Commissione è moderatamente positiva, anche se il nuovo organo deve ancora pienamente affermare il proprio ruolo. Da un lato, infatti, si registra una tendenza dei paesi in via di sviluppo a considerare la Commissione come un mero canale aggiuntivo per favorire la mobilitazione di finanziamenti e aiuti internazionali, dall’altro i paesi occidentali – che sono in fondo all’origine dell’istituzione della Commissione – richiedono che essa rappresenti un foro di coordinamento e orientamento delle varie componenti delle Nazioni Unite nella ricostruzione delle istituzioni di governo nei paesi che escono da situazioni di conflitto.

 

Nel corso del primo anno di vita, l’attività del Consiglio dei Diritti Umani cui l’Italia è stata eletta nel maggio di quest’anno per un mandato triennale dopo una campagna elettorale assai intensa e competitiva – non ha pienamente corrisposto alle aspettative che ne avevano accompagnato la nascita, ossia quella di creare un organo in grado di pronunciarsi in maniera efficace e tempestiva sulle più gravi violazioni dei diritti umani, superando i gravi limiti di cui soffriva l’estinta Commissione per i Diritti Umani. Un’inversione di tendenza si è registrata con la quarta sessione del Consiglio (marzo 2007), con l’adozione per consenso di una risoluzione, presentata dall’Unione Europea e dal Gruppo Africano, sulla situazione nella regione sudanese del Darfur. Tra le novità dell'architettura istituzionale, si segnala la notevole importanza che riveste la “Revisione Universale Periodica” (UPR), il meccanismo in virtù del quale tutti i Paesi dovranno sottoporsi periodicamente ad un esame complessivo della situazione dei diritti umani al loro interno.

 

Per quanto riguarda il processo di riforma del Segretariato, lo scorso giugno è stata approvata la proposta del Segretario Generale di trasformare il Dipartimento per le Operazioni di mantenimento della pace (DPKO) in due separate entità, preposte rispettivamente alla conduzione delle operazioni sul terreno (DPO, Department of Peace Operations) e della logistica (DFS, Department of Field Support). Si tratta di una riforma estremamente importante, la prima dal 1994, resa necessaria dal  forte incremento nel numero e nella complessità delle operazioni di pace poste sotto la responsabilità delle Nazioni Unite negli ultimi anni. I due nuovi dipartimenti sono posti sotto la responsabilità di distinti Under Secretary General (USG). La concreta attuazione di tali riforme richiederà ancora vari mesi e pertanto un giudizio sulla sua efficacia resta prematuro.


Stato della riforma CdS

 

Nel corso della passata sessione, sono stati presentati due rapporti da parte di “facilitatori” nominati del Presidente dell’Assemblea Generale. Dal lato positivo, questi rapporti propongono soluzioni “intermedie” che non contemplano l’aumento dei membri permanenti e ribadiscono l’esigenza di raggiungere il più ampio consenso anche aldilà delle soglie numeriche previste dalla Carta affinché una riforma risulti “politicamente accettabile”. Tuttavia, le soluzioni interinali propugnate in tali rapporti – quali l’istituzione di seggi non permanenti a più lunga durata – verrebbero a creare di fatto presenze “continuative” in Consiglio di Sicurezza che, abbinate ad una clausola di riesame entro un determinato periodo, finirebbero per giustificare la creazione di seggi permanenti. I rapporti stessi riflettono, inoltre, un approccio parziale in quanto si concentrano sulla istituzione di una nuova categoria di membri del CdS a scapito di una visione “globale” ed organica della riforma.

 

Per accelerare la dinamica impressa dai rapporti, un gruppo di Paesi guidati da India, Sudafrica, Brasile e Nigeria ha presentato l’11 settembre scorso un nuovo progetto di “risoluzione quadro” sulla riforma del Consiglio di Sicurezza che contempla l’aumento dei membri permanenti e non permanenti. La risoluzione chiedeva al nuovo Presidente dell’Assemblea Generale di avviare immediatamente negoziati intergovernativi con l’obiettivo di concordare, preferibilmente entro la fine del 2007, una formula di riforma nel senso sopra indicato. Rispetto alle precedenti risoluzioni proposte nel 2005 e 2006 dai Paesi che ambiscono a seggi permanenti, lo sviluppo nuovo, e preoccupante, è stata la “spaccatura” verificatasi nel gruppo africano (una decina di Paesi africani ha sponsorizzato quest’ultimo progetto di risoluzione).

 

Il dibattito in chiusura della 61ma UNGA ha assunto toni assai tesi e concitati, ma si è concluso con un esito che allenta la tensione e rilancia il processo di riforma del CdS alla 62ma Assemblea Generale ONU in termini solo moderatamente più problematici rispetto a quanto si era verificato lo scorso anno. Un primo risultato che si è riusciti a conseguire riguarda il fatto che si è adottato il rapporto del gruppo di lavoro (open ended working group, OEWG) con un esplicito richiamo all’esigenza di un “accordo generale”, ripreso dalla risoluzione istitutiva dell’OEWG, e quindi la necessità di un’ampia maggioranza per poter pervenire a qualunque decisione in materia di riforma del Consiglio di Sicurezza.

 

D’altro canto, emergono anche nuovi elementi di problematicità: nel rapporto dell’OEWG figura l’impegno dei Paesi membri ad ottenere risultati concreti entro la 62ma Assemblea Generale. Se il rapporto dello scorso anno menzionava soltanto la finalità di “ottenere progressi”, la 62ma UNGA rischia ora di diventare un termine temporale prescrittivo entro il quale definire un accordo su una formula di riforma del Consiglio di Sicurezza. Si tratta di una rilevante accelerazione dell’intero processo, e, soprattutto, di un cambiamento significativo nella prospettiva con cui verranno affrontati i lavori durante la nuova sessione.

 

Va altresì rilevato che lo scorso anno si manteneva la discussione nell’ambito dell’Assemblea Generale e, più specificatamente, nell’apposito gruppo di lavoro. La decisione di quest’anno rinvia, oltre che all’Assemblea Generale, anche a “negoziati intergovernativi” basati sulle posizioni e sulle proposte finora emerse (vale a dire soprattutto i progetti di risoluzione già depositati ed i rapporti dei “facilitators”).

 

Il Dibattito Generale della 62° Assemblea Generale dell’ONU offre l’occasione per contatti ad alto livello (compreso il nuovo Presidente dell’UNGA, il macedone Kerim) durante i quali illustrare la nostra visione della riforma. I rischi di soluzioni inadeguate a rilanciare e rafforzare le Nazioni Unite, oltre che lesive per i nostri interessi, rimangono alti. In un solco di continuità con l’azione svolta sinora, intensificheremo il nostro impegno in una strategia ad ampio raggio volta a consolidare le alleanze necessarie a far valere le nostre tesi. Alla luce di tali sviluppi, acquista ancora maggiore rilevanza la riunione a livello ministeriale dei Paesi del Core Group del Movimento Uniting for Consensus, promossa da parte italiana per il 27 settembre a New York, a margine dell’Assemblea Generale.


 L’Italia in CdS

 

Dopo l’elezione praticamente unanime, avvenuta il 16 ottobre 2006, l’Italia è entrata a far parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come membro non permanente per il biennio 2007-2008. Si è trattato di un importante riconoscimento per il ruolo del nostro Paese sulla scena internazionale, che premia il convinto sostegno al sistema multilaterale incentrato sulle Nazioni Unite e conferma il rilancio del multilateralismo come uno degli obiettivi prioritari per la politica estera del Governo che pone le Nazioni Unite come massima istanza di legittimazione politica e come foro più appropriato per affrontare le sfide globali del nostro tempo.

 

Nei suoi primi nove mesi come membro del Consiglio di Sicurezza, l’Italia ha confermato il proprio particolare impegno nelle operazioni di pace dell’ONU. Con la nostra partecipazione ad UNIFIL, siamo tornati ad essere tra i principali contributori di Caschi Blu – il primo fra i Paesi occidentali – ponendoci come uno degli attori primari nella trattazione delle questioni medio-orientali in Consiglio di Sicurezza, come testimoniato dalla nostra attiva partecipazione a tutti i dibattiti tenutisi in questi mesi, sia sul Libano che sulla questione israelo-palestinese. L’Italia ha contribuito a negoziare alcune importanti risoluzioni: la 1747 del 24 marzo, che stabilisce nuove sanzioni contro l’Iran in materia di non proliferazione di armi di distruzione di massa: la 1757 del 30 maggio, che istituisce il Tribunale Speciale per il Libano (risoluzione che abbiamo anche cosponsorizzato); la 1773 del 24 agosto che ha rinnovato del mandato di UNIFIL (di cui siamo stati co-autori insieme alla Francia).

 

Oltre ai temi Mediorientali, l’Italia svolge un ruolo di punta sulla questione dell’Afghanistan, anche nella nostra veste di Paese coordinatore del dossier in Consiglio di Sicurezza. Abbiamo preparato e negoziato con tutte le parti interessate la risoluzione che ha rinnovato il mandato della missione ONU in Afghanistan, UNAMA (Risoluzione 1746 del 23 marzo), ottenendo che venisse data una sempre maggiore enfasi agli aspetti politico-civili e di ricostruzione istituzionale del Paese, rispetto a quelli più strettamente di sicurezza, in un approccio ad ampio raggio e di lungo respiro. Lo stesso On. Ministro ha partecipato ai relativi lavori a New York. Tale nostro impegno è stato del resto confermato dalla conferenza di Roma sullo stato di diritto in Afghanistan del 2-3 luglio scorso, che abbiamo provveduto a valorizzare in CdS con un’apposita Dichiarazione Presidenziale. Siamo stati, in questi giorni, attivamente impegnati a preparare la risoluzione che rinnova il mandato di ISAF consentendone l’approvazione il 20 settembre, in vista della riunione ad alto livello sull’Afghanistan del 23 settembre.

 

La nostra presenza in CdS ci consente di lavorare a favore di una soluzione delle grandi crisi che ancora attraversa il continente africano. L'Africa dall'inizio dell'anno ha fortemente caratterizzato l'agenda del CdS, ed in Africa si concentrano ben sette delle 16 missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Tra  le crisi che stiamo continuando a seguire con maggiore attenzione vi è senza dubbio il Sudan (si ricorda al riguardo che l'Italia presiede il relativo comitato Sanzioni del CdS sul Sudan), dove a fine luglio si è registrato un importante progresso con l'approvazione della risoluzione 1769 che ha dato vita alla forza ibrida Unione Africana - Nazioni Unite. Proprio sul fronte di rinnovate e più incisive forme di cooperazione tra ONU e Unione Africana ci siamo anche mossi in CdS, favorendo un dialogo costruttivo che possa condurre a trovare soluzioni più strutturate, partendo proprio dalla recente esperienza sudanese.

 

Importante è stata anche l’azione svolta dall’Italia come Presidente del Comitato Sanzioni contro la Corea del Nord.

 

A testimonianza della forte attenzione per i lavori del Consiglio, l’Italia ha frequentemente partecipato ai dibattiti a livello governativo. L’On. Ministro si è recato a New York il 20 marzo (proprio in occasione del dibattito su UNAMA/Afghanistan), mentre il Sottosegretario Craxi ha partecipato a due riunioni tematiche, la prima a febbraio, sul ruolo del CdS nella riforma del settore di sicurezza dei Paesi che escono da conflitti, e la seconda in aprile, per affrontare la questione dei cambiamenti climatici. Il Vice Ministro Intini ha partecipato inoltre alla riunione ad alto livello sull’Iraq convocata dal Segretario Generale il 16 marzo scorso. E’ previsto, infine, l’intervento dell’On. Presidente del Consiglio alla riunione del CdS del 25 settembre dedicata al tema “Pace e Sicurezza in Africa”.

 

Rafforzamento del ruolo dell’Unione Europea

In questi mesi abbiamo altresì condotto un’azione coordinata a livello capitali, Bruxelles e New York, per rafforzare il profilo dell’Unione Europea in Consiglio di Sicurezza. I risultati sono stati incoraggianti, pur dovendo essere letti come graduali “tappe di avvicinamento” a forme di concertazione più concrete e strutturate. Siamo infatti riusciti a creare un solido legame con Presidenza e Segretariato UE, attraverso modalità di collaborazione continuative, che ci hanno permesso di dare maggiore spessore e contenuto alle riunioni di concertazione europea a 27 a New York, per tenere conto, nei lavori del Consiglio di Sicurezza, degli orientamenti comuni elaborati in ambito UE. Analoga azione stiamo conducendo a Bruxelles in modo da anticipare la definizione di un comune approccio da far valere anche nei negoziati in CdS.

Incoraggiamo anche una maggiore disponibilità anche da parte degli altri quattro Paesi UE membri del CdS (ed in particolare dei due membri permanenti, Francia e Regno Unito) affinché sostengano e valorizzino convintamene le posizioni europee concordate a Bruxelles sulle principali questioni affrontate dal Consiglio. Sulle più importanti risoluzioni adottate in questi mesi, siamo riusciti a mantenere posizioni di voto comuni tra i cinque Paesi UE, come ad esempio sull’Afghanistan (risoluzione 1746), sull’Iran/non proliferazione (ris. 1747), sulla Somalia (ris. 1744), sul Libano/Tribunale Speciale (ris. 1757), sul rinnovo del mandato UNIFIL (ris. 1773), e sul dispiegamento della forza “ibrida” in Sudan (ris. 1769).

 

Fra le altre questioni, abbiamo incoraggiato la previa definizione a Bruxelles di un “approccio comune” europeo sulle principali crisi africane quali il Sudan/Darfur, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia da portare avanti anche in Consiglio di Sicurezza. L’Italia ha inoltre costantemente operato per mantenere la coesione tra i Paesi UE sulla questione del Kossovo, attivandosi nella misura del possibile affinché emergesse una soluzione condivisa nell’ambito di tale foro.

La presidenza portoghese dell’UE apprezza il nostro impegno europeista in CdS e si è dimostrata interessata a sostenere i nostri sforzi, riconoscendo che la coesione tra i Paesi UE che siedono in Consiglio di Sicurezza sia essenziale per la credibilità della politica estera e di sicurezza dell’Unione. A questo fine, abbiamo avviato con Lisbona regolari consultazioni sulle principali questioni che saranno affrontate dal CdS entro la fine del 2007.

 

 

 




[1]   Il TNP, sottoscritto il 1 luglio 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo 1970, proibisce agli stati firmatari che non disponessero di armamenti nucleari (stati non-nucleari), di ricevere o fabbricare tali armamenti o di procurarsi tecnologie e materiale utilizzabile per la costruzione di armamenti nucleari. Ugualmente il trattato proibisce agli stati nucleari firmatari di cedere a stati non-nucleari, armi nucleari e tecnologie o materiali utili alla costruzione di queste armi. Inoltre il trasferimento di materiale e tecnologie nucleari, da utilizzarsi per scopi pacifici, deve, secondo il trattato, avvenire sotto lo stretto controllo dall’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica.

[2]    L'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica è un'agenzia autonoma fondata il 29 luglio 1957, con lo scopo di promuovere l'utilizzo pacifico dell'energia nucleare e di impedirne l'utilizzo per scopi militari. La sede dell'IAEA si trova a Vienna, in Austria, presso il Vienna International Centre; uffici di collegamento sono presenti a Toronto, Ginevra, New York e Tokyo. Il laboratorio centrale si trova a circa 30 km da Vienna e ricerche vengono fatte anche nei laboratori di Monaco e Trieste. I paesi membri sono 137, i rappresentanti dei quali si incontrano una volta all'anno per la Conferenza generale e per eleggere i 35 membri che fanno parte del Consiglio dei Governatori (Board of governors), che si riunisce cinque volte l'anno per preparare le decisioni da presentare alla Conferenza Generale. Per il suo impegno l'Agenzia ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 2005, insieme al suo direttore Mohamed El Baradei.

[3]    Gli incentivi consistevano in: riconoscimento formale del diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare civile; assistenza alla costruzione di un reattore nucleare ad acqua leggera tecnologicamente avanzato ma meno rischioso da un punto di vista di proliferazione nucleare; garanzie sulla fornitura di combustibile nucleare per il reattore; sostegno all’adesione dell’Iran all’Organizzazione mondiale del commercio; l’accesso ai mercati Usa di attrezzature agricole e di materiali di ricambio per la flotta della compagnia aerea di bandiera iraniana; assicurazioni sul carattere temporaneo della moratoria sull’arricchimento dell’uranio, che avrebbe potuto riprendere una volta certificata la natura pacifica del programma nucleare; impegno da parte europea di riprendere le trattative per un accordo di cooperazione e commercio con l’Ue. Il pacchetto conteneva peraltro anche la minaccia di sanzioni all’Iran in caso di inadempimento , quali: il blocco delle esportazioni in Iran di materiali legati ad attività nucleari; il congelamento dei titoli finanziari e il diniego di visto a importanti esponenti politici e di governo; la sospensione della cooperazione tecnica con l’Aiea; il blocco degli investimenti esteri in settori legati all’energia nucleare e il diniego di soggiorno agli studenti iraniani di tecnologie nucleari. Erano inoltre previste altre misure quali l’embargo sulle armi e il congelamento dei titoli delle istituzioni finanziarie iraniane.

[4]   Si fa presente che questo punto consente di fatto alla Russia di portare a compimento la costruzione in Iran dell’impianto nucleare civile ad acqua leggera di Bushehr.

[5]   Le centrifughe sono una tecnologia atta ad arricchire l'uranio che utilizzato a bassa intensità serve come combustibile nucleare per produrre energia elettrica, mentre ad alta concentrazione può essere impiegato per fabbricare armi atomiche.

[6] Le più significative consistono nel limite alle esportazioni di armi iraniane e nel limite agli aiuti internazionali (esclusi quelli umanitari).

[7] Vedi i risultati negativi ottenuti dai sostenitori del Presidente alla elezione dell’Assemblea degli esperti (l’Organismo che nomina, consiglia e può anche rimuovere la guida suprema del paese: al momento l’ayatollah Khamenei) tenute nel dicembre 2006.

[8] Tale difficoltà è testimoniata anche dalle dichiarazioni talvolta opposte della questione provenienti da autorevoli rappresentanti dei governi occidentali.

[9] Si è trattato della la dodicesima Conferenza delle Parti (COP12, costituita da 189 Paesi) e della Seconda Conferenza, dall'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, delle Parti che lo hanno ratificato (COP/MOP2, costituita da 157 Paesi).

[10] La proposta americana prevedeva essenzialmente l’organizzazione di una conferenza con i 15 Paesi produttori della maggiore quantita' di CO2 -  G8 (Usa, Giappone, Germania, Russia, Gran Bretagna, Italia, Canada e Francia) ma anche Cina e India, tutti insieme responsabili dell'80 per cento delle emissioni di gas serra - per discutere degli obiettivi di lungo termine per abbattere le emissioni e trovare un’intesa entro la fine del 2008, per accordarsi sul taglio dei costi della diffusione di tecnologie eco-compatibili e sulla promozione di  disboscamenti e colture sostenibili nonchè sull’aumento di investimenti nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie a risparmio energetico.

[11] Le stime sulla durata futura delle riserve di combustibili fossili non sono unanimi. Proprio recentemente sono stati diffusi i risultati di una ricerca condotta da una società scientifica inglese, l’Oil Depletion Analysis Centre, secondo cui già nel 2005 sarebbe stato raggiunto l’apice dell’estrazione del petrolio “regolare” (il più facile da estrarre perché collocato in superficie) e le attuali attività estrattive starebbero oggi rivolgendosi in misura crescente al petrolio “pesante”, localizzato in profondità nel sottosuolo. Tuttavia, già nel 2011 – secondo tale studio – si toccherà il massimo della estrazione anche di queste riserve di profondità e dopo quell’anno non potrà che esservi una progressiva diminuzione con conseguente rialzo dei prezzi e recessione mondiale.

Contrariamente a questo scenario, gli esperti della British Petroleum hanno pubblicato lo Statistical Review of World Energy ove si afferma che esistono certificate riserve petrolifere per almeno i prossimi 40 anni (ai ritmi attuali).

[12] Per altre fonti tali riserve sono valutabili tra 55 e 120 miliardi di barili.

[13] Entrambe le regioni nel 1991 si erano rese autonome con il sostegno russo. La regione dell’Adjaria, che si era a resa autonoma nello stesso momento, è stata riannessa alla Georgia nel 2005.

[14]La Georgia ha superato l’emergenza importando gas iraniano grazie a un allacciamento d’emergenza con la rete dell’Azerbaigian; successivamente la Georgia ha alleggerito la propria dipendenza energetica da Mosca firmando, nel novembre 2006, un accordo per la fornitura di gas con l’Azerbaigian e intraprendendo negoziati anche con l’Iran.

[15] Come si è potuto constatare nell’inverno del 2006 quando si ebbe un taglio di tale fornitura.

[16]La Russia che, che pure accusa una produzione che cresce ad un tasso inferiore rispetto al tasso di crescita della domanda, ha a disposizione, praticamente “sull’uscio” del consumatore europeo, il 27 per cento circa delle riserve mondiali di gas e il 6-10 per cento di quelle petrolifere.

[17] Si tratta dei secondi giacimenti al mondo per riserve, con oltre 27.000 miliardi di metri cubi.

[18] I primi studi di fattibilità hanno indicato in 17-20 miliardi di dollari di oggi i costi dell’opera e in circa sei-sette anni i tempi della sua realizzazione.

[19] Le perdite negli oleodotti, ad esempio, hanno sconvolto la pesca, una delle principali attività economiche, e le procedure per il risarcimento – che prevede cifre peraltro irrisorie - spesso generano violenti conflitti; la principale città del delta, Port Harcourt, soffre di un altissimo livello di inquinamento.

[20] Cfr. Il gran safari e le sue ombre, Limes, 3-2006.

[21] Sahel ("sponde del deserto") è una regione dell'Africa occidentale che comprende Mauritania, Niger, Burkina Faso, Senegal, Capo Verde, Guinea Bissau, Gambia, Ciad e Mali.

[22] I rilevanti interessi cinesi in Sudan sono ben noti: il paese asiatico ottiene dal Sudan il 6,9% delle importazioni totali di petrolio (corrispondenti al 60% della produzione di greggio del paese africano) e negli ultimi anni ha realizzato in loco una serie di infrastrutture per la lavorazione e il trasporto del prodotto, oltre a favorire operazioni di trasferimento di tecnologie e a garantire al governo di Khartum una protezione dalle pressioni della comunità internazionale in relazione alla crisi del Darfur.

[23] Nonostante una legge del 1995 disponga che per essere riconosciuti ivoriani è necessario essere nati in Costa d’Avorio da genitori originari, e la riforma fondiaria del 1998 riservi l’accesso alla proprietà ai “veri” ivoriani.

[24] Il 16 novembre 2000 Nelson Mandela, il presidente della Banca mondiale e ad altre imminenti personalità lanciarono a Londra il rapporto della Commissione mondiale sulle dighe (World Commission on Dams – WCD). Voluto dalla Banca mondiale e della World Conservation Union, il rapporto rappresentava la prima valutazione indipendente delle performance delle 45.000 grandi dighe costruite sui fiumi di tutto il pianeta nel corso del novecento. Contestualmente al Rapporto, molto critico, la WCD aveva presentato un pacchetto di raccomandazioni relative ai progetti futuri – tutte incentrate sulla accurata valutazione ambientale preventiva, sulla partecipazione, la trasparenza, la tutela dei diritti tradizionali delle popolazioni locali. A livello internazionale le grandi dighe erano, e rimangono, uno dei temi più controversi per quel che concerne le politiche di sviluppo. La portata storica dei lavori della Commissione consisteva nell’aver raggiunto un consenso tramite un processo che aveva visto per la prima volta allo stesso tavolo rappresentanti del settore della costruzione delle dighe, esponenti governativi, accademici, gruppi ambientalisti e movimenti sociali. Purtroppo la Banca Mondiale non ha ritenuto di dover adottare politiche coerenti con il Rapporto, ma ha ripreso negli ultimi anni a finanziare progetti di grandi dighe (vedi il controverso progetto idroelettrico di Nam Theun 2, in Laos).

[25] Cfr. Water end economic development: the role of variability and framework for resilience, in Natural resources forum 30 (2006).

[26] A fronte di un diritto minimo giornaliero calcolato dall’ONU in 40 litri pro-capite, in Italia il consumo quotidiano è di 267 litri (la media europea è di 165), in Canada 350, negli Stati Uniti 425 (e in Africa 10). Nell’industria ci vogliono 400.000 litri d’acqua per produrre un’automobile ed anche l’industria informatica, inizialmente considerata pulita, richiede grosse quantità di acqua dolce deionizzata che restituisce altamente inquinata (la maggior parte dei siti tossici finanziati dall’Agenzia per la Protezione Ambientale statunitense si trova proprio nella Silicon Valley). E l’agricoltura intensiva, con le sue pratiche di irrigazione diffusa (che può arrivare a disperdere fino all’80% dell’acqua utilizzata) ed il ricorso a concimi chimici e pesticidi, rappresenta una minaccia di inquinamento delle falde sotterranee.

[27] Il più recente è stato il World Summit tenuto a Johannesburg dal 26 agosto al 4 settembre 2002, derivante – a sua volta - da un processo iniziato con la Conferenza di Stoccolma “sull’ambiente umano”  del 1972, che dettò i seguenti principi di una azione internazionale in questo campo:

§       la libertà, l’uguaglianza e il diritto ad adeguate condizioni di vita;

§       le risorse naturali devono essere protette, preservate, opportunamente razionalizzate per il beneficio delle generazioni future;

§       la conservazione della natura deve avere un ruolo importante all’interno dei processi legislativi ed economici degli Stati.

[29] Le prime cinque sessioni della COP hanno avuto cadenza annuale e si sono svolte a Roma (1997), Dakar, Senegal (1998), Recife, Brasile (1999),Ginevra, Svizzera (2000) e Bonn, Germania (2001). Nel corso di tale ultima Conferenza, nell’affidare all’Avana, Cuba, la sesta edizione, si è deciso di distanziare le riunioni di due anni.

[30] Si ricorda che - a differenza di quanto avveniva in ambito GATT – caratteristica del WTO è proprio l’estensione della sua attività normativa dai soli beni commerciali, anche alla proprietà intellettuale e ai servizi (fra i quali ultimi è stato compreso il servizio idrico).

[31] Tali motivazioni sono alla base – anche in Italia – della riforma legislativa realizzata con la legge n. 36 del 1994 (cd “legge Galli”) che ha istituto il servizio idrico integrato e – in modo coordinato con l’art. 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (TUEL) – ha disposto l’affidamento del servizio a gestori privati e quindi la necessità che le tariffe si adeguino ad una gestione della risorsa secondo criteri di economicità.

[32] Vedi, per tutti: Barlow e Clarke, Oro blu, Arianna Editrice, 2004.

[33] Dove per ogni litro di acqua marina trattata, i due terzi diventano scorie altamente saline ed inquinanti.

[34] Significativi gli esempi – soprattutto relativi alla situazione indiana, riportati in:: Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2002.