Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Cambiamenti climatici ed equilibri internazionali
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 83
Data: 19/06/2007
Descrittori:
FONTI RINNOVABILI DI ENERGIA   INQUINAMENTO ATMOSFERICO
RELAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 

 

 

SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

 

 

 

Cambiamenti climatici ed

 equilibri internazionali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 83

 

 

19 giugno 2007


 

 

 

 

Dipartimento difesa

 

SIWEB

 

Dipartimento affari esteri

 

SIWEB

 

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File:es0121.doc


INDICE

 

 

Schede di sintesi

Cambiamenti climatici ed equilibri internazionali3

§      Il negoziato internazionale sul Protocollo di Kyoto  3

§      Combustibili fossili: controllo delle risorse e delle aree attraversate dalla rete di distribuzione  8

§      Le nuove guerre per l’acqua e per la terra  13

§      Documento di lavoro dei servizi e della Commissione Limitare il surriscaldamento dovuto ai cambiamenti climatici a +2 gradi Celsius - La via da percorrere fino al 2020 e oltre – Sintesi della valutazione d’impatto Sec (2007)23

§      Risoluzione del Parlamento europeo del 14 febbraio 2007 sui cambiamenti climatici23

§      Decisione del Parlamento europeo del 25 aprile 2007 sulla costituzione e la fissazione delle attribuzioni, la composizione e la durata del mandato della commissione temporanea sul cambiamento climatico  23

§      Consiglio Europeo di Bruxelles, 8-9 marzo 2007, Conclusioni della Presidenza (stralci)23

Attività parlamentare

§      Senato - Assemblea  27

-       Testo delle mozioni sulla politica ambientale approvate nella seduta del 15 marzo 2007

§      Camera dei deputati – Commissioni riunite Esteri e Ambiente  29

-       Audizione del Sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vittorio Craxi, sugli indirizzi di politica estera in materia di cambiamenti climatici

Seduta del 13 giugno 2007  29

-       Interrogazione sulle iniziative per la limitazione del surriscaldamento terrestre

Seduta del 14 giugno 2007  91

§      Camera dei Deputati – Commissione esteri95

-       Risoluzione 7-00185 De Zulueta: sulla lotta contro la desertificazione per la tutela dell’acqua come bene comune e diritto umano

Seduta del 14 giugno 2007  95

Pubblicistica

§      P. Migliavacca ‘La Russia, l’energia, la Georgia e l’Europa, in: Affari esteri, n. 153/2007  99

§      A. Turner ‘Quanto costa l’ambiente’, in: Aspenia, n. 35/2006  99

§      A. Ovi ‘L’America verde’, in: Aspenia, n. 35/2006  99

§      S. Tosi ‘Fonti energetiche e infrastrutture di trasporto’, in: ISPI, Programma Caucaso e Asia centrale, ottobre 2006  99

§      E. Harks ‘The Conundrum of energy Security – Gas in Eastern and Western Europe’, in: The International Spectator, n. 3/2006  99

§      V. Shiva ‘Le guerre per l’acqua in India’, in: Quaderni speciali di Limes, giugno 2006,99

§      J. Morrisette e D. A. Borer ‘L’acqua incendia il Medio Oriente, in: Quaderni speciali di Limes, giugno 2006,99

§      F. Rampini ‘La terra è piccola per Cindia’, in: Quaderni speciali di Limes, giugno 2006,99

§      C. Clini ‘Oltre il mito di Kyoto’, in: Quaderni speciali di Limes, giugno 2006,99

§      M. Paolini ‘Il gran safari e le sue ombre’, in: Limes, n. 3/2006  99

§      N. Laroni ‘La sfida del millennio’, in: Acque & Terre, n. 3/2006  99

§      M. Bilhan  ‘Dal passato una lezione per il futuro’, in: Acque & Terre, n. 3/2006  99

§      K. Kaya ‘Impatto su Caucaso e Asia centrale dell’adesione turca all’Ue’, in: Acque & Terre, n. 3/2006  99

§      S. Ghawaryan ‘Le relazioni Ue – Caucaso Meridionale nel sistema dell’asse Mar Mediterraneo – Mar Nero – Mar Caspio’, in: Acque & Terre, n. 3/2006  99

§      A. Carlucci ‘El gran gasoducto, architettura di un sogno’, in: Limes, n. 2/2006  99

§      F. Speranza ‘Il pedaggio di Vilnius’, in: Limes, n. 1/2006  99

Documentazione

§      Human Development Report 2006, Beyond scarcity: Power, poverty and the global water crisis  103

§      G 7/G 8 Summit Meetings, Growth and Responsibility in the World Economy (stralci), 8 giugno 2007  103

§      G 7/G 8 Summit Meetings,  Joint Statement by the German G8 Precidency and the Heads of State and/or Government of Brazil, China, India, Mexico and South Africa on the Occasion of the G8 Summit in Heilgendamm, 8 giugno 2007  103

 

 


Schede di sintesi


Cambiamenti climatici ed equilibri internazionali

La correlazione fra cambiamenti climatici, degrado delle condizioni ambientali del pianeta (e soprattutto di alcune definite aree geografiche) e tensioni interne ed internazionali è stata più volte denunciata da varie fonti e rientra a pieno titolo anche nel quadro concettuale entro cui si sviluppa l’attività delle Nazioni Unite. Basti ricordare in proposito la Risoluzione 60/1 adottata nell’ottobre 2005 dall’Assemblea Generale “2005 World Summit Outcome”, nella quale il cambiamento climatico viene riconosciuto come una delle grandi minacce in grado di produrre i suoi effetti in ogni parte del pianeta. Ancora più esplicitamente, in nuovo Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel suo discorso di insediamento, tenuto lo scorso 1° marzo, non solo ha paragonato i rischi derivanti dal cambiamento climatico a quelli di una guerra mondiale, ma ha anche definito i cambiamenti climatici come un fattore di destabilizzazione degli equilibri mondiali.

Il negoziato internazionale sul Protocollo di Kyoto

Nella fase più recente (almeno dal dicembre 2005, come si illustrerà nel seguito di questo paragrafo) il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici è focalizzato politicamente sulla definizione del quadro di riferimento entro il quale i 191 paesi firmatari della Convenzione si collocheranno a partire dal 2012, data di scadenza degli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto (si tratta, quindi, di quello che – con espressioni gergali – viene definito il “Kyoto 2”, o “il dopo-Kyoto”).

Si ricorda, infatti, che già nella undicesima Conferenza delle Parti della Convenzione (Montreal, dicembre 2005) era stato assunto formalmente l’impegno ad aprire i negoziati per l’estensione del Protocollo di Kyoto nella fase successiva alla scadenza del 2012, e quindi a creare un nuovo meccanismo di riduzione delle emissioni globali, concordato e vincolante per i paesi firmatari. Ma di tale nuova fase – che si aprirebbe dopo il 2012 - restano da stabilire non solo modalità e strumenti, ma anche i partner, cioè quali saranno i paesi coinvolti e disposti ad accettare i vincoli derivanti da un trattato internazionale, dal momento che – com’è noto – il Protocollo di Kyoto si riferisce ai soli 39 paesi industrializzati (elencati nell’Annex I del Protocollo stesso), laddove paesi responsabili di volumi notevoli e crescenti di emissioni – quali Cina e India – non sono tenuti (almeno fino al 2012) ad alcun obbligo. Anche criticando quest’ultima circostanza, gli Stati Uniti, pur compresi nell’Annex I, si sono dissociati dal Protocollo non appena esso è entrato nella fase più concreta della determinazione di vincoli e sanzioni, ritenendone i meccanismi troppo punitivi per lo sviluppo economico nei paesi già industrializzati e allo stesso tempo inefficaci.

Nella dodicesima (e più recente) Conferenza delle Parti della Convenzione, tenutasi a Nairobi (6-17 novembre 2006)[1] il tema di maggior rilievo politico è stato pertanto quello - affrontato nell’ambito delle sessioni dei cd. gruppi ad hoc - della modifica dell'attuale Protocollo di Kyoto (in base all'art. 9 dello stesso trattato) in vista della scadenza del 2012. La questione, in mancanza di accordo complessivo, è stata rinviata al 2008. Si è intanto concordato su alcune premesse minori: che il protocollo destinato ad entrare in vigore successivamente al 2012 dovrà contenere chiari obiettivi per l'adattamento ai cambiamenti climatici, comprese le modalità di cooperazione, in questo campo, tra paesi sviluppati ed in via di sviluppo. Nel corso della Conferenza è stato poi presentato un documento che afferma la necessità, ai fini della stabilizzazione delle emissioni, della loro riduzione di almeno il 50% rispetto al 2000 (senza peraltro indicare il termine temporale entro cui tale obiettivo ottimale andrebbe raggiunto). La Germania ha proposto una riduzione del 30% entro il 2020, la Finlandia a nome della UE ha ribadito la proposta di una riduzione fino al 60% entro il 2050. Gli USA, pur riconoscendo la necessità di raggiungere importanti obiettivi di riduzione, hanno ribadito la loro critica metodologica al Protocollo, sottolineato di non ritenere percorribile la strada dei vincoli e degli obblighi.

Il Forum di Washington

Dopo la Conferenza di Nairobi si è svolto il Forum dei legislatori del Dialogo sul cambiamento climatico dei paesi G8 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti)+ 5 (Cina, India, Messico, Brasile e Sud Africa), il 14 e 15 febbraio 2007 a Washington. Il Forumaveva l'obiettivo di presentare una piattaforma comune sul cambiamento climatico al Vertice del G8 di Heiligendamm. Il Forum ha assunto come punto di partenza della discussione le prime conclusioni del quarto “Assessment Report” dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change: l’organismo scientifico internazionale che svolge funzioni sussidiarie e consultive della Convenzione sui cambiamenti climatici), pubblicate il 2 febbraio 2007, che sostiene esservi una probabilità del 95% che siano state le attività dell'uomo condotte dalla rivoluzione industriale ad oggi a determinare il riscaldamento del pianeta. Il Forum è stato caratterizzato da due elementi di particolare importanza nella politica relativa al cambiamento climatico:

1.      il mutamento nell'orientamento dell’amministrazione americana, rispetto ad una sostanziale sottovalutazione – negli anni scorsi - del problema dei cambiamenti climatici (si ricorda che anche sul piano scientifico le posizioni dell’IPCC non sono accettate in modo univoco e che esistono posizioni molto più problematiche in merito al nesso di casualità fra cambiamento climatico e attività umane). Secondo la nuova posizione dell’amministrazione americana, espressa ufficialmente a Washington, il tema del cambiamento climatico e delle sue interrelazioni con le attività umane viene accettato come terreno di discussione. Non solo, ma tale tema rappresenta “priorità assoluta” per gli USA. Si ricorda in proposito che già alcuni osservatori avevano rilevato di recente (e in particolare a partire dalla forte reazione dell’opinione pubblica americana seguita all’uragano Katrina, agosto 2005) come una geostrategia fondata su una nuova ideologia verde possa rappresentare oggi uno strumento idoneo alla riaffermazione del prestigio degli Stati Uniti, scosso dalla guerra in Iraq. Tale strategia presuppone la capacità di individuare con chiarezza le gravi minacce economiche, geopolitiche e climatiche generate dalla dipendenza dal petrolio e di individuare un piano concreto per ridurre il bisogno di combustibili fossili. Alla consapevolezza, ormai diffusa tra la popolazione americana, della sussistenza di alcune emergenze ambientali non corrisponde ancora un’altrettanto acuta coscienza degli sforzi e dei costi necessari a far progredire gli Stati Uniti prima, e il mondo poi, verso un’infrastrutturazione energetica quasi del tutto priva di emissioni. L’amministrazione americana intenderebbe agire anche per riempire questo gap. Si può ricordare, in questo contesto, che già da tempo analisti e osservatori internazionali sottolineano che una politica “geoverde” potrebbe produrre effetti rilevanti sui cambiamenti climatici, sulle guerre per l’energia e sulle diffuse aree di instabilità politica. Diminuendo la domanda di petrolio, si determinerebbe la caduta del prezzo del barile. Come dimostrato dall’esperienza degli ultimi decenni, nei paesi che fondano la propria ricchezza sulle risorse petrolifere, a un basso prezzo del barile corrispondono “indici di libertà” elevati, dipendenti dall’esigenza di procurarsi entrate; viceversa, in corrispondenza di un prezzo più alto, paesi come Russia, Iran, Nigeria, Venezuela, Arabia Saudita, Siria, Sudan, Egitto, Ciad, Angola, Azerbaigian hanno conosciuto un’ondata di “petroautoritarismo” consistente nella compressione degli spazi di libertà individuale ed economica. Un piano di stabilizzazione e un modo per incoraggiare le riforme politiche in Medio Oriente, Iraq compreso, passerebbe pertanto necessariamente attraverso una politica ambientale basata sulla riduzione della domanda di idrocarburi.

2.      la posizione in merito ai gas serra dell’Unione Europea, evidenziata dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha sottolineato come già nella primavera 2007 l'Unione europea dovrà sviluppare un programma post 2012 per i paesi industrializzati. In tale prospettiva, il conseguimento dell'obiettivo posto dall'Unione europea di prevedere interventi volti a limitare entro i 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura mondiale rispetto ai livelli preindustriali è il primo risultato da conseguire e la riduzione del 20 per cento delle emissioni di CO2 nei paesi UE da qui al 2020, il primo passo da compiere.

 

A Washington si è comunque registrato il permanere di una divaricazione: da una parte Europa, Giappone e Canada intenzionati a conseguire impegni vincolanti per dimezzare entro il 2050 le emissioni dei gas serra, e dall’altra Stati Uniti e Russia, contrari all’indicazione di cifre e vincoli senza il preventivo coinvolgimento di tutti i paesi inquinatori (innanzitutto Cina e India).

Il G8 di Heiligendamm

Rispetto a questo quadro, il G8 di Heiligendamm (6-8 giugno 2007) – che ha avuto fra i suoi temi centrali proprio il cambiamento climatico, e al quale hanno partecipato, nel quadro di un dialogo allargato, anche i cinque maggiori paesi emergenti, Cina, India, Sudafrica, Messico e Brasile (cd G8+5) - ha prodotto unaccordo di compromesso consistente nel riconoscimento della necessità di ridurre in modo sostanziale - ma senza precise indicazioni quantitative - le emissioni di gas serra per arginare il riscaldamento del pianeta, nonché nell’impegno a “considerare seriamente” la proposta di Unione europea, Canada e Giappone di dimezzare le emissioni globali entro il 2050. Il vertice ha inoltre stabilito che entro il 2009 la comunità internazionale dovrà trovare un accordo sul dopo-Kyoto entro la cornice ONU e non, come era stato proposto dal presidente degli Stati Uniti alla vigilia del G8, al di fuori di essa[2]. La prima fase negoziale è prevista per la prossima Conferenza delle Parti della Convenzione (Bali, dicembre 2007).

Il ruolo della Cina e degli altri “paesi emergenti”

I paesi emergenti (Cina, India, Sudafrica, Messico e Brasile) che rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale e hanno un ruolo crescente nell’economia e nel commercio planetario, hanno ribadito – in linea di principio - di non voler sacrificare la propria crescita ad un accordo internazionale per loro penalizzante. Nel comunicato congiunto approvato dai leader del G8 e di Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica viene tuttavia proclamato l’impegno comune per la stabilizzazione delle ''emissioni nocive ad un livello che eviti interferenze pericolose con il cambiamento climatico'' e viene sottolineato il ruolo centrale  degli investimenti (trasferimento di tecnologie pulite) per poter sviluppare le tecnologie necessarie a produrre una significativa diminuzione dell'impiego del carbone e delle altre fonti di energia altamente inquinanti. Il surriscaldamento e gli altri problemi climatici vanno affrontati – secondo questo documento ufficiale - nell'ambito di uno schema globale e di azioni concordate, anche tenendo conto, sul fronte energetico, dell’importanza dell'uso delle biomasse e dei biocombustibili, oltre che del carbone 'pulito'.

Questi rappresentano indubbiamente passi in avanti, anche se non si può trascurare la posizione sostenuta dalla Cina,cha ha presentato un piano ambientale alla vigilia del G8, pubblicato il 4 giugno scorso, in cui si sostiene a chiare lettere che per i paesi in via di sviluppo e per le economie emergenti del G5 gli effetti di un’eventuale limitazione della crescita potrebbero essere persino peggiori di quelli indotti dal cambiamento climatico. Secondo quanto dichiarato dal presidente cinese Hu Jintao davanti ai leader del G8 l’8 giugno 2007 (linea espressamente condivisa dal premier indiano Manmohan Singh), i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di consumare energia a sostegno delle proprie esigenze di industrializzazione, urbanizzazione e modernizzazione volte a migliorare la vita delle persone e non possono quindi accettare la fissazione di limiti che richiamino quelli posti dal Protocollo di Kyoto all’emissione di gas serra.

Le linee strategiche generali del piano ambientale cinese, fondato essenzialmente su investimenti peraltro non esattamente quantificati, prevedono, tra l’altro:

·         l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo di fonti di energia pulite e rinnovabili, per portare l’apporto percentuale di tali fonti dal 7,5% del 2005 al 10% nel 2010;

·         la riduzione delle emissioni di CO2 nella misura di 50 milioni di tonnellate entro il 2010 attraverso lo sviluppo della produzione idroelettrica nel Paese che è ampiamente dipendente dal carbone.

Gli elementi di maggiore novità sembrano pertanto riferibili alle posizioni di USA e Cina, che negli ultimi anni hanno rappresentato – insieme – il fattore di maggiore debolezza di tutto il quadro disegnato dal Protocollo di Kyoto.

Gli Stati Uniti, anche se appaiono ancora distanti dall’impostazione europea – basata su un approccio che affida gran parte della sua efficacia ad un sistema vincolistico e sanzionatorio – hanno dato chiari segnali di voler partecipare seriamente alla nuova fase negoziale che si è aperta a Montreal nel dicembre 2005 e che dovrebbe avere una tappa significativa nella Conferenza di Bali del prossimo dicembre.

La Cina, presentando il proprio piano prima dell’inizio del G8, ha voluto mostrare di non essere insensibile alle istanze ambientali. Ma – allo stesso tempo – ha anticipato i temi in discussione escludendo preliminarmente la propria adesione alla fissazione di limiti obbligatori alle emissioni e motivando tale posizione con l’argomento (tradizionale) che, essendo il surriscaldamento del pianeta la conseguenza di 200 anni di industrializzazione incontrollata delle nazioni occidentali non sarebbe giusto imporre un limite obbligatorio alle emissioni della Cina e degli altri paesi in via di sviluppo. Inoltre, è stato ribadito il noto argomento che i paesi già sviluppati, che pure hanno delocalizzato le proprie industrie manifatturiere anche in Cina, continuano ad avere quote di emissioni pro-capite ben più elevate di quelle cinesi.

Tuttavia, la firma del comunicato finale congiunto e l’enfasi in esso contenuta sulla diminuzione del ruolo del carbone, sul trasferimento di tecnologie pulite e sugli investimenti in questo settore, dimostrano una certa disponibilità, anche da parte della Cina, a partecipare comunque al processo in corso.

Probabilmente gli sviluppi futuri del negoziato vedranno il tentativo di raccogliere (in qualche misura) le istanze di Stati Uniti e Cina per dare fondamento – a partire dal 2012 - ad una seconda fase che non veda più esclusi i due paesi ai quali si deve il maggior carico di emissioni di gas serra del pianeta.

Combustibili fossili: controllo delle risorse e delle aree attraversate dalla rete di distribuzione

Il problema del controllo globale delle emissioni di gas serra, e quindi della dipendenza dai combustibili fossili (che sono oggi responsabili dell’80% del livello complessivo di tali emissioni) ha potenzialmente effetti molto grandi sul quadro delle relazioni internazionali.

Infatti, la crescita del livello di dipendenza del sistema energetico mondiale dai combustibili fossili o idrocarburi (petrolio, carbone e gas naturale) – pari ormai a oltre l’80% - è entrata, negli ultimi anni in una fase quasi parossistica: negli ultimi 25 anni, il consumo di carbone è raddoppiato, quello di petrolio è quasi decuplicatoe quello di gas naturale è cresciuto di 14 volte. I risultati di recenti indagini geologiche affermano che le riserve petrolifere del pianeta hanno – a questi ritmi – soli 30 anni, quelle di gas naturale 50 anni e quelle di carbone 200 anni[3].

Le nuove linee di tensione internazionale si sovrappongono in modo sempre più fedele ai confini che delimitano le aree geografiche sulle quali insistono le risorse energetiche fossili e le areeattraversate dalle infrastrutture di trasporto di tali risorse (pipeline).

Per gli stessi motivi, si impone una interpretazione sempre più intrecciata di politica internazionale e politica energetica: gli investimenti realizzati o programmati in questa rete di pipeline (peraltro continuamente mutevole) rappresentano chiavi indispensabili di lettura di rivalità, tensioni, alleanze strategiche.

Asia Centrale e Mar Caspio

La regione del Caspio rappresenta un caso emblematico di tale situazione in quanto vi si intrecciano gli interessi economici e politico-strategici delle potenze locali (le repubbliche dell’ex URSS, soprattutto Kazachstan e Azerbaigian, che sono i principali paesi che estraggono idrocarburi nell’area) e delle grandi potenze extraregionali.

L’importanza delle risorse di tale regione risalta in un quadro geostrategico complessivo, dove è essenziale la sicurezza energetica intesa come diversificazione geografica della produzione. In tale contesto, la rilevanza delle risorse in questione - la cui consistenza è stimata tra i 17 e i 44 miliardi di barili per il greggio[4] e in 6.570 miliardi di metri cubi di gas – risiede non tanto in tale entità – cospicua ma in ogni caso ritenuta non sufficiente a modificare in misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente - ma nella possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale rimanendo sotto il controllo delle compagnie che hanno investito nella regione e degli stati esportatori. A tale scopo, gli Stati Uniti si sono fatti promotori per l’esportazione degli idrocarburi dal Caspio di una Multiple Pipeline Strategy, strumento essenzialmente destinato a rafforzare l’indipendenza e la sovranità degli stati del Caucaso (e dell’Asia centrale) sottraendo il controllo delle loro risorse energetiche alla vicina Russia.

In tale contesto risalta il rilievo strategico della Georgia che, sebbene sia priva di risorse di idrocarburi in una regione, quella del mar Caspio, che ne è ricchissima, si trova ad un incrocio obbligato sulle rotte delle pipeline - esistenti e future – che trasportano tali risorse verso i mercati europei ed occidentali, rappresentando l’unica alternativa geografica al passaggio obbligato sul suolo russo. Anche da questo derivano rapporti spesso critici con la Russia. Attualmente la strategia georgiana punta, con l’appoggio statunitense e NATO (cui il paese, contro la volontà di Mosca, vorrebbe aderire) alla ricomposizione dell’unità nazionale attraverso la riconquista delle repubbliche separatiste di Ossezia meridionale e Abkhazia[5], offrendo in cambio di proporsi come pilastro degli interessi occidentali nella regione, in particolare come alternativa alla Russia per il transito delle risorse energetiche della regione del Caspio.

 

Mosca, contraria a una politica filo-occidentale non in linea con i propri interessi strategici, ha inflitto a Tbilisi una serie di avvertimenti tra i quali gli analisti pongono l’attentato, mai rivendicato, che nel gennaio 2006 ha fatto saltare in territorio russo l’unico gasdotto che alimenta la Georgia, allora totalmente dipendente per il proprio approvvigionamento dal colosso russo Gazprom, lasciando il paese senza gas per un paio di settimane[6].

 

La Georgia è attraversata dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (porto turco sul Mediterraneo), voluto dagli Stati Uniti e inaugurato il 13 luglio 2006, che porta sulle coste del Mediterraneo 50 milioni di tonnellate di greggio azero l’anno. Il gasdotto di Shah Deniz, che unirà Baku alla capitale georgiana Tbilisi e a Erzurum in territorio turco è in via di ultimazione, mentre il gasdotto trans-caspico, che egualmente è destinato ad attraversare il territorio georgiano, dovrebbe riversare in Europa, ogni anno, 16 miliardi di metri cubi di gas proveniente dal Turkmenistan e sarà realizzato, risorse finanziarie permettendo, nei prossimi anni.

La centralità georgiana nella questione dell’approvvigionamento energetico coinvolge pienamente l’Europa e riguarda, altresì, le relazioni tra UE e Russia. L’Europa trae dal gas un quarto dei suoi consumi energetici totali (36 per cento l’Italia) ed è fortemente dipendente dalla fornitura russa[7]. Fermo restando che l’emancipazione da tale situazione è per l’Europa, nel campo dell’approvvigionamento delle risorse energetiche tradizionali[8], un obiettivo strategico, gli analisti considerano tale dipendenza un punto di forza per l’Europa nei confronti della Russia, in quanto l’attuale orientamento dei gasdotti del monopolista Gazprom rende l’Unione Europea l’unico acquirente obbligato per la sua intera esportazione, depotenziando, almeno nel breve termine,  la minaccia-ricatto russa di offrire il gas ai clienti dell’estremo oriente (India e Cina innanzitutto). Ciò almeno per qualche anno, fino a quando non saranno approntate le necessarie  le pipeline. 

Nel disegno strategico di emancipazione energetica europea dalla Russia rientra l’utilizzo delle risorse energetiche provenienti dal Caspio, come pure il già programmato gasdotto Nabucco destinato a collegare, a partiredal 2011-2012, i giacimenti iraniani[9] (e quelli di Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan) attraverso la Turchia e i Balcani fino all’Austria, con una “bretella” italiana che collegherà Salonicco a Otranto.

America Latina

Anche in America Latina è prevedibile che nei prossimi anni si creino nuove linee di instabilità e di tensione internazionale a causa delle risorse di combustibili fossili della parte settentrionale del continente e dei progetti di infrastrutture per il trasporto. Particolare interesse riveste, sotto questo profilo, il progetto del gran gasoducto del sur, destinato ad infilarsi nel cuore della foresta amazzonica per centinaia di chilometri determinando – fra l’altro - la formazione di nuovi insediamenti umani in parti ancora incontaminate di essa. Si tratta della pipeline lunga tra gli otto e i diecimila chilometri che dovrebbe congiungere il Venezuela con l’Argentina attraversando Brasile, Paraguay, Uruguay e forse anche Bolivia che, attualmente in fase di studio di fattibilità, ha tutti i requisiti, se realizzato[10], per costituire un elemento di tensione nei rapporti tra gli Stati Uniti e i vicini sudamericani.

Il progetto, successivo al trattato di integrazione energetica tra Venezuela, Brasile e Argentina messo a punto nel maggio 2005, e sostenuto in particolare dal presidente venezuelano Hugo Chavez, punta a incrementare la forza contrattuale degli stati sudamericani nell’economia globalizzata, affrancandoli dall’influenza degli USA. E’ nota infatti la rilevanza energetica del Venezuela, che è il terzo fornitore di petrolio degli Stati Uniti e il più grande fornitore di petrolio dell’America latina (di grande interesse per la forte domanda proveniente da Cina e India). Le riserve di petrolio del paese, per quanto ingenti e stimate intorno agli 80 miliardi di barili - equivalenti a quelle russe - risultano enormemente inferiori alle sue riserve di gas naturale, in gran parte inesplorate, valutate intorno ai 60 trilioni di metri cubi. 

Delta del Niger

Un’altra area geografica che ben rappresenta il complesso nucleo di problemi - geopolitici, sociali e ambientali – correlati al controllo delle fonti energetiche da idrocarburi e la crescita di instabilità che ne deriva è il delta del Niger.

La Nigeria è il paese africano più importante per la produzione di petrolio e gas, disponendo di riserve rispettivamente pari 35,8 miliardi di barili quanto a risorse offshore (ossia ricavabili dalla sua piattaforma continentale del golfo di Guinea), 30 miliardi di barili onshore nel delta del Niger, nonché sulla quota più cospicua degli oltre 450 trilioni di piedi cubi di gas naturale (dislocati on e off shore) che costituiscono il totale delle riserve di gas naturale stimate per il continente africano.

Nel delta del Niger la cinquantennale attività estrattiva delle compagnie petrolifere ha prodotto enormi ricavi e nessuna ricaduta positiva per la popolazione che rimane priva di elettricità e di acqua corrente pulita e che soffre delle conseguenze del degrado ambientale[11]. In un paese come la Nigeria - governato per decenni da leader militari arrivati al potere con un colpo di stato e poi sostenuti dai proventi dei contratti stipulati dallo stato nigeriano con le multinazionali - le compagnie petrolifere hanno agito in modo da non turbare gli equilibri politici interni, favorendo anche i regimi dittatoriali, purchè idonei a garantire ogni protezione militare ai grandi interessi economici in gioco.

La crisi sempre più grave in corso nel delta del Niger rende quest’area una delle più instabili, insicure e degradate dell’intero pianeta. I leader delle comunità locali (circa 27 milioni di abitanti concentrati in una delle aree a più alta densità abitativa del mondo, con una crescita demografica annuale del 3% circa) rivendicano il diritto delle popolazioni ad essere associate ai benefici della ricchezza derivante dallo sfruttamento delle risorse del territorio chiedendo una ridistribuzione dei profitti e adeguati investimenti per lo sviluppo socioeconomico della regione. Questa tensione politica sta mettendo economicamente in ginocchio il governo federale di Abuja per la violenza distruttiva con cui ha investito le infrastrutture dello sfruttamento petrolifero (oleodotti e piattaforme): la produzione di greggio, attestata intorno ad uno standard di 2,5 milioni di barili al giorno, ne risulta ridotta di almeno 200.000 barili, in gran parte vandalizzati o rubati e l’instabilità favorisce il dilagare della criminalità, della violenza giovanile e di megatraffici di petrolio sul mercato nero (bunkeraggio illegale). Al gruppo anglo-olandese Shell, che è il maggior operatore dell’area, e al governo federale, è mossa l’accusa politica di non aver investito in piani di sviluppo, limitandosi a massimizzare i profitti derivanti dalla rendita petrolifera.

Alla Shell viene attribuita poi una grave responsabilità ai fini del degrado ambientale e della emissione di gas serra: quella di bruciare il gas associato che fuoriesce insieme al getto petrolifero per non investire in impianti di separazione. La contestazione locale alla politica del “gas bruciato”, iniziata già alla metà degli anni ottanta, è stata sempre elusa dal governo federale che ha reiteratamente rimandato la soluzione del problema adducendo l’indisponibilità, a livello locale, di progetti adeguati all’assorbimento di quantitativi così ingenti di gas. In attesa di una soluzione concreta, ogni giorno nel cielo del delta viene bruciata circa metà dei 5 miliardi di piedi cubi di gas associato prodotto, con uno spreco enorme di risorse che procura un danno ambientale ingentissimo (l’ininterrotta combustione delle gigantesche fiaccole tipiche dello skyline dell’area provochrebbe un’ emissione di gas serra dall’area del delta del Niger superiore a quella riferibile a tutto il resto dell’Africa subsahariana[12]).

Complessivamente, questa regione rappresenta oggi forse l’area geografica che meglio rappresenta – nel mondo - l’intreccio fra combustibili fossili, inquinamento e conflitti armati.

Le nuove guerre per l’acqua e per la terra

Un secondo versante su cui è possibile leggere gli effetti del cambiamento climatico sulle relazioni internazionali è quello del degrado ambientale di vaste aree del pianeta a causa della desertificazione e della carenza di risorse idriche e degli effetti di tale degrado sulle condizioni di sicurezza e stabilità, sia interna che internazionale.

La crescente diffusione di conflitti armati (sia di carattere locale che internazionale) originati dal - o comunque connessi al - controllo di risorse idriche rappresenta ormai un dato ben noto e universalmente acquisito.

Eppure, appena 20 anni fa la previsione formulata da Ismail Seregeldin, vicepresidente della Banca mondiale – “se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI avranno come oggetto del contendere l’acqua” – fu prevalentemente accolta come un paradosso, se non respinta con incredulità.

La rapidità di questo cambiamento dello stesso quadro di relazioni internazionali ha sullo sfondo la rapidità e alla non sostenibilità dei processi di crescita economica e demografica, con una popolazione mondiale che aumenta di 85 milioni di persone all’anno e che richiede quantitativi di acqua dolce sempre maggiori per i diversi usi civili, industriali e soprattutto agricoli (già oggi il 65-70% delle risorse è destinato a scopi irrigui). Ma un fattore non irrilevante sembra essere rappresentato anche dai fenomeni di cambiamento climatico e desertificazione: si calcola che ormai ogni anno circa 6 milioni di ettari (il doppio della superficie del Belgio) subiscono un processo irreversibile di desertificazione. Conseguenza di questo fenomeno è l’allarmante processo di perdita di fertilità e produttività del suolo con stime che ne valutano in 20 milioni di ettari annui le dimensioni totali e al 35% dell’intera superficie utile del pianeta l’area del rischio ormai prossimo.

Numerosissimi conflitti del recente passato o in corso possono quindi (e dovrebbero) essere letti nel contesto di esasperazione che si determina allorquando trasformazioni rapidissime e catastrofiche dell’habitat naturale minacciano la sopravvivenza di intere popolazioni. Tali conflitti possono assumere – di volta in volta – carattere locale o internazionale. Essi possono costituire il terreno su cui si innestano anche rivalità politiche, etniche o religiose, ma il controllo delle risorse idriche, la desertificazione e la progressiva riduzione del suolo fertile appaiono orami fattori - permanenti e di primaria importanza - di instabilità di tensione. Infatti, un aumento della conflittualità appare ormai con evidenza nelle aree del pianeta sottoposte a grandi processi di degrado ambientale e desertificazione (prime fra tutte l’area sahariano-saheliana[13]).

Tensioni internazionali per l’acquasi riscontrano – in primo luogo - nei numerosi casi in cui i sistemi fluviali attraversano più paesi. E’ sufficiente richiamare quanto nello stesso conflitto israelo-palestinese sia riconducibile al controllo delle risorse idriche del Giordano e dei suoi affluenti e ai processi di desertificazione in corso nella regione. Il limitato rifornimento idrico naturale di Israele, Giordania e delle aree palestinesi raggiunge una media annua di 2,7 miliardi di metri cubi, provenienti da fiumi e falde acquifere rinnovabili, cioè diverse centinaia di milioni di metri cubi in meno di quanta se ne consuma. La popolazione totale, che nel 2006 era di 17 milioni di abitanti, nel 2040 potrebbe salire a 34 milioni. In questa ipotesi, la riserva pro capite scenderebbe molto al di sotto dei 125 metri cubi necessari per sostenere uno standard ragionevole di vita civile (il calcolo, effettuato dalla organizzazione Green Cross, è approssimato per difetto in quanto non tiene conto dell'impiego in agricoltura).

Su questo piano, la Siria ha messo in atto negli ultimi 30 anni una politica estremamente aggressiva nei confronti della Giordania, utilizzando in quantità sempre maggiori l'acqua del fiume Yarmuk, che costituisce parte del confine tra i due paesi arabi e costruendo dighe nel tratto superiore dello Yarmuk.

Israele poi dipende da acque che hanno in gran parte origine fuori dei suoi confini. Non solo i fiumi Banias e Hatzbani, che provengono dal territorio controllato o reclamato dalla Siria, sono affluenti primari del bacino del Giordano, ma mentre complessivamente solo il 3 % del bacino del Giordano si trova in territorio israeliano, si calcola che questo stato sfrutta il 60 % della portata del fiume per alimentare l’unica economia industriale dell’area.

Un’altra area di forte instabilità a causa del problema idrico è quella del bacino del Nilo - che attraversa Egitto, Tanzania, Sudan, Burundi, Ruanda ed interessa anche l’Etiopia, essendo alimentato anche dalle precipitazioni che si scaricano sul suolo di quel paese – esso rappresenta l’unica risorsa idrica per Sudan ed Egitto (che ne sono i principali fruitori e contendenti) nonché per l’ Etiopia, paesi ubicati in un’area particolarmente arida e semi-arida interessata, negli ultimi decenni, da un elevato sviluppo demografico. Le acque di questo storico fiume riforniscono una popolazione che nel 2025 potrebbe arrivare a 859 milioni di persone. Forti tensioni sono in atto in relazione, da un lato, al progetto egiziano di deviazione del corso del Nilo verso il Sinai settentrionale, dall’altro alla costruzione della diga di Hamadab/Merowe (Sudan settentrionale, a circa 350 km a nord di Khartum), iniziata nel 2005 e finanziata anche con capitale cinese[14], che ha causato forti ripercussioni sociali anche all’interno del paese. Ulteriori potenziali momenti di frizione sono rilevati dagli osservatori che segnalano come la pressione della domanda d’acqua sul Nilo sia destinata ad aumentare allorché anche Uganda, Tanzania e Kenia accresceranno lo sfruttamento delle acque del lago Vittoria, principale sorgente del Nilo Bianco, sottraendo acqua ai paesi a valle.

Sempre rimanendo nel continente africano, occorre almeno ricordare come all’origine della crisi del Darfur vi sia il controllo di porzioni decrescenti di terreni coltivabili e di risorse idriche scarse.

Il territorio della regione (500.000 chilometri quadrati, 6 milioni di abitanti) è popolato da gruppi etnici, arabi e non arabi, che possono esser proprietari di un “dar”, ossia di un territorio regolato dal diritto fondiario consuetudinario, ovvero che non godono dei diritti fondiari tradizionali e vivono, pertanto, sulle terre di altri gruppi. Questo è stato in origine il fattore scatenante di un conflitto nel quale ormai (dopo 4 anni) si intrecciano in modo inestricabile anche motivi politici e religiosi e grazie al quale si è avuto un fortissimo incremento della criminalità comune.

Ma la guerra – causata dal degrado ambientale – ha a sua volta accresciuto il degrado stesso: a seguito del conflitto fra milizie filo-governative di etnia araba e popolazione locale molte aree coltivate sono state abbandonate dalla popolazione in fuga e quindi sono ora più facilmente colpite da fenomeni di desertificazione. Oggi si stima che un abitante dell’area su tre sia profugo, sottratto ad ogni attività produttiva, di cura e manutenzione del suolo.

Tensioni locali o “conflitti a bassa intensità” determinate dal peggioramento delle condizioni ambientali, e in particolare dalla scarsezza di acqua e di suolo coltivabile sono rilevabili in moltissime regioni: Kazakistan, Kirghizistan ed Uzbekistan, gli stati costieri del Syr Daya, il fiume che affluisce nel Mare di Aral (praticamente secco), Cambogia, Laos, Tailandia e Vietnam, che condividono il fiume Mekong supersfruttato dalla pesca; mentre sopravvive la Commissione del Fiume Indo, nonostante il permanente dello stato di tensione militare tra India e Pakistan.

Inoltre, si può ricordare come il problema della scarsità di suolo coltivabile abbia influenzato – ad esempio - le tensioni in Ruanda (genericamente ma erroneamente ascritte al solo fattore etnico) e abbia determinato il conflitto in corso in Zimbabwe. In questo paese la riforma agraria annunciata nel 2000 dal presidente Robert Mugabe con intenti egualitari si è limitata a produrre l’espulsione dell’80 per cento dei cinquemila proprietari terrieri bianchi, sostituiti da dirigenti di regime che non sono in grado di sfruttare le terre acquisite; in conseguenza di ciò circa tre milioni – pari a un quarto della popolazione – degli abitanti del paese considerato un tempo una sorta di granaio dell’Africa australe dipendono dagli aiuti alimentari internazionali.

Lo spettro della guerra civile è invece presente in Costa d’Avorio dove dietro lo scontro tra ribelli nordisti e sostenitori sudisti del presidente Laurent Gbagbo si profila la battaglia per l’accesso a risorse idriche scarse e il possesso di terreni coltivabili insufficienti. Nel paese, ancora in gran parte rurale, una percentuale tra il 30 e il 40 per cento della popolazione è di origine straniera e proviene dal Burkina Faso, Mali e Guinea; tale popolazione ha ereditato i possedimenti dai genitori e rappresenta il pilastro dell’agricoltura ivoriana. La popolazione autoctona ha difficoltà ad accedere alla terra e non è protetta da efficaci sistemi di compensazione[15].

Il cospicuo aumento delle tariffe derivante dalle privatizzazioni dei servizi idrici ha provocato diffuse instabilità sfociate talvolta in guerriglia (Cochabamba, Bolivia, 1999), talvolta nella diffusione di gravi malattie (epidemia di colera in alcuni distretti del Sudafrica, 2000) causata dal ricorso da parte della popolazione non più in grado di sostenere i costi del servizio idrico ad acque non pulite.

La costruzione di dighe ha provocato in India le gravi violenze negli stati del Karnataka e del Tamil Nadu. Ciò rinvia – fra l’altro - al problema di scelte ambientali catastrofiche ai fini del mantenimento del bilancio idrico (fra questi, i progetti faraonici di deviazione di fiumi e costruzione di grandi dighe che hanno interessato, in particolare, India e Cina) e alla sostanziale assenza di un sistema di controlli sulle scelte di governi, la cui azione è svincolata da ogni obbligo di consultazione delle popolazioni interessate e non è sottoposta ad alcuna forma di controllo democratico[16].

Le interrelazioni fra accesso alle risorse idriche e sviluppo economico presentano alcune evidenze. Studi scientifici autorevoli hanno rilevato addirittura l’esistenza di una diretta correlazione tra scarsità delle precipitazioni e bassi livelli di GDP (PIL) pro capite; sulla base di tale correlazione è stato costruito un indice (Seasonal Storage Index, SSI) delle aree che necessitano di infrastrutture di stoccaggio dell’acqua, al fine di mitigare l’impatto della variabilità delle precipitazioni sulla disponibilità d’acqua non solo per l’alimentazione, ma anche per la produzione agricola di base, posto che è assodato che la pratica di quest’ultima in condizioni critiche limita significativamente le possibilità di sviluppo economico. I Paesi più bisognosi di tali infrastrutture, quindi i più poveri del mondo, sono risultati essere, per la maggior parte, Paesi africani[17].

Oggi si calcola che 1,2 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 1/3 della popolazione mondiale vive in condizioni di stress idrico. Nel 2025 saranno 5,5 miliardi (circa i 2/3 degli abitanti del pianeta) le persone a rischio idrico. Il consumo globale di acqua raddoppia ogni 20 anni, ad un tasso quindi più che doppio rispetto alla crescita della popolazione mondiale. L’allarme non riguarda più solo le regioni del pianeta tradizionalmente povere di acque, ma – in modo crescente – anche aree con maggiore disponibilità, caratterizzate da trend demografici non sostenibili (es. India) o da radicati stili di vita della popolazione che producono il saccheggio indiscriminato di risorse idriche (Stati Uniti, Europa)[18].

Ciò porta fondatamente ad affermare che l’accesso alla risorsa idrica (e quindi il cambiamento climatico strettamente interrelato ai fenomeni di desertificazione) rappresenta oggi uno dei massimi fattori di instabilità e di tensione internazionale.

 

La comunità internazionale ha – finora – sviluppato una iniziativa di limitata efficacia rispetto a tali problematiche.

L’elemento di maggiore interesse (oltre ai Summit mondiali sullo sviluppo sostenibile organizzati dalla Nazioni Unite)[19] è rappresentato dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione nei paesi gravemente colpiti dalla siccità e/o dalla desertificazione, UNCCD[20]. In questo ambito la desertificazione è stata definita come quel processo di "degrado dei terreni coltivabili in aree aride, semi-aride e asciutte sub-umide in conseguenza di numerosi fattori, comprese le variazioni climatiche e le attività umane". La Convenzione UNCCD, entrata in vigore il 26/12/1996 e a tutt’oggi ratificata da 191 paesi, tra cui l’Italia, ha come scopo principale l’adozione di strategie incentrate simultaneamente sul miglioramento della produttività delle terre, sul ripristino, sulla conservazione e sulla gestione sostenibile del suolo. La Convenzione è dotata di potere esecutivo e, pertanto, l’adesione ad essa comporta impegni nazionali precisi per un’azione concreta, in particolare a livello locale.

Recentemente a Buenos Aires (12-21 marzo 2007) si è svolta la quinta sessione del Comitato per l’applicazione della Convenzione (CRIC5), dedicata essenzialmente all’esame delle misure adottate dai paesi di Asia, America Latina e Carabi, Mediterraneo settentrionale ed Europa centrale e orientale interessati dal fenomeno della desertificazione.

L’ottava Conferenza delle parti sulla desertificazione (COP8), che segue la Conferenza svoltasi a Nairobi nell’ottobre 2005 (COP7)[21], si terrà a Madrid, dal 3 al 14 settembre 2007. La Conferenza delle parti, composta da tutti i governi che hanno ratificato la Convenzione, ne è l’organo supremo ed è preposto a garantirne l’attuazione, decidendo, tra il resto, il programma da attuare in ciascun biennio e il relativo budget.

Una sede, non governativa, di dibattito internazionale mirante ad influenzare le politiche dell’acqua a livello globale è rappresentata dai Forum mondiali sull’acqua (World Water Forum), la cui quarta edizione si è svolta a Città del Messico nel marzo 2006.

Si segnala in proposito la risoluzione 7-00185 (De Zulueta e altri) presenta alla Camera dei deputati il 30 maggio 2007, approvata all’unanimità dalla III Commissione nella seduta del 14 giugno 2007.

 

Un secondo aspetto da considerare è connesso alle iniziative della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale.

Com’è noto, dalla metà degli anni ’90 i due organismi, insieme al WTO (istituito nel 1995) promuovono una vasta attività finalizzata alla liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi[22]. In questo contesto è da collocare la problematica della privatizzazione delle risorse idriche, in gran parte conseguenza inevitabile della stessa scarsezza della risorsa, ma anche particolarmente incentivata – soprattutto negli ultimi anni – dalle attività di finanziamento promosse dalla World Bank.

La necessità di un intervento dei privati nella gestione delle risorse idriche viene tradizionalmente motivato con la necessità di gestire in maniera economicamente efficace la risorsa acqua, assicurando quantità e qualità del servizio ed evitando sprechi nei consumi. Inoltre l’intervento di soggetti privati dovrebbe garantire risorse finanziarie (di cui spesso i soggetti pubblici non dispongono) da destinare ad interventi strutturali sulle reti e quindi alla riduzione delle perdite di rete che rappresentano una delle principali cause di spreco [23].

Esiste tuttavia una pubblicistica[24] che mette in discussione la fondatezza di tali aspettative. Il subentro dei privati al pubblico nella gestione dei servizi idrici, infatti, non garantirebbe – di per sé - migliori servizi né il rispetto delle esigenze di caratteriale ambientale o sociale, non sempre coincidenti con la massimizzazione dei profitti. Sul piano ambientale, le società private non applicherebbero politiche di sostenibilità a lungo termine, puntando piuttosto alla maggior crescita dei consumi nell’immediato: per esse, rimangono più convenienti i processi ambientalmente non virtuosi (desalinizzazione[25], deviazione di fiumi, costruzione di dighe) piuttosto che progetti a lunga scadenza basati sull’educazione al risparmio.

A parte valutazioni molto generali sulla idoneità o meno dei meccanismi di mercato a risolvere in modo efficace i grandi problemi sociali ed ambientali delle società contemporanee, è utile comunque riportare alcune stime di carattere economico relative ai processi di privatizzazione.

Si valuta in 400 miliardi di dollari annui il volume d’affari attuale delle forniture idriche, ma stime della Banca Mondiale prevedono che si arrivi, in tempi assai vicini, ad oltre 1.000 miliardi. L’industria idrica, le cui entrate già oggi sono pari al 40% di quelle petrolifere, diventa così, secondo gli analisti economici, il “miglior settore del prossimo secolo”, quello che consente, per giunta, i più ampi margini di crescita, visto che oggi solo il 5% della popolazione mondiale riceve acqua dalle corporations.

La prospettiva di consistenti profitti è alla base di vari progetti, ad alta intensità di capitale, ma anche ad alto rischio ambientale: processi di desalinizzazione, mega condutture, sistemi di canali, dighe e bacini artificiali in grado di convogliare l’acqua ad enormi distanze (ad esempio il NAWAPA, un mega canale che convoglierebbe le acque dell’Alaska fino allo Stato di Washington attraverso le Montagne Rocciose, creando un bacino artificiale della lunghezza di oltre 800 chilometri).

In ogni caso, i processi di privatizzazione delle risorse e di aumento delle tariffe rischiano di rappresentare, a loro volta, un nuovo fattore di tensione in paesi colpiti da gravi emergenze e catastrofi ambientali e da povertà[26].

 


SIWEB

 

 

Senato della Repubblica

XV LEGISLATURA

 

Assemblea

 

 

 

RESOCONTO STENOGRAFICO

ALLEGATI

 

 

ASSEMBLEA

 

169 a seduta pubblica (pomeridiana):

 

14 giugno 2007

 

Presidenza del vice presidente BACCINI

 

 


Ripresa dello svolgimento di interrogazioni (ore 16,44)

 

 

PRESIDENTE. Segue l'interrogazione 3-00554 sulle iniziative per la limitazione del surriscaldamento terrestre.

 

Il rappresentante del Governo ha facoltà di rispondere a tale interrogazione.

 

 

STRADIOTTO, sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Signor Presidente, in risposta all'interrogazione presentata dal senatore Possa, si osserva che la maggior parte del mondo scientifico internazionale da tempo ritiene che le attività antropogeniche, svolte dal periodo post-industriale ad oggi, rappresentano la principale causa del surriscaldamento del pianeta. Tale conclusione è stata ribadita nel quarto rapporto di valutazione, approvato dal gruppo di lavoro n. 1 dell'Intergovernmental panel on climate change (IPCC) lo scorso febbraio, al quale fa riferimento anche il Ministero dell'ambiente.

 

Al riguardo, occorre evidenziare che l'IPCC è un organismo delle Nazioni Unite, istituito nel 1988 dalla Organizzazione mondiale per la meteorologia e dal Programma ambientale delle Nazioni Unite, allo scopo di fornire a chi fa politica una valutazione obiettiva e corretta della letteratura tecnico-scentifica e socio-economica disponibile in materia dei cambiamenti climatici, impatti, adattamento e mitigazione.

 

Per quanto concerne, in particolare, il fenomeno dell'incremento della temperatura media globale, si evidenzia che l'IPCC ha calcolato tale incremento considerando una media tra le temperature rilevate sulla superficie terrestre e quelle rilevate sulla superficie marina, tenendo presente, altresì, l'impatto delle "isole di calore" urbane, certamente reale, ma di entità talmente limitata da essere stimato in 0,006 gradi centigradi per decennio.

 

Per quanto attiene, invece, il tema specifico delle responsabilità del riscaldamento globale in atto, si fa presente che nelle conclusioni contenute nel documento "Sintesi per i decisori" predisposto dal gruppo di lavoro n. 1 del quarto rapporto di valutazione dell'IPCC, si rileva che "la maggior parte degli aumenti nella media delle temperature globali dalla metà del XX secolo è, molto probabilmente, dovuta all'aumento osservato della concentrazione di gas ad effetto serra causato dall'attività umana".

 

La scelta collegata all'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura media globale del pianeta entro i 2 gradi centigradi, al fine di limitare gli impatti sulla società e sui sistemi naturali, dipende, comunque, da considerazioni soggettive sull'entità del rischio ammissibile.

 

A tal riguardo, la "Sintesi per i decisori" predisposta dal gruppo di lavoro n. 2 del quarto rapporto di valutazione dell'IPCC, approvata nell'aprile scorso, ribadisce che "per aumenti della temperatura che superino 1,5-2,5 gradi centigradi di temperatura media globale, si prevede che ci siano cambiamenti sostanziali nella struttura e nella funzione degli ecosistemi (...) con conseguenze prevalentemente negative per la biodiversità e per i beni e servizi che essa fornisce, come l'acqua e il cibo".

 

Infine, è opportuno rilevare che, già prima della pubblicazione del citato rapporto di valutazione, in sede di Consiglio europeo svoltosi nella primavera 2005, i Capi di Stato e di Governo dell'Unione Europea avevano affermato che "per realizzare l'obiettivo ultimo della Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l'aumento mondiale annuo della temperatura di superficie non deve superare di 2 gradi centigradi i livelli preindustriali"; pertanto, non appare congruo intraprendere iniziative presso la Commissione europea per rivedere gli obiettivi già stabiliti.

 

L'obiettivo di limitare l'incremento della temperatura globale a non più di 2 gradi centigradi corrisponde, infatti, a valutazioni condivise dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica, alle quali il nostro Paese - insieme a tutti i suoi partner europei -si è sempre ispirato anche nel recente passato.

 

 

POSSA (FI). Domando di parlare.

 

 

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

 

 

POSSA (FI). Signor Presidente, le precisazioni fornite dal Sottosegretario che ringrazio non mi convincono affatto, perché l'obiettivo che è stato fissato è completamente al di fuori della portata del nostro Paese, come pure della Comunità Europea. Cercherò di chiarirne il motivo.

 

Innanzitutto, quanto affermato dall'IPCC non si riferisce alle emissioni di gas serra della Comunità Europea, ma a quelle della totalità della popolazione mondiale, cioè di circa 6,5 miliardi di persone di tutti i Paesi, che sono molto superiori. Come fa allora la Comunità Europea ad assumere un obiettivo - 2 gradi centigradi - che si riferisce all'intero mondo?

 

In secondo luogo, l'obiettivo è riferito non a tutti i gas serra antropogenici, non a tutte le azioni dell'uomo che hanno influenza sul clima, ma unicamente, di fatto, al livello di anidride carbonica e alle emissioni di questo gas associate alla combustione dei combustibili fossili.

 

Anche qui, faccio riferimento al documento citato più volte dal Sottosegretario, l'Executive summary for policy makers, pubblicato dall'IPCC nel mese di febbraio, che contiene il prospetto per il 2005 dei forcing radioattivi dovuti all'azione umana. Ebbene, tra gli elementi che modificano il clima, secondo l'IPCC, il primo, con 1,66 watt al metro quadro, è costituito dall'anidride carbonica da combustibili fossili, ma poi c'è, ad esempio, il metano dovuto all'agricoltura, ben 0,48 watt al metro quadro; seguono l'NO2 (altro gas serra), i gas composti di cloro e di fluoro, quindi gli effetti dovuti agli aerosol, che sono, per fortuna, di altro segno con poco più di un watt di segno negativo per metro quadro.

 

In sostanza, la somma complessiva delle emissioni relative alle attività che 6,5 miliardi di persone pongono in essere - combustibili fossili, agricoltura, produzione di aerosol, eccetera - ha effetto sul clima: purtroppo, la Comunità Europea e i documenti cui il Sottosegretario faceva riferimento, anche del Consiglio europeo, attribuiscono l'aumento di 2 gradi centigradi della temperatura unicamente all'anidride carbonica.

 

Ripeto, pur essendo riferito alla dimensione mondiale, questo viene di fatto sbandierato come un obiettivo della Comunità Europea, pur debordando assolutamente dalle sue reali possibilità. Noi, cittadini europei, non abbiamo l'anello al naso, non abbiamo bisogno di obiettivi che si pongono totalmente al di fuori delle nostre possibilità; gli obiettivi sono realistici quando riguardano le possibilità concrete di fare o di non fare dei cittadini. Non possiamo sapere come andrà il clima per suo conto, perché ci sono poi tante cause naturali che influiscono sulla variazione della temperatura.

 

Da questo punto di vista, aver imposto un limite del genere, sia pure con il consenso di tutti i Presidenti del Consiglio degli Stati europei, è una accondiscendenza unicamente mediatica intollerabile ed inaccettabile.

 

 

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle interrogazioni all'ordine del giorno è così esaurito.

 

 

 


 

III COMMISSIONE PERMANENTE

(Affari esteri)

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Risoluzione in Commissione 7-00185

presentata da

TANA DE ZULUETA

mercoledì 30 maggio 2007 nella seduta n.161

 

La III Commissione,

premesso che:

il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Siccità ed alla Desertificazione (UNCCD) e ha più volte seguito la sua decennale attuazione con atti di indirizzo e ispettivi, audizioni e missioni;

nella scorsa legislatura sono state approvate dalla III Commissione della Camera dei deputati varie risoluzioni parlamentari a sostegno dell'attuazione della UNCCD a livello nazionale e internazionale;

anche in questa legislatura si è già svolta una audizione in Commissione del Segretario Esecutivo della UNCCD, nella quale sono state presentate e discusse le attività dell'ONU coordinate dalla UNCCD nel 2006, dichiarato «Anno Internazionale dei Deserti e della Desertificazione» (IYDD);

si svolgerà a settembre 2007 in Spagna l'ottava Conferenza delle Parti (COP 8) della UNCCD, nell'ambito della quale sarà organizzata una tavola rotonda fra parlamentari, come già nelle precedenti COP;

l'acqua deve ancora essere riconosciuta a livello internazionale come bene comune e diritto inalienabile e non sono stati ancora individuati targets, obiettivi concreti scadenzati e legalmente vincolanti, per raggiungere l'impegno dell'accesso all'acqua per tutti nelle qualità e quantità minime vitali;

serve una azione dell'ONU coerente e sinergica delle agenzie ONU competenti e delle convenzioni globali (cambiamenti climatici, lotta alla desertificazione, tutela della biodiversità) capace, fra l'altro, di ridurre e prevenire il degrado del suolo, di estendere e migliorare la gestione sostenibile delle risorse idriche;

per prevenire e ridurre gli impatti previsti dai vari scenari di variazioni climatiche nei prossimi decenni è necessario combinare strategie di mitigazione e riduzione delle emissioni con strategie di adattamento, alcune misure di adattamento sono a minore impatto sociale ed economico e richiedono minori investimenti finanziari, il recupero delle tecnologie tradizionali offre vantaggi particolarmente nella gestione e conservazione delle risorse naturali;

è stato recentemente promosso dal Ministero italiano dell'ambiente e della difesa del territorio e del mare e dalla Regione Toscana un positivo accordo sostenuto dalla UNCCD, in collaborazione anche con l'UNESCO, al fine di creare un Centro Internazionale per le Conoscenze Tradizionali a Firenze, un centro di eccellenza, che può costituire l'unico riferimento nel suo genere a livello mondiale, dando atto della leadership delle istituzioni italiane in un settore di ricerca e sviluppo di particolare importanza per lo sviluppo del territorio, la conservazione e gestione delle risorse naturali in maniera sostenibile, in particolare il suolo e l'acqua;

il 17 giugno è la giornata mondiale per la lotta alla siccità e alla desertificazione;

la recente quindicesima sessione della Commissione Sviluppo Sostenibile dell'ONU ha deciso di focalizzare il prossimo anno fra l'altro proprio su siccità e desertificazione,

impegna il Governo:

a coordinare e rafforzare l'impegno diplomatico in tutte le sedi internazionali in preparazione della COP 8 della UNCCD, nella quale sarà fra l'altro definita la strategia a medio termine sulla base della proposta dell'apposito Gruppo di Lavoro Internazionale (IIWG);

a promuovere l'affermazione solenne in sede ONU dell'acqua come bene comune e diritto umano, con l'impegno a garantire l'accesso all'acqua, almeno nella quantità minima necessaria ai bisogni primari della vita per ogni vivente;

a promuovere l'approvazione di un pacchetto di meccanismi ed obblighi per ogni paese e nelle relazioni fra paesi (accesso alle risorse idriche, usi prioritari, acque transnazionali, conoscenze tradizionali, aiuti allo sviluppo), che realizzi il godimento del diritto all'acqua astenendosi dal promuovere nelle sedi negoziali ogni processo di privatizzazione dell'acqua e dei sistemi di gestione, un accordo ONU definito in ambito UNCCD come protocollo negoziabile entro il 2008 che fissi obiettivi concreti scadenzati e legalmente vincolanti, determinati nella quantità e nella durata, contro la siccità e la sete, in coerenza con il settimo Obiettivo del Millennio;

a verificare la possibilità di ospitare in Italia nel 2008 una conferenza ONU sull'acqua ove si affermi solennemente che l'acqua è un bene comune e si fissino gli obiettivi vincolanti contro la sete, una conferenza promossa insieme alla UNCCD di concerto con altre agenzie internazionali;

a continuare nello sviluppo delle iniziative per la diffusione delle conoscenze e delle tecnologie tradizionali, contribuendo a destinare le risorse occorrenti all'avvio dell'attività del Centro Internazionale di Firenze sino alla sua possibile costituzione quale organizzazione di diritto internazionale.

(7-00185)

«De Zulueta, Mancini, Mattarella, Forlani, Rivolta, Mantovani, Venier, Cioffi, Spini, Carta, Siniscalchi, De Brasi, Zacchera, Khalil detto Alì Rashid, D'Elia, Leoluca Orlando, Casini, Cassola».

 




[1] Si è trattato della la dodicesima Conferenza delle Parti (COP12, costituita da 189 Paesi) e della Seconda Conferenza, dall'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, delle Parti che lo hanno ratificato (COP/MOP2, costituita da 157 Paesi).

[2] La proposta americana prevedeva essenzialmente l’organizzazione di una conferenza con i 15 Paesi produttori della maggiore quantita' di CO2 -  G8 (Usa, Giappone, Germania, Russia, Gran Bretagna, Italia, Canada e Francia) ma anche Cina e India, tutti insieme responsabili dell'80 per cento delle emissioni di gas serra - per discutere degli obiettivi di lungo termine per abbattere le emissioni e trovare un’intesa entro la fine del 2008, per accordarsi sul taglio dei costi della diffusione di tecnologie eco-compatibili e sulla promozione di  disboscamenti e colture sostenibili nonchè sull’aumento di investimenti nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie a risparmio energetico.

[3] Le stime sulla durata futura delle riserve di combustibili fossili non sono unanimi. Proprio recentemente sono stati diffusi i risultati di una ricerca condotta da una società scientifica inglese, l’Oil Depletion Analysis Centre, secondo cui già nel 2005 sarebbe stato raggiunto l’apice dell’estrazione del petrolio “regolare” (il più facile da estrarre perché collocato in superficie) e le attuali attività estrattive starebbero oggi rivolgendosi in misura crescente al petrolio “pesante”, localizzato in profondità nel sottosuolo. Tuttavia, già nel 2011 – secondo tale studio – si toccherà il massimo della estrazione anche di queste riserve di profondità e dopo quell’anno non potrà che esservi una progressiva diminuzione con conseguente rialzo dei prezzi e recessione mondiale.

Contrariamente a questo scenario, gli esperti della British Petroleum hanno pubblicato lo Statistical Review of World Energy ove si afferma che esistono certificate riserve petrolifere per almeno i prossimi 40 anni (ai ritmi attuali).

[4] Per altre fonti tali riserve sono valutabili tra 55 e 120 miliardi di barili.

[5] Entrambe le regioni nel 1991 si erano rese autonome con il sostegno russo. La regione dell’Adjaria, che si era a resa autonoma nello stesso momento, è stata riannessa alla Georgia nel 2005.

[6] La Georgia ha superato l’emergenza importando gas iraniano grazie a un allacciamento d’emergenza con la rete dell’Azerbaigian; successivamente la Georgia ha alleggerito la propria dipendenza energetica da Mosca firmando, nel novembre 2006, un accordo per la fornitura di gas con l’Azerbaigian e intraprendendo negoziati anche con l’Iran.

[7] Come si è potuto constatare nell’inverno del 2006 quando si ebbe un taglio di tale fornitura.

[8] La Russia che, che pure accusa una produzione che cresce ad un tasso inferiore rispetto al tasso di crescita della domanda, ha a disposizione, praticamente “sull’uscio” del consumatore europeo, il 27 per cento circa delle riserve mondiali di gas e il 6-10 per cento di quelle petrolifere.

[9] Si tratta dei secondi giacimenti al mondo per riserve, con oltre 27.000 miliardi di metri cubi.

[10] I primi studi di fattibilità hanno indicato in 17-20 miliardi di dollari di oggi i costi dell’opera e in circa sei-sette anni i tempi della sua realizzazione.

[11] Le perdite negli oleodotti, ad esempio, hanno sconvolto la pesca, una delle principali attività economiche, e le procedure per il risarcimento – che prevede cifre peraltro irrisorie - spesso generano violenti conflitti; la principale città del delta, Port Harcourt, soffre di un altissimo livello di inquinamento.

[12] Cfr. Il gran safari e le sue ombre, Limes, 3-2006.

[13] Sahel ("sponde del deserto") è una regione dell'Africa occidentale che comprende Mauritania, Niger, Burkina Faso, Senegal, Capo Verde, Guinea Bissau, Gambia, Ciad e Mali.

[14] I rilevanti interessi cinesi in Sudan sono ben noti: il paese asiatico ottiene dal Sudan il 6,9% delle importazioni totali di petrolio (corrispondenti al 60% della produzione di greggio del paese africano) e negli ultimi anni ha realizzato in loco una serie di infrastrutture per la lavorazione e il trasporto del prodotto, oltre a favorire operazioni di trasferimento di tecnologie e a garantire al governo di Khartum una protezione dalle pressioni della comunità internazionale in relazione alla crisi del Darfur.

[15] Nonostante una legge del 1995 disponga che per essere riconosciuti ivoriani è necessario essere nati in Costa d’Avorio da genitori originari, e la riforma fondiaria del 1998 riservi l’accesso alla proprietà ai “veri” ivoriani.

[16] Il 16 novembre 2000 Nelson Mandela, il presidente della Banca mondiale e ad altre imminenti personalità lanciarono a Londra il rapporto della Commissione mondiale sulle dighe (World Commission on Dams – WCD). Voluto dalla Banca mondiale e della World Conservation Union, il rapporto rappresentava la prima valutazione indipendente delle performance delle 45.000 grandi dighe costruite sui fiumi di tutto il pianeta nel corso del novecento. Contestualmente al Rapporto, molto critico, la WCD aveva presentato un pacchetto di raccomandazioni relative ai progetti futuri – tutte incentrate sulla accurata valutazione ambientale preventiva, sulla partecipazione, la trasparenza, la tutela dei diritti tradizionali delle popolazioni locali. A livello internazionale le grandi dighe erano, e rimangono, uno dei temi più controversi per quel che concerne le politiche di sviluppo. La portata storica dei lavori della Commissione consisteva nell’aver raggiunto un consenso tramite un processo che aveva visto per la prima volta allo stesso tavolo rappresentanti del settore della costruzione delle dighe, esponenti governativi, accademici, gruppi ambientalisti e movimenti sociali. Purtroppo la Banca Mondiale non ha ritenuto di dover adottare politiche coerenti con il Rapporto, ma ha ripreso negli ultimi anni a finanziare progetti di grandi dighe (vedi il controverso progetto idroelettrico di Nam Theun 2, in Laos).

[17] Cfr. Water end economic development: the role of variability and framework for resilience, in Natural resources forum 30 (2006).

[18] A fronte di un diritto minimo giornaliero calcolato dall’ONU in 40 litri pro-capite, in Italia il consumo quotidiano è di 267 litri (la media europea è di 165), in Canada 350, negli Stati Uniti 425 (e in Africa 10). Nell’industria ci vogliono 400.000 litri d’acqua per produrre un’automobile ed anche l’industria informatica, inizialmente considerata pulita, richiede grosse quantità di acqua dolce deionizzata che restituisce altamente inquinata (la maggior parte dei siti tossici finanziati dall’Agenzia per la Protezione Ambientale statunitense si trova proprio nella Silicon Valley). E l’agricoltura intensiva, con le sue pratiche di irrigazione diffusa (che può arrivare a disperdere fino all’80% dell’acqua utilizzata) ed il ricorso a concimi chimici e pesticidi, rappresenta una minaccia di inquinamento delle falde sotterranee.

[19] Il più recente è stato il World Summit tenuto a Johannesburg dal 26 agosto al 4 settembre 2002, derivante – a sua volta - da un processo iniziato con la Conferenza di Stoccolma “sull’ambiente umano”  del 1972, che dettò i seguenti principi di una azione internazionale in questo campo:

§       la libertà, l’uguaglianza e il diritto ad adeguate condizioni di vita;

§       le risorse naturali devono essere protette, preservate, opportunamente razionalizzate per il beneficio delle generazioni future;

§       la conservazione della natura deve avere un ruolo importante all’interno dei processi legislativi ed economici degli Stati.

[21] Le prime cinque sessioni della COP hanno avuto cadenza annuale e si sono svolte a Roma (1997), Dakar, Senegal (1998), Recife, Brasile (1999),Ginevra, Svizzera (2000) e Bonn, Germania (2001). Nel corso di tale ultima Conferenza, nell’affidare all’Avana, Cuba, la sesta edizione, si è deciso di distanziare le riunioni di due anni.

[22] Si ricorda che - a differenza di quanto avveniva in ambito GATT – caratteristica del WTO è proprio l’estensione della sua attività normativa dai soli beni commerciali, anche alla proprietà intellettuale e ai servizi (fra i quali ultimi è stato compreso il servizio idrico).

[23] Tali motivazioni sono alla base – anche in Italia – della riforma legislativa realizzata con la legge n. 36 del 1994 (cd “legge Galli”) che ha istituto il servizio idrico integrato e – in modo coordinato con l’art. 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (TUEL) – ha disposto l’affidamento del servizio a gestori privati e quindi la necessità che le tariffe si adeguino ad una gestione della risorsa secondo criteri di economicità.

[24] Vedi, per tutti: Barlow e Clarke, Oro blu, Arianna Editrice, 2004.

[25] Dove per ogni litro di acqua marina trattata, i due terzi diventano scorie altamente saline ed inquinanti.

[26] Significativi gli esempi – soprattutto relativi alla situazione indiana, riportati in:: Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli 2002.