Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Rapporti Internazionali
Titolo: IRAQ
Serie: Schede Paese    Numero: 27
Data: 25/09/2007

 

REPUBBLICA DELL’IRAQ

 


 

 

 

DATI GENERALI

Superficie

473.072 Kmq (circa una volta  e mezzo la superficie dell’Italia

 

Capitale

BAGHDAD (5.000.000)

 

Abitanti

26.074.000

 

Composizione etnica

Arabi  (75%), Curdi  (20%), Turcomanni   ed altri  (3%)

 

Religioni praticate

Musulmani  97% (Sunniti  35%, Sciiti 65%), Cristiani, e altri  3%

 

 

 

 

 

 

 

CARICHE DELLO STATO

 

Presidente

 

Jalal TALABANI  (dall’aprile 2005 Unione Patriottica del Kurdistan, PUK)

 

Primo Ministro

 

Nuri al_MALIKI (dall’aprile 2006. Alleanza Irachena Unita, Sciita)

 

Presidente dell’Assemblea Nazionale

 

Mahomoud al-MASHHADANI (dall’aprile  2006, Iraqi TAWAfiq Front, sunnita)

Ministro degli Esteri

 

Hoshyar ZEBARI

Ministro dell’Interno

 

Jawad al BULANI

 

 

 

PROSSIME SCADENZE  ELETTORALI

Elezioni politiche

2009

 

 

 

 

IL PROCESSO DI DEMOCRATIZZAZIONE IN IRAQ

 

Il Processo di normalizzazione in Iraq sta seguendo le indicazioni date dalla Risoluzione n. 1546 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dal 2004 sono state realizzate le seguenti tappe:

 

28 giugno 2004

Entra in carica il Governo ad interim iracheno

 

30 gennaio 2005

Si tengono le elezioni per i 275 membri dell’Assemblea Nazionale Costituente incaricata di redigere una bozza di costituzione (la precedente, provvisoria, era stata approvata l’8 marzo 2004 ed era osteggiata particolarmente dall’etnia musulmana sciita, in maggioranza nel Paese) da sottoporre a referendum popolare in vista di un assetto istituzionale definitivo del Paese. I 275 membri dell’Assemblea Nazionale Costituente sono inoltre incaricati di formare un Governo ad interim. La consultazione elettorale del 30 gennaio è boicottata dai musulmani sunniti.

 

3 maggio 2005

Entra in carica il primo Governo democratico dopo più di 50 anni.

15 agosto  2005

Presentazione della bozza della Costituzione all’Assemblea Nazionale di Transizione.

 

15 ottobre 2005

Viene approvata, con referendum, la bozza della Costituzione. I voti favorevoli sono stati il 78% ed i contrari il 21%. Per bloccare la costituzione sarebbe stato necessario che tre province avessero bocciato il testo con una maggioranza di due terzi. In due province a maggioranza sunnita i no sono stati superiori al 66%, ma in quella di Ninive i no hanno ottenuto solo il 55% dei voti. I risultati definitivi sono stati diffusi dalla Commissione elettorale irachena il 25 ottobre.

 

15 dicembre 2005

Si tengono le prime elezioni politiche dalla caduta del regime di Saddam Hussein.

 

20 maggio 2006

Il Primo Ministro al-Maliki presenta il suo governo

 

 

 

Questi i punti principali della Costituzione[2] approvata:

 

 

La Carta costituzionale appare complessivamente un testo moderato, in cui la presenza della legge islamica come una delle fonti del diritto è temperata dal richiamo al rispetto dei diritti umani fondamentali. Gli altri nodi di più difficile risoluzione (federalismo, ripartizione delle risorse naturali fra centro ed amministrazioni locali, status di Kirkuk, ruolo delle milizie) sembrano essere stati risolti attraverso formule che, di fatto, hanno rinviato a normazioni future. In particolare, la questione di Kirkuk, città curda ricca di giacimenti petroliferi, sottoposta ad una “arabizzazione” forzata ai tempi di Saddam Hussein, non è stata ancora risolta[3]

            Per quanto attiene alla questione del federalismo[4], si segnala che, il 26 settembre 2006, il Parlamento iracheno ha avviato il dibattito sul progetto di uno stato federalista. Il disegno di legge costituzionale stabilisce le competenze delle 18 province in cui è diviso l’Iraq ed i meccanismi per il loro eventuale raggruppamento in regioni autonome. Il progetto, proposto dalla coalizione sciita, maggioritaria, era osteggiato dai sunniti. Sunniti e sciiti hanno comunque raggiunto un compromesso in base al quale il progetto federalista non potrà entrare in vigore per almeno 18 mesi dopo l’eventuale approvazione.

            Il parlamento iracheno ha approvato l’11 ottobre 2006 il disegno di legge per la costituzione dello Stato federale come previsto dalla nuova Costituzione nazionale. Al termine di una terza lettura del testo, i deputati presenti - 140 su 275 - hanno votato il progetto, approvandolo a maggioranza. I parlamentari che si opponevano al disegno federale come previsto nella nuova legge hanno boicottato la seduta.  Si tratta in particolare di molti deputati sunniti, di quelli che fanno riferimento al giovane leader radicale sciita Moqtada Sadr, di alcuni componenti sciiti della maggioranza di governo che fanno capo al partito Fadila e alcuni deputati della lista dell'ex premier sciita Iyad Allawi.

            Il rapporto Baker-Hamilton sulla situazione in Iraq, diffuso alla fine del 2006, si è espresso sfavorevolmente – allo stato attuale – per un assetto federalista dell’Iraq, ed ha anzi raccomandato il rafforzamento del potere centrale dello Stato.

 

           

 

Le elezioni politiche del 15 dicembre 2005

 

            Più di 6.500 candidati, 307 partiti e 19 coalizioni si sono registrati per partecipare alle elezioni. I principali contendenti si sono organizzati secondo criteri etnici e religiosi: la Coalizione Unita dell’Iraq (comunità sciita), il Raggruppamento curdo (Alleanza), mentre gli arabi sunniti (che avevano boicottato le elezioni del gennaio 2005) erano rappresentati dal Tawafoq Iraqi Front ed il Fronte Nazionale Iracheno Hewar.

            La violenza, che caratterizza la vita irachena dalla fine del regime di Saddam Hussein, non è cessata neppure durante le elezioni. Oltre agli scontri verbali e fisici, si è registrata l’uccisione di un leader sunnita, Mizhar al Dulaimi. Circa il 79% dei 15,5 milioni di iracheni registrati ha partecipato al voto (con un netto progresso rispetto al 58,32% registrato nelle elezioni del gennaio 2005)

            Nella capitale, Baghdad, i risultati preliminari hanno segnato la vittoria della Coalizione Unita per l’Iraq (59%) Il Tawafoq Iraqi Front, piazzatosi secondo con il 19% delle preferenze, ha chiesto una ripetizione delle elezioni affermando che si erano avute numerose irregolarità e frodi.

            A più di un mese di distanza dalle elezioni, i risultati definitivi non erano stati ancora diffusi a causa dei molti reclami presentati alla Commissione Elettorale Indipendente (circa 1.800). I risultati definitivi sono stati diffusi il 10 febbraio 2006.       Il parlamento iracheno ha tenuto la sua prima sessione il 16 marzo 2006. Il 22 aprile Mahmoud al-Mashhadani è stato eletto speaker. Nello stesso giorno è stato confermato Presidente della Repubblica Jalal Talabani  il quale ha  nominato Jawad al-Maliki, precedente Speaker dell’Assemblea Nazionale di Transizione, Primo Ministro.


 

 

GOVERNO IN IRAQ

 

A SEGUITO DEGLI ULTIMI AVVENIMENTI POLITICI (CFR. INFRA) IL GOVERNO AL-MALIKI E’ APPOGGIATO DAI CURDI E DAGLI SCIITI DEL PARTITO DAWA.

 

 

Composizione del Parlamento iracheno:

 

PARTITI

SEGGI

Coalizione irachena unita (Sciita, composta da Dawa e Consiglio Supremo Islamico iracheno)

128

Raggruppamento del Kurdistan

53

Tawafiq Iraqi Front (sunnita)

44

Lista irachena di Iyad Allawi (laico)

25

Fronte Nazionale Iracheno Hewar (sunnita)

11

Unione Islamica del Kurdistan

5

Raggruppamento per la liberazione e la riconciliazione

3

Altri

6

TOTALE

275

Le donne sono 70 (il 25,45%).

 

 

 

ATTUALITA’ POLITICA

In collaborazione con il Servizi Studi

 

        

         La mozione contro il Presidente del Parlamento Mahmud Al-Mashhadani (11 giugno 2007) e gli sviluppi successivi

 

         Il Parlamento iracheno ha approvato nel giugno 2007 una risoluzione che ha costretto alle dimissioni il Presidente del Parlamento, al-Mashhadani (113 voti a favore su 168). La decisione di chiedere le dimissioni del Presidente del Parlamento è maturata in seguito a diversi episodi di violenza commessa da guardie del corpo di al-Mashhadani contro membri del Parlamento.         

            Immediatamente dopo la votazione della mozione, il blocco sunnita ha iniziato un boicottaggio dei lavori parlamentari in segno di protesta. Questo, insieme al boicottaggio del gruppo sciita facente a Moqtada Sadr (32 deputati) ha impedito l’approvazione della legge sulla ripartizione dei proventi del petrolio che – secondo la visione USA – potrebbe contribuire in modo decisivo alla stabilizzazione del Paese. Nel mese di giugno sciiti, sunniti e curdi avevano trovato un accordo di massima sulla ripartizione dei proventi petroliferi: il nord curdo avrebbe avuto il 17% dei ricavi netti ogni mesi (detratte le spese per il Governo federale). Il resto dovrebbe andare diviso tra le altre province, in base alla popolazione.

            I deputati sciiti, che avevano scelto il boicottaggio per protestare contro  la distruzione di due minareti del mausoleo di Al-Askari (Samara) uno dei luoghi santi più cari agli sciiti, hanno accettato di riprendere i lavori il 17 luglio in cambio della promessa da parte dell’autorità dell’adozione di nuovi misure di sicurezza e l’apertura di un’inchiesta. Due giorni dopo (19 luglio 2007) anche i sunniti hanno deciso di mettere fine al boicottaggio, dopo aver trovato un accordo con le altre forze politiche sulla restituzione a Mashhadani dell’incarico di Presidente.

L’accordo non ha comunque messo fine all’instabilità politica. A dispetto delle dichiarazione del Presidente USA, che ha riscontrato miglioramenti nel campo della sicurezza e della “riconciliazione politica”, i sei ministri del blocco sunnita hanno il 1° agosto le dimissioni dal Governo di unità nazionale[5].

            Gli analisti si stanno chiedendo se la realizzazione di uno stato democratico e coeso si sta allora trasformando in un’utopia.  All’indomani della caduta di Saddam Hussein vi era l’inevitabile consapevolezza che l’Iraq sarebbe rimasto un paese debole con una fragile società per ancora molto tempo: gli anni di Saddam infatti sono stati caratterizzati da guerre (prima con l’Iran e poi con l’Occidente), dall’embargo e da una dittatura brutale che hanno completamente distrutto non solo le infrastrutture fisiche del paese (fabbriche, scuole, ospedali, etc…) ma anche e soprattutto il potenziale umano. Nonostante tutto molti analisti sostennero che, come l’esperienza empirica dimostra in altre società deboli e fragili, anche in Iraq sarebbe stato possibile educare e formare una classe media capace di attuare una sorta di tecnocrazia, indispensabile per la costruzione del governo post-Saddam. Si sarebbe trattato di un processo lungo e faticoso. La debolezza della società sarebbe rimasta una costante ancora per molti anni, ma il governo avrebbe avuto la capacità di essere ragionevolmente stabile in modo da provvedere ad una adeguata sicurezza e da essere abile ad arginare il fenomeno della guerriglia interna. Poiché l’area geografica maggiormente colpita dalla violenza era il triangolo sunnita, situato al centro dell’Iraq, le forze di sicurezza avrebbero avuto successo solo se avessero convinto i sunniti ad abbandonare le loro simpatie per gli insorti iracheni. In questo caso il ruolo delle forze di coalizione guidate dagli Usa doveva essere decisivo nell’appoggiare il governo iracheno rendendolo più forte e maggiormente credibile agli occhi degli insorti, i quali prendendo atto della realtà si sarebbero convinti ad abbandonare le armi per raggiungere il potere. Simultaneamente, con una migliore situazione relativa alla sicurezza, ci sarebbe stata una generale partecipazione alla nuova organizzazione politica, alla luce dei modesti successi del governo.

            Sul piano pratico il governo, protagonista di questa ottimistica visione, doveva essere abile nel designare nuove strategie nazionali, implementare efficacemente un programma di ricostruzione, proteggere le risorse non rinnovabili, di cui il paese ne è ricchissimo, e soprattutto promuovere la nascita e lo sviluppo di un essenziale ed indigeno settore privato, indispensabile per la crescita economica irachena. Si sarebbe trattato di progetti proposti dal governo federale e dai singoli governatorati, e messi in pratica dal settore privato. In uno scenario contraddistinto da miglioramenti riguardanti la sicurezza, modesti successi nel campo delle nuove istituzioni, nonché la nascita di un settore privato integrato con quello pubblico, la fase successiva sarebbe stata caratterizzata dalle riforme democratiche. La chiave del successo di una simile visione era nelle mani della presunta classe media capace di dare al paese una piattaforma politica consapevole, responsabile e matura. Il problema però è che tanti anni di dittatura non hanno permesso alla società irachena di dotarsi di una classe politica autonoma, capace di non cadere nella trappola della corruzione e del lassismo politico, e seppur con tutto l’aiuto ed il sostegno delle forze di coalizione, la classe media del paese non ha avuto quel lungo periodo indispensabile per arrivare alla maturità necessaria per guidare un paese devastato dalla guerra.

            La fase di transizione indispensabile all’Iraq per ammortizzare gli anni della dittatura e la destabilizzazione della guerra, in realtà ha condotto al collasso degli apparati di governo e al fallimento della costruzione di legittime istituzioni. Nonostante tutto, almeno fino a qualche mese fa, la Casa Bianca continuava ad essere ottimista, sostenendo che i presunti miglioramenti e progressi registrati dal governo iracheno e dalle forze di coalizione concernenti la sicurezza del paese, avrebbero posto le fondamenta per future misure atte alla riconciliazione politica e alla messa in opera di indispensabili riforme. In realtà la violenza settaria nel paese non si placa ed inoltre è la stessa violenza che negli ultimi mesi ha innescato una serie di boicottaggi che hanno reso non-operativo il parlamento. I boicottaggi, insieme all’assenteismo cronico di cui soffre il parlamento, ne hanno paralizzato i lavori.  E’ indicativo notare come questi avvenimenti, legati soprattutto a questioni non vitali per il benessere del paese ma intrecciati piuttosto con interessi dei gruppi se non dei singoli attori, hanno privato l’Iraq di un governo stabile e funzionale. Il problema è che un governo democratico e solido è una vera e propria sfida per il paese dal momento che la cultura politica irachena non incoraggia liberalismo e democrazia nonché non vi è la concezione di una leale opposizione e di una tradizione di alternanza al potere. Il limbo politico alimentato dalle divisioni etnico-settarie tra sciiti, sunniti e curdi, incoraggia inoltre i gruppi terroristici, avvantaggiati da un aleatorio ambiente di sicurezza, a lanciare attacchi all’interno del paese.

            Inevitabilmente il piano economico risente completamente della critica situazione politica: le rendite petrolifere potrebbero risollevare rapidamente l’economia irachena ma senza una legge che gestisca l’utilizzo delle risorse energetiche, queste ultime non portano alcun beneficio. Infatti i tagli all’elettricità e la mancanza di reti di distribuzione dell’energia sono problemi quotidiani, sommati tra l’altro anche ai precari servizi nel campo idrico e sanitario. Queste carenze sono lo specchio di una profonda crisi umanitaria in atto nel paese: l’organizzazione umanitaria britannica Oxfam ha pubblicato recentemente un rapporto in cui riferisce che il 28% dei bambini iracheni è malnutrito, il 15% degli iracheni non può permettersi di mangiare regolarmente e il 70% non ha accesso all’acqua potabile, tutti fattori in brusco aumento dal 2003. Inoltre i combattimenti e le deboli istituzioni irachene limitano lo stesso lavoro umanitario.

            Tra le cause del malgoverno oltre alla grave emergenza umanitaria, vi è lo stretto legame tra ricostruzione e corruzione. Il governo infatti sta fallendo nell’importante responsabilità relativa alla distribuzione di miliardi di dollari per la realizzazione di progetti indispensabili alla ricostruzione del paese. Basti pensare che lo scorso anno il Primo Ministro al-Maliki ha allocato solamente il 22% del budget disponibile per progetti di vitale importanza, spendendo invece il 99% dell’ammontare per salari statali. Sul piano politico, le aspettative degli Usa riguardanti ad esempio l’adozione, da parte del parlamento, del testo di legge sulle elezioni, sull’equa distribuzione delle rendite petrolifere e sulle misure da prendere per permettere ai vecchi membri del partito Baath di reintegrarsi tra la popolazione attiva, sono state vanificate.

Recenti sviluppi della crisi irachena

 

Il Rapporto Baker

Nel marzo 2006 il Congresso USA ha deciso di affrontare le persistenti difficoltà presenti sul fronte iracheno con un’iniziativa complessiva che analizzasse in modo ampio e libero da condizionamenti politici le cause di tali difficoltà e ne indicasse i possibili rimedi. Tale iniziativa fu affidata ad una commissione consultiva parlamentare, a composizione bipartisan incaricata di procedere ad un riesame dell’intera strategia americana in Iraq.

Il 6 dicembre 2006 è stato presentato il Rapporto elaborato dalla commissione, co-presieduta dall’ex segretario di Stato, il repubblicano James Baker, e dal democratico Lee Hamilton, gia’ membro del Senato. Il Rapporto (160 pagine contenenti 79 proposte puntuali) ha proposto sostanzialmente un cambiamento di rotta chiedendo al presidente Bush di trasformare la missione militare in una missione di appoggio alle forze irachene, per consentire alle truppe combattenti Usa di ritirarsi entro il primo trimestre 2008; di porre al governo di Baghdad traguardi da raggiungere a breve e medio termine, inclusa la riconciliazione nazionale; di promuovere prima del 31 dicembre un Gruppo d'appoggio internazionale dell'Iraq con i Paesi vicini, la Siria e l'Iran compresi, oltre all'Onu e alla Ue; e di riavviare il negoziato di pace israelo-palestinese, valutato come passaggio indispensabile per la stabilita' della regione. Il Rapporto ricordava i dati di un bilancio pesante: 400 miliardi di dollari,quasi 3 mila vittime e oltre 22.000 feriti tra i soldati Usa (al dicembre 2006)e suggeriva che gli istruttori americani venissero portati da 4 mila a 20 mila e “incastonati” nell'esercito iracheno, parallelamente riducendo le forze impegnate in Iraq a forze logistiche, di intelligence, di reazione rapida, di corpi speciali, numericamente portati alla metà circa dei 140 mila effettivi presenti nel dicembre 2006 in Iraq. Il Rapporto, tuttavia, escludeva (valutandola irresponsabile e foriera di caos) l’ipotesi di un ritiro precipitoso delle truppe statunitensi. Sul piano politico, l’elemento più rilevante del rapporto era rappresentato dall’apertura alla Siria e all'Iran, fondata sulla valutazione che soprattutto la prima sarebbe disposta alla collaborazione.

Contemporaneamente all’uscita del Rapporto, il Presidente Bush dichiarava di voler annunciare - entro la fine dell’anno - un cambio della strategia americana in Iraq. Nei giorni immediatamente successivi, le reazioni al Rapporto sono state in genere positive in Europa (vedi le dichiarazioni immediatamente successive alla presentazione del Rapoorto di Romano Prodi e Angela Merkel); anche da parte iraniana sono immediatamente pervenuti commenti positivi. Scetticismo è stato invece subito espresso dal Segretario di Stato Rice, mentre - nei giorni successivi - si registravano reazioni molto negative del Governo iracheno e del Presidente della Regione Autonoma Curda, Massud Barzani.

Nel mese di dicembre 2006 si è svolta l’analisi politica del rapporto all’interno dell’amministrazione Bush. Tale analisi ha messo capo ad un cambio di strategia - come preannunciato - ma non nella direzione indicata dal Rapporto Baker. La nuova strategia, annunciata il 10 gennaio 2007 in un discorso in diretta televisiva del Presidente americano, è basata infatti non sul ritiro graduale, ma sull’invio di nuove truppe americane in Iraq.

 

 

Valutazioni sulla nuova strategia americana

Estremamente complesso appare oggi il compito di valutare in che misura - e se - la nuova strategia americana in Iraq, annunciata il 10 gennaio e concretamente attuata a partire dal 23 gennaio, con l’arrivo in Iraq della avanguardia delle nuove truppe americane, stia conseguendo risultati concreti.

La nuova strategia prevede l'invio graduale di 21.500 soldati Usa in piu' in Iraq: 17.500 a Baghdad, altri 4.000 nella provincia di Anbar. La decisione è stata accompagnata da un avvertimento al Governo iracheno sulla necessità di ridurre la violenza, sviluppando in particolare un’azione repressiva verso le squadre armate sciite di Moqtada al Sadr, verso le quali il governo iracheno aveva dimostrato eccessiva condiscendenza. Altre componenti della nuova strategia sono l’offensiva per impedire a Siria e Iran di sostenere gli insorti, e l'invio di sistemi di difesa missilistici Patriot nella regione.

Nel quadro di questa strategia orientata a colpire le roccaforti dell’estremismo sciita e i relativi appoggi iraniani si inquadrano le accuse alla Repubblica islamica dell’Iran di fornire ai fondamentalisti sciiti armi, rifugi, addestramento, fondi, ma soprattutto bombe - i famigerati ordigni Ied, sensori o detonatori passivi agli infrarossi (non rilevabili dai normali sistemi di interferenza in dotazione agli eserciti) collegati a materiale esplosivo - alle quali sarebbe stata addebitabile l’escalation di attentati dei primi mesi del 2007. Ancora in questo quadro va collocata la vicenda del rapimento del diplomatico iraniano Jalal Sharafi, effettuato il 4 febbraio a Baghdad da un gruppo di rapitori che indossavano divise dell’esercito iracheno, del quale l’Iran ha accusato  immediatamente gli Stati Uniti (Sharafi è stato successivamente liberato il 3 aprile).

I successi sul campo, in termini di sicurezza e di sradicamento del terrorismo, sembrano ancora lontani. Tuttavia una valutazione complessiva appare non facile, in quanto vi è un versante politico di questa strategia che probabilmente non è stato pubblicizzato al momento del suo lancio.

Secondo alcuni analisti, infatti, la nuova strategia di Bush prevedeva sin dall’inizio di affiancare alla nuova offensiva sul campo volta a neutralizzare l’offensiva terroristica e a colpire duramente ogni appoggio (Siria e Iran) di cui questa si avvale, anche un nuovo attivismo diplomatico in tutte le direzioni, senza preclusioni nei confronti dei due paesi confinanti, anzi proprio indirizzato particolarmente verso Siria e Iran. In tal senso - nonostante l’apparente opposizione - il piano lanciato da Bush il 10 gennaio non sarebbe in contraddizione con l’indirizzo generale del Piano Baker. Gli sviluppi successivi sembrerebbero confermare questa tesi (vedi infra).

 

 

La ripresa dell’iniziativa multilaterale

Il 10 marzo si è svolta la Conferenza di Baghdad che ha rappresentato un evento storico in quanto ha raccolto - attorno allo stesso tavolo - rappresentanti di Stati Uniti, Siria e Iran per uno scambio di vedute che è andato oltre la stessa situazione irachena per toccare punti di particolare tensione internazionale quali la questione libanese e il nucleare iraniano.

Il 3 e 4 maggio si è svolta - a Sharm el Sheik - una nuova Conferenza internazionale sulla sicurezza dell’Iraq e la stabilizzazione dell’area. Alla Conferenza, che per Baghdad rappresenta una svolta nella cooperazione regionale contro la violenza e il terrorismo, hanno partecipato i Paesi confinanti con l’Iraq, così come il Bahrein, l'Egitto, i rappresentanti della Lega Araba, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, dellONU, dell’Unione Europea, i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e quelli membri del G8. Particolare interesse ha destato l’incontro, a margine della Conferenza, tra il Segretario di Stato USA Condoleeza Rice e il ministro degli Esteri della Siria: tra i due Paesi non avvenivano contatti ad alto livello dall’assassinio in Libano di Rafik Hariri (2005). Vi era attesa anche per un possibile incontro della Rice con il ministro degli Esteri iraniano Mottaki, pure presente alla Conferenza, ma l’incontro non si è svolto. La Conferenza ha approvato un piano quinquennale (International Compact with Iraq), in base al quale si prospetta un raddoppio del ritmo di crescita e del PIL pro-capite del Paese, nel quadro di un Iraq sicuro, libero e prospero, che al presente appare però piuttosto distante. In ogni modo, nel documento in 19 punti gli Stati e le Organizzazioni internazionali partecipanti si sono impegnati a combattere il terrorismo, a fronte dell’impegno del governo di Baghdad a porre fine alla situazione di guerra civile strisciante; in particolare, gli attori della Conferenza hanno assicurato la propria collaborazione nel controllo delle frontiere irachene, attraverso le quali passano armi e combattenti stranieri. E’ stato inoltre ribadito il principio di non ingerenza negli affari interni dell’Iraq, che sarà aiutato ad accelerare la preparazione delle forze armate nazionali, presupposto per la fine della presenza militare multinazionale nel Paese. Infine, è stato richiesto alla Lega Araba di organizzare una Conferenza per la riconciliazione nazionale in Iraq. E’ stata inoltre annunciata dal Segretario generale dell’ONU un’ulteriore cancellazione del debito iracheno dell’ordine di 30 miliardi di dollari USA.

Ma - al di là delle deliberazioni concrete - il vero significato politico della Conferenza sembra risiedere nel ritorno a una dimensione multilaterale nell’approccio al problema iracheno e nella sostanziale accettazione di tale svolta da parte degli Stati Uniti.

Intanto, anche sul piano interno si è registrato un primo segnale politico positivo: il principale partito (sciita) di governo iracheno, il Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq, ha deciso di togliere il riferimento rivoluzionario dal proprio nome, in quanto considera il passaggio di potere nel Paese ormai compiuto; ma, soprattutto, rileva che il partito abbia deciso di porre come proprio riferimento spirituale non più la guida suprema della rivoluzione iraniana, Alì Kamenei - che è tradizionalmente il capo spirituale di tutti gli sciiti -, bensì il Grande Ayatollah di Najaf Alì Al Sistani, espressione di un islamismo sciita poco incline alle suggestioni teocratiche introdotte in modo travolgente negli anni ’70-’80 dalla predicazione di Khomeini.

Nel mese di agosto 2007 si sono accentuate le difficoltà del governo iracheno, che, costituito nel giugno 2006, ha subito dapprima le dimissioni di sei ministri fedeli al leader radicale sciita Moqtada Sadr, con la motivazione che il governo si era rifiutato di fissare un calendario per il ritiro delle forze straniere dal paese. Successivamente,  cinque ministri e il vice premier, tutti facenti riferimento al Fronte della concordia, ossia il maggiore gruppo parlamentare sunnita, si sono a loro volta dimessi perché insoddisfatti delle risposte del governo alle proprie richieste (che si incentravano soprattutto sul problema della sicurezza e sulle misure che regolano arresti e detenzione dei cittadini). All'inizio del 2007 è stata la volta del ministro della giustizia, mentre ai primi di agosto 2007 altri quattro ministri hanno preannunciato il boicottaggio delle riunioni dell'esecutivo, pur senza presentare dimissioni ufficiali.

Il 10 agosto 2007 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1770, di iniziativa statunitense e britannica, con voto all'unanimità: la risoluzione, nel prorogare di un anno la durata della missione civile delle Nazioni Unite a Bagdad, la UNAMI, ne ha altresì ampliato compiti e mandato, segnando in qualche modo il momento del ritorno delle Nazioni Unite sulla scena irachena, dopo che la UNAMI era stata ridotta ai minimi termini in seguito all'attentato del 2003 nel quale perse il rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU, il diplomatico brasiliano Sergio decademelo. L'unico elemento su cui non si è raggiunto un consenso è stato quello della nomina del capo missione, di modo che è stato prorogato per ulteriori tre mesi il precedente capo dell'UNAMI, il pakistano a Ashraf Qazi. Successivamente è stato nominato a capo dell'UNAMI il diplomatico svedese Staffan De Mistura, che ha tra l'altro a lungo operato anche in Italia.

 

 

La situazione interna americana

Mentre sul versante diplomatico e politico si registrano - nella fase più recente - questi risultati significativi, la situazione sul terreno non dà segni chiari di miglioramento: la violenza terroristica non è stata infatti neutralizzata. Attentati anche molto gravi, si sono susseguiti senza soluzione di continuità anche nei mesi di febbraio-maggio: in particolare, si ricordano le due sanguinose stragi effettuate nello stesso luogo (il mercato di Sadriya, quartiere centrale a maggioranza sciita di Baghdad) il 3 febbraio e il 18 aprile e che hanno causato oltre cento morti ciascuna, la strage di Nadir (cittadina a sud di Baghdad del 6 marzo (117 morti fra i partecipanti ad una processione di fedeli sciiti), nonché il gravissimo attentato al Parlamento iracheno del 12 aprile che ha dimostrato la vulnerabilità anche delle aree più protette della città di Baghdad (zona verde). Il 28 aprile un’autobomba guidata da un attentatore suicida ha provocato non meno di 55 vittime a Kerbala, città santa degli sciiti.

Particolare preoccupazione ha destato poi  il 12 maggio l’agguato a una pattuglia USA che transitava a sud-ovest di Baghdad, che ha provocato 5 morti e il rapimento di tre militari da parte di un gruppo sunnita: il giorno dopo l’agguato è stato rivendicato dallo “Stato islamico in Iraq”, braccio armato di Al Qaeda nel Paese, mentre due gravi attentati colpivano la città di Erbil (nel Kurdistan iracheno) e la capitale, provocando oltre 60 morti.

Un secondo elemento di difficoltà della posizione dell’amministrazione americana è rappresentato dalla situazione politica interna, dove una solida maggioranza dell’opinione pubblica appare stabilmente favorevole al ritiro totale delle truppe USA dall’Iraq entro il 2008 e dove i principali candidati alle presidenziali (di entrambe gli schieramenti) sono ormai su una linea di opposizione alla strategia del Presidente.

Occorre inoltre ricordare che il Congresso degli Stati Uniti - nel quale dopo le elezioni di mid-term i democratici hanno raggiunto il controllo di entrambi i rami - è entrato dalla metà di febbraio in una serrata dialettica con le posizioni del presidente Bush, e con la nuova strategia per l’Iraq enunciata agli inizi del nuovo anno.

Si ricorda che il 16 febbraio la Camera dei Rappresentanti ha approvato una risoluzione - non vincolante per l’esecutivo - la quale si oppone all’invio in Iraq di nuove truppe: l’atto è passato con una maggioranza di 246 voti a favore (quindi superiore alla forza del partito democratico), mentre 182 sono stati i deputati contrari.

Un analogo strumento non è stato posto in votazione al Senato solo perché i democratici, il giorno successivo, non hanno raggiunto la necessaria maggioranza per la convocazione dell’Assemblea.

In ogni caso, alla metà di febbraio ha iniziato a profilarsi lo scontro sulla vera questione decisiva, quella della concessione dei fondi necessari alla nuova configurazione della presenza USA in Iraq: sui finanziamenti, infatti, il Congresso esprime un voto vincolante per l’esecutivo.

I successivi snodi della complessa dialettica parlamento-governo hanno visto il 15 marzo il rigetto in Senato di una mozione dei democratici che chiedeva l’inizio del ritiro dall’Iraq entro 4 mesi, per completarlo nel settembre dell’anno prossimo. D’altra parte, però, una Commissione della Camera dei Rappresentanti ha approvato, sempre il 15 marzo, una mozione di analogo contenuto.

Il 28 marzo i democratici, seppure con un risicato 50 a 48, sono riusciti a far approvare dal Senato una modifica alla legge - in discussione - sul rifinanziamento delle missioni in Iraq e Afghanistan: l’emendamento introduce come scadenza degli effetti del provvedimento, - e quindi della presenza militare  americana - la data del 31 marzo 2008 (anche se il termine non va inteso come perentorio, ma piuttosto come obiettivo di lavoro per l’Amministrazione USA), più restrittiva ancora del 1° settembre 2008 già fissato alcuni giorni prima dalla Camera dei Rappresentanti.

Nelle more dell’armonizzazione dei due testi, prima della trasmissione al presidente Bush, questi ha duramente criticato la posizione del Congresso, accusando i democratici di irresponsabilità, in quanto la fissazione di scadenze con una crisi in corso non farebbe che aumentare i rischi di insuccesso, subordinando ad interessi propagandistici le esigenze delle truppe al fronte.

Lo scontro tra la Casa Bianca e il Congresso è stato rilanciato il 24 aprile dallo shock della strage di nove militari USA per mezzo di un camion-bomba, rivendicata da Al Qaeda: tra i democratici cresce il riferimento a funesti precedenti, come quello del Vietnam, sotto la cui cattiva stella ormai si sarebbe irreversibilmente posta l’impresa americana in Iraq.

Tra il 25 e il 26 aprile il Congresso ha approvato in via definitiva la legge sul rifinanziamento delle missioni in Iraq e Afghanistan, confermando per il mese di aprile 2008 la scadenza della missione delle truppe americane in Iraq. Il Presidente Bush ha tuttavia confermato senza esitazioni le sue precedenti esternazioni in merito, ponendo il veto sul provvedimento (2 maggio), per superare il quale i due rami del Congresso dovrebbero riapprovare la legge a maggioranza dei due terzi, circostanza questa che appare impossibile per la maggioranza democratica. L’effetto del veto si estende comunque all’intero provvedimento, e quindi anche i finanziamenti per la presenza militare USA in Iraq e Afghanistan sono al momento congelati: è probabile tuttavia che sulla questione si giunga infine ad un compromesso mediante trattative fra il Congresso e la Casa Bianca. Proprio tali trattative sono però ostacolate dall’accentuazione delle posizioni dei vari candidati democratici alla nomination, i quali hanno interesse, in questa fase della campagna per la nomination a spingere per un rientro accelerato delle truppe USA dall’Iraq: in tale contesto diviene più difficile per la maggioranza democratica del Congresso ricercare soluzioni “morbide”.  Anche la possibilità che una nuova legge in discussione al Congresso frazioni in due tranches gli stanziamenti, subordinando l’erogazione della seconda - che dovrebbe coprire il periodo successivo al 30 settembre 2007 - a un rendiconto della Casa Bianca sul raggiungimento degli obiettivi posti alle autorità irachene in merito alla riconciliazione nazionale e all’aumento della sicurezza, è stata rigettata dal Pentagono, per il quale un bilancio di soli due mesi è di fatto ingestibile, e metterebbe in serie difficoltà le truppe sul terreno operativo. Gli stessi vertici militari USA in Iraq hanno fatto presente che il contingente militare americano, una volta completato il suo rafforzamento, non potrà lasciare il Paese prima della primavera del 2008.

Il 16 maggio, tuttavia, il Senato ha respinto una mozione democratica volta a mettere fine ai finanziamenti entro il 31 marzo 2008.

Il New York Times, con un lungo editoriale pubblicato l'8 luglio 2007, ha preso nettamente posizione per un ritiro delle truppe americane dall'Iraq:  si è trattato indubbiamente di una ulteriore seria difficoltà per il presidente Bush, già alle prese con un progressivo sfilacciamento della stessa maggioranza repubblicana nel Congresso, in presenza dell'apparente stallo, se non peggioramento, della situazione irachena. La risposta della Casa Bianca si è articolata su un duplice piano, negando, da un lato, che il dibattito sul ritiro delle truppe americane fosse già in corso, e chiedendo d'altro canto al Congresso e alla nazione di attendere fino a settembre, quando, con il secondo dei due rapporti previsti dalla legge approvata qualche settimana prima dal Congresso, si sarebbe potuto fare un bilancio meno frettoloso dei risultati della nuova strategia americana.

Il 12 luglio è stato presentato al Congresso degli Stati Uniti il “Progress Report” dell’amministrazione Bush sulla situazione in Iraq. Il Rapporto definisce il quadro della sicurezza ''complesso ed estremamente difficile'' e da' una pagella con luci e ombre al governo del premier Nuri al Maliki. Sulla base di indicatori chiaramente definiti, il Rapporto - voluto dal senatore repubblicano John Warner - valuta i progressi nei 18 «passi avanti» chiesti in aprile dal Congresso a Bush e al premier iracheno Maliki. Di questi, 8 risulterebbero soddisfacenti (progressi sarebbero stati raggiunti in sostanza, nella messa in sicurezza della regione di Baghdad e nella riduzione delle violenze fra gruppi etnico-religiosi), 8 insoddisfacenti (aspetti istituzionali quali l’approvazione di leggi sulla de-baathificazione, sulla distribuzione dei proventi petroliferi, sulla istituzione di una commissione elettorale, nonché disarmo delle milizie e rafforzamento delle forze di sicurezza irachene) e 2 difficilmente giudicabili (in sostanza, relativi al varo di una amnistia). Il Presidente americano - anche contraddicendo i segnali interni negativi che si erano intensificati nelle ultime settimane e il clima di crescente critica all’interno stesso del partito repubblicano - ha espresso una posizione non pessimista. Intanto, nella giornata del 14 si è registrata un reazione aspra di al Maliki alle critiche espresse all’indirizzo del suo governo nel “Progress Report”. Il leader sciita ha infatti dichiarato polemicamente che il governo iracheno è in grado di fronteggiare da solo la situazione sul territorio e che il governo USA può quindi procedere in qualunque momento al ritiro completo delle truppe. Non si sono registrate reazioni ufficiali americane a queste dichiarazioni, successivamente ritrattate da al Maliki, ma ritenute - comunque - il segno di una difficoltà di rapporti fra le due parti. Non hanno certo contribuito a migliorare i rapporti tra il premier iracheno e gli Stati Uniti le visite compiute nel mese di agosto 2007  da al Maliki in Turchia, Iran e Siria, viste le accuse americane agli ultimi due paesi di essere semmai un aspetto del problema iracheno, in quanto fomenterebbero l'instabilità interna del paese.

Intanto, la fronda parlamentare contro l'amministrazione statunitense è proseguita, ma senza troppo successo: nella notte fra il 12 il 13 luglio la Camera dei rappresentanti ha approvato una misura per la quale l'inizio del ritiro delle truppe americane avrebbe dovuto avvenire entro 120 giorni, e in ogni caso concludersi entro l'aprile 2008. La votazione tuttavia ha visto passare solo di stretta misura il provvedimento, con una maggioranza ben lontana da quella dei due terzi che permetterebbe di superare il veto presidenziale, peraltro più volte minacciato da Bush. Non diversamente sono andate le cose in Senato, dove, nonostante una seduta notturna non stop,u provvedimento di analoga portata ha ricevuto il 18 luglio solo una risicata maggioranza.

Il 10 settembre 2007 il comandante in capo delle forze americane in Iraq, generale David Petraeus, ha dichiarato al Congresso che gli obiettivi militari della nuova strategia statunitense sono stati in gran parte raggiunti: ciò dovrebbe consentire di ridurre a 130.000 unità entro l'estate del 2008 la presenza militare USA, mediante un processo di ritiro progressivo da iniziare immediatamente con il rimpatrio di circa 2000 marines. D'altra parte, il generale Petraeus non ha nascosto che un ritiro precipitoso e prematuro delle truppe potrebbe avere ancora effetti catastrofici, poiché i progressi non sono stati omogenei in tutto il paese, e in quanto, mentre è stato conseguito l'obiettivo della riduzione della pericolosità dei militanti di al Qaeda presenti in Iraq, è altrettanto chiaro come l'Iran stia cercando di rendere le milizie sciite autoctone dell'Iraq una sorta di partito libanese Hezbollah, per combattere una guerra per procura sul suolo iracheno. Il 13 settembre il presidente Bush ha dato seguito a quanto dichiarato dal generale Petraeus quando, in un discorso alla nazione pronunciato dallo Studio Ovale della Casa Bianca, ha confermato un primo ritiro di circa 30.000 soldati americani entro l'estate del 2008, a condizione di un proseguimento dei progressi nella sicurezza dell'Iraq. Il discorso di Bush è stato tuttavia duramente contestato dall'ala democratica del Congresso, che ha constatato come il ritiro annunciato non faccia altro che riportare le truppe americane alla consistenza precedente alla nuova strategia, configurando un proseguimento sine die della presenza Usa in Iraq.

 

 

La ripresa dei rapporti fra USA e Iran

Ma fra gli sviluppi più recenti della situazione irachena assume un particolare rilievo la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Stati Uniti e Iran.

Dopo 27 anni di congelamento delle relazioni fra i due paesi, lo scorso 28 maggio Iran e USA hanno tenuto a Baghdad un incontro ufficiale bilaterale ad alto livello - che dovrebbe rappresentare il primo di una serie. Oggetto limitato dell’incontro è stata la stabilizzazione dell’Iraq, mentre rimangono - ufficialmente - fuori dal negoziato altre questioni (questione nucleare, Libano, conflitto israelo-palestinese, ecc.).

In realtà l’incontro è il primo che i due paesi hanno deciso di rendere pubblico. Infatti, oltre ai due brevi scambi avvenuti a margine delle due conferenze internazionali in marzo a Baghdad e in maggio a Sharm el-Sheikh, è noto che negoziati non pubblici sono in corso da tempo (addirittura da prima dell’invasione americana dell’Iraq) e che se ora il negoziato viene allo scoperto ciò accade perché - almeno sulla stabilizzazione dell’Iraq - sono già state consolidate le linee di un’intesa. Un momento decisivo di svolta sembra essere stato rappresentato dalla proposta iraniana presentata da Kazemi-Qomi a Crocker durante il brevissimo scambio avvenuto a Sharm el-Sheikh, il 4 maggio scorso.

L’incontro di Baghdad del 28 maggio è stato condotto dai due ambasciatori in Iraq, Ryan Crocker e Hassan Kazemi-Qomi, ma un innalzamento del livello delle rappresentanze è possibile nel prossimo futuro. Al termine dei colloqui di Baghdad lo stesso rappresentante iraniano ha preannunciato come molto probabile un prossimo incontro di follow-up da tenersi entro un mese.

In effetti, numerosi osservatori concordano nel ritenere le posizioni di USA e Iran sull’Iraq ormai molto vicine e nel far risalire tale nuova situazione ad almeno quattro fattori decisivi:

  interesse a stabilizzare una situazione che ha portato alla liquidazione di un regime sunnita e ostile sia a USA che a Iran;

         presa d’atto da parte di ciascuno dei due governi della impossibilità - senza l’altro interlocutore - di arrivare a tale stabilizzazione;

         presa d’atto della impossibilità (ormai) di realizzare i due migliori scenari (per gli USA, un Iraq unito e filo americano; per l’Iran, un Iraq unito e filo iraniano);

         interesse a evitare i due scenari peggiori (lo scenario peggiore per gli USA è quello di un Iraq diviso con la parte meridionale controllata dall’Iran; per l’Iran lo scenario peggiore è quello di un Iraq governato di nuovo dai sunniti e armato dagli USA, ma anche per l’Iran la rottura dell’unità nazionale e la stessa soluzione federale sono ipotesi non auspicabili).

Manifestazioni di ostilità e minacce reciproche fra i due paesi (verificatesi anche nei giorni successivi all’incontro) non contraddirebbero questo processo di avvicinamento, ma andrebbero lette semplicemente come espressioni tattiche collaterali alla traiettoria principale.

La proposta iraniana consegnata all’ambasciatore americano un mese fa è stata pubblicizzata ufficiosamente sul quotidiano Al-Hayat. Essa si basa sui seguenti punti:

  ritiro non precipitoso delle truppe USA e loro reinsediamento all’interno di basi in territorio iracheno;

         rifiuto di ogni ipotesi di smembramento del paese;

         impegno del blocco sunnita a sradicare e tagliare ogni aiuto al terrorismo qaedista;

         impegno americano ad aprire un negoziato anche sulla questione del nucleare iraniano. Nonostante le precisazioni delle due parti circa la attuale limitazione degli incontri diplomatici alla sola questione irachena, sembra assodato che l’Iran abbia interesse a ottenere in cambio della disponibilità a negoziare anche un ammorbidimento delle posizioni americane sul nucleare;

In cambio l’Iran assumerebbe l’impegno di:

  riportare sotto il proprio controllo le milizie sciite armate;

         permettere la revisione della legge per la de-baathificazione in favore della minoranza sunnita;

         permettere la revisione della Costituzione irachena in modo da raddoppiare la rappresentanza dei sunniti nel Parlamento di Baghdad;

         favorire - sul piano interno iracheno - una definizione equa della distribuzione dei redditi derivanti dal petrolio (si ricorda che i sunniti sono maggioritari nella aree centrali dell’Iraq, povere di petrolio) e sul piano internazionale la composizione dei conflitti in Libano e Palestina.

L’interesse dell’amministrazione americana a questo negoziato appare evidente: se l’operazione avesse successo, gli USA potrebbero imboccare una via d’uscita dal vicolo cieco iracheno e quindi un recupero di quella libertà di azione su altri scacchieri (a partire da quello afgano-pakistano) progressivamente e ormai fortemente ridotta negli ultimi 4 anni. In questo senso, si dimostrerebbe la fondatezza delle analisi che avevano visto nella nuova strategia lanciata da Bush a gennaio - e nell’apparente rifiuto del Rapporto Baker (imperniato sul riavvicinamento diplomatico all’Iran) - proprio il preludio alla attuazione del disegno politico preconizzato dal Rapporto Baker.

Il 24 luglio vi è stato a Baghdad un secondo incontro tra gli ambasciatori degli USA e dell'Iran in Iraq, Ryan Crocker e Hassan Kazemi-Qomi.

 

 

Prospettive di stabilizzazione dell’Iraq

Le prospettive di una stabilizzazione della situazione irachena sembrano oggi dipendere in gran parte dal futuro del negoziato fra USA e Iran. Tuttavia, la stessa volontà convergente delle parti non è elemento sufficiente a un suo successo finale. Gli analisti, sia pure con diversa enfasi, richiamano infatti un numero consistente di residui elementi indipendenti dalla volontà delle due parti:

  Il successo del negoziato dipende da un controllo almeno sui movimenti sciiti in Iraq, ma l’egemonia iraniana sugli sciiti iracheni non è un dato acquisito. Esistono in primo luogo le divisioni politiche: oggi dei tre maggiori gruppi sciiti: Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Hizb al-Dawah e Blocco al-Sadrita - solo i primi due hanno legami stretti (il ché non significa, comunque subordinazione) con Teheran; restano fuori da questa orbita, oltre al Blocco al-Sadrita, una miriade di gruppuscoli non controllabili e - più in generale - è sempre presente il rischio di una diffusa reazione di tipo nazionalistico-arabo - fra gli sciiti iracheni - all’eccessivo attivismo di Teheran.

         Un secondo elemento di incertezza è dato ovviamente dalla azione dei gruppi del fondamentalismo qaedista che sarebbero i principali perdenti. Essi, fra l’altro, operano in una dimensione internazionale e sarebbero danneggiati da un accordo in Iraq da cui discenderebbe automaticamente una ripresa della libertà d’azione degli USA in altri teatri come quello afgano-pakistano, dove ha trovato riparo lo stato maggiore qaedista. L’impennata di attentati della fase più recente sarebbe una diretta conseguenza (già ampiamente prevista dagli osservatori) delle nuove relazioni diplomatiche USA-Iran.

         Quanto alla componente sunnita irachena (per quanto sia possibile parlare in termini unitari di una galassia in cui sono identificabili almeno 5 aree: blocco politico di tendenza islamista del Fronte dell’Accordo Islamista, blocco politico secolare del Fronte Nazionale del Dialogo, gruppi tribali, establishment religioso, insorgenza nazionalista sunnita) essa non sembra ostile in linea di principio ad ogni ipotesi di accordo, ma è certamente sospettosa delle reali intenzioni degli sciiti iracheni e preoccupata degli spazi che saranno ad essa garantiti in un paese che vede i sunniti comunque in minoranza.

         Vittime predestinate di un riavvicinamento USA-Iran sembrano essere i curdi iracheni che - proprio grazie alla forte tensione fra sciiti e sunniti - hanno potuto realizzare condizioni ampie di autonomia e che verrebbero invece sacrificati sia da riforme costituzionali più favorevoli ai sunniti, sia da un accordo sulla distribuzione “equa” dei proventi petroliferi. Non è certo un caso che i curdi siano stati, a suo tempo, i più forti critici del Rapporto Baker.

         Non vanno dimenticati i forti sospetti di Arabia Saudita e Stati del Golfo verso un cambiamento che vedrebbe crescere l’influenza iraniana in tutta la regione e che produrrebbe il ritorno nei paesi d’origine di migliaia di terroristi ottimamente addestrati.

         Infine, l’elemento di incertezza forse principale è dato dalla freddezza della Russia e dai forti strumenti di pressione su Teheran (almeno finchè la costruzione del reattore di Bushehr non sarà ultimata).

 

I temi politici di maggior rilievo sul tappeto sono oggi:

  quello del sistema per un’equa distribuzione dei ricavi petroliferi

         e quello della ripartizione dei poteri fra governo federale e regioni.

Un accordo fra le maggiori forze politiche - favorito da un’azione comune di USA e Iran - potrebbe rappresentare un elemento di svolta rilevante.

Rimane comunque incombente il rischio di un collasso del paese, evidenziato dagli osservatori più pessimisti

 

 

Il G8 di Heiligendamm e l’Iraq

Infine, si ricorda che la questione irachena è stata affrontata anche dal Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi del G8 che si è svolto dal 6 all’8 giugno 2007 ad Heiligendamm, in Germania. In tale ambito, i paesi presenti hanno ribadito il loro impegno per l’indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale del Paese, condannando ancora una volta con forza tutti gli atti di terrorismo e di violenza. E’ stato quindi accolto con favore il lancio, durante la Conferenza internazionale per la sicurezza e la stabilizzazione dell’Iraq svoltasi i primi di maggio a Sharm el Sheikh, del piano quinquennale per lo sviluppo del Paese, l'International Compact with Iraq (ICI), ravvisando nell’iniziativa di Sharm una tappa fondamentale verso l'obiettivo della riconciliazione nazionale.

 

 

 

 

 

QUADRO ECONOMICO

 

 

A causa del conflitto che ha interessato l’Iraq, il quadro economico del Paese appare notevolmente mutato e il reperimento di dati aggiornati di fonte ufficiale è estremamente difficile. Poiché oggi l’assetto definitivo della nazione resta sotto molteplici aspetti ancora da definire, la presente scheda fa riferimento in alcune parti alla disciplina e alle normative del periodo pre-bellico e formalmente ancora in vigore. Alcune informazioni riportate nella presente scheda potrebbero, tuttavia, risultare incomplete o parziali.

 

PRINCIPALI INDICATORI ECONOMICI

 

PIL a prezzi correnti (miliardi di US$)

19,0

12,7

25,5

30,6

Tasso di crescita reale (%)

-14,2

-35,3

46,5

1,5

Reddito pro capite (US$)

n.d.

n.d.

n.d.

n.d.

Inflazione (%)

26,3

36,3

31,7

31,6

 

 

 

 

 

Bilancia Commerciale (milioni di US$)

 

 

 

 

Esportazioni

12.218,8

9.711,1

16.863,0

23.032,0

Importazioni

9.817,3

9.933,5

19.731,3

20.154,0

Saldo

2.401,5

-222,4

-2.868,3

2.878

 

 

 

 

 

Debito estero (miliardi di US$)

112,5

111,1

109,1

96,4

 

 

 

 

 

Fonte:  EIU, Economist Intelligence Unit: Country Report novembre 2006

 

 

Main destinations of exports 2005(a)

% of total

Main origins of imports 2005(a)

% of total

US

49.4

Jordan

12.0

Canada

13.5

Vietnam

5.1

Italy

12.6

US

20.9

Jordan

19.7

Turkey

22.3

(a)   Derived from partners' trade returns; subject to a wide margin of error.

Fonte: The Economist Intelligence Unit

 

 

Rischio paese

 NELLA CLASSIFICA RISCHIO-PAESE, AGGIORNATA AD OTTOBRE 2006, LA SACE COLLOCA L’IRAQ NELLA 7A CATEGORIA OCSE SU 7.
Si tratta della categoria assegnata dall’OCSE ai paesi, che indica il grado di rischiosità (da 0 a 7, ove 0 rappresenta il rischio minore e 7 il rischio massimo).

 

 

Prospettive future

 

            A causa dei problemi di sicurezza, la produzione petrolifera è cresciuta di poco nel 2006. Inoltre, la spesa per lo sviluppo è stata ostacolata dai costi per la sicurezza e dalla corruzione; mentre il settore non oil è stato danneggiato dalla mancanza di sicurezza e dalla lentezza della ricostruzione. Di conseguenza, gli esperti del settore, stimano una crescita del Pil reale di circa il 3% per il 2006. Per il 2007-08 si prevede un incremento modesto, al 3,5% circa, poiché gli aumenti della produzione petrolifera saranno scarsi e continueranno i problemi per il settore non oil. Tuttavia, se la situazione della sicurezza dovesse peggiorare, non si verificherà nessun aumento della produzione petrolifera.  Per quanto riguarda l’inflazione, si stima un tasso medio del 60% per il 2006. Secondo l'opinione di esperti, presume che i prezzi medi saranno marcatamente più alti rispetto allo scorso anno. Ciò, in parte, riflette la diminuzione dei sussidi per i carburanti. I sussidi, sia per i carburanti che per numerosi altri prodotti, rimarranno in vigore, anche se saranno limitati, contribuendo a limitare l’aumento dell’inflazione durante il periodo di previsione.

I costi dei prodotti importati sono aumentati notevolmente nel 2006, tuttavia dovrebbero diminuire a partire dal 2007, aiutando così l’inflazione a scendere al 45% nel periodo di previsione.

La banca centrale è impegnata a mantenere quello che è diventato un legame di fatto con il dollaro. La Banca Centrale sembra riluttante ad utilizzare le sue cospicue riserve di valuta estera (circa 12,2 miliardi di dollari alla fine del 2005) per soddisfare la domanda di dollari. Gli esperti del settore si aspettano che la pressione sulla valuta rimanga elevata, a causa della situazione della sicurezza, tuttavia, la banca centrale dovrebbe riuscire a mantenere relativamente stabili i tassi di cambio.

Nel 2006 le entrate derivanti dal petrolio sono aumentate, in linea con gli aumenti dei prezzi medi. Gli analisti stimano un aumento di circa il 40%, a circa 32 miliardi di dollari.

Le entrate da esportazioni aumenteranno di circa il 2,5% nel 2007, a circa 33 miliardi di dollari, grazie a un aumento atteso del 4% nella produzione petrolifera. Le entrate saranno quasi invariate nel 2008, poiché la diminuzione dei prezzi medi del petrolio sarà più o meno compensata da un modesto aumento della produzione.

La spesa per le importazioni continuerà a crescere, in linea con la necessità di ricostruzione e il rafforzamento della domanda interna, ma il ritmo di crescita dovrebbe diminuire a una media annua del 4% nel 2007-08. 

La spesa complessiva per le importazioni dovrebbe arrivare a 21,5 miliardi di dollari nel 2007 e a 22,3 miliardi di dollari nel 2008. Quindi, il surplus commerciale passerà da una stima di 11,4 miliardi di dollari per il 2006 a circa 11,5 miliardi di dollari per il 2007, prima di diminuire a 10,9 miliardi di dollari nel 2008. Per le partite correnti, invece, si stima un surplus di 8 miliardi di dollari (23% del Pil) nel 2006, che dovrebbe rimanere più o meno uguale nel 2007, prima di scendere a quasi 5 miliardi di dollari nel 2008. Questi movimenti sui conti esteri dipende fortemente dai prezzi e dalla produzione del petrolio, poiché le entrate da petrolio incidono per circa il 98% delle esportazioni.

 

 

 

2007

2008

PIL (var. %)

3,4

3,5

Inflazione (%)

45,0

40,0

Produzione petrolifera (milioni di barili/giorno)

2.017

2.097

Bilancia commerciale (miliardi di US$)

 

 

Esportazioni

33,0

33,2

Importazioni

21,5

22,3

Saldo

11,5

10,9

 

Settori produttivi

 

L’embargo decretato dalle Nazioni Unite, avendo determinato l’isolamento economico dell’Iraq per lungo tempo, non ha permesso di tracciare un quadro significativo dell’economia del Paese. Gli effetti dell’ultima guerra hanno peraltro aggravato tale situazione.

Tutta l'economia del Paese resta comunque legata agli andamenti del settore petrolifero, suscettibili di influenzare la produzione industriale e lo sviluppo dei servizi.

Un ruolo marginale è rivestito dall’agricoltura, pur in presenza di buone potenzialità del settore, poiché non è stata mai destinataria di efficaci politiche di sviluppo.

 

 

 

Interscambio commerciale tra l’Italia e l’Iraq

 

L’interscambio commerciale tra l’Italia e l’Iraq ha cominciato a svilupparsi grazie alle aperture offerte dalle disposizioni dell’ONU.

Le importazioni italiane dall’Iraq mostrano un certo dinamismo, mentre le esportazioni italiane verso l’Iraq, pur avendo registrato qualche crescita, sono infatti decisamente inferiori rispetto alle nostre importazioni. Questa vitalità dei rapporti commerciali tra i due paesi, ha messo in evidenza la necessità di avere rappresentanze ufficiali italiane nel paese iracheno: a ottobre 1996 l’Italia aveva pertanto a Baghdad una sezione di interessi presso l’Ambasciata Ungherese.

Dai dati relativi al primo quadrimestre del 2006 emerge una notevole diminuzione delle esportazioni (-53,95%), giunte a 64.4 milioni di euro, rispetto agli oltre 139 milioni di euro registrati nello stesso periodo del 2005. Le importazioni, invece, sono passate da 530.5 milioni di euro del primo quadrimestre dello scorso anno, agli oltre 939.5 milioni di euro relativi al primo quadrimestre del 2005, con un aumento del 77,11%. Di conseguenza, il saldo commerciale negativo si è incrementato del 124,04%.

            I dati riportati di seguito, relativi ai principali gruppi merceologici oggetto dell’interscambio tra Italia e Iraq, sono solo indicativi degli scambi commerciali degli ultimi anni tra i due Paesi, a causa delle restrizioni cui è stato soggetto il paese arabo. Le opportunità di penetrazione delle imprese italiane nel mercato iracheno sarebbero infatti più significative, una volta stabilizzata la vita civile del Paese.

Le importazioni italiane dall’Iraq sono dominate dal petrolio greggio e gas naturale. Negli anni 2003-2004, si sono registrate nuove voci dell'import, quali: cuoi e pelli di vario tipo; "Apparecchi riceventi per la radiodiffuzione e la televisione, apparecchi per la riproduzione e registrazione del suono e dell'immagine"; "Stampi, portastampi, sagome e forme in metallo"; "Oggetti di cancelleria e altri articoli n.c.a."; "Prodotti chimici vari"; Contatori per acqua, gas e di altri liquidi, di apparecchi di misura, controllo e regolazione, comprese parti accessori"; ed infine "Altra frutta, anche a guscio; piante utilizzate per la preparazione di bevande e spezie".

Nettamente in calo invece, le importazioni di cereali, "Apparecchi trasmittenti radiotelevisivi"; e "Telecamere e apparecchi elettroacustici"; voci che al 2005 hanno raggiunto quota 0.

I principali prodotti esportati dall’Italia verso il paese mediorientale restano, invece, tradizionalmente concentrati nelle voci relative alle macchine e apparecchi e agli autoveicoli (motori, genertori e trasformatori elettrici; Turbine idrauliche e termiche; ecc). Diminuiti invece i comparti: "Macchine da miniera, cava, cantiere"; Tubi senza saldatura"; "Attrezzature industriali per la refrigerazione e la ventilazione (per uso non domestico); "Altre macchine per l'agricoltura, la silvicoltura e la zootecnica".

 

Interscambio commerciale

Interscambio Italia - Iraq
Trend 2005-2004-2003

2005
valore in €

2004
valore in €

2003
valore in €

Esportazioni

291.283.060

201.059.572

143.662.573

Importazioni

1.644.021.680

807.919.969

713.254.168

Saldo

-1.352.738.620

-606.860.397

-569.591.595

Fonte dati Istat Gen-Dic 2005 (agg. 01/06/2006)

 



[1] Secondo quanto affermato dal generale Petraeus, le prime truppe USA dovrebbero essere rimpatriate a metà dicembre. Nei primi mesi del 2008, il contingente americano dovrebbe scendere a 130.000 uomini.

[2] La Costituzione ha ottenuto il consenso massiccio della popolazione sciita e curda, mentre i leader sunniti – che hanno invitato i propri elettori a votare no – hanno incassato una sconfitta di misura, fallendo per poco la maggioranza di due terzi in tre province che avrebbe rimesso tutto in gioco. Il Governo USA ha sottolineato la decisione irreversibile da parte della popolazione irachena di voltare le spalle alla violenza in favore della democrazia.

 

[3] La provincia di Kirkuk, che storicamente fa parte del Kurdistan, vede arabi, curdi e turkmeni rivendicare il proprio diritto a vivere in questa zona. I curdi, in particolare, vorrebbero che la città facesse parte della loro regione autonoma, eventualità osteggiata naturalmente dalla componente araba.

[4] L’Iraq è dominato da tre gruppi etnico-religiosi: Sciiti, Curdi e Sunniti. I tre gruppi presentano differenze molto rilevanti tanto da far pensare che il progetto del Governo americano di creare uno stato libero e democratico in cui le tre popolazioni possano vivere congiuntamente sia pura utopia. I gruppi etnici più importanti sono rappresentati da Curdi e Sciiti, seguiti da una minoranza di Sunniti (soltanto il 20% della popolazione). Secondo il piano degli Sciiti, con a capo Abdul Aziz Al-Hakim, sarebbe opportuno creare uno stato autonomo, nel sud della regione e seguire quindi il modello del Kurdistan. I Curdi pretendono un'autonomia per permettere l’avverarsi di quel sogno di creare una patria per tutte le popolazioni Curde disseminate in maggioranza tra Turchia, Siria e Iran. L’unico gruppo veramente interessato alla creazione di uno stato unitario sono i Sunniti, che vivono nella regione a nord ovest di Baghdad, un territorio però quasi completamente desertico e privo di petrolio, a differenza delle altre zone dell’Iraq.

 

[5] I Ministri avevano presentato una lista di richieste, tra cui l’amnistia per alcuni detenuti sunniti arrestati per ragioni di sicurezza, all’approvazione della quale avevano affidato il loro rientro o meno al governo. I dicasteri affidati ai membri sunniti sono quelli della pianificazione e cooperazione allo sviluppo, dell’istruzione superiore, della cultura, della difesa, oltre alla carica di ministro di Stato per gli affari femminili e a quella di vice Primo Ministro con delega alla sicurezza.