Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Rapporti Internazionali |
Titolo: | Territori dell'Autorità nazionale palestinese |
Serie: | Schede Paese Numero: 5 |
Data: | 01/11/2006 |
Autorità Nazionale Palestinese
NOVEMBRE 2006
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DATI GENERALI |
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Superficie |
6.170 Kmq |
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Capitale |
RAMALLAH (40.000 abitanti) |
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Abitanti |
3.635.000 (Cisgiordania: 2.311.000 ab; Striscia di Gaza: 1.324.000 ab)Sono inoltre circa 4 milioni i palestinesi (o i loro discendenti) che vivono all’estero. Sono rappresentati dall’OLP e dal Consiglio Nazionale Palestinese. |
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Tasso di crescita della popolazione |
3,39% |
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Gruppi etnici |
Arabi 83%, Ebrei 17% |
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PRINCIPALI INDICATORI ECONOMICI
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PIL 2005 |
3.257 milioni di dollari |
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Donazioni dai Paesi esteri 2005 |
800 milioni di dollari |
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Crescita PIL 2005 |
4,5% |
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PIL pro capite |
1.020 dollari |
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Popolazione al di sotto della soglia di povertà |
60% |
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Inflazione |
4,4% |
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Tasso di disoccupazione |
40% |
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PRINCIPALI CARICHE POLITICHE
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Presidente dell’ANP, Presidente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e leader di “al Fatah” |
Mahmoud ABBAS (Abu Mazen). In carica dal 12 gennaio 2005 |
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Primo Ministro |
Ismail HANIYEH (HAMAS, dal 30 marzo 2006) |
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Presidente del Consiglio Legislativo Palestinese |
Abdel Aziz DWEIK (in carica dal 18 febbraio 2006. detenuto in un carcere israeliano) |
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Ministro degli affari esteri |
Mahmoud al-ZAHAR (HAMAS, dal 30 marzo 2006) |
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Ø INVIATO ONU PER IL MEDIO ORIENTE TERJE ROED LARSEN
Ø LEADER DI HAMAS (CON SEDE A DAMASCO) KALED MESHAAL
SCADENZE ELETTORALI
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Presidenziali |
2010 |
Politiche |
2011 |
QUADRO POLITICO
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Governo in carica
L’attuale Governo in carica è sostenuto interamente da Hamas. La crisi interna perdurante ha portato il Presidente Abu Mazen a discutere con Hamas la formazione di un governo di unità nazionale con la mediazione di Mustafa Barghouti.
Composizione del Consiglio Legislativo Palestinese (le ultime elezioni si sono tenute il 25 gennaio 2006):
PARTITO |
SEGGI |
HAMAS |
74 |
Fatah |
45 |
Altri |
13 |
TOTALE |
132 |
QUADRO ISTITUZIONALE
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Sistema politico
L'Autorità Nazionale Palestinese nasce dagli Accordi del Cairo del 4 maggio 1994, come prima attuazione della Dichiarazione di Principi (13 settembre 1993) che poneva le basi dello sviluppo autonomo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Con la firma degli Accordi di Washington (28 settembre 1995) l'Autorità palestinese ha assunto l'amministrazione della Cisgiordania. Attualmente è in vigore una “legge fondamentale” sul funzionamento dell’ANP promulgata dall’allora Presidente Arafat il 30 maggio 2002. La legge fondamentale regola il funzionamento dell’ANP, con particolare riguardo alla divisione dei poteri tra Presidente e Consiglio Legislativo. L’introduzione di una Costituzione basata sul multipartitismo, la democrazia, e libere e trasparenti elezioni rappresentano alcune delle condizioni espressamente richieste nella Road map alla parte palestinese.
Il Presidente dell’ANP
La figura del Presidente dell’ANP[1], prevista dagli Accordi di Oslo, era destinata ad essere temporanea, in attesa dell’istituzione della figura del “Presidente dello Stato di Palestina”. Le prime elezioni si sono tenute nel 1996 ed hanno visto la vittoria di Arafat. Successivamente, non si sono tenute più elezioni, anche a causa dell’opposizione di USA e Israele che richiedevano “l’elezione di un leader politico non compromesso con il terrorismo”. La fine dell’era Arafat ha permesso l’indizione di elezioni presidenziali il 9 gennaio 2005, che sono state vinte dal favorito Abu Mazen (62,5% dei voti) impostosi su Mustafa Barghouti (19,5% dei voti), appoggiato dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Le elezioni sono state boicottate dai gruppi oltranzisti (Hamas, Jihad). L’affluenza alle urne è stata però del 70%.
Potere legislativo
Il Consiglio Legislativo Palestinese è composto da 132 membri, eletti a suffragio universale ogni cinque anni dall’elettorato palestinese della Cisgiordania, di Gerusalemme e della Striscia di Gaza. Sei seggi sono tuttavia riservati ai rappresentanti della comunità cristiana ed uno a quella samaritana.
Potere esecutivo
Il 10 marzo 2003 il Consiglio Legislativo Palestinese ha approvato gli emendamenti alla “legge fondamentale” sul funzionamento dell’ANP[2] necessari all’istituzione della figura del Primo Ministro e del Governo[3]. La riforma mira ad ottenere una migliore governance attraverso la divisione ed il contrappeso dei poteri.
Il Primo Ministro è nominato dal Presidente ed ha fino a cinque settimane di tempo per formare un Governo. Se cinque settimane non dovessero essere sufficienti, il Presidente ha facoltà di sostituirlo dall’incarico. Il Presidente non può sciogliere il Consiglio Legislativo e indire elezioni anticipate.
Il Primo Ministro ha un potere di controllo sull’operato di tutti i Ministri. Spetta a lui predisporre la lista del gabinetto che sarà responsabile dinanzi al Consiglio Legislativo Palestinese e dovrà ottenerne la fiducia anche a livello di singoli ministri. È inoltre il Primo Ministro, e non più il Presidente, che ha il potere di nominare i vertici di ogni altro organismo statale, dal campo economico alla distribuzione delle risorse idriche.
Il Primo Ministro è responsabile non solo dinanzi al Consiglio Legislativo, ma anche dinanzi al Presidente che ha il potere di revocarlo. I singoli ministri non possono essere sfiduciati dal Presidente, ma solo dal Primo Ministro o dal Consiglio Legislativo.
Fondamentale è la distinzione delle prerogative del Primo Ministro in materia di sicurezza e per quanto riguarda le trattative con Israele. Spettano al Primo Ministro ed al Governo tutte le funzioni relative alla sicurezza preventiva (ordine pubblico, difesa civile). Le responsabilità relative alla sicurezza nazionale restano invece appannaggio della figura presidenziale. Per quanto riguarda le trattative, è da porre in risalto che queste sono condotte dall’OLP, e non dall’ANP. Le riforme relative alla creazione della carica di Primo Ministro sono state approvate da 64 deputati; tre sono stati i contrari mentre quattro si sono astenuti.
Per la loro valenza politica, pur non essendo organi dell’Autorità Nazionale Palestinese, si danno brevi cenni sull’OLP e sul Consiglio Nazionale Palestinese.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)
E’ nata nel 1964, e raccoglie molte organizzazioni palestinesi e gruppi di resistenza (ma non i gruppi integralisti islamici). A seguito della disfatta araba nella guerra del 1967, l'OLP, prima strettamente dipendente dagli altri Stati arabi, ha cominciato ad acquisire una certa indipendenza. Il maggiore organo decisionale è il Comitato Esecutivo.
Con la Presidenza di Arafat (1969-2004) ha acquistato un ruolo ancora più centrale nel mobilitare i palestinesi e nel guadagnare il supporto internazionale alla loro causa. L’OLP ha creato numerose organizzazioni di supporto nonché una struttura di tipo governativo per raggiungere obiettivi di sicurezza interna, finanze, informazione e relazioni straniere.
L’OLP è stata riconosciuta dall’Assemblea dell’ONU con la risoluzione n. 3210 del 14 ottobre 1974 come rappresentante del popolo palestinese. Nel 1976 è entrata a far parte della Lega degli Stati Arabi. Fra i Paesi dell'Europa Occidentale, la Spagna è stata la prima a conferire uno "status" diplomatico ad una rappresentanza dell'OLP, seguita da Portogallo, Austria, Francia, Italia e Grecia. La sua sede è stata in Libano fino al 1982, quando è stata costretta ad evacuare a causa della guerra civile. I tentativi di creare una OLP "bis" (cosiddetto "fronte del rifiuto” creatosi a Baghdad nel 1974 ed il Fronte di Salvezza Palestinese creatosi a Damasco nel 1983) non hanno avuto successo. Ricostituito il suo quartier generale a Tunisi, l'OLP è rimasta in questa città fino a quando non si è trasferita nei territori palestinesi autonomi (Gaza e Gerico) a seguito della Dichiarazione dei Principi del 13 settembre 1993 e degli accordi del Cairo del 4 maggio 1994.
Dal 1990 l'OLP può contare su due fonti di finanziamento: le contribuzioni degli Stati Arabi ed una tassa annuale variante dal 3 al 6% sui redditi dei Palestinesi. Fra gli Stati Arabi, il contributo maggiore viene dall'Arabia Saudita.
Dopo l’insediamento di Abu Mazen, l’OLP ha lanciato un appello a tutti i gruppi radicali palestinesi (che non fanno parte dell’organizzazione) per far cessare ogni atto di violenza. Hamas e Jihad non fanno parte dell’OLP.
Il Consiglio Nazionale Palestinese
POLITICA INTERNA
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L’arresto del Presidente del Consiglio Legislativo palestinese, Abdel Aziz DWEIK, da parte delle forze israeliane
Il Presidente del Consiglio Legislativo Palestinese è stato arrestato il 6 agosto nella sua abitazione di Ramallah. L’esercito israeliano ha fornito la seguente motivazione all’atto: “Lo abbiamo fermato in quanto si tratta di un dirigente di Hamas, che è un’organizzazione terroristica”. In passato, Dweik è già stato arrestato cinque volte.
A due giorni dall’arresto, Dweik è stato ricoverato in ospedale.
Hanno chiesto l’immediata scarcerazione del Presidente del Consiglio Legislativo Palestinese:
Secondo quanto riportato dalle ultime notizie, il presidente del parlamento palestinese, Aziz Dweik, potrebbe essere liberato subito dopo l'annuncio della nascita del nuovo governo di unità nazionale palestinese. Lo sostengono fonti vicine al governo palestinese, citate dall'agenzia di stampa locale 'Ramattan'. Dweik potrebbe essere infatti presto rilasciato per motivi di salute. "Israele potrebbe liberare solo Dweik ma non anche gli altri 43 deputati e ministri palestinesi arrestati dallo scorso gennaio'' ha spiegato la fonte.Intanto fervono le trattative per giungere al più presto alla nascita del nuovo esecutivo dell'Anp.
Le trattative per la formazione di un nuovo Governo
Le trattative al vertice tra Fatah e Hamas per la formazione di un nuovo governo sembrano approdate al loro ultimo stadio di definizione dell’indirizzo politico che tale esecutivo dovrà avere. La politica ufficiale del nuovo governo dovrebbe seguire le linee guida definite nel 2002 dalla Conferenza dei Paesi della Lega Araba, che premono per una normalizzazione dei rapporti con Israele, a condizione che Tel Aviv affermi di rinunciare ai territori occupati nella guerra del 1967. Fin qui la posizione di Hamas si è spinta fino alla garanzia di un impegno per una piena tregua militare, rinunciando dunque agli appelli in favore di una definitiva (e violenta) risoluzione della guerra ma rifiutando comunque ogni esplicito riconoscimento del diritto ad esistere dello Stato di Israele. Evidentemente le aperture di Hamas non sono ancora sufficienti per una ripresa degli aiuti finanziari in quanto restano ancora troppo lontane dalle tre condizioni definite all’inizio dell’anno dal Quartetto (ONU, UE, USA e Russia) che richiedevano al governo di riconoscere Israele, mettere fine alle violenze e prestare fede agli accordi esistenti tra l’Autorità Palestinese e lo Stato d’Israele. In questo quadro, solo il coinvolgimento al governo del partito di Fatah sembra essere una garanzia sufficiente per la comunità internazionale per la ripresa degli aiuti economici e soprattutto per una sincera riapertura delle trattative sulla base della Road Map. Il punto di accordo tra le due fazioni palestinesi storicamente in lotta tra di loro si è raggiunto sulla base di una dichiarazione – il cosiddetto “documento dei prigionieri” – redatta in giugno da alcuni leaders di entrambi i movimenti incarcerati nelle prigioni israeliane. Sulla base di tale accordo, Hamas riconoscerebbe implicitamente per la prima volta il diritto ad esistere di Israele e tale apertura potrebbe aprire alla ripresa degli aiuti internazionali. Negli incontri di Abu Mazen con i maggiori leader internazionali a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu, il presidente palestinese ha incassato il pieno appoggio della comunità internazionale per la formazione di un governo di coalizione con Hamas. In realtà secondo gli accordi del “documento dei prigionieri”, Haniya dovrebbe mantenere la carica di premier ed il suo partito continuerebbe a controllare la maggioranza dei ministeri. Punto principale dell’accordo è però l’intesa per cui il prossimo governo delegherà esclusivamente agli esponenti dell’esecutivo appartenti a Fatah il compito di gestire le trattative con il Quartetto e con Israele; delegando nei fatti al presidente Abu Mazen il compito di guidare la delegazione diplomatica nazionale per la ripresa delle trattative sulla Road Map.
Già dalle prime settimane di settembre sono riprese con grande intensità le manifestazioni di protesta dei lavoratori dell’Autorità Palestinese i quali – dalla presa del potere da parte di Hamas e dal conseguente embargo finanziario internazionale – non ricevono più compensi salariali a causa della sospensione degli aiuti finanziari stranieri. Sull’onda delle proteste che coinvolge le famiglie di ben 165.000 impiegati statali, le brigate dei Martiri di Al Aqsa – braccio armato di Fatah – ha minacciato di uccidere tre importanti leader di Hamas, imputando ad essi la colpa delle difficoltà sociali ed economiche della popolazione palestinese. Le tensioni sono state particolarmente alte durante le prime settimane del mese santo del Ramadan in corrispondenza del quale sia il premier Haniya che il Presidente Abu Mazen avevano promesso il pagamento di un mese salariale per gli impiegati dell’Autorità Palestinese, ormai senza paga da sette mesi. Il mancato pagamento di tutti i salari – ad oggi su otto mensilità, ne sono state corrisposte solo due – ha fatto elevare la protesta, giunta alle manifestazioni di piazza in cui fazioni diverse si sono scontrate violentemente. Ulteriore motivo di tensione è la creazione della cosiddetta “Forza Esecutiva”, un corpo di polizia separato e guidato da Hamas, approvato dal governo ma espressamente illegittimo e osteggiato dal presidente Abu Mazen.
In una situazione diversa, Hamas non avrebbe difficoltà a rifiutare energicamente ogni richiesta da parte di Fatah di una corresponsabilità del governo dei territori ma gli scioperi e le manifestazioni in piazza sembrano ora convincere il premier Haniya della necessità di un cambio di rotta. Secondo un sondaggio nazionale infatti, se oggi si andasse al voto nei territori palestinesi il partito di Fatah otterrebbe una schiacciante maggioranza su Hamas con circa il doppio dei voti rispetto al partito di governo. Tale prospettiva ha convinto evidentemente i vertici di Hamas a rivedere la propria strategia, ammettendo dunque la possibilità di un governo di unità nazionale. È in questo quadro che lo stesso leader Haniya ha a più riprese richiamato il movimento ad una cessazione delle violenze, con implicito riferimento al rapimento del caporale Shalit dell’esercito israeliano imputato alle brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas. In aperto contrasto con queste affermazioni, Khaled Meshal – leader supremo del movimento, in esilio in Siria – ha rilanciato la legittimità degli attacchi verso i centri abitati israelinai, approfondendo la frattura ormai evidente all’interno di Hamas tra la base del movimento e i vertici governativi.
Hamas è stata liberamente eletta in elezioni democratiche in gennaio dal popolo palestinese per la sua convinta campagna contro le diffuse pratiche di corruzione del governo di Fatah. Le sanzioni economiche conseguenti alla sua elezione hanno di fatto impedito al partito di mostrare le proprie reali potenzialità di governo e soprattutto le reali possibilità di “moderazione” per opera della responsabilità di gestione della cosa pubblica. Nella realtà, l’embargo quasi unanime della comunità internazionale – certo giustificato dal rifiuto di Hamas di riconoscere il diritto ad esistere di Israele – ha nei fatti aggravato la situazione politica e sociale palestinese che piuttosto, dopo le elezioni, sembrava avviata verso una pacificazione interna. Nelle condizioni attuali, è evidente che ogni nuova forma di sistemazione interna debba passare per la formazione di un governo di coalizione che – con la sistemazione di uomini del Presidente Abu Mazen al governo – diventi garanzia politica per la comunità internazionale. In effetti forti pressioni politiche (sia dai vertici di Fatah che dalla comunità internazionale) sono state esercitate nelle scorse settimane sul presidente Abu Mazen affinché indica nuove elezioni – pronosticate favorevoli per il suo partito – con l’obiettivo di evitare la fase di un governo di coalizione e di approdare ad un esecutivo monocolore, aperto alle trattative con Israele. Non sembra tuttavia chiaro se il presidente abbia l’autorità di sciogliere l’assemblea e di indire nuove elezioni e Abu Mazen ha più volte ribadito la sua contrarietà a rischiare uno scontro diretto con Hamas. Per di più si osserva che il calo di consensi per Hamas è dovuto principalmente al mancato pagamento dei salari dei dipendenti pubblici ma che il forte sostegno alla lotta alla corruzione inaugurata a gennaio non è diminuita nel corso dei mesi. Per una consistente fetta della popolazione, il ritorno al governo di Fatah si tradurrebbe in una ripresa delle pratiche di governo precedente, alimentata dagli aiuti internazionali che già oggi sono orientati verso il partito di Abu Mazen e non verso le casse del governo nazionale. In sostanza, la permanenza di Hamas al governo, pur in coalizione con Fatah, offrirebbe una forma di garanzia di corretta gestione del governo nazionale e dunque di monitoraggio della destinazione dei fondi internazionali che passano per le casse dell’Autorità Palestinese.
L’ostacolo maggiore alla ripresa delle trattative per una risoluzione del conflitto con Israele è evidentemente la posizione politica di Hamas che rifiuta di accettare le condizione richieste dal Quartetto. La soluzione che il nuovo governo adotterà – controllo della politica interna ad Hamas e affidamento della politica estera a Fatah – si dimostrerà probabilmente valida per una pacificazione interna già dalle prime settimane dalla formazione dell’esecutivo. Del resto, una volta ripresi gli aiuti finanziari della comunità internazionale, le tensioni interne dovute alla forte crisi economica verranno riassorbite e finalmente si potrà ottenere una normalizzazione sociale e politica. In aggiunta tale situazione permetterà finalmente di osservare le reali potenzialità di governo di Hamas e metterà alla prova la sua leadership nel compito di responsabilità della gestione ordinaria della cosa pubblica. Se sul piano interno dunque il governo di coalizione sembra offrire sufficienti garanzie di successo, ben più difficile appare la situazione di politica estera – sulla carta affidata agli esponenti di Fatah – che difficilmente potrà prescindere da un assenso della leadership di Hamas. È evidente infatti che, sebbene la guida delle trattative sia affidata ad Abu Mazen, ogni necessaria approvazione nazionale degli accordi dovrà passare per la maggioranza di cui Hamas gode in Parlamento. Conseguenza probabile di questa condizione sarà evidentemente il proseguimento delle trattative internazionali fino al momento della ratifica interna di un accordo, al momento certo lontano nell’orizzonte temporale.
La dipendenza dalle fonti esterne dell’economia palestinese
L'economia palestinese è fortemente caratterizzata da un legame con gli avvenimenti politici nazionali e dall'appoggio della Comunità Internazionale alle scelte dei suoi leader politici. L'ammontare degli aiuti internazionali, che nello scorso anno hanno raggiunto la cifra di circa 800 milioni di dollari, erano di importanza fondamentale per coprire il deficit che solo nel mese di gennaio ammontava a 69 milioni.
Seguendo la politica dei suoi
alleati occidentali, Israele ha
deciso di inasprire la sua politica economica contro il governo limitrofo, trattenendo le ritenute fiscali ricavate
per conto dell'Autorità Palestinese, circa 60 milioni di dollari solo tra
gennaio e febbraio, ma che in totale rappresentano i due terzi degli introiti
pubblici palestinesi. D'altra parte, il governo palestinese ha perso anche
il supporto delle banche e delle istituzioni finanziarie, specialmente legate
nell'ambito della Lega Araba, tradizionalmente disposte a finanziare le
attività del governo ma che, in applicazione delle norme antiterroristiche
emanate da Washington, hanno incontrato gravi difficoltà nell'allocare gli
scarsi 80 milioni di dollari in prestiti al governo.
L’andamento di progressiva
chiusura della Comunità Internazionale verso la politica economica palestinese
ha subito un rilevante cambiamento a seguito delle dichiarazioni rese pubbliche
dal governo di Ramallah sulle intenzioni di creare un
governo di unità nazionale con Fatah, il cui Presidente
è vicino alle posizioni di dialogo con Israele. Infatti, lo scorso 18 settembre
i Paesi occidentali hanno deciso di premiare questa presa di posizione,
riaprendo il finanziamento indiretto attraverso l’ESSP (Emergency Services
Support Program) della Banca Mondiale. Il fondo di donazione, il cui totale
ammonta a 46,6 milioni di dollari, ha lo scopo esclusivo di finanziare e
supportare per un periodo iniziale di 7 mesi, i servizi essenziali della
popolazione palestinese, tra cui la distribuzione di prodotti medici e
farmaceutici, la riabilitazione delle scuole ed il dislocamento di materiale
scolastico, così come le misure di sostegno alle Università e agli istituti di
insegnamento superiore.
Se da un lato il nuovo flusso finanziario ha mirato ad evitare una catastrofe umanitaria, dall’altro esso è stato indirizzato a coprire le spese di alcuni progetti dei Ministeri della Salute e degli Affari Sociali, escludendo esplicitamente le spese salariali. L'Autorità Palestinese comprende attualmente circa 150.000 dipendenti pubblici, che hanno impegnato nello scorso anno una spesa totale di 278 milioni di dollari (22.4% del Pil), di cui 114 spettavano alle forze di sicurezza. Dallo scorso marzo professori, dottori e altri lavoratori pubblici stanno manifestando contro il taglio al loro stipendio, spesso del 50% ed, in alcuni casi, persino per la mancanza del pagamento da più di 7 mesi a causa dell’assenza di risorse da parte del governo. Questo fattore potrebbe arrecare danni molto più gravi del peggioramento della considerazione dei leader politici da parte della pubblica opinione.
Da una parte, questa situazione potrebbe sfociare in disagi nella popolazione: in una società dove circa 1/3 della popolazione attiva occupata si è rifugiata nel lavoro pubblico alla ricerca di un impiego stabile e di uno stipendio in media superiore a quello privato, il venir meno degli impegni assunti dal governo potrebbe indurre le masse a ribellarsi contro il potere statale, facendo insorgere conflitti che potrebbero divenire inarrestabili. Dall’altro, considerato il dato che lo scorso anno la Palestina si trovava già al 107º posto su 159 Paesi nell’Indice di Trasparenza Internazionale sulla Percezione della Corruzione, non è difficile immaginare un peggioramento del funzionamento delle strutture politiche a livello locale e statale. Tale elemento è particolarmente importante tenuto conto del numero di forze di sicurezza impiegate in uno Stato il cui scheletro è già di per sé molto fragile che potrebbero portare ad una maggiore insicurezza interna. Inoltre, se consideriamo l’affidamento della popolazione nel pubblico impiego e la quasi inesistente economia del settore privato, secondo le prospettive attuali, il dato di disoccupazione passerà dal 35-40% a più del 45-50% nel prossimo anno. Il risultato dell’incontro tra questi elementi pesa definitivamente sulla bilancia dello Stato: il gettito di entrata pro capite ha raggiunto indici mai visti negli ultimi 25 anni. Con una media di circa 1000 dollari per persona, il tasso di crescita reale previsto per il prossimo anno è del -10.8%, creando una perdita che potrebbe raggiungere i 3,5 miliardi di dollari e tra 328.000 e 530.000 posti di lavoro persi.
La prima conseguenza di questi dati è l’aumento del tasso di povertà che, dal 44% dello scorso anno, potrebbe raggiungere il 67% nel 2006 ed il 74% nel 2008. Infatti, attualmente, 2,4 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà ed il 65% di famiglie sono indebitate. Ciò significherà un aggravamento della situazione umanitaria nei territori palestinesi e, quindi, la necessità di ricorrere nuovamente ed con un maggior peso, agli aiuti e finanziamenti internazionali, creando un circolo vizioso forse inesauribile. Un altro elemento indispensabile è che una popolazione affamata cercherà sicuramente una via di uscita. Alcuni fenomeni di migrazione sono già accaduti a partire dal 2003, con la conseguente chiusura delle frontiere da parte degli Stati confinanti tra cui l’Iraq, la Giordania, l’Egitto, la Siria ed Israele, dove buona parte della popolazione palestinese viene trattenuta sui confini in condizioni particolarmente precarie. Un fenomeno migratorio di massa potrebbe portare alla chiusura collettiva delle frontiere, lasciando intere famiglie alla mercé della fame e rinnovando una nuova fase di crisi umanitaria e la conseguente necessità di un intervento umanitario internazionale.
Se da un lato è rilevante la salvaguardia dei settori sanitari e dell’educazione, dall’altro non è da considerare meno essenziale nella politica economica lo sviluppo dei principali settori economici. Da alcuni anni l’economia palestinese si è concentrata nella “in-war-oriented economy”, ossia la politica economica che mira ai consumi piuttosto che alle esportazioni. Questo atteggiamento lascia uno spazio marginale agli investimenti per lo sviluppo e la crescita dell’economia nazionale. Inoltre, il recente blocco israeliano del movimento dei beni, dei capitali e della manodopera ha isolato ulteriormente la nazione palestinese, distruggendo quei settori che erano riusciti a sopravvivere e crescere modestamente negli scorsi anni. La storia economica del Paese continua ad essere profondamente segnata dagli eventi di politica nazionale e dal troppo stretto legame con Israele. Il settore agropecuario, dopo aver subito una grave perdita a seguito della crisi dell’aviaria, ha vissuto un nuovo colpo dopo l’espropriazione di un quinto del territorio della Cisgiordania originalmente destinato all’agricoltura, per la costruzione di un nuovo muro di separazione con Israele. Il settore edilizio ha visto l’importazione dei prodotti per la costruzione bloccata nelle frontiere israeliane per presunte questioni di sicurezza nazionale. Il settore commerciale ha subito la maggior perdita se si considera che esportazioni di beni e di servizi rappresentano tra il 15 ed il 20% del PIL, di cui la maggior parte viene riversato nel mercato israeliano. La chiusura dei rapporti commerciali con Israele ha comportato la ritenzione del 50% dei beni, con la conseguente perdita di circa 20 milioni di dollari nel corso di soli 9 mesi, un dato essenziale se si considera che per ogni dollaro di introiti la Palestina risarcisce 55 centesimi alla Comunità Internazionale per ripagare i debiti, di cui 40 centesimi spettano solo ad Israele. Le piccole imprese hanno vissuto così un periodo critico per la chiusura del principale mercato, per non parlare dell’aumento dei prezzi di trasporto che hanno determinato una scarsa produttività e alti costi di produzione.
[1] Hanno diritto di voto solo i Palestinesi residenti nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est.
[2]Per la votazione della riforma e la successiva fiducia al Governo di Abu Mazen, Israele ha concesso, per la prima volta, dei permessi speciali ai deputati giunti a Ramallah da tutti i territori. Ad alcuni deputati non è stato, tuttavia, concesso tale permesso in quanto le autorità israeliane ritengono che abbiano avuto una parte attiva in alcuni attentati anti-israeliani.
[3] Precedentemente, nell’ambito del Consiglio Legislativo Palestinese era prevista un’apposita Commissione per l’esercizio del potere esecutivo denominata Autorità esecutiva del Consiglio. A tale Autorità esecutiva era delegato il potere esecutivo, che essa esercitava per conto dell’intero Consiglio. Il Presidente, eletto anch’esso a suffragio universale per cinque anni, era membro di diritto e presiedeva l’Autorità esecutiva. Proponeva al Consiglio i membri parlamentari dell’Autorità esecutiva, la cui nomina era subordinata alla successiva approvazione del Consiglio, e nominava direttamente i membri non parlamentari – in misura del 20% del totale dei componenti – che non avevano diritto di voto. Il Presidente presentava i disegni di legge al Consiglio, promulgava le leggi ed emanava decreti legislativi e regolamenti.