Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Osservatorio legislativo e parlamentare |
Altri Autori: | Servizio Studi - Dipartimento istituzioni , Ufficio del Regolamento |
Titolo: | I presupposti della decretazione d'urgenza nella sentenza della Corte Costituzionale n. 171/2007 |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 89 |
Data: | 04/07/2007 |
Organi della Camera: | Comitato per la legislazione |
Camera dei deputati
XV LEGISLATURA
SERVIZIO STUDI
Documentazione e ricerche
I presupposti della decretazione d’urgenza nella sentenza della Corte Costituzionale n. 171/2007
n. 89
4 luglio 2007
Il presente dossier affronta un tema già trattato nel dossier del Servizio Studi del Senato intitolato “I presupposti della decretazione d’urgenza: disciplina, giurisprudenza e dottrina”, del quale riprende, in particolare, il paragrafo 4.1 dell’introduzione e, con due integrazioni, i contributi di dottrina. Sul punto il dossier si avvale altresì di elementi informativi acquisiti grazie alla disponibilità degli uffici della Corte costituzionale.
Il presente dossier è stato redatto congiuntamente dall’Ufficio del Regolamento e dal Servizio Studi (Dipartimento Istituzioni e Osservatorio sulla legislazione).
I dossier
dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di
documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei
parlamentari.
file: OR0049.doc
INDICE
1. La disciplina in materia di decretazione d’urgenza
1.1. La disciplina costituzionale
1.3. I regolamenti parlamentari
2. La decretazione d’urgenza nel progetto di revisione costituzionale all’esame della Camera
3. Il messaggio presidenziale di rinvio alle Camere del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4
4. La giurisprudenza costituzionale prima della sentenza n. 171/2007
4.1. Le sentenze in tema di applicazione dell’articolo 77, secondo comma, della Costituzione
4.2. Le sentenze riguardanti l’utilizzo della decretazione d’urgenza in materia elettorale
5. La sentenza n. 171 del 2007
6. Il parere del Comitato per la legislazione sul decreto-legge n. 80 del 2004
Sulla sindacabilità dei presupposti della decretazione d’urgenza in caso di loro “evidente mancanza”
Costituzione della Repubblica italiana
Disposizioni dei regolamenti parlamentari sul procedimento di conversione
Norme generali dei regolamenti parlamentari sull’ammissibilità
Pareri delle Giunte per il Regolamento di Camera e Senato
RAVERAIRA M., Il problema del sindacato di costituzionalità sui presupposti della “necessità ed urgenza” dei decreti legge in Giurisprudenza costituzionale, 1982, pp. 1433-1468
ANGIOLINI V., La Corte riapre un occhio sui vizi del decreto-legge convertito? in Giurisprudenza costituzionale, 1997, pp. 2010-2015
ROMBOLI R., L’efficacia sanante dei vizi formali del decreto legge da parte della legge di conversione: è davvero cancellata la sentenza n. 29 del 1995? in Giurisprudenza costituzionale, 1997, pp. 910-917
CELOTTO A., Spunti ricostruttivi sulla morfologia del vizio da reiterazione dei decreti-legge in Giurisprudenza costituzionale, 1998, pp. 1562-1571
VARI F., Sulla presunta efficacia sanante della legge di conversione di un decreto-legge emanato in assenza di presupposti in Il Foro amministrativo, 1999, fasc. 2, pp. 299-305
ANGELINI F., Il controllo della Corte costituzionale sui presupposti giustificativi della decretazione d’urgenza “entra dalla porta e riesce dalla finestra” in Giurisprudenza italiana, 2002, pp. 1788-1794
CELOTTO A., La “storia infinita”: ondivaghi e contraddittori orientamenti sul controllo dei presupposti del decreto-legge (Nota alla sentenza Corte costituzionale n. 16 del 2002) in Giurisprudenza costituzionale, 2002, pp. 133-137
SIMONCINI A., Una nuova stagione per i controlli sulla decretazione d’urgenza? in Quaderni costituzionali, 2002, pp. 613-615
ROMBOLI R., La “mancanza” dei presupposti di necessità e di urgenza e la “evidente mancanza” degli stessi nel decreto legge: come un apparente portone può ridursi ad uno strettissimo pertugio, in Il Foro Italiano, 2004, fasc. 12, pp. 3277-3279
CELOTTO A., C’è sempre una prima volta.. (La Corte costituzionale annulla un decreto-legge per mancanza dei presupposti) in www.giustamm.it, giugno 2007
DICKMANN R., Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo in www.federalismi.it, 6 giugno 2007
ROMBOLI R., Una sentenza “storica”: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto-legge per evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza in www.associazionedei costituzionalisti.it, 6 giugno 2007
Il presente dossier è dedicato alla recente sentenza della Corte costituzionale n. 171 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, per contrasto con l'articolo 77 della Costituzione.
La sentenza contiene affermazioni di una certa rilevanza sul problema della decretazione d'urgenza, rivestendo conseguentemente un notevole interesse per gli organi parlamentari impegnati nel procedimento di conversione dei decreti-legge, e, segnatamente, per il Comitato per la legislazione.
Dopo una sintetica ricognizione della disciplina in materia di decreti-legge e relativo procedimento di conversione, ricavabile dalla Costituzione, dalla legislazione ordinaria e dai regolamenti parlamentari, il presente dossier si sofferma su talune pronunce della Corte costituzionale che hanno segnato, nel tempo, l’evoluzione della linee giurisprudenziali della Corte, per inquadrare, infine, la sentenza in oggetto.
Come è noto, l’articolo 77 della Costituzione disciplina la decretazione d’urgenza nell’ambito della sezione II (La formazione delle leggi) del titolo I (Il Parlamento) della Parte seconda (Ordinamento della Repubblica) della Costituzione. La decretazione d’urgenza viene trattata in tale articolo come uno strumento del quale il Governo si può avvalere in casi eccezionali, derogando – per così dire – alle disposizioni costituzionali che attribuiscono al Parlamento la funzione legislativa, esercitata collettivamente dalle due Camere ai sensi dell’articolo 70 della Costituzione stessa.
Il primo comma dell’articolo 77 dispone innanzi tutto che il Governo non possa, “senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria”.
Il secondo comma stabilisce la possibilità per il Governo, “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, di adottare, “sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge”, a condizione che li presenti il giorno stesso della loro adozione “per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”.
Il terzo comma, infine, prevede che “I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”.
Nell’ordinamento costituzionale si rinviene inoltre l’articolo 134 della Costituzione che, annoverando tra le attribuzioni della Corte costituzionale il giudizio sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli “atti aventi forza di legge” dello Stato e delle Regioni, riconduce anche i decreti- legge nell’ambito del sindacato di legittimità costituzionale proprio delle leggi di origine parlamentare.
La legge 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, all’articolo 15, circoscrive i limiti entro i quali il Governo può adottare decreti-legge, sia dal punto di vista procedurale, sia dal punto di vista contenutistico.
In particolare, esso prevede, al comma 1, che il preambolo dei decreti rechi l’indicazione “delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l’adozione”.
Il comma 2 pone limiti all’esercizio del potere di decretazione d’urgenza nei confronti del Governo; in particolare, “Il Governo non può, mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione;
b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione[1];
c) rinnovare le disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere;
d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti;
e) ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento”.
Il comma 3 introduce limiti contenutistici, stabilendo che “I decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”.
I commi 4, 5 e 6 disciplinano ulteriori aspetti procedurali e sostanziali, con riguardo alla pubblicazione del decreto “immediatamente dopo la sua emanazione” (comma 4), alle modifiche successive eventualmente apportate nel procedimento di conversione (che hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente”: comma 5) ed alla immediata pubblicazione nella “Gazzetta ufficiale” del rifiuto di conversione, della conversione parziale nonché della mancata conversione (comma 6).
La legge 27 luglio 2000, n. 212, Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, reca, ai primi tre articoli, ulteriori disposizioni che investono in generale la legislazione in materia tributaria e pongono un ulteriore limite alla decretazione d’urgenza, disponendo che “l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica”.
Si segnala che la legge n. 400 del 1988 (unitamente allo statuto del contribuente) è stata assunta come parametro della propria attività consultiva, fin dall’inizio, dal Comitato per la legislazione, che l’ha sempre considerata applicabile non soltanto ai testi predisposti dal Governo, ma anche ai nuovi contenuti introdotti in sede parlamentare.
Come più volte segnalato daI Presidenti del Comitato per la legislazione nei rapporti relativi all’attività svolta nel rispettivo turno di presidenza, la disciplina del procedimento di conversione presenta significative differenze tra i due rami del Parlamento.
Al riguardo, nella tabella riportata nella sezione dedicata alla normativa di riferimento, si raffrontano le disposizioni dei regolamenti parlamentari che, in via principale, disciplinano il procedimento di esame dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge nei due rami del Parlamento. Dal raffronto tra le due norme emergono, in particolare, le seguenti differenze procedimentali:
1) in ordine alle modalità di svolgimento, va rilevato come al Senato, nell’ambito del procedimento di conversione, può innestarsi una fase sub-procedimentale (cosiddetto “filtro di costituzionalità”), che si articola essenzialmente nella possibilità di chiamare l’Assemblea ad esprimersi, entro cinque giorni, sul parere reso dalla 1a Commissione in ordine alla sussistenza dei “presupposti richiesti dall'articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente”.
Tale procedura è espressamente disciplinata dall’articolo 78, comma 3, del regolamento del Senato, mentre l’analoga previsione contenuta nel regolamento della Camera è stata invece soppressa nel 1997: ciò in relazione alla possibilità di procedere comunque, entro il settimo giorno, all’esame in Assemblea di “questioni pregiudiziali” che, come noto, possono anche essere qualificate con riguardo ai profili di legittimità costituzionale del provvedimento (cd. “questioni pregiudiziali di costituzionalità”).
Presso la Camera dei deputati è invece previsto che i disegni di legge di conversione siano “assegnati al Comitato per la legislazione di cui all'articolo 16-bis, che, nel termine di cinque giorni, esprime parere alle Commissioni competenti, anche proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino con le regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti-legge, previste dalla vigente legislazione”.
Come noto, la riforma regolamentare approvata dalla Camera dei Deputati nel 1997, ha istituito il Comitato per la Legislazione, mentre non vi è alcun organismo omologo presso l’altro ramo del Parlamento.
2) In ordine ai tempi di svolgimento del procedimento di conversione dei decreti-legge, va evidenziato come la disciplina regolamentare del Senato tende ad assicurare una più agevole previsione di tempi certi di conclusione dell’esame dei decreti: la disciplina regolamentare e la prassi consentono infatti al Presidente del Senato, al fine di rispettare i tempi, di passare direttamente alla loro votazione finale, pur in presenza di numerosi emendamenti pendenti (cd “ghigliottina”).
In particolare, l’articolo 55 del regolamento consente alla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari di stabilire «la data entro cui gli argomenti iscritti nel calendario debbono essere posti in votazione». Inoltre, l’articolo 78, comma 5, del regolamento dispone che «il disegno di legge di conversione, presentato dal Governo al Senato, è in ogni caso iscritto all’ordine del giorno dell’Assemblea in tempo utile ad assicurare che la votazione finale avvenga non oltre il trentesimo giorno dal deferimento».
Alla Camera, a differenza che al Senato, esistono strumenti per assicurare che la fase di esame in Commissione si svolga in tempi più rapidi di quelli ordinari (in particolare attraverso l’abbreviazione della durata della fase referente, ridotta a 15 giorni) ma non hanno mai avuto concreta attuazione le previsioni regolamentari dirette a garantire la tempestiva conclusione dell’esame di un disegno di legge di conversione. Infatti, sebbene la formulazione letterale delle norme – dopo l’approvazione delle riforme del 1997 – consentirebbe il contingentamento dei tempi di esame anche dei disegni di legge di conversione, l’applicazione di tale disciplina è stata finora esclusa, nella XIII, XIV e XV legislatura, per ragioni di opportunità politica.
In particolare, l’art. 154, comma 1, del regolamento esclude “in via transitoria” l’applicazione delle disposizioni regolamentari sul contingentamento (previste dall’art. 24, commi 7, 8, 9, 10, 11 e 12, del regolamento): l’espressione “in via transitoria”, ritenuta riferibile alla sola “fase di passaggio tra le vecchie e le nuove norme, secondo il significato logico ed indiscusso dell’espressione” (in tal senso la Giunta per il regolamento del 19 febbraio 1998) è dunque indiscutibilmente superata. L’interpretazione delle norme regolamentari così prospettata è stata tuttavia “congelata” dalla Presidenza della Camera, in considerazione delle ragioni politiche inerenti all’accordo che aveva condotto all’approvazione della riforma regolamentare ed anche in considerazione delle possibili conseguenze che l’applicazione ordinaria del contingentamento avrebbe potuto determinare sull’uso della decretazione d’urgenza da parte del Governo, incoraggiandone un eccessivo ricorso. Il “congelamento” è stato espressamente confermato nella XIV legislatura dal Presidente della Camera e a tale decisione la Presidenza si attiene anche in questa prima fase della XV legislatura, nella quale il tema è comunque stato già posto all’attenzione della Giunta per il regolamento (si vedano, in proposito, le sedute del 28 ottobre e del 24 aprile 2007).
3) In relazione all’ammissibilità degli emendamenti, si evidenziano significative divergenze di disciplina regolamentare e di prassi applicative nei due rami del Parlamento. In base al regolamento della Camera, alle circolari interpretative della Presidenza ed alla prassi applicativa affermatasi nell’ultimo decennio, il regime di ammissibilità degli emendamenti ai decreti-legge ed ai relativi disegni di legge di conversione è basato su criteri più rigidi di quelli applicati in via generale per i progetti di legge: costituisce ad esempio prassi consolidata quella di non ritenere ammissibili emendamenti che si pongano in contrasto con i parametri della legge n. 400 del 1988, e, in particolare, emendamenti che contengano deleghe legislative o vi incidano, o si presentino privi del carattere di omogeneità rispetto al contenuto del decreto.
In particolare, il dettato dell'articolo 96-bis, comma 7, soprattutto alla luce di una prassi applicativa più che decennale (consolidatasi a partire dalla XII legislatura), è assolutamente univoco: gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge devono essere dichiarati inammissibili, laddove per i progetti di legge ordinari è prevista la sola inammissibilità degli emendamenti estranei per materia. La circolare del Presidente della Camera del 10 gennaio 1997 precisa inoltre che la materia «deve essere valutata con riferimento ai singoli oggetti ed alla specifica problematica affrontata dall'intervento normativo». La valutazione di ammissibilità degli emendamenti, con riferimento alla loro stretta attinenza alla materia trattata nel decreto, è effettuata sulla base del contenuto proprio di ciascun decreto-legge, come definito dal Governo in sede di emanazione dello stesso (o, se approvato dal Senato, sulla base del testo da questo trasmesso) (si vedano le precisazioni rese nella seduta del 31 gennaio 2007). Le questioni di ammissibilità degli emendamenti che eventualmente insorgano nel corso dell'esame in sede referente di disegni di legge di conversione dei decreti-legge devono essere sottoposte al Presidente della Camera. Tale prescrizione - già stabilita nella riunione della Giunta per il Regolamento del 9 marzo 1982 - è stata ribadita nella circolare del Presidente della Camera del 10 gennaio 1997, che esclude espressamente la possibilità di votare in Commissione emendamenti di cui appaia comunque dubbia l'ammissibilità. Ciò in quanto spetta alla Presidenza della Camera far sì che le decisioni in materia di ammissibilità si conformino alla prassi costantemente seguita, volta a garantire una uniforme applicazione dei criteri di ammissibilità in tutte le fasi del procedimento di conversione in legge dei decreti-legge.
Come precisato già nella riunione della Giunta per il Regolamento del 23 marzo 1988, «i poteri del Presidente della Camera sull'ammissibilità degli emendamenti trovano esplicazione sia sulle questioni sottopostegli dal Presidente della Commissione e sugli emendamenti presentati direttamente in Assemblea, sia sulle disposizioni introdotte dalla Commissione in sede referente senza il vaglio preventivo del Presidente della Camera».
Diversamente, il regolamento del Senato non fissa alcuna specifica regola in ordine alla valutazione di ammissibilità degli emendamenti ai decreti-legge, per i quali vale quindi solo il criterio generale dell'improponibilità di quelli «estranei all'oggetto della discussione» (articolo 97). Su queste basi -pur in un quadro delimitato da apposite pronunce della Giunta per il regolamento e di prescrizioni contenute nella circolare del Presidente del Senato del 10 gennaio 1997 sull'istruttoria legislativa, ispirate dall’esigenza di una rigorosa valutazione di ammissibilità degli emendamenti - le prassi applicative che operano presso il Senato risultano orientate verso una maggiore estensione del potere di emendamento. L'asimmetria dei criteri di ammissibilità si accentua poi nei casi di posizione della questione di fiducia su un maxiemendamento al decreto-legge che, secondo gli indirizzi affermatisi al Senato e diversamente dalla Camera, escluderebbe il vaglio di ammissibilità della Presidenza.
Si richiama, in particolare, l'articolo 78, comma 6, del regolamento del Senato, secondo cui che «gli emendamenti proposti in Commissione e da questa fatti propri debbono essere presentati come tali all'Assemblea»: essi cioè, a differenza che alla Camera, non entrano a far parte integrante del testo del decreto, ma devono essere nuovamente votati dall'Assemblea. Tale circostanza, come emerge dai lavori preparatori sulla riforma dell'articolo 78 (e in particolare nella relazione presentata dalla Giunta per il regolamento il 4 marzo 1982), costituisce un indice del rilievo assegnato, da quel regolamento, al testo originario del decreto-legge nel corso del procedimento di conversione in legge, evidenziando l'esigenza di una disciplina restrittiva dell'ammissibilità degli emendamenti. Esigenza che, peraltro, ha trovato conferma nella pronuncia della Giunta per il Regolamento dell'8 novembre 1984 (secondo cui il criterio generale di ammissibilità «in sede di conversione dei decreti-legge (...) deve essere interpretato in modo particolarmente rigoroso») e nella circolare del Presidente del Senato del 10 gennaio 1997 sull'istruttoria legislativa (contestuale a quella del Presidente della Camera sopra citata), che connette tale valutazione rigorosa alla necessità di «tener conto della indispensabile preservazione dei caratteri di necessità e urgenza già verificati con la procedura prevista dall'articolo 78 del Regolamento, con riferimento sia al decreto-legge che al disegno di legge di conversione».
Tale asimmetria ha posto l’esigenza di procedere ad un’armonizzazione delle discipline nei due rami del Parlamento che, ferma restando la necessità di non alterare le caratteristiche peculiari del procedimento di conversione in legge dei decreti-legge, come ricavabili dalla Costituzione, dai regolamenti e dalla legislazione ordinaria, consentano al tempo stesso l'esercizio uniforme fra le due Camere delle prerogative parlamentari di emendamento dei provvedimenti d'urgenza. In questo quadro, le Giunte per il regolamento dei due rami del Parlamento hanno iniziato, a partire dai primi mesi del 2007, un’istruttoria finalizzata alla definizione di soluzioni condivise.
Nella
seduta del 21 giugno 2007
Nella riformulazione proposta, l’articolo 77 perde alcuni tra gli elementi che ne caratterizzano la vigente stesura, e ne acquista altri.
In particolare, viene meno l’espresso divieto al Governo di emanare, senza delegazione delle Camere, decreti che abbiano valore di legge ordinaria; divieto, oggi posto dal primo comma dell’articolo, che attribuisce natura derogatoria alla disciplina recata dai commi successivi.
Scompare inoltre, al secondo comma, l’inciso secondo cui il Governo adotta i provvedimenti provvisori con forza di legge “sotto la sua responsabilità”.
Per altro verso, il medesimo secondo comma delimita l’esercizio di tale potere, introducendo in Costituzione i vincoli oggi posti dall’articolo 15 della legge n. 400/1988 e circoscrivendo l’ambito materiale di intervento. In particolare, i decreti-legge devono recare misure:
§ di carattere specifico,
§ di contenuto omogeneo,
§ di immediata applicazione
§ riguardanti le seguenti, specifiche materie:
§ sicurezza nazionale,
§ pubbliche calamità,
§ norme finanziarie,
§ adempimento di obblighi comunitari e internazionali.
Il Governo, infine, non può, mediante decreto:
§ rinnovare disposizioni di decreti non convertiti in legge,
§ ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale,
§ conferire deleghe legislative,
§ attribuire poteri regolamentari in materie già disciplinate con legge,
§ disciplinare materie riservate alle leggi che, ai sensi dell’articolo 70 della Costituzione, anch’esso novellato, devono essere approvate dalle due Camere[2].
I limiti sin qui elencati sono posti anche alla legge di conversione, la quale non può, inoltre, introdurre materie nuove rispetto a quelle oggetto del decreto.
Resta fermo il termine di 60 giorni per la conversione in legge: è rimessa ai regolamenti parlamentari la previsione di norme volte ad assicurare che la votazione finale avvenga nell’osservanza del termine.
Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. |
In casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo può adottare provvedimenti provvisori con forza di legge, recanti misure di carattere specifico, di contenuto omogeneo e di immediata applicazione, concernenti sicurezza nazionale, pubbliche calamità, norme finanziarie, adempimento di obblighi comunitari e internazionali. Il Governo non può, mediante decreto, rinnovare disposizioni di decreti non convertiti in legge, ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, conferire deleghe legislative, attribuire poteri regolamentari in materie già disciplinate con legge, disciplinare materie riservate alle leggi che devono essere approvate dalle due Camere. Il giorno stesso della sua adozione il decreto è presentato per la conversione in legge alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. La legge di conversione rispetta gli stessi limiti posti al decreto legge e non può introdurre materie nuove. |
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. |
I decreti perdono efficacia fin dall’inizio se entro sessanta giorni dalla pubblicazione non sono convertiti in legge. I regolamenti di ciascuna Camera assicurano che la votazione finale avvenga nell’osservanza del termine. Le Camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. |
Il Presidente della Repubblica, il 29 marzo 2002, ha rinviato alle Camere la legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4, recante disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l’agricoltura, sollevando alcuni rilievi in merito all’utilizzo della decretazione d’urgenza che investono i temi trattati nella sentenza in commento e sembrano condividere la linea seguita dal Comitato per la legislazione (il cui parere sul provvedimento oggetto di rinvio viene riportato, a supporto della decisione assunta).
Il Presidente della Repubblica, in particolare, si sofferma sulle numerose norme introdotte in sede di conversione, “sia ad iniziativa del Governo, sia per emendamenti parlamentari”, verificando l’assenza di due requisiti fondamentali: quelli costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza; l’attinenza alle disposizioni dell’atto originario[3]. “Questo modo di procedere – argomenta il Presidente – configura uno stravolgimento dell’istituto del decreto-legge non conforme al principio consacrato nel ricordato articolo 77 della Costituzione e alle norme dettate in proposito dalla legge n. 400 del 1988 che, pur essendo una legge ordinaria, ha valore ordinamentale in quanto è preposta all’ordinato impiego della decretazione d’urgenza e deve quindi essere, del pari, rigorosamente osservata”. Inoltre, il Presidente della Repubblica solleva un ulteriore rilievo, relativo all’evenienza che “un testo aggravato da tante norme disomogenee dà vita, come rilevato nel parere del Comitato per la legislazione della Camera dei deputati formulato il 19 marzo 2002, ad un provvedimento “di difficile conoscibilità del complesso della normativa applicabile”.”[4]
Le pronunce della Corte costituzionale antecedenti alla sentenza n. 171 del 2007 vengono qui analizzate con riguardo a due principali filoni giurisprudenziali: quello, di gran lunga prevalente, concernente l’applicazione dell’articolo 77, comma secondo, della Costituzione, cui si riconnettono numerose sentenze, a loro volta riconducibili, essenzialmente, a due distinti indirizzi; l’altro, di minor impatto, concernente invece lo specifico tema della decretazione di urgenza in materia elettorale.
Come detto, numerose decisioni della Corte costituzionale in tema di applicazione dell’articolo 77, secondo comma, della Costituzione sembrano riconducibili, in base alla ricostruzione contenuta nella sentenza n. 171 del 2007, a due indirizzi interpretativi fondamentali.
Secondo un orientamento più risalente, deve negarsi la possibilità di sindacare la sussistenza dei presupposti costituzionali della decretazione quando le Camere abbiano effettuato la conversione in legge, in quanto quest’ultima va configurata come vera e propria “novazione” della fonte (si vedano le sentenze n. 108 del 1986, n. 243 del 1987, nn. 808, 810, 1033, 1035 e 1060 del 1988, n. 263 del 1994).
In altri termini, alla stregua di tale indirizzo, l’avvenuta conversione in legge determina la sostituzione, con efficacia ex-tunc, della legge di conversione al decreto impugnato, ciò che fa venir meno “sin dall'inizio” l'atto oggetto delle censure ex articolo 77 della Costituzione, che divengono così inammissibili.
In base ad un diverso orientamento, inaugurato dalla sentenza n. 29 del 1995, il controllo sulla sussistenza dei presupposti spetta alla Corte anche in caso di conversione del decreto-legge, ancorché nel limite della “evidente” mancanza del presupposto della straordinaria necessità e urgenza. Alla base di tale impostazione, tesa a negare effetti sananti alla conversione, vi è la considerazione che il difetto della straordinaria necessità ed urgenza costituisce vizio formale, attinente al procedimento di conversione e come tale trasmissibile all’atto parlamentare di conversione; ove macroscopica, la mancanza dei presupposti è quindi sindacabile dalla Corte (anche) come vitium in procedendo della legge di conversione.
Tale orientamento ritiene pertanto, nei limiti detti, censurabile dalla Corte il difetto dei presupposti sia con riguardo ai decreti-legge ancora in corso di conversione (cfr. sent. n. 161 del 1995 e n. 270 del 1996) sia rispetto a decreti-legge convertiti in legge (cfr. sent. n. 330 del 1996), mentre esclude lo scrutinio in relazione alle disposizioni aggiunte dalle Camere in sede di conversione[6] (cfr. sent. n. 391 del 1995).
I due citati indirizzi hanno convissuto nella successiva giurisprudenza della Corte costituzionale[7].
Anche recentemente, infatti, vi sono state pronunce che hanno fatto propria la tesi dell’efficacia sanante della legge di conversione, con i relativi corollari (cfr. sentt. n. 419 del 2000, n. 376 del 2001 e n. 16 e 29 del 2002)[8].
In altre occasioni, peraltro, la Consulta è tornata ad affermare la possibilità del sindacato sui presupposti di necessità e urgenza del decreto-legge - ancorché solo nei limiti dell’ “evidente mancanza”- anche dopo la conversione in legge (cfr. sent. n. 341 del 2003; n. 6, 178, 196, 285 e 299 del 2004; n. 2, 62 e 272 del 2005).
Per quanto concerne la delimitazione della materia elettorale, occorre risalire alla sentenza n. 104 del 1973, secondo la quale in tale materia “va ricompreso anche ciò che attiene alla organizzazione della funzione elettorale, ossia tutta quella normazione positiva riguardante lo svolgimento delle elezioni”.
Con riguardo all’utilizzo della decretazione d’urgenza in materia, si segnala la sentenza n. 161/1995, pronunciata nell’ambito di un giudizio su un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato riguardante il decreto-legge n. 83 del 1995, in materia di parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne referendarie. Il conflitto era stato sollevato dai promotori di alcuni referendum, ad avviso dei quali il citato decreto-legge risultava “viziato “per cattivo uso del potere di cui all’art. 77 della Costituzione” essendo stato adottato, senza che ricorressero gli estremi della necessità e dell’urgenza, in materia referendaria, da ritenersi preclusa al decreto-legge”. La Corte, dopo aver riaffermato, in linea con la sentenza n. 29 del 1995, che spetta ad essa il sindacato sull’esistenza dei presupposti costituzionali ed aver rilevato che nel caso di specie “non ricorre quella “evidente mancanza” dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza di tali presupposti”, si pronuncia sul “limite oggettivo che, rispetto alla decretazione d’urgenza, viene dedotto nel ricorso con riferimento alla materia referendaria”, rilevando “che tale limite non risulta desumibile, né direttamente né indirettamente, dalla disciplina costituzionale”.
“Il rilievo può valere – argomenta la Corte – anche per quanto concerne il divieto – desunto dall’art. 72, quarto comma, della Costituzione e richiamato dall’art. 15, secondo comma, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400 – relativo alla materia elettorale: e, invero, anche a voler ammettere, ai fini dell’operatività di detto limite rispetto al caso in esame, una piena equiparazione tra materia elettorale e materia referendaria, resterebbe pur sempre il fatto che il decreto in questione ha inteso porre una disciplina che non viene a toccare né il voto né il procedimento referendario in senso proprio, ma le modalità della campagna referendaria. La sfera regolata dal decreto-legge n. 83 del 1995, pur connessa alla materia referendaria – in quanto funzionalmente collegata all’applicazione dell’art. 75 della Costituzione – risulta, pertanto, distinta, nei suoi contenuti, da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario”.
Come già segnalato, con la sentenza n. 171 del 23 maggio 2007 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, per contrasto con l'articolo 77 della Costituzione.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di cassazione, per palese insussistenza del requisito costituzionale del «caso straordinario di necessità e urgenza», nel corso di un giudizio di impugnazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di Messina, pronunciandosi su ricorsi proposti da alcuni cittadini, aveva dichiarato decaduto dalla carica il sindaco di quella città dopo che era divenuta definitiva la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti per il reato previsto dall'articolo 314, secondo comma, del codice penale (peculato d'uso). La censurata norma del decreto-legge n. 80/2004 assumeva rilevanza processuale in quanto, per effetto di essa, la condanna non costituiva più una causa di incandidabilità a sindaco o di impossibilità di ricoprire la relativa carica.
Per effetto della conversione in legge del decreto, la questione di legittimità costituzionale, originariamente sollevata con riferimento al decreto-legge, è stata successivamente trasferita - dalla stessa Corte remittente - sulla legge di conversione del decreto-legge, in quanto ad avviso della Corte di cassazione «né la modifica introdotta in sede di conversione alla disposizione censurata, né la relazione che accompagna[va] il disegno di legge di conversione avevano dato adeguato conto della ricorrenza della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza».
Gli aspetti più rilevanti della pronuncia della Corte sono pertanto così riassumibili: in primo luogo viene confermato l’indirizzo giurisprudenziale originato dalla sentenza n. 29 del 1995, secondo la quale «l'esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità», con la precisazione che il giudizio della Corte si distingue e si svolge su un piano diverso sia da quello iniziale del Governo sia da quello successivo del Parlamento, ed ha «la funzione di preservare l'assetto delle fonti normative»; in tale ottica, pertanto - ribadisce la Corte - il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d'urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, deve «risultare evidente».
In secondo luogo, la Corte, riprendendo quanto affermato con le già citate sentenze n. 29 del 1995 e n. 341 del 2003, nega - superando, peraltro, un diverso orientamento espresso in altre precedenti sentenze - l'efficacia sanante della legge di conversione rispetto ai vizi del decreto, in quanto ciò «significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie». Inoltre - dichiara la Corte - il difetto dei requisiti del «caso straordinario di necessità e d'urgenza», una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge.
Infine, la Corte, per valutare la sussistenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza di provvedere, si rivolge agli «indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata», constatando, nel caso di specie, come né dall'epigrafe, né dal preambolo, né dal contenuto degli articoli risulti alcunché che «abbia attinenza» con il contenuto della disposizione impugnata. Essa si connota, invece, a giudizio della Corte, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia degli enti locali disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui era inserita. In tale modo la Corte riconosce, dunque, la violazione di uno dei requisiti previsti dall'articolo 15 della legge n. 400 del 1988 (e precisamente l'omogeneità, che di per se stesso non costituisce un parametro costituzionale) come indice sintomatico della mancanza dei requisiti previsti dall'articolo 77 della Costituzione relativamente ai decreti-legge.
La Corte, pertanto, non manca di rilevare che il contenuto della norma censurata, riguardando la determinazione delle cause di incandidabilità e di incompatibilità, attiene certamente alla materia elettorale (e non alla materia della disciplina degli enti locali), e cioè ad una delle materie su cui il decreto-legge, ai sensi dell'articolo 15 della legge n. 400 del 1988 non può intervenire. Sebbene non vi sia un'espressa presa di posizione al riguardo, non è da escludersi che anche tale circostanza possa aver avuto una qualche influenza nel pronunciamento della Corte.
In occasione dell'esame alla Camera del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 80 del 2004, il Comitato per la legislazione, nella seduta del 18 maggio 2004, oltre a rilevare che il provvedimento recava disposizioni di carattere eterogeneo, il cui elemento unificante era rappresentato dalla sola finalità di intervenire su diversi profili dell'ordinamento degli enti locali, ebbe a ribadire l'esigenza di assicurare il corretto impiego dello strumento normativo del decreto-legge, con specifico riferimento al rispetto delle norme ordinamentali che ne definiscono i limiti di contenuto, ed in particolare dei limiti di cui all'articolo 15, comma 2, lettere a) e b) della legge n. 400 del 1988, nonché delle necessarie caratteristiche di immediata applicabilità, di specificità, di omogeneità e di corrispondenza al titolo delle norme recate nei decreti-legge, puntando così l'attenzione su alcuni aspetti del decreto-legge finiti poi sotto la lente del giudizio della Corte con la sentenza in esame.
composta dai signori: Presidente: Franco BILE; Giudici: Francesco AMIRANTE; Ugo DE SIERVO; Paolo MADDALENA; Alfio FINOCCHIARO; Alfonso QUARANTA; Franco GALLO; Luigi MAZZELLA; Sabino CASSESE; Maria Rita SAULLE; Giuseppe TESAURO; Paolo Maria NAPOLITANO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a) del decreto-legge 29 marzo 2004 n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto da G. B. ed altri contro R. A. P. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2005, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2005.
Visti gli atti di costituzione di R. A. P. ed altri, di A. B., di G. R., di A. N. ed altri nonchè l' atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2007 il Giudice relatore Francesco Amirante;
uditi gli avvocati Graziella Colaiacomo per A. B., Carmelo Matafù per A. N. ed altri e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.––
Premette il giudice a quo che,
con sentenza del 13 dicembre 2002, il ricorrente era stato condannato dalla
Corte di appello di Messina alla pena di mesi sei di reclusione ed alla
temporanea interdizione dai pubblici uffici, con i benefici di legge, per i
delitti di cui agli artt. 81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e
che
Tale decisione era stata, tuttavia, riformata dalla Corte di appello di Messina che aveva dichiarato la decadenza dalla carica di sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003.
Avverso detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione ma, prima dell'udienza di discussione, era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n. 80 del 2004, il cui art. 7, comma 1, lettere a) e b),aveva modificato l'art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo il numero «314» erano inserite le parole «primo comma») e l'art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo (nel senso che dopo le parole «sentenza di condanna» erano inserite le parole «per uno dei reati previsti dal medesimo comma»). Con il decreto-legge era stato, quindi, escluso che la condanna per il peculato d'uso costituisse causa di incandidabilità alla carica di sindaco e, poi, di decadenza dalla stessa.
Questa Corte, con ordinanza n. 2 del
In punto di rilevanza,
Da quanto si è detto deriva, ad avviso della Corte remittente, la necessaria e ineludibile applicazione delle norme sopravvenute nel giudizio di cui si tratta, in quanto l'art. 7 del d.l. n. 80 del 2004, alla lettera a), modificando l'art. 58, comma 1, lettera b), ha escluso dal novero delle cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto di peculato d'uso (salva l'ipotesi contemplata dall'art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui la pena irrogata superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla lettera b) – modificando l'art. 59, comma 6, del testo unico nel senso di prevedere esplicitamente che la decadenza dalle cariche elencate al comma 1 dell'art. 58, per effetto di sentenza di condanna definitiva, operi soltanto ove la condanna sia intervenuta «per uno dei reati previsti dal medesimo comma» – ha escluso che la sopravvenuta condanna definitiva a pena non superiore a sei mesi di reclusione per il delitto di peculato d'uso possa valere come causa di decadenza dalla carica. Conseguentemente, per effetto del censurato art. 7 si è escluso che l'indicato tipo di condanna definitiva – corrispondente a quella irrogata nel caso di specie – possa operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come causa di decadenza dalla stessa.
Dopo aver negato il carattere di interpretazione autentica
delle norme in argomento – posto che in esse non è dato rinvenire né
riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche, né la imperativa opzione per
una di esse, ma soltanto la volontà (esplicitata in rubrica e nel testo) di
modificare le norme previgenti –
A sostegno di tale argomento, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di legittimità circa la sopravvenienza di condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna) all'elezione o nomina alla carica elettiva, secondo cui le nuove disposizioni debbono essere applicate anche ove le situazioni sanzionate si siano verificate prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta. Il principio formulato in tale giurisprudenza appare al remittente del tutto condivisibile ove evidenzia la ragionevolezza dell'immediata applicazione della nuova disciplina, perché riguardante le condizioni di mantenimento della carica: ne consegue che di detto principio deve farsi applicazione anche in riferimento a norme sopravvenute che – al pari di quella di cui si tratta – rimuovono un pregresso giudizio di indegnità, confinando nell'ambito della «irrilevanza giuridica» una condanna penale che, in base alle norme preesistenti, aveva valore di condizione inabilitante.
Quanto osservato con riguardo alla disciplina introdotta dal decreto-legge vale, secondo il giudice a quo, anche per il testo risultante dalla legge di conversione, visto che la modifica che ne risulta all'art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000 è stata riprodotta, mentre la soppressione della modifica dell'art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo è del tutto indifferente rispetto alla fattispecie sub iudice.
Ciò posto, al giudice remittente sembra che la norma denunciata difetti in modo evidente del necessario requisito per la sua adozione con decreto-legge – la sussistenza del «caso straordinario di necessità ed urgenza» – e che il vizio di violazione del disposto dell'art. 77, secondo comma, Cost, attinente al decreto n. 80 del 2004, «dovrà coinvolgere – come vizio in procedendo – la stessa legge di conversione che abbia provveduto in difetto del […] requisito» stesso (secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 29 del 1995).
Come evidenziato in occasione del precedente incidente di
costituzionalità, la carenza del detto requisito risulterebbe, anzitutto, dal
fatto che il decreto è stato adottato non per regolare – con lo strumento
imposto dall'approssimarsi delle consultazioni elettorali – la materia delle
condizioni ostative alle candidature, in un'ottica (insindacabile) di
adeguamento delle previsioni normative al mutamento delle condizioni politiche,
ma soltanto per escludere dal novero delle cause ostative di cui all'art. 58,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 267 del
Sarebbe, inoltre, indicativo anche il preambolo del decreto, ove si collega esplicitamente l'adozione delle disposizioni urgenti in materia di enti locali «al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario», senza dichiarare nulla con riguardo alla straordinaria necessità ed urgenza di modificare i soli artt. 58, comma 1, lettera b), e 59, comma 6, nel senso di escludere l'ipotesi di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen. dal novero dei delitti di per sé ostativi alla candidatura.
Infine, sarebbe altrettanto sintomatico il silenzio del provvedimento con riguardo alla deroga che l'art. 7 del d.l. in esame ha apportato all'art 15, comma 2, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400, là dove fa divieto al Governo di adottare lo strumento del decreto-legge per provvedere nelle materie indicate nell'art. 72, quarto comma, Cost. (tra le quali è compresa la materia elettorale e nelle quali la citata norma costituzionale prescrive la riserva di delibera assembleare). D'altra parte, se il Governo ha, nella specie, ritenuto di far doveroso omaggio all'obbligo di indicare nel preambolo del decreto le circostanze straordinarie di necessità ed urgenza che ne giustificavano l'adozione (art. 15, comma 1, cit.), tacendo poi del tutto sulle circostanze che tale adozione imponevano in una materia nella quale quella stessa legge fa divieto di adottarlo, sarebbe avvalorato in modo evidente «il dubbio che dette circostanze non potevano essere portate ad emersione essendo esse del tutto estranee dall'ambito di legittimo esercizio della potestà normativa del Governo».
Il sommario esame del testo e dei lavori preparatori della legge di conversione renderebbero, poi, palese la consapevolezza, da parte del Parlamento, dell'originaria assenza del requisito costituzionale per la decretazione di urgenza, riguardo alla disposizione censurata. Infatti, in primo luogo, non vi sarebbe alcuna coerenza tra la disciplina definitiva adottata in merito alle modifiche apportate agli artt. 59, comma 3, 61, 64, 254, 256 del d.lgs. n. 267 del 2000 e quella di cui si discute. Inoltre, l'inserimento delle ragioni giustificatrici dell'intervento con l'esplicito riferimento all'ordine e alla sicurezza pubblica attesterebbe non già la consapevolezza dell'esistenza di gravi e indifferibili ragioni di urgenza, quanto piuttosto la scelta di sottrarre il provvedimento al divieto di cui agli artt. 15, comma 2, lettera b), della legge n. 400 del 1988 e 72, quarto comma, Cost. Del resto, nel corso dei lavori preparatori, in diversi interventi è stata denunciata l'assenza del requisito di cui si tratta, sicché è da escludere che la legge di conversione abbia sanato il vizio originario, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 341 del 2003.
2.––È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità, ovvero per l'infondatezza della questione.
L'Avvocatura sostiene che la disposizione censurata sarebbe volta a superare alcune difficoltà interpretative ed applicative relative all'art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000, derivanti dalla non perfetta corrispondenza esistente tra le ipotesi delittuose ostative alla candidatura (art. 58) e quelle ostative allapermanenza in carica presso gli organi degli enti locali (art. 59). Tale corrispondenza sussisteva, invece, prima della modifica normativa apportata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, all'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi trasfuso negli artt. 58 e 59 del testo unico del 2000. La modifica, pertanto, avrebbe soddisfatto l'esigenza di allineare la previsione sulla ineleggibilità a quella già stabilita, per l'identica fattispecie penale del peculato, dalla norma sulla decadenza dalla carica (art. 59 t.u.), la quale limita la sanzione della decadenza dell'eletto alla sola ipotesi di condanna per il delitto di peculato proprio, previsto nel primo comma dell'art. 314 cod. pen. Così, anche la causa di ineleggibilità collegata alla condanna definitiva per il reato di peculato è stata limitata alla sola ipotesi di peculato proprio, con esclusione, quindi, della condanna per peculato d'uso, di cui all'art. 314, secondo comma, del codice penale.
Parimenti la seconda modifica – ora soppressa dalla legge di conversione – si era proposta di eliminare alcune “discrasie” e di rimuovere i dubbi interpretativi suscitati, in materia di decadenza, dalla constatazione che la norma di cui al primo comma dell'art. 59 del testo unico non prevede la sospensione dell'amministratore in caso di condanna non definitiva per uno dei reati previsti dalla lettera c) del comma 1 dell'art. 58 (quindi anche per il peculato d'uso, in caso di condanna superiore ai sei mesi di reclusione).
Dopo avere escluso, anche alla stregua della giurisprudenza
costituzionale sul punto, che nel caso di specie possa parlarsi di «evidente mancanza» dei presupposti di cui
all'art. 77, secondo comma, Cost., l'Avvocatura afferma che la motivazione che
sorregge il decreto-legge, resa esplicita nella relazione governativa di
accompagnamento al disegno di legge di conversione, rende plausibile (o meglio
«non manifestamente implausibile») la
valutazione governativa posta a base del ricorso alla decretazione d'urgenza.
Essa si sarebbe resa necessaria per l'esigenza di approntare un organico
intervento normativo volto ad assicurare le indispensabili condizioni di
funzionalità a tutti gli enti locali «attraverso
la soluzione di alcune significative problematiche emerse ad inizio dell'anno
Né in senso contrario depongono le aggiunte apportate in
sede di conversione al comma 1 dell'art.
Del resto, gli istituti delle cause ostative alla candidatura e delle cause dì decadenza dalle cariche presso gli enti locali, pur essendo connessi alla materia elettorale, in quanto ad essa funzionalmente collegati, restano, nei loro contenuti, distinti da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario.
Dagli stessi estratti dei lavori preparatori citati nell'ordinanza di rimessione emerge come già nella sede referente sia stato posto l'accento sull'attinenza delle disposizioni all'ordine e alla sicurezza pubblica e le diverse opinioni manifestate al riguardo dimostrano solo che la questione ha formato oggetto di ampio dibattito, ma non incidono sulla costituzionalità della scelta della decretazione d'urgenza, per la cui adozione non occorre un consenso unanime.
3.–– Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite, con diversi atti, alcune delle parti del giudizio principale, formulando richieste analoghe.
In particolare, alcuni ricorrenti hanno concluso per l'inammissibilità della questione per irrilevanza o, in subordine, per la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata per violazione degli artt. 77, secondo comma, e 72, quarto comma, della Costituzione.
L'irrilevanza sarebbe desumibile dalle seguenti considerazioni: a) inapplicabilità della norma impugnata nella Regione siciliana; b) inqualificabilità della stessa come ius superveniens applicabile, in quanto tale, nel caso di specie.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private aderiscono, nella sostanza, alla prospettazione della Corte remittente, ponendo l'accento sul fatto che la norma in contestazione, oltre ad essere palesemente priva dei requisiti di straordinarietà ed urgenza, incidendo sul diritto di elettorato passivo, è univocamente riconducibile alla materia elettorale, nella quale è da escludere l'utilizzazione di strumenti normativi diversi dalla legge formale e, in particolare, il ricorso al decreto-legge (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 161 del 1995), ai sensi dell'art. 72, quarto comma, della Costituzione.
4.–– Alle medesime conclusioni pervengono altri ricorrenti del giudizio principale.
Nel relativo atto di costituzione si pone, in particolare, l'accento, quanto all'inammissibilità della questione per irrilevanza, sulla contrarietà della tesi della Corte remittente – favorevole alla applicabilità della disposizione denunciata al caso di specie, quale ius superveniens – rispetto alla teoria del fatto compiuto, la quale, secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, deve governare la verifica dell'applicabilità ai giudizi in corso delle sopravvenute modifiche legislative non aventi efficacia retroattiva. Nella specie, infatti, al momento dell'entrata in vigore del d.l. n. 80 del 2004 la decadenza dalla carica si era già verificata con il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna avvenuto nel giugno 2003, sicché la disposizione impugnata non è sicuramente applicabile, non potendo essa influire su un fatto interamente consumatosi, insieme con i suoi effetti, sotto il vigore della precedente disciplina.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private considerano esaustive le argomentazioni dell'ordinanza di rimessione e sottolineano che nella disposizione censurata si ravvisa una mancanza dei presupposti dell'urgenza di evidenza tale da refluire sulla intervenuta legge di conversione sotto forma di vizio in procedendo.
5.–– Con analoghe motivazioni pervengono alle stesse conclusioni, nei rispettivi atti di costituzione in giudizio, anche altre parti ricorrenti.
Considerato in diritto
1.—
La disposizione censurata è così formulata: «Al testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 267, per chiarire e definire i presupposti e le condizioni
rilevanti per il mantenimento delle cariche pubbliche ai fini dell'ordine e
della sicurezza pubblica, sono apportate le seguenti modificazioni: a)
all'art. 58, comma 1, lettera b), dopo il numero “
La questione viene proposta nel corso di un giudizio di
impugnazione avverso la sentenza con la quale
In punto di rilevanza,
Nel merito,
La questione era stata già sollevata con riguardo alla disposizione del decreto prima della sua conversione, ma questa Corte, essendo intervenuta in pendenza del giudizio di costituzionalità la legge n. 140 del 2004, con la quale sarebbero state anche esplicitate le ragioni delle modifiche apportate all'art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000, aveva restituito gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della disposizione e quindi della permanenza degli eventuali profili di illegittimità in precedenza denunciati (ordinanza n. 2 del 2005).
Secondo
2.— La questione è ammissibile, essendo non implausibile la motivazione che sorregge in punto di rilevanza il giudizio della remittente.
3.–– Nel merito, la questione è fondata.
E' opinione largamente condivisa che l'assetto delle fonti normative sia uno dei principali elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato alla tutela dei valori e diritti fondamentali. Negli Stati che s'ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell'amministrazione alla legge, l'adozione delle norme primarie spetta agli organi o all'organo il cui potere deriva direttamente dal popolo.
A questi principi si conforma la nostra Costituzione laddove stabilisce che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70).
In determinate situazioni o per particolari materie, attesi i tempi tecnici che il normale svolgimento della funzione legislativa comporta, o in considerazione della complessità della disciplina di alcuni settori, l'intervento del legislatore può essere, rispettivamente, posticipato oppure attuato attraverso l'istituto della delega al Governo, caratterizzata da limiti oggettivi e temporali e dalla prescrizione di conformità a principi e criteri direttivi indicati nella legge di delegazione.
Lasciando da parte tale ultima ipotesi, che qui non interessa, è significativo che l'art. 77 Cost., al primo comma, stabilisca che «il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria».
Tenuto conto del tenore dell'art. 70 Cost., la norma suddetta potrebbe apparire superflua se non le si attribuisse il fine di sottolineare che le disposizioni dei commi successivi – nel prevedere e regolare l'ipotesi che il Governo, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, sotto la sua responsabilità, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono efficacia se non convertiti in legge entro sessanta giorni – hanno carattere derogatorio rispetto all'essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell'ambito delle competenze dello Stato centrale.
4.–– E' sulla base di siffatti presupposti che questa Corte, con giurisprudenza costante dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l'esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d'urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità.
L'espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall'altro, però, comporta l'inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi.
Ciò spiega perché questa Corte abbia ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d'urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente e perchè sia intervenuta positivamente soltanto una volta in presenza dello specifico fenomeno, divenuto cronico, della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996).
5.–– Prima di procedere allo scrutinio in concreto occorre risolvere la questione, logicamente prioritaria, dell'eventuale efficacia sanante della legge di conversione, dal momento che, come si è detto, dopo che era stata rimessa a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a), del d.l. n. 80 del 2004, il medesimo è stato convertito, con modifiche – non concernenti, però, la disposizione censurata – dalla legge n. 140 del 2004.
Sul punto
Il suddetto principio è stato ribadito con la sentenza n.
341 del 2003, mentre con altre
Diverso orientamento è stato invece adottato, senza specifica motivazione sul punto, con le sentenze n. 330 del 1996, n. 419 del 2000 e n. 29 del 2002 e, sotto un particolare profilo, con la sentenza n. 360 del 1996.
Le ragioni che sorreggono siffatto indirizzo sono molteplici.
Se, anzitutto, nella disciplina costituzionale che regola l'emanazione di norme primarie (leggi e atti aventi efficacia di legge) viene in primo piano il rapporto tra gli organi – sicché potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l'avallo del Parlamento con la conversione del decreto, non restino margini per ulteriori controlli – non si può trascurare di rilevare che la suddetta disciplina è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso. Affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie.
Inoltre, se si ha riguardo al fatto che in una Repubblica parlamentare, quale quella italiana, il Governo deve godere della fiducia delle Camere e si considera che il decreto-legge comporta una sua particolare assunzione di responsabilità, si deve concludere che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali – nei limiti, cioè, in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in esame – non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso. Infatti, l'immediata efficacia di questo, che lo rende idoneo a produrre modificazioni anche irreversibili sia della realtà materiale, sia dell'ordinamento, mentre rende evidente la ragione dell'inciso della norma costituzionale che attribuisce al Governo la responsabilità dell'emanazione del decreto, condiziona nel contempo l'attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge.
Del resto, a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l'iter dei disegni di legge proposti dal Governo (art. 96-bis del regolamento della Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato). Il testo di quest'ultimo è così formulato: « Se l'Assemblea si pronunzia per la non sussistenza dei presupposti richiesti dall'articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto. Qualora tale deliberazione riguardi parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono soppresse».
6.–– Tutto ciò premesso, occorre verificare, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata, se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d'urgenza di provvedere.
Sul punto, è opportuno anzitutto rilevare che la determinazione delle cause di incandidabilità e di incompatibilità attiene alla materia elettorale e non alla materia della disciplina degli enti locali (v. sentenze n. 104 del 1973, n. 118 e n. 295 del 1994, n. 161 del 1995, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002).
Ora, mentre l'epigrafe del decreto reca l'intestazione «Disposizioni urgenti in materia di enti locali», il preambolo è così testualmente formulato: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario».
E, infatti, gli artt. 1, 4, 5 e 6 attengono ai bilanci e in genere alla finanza comunale, l'art. 2 concerne le conseguenze della mancata redazione degli strumenti urbanistici generali e l'art. 3 disciplina le modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali e provinciali. Nulla quindi risulta, né dal preambolo né dal contenuto degli articoli, che abbia attinenza con i requisiti per concorrere alla carica di sindaco.
La norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita.
A sua volta, la relazione al disegno di legge di conversione
del decreto n. 80 del 2004, nella parte relativa all'art. 7, enuncia come
ragione della modifica apportata agli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del
Questa affermazione giustifica la modifica, ma non rende ragione dell'esistenza della necessità ed urgenza di intervenire sulla norma.
L'utilizzazione del decreto-legge – e l'assunzione di responsabilità che ne consegue per il Governo secondo l'art. 77 Cost. – non può essere sostenuta dall'apodittica enunciazione dell'esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta.
Oltre alla non riferibilità al contesto normativo dell'eliminazione di una causa di incandidabilità alla carica di sindaco, non si comprende come la medesima attenga all'ordine pubblico e alla sicurezza. Non è, quindi, pertinente, al riguardo, il richiamo – fatto dall'Avvocatura dello Stato con riferimento ai lavori parlamentari – alle sentenze di questa Corte con le quali si affermava l'inerenza all'ordine pubblico e alla sicurezza di una normativa prevedente nuove cause di incandidabilità o di incompatibilità nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata (sentenze n. 118 e n. 295 del 1994, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002, già citate).
Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 80 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 2004.
per questi motivi
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2007.
Sulla sindacabilità dei presupposti della decretazione d’urgenza in caso di loro “evidente mancanza”
A
norma dell'art. 77 Cost., la pre-esistenza di una situazione di fatto
comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di
uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di
validità costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che
l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di
legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori
dell'ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto
un vizio 'in procedendo' della stessa legge di conversione, avendo
quest'ultima, nel caso ipotizzato, valutato erroneamente l'esistenza di
presupposti di validità in realtà insussistenti e, quindi, convertito in legge
un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione. Pertanto, non
esiste alcuna preclusione affinché
composta dai signori: Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA; Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 7 e 9, nonché dell'atto come tale del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), della legge 14 gennaio 1994, n. 19 (Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, recante disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), nel suo complesso e nella parte in cui converte gli artt. 1 e 2 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 e degli artt. 3 e 6 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), promosso con ricorso delle Regioni Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna, notificati il 14 dicembre 1993, l'11 e il 14 febbraio 1994, depositati in cancelleria il 23 dicembre 1993, il 15, 17 e 21 febbraio 1994 ed iscritti al n. 78 del registro ricorsi 1993 ed ai nn. 14, 16, 17, 20 e 21 del registro ricorsi 1994;
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica dell'11 ottobre 1994 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;
Uditi gli Avvocati Gustavo Romanelli per la Regione Valle d'Aosta, Renato Fusco e Sergio Panunzio per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna e Luigi Manzi per le Regioni Veneto ed Emilia-Romagna e l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri;
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Sono sottoposti al giudizio di questa Corte sei distinti ricorsi depositati dalle Regioni Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna, che prospettano numerosissime questioni di legittimità costituzionale concernenti il decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), la legge 14 gennaio 1994, n. 19 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, recante disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) e la legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti).
Poiché i predetti ricorsi propongono questioni vertenti su una medesima disciplina e comunque connesse, essi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - Con il primo dei ricorsi illustrati nella parte in fatto, la Regione a statuto speciale Valle d'Aosta contesta la legittimità costituzionale del decreto-legge n. 453 del 1993, in toto, sotto il profilo della violazione dell'art. 77 della Costituzione, assumendo che l'atto impugnato è stato adottato in difetto dei presupposti della necessità e dell'urgenza costituzionalmente richiesti. La stessa Regione contesta, altresì, che il medesimo art. 77 della Costituzione sia stato violato dalla legge n. 19 del 1994, avendo quest'ultima convertito in legge un decreto-legge privo dei ricordati requisiti costituzionali. Le questioni non sono ammissibili. Occorre premettere che l'inammissibilità delle dedotte questioni non può essere basata sugli argomenti formulati dall'Avvocatura dello Stato, secondo la quale esula comunque dai poteri di questa Corte accertare la presenza in concreto dei presupposti di necessità e urgenza previsti dall'art. 77 della Costituzione per l'adozione dei decreti-legge, essendone riservata la verifica alla valutazione politica del Parlamento. Questa posizione, condivisa in passato, ignora che, a norma dell'appena citato art. 77, la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell'ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione, avendo quest'ultima, nel caso ipotizzato, valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validità in realtà insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione. Pertanto, non esiste alcuna preclusione affinché la Corte costituzionale proceda all'esame del decreto-legge e/o della legge di conversione sotto il profilo del rispetto dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza dei presupposti di necessità e urgenza, dal momento che il correlativo esame delle Camere in sede di conversione comporta una valutazione del tutto diversa e, precisamente, di tipo prettamente politico sia con riguardo al contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti della stessa. Tuttavia, una volta risolto nel modo appena detto il problema logicamente prioritario della sindacabilità da parte di questa Corte della sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza, l'inammissibilità delle questioni proposte discende dalla regola processuale, costantemente osservata nella giurisprudenza costituzionale (v., ad esempio, sentenze n. 314 del 1990, n. 544 del 1989, nn. 1044 e 302 del 1988), per la quale nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale l'interesse a ricorrere delle regioni è qualificato dalla finalità di ripristinare l'integrità delle competenze costituzionalmente garantite alle medesime ricorrenti. In altre parole, è giurisprudenza consolidata che le regioni, allorché agiscono nei giudizi in questione, non possono legittimamente far valere presunte violazioni concernenti norme costituzionali regolanti l'esercizio di un potere governativo, come le norme che abilitano il Governo ad adottare decreti-legge soltanto in presenza di situazioni di necessità e urgenza, le quali non comportano, di per sé, alcuna lesione diretta delle sfere di competenza costituzionalmente attribuite alle medesime regioni.
3. - Inammissibili sono anche le questioni di legittimità costituzionale che la Regione Valle d'Aosta solleva nei confronti dell'intero decreto-legge n. 453 del 1993 e della relativa legge di conversione (n. 19 del 1994), assumendo che tali atti - nel regolare materie quali l'oggetto e le forme del controllo della Corte dei conti, l'ambito della giurisdizione di tale organo e le garanzie d'indipendenza dello stesso verso il Governo - violerebbero gli artt. 100, secondo e terzo comma, 103, secondo comma, e 108 della Costituzione, i quali demandano la disciplina delle anzidette materie alla legge formale, non già ad atti aventi provvisoriamente forza di legge o a leggi del tutto atipiche, come la legge di conversione. A parte che è costante giurisprudenza di questa Corte quella secondo la quale gli atti aventi forza di legge, inclusi il decreto-legge e conseguentemente la legge di conversione, sono equiparati alla legge formale anche per essere abilitati a intervenire nelle materie a questa riservate (v. sentt. nn. 173 del 1987, 243 e 184 del 1974, 39 del 1971), determinante è anche in questo caso il rilievo che la Regione ricorrente non è legittimata, per le ragioni espresse nel punto precedente di questa sentenza, a contestare la costituzionalità di atti legislativi dello Stato per violazione di norme disciplinanti l'esercizio dei poteri statali all'interno della sfera di attribuzione loro propria.
4. - Venendo alle questioni di legittimità costituzionale proposte contro determinate disposizioni, vanno dichiarate inammissibili quelle che la Regione Valle d'Aosta solleva nei confronti degli artt. 7 e 9 del decreto-legge n. 453 del 1993, trattandosi di disposizioni non convertite dalla legge n. 19 del 1994 (v., tra le altre, per la giurisprudenza costantemente seguita da questa Corte nella materia in esame, ordd. nn. 26 e 24 del 1995, 167 del 1994, 506, 503 e 330 del 1993). È appena il caso di menzionare che, ai fini della pronunzia resa ora, a nulla rileva il fatto che disposizioni identiche o simili a quelle contestate siano state approvate nell'ambito di un distinto procedimento di legislazione ordinaria concluso con la promulgazione della legge 14 gennaio 1994, n. 20. Infatti, per quanto quest'ultima sia stata adottata nella stessa data della legge di conversione avente ad oggetto il decreto-legge impugnato, il ricorso contro disposizioni contenute nel medesimo decreto-legge non può essere trasferito a disposizioni che, ancorché identiche o sostanzialmente equivalenti a quelle contestate, non siano state ricomprese nella deliberazione della legge di conversione relativa allo specifico decreto-legge oggetto di impugnazione.
5. - Inammissibile per carenza di interesse a ricorrere è la questione di costituzionalità che la Regione Valle d'Aosta solleva nei confronti dell'art. 1, primo comma, del decreto-legge n. 453 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 19 del 1994, nella parte in cui prevede l'istituzione di sezioni giurisdizionali della Corte dei conti con circoscrizione estesa al territorio regionale. La Regione assume che tale disposizione violerebbe l'art. 125, secondo comma, della Costituzione, il quale, ad avviso della ricorrente, consente l'istituzione di sezioni aventi circoscrizioni su base regionale riguardo ai soli organi di giustizia amministrativa di primo grado. Ma, a parte che la previsione contenuta nell'art. 125, secondo comma, della Costituzione, la quale permette alla legge dello Stato di istituire in ciascuna regione organi di giustizia amministrativa di primo grado, non può essere invocata al fine di ritenere preclusa allo stesso legislatore statale la possibilità di istituire sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, o di altra magistratura, aventi circoscrizioni ritagliate sui singoli territori regionali, l'inammissibilità della questione discende pianamente dal rilievo che la Regione Valle d'Aosta, al pari delle altre regioni, non è titolare di competenze in materia di organizzazione giudiziaria e, pertanto, non può lamentarsi di pretese lesioni di attribuzioni che non possiede. Né, ovviamente, basta a concretare l'interesse a ricorrere della Regione il fatto che l'estensione delle circoscrizioni delle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti coincida con quella dei territori regionali e, quindi, per quel che concerne l'area valdostana, abbia un ambito spaziale identico a quello sul quale si esercitano le competenze della ricorrente.
6. - Per ragioni analoghe a quelle esposte nei precedenti punti nn. 2, 3 e 5, è inammissibile anche la questione di legittimità costituzionale che la Regione Valle d'Aosta solleva, in riferimento all'art. 108, secondo comma, della Costituzione, nei confronti dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge n. 453 del 1993, come convertito dalla legge n. 19 del 1994, nella parte in cui consente che la Corte dei conti, nell'ambito dell'esercizio delle proprie competenze giurisdizionali, possa delegare adempimenti istruttori a funzionari delle pubbliche amministrazioni e avvalersi di consulenti tecnici. Per quanto la disposizione impugnata sembri far riferimento all'affidamento a funzionari delle amministrazioni pubbliche, e quindi anche a quelli dipendenti dalle regioni, di compiti consistenti nella produzione o nel reperimento di documentazioni o di materiali utili per l'effettuazione delle attività istruttorie dei magistrati della Corte dei conti e, pertanto, sembri configurare un'utilizzazione dei dipendenti regionali come "ausiliari" dei magistrati della Corte dei conti (sui quali v. sent. n. 2 del 1981), la questione risulta inammissibile poiché la ricorrente, anziché lamentarsi dell'eventuale interferenza della disposizione impugnata con le proprie competenze in materia di ordinamento degli uffici regionali, invoca la violazione di un parametro costituzionale che non riguarda attribuzioni regionali. Infatti, la Regione, nell'addurre come profilo d'incostituzionalità, nell'ambito di un giudizio in via principale, la violazione delle garanzie d'indipendenza dei giudici, che l'art. 108, secondo comma, della Costituzione assicura anche con riferimento alle giurisdizioni speciali, in realtà non fa valere presunte lesioni delle competenze ad essa costituzionalmente attribuite e, pertanto, non legittima le proprie richieste con il possesso di un valido interesse diretto a reintegrare le proprie competenze, ritenute, in ipotesi, violate.
7. - Non fondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Regione Valle d'Aosta, per violazione dell'art. 38 dello Statuto speciale della medesima Regione (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4), nei confronti dell'art. 1, secondo comma, del decreto-legge n. 453 del 1993, come convertito dalla legge n. 19 del 1994, nella parte in cui circoscrive la garanzia relativa alla tutela delle minoranze linguistiche al territorio della Regione Trentino-Alto Adige (e non l'estende, quindi, anche alla Valle d'Aosta). La censura proposta dalla ricorrente, per quanto ammissibile, è infondata, poiché si basa su un equivoco interpretativo. Infatti, l'art. 1 del decreto-legge impugnato, dopo aver previsto, al primo comma, l'istituzione di sezioni giurisdizionali della Corte dei conti aventi circoscrizioni estese al territorio di ciascuna regione, stabilisce nella disposizione oggetto di contestazione, cioè il secondo comma, una disciplina speciale applicabile al Trentino-Alto Adige. Questa disciplina speciale si giustifica per le particolari forme e condizioni dell'autonomia riconosciute dallo Statuto speciale di quella Regione, le quali richiedono che in quel territorio, in luogo di un'unica sezione giurisdizionale, vengano istituite due sezioni, le cui rispettive circoscrizioni devono essere estese ai territori delle province di Trento e di Bolzano. Nell'ambito di tale particolare disciplina, il legislatore incidentalmente ribadisce, secondo una clausola cautelativa sovente utilizzata, il dovuto "rispetto della normativa vigente in materia di tutela delle minoranze linguistiche". In ogni caso, pur se la norma contestata riguarda una situazione del tutto diversa da quella supposta dalla ricorrente, è opportuno rammentare che questa Corte ha costantemente affermato che tanto l'omissione nelle leggi statali di clausole come quella impugnata, quanto la loro riaffermazione, non possono interferire con l'applicazione delle garanzie previste autonomamente dagli Statuti speciali e dalle norme di attuazione degli stessi a protezione delle minoranze linguistiche (v., ad esempio, sentt. nn. 3 del 1991, 224 e 85 del 1990 e 585 del 1989). Sicché il silenzio tenuto dalla disposizione impugnata in ordine alla tutela delle minoranze linguistiche presenti nella Valle d'Aosta, se pure pienamente giustificato dal rilievo che quella disposizione concerne un aspetto particolare dell'autonomia riconosciuta alle Province del Trentino-Alto Adige, non può essere in alcun modo interpretato come diretto a precludere l'applicazione, nell'ambito del territorio della Valle d'Aosta, delle norme che assicurano la tutela delle minoranze linguistiche e, in particolare, l'uso della lingua francese nelle amministrazioni statali operanti nella Regione e negli atti pubblici, eccettuati i provvedimenti dell'autorità giudiziaria (art. 38 dello Statuto speciale).
8. - Non fondate, perché basate su un presupposto interpretativo
non condivisibile, sono le questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalla Regione Valle d'Aosta - per violazione degli artt. 3, 100 e 116 della
Costituzione, degli artt. 2, lettere a) ed f), 3, lettera f), 4, 5, 6, 7, 8, 9,
10, 11, 43, 44, 45 e 46 dello Statuto speciale per
In realtà, le disposizioni impugnate, lungi dall'estendere il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti agli enti nei cui confronti quel controllo non è stato previsto in precedenza, operano, piuttosto, una modificazione delle forme e dei limiti oggettivi del medesimo controllo, lasciando chiaramente intendere che risultano sottoposti alle verifiche della Corte dei conti, secondo la disciplina riformata, soltanto gli atti dei medesimi enti per l'innanzi assoggettati al predetto controllo, enti fra i quali non rientrano la Regione Valle d'Aosta, gli enti pubblici da essa dipendenti e gli enti locali operanti nella Regione stessa. Del resto, un'analoga interpretazione, relativa all'ambito di applicabilità della nuova disciplina sul controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, è stata già affermata da questa Corte (v. sent. n. 40 del 1994) con riferimento alla Regione a statuto speciale della Sicilia, i cui atti sono stati ritenuti soggetti al controllo in esame soltanto grazie alla espressa previsione contenuta nell'art. 23, secondo comma, dello Statuto di quella Regione e nell'art. 2, primo comma, del decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 655, che dispongono, per la determinazione delle forme e dei modi del controllo esercitato dalla sezione regionale della Corte dei conti per la Sicilia, un rinvio "dinamico" alle leggi dello Stato disciplinanti le funzioni della Corte dei conti. Dalla sentenza appena citata deriva, perciò, un criterio di interpretazione che, applicato alla differente situazione normativa stabilita per la Valle d'Aosta, porta alla conclusione opposta, vale a dire all'esclusione degli atti della Regione ricorrente, degli enti da essa dipendenti e degli enti locali in essa operanti dal controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Risolto in tal modo il presupposto interpretativo sul quale poggiano le numerose questioni di legittimità costituzionale riassuntivamente indicate all'inizio di questo punto di motivazione, queste devono essere dichiarate tutte non fondate, in quanto basate sull'erronea premessa conducente all'estensione del controllo preventivo della Corte dei conti previsto dalla legge n. 20 del 1994 alla Regione della Valle d'Aosta.
9. - Non fondate sono le questioni sollevate da tutte le ricorrenti - e cioè le Regioni Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna - riguardo a varie disposizioni contenute nell'art. 3 della legge n. 20 del 1994, dalle quali si desume Secondo le predette ricorrenti, tali disposizioni, nell'attribuire alla Corte dei conti il "controllo sulla gestione del bilancio e del patrimonio (...), nonché delle gestioni fuori bilancio e dei fondi di provenienza comunitaria" relativamente alle amministrazioni delle regioni, si porrebbero in contrasto con l'art. 125 della Costituzione, il quale stabilirebbe in modo tassativo sia i tipi di controllo ammissibili riguardo agli atti regionali (sottoponibili, in via generale, al solo controllo di legittimità e, eccezionalmente, al controllo di merito, a fini di riesame, soltanto nei casi stabiliti dalla legge), sia l'organo (statale) abilitato in sede locale a compiere gli anzidetti controlli (organo che non potrebbe essere identificato con la Corte dei conti). Le questioni sollevate dalle Regioni ad autonomia differenziata sono nella sostanza identiche a quella ora illustrata, anche se, ovviamente, mutano i parametri di riferimento: per la Regione Friuli-Venezia Giulia, infatti, l'art. 3, quarto e ottavo comma, sarebbe contrastante con l'art. 58 dello Statuto speciale della stessa Regione (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1), il quale prevedrebbe tassativamente che la Corte dei conti eserciti, attraverso una sezione distaccata nel capoluogo regionale, soltanto il controllo di legittimità sugli atti amministrativi regionali; per la Regione Valle d'Aosta, l'art. 3, quarto e quinto comma, violerebbe gli artt. 44-46 del proprio Statuto, i quali attribuiscono in via esclusiva alla "Commissione di coordinamento" ivi prevista solamente il controllo di legittimità sugli atti amministrativi regionali, nonché l'art. 29 dello stesso Statuto, che riserva al Consiglio della Valle il controllo sui bilanci allorché approva annualmente i bilanci di previsione e i rendiconti consuntivi presentati dalla Giunta.
9.1. - L'infondatezza delle questioni ora indicate deriva, innanzitutto, dal fatto che tutte le ricorrenti muovono dall'erroneo presupposto interpretativo di considerare le previsioni costituzionali in materia di controlli sulle pubbliche amministrazioni come un sistema che delinea esaustivamente tutte le forme di controllo possibili e, in questo senso, come norme "tassative" che non permettono forme di controllo diverse o aggiuntive rispetto a quelle previste. In realtà, è un'affermazione costantemente presente nelle decisioni di questa Corte in materia, peraltro chiaramente preannunziata nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente e largamente condivisa dalla dottrina, quella secondo la quale l'insieme dei controlli previsti negli artt. 100, secondo comma, 125, primo comma, e 130 della Costituzione non preclude al legislatore ordinario di introdurre forme di controllo diverse e ulteriori, purché per queste ultime sia rintracciabile in Costituzione un adeguato fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente tutelati (v., ad esempio, sentt. nn. 359 del 1993, 452 del 1989, 961 e 272 del 1988, 219 del 1984, nonché, in riferimento all'art. 58 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia, sent. n. 85 del 1990). Più precisamente, anche se l'art. 125 della Costituzione e le corrispondenti disposizioni contenute negli Statuti speciali esprimono implicitamente un'opzione generale a favore del controllo di legittimità sui singoli atti amministrativi regionali, gli stessi articoli non precludono che possa essere istituito dal legislatore un tipo di controllo, come quello previsto dalle disposizioni contestate, che abbia ad oggetto, non già i singoli atti amministrativi, ma l'attività amministrativa, considerata nel suo concreto e complessivo svolgimento, e che debba essere eseguito, non già in rapporto a parametri di stretta legalità, ma in riferimento ai risultati effettivamente raggiunti collegati agli obiettivi programmati nelle leggi o nel bilancio, tenuto conto delle procedure e dei mezzi utilizzati per il loro raggiungimento. Infatti, il disegno costituzionale della pubblica amministrazione - delineato in base ai principi del buon andamento dei pubblici uffici (art. 97), della responsabilità dei funzionari (art. 28), del tendenziale equilibrio di bilancio (art. 81) e del coordinamento dell'autonomia finanziaria delle regioni con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni (art. 119) - permette al legislatore ordinario di sviluppare le potenzialità in esso contenute attraverso la previsione di forme di controllo ulteriori rispetto al controllo, essenzialmente esterno, di legittimità e l'estensione di tali forme ulteriori alle amministrazioni regionali. Sotto quest'ultimo profilo, è da sottolineare che il riferimento dei principi costituzionali ora ricordati alla pubblica amministrazione in generale - tanto se statale, quanto se regionale o locale - comporta che, salvo espresse deroghe eventualmente contenute in altre norme costituzionali, le forme di controllo previste per l'attuazione di quegli stessi principi esigano un'applicazione tendenzialmente uniforme a tutte le pubbliche amministrazioni e, quindi, postulino la loro estensione anche agli uffici pubblici regionali. Del resto, poiché il fine ultimo dell'introduzione, in forma generalizzata, del controllo sulla gestione è quello di favorire una maggiore funzionalità nella pubblica amministrazione attraverso la valutazione complessiva della economicità/efficienza dell'azione amministrativa e dell'efficacia dei servizi erogati, non si può ragionevolmente pensare che a siffatto disegno rimangano estranee proprio le amministrazioni regionali, cui compete di somministrare la maggior parte delle utilità individuali e collettive destinate a soddisfare i bisogni sociali. Se, dunque, l'istituzione da parte del legislatore del controllo sulla gestione delle pubbliche amministrazioni, incluse quelle regionali, non risulta, ove sia considerata in sé, contraria all'art. 125 della Costituzione e alle analoghe disposizioni contenute negli Statuti speciali (quali l'art. 58 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia e gli artt. 44-46 dello Statuto della Valle d'Aosta, nonché le relative norme di attuazione), si deve aggiungere che tale innovazione legislativa si colloca coerentemente nell'evoluzione attuale del complessivo quadro normativo in materia di controlli e di contabilità pubblica. Sotto il profilo dei controlli, occorre considerare che la legge n. 20 del 1994 è di poco successiva al decreto legislativo 13 febbraio 1993, n. 40, che, in attuazione dell'art. 2, primo comma, lettera h), della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, ha notevolmente ridotto il numero degli atti amministrativi regionali sottoposti al controllo preventivo di legittimità e ha abolito il controllo di merito, secondo un disegno giudicato da questa Corte non illegittimo in numerosi suoi aspetti (v. sent. n. 343 del 1994). In materia di contabilità pubblica, poi, occorre considerare la svolta decisiva data negli ultimi anni al faticoso processo di riforma dei bilanci pubblici - preannunziata nella ormai lontana legge sul bilancio e sulla contabilità regionali (v., in particolare, l'art. 19 della legge 19 maggio 1976, n. 335, il quale prevede già che le regioni istituiscano uffici destinati a svolgere un controllo interno di efficienza) - con l'approvazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 (in ordine ai bilanci degli enti locali), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, artt. 2 e 5 (in ordine alla gestione finanziaria delle unità sanitarie locali), e del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (che riforma il bilancio statale e prevede, all'art. 20, l'istituzione in ogni amministrazione di servizi di "controllo interno" sulla gestione): si tratta, infatti, di atti legislativi vòlti a configurare una comprensiva programmazione di bilancio, nella quale le quantificazioni in termini finanziari risultino basate sulla individuazione degli obiettivi da perseguire e sulla determinazione dei mezzi e dei processi ritenuti più idonei al loro raggiungimento sotto il profilo dell'efficacia, dell'efficienza e dell'economicità.
9.2. - Oltreché sotto il profilo dell'estensione oggettiva del controllo sulla gestione previsto dalle norme impugnate, quest'ultimo non può essere fondatamente contestato neppure sotto il profilo della sua imputazione soggettiva alla Corte dei conti. Come organo previsto dalla Costituzione in posizione d'indipendenza e di "neutralità" al fine di svolgere imparzialmente, non solo il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, ma anche il controllo contabile sulla gestione del bilancio statale, e di partecipare, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100, secondo comma, della Costituzione), la Corte dei conti è stata istituita come organo di controllo vòlto a garantire il rispetto della legittimità da parte degli atti amministrativi e della corretta gestione finanziaria. Con lo sviluppo del decentramento e l'istituzione delle regioni, che hanno portato alla moltiplicazione dei centri di spesa pubblica, la prassi giurisprudenziale e le leggi di attuazione della Costituzione hanno esteso l'ambito del controllo esercitato dalla Corte dei conti, per un verso, interpretandone le funzioni in senso espansivo come organo posto al servizio dello Stato-comunità, e non già soltanto dello Stato-governo, e, per altro verso, esaltandone il ruolo complessivo quale garante imparziale dell'equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e, in particolare, della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell'efficacia, dell'efficienza e della economicità. La legge oggetto dei ricorsi in esame si colloca nell'ambito di tale processo di trasformazione, ampliando le forme di controllo con la previsione del controllo sulla gestione e rafforzando il ruolo della Corte dei conti come organo posto a tutela degli interessi obiettivi della pubblica amministrazione, sia statale sia regionale o locale. Di modo che l'imputazione alla Corte dei conti del controllo sulla gestione esercitabile anche nei confronti delle amministrazioni regionali non può essere considerata come l'attribuzione di un potere statale che si contrappone alle autonomie delle regioni, ma come la previsione di un compito essenzialmente collaborativo posto al servizio di esigenze pubbliche costituzionalmente tutelate, e precisamente vòlto a garantire che ogni settore della pubblica amministrazione risponda effettivamente al modello ideale tracciato dall'art. 97 della Costituzione, quello di un apparato pubblico realmente operante sulla base dei principi di legalità, imparzialità ed efficienza.
9.3. - Le considerazioni ora svolte valgono anche a dimostrare la non fondatezza della questione di costituzionalità proposta dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento all'art. 29 del proprio Statuto, nei confronti dello stesso art. 3, quarto e quinto comma.
L'effetto preclusivo dell'estensione del controllo sulla gestione al proprio ordinamento, che la ricorrente vorrebbe dedurre dalla previsione statutaria relativa all'approvazione, da parte del Consiglio della Valle, del bilancio e del rendiconto consuntivo presentati dalla Giunta, è infatti il frutto di una palese confusione fra il controllo neutrale e imparziale delineato nel punto precedente della motivazione e il controllo squisitamente politico attribuito all'organo rappresentativo nei confronti di quello "esecutivo".
10. - Per effetto della decisione resa al punto 9 della motivazione, vanno altresì dichiarate non fondate le questioni di costituzionalità sollevate da tutte le ricorrenti nei confronti delle stesse disposizioni esaminate nei punti immediatamente precedenti, per violazione delle norme costituzionali poste a diretta garanzia dell'autonomia amministrativa e finanziaria regionale (artt. 5, 117, 118 e 119 della Costituzione per le Regioni Veneto ed Emilia-Romagna; art. 4 dello Statuto del Friuli-Venezia Giulia; artt. 2, 3, 4 e titolo III dello Statuto della Valle d'Aosta). Tale pronunzia è limitata al profilo per il quale le ricorrenti ritengono lesa l'autonomia regionale in conseguenza della previsione di una forma di controllo asseritamente non permessa dalla presunta "tassatività" dell'art. 125 della Costituzione. Infatti, una volta che sia stato riconosciuto che il predetto art. 125 (al pari delle analoghe norme degli Statuti speciali) non sbarra la strada all'istituzione di ulteriori controlli, che il legislatore, nell'esercizio non irragionevole della propria discrezionalità, stabilisca al fine di assicurare la piena realizzazione di fondamentali interessi costituzionali, cadono anche le censure consequenziali incentrate sulla presunta lesione dell'autonomia regionale. Fra tali questioni vanno collocate anche alcune censure formalmente riferite a parametri non coincidenti con le norme costituzionali direttamente poste a garanzia dell'autonomia regionale. Innanzitutto, va inclusa in questo novero e perciò dichiarata non fondata, la questione sollevata dalla Regione Veneto nei confronti dell'art. 3, quarto e ottavo comma, per violazione del principio del buon andamento sancito dall'art. 97 della Costituzione. Tale censura, infatti, si distingue solo apparentemente dalle altre oggetto di considerazione in questo punto della motivazione, poiché in effetti la lesione del principio del buon andamento viene dedotta come conseguenza dell'asserita istituzione di controlli esorbitanti dalla previsione "tassativa" contenuta nell'art. 125 della Costituzione e, come tali, non necessari e inutilmente diretti ad appesantire l'azione delle amministrazioni regionali. Non fondata per gli stessi motivi è anche la questione proposta dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento all'art. 100, secondo comma, della Costituzione, nei confronti dell'art. 3, quarto, quinto, sesto e ottavo comma, il quale, nel pretendere di dare attuazione al predetto art. 100 con l'istituzione del controllo sulla gestione, assimilerebbe agli "enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria" le regioni, vale a dire comunità politiche dotate di autonomia finanziaria, garantita, per Costituzione, da "tributi propri e quote di tributi erariali", nonché da un demanio e un patrimonio propri. L'erroneità dell'assunto della ricorrente sta nel concepire l'istituzione del controllo sulla gestione previsto dalla legge impugnata come attuazione diretta dell'art. 100 della Costituzione, articolo il quale prevede che la Corte dei conti possa partecipare "al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria". In realtà, come si tornerà a precisare ancora nel punto successivo della motivazione, il controllo sulla gestione disciplinato dalle disposizioni contestate è qualcosa di essenzialmente diverso da quello cui si riferisce l'art. 100 o, più precisamente, è un istituto che il Costituente non ha previsto, ma la cui attuazione, come è stato detto nel precedente punto 9, non è preclusa dalle norme costituzionali sui controlli. Il suo titolo, pertanto, non risiede nell'art. 100, ma in un non irragionevole svolgimento della discrezionalità del legislatore vòlto a realizzare interessi costituzionalmente tutelati, di modo che, una volta che sia stata dichiarata non contraria a Costituzione la sua istituzione, viene meno qualsiasi possibilità di assimilare le regioni agli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, menzionati dall'art. 100 della Costituzione. Del pari non fondata, in conseguenza della non contrarietà a Costituzione dell'istituzione del controllo successivo sulla gestione, è la questione di costituzionalità che la Regione Veneto solleva, in riferimento all'art. 125 della Costituzione, nei confronti dell'art. 3, sesto comma, nella parte in cui stabilisce che la Corte dei conti "riferisce, almeno annualmente, ( ..) ai Consigli regionali sull'esito del controllo eseguito". L'assunto della ricorrente, che intravede nella norma censurata un'irragionevole estrapolazione di un meccanismo previsto dall'art. 100 della Costituzione in relazione ai controlli sugli enti statali, suppone la esaustività dei controlli sulle regioni previsti dall'art. 125 della Costituzione e, quindi, l'illegittimità dell'estensione alle regioni del controllo successivo sulla gestione. Ma, una volta che tale premessa è stata negata da questa Corte, la norma contestata risulta del tutto coerente con il ruolo assegnato alla Corte dei conti, in sede di controllo sulla gestione, quale organo ausiliario tanto dello Stato quanto delle regioni e degli enti locali.
11. - Non fondate sono, poi, svariate questioni di legittimità costituzionale che tutte le ricorrenti sollevano nei confronti dell'art. 3, quarto e quinto comma, per violazione delle norme costituzionali vo'lte ad assicurare l'autonomia regionale, sulla base del rilievo che le disposizioni contestate istituirebbero una forma di controllo, il c.d. controllo successivo sulla gestione, che, per come è concepito e strutturato dalle medesime disposizioni, appare incompatibile con la predetta autonomia. Nell'ambito di tale prospettazione generale si collocano varie questioni che occorre esaminare partitamente.
11.1. - Sotto un primo profilo le ricorrenti dubitano della compatibilità del controllo successivo sulla gestione con la garanzia costituzionale dell'autonomia regionale per effetto della natura stessa di tale forma di controllo. Più precisamente, mentre per le Regioni Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Veneto l'autonomia regionale risulterebbe lesa per il fatto che quel controllo consisterebbe in una indeterminata valutazione dell'efficacia dell'azione amministrativa delle regioni stesse, un più particolare itinerario argomentativo è, invece, proposto dalla Regione Emilia-Romagna, per la quale le disposizioni contestate, nonostante che parlino di "controllo sulla gestione", cioè di un controllo esercitabile in posizione collaborativa e nell'interesse dell'ente controllato, in realtà estenderebbero alle regioni le note forme del controllo contabile e di legittimità, esercitabili in forma autoritativa e sovraordinata. Iniziando dall'ultima delle argomentazioni addotte dalle ricorrenti, occorre affermare in via di premessa che il controllo sulla gestione previsto dalle disposizioni impugnate differisce sostanzialmente dai controlli di legittimità e contabili. La diversità non sta soltanto nel fatto, pur rilevante, precedentemente ricordato, secondo il quale, mentre i controlli da ultimo menzionati concernono singoli atti, quello sulla gestione riguarda invece l'attività considerata nell'insieme dei suoi effetti operativi e sociali, ma risiede soprattutto nella struttura stessa della funzione di controllo. Nel caso dei controlli contabili e di legittimità, la Corte dei conti è chiamata a verificare, con una valutazione ex ante, la conformità di determinati atti della pubblica amministrazione rispetto alle previsioni legislative e di bilancio, tenendo conto anche degli obiettivi prefissati dal legislatore. Nel caso del controllo sulla gestione, invece, la Corte dei conti, come dice espressamente l'impugnato art. 3, quarto comma, è tenuta ad accertare "la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa". In altri termini, in quest'ultimo caso, il controllo consiste nel confronto ex-post tra la situazione effettivamente realizzata con l'attività amministrativa e la situazione ipotizzata dal legislatore come obiettivo da realizzare, in modo da verificare, ai fini della valutazione del conseguimento dei risultati, se le procedure e i mezzi utilizzati, esaminati in comparazione con quelli apprestati in situazioni omogenee, siano stati frutto di scelte ottimali dal punto di vista dei costi economici, della speditezza dell'esecuzione e dell'efficienza organizzativa, nonché dell'efficacia dal punto di vista dei risultati. Questa particolare natura del controllo sulla gestione spiega perché l'articolo contestato stabilisce che esso debba essere sempre "successivo", anche quando sia condotto "in corso di esercizio". E spiega anche perché lo stesso articolo, quando afferma che tale controllo possa comportare che si verifichi "la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione", ammettendo pure che la Corte dei conti possa incidentalmente esprimersi "sulla legittimità di singoli atti delle amministrazioni dello Stato", non intende minimamente confondere due forme di controllo radicalmente diverse o stabilire surrettiziamente un potere generale di vigilanza o di controllo diretto a sovrapporsi a quelli disciplinati da altre norme di legge, ma mira semplicemente a dire che la rilevazione di eventuali illegittimità, di scorrettezze contabili o di cattivo funzionamento dei controlli interni possa essere assunta a elemento o a indizio per la distinta valutazione complessiva connessa all'esercizio del controllo sulla gestione. In ragione della radicale diversità tra il controllo di legittimità o quello contabile e il controllo sulla gestione, quest'ultimo, a differenza dei primi, non incide sull'efficacia giuridica dei singoli atti, né assume rilievo diretto in ordine alla responsabilità dei funzionari. L'esito del controllo di gestione, come precisa l'art. 3, sesto comma, della legge impugnata, consta di relazioni, almeno annuali, che vengono inviate tanto agli organi che assumono le decisioni politiche concernenti gli obiettivi e le prescrizioni da imporre all'amministrazione, quanto alle stesse amministrazioni interessate, al fine di agevolare l'adozione di soluzioni legislative e amministrative dirette al raggiungimento dell'economicità e dell'efficienza nell'azione degli apparati pubblici, nonché dell'efficacia dei relativi risultati. Nei confronti delle amministrazioni interessate, lo stesso art. 3, sesto comma, sottolinea il rapporto fortemente collaborativo della Corte dei conti, cui è data la possibilità di formulare a quelle "in qualsiasi (altro) momento" le proprie osservazioni e di ricevere dalle stesse comunicazione delle "misure conseguenzialmente adottate". Questo tipo di rapporto è la conseguenza del fatto che il controllo dei risultati della gestione è, prima di tutto, diretto a stimolare nell'ente o nell'amministrazione controllati processi di "autocorrezione" sia sul piano delle decisioni legislative, dell'organizzazione amministrativa e delle attività gestionali, sia sul piano dei "controlli interni". Ed, invero, perché questo obiettivo possa essere efficacemente perseguito, è determinante l'attribuzione di tale funzione di controllo a un organo, come la Corte dei conti, la cui attività contrassegna un momento di neutralizzazione rispetto alla conformazione legislativa (politica) degli interessi.
11.2. - Tenendo presente l'aspetto da ultimo indicato e, più in generale, la natura del controllo successivo sulla gestione, si rivelano prive di fondamento tanto la censura della Regione Veneto, relativa all'assenza in tale forma di controllo di precisi parametri di riferimento, quanto la censura proposta dalle Valle d'Aosta nei confronti dell'art. 3, quarto comma, ultima proposizione, là dove si dispone che è la Corte dei conti stessa che "definisce annualmente i programmi e i criteri di riferimento del controllo". In effetti, ipotizzare che debba essere sempre la legge, con esclusione dello stesso organo di controllo, a predeterminare con precisione i parametri di valutazione o a fissare, addirittura, il contenuto degli indicatori di attività o di risultato, contraddice il carattere essenzialmente empirico del controllo di gestione, carattere il quale comporta che quest'ultimo debba essere compiuto sulla base di criteri di riferimento o modelli operativi nascenti dalla comune esperienza e razionalizzati nelle conoscenze tecnico-scientifiche delle discipline economiche, aziendalistiche e statistiche, nonché della contabilità pubblica. Nondimeno, trattandosi di un controllo basato sulla verifica della rispondenza dei risultati effettivamente ottenuti dall'azione amministrativa con gli obiettivi prescritti dalla legge, tenuto conto delle risorse e dei mezzi da quest'ultima apprestati, non si può dubitare che parte dei parametri di valutazione siano contenuti nelle leggi stesse. Ciò non toglie, però, che l'impossibilità logica di predeterminare legislativamente "criteri di riferimento" relativi a numerosi aspetti del controllo sulla gestione (come, ad esempio, la speditezza dell'azione amministrativa, gli indicatori di costo e di risultato, gli indicatori di qualità del bene prodotto o del servizio erogato) non può essere assunta a motivo di lesione dell'autonomia regionale, poiché gli eventuali scostamenti dai parametri e dai modelli operativi fissati annualmente dalla Corte dei conti non comportano, come si è precisato al punto precedente, alcuna diretta incidenza sull'efficacia giuridica di singoli atti, né possono assumere diretto rilievo in ordine alla responsabilità dei funzionari, ma sono immediatamente rilevanti soltanto al fine di attivare processi di "autocorrezione" della pubblica amministrazione nell'organizzazione, nei comportamenti e nelle tecniche di gestione e di definire il quadro delle valutazioni politiche degli organi legislativi nella loro attività di definizione dei compiti amministrativi. In questo contesto, anzi, il vincolo a determinare annualmente i "criteri di riferimento" configura un auto-limite vòlto a razionalizzare l'opera della Corte dei conti nel suo controllo sulla gestione. Parimenti diretto a razionalizzare l'attività di controllo della Corte dei conti è la parallela previsione relativa al vincolo rivolto alla Corte stessa di definire annualmente i "programmi" della propria attività. Infatti, nell'esercitare il controllo di gestione, la Corte dei conti non può estendere le sue verifiche sulla generalità delle pubbliche amministrazioni, ma deve necessariamente operare controlli "a campione" mirando il proprio esame alle materie, ai settori e alle gestioni ritenuti cruciali. Nell'operare la scelta dei propri oggetti d'indagine, la Corte non può individuarli di volta in volta e a propria assoluta discrezione, ma deve predisporre annualmente i programmi di controllo, in modo da assicurare maggiormente, anche a garanzia dell'ente controllato, la razionalità e la trasparenza del proprio operato, oltreché l'intelligibilità dei risultati ottenuti.
11.3. - Non fondata nei sensi di cui in motivazione è la questione proposta dalla Regione Veneto, in riferimento alle norme costituzionali poste a garanzia dell'autonomia regionale, avverso l'art. 3, quinto comma, per il quale "nei confronti delle amministrazioni regionali il controllo della gestione concerne il perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di principio e di programma". A dire il vero, come ha ammesso nel corso dei lavori parlamentari lo stesso rappresentante del Governo, la disposizione oggetto dell'attuale questione si rivela di non agevole decifrazione. Non v'è dubbio che, se la disposizione contestata dovesse essere interpretata nel senso che il controllo di gestione dovrà essere compiuto, nel caso delle amministrazioni regionali, in riferimento agli obiettivi posti dalle leggi di principio e di programma dello Stato, la questione proposta sarebbe sicuramente fondata, poiché da una siffatta norma risulterebbe vanificata l'autonomia politica costituzionalmente garantita alle regioni (autonomia che, ovviamente, non viene in questione nel caso in cui si tratti di funzioni dello Stato il cui esercizio è delegato alle regioni non al fine di integrare le funzioni "proprie" di queste ultime). Tuttavia, poiché la disposizione impugnata può esser interpretata in altro modo, non contrastante con la Costituzione, allora entro questi limiti la questione va rigettata. Infatti, solo se si interpreta la disposizione contestata come riferentesi alle leggi regionali, può essere esclusa la lesione dell'autonomia politico-legislativa costituzionalmente garantita alle regioni, essendo in tal caso il controllo successivo sulla gestione diretto alla verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi fissati dal legislatore regionale. Questa interpretazione, del resto, appare confermata dal comma successivo dello stesso articolo, che individua nei Consigli regionali, al pari delle Camere, i destinatari delle relazioni della Corte dei conti, relazioni attraverso le quali, al fine di migliorare la qualità della legislazione, si comunicano i risultati dei controlli sulla gestione eseguiti e le relative osservazioni. Ciò non toglie, ovviamente, che le leggi statali contenenti principi siano presenti nel controllo di gestione delle amministrazioni regionali come elementi di sfondo, nel senso che essi conservano una valenza interpretativa delle leggi regionali che li svolgono, senza tuttavia potersi sovrapporre alle leggi regionali, sulla cui unica base può esser eseguito il controllo di gestione verso le amministrazioni regionali.
11.4. - Parimenti non fondate, nei sensi di cui in motivazione, sono le questioni proposte dalle Regioni Emilia-Romagna e Veneto nei confronti dell'art. 3, sesto, ottavo e nono comma, nella parte in cui prevede che la Corte dei conti: a) riceva dalle regioni comunicazione delle misure adottate consequenzialmente all'esito del controllo; b) possa richiedere alle amministrazioni regionali e agli organi di controllo interno atti o notizie; c) possa compiere e disporre, nei confronti degli stessi uffici, ispezioni e accertamenti diretti. Le censure in esame, mentre sono proposte dalla Regione Veneto in riferimento al principio del buon andamento e alla garanzia costituzionale dell'autonomia regionale, sono invece sollevate dalla Regione Emilia-Romagna essenzialmente sotto il profilo della lesione dell'autonomia amministrativa e finanziaria delle regioni, in conseguenza dei poteri autoritativi previsti dalle disposizioni contestate e da queste ultime attribuite a un organo, come la Corte dei conti, che è anche titolare di una funzione giurisdizionale nella stessa materia. Tali doglianze sono prive di fondamento ove le disposizioni impugnate siano interpretate nei termini appresso indicati. Quelli disciplinati dalle norme ora menzionate, lungi dal costituire ipotesi di controllo a sé stanti e comunque distinte dal controllo successivo sulla gestione (come invece suggerisce la Regione Veneto), sono poteri istruttori che la Corte dei conti può esercitare soltanto in modo rigorosamente strumentale all'esercizio del controllo sulla gestione medesimo. Ciò comporta che, se, da un lato, i predetti poteri si intendono diretti a oggetti previamente individuati e non indiscriminati, dall'altro lato, essi sono sprovvisti di qualsivoglia sanzione, per il semplice fatto che, come si è in precedenza ricordato, il controllo successivo sulla gestione consiste in un'attività essenzialmente collaborativa, dalla quale non può derivare alcuna sanzione nel senso proprio del termine. Infatti, contrariamente a quanto sostengono le ricorrenti, non può essere configurata propriamente come sanzione giuridica il fatto che, in conseguenza di notizie o elementi raccolti nel corso del controllo di gestione, possa attivarsi l'intervento del giudice della responsabilità contabile dei pubblici funzionari, quando gli scostamenti dai parametri di riferimento siano censurabili come spreco di risorse pubbliche tali da mettere capo, nel concorso degli altri presupposti, alla responsabilità per danno. Nondimeno, la titolarità congiunta nella stessa Corte dei conti della giurisdizione (ai sensi dell'art. 103, secondo comma, della Costituzione) e del controllo successivo sulla gestione, corredato dei poteri di acquisizione delle notizie e di ispezione prima indicati, pone delicati problemi di regolamentazione dei confini, non solo sotto il profilo dell'organizzazione interna dell'organo (in quanto postula una rigorosa separazione fra le sezioni giurisdizionali e quelle adibite al predetto controllo), ma anche sotto il profilo dell'utilizzazione delle notizie o dei dati acquisiti attraverso l'esercizio dei poteri inerenti al controllo sulla gestione. Più precisamente, è incontestabile che il titolare dell'azione di responsabilità possa promuovere quest'ultima sulla base di una notizia o di un dato acquisito attraverso l'esercizio dei ricordati poteri istruttori inerenti al controllo sulla gestione, poiché, una volta cha abbia avuto comunque conoscenza di un'ipotesi di danno, non può esimersi, ove ne ricorrano tutti i presupposti, dall'attivare l'azione di responsabilità. Ma i rapporti tra attività giurisdizionale e controllo sulla gestione debbono arrestarsi a questo punto, poiché si vanificherebbero illegittimamente gli inviolabili "diritti della difesa", garantiti a tutti i cittadini in ogni giudizio dall'art. 24 della Costituzione, ove le notizie o i dati acquisiti ai sensi delle disposizioni contestate potessero essere utilizzati anche in sede processuale (acquisizioni che, allo stato, devono avvenire nell'ambito della procedura prevista dall'art. 5 della legge n. 19 del 1994). Così interpretate, le norme impugnate devono ritenersi immuni da vizi di costituzionalità. Infatti, tanto la comunicazione da parte delle regioni delle misure consequenziali, quanto la facoltà della Corte dei conti di "richiedere alle amministrazioni regionali e agli organi di controllo interno qualsiasi atto o notizia", sono riconducibili al dovere di cooperazione delle regioni nei confronti dello Stato, più volte riconosciuto da questa Corte (v., da ultimo, sentenze nn. 338, 302, 128 e 116 del 1994) e tanto più giustificato in relazione all'esercizio di funzioni statali producenti risultati utilizzabili dalle stesse regioni nello svolgimento delle proprie attribuzioni. Ed anche il potere di "effettuare o disporre ispezioni e accertamenti diretti" è giustificato dal principio, già affermato da questa Corte (v. sentenze nn. 452 del 1989 e 219 del 1984), secondo il quale i poteri di ispezione amministrativa non ledono l'autonomia costituzionale delle regioni quando essi siano strumentali allo svolgimento di funzioni statali di vigilanza o di controllo a loro volta non incostituzionalmente stabilite nei confronti delle regioni medesime.
11.5. - Non fondata è la questione di legittimità costituzionale proposta dalla Regione Friuli-Venezia Giulia - per violazione della propria autonomia normativa di tipo esclusivo, garantita dall'art. 4, n. 1, dello Statuto speciale dell'anzidetta Regione - nei confronti dell'art. 3, comma quarto, della legge n. 20 del 1994, il quale, nell'attribuire alla Corte dei conti, nell'ambito del controllo della gestione finanziaria, la verifica del funzionamento dei controlli interni, interferirebbe illegittimamente con la potestà legislativa esclusiva attinente all'ordinamento degli uffici regionali, imponendo alla Regione di istituire uffici destinati a operare il controllo interno. Parimenti non fondata è l'analoga questione posta dalla Regione Veneto nei confronti della stessa disposizione per l'asserita violazione degli artt. 97, 117, 118, 119 e 128 della Costituzione. A parte il rilievo che, una volta che la disposizione impugnata sia interpretata nel modo suggerito dalle ricorrenti, le questioni sarebbero inammissibili, come osserva anche l'Avvocatura dello Stato, per il fatto che l'istituzione nelle regioni di uffici per il controllo interno di efficienza deriva dall'art. 19 della già ricordata legge n. 335 del 1976 (che, ancorché non attuato, sul punto, dalla quasi totalità delle regioni, resta tuttavia una norma pienamente vigente ed efficace) e dall'art. 20 del decreto legislativo n. 29 del 1993, è tuttavia determinante, ai fini della risoluzione delle questioni, osservare che la disposizione contestata può avere soltanto un significato diverso da quello conferitole dalle Regioni stesse. Infatti, la verifica del funzionamento dei preesistenti controlli interni non costituisce l'oggetto di un autonomo potere di vigilanza attribuito alla Corte dei conti nei confronti di determinati uffici regionali (potere che, se fosse così costruito, sarebbe indubbiamente lesivo dell'autonomia costituzionale delle regioni), ma rappresenta, piuttosto, un elemento di valutazione inerente al complessivo controllo sulla gestione, nel senso che, come si è già precisato, l'eventuale cattivo funzionamento dei controlli interni può essere assunto a elemento o indizio per la valutazione connessa all'esercizio del controllo sulla gestione.
12. - Non fondata è, poi, la questione di legittimità costituzionale che la Regione Valle d'Aosta solleva nei confronti dell'art. 3, quarto e settimo comma, della legge n. 20 del 1994, nella parte in cui dispone l'estensione del controllo sulla gestione esercitato dalla Corte dei conti agli enti locali. Più precisamente, la ricorrente ritiene che l'articolo impugnato, in quanto interpretato come istitutivo del ricordato controllo sulla gestione sugli enti locali, sia in contrasto con l'art. 43 del proprio Statuto speciale, il quale prevede che "il controllo sugli atti dei comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, dei consorzi e delle consorterie ed altri enti locali è esercitato dalla Regione nei modi e limiti stabiliti con legge regionale in armonia con i principi delle leggi dello Stato" (competenza, questa, da tempo esercitata dalla Regione con la propria legge 15 maggio 1978, n. 11, oggi sostituita dalla legge regionale 23 agosto 1993, n. 73, così come modificata dalla legge regionale 9 agosto 1994, n. 41). In realtà, a parte la considerazione che l'art. 6 della stessa legge n. 20 del 1994 qualifica i principi da essa desumibili come "norme fondamentali delle riforme economico-sociali" e che tale qualificazione risponde al carattere sostanziale delle norme contestate (v. anche, per altra parte della legge, sent. n. 40 del 1994), le quali sono portatrici di un rinnovato modo d'intendere relativo al controllo di efficienza e di efficacia e ai rapporti tra Corte dei conti e pubbliche amministrazioni, sta di fatto che, come si è già osservato nei punti precedenti della motivazione, le previsioni costituzionali attinenti ai controlli di legittimità (o a quelli di merito a fini di riesame) su singoli atti amministrativi non possono essere interpretate quali norme preclusive di altre forme di controllo, e segnatamente del controllo sulla gestione nei confronti dei comuni e degli altri enti locali. Questa affermazione, del resto, è già presente, se pure in via di principio, nella giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, nelle decisioni rese in occasione dell'impugnativa delle disposizioni della legge 26 febbraio 1982, n. 51 (la cui efficacia, peraltro, è fatta salva dalla legge ora contestata), che ha attribuito alla Corte dei conti l'esame dei consuntivi dei comuni con popolazione superiore a ottomila abitanti (v. sentenze nn. 961 e 422 del 1988).
13. - Non fondata, nei sensi di cui in motivazione, è, inoltre, la questione che la stessa Regione Valle d'Aosta solleva, in riferimento all'appena ricordato art. 43 del proprio Statuto speciale, nei confronti dell'art. 3, ottavo comma, della legge in considerazione, nella parte in cui prevede che nei confronti delle "amministrazioni pubbliche non territoriali" la Corte dei conti "può richiedere (...) il riesame di atti ritenuti non conformi a legge". Posto che, rispetto alla norma che estende anche agli enti locali il controllo di gestione della Corte dei conti, la disposizione in esame ha un ambito di applicazione più limitato, in quanto, per definizione espressa della legge, non riguarda Comuni, Province e Comunità montane, né gli enti dipendenti dalla Regione, tuttavia, anche così ristretto, il controllo di gestione sfocia in tal caso in atti che interferiscono inequivocabilmente con i controlli che l'art. 43 dello Statuto valdostano assegna all'esercizio delle competenze amministrative della Regione, sulla base di una legge regionale adottata "in armonia con i principi delle leggi dello Stato". Infatti, la sollecitazione da parte della Corte dei conti, vòlta ad attivare il riesame, da parte delle amministrazioni competenti, di propri atti coinvolti nel controllo sulla gestione eseguito dalla Corte stessa, configura un modo per porre rimedio a eventuali vizi di legittimità non previsto dalla preesistente legislazione. Ma, poiché tale innovazione rappresenta, come è stato prima precisato, un principio della materia inerente a una "riforma economico-sociale", la disposizione contestata non è contraria all'art. 43 solo se interpretata, non già come norma direttamente applicabile da parte della Corte dei conti nei confronti degli enti previsti dalla disposizione impugnata e operanti nella Regione Valle d'Aosta, ma come norma di principio che vincola la ricorrente a rivedere la propria legislazione al fine di disciplinare, nei modi da essa ritenuti più opportuni, la possibilità del riesame, da parte delle amministrazioni competenti, di propri atti a seguito di segnalazioni scaturenti dallo svolgimento del controllo sulla gestione ad opera della Corte dei conti.
14. - Inammissibile è la questione di costituzionalità che la Regione Emilia-Romagna solleva, in riferimento agli artt. 117, 118 e 130 della Costituzione, nei confronti dell'art. 3, quarto, quinto, sesto e ottavo comma, che, rendendo in pratica la Corte dei conti il vero controllore degli atti degli enti locali, violerebbe tanto i principi sul controllo di legittimità degli atti di enti locali, devoluti, per Costituzione, a un organo regionale, quanto le norme costituzionali poste a garanzia dell'autonomia legislativa e amministrativa delle regioni. Al di là delle considerazioni di merito sui rapporti tra controllo successivo sulla gestione e altre forme di controllo, già esposte nei punti precedenti della motivazione, la questione non è ammissibile in base al rilievo che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, gli enti locali considerati dall'art. 130 della Costituzione non possono essere assimilati agli enti dipendenti dalla regione, di modo che la potestà legislativa concorrente delle regioni a statuto ordinario concernente l'ordinamento dei secondi non può estendersi alla disciplina dei controlli dei primi (v. sentenze nn. 164 del 1990, 114 del 1986 e 21 del 1985). Ciò posto, si deve ritenere che la ricorrente non ha interesse a lamentarsi della disposizione contestata nella parte in cui si riferisce agli enti locali. Non fondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale che la stessa Regione Emilia Romagna solleva nei confronti della disposizione appena esaminata, nella parte in cui si riferisce agli enti dipendenti dalle regioni, per violazione dell'art. 117 della Costituzione, come attuato dall'art. 13, primo comma, del d.P.R. n. 616 del 1977 (che affida alle regioni la potestà legislativa concorrente in materia di "ordinamento degli enti amministrativi dipendenti dalle regioni"). Posto che per consolidata giurisprudenza di questa Corte, gli enti dipendenti dalla regione non possono essere assimilati agli enti locali e che la potestà legislativa concorrente delle regioni ad autonomia comune in materia di ordinamento degli enti dipendenti dalle regioni stesse si estende anche ai rispettivi controlli (v. sentt. nn. 164 del 1990, 114 del 1986 e 21 del 1985), occorre osservare che la norma contestata non pregiudica l'esercizio della predetta competenza normativa sui controlli degli enti dipendenti dalle regioni. Ciò deriva dal rilievo, già posto in evidenza, che il controllo successivo sulla gestione non interferisce con gli altri tipi di controllo, compresi quelli assegnati alle competenze regionali, salvo in ogni caso il potere della Corte dei conti, inerente al predetto controllo sulla gestione, di verificare, nel senso già precisato, anche il funzionamento dei controlli interni all'ordinamento regionale.
15. - Non fondate sono, infine, le questioni di costituzionalità che tutte le ricorrenti propongono - in riferimento alle norme costituzionali che tutelano direttamente le loro competenze legislative e amministrative, nonché (limitatamente alla Regione Veneto) agli artt. 97 e 125 della Costituzione - nei confronti dell'art. 6 della legge n. 20 del 1994, il quale stabilisce che "le disposizioni della presente legge costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione. I principi da essa desumibili costituiscono altresì, per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica". Premesso che non può invocarsi fondatamente l'inammissibilità della questione posta dalla Regione Emilia-Romagna, deducendosi chiaramente dal ricorso quale fosse la norma oggetto di contestazione nonostante l'omessa indicazione dell'articolo di legge; e premesso che è parimenti da respingere l'eccezione di inammissibilità relativa a tutte le questioni ora esaminate, la cui autonomia dalle altre precedentemente considerate deriva dal semplice rilievo che oggetto di quelle in esame sono le distinte disposizioni contenute nel ricordato art. 6, le censure vanno dichiarate non fondate sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte. Secondo questa, infatti, l'autoqualificazione che il legislatore conferisce alle proprie norme non è determinante al fine di ritenere che esse siano effettivamente "principi fondamentali della materia" o "norme fondamentali di riforma economico-sociale". Ma, poiché le considerazioni già svolte dimostrano che le disposizioni contestate con i ricorsi in epigrafe posseggono il carattere sostanziale di principi fondamentali e comportano indubbiamente una rilevante trasformazione istituzionale i cui effetti ricadono inequivocabilmente nel campo economico-sociale, l'infondatezza delle questioni ora esaminate non può non discendere dai criteri consolidati nella giurisprudenza di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 85 del 1990, 99 del 1987 e 219 del 1984).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, quinto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), sollevata dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli artt. 5, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione;
dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi sesto, ottavo e nono, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 118 e 119 della Costituzione, e dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97 e 125, primo comma, della Costituzione;
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, ottavo comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento all'art. 43 del proprio Statuto speciale (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4), con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, con la legge 14 gennaio 1994, n. 19, sollevata, in riferimento all'art. 38 del proprio Statuto speciale, dalla Regione Valle d'Aosta, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo, secondo e terzo comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate dalla Regione Valle d'Aosta, con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli artt. 3, 100 e 116 della Costituzione, nonché degli artt. 2, lettere a) ed f), 3, lettera f), 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 43, 44, 45 e 46 dello Statuto speciale della Valle d'Aosta; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto e quinto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate dalla Regione Valle d'Aosta, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli artt. 29, 44, 45 e 46 del proprio Statuto speciale; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto e ottavo comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata, in riferimento all'art. 58 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia), dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate, in riferimento agli artt. 5, 97, 117, 118, 119 e 125 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto, quinto, sesto e ottavo comma, sollevate, in riferimento agli artt. 100, secondo comma, 117, 118, primo comma, 119 e 125 della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe, in riferimento all'art. 4, n. 1), del proprio Statuto speciale, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e, in riferimento agli artt. 97, 117, 118, 119 e 128 della Costituzione, dalla Regione Veneto;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto comma, ultima proposizione, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe, in riferimento agli artt. 2 e 4 del proprio Statuto speciale, dalla Regione Valle d'Aosta e, in riferimento agli artt. 5, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, sesto comma, prima proposizione, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata, in riferimento all'art. 125, primo comma, della Costituzione, dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto e settimo comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento all'art. 43 del proprio Statuto speciale, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi quarto, quinto, sesto e ottavo, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Emilia-Romagna, per violazione dell'art. 117 della Costituzione, in riferimento all'art. 13, primo comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382);
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, prima proposizione, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalle Regioni Emilia-Romagna e Veneto, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché, limitatamente al Veneto, anche agli artt. 97 e 125 della Costituzione;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, seconda proposizione, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalle Regioni Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia, con riferimento, l'una, agli artt. 2 e 4 e, l'altra, all'art. 58 dei rispettivi Statuti speciali; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'intero testo del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 e della relativa legge di conversione (legge 14 gennaio 1994, n. 19), sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento all'art. 77 della Costituzione;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'intero testo del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 e della relativa legge di conversione 14 gennaio 1994, n. 19, sollevate, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento agli artt. 100, secondo e terzo comma, 103, secondo comma e 108 della Costituzione;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 9 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, sollevate, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Valle d'Aosta, in riferimento agli artt. 100, 116 e 125 della Costituzione e agli artt. 2, lettere a) ed f), 3, lettera f), 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 43, 44, 45 e 46 del proprio Statuto speciale;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, sollevate, in riferimento all'art. 125, secondo comma, della Costituzione, dalla Regione Valle d'Aosta, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, sollevate, in riferimento all'art. 108, secondo comma, della Costituzione, dalla Regione Valle d'Aosta, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, quarto, quinto, sesto e ottavo comma della legge 14 gennaio 1994, n. 20, sollevata, in riferimento agli artt. 117, 118 e 130 della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 1995.
Massima n. 21406
La esistenza, nell'ordinamento, riguardo alle leggi e agli atti equiparati, di un sistema di garanzia costituzionale accentrato sul sindacato incidentale previsto dall'art. 134 Cost., non e' valida ragione per ritenere che i decreti-legge e, in particolari situazioni, anche le leggi e i decreti legislativi, restino esclusi dalla sfera di operativita' del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Come e' noto, infatti, per il decreto-legge, il sindacato incidentale, benche' possibile, si presenta di fatto non praticabile in relazione ai tempi ordinari del giudizio incidentale ed alla limitata vigenza dello stesso decreto, e pertanto il profilo di garanzia che pur, per esso - come emerge dallo stesso disegno tracciato dall'art. 77 Cost. - e' essenziale e tende a prevalere su ogni altro, verrebbe a risultare, se non compromesso, certamente limitato se il controllo di costituzionalita' restasse circoscritto alla sola ipotesi del sindacato incidentale, con prospettive non prive di rischi sul piano degli equilibri tra i poteri fondamentali, tanto piu' se si pensi - anche alla luce dell'esperienza piu' recente - al dilagare della decretazione d'urgenza, e ai connessi fenomeni quali l'uso anomalo della prassi della reiterazione dei decreti-legge non convertiti. Inoltre la possibilita' - deprecabile, ma che non puo' escludersi in modo assoluto - che l'impiego del decreto-legge conduca a comprimere diritti fondamentali (e in particolare diritti politici), ad incidere sulla stessa materia costituzionale e a determinare - nei confronti dei soggetti privati - situazioni non piu' reversibili ne' sanabili anche in seguito alla perdita di efficacia della norma, dimostra che il ricorso allo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato puo' rappresentare la via necessaria per apprestare una difesa in grado di unire all'immediatezza l'efficacia. Per cui appare giustificato riconoscere la possibilita' di utilizzare tale strumento, nei confronti del decreto-legge - e nelle su evidenziate ipotesi - anche nei confronti della legge e del decreto legislativo, come controllo da affiancare al sindacato incidentale. - In senso "in linea di principio" contrario, ma avvertendo l'esigenza di evitare, comunque, "che si formino zone franche di incostituzionalita'", S. n. 406/1989. Riguardo al fenomeno della reiterazione dei decreti-legge non convertiti, v., in particolare, S. n. 302/1988. red.: S. Pomodoro.
composta dai signori: Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE; Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso di Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito, promotori dei referendum in materia di commercio, di elezioni comunali e di contributi sindacali, ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3, 4, 10 e 13 del 1995, notificato l'8 aprile 1995, depositato in Cancelleria il 10 aprile 1995, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie", ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 1995.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica dell'8 maggio 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli;
Uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito e l'Avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito, quali promotori e presentatori di quattro referendum (in materia di disciplina del commercio; di disciplina dell'orario dei negozi; di elezioni comunali e di contributi sindacali) indetti per la tornata dell'11 giugno 1995, sollevano conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nei confronti del Governo al fine di ottenere l'annullamento, previa sospensione, del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie".
I ricorrenti - dopo aver richiamato la propria legittimazione e la presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi idonei a radicare il conflitto - denunciano la lesione della sfera di attribuzioni costituzionali ad essi spettanti in materia referendaria, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, sotto tre profili diversi e cioè:
a) con riferimento agli artt. 1, 2, 3 e 14 del decreto-legge, per avere tali norme irragionevolmente equiparato, nella disciplina dell'accesso ai mezzi di informazione e nelle sanzioni, le campagne referendarie alle campagne elettorali;
b) con riferimento all'art. 3, comma 6, dello stesso decreto, per avere, in violazione dei principi di congruenza, ragionevolezza, proporzionalità, vietato la pubblicità referendaria nei trenta giorni precedenti la data delle elezioni anche quando tale pubblicità attenga a successive consultazioni elettorali o referendarie;
c) con riferimento al decreto-legge nel suo complesso, per cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione, per avere tale decreto inciso, senza che ricorressero i requisiti della necessità e dell'urgenza, nella materia referendaria.
2. - Stante il carattere delibativo dell'ordinanza che ha ammesso il conflitto, occorre in primo luogo verificare - in termini definitivi - la presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi idonei a legittimare, ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la proposizione del conflitto.
Per quanto concerne i requisiti soggettivi non resta che richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha riconosciuto alla frazione del corpo elettorale, identificata dall'art. 75 della Costituzione in almeno cinquecentomila elettori firmatari di una richiesta di referendum abrogativo, la natura di potere dello Stato ed al comitato dei promotori - rappresentato da almeno tre soggetti - la legittimazione attiva alla proposizione del conflitto (v. sentenza n. 69 del 1978; ordinanze nn. 17 del 1978; 1 e 2 del 1979): requisiti che ricorrono tutti nel caso in esame.
Né può assumere rilievo che - a differenza di quanto emerge dai precedenti ora richiamati - il conflitto, nella specie, non sia stato sollevato nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione in relazione a limitazioni apportate al quesito referendario. In proposito va, infatti, osservato che le restrizioni disposte alla campagna referendaria - che formano l'oggetto del conflitto - appaiono suscettibili di incidere sulla formazione della volontà di coloro che esprimono il loro voto nel referendum e, di conseguenza, nella sfera di attribuzioni garantita, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, ai ricorrenti.
3. - Per quanto riguarda i requisiti oggettivi - mentre appare evidente l'incidenza del conflitto in una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali e, in particolare, dall'art. 75 della Costituzione, dal momento che il decreto impugnato dispone in merito alle attività di propaganda, pubblicità ed informazione preordinate all'esercizio del voto referendario - maggiore attenzione va dedicata alla eccezione di inammissibilità prospettata dall'Avvocatura dello Stato in ordine alla natura dell'atto (decreto-legge) in relazione al quale il conflitto viene sollevato.
Tale eccezione viene fondata sul richiamo alla sentenza n. 406 del 1989, dove è stato affermato che "in linea di principio" il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato non può essere ammesso contro una legge od un atto equiparato.
Questa Corte ritiene, peraltro, che tale precedente - con riferimento alla limitazione desumibile dall'inciso ora richiamato - debba essere interpretato e nuovamente valutato anche alla luce degli sviluppi della prassi e dei più recenti indirizzi della dottrina.
In proposito va ricordato che la sentenza n. 406 del 1989 ha giustificato l'esclusione delle leggi e degli atti equiparati dalla sfera di operatività del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato essenzialmente attraverso il richiamo alla presenza, per tali atti, di un sistema di garanzia costituzionale incentrato sul sindacato incidentale: sindacato rapportato alla posizione di "preminenza" delle fonti primarie, che sottende "da un lato un particolare favore per l'operatività della legge e degli atti equiparati e dall'altro il postulato che la loro costituzionalità vada verificata nel loro impatto sociale, cioè nella loro (concreta) incidenza sugli interessi reali".
Questa motivazione, riferita in linea di massima alla legge, in quanto atto caratterizzato dalla durata e dalla stabilità dei propri effetti, mal si attaglia ad un atto quale il decreto-legge, che la stessa Costituzione viene a qualificare come "provvedimento provvisorio", che il Governo adotta sotto la propria responsabilità e che è destinato a operare per un arco di tempo limitato, venendo a perdere la propria efficacia fin dall'inizio in caso di mancata conversione in legge entro il termine fissato nell'art. 77 della Costituzione. Perdita di efficacia che non può far venir meno i mutamenti irreversibili della realtà che lo stesso decreto abbia potuto produrre nel corso della sua precaria vigenza, con la conseguenza che l'atto non convertito, anche se divenuto inefficace, permane di fatto come "comportamento" di cui il Governo è chiamato, sotto ogni profilo, a rispondere.
Tutto questo induce a sottolineare come - rispetto al decreto-legge - il profilo della garanzia si presenti essenziale e tenda a prevalere - come emerge dallo stesso disegno tracciato nell'art. 77 della Costituzione - su ogni altro. Profilo che verrebbe a risultare, se non compromesso, certamente limitato ove il controllo di costituzionalità dovesse ritenersi circoscritto alla sola ipotesi del sindacato incidentale. È noto, infatti, che, per il decreto-legge, questo tipo di sindacato, per quanto possibile, si presenta di fatto non praticabile in relazione ai tempi ordinari del giudizio incidentale ed alla limitata vigenza temporale dello stesso decreto.
Questa limitazione nella garanzia costituzionale potrebbe, d'altro canto, dar luogo a prospettive non prive di rischi sul piano degli equilibri tra i poteri fondamentali, ove si pensi - anche alla luce dell'esperienza più recente - al dilagare della decretazione d'urgenza, all'attenuato rigore nella valutazione dei presupposti della necessità e dell'urgenza, all'uso anomalo che è dato riscontrare nella prassi della reiterazione dei decreti non convertiti (v. sentenza n. 302 del 1988).
Rischi, questi, suscettibili di assumere connotazioni ancora più gravi nelle ipotesi in cui l'impiego del decreto-legge possa condurre a comprimere diritti fondamentali (e in particolare diritti politici), a incidere sulla materia costituzionale, a determinare - nei confronti dei soggetti privati - situazioni non più reversibili né sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della norma.
In tali ipotesi, certamente deprecabili - ma suscettibili di manifestarsi non soltanto attraverso l'impiego della decretazione d'urgenza - il ricorso allo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato può, dunque, rappresentare la forma necessaria per apprestare una difesa in grado di unire all'immediatezza l'efficacia.
Appare, pertanto, giustificato riconoscere - precisati nei sensi anzidetti i contenuti enunciati nella sentenza n. 406 del 1989, in sostanziale continuità con la linea motiva in essa espressa - la possibilità di utilizzare nei confronti del decreto-legge lo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato come controllo da affiancare al sindacato incidentale.
Né questa estensione delle forme di sindacato riferita al decreto-legge può assumere il significato di una rottura dell'unitarietà del regime del controllo di costituzionalità sanzionato, per le leggi e gli atti con forza di legge, dall'art. 134 della Costituzione, ove si consideri, nel quadro delle fonti, la natura particolare del decreto-legge come provvedimento provvisorio adottato in presenza di presupposti straordinari nonché la possibilità che, in situazioni particolari quali quelle innanzi richiamate, lo strumento del conflitto possa essere impiegato anche nei confronti della legge e del decreto legislativo.
Sotto il profilo preso in esame il ricorso va, pertanto, dichiarato ammissibile.
4. - Passando al merito, va innanzitutto valutato il terzo motivo del ricorso, che appare pregiudiziale per il fatto di prospettare censure che investono la validità del decreto-legge considerato nel suo complesso. Ad avviso dei ricorrenti il decreto in questione risulterebbe, infatti, viziato per "cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione" essendo stato adottato, senza che ricorressero gli estremi della necessità e dell'urgenza, in materia referendaria, da ritenersi preclusa al decreto-legge.
In proposito va, in primo luogo, riaffermato che spetta alla Corte un sindacato sull'esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti della necessità e dell'urgenza (v. sentenza n. 29 del 1995). Nel caso di specie, peraltro, non ricorre quella "evidente mancanza" dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza di tali presupposti, che sola potrebbe giustificare una pronuncia di illegittimità di questa Corte.
Per quanto concerne poi il limite oggettivo che, rispetto alla decretazione d'urgenza, viene dedotto nel ricorso con riferimento alla materia referendaria, v'è da rilevare che tale limite non risulta desumibile, né direttamente né indirettamente, dalla disciplina costituzionale.
Il rilievo può valere anche per quanto concerne il divieto - desunto dall'art. 72, quarto comma, della Costituzione e richiamato dall'art. 15, secondo comma, lettera b), della legge 13 agosto 1988, n. 400 - relativo alla materia elettorale: e, invero, anche a voler ammettere, ai fini dell'operatività di detto limite rispetto al caso in esame, una piena equiparazione tra materia elettorale e materia referendaria, resterebbe pur sempre il fatto che il decreto in questione ha inteso porre una disciplina che non viene a toccare né il voto né il procedimento referendario in senso proprio, ma le modalità della campagna referendaria. La sfera regolata dal decreto-legge n. 83 del 1995, pur connessa alla materia referendaria - in quanto funzionalmente collegata all'applicazione dell'art. 75 della Costituzione - risulta, pertanto, distinta, nei suoi contenuti, da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario.
5. - Anche le censure formulate nel primo motivo del ricorso si presentano infondate (salvo per quanto concerne la censura riferibile all'art. 3, comma 6, del decreto impugnato, che verrà trattata nel punto successivo).
Con tale motivo i ricorrenti contestano la ragionevolezza della disciplina adottata in tema di campagne referendarie dagli artt. 1 (concernente l'ambito di applicazione della stessa disciplina), 2 (in tema di propaganda), 3 (in tema di pubblicità) e 14 (in tema di sanzioni) dal decreto in esame: ragionevolezza che risulterebbe compromessa dal fatto di avere regolato le campagne referendarie negli stessi termini previsti per le campagne elettorali.
Tali censure - che investono in prevalenza il merito politico delle norme contestate - non possono essere condivise.
Se è vero, infatti, che le campagne referendarie - come sostengono i ricorrenti - presentano caratteristiche particolari e, per taluni aspetti, semplificate rispetto a quelle proprie delle campagne elettorali, è anche vero che da tale diversità non è possibile desumere, in via generale, un vincolo per il legislatore ad adottare discipline differenziate, una volta che il settore da regolare (nella specie, l'accesso ai mezzi di comunicazione di massa) venga a presentare profili comuni.
Nulla vieta cioè che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, possa di massima regolare elezioni e referendum in termini identici, una volta constatata, rispetto al profilo della parità di trattamento cui sono tenuti i mezzi di informazione di massa nei confronti dei soggetti politici, l'unitarietà della ratio della disciplina da adottare. In altri termini, non può essere la particolarità della consultazione referendaria ad imporre - anche con riferimento al fine dell'imparzialità richiesta ai mezzi di comunicazione di massa - l'adozione di forme differenziate in tema di propaganda, di pubblicità e di meccanismi sanzionatori, ove si possa affermare la compatibilità delle forme legislativamente sanzionate con le caratteristiche proprie dello strumento referendario. Compatibilità che nella specie sussiste (salvo per quanto concerne l'art. 3, comma 6) sia con riferimento alla propaganda che alla pubblicità, ove si consideri che le forme indicate per la propaganda dall'art. 2 tendono a ricomprendere l'intera tipologia espressiva comunemente praticata in ogni tipo di competizione politica (elettorale e referendaria) e che i limiti segnati dal primo comma dell'art. 3 per la "pubblicità elettorale" non risultano applicabili, per la loro stessa configurazione (modulata con riferimento specifico alle campagne elettorali), alla pubblicità referendaria.
6. - Fondate si prospettano, invece, le censure formulate nei confronti dell'art. 3, comma 6, quali risultano espressamente enunciate nel secondo motivo del ricorso o implicitamente desumibili dal primo.
La disposizione in questione prevede che, a partire dal trentesimo giorno precedente la data delle elezioni (o del referendum), è vietata ogni forma di pubblicità, anche se relativa a successive consultazioni elettorali o referendarie.
Tale norma viene censurata, con riferimento alle campagne referendarie, come incongrua, irragionevole e sproporzionata per quanto concerne il suo inciso finale (secondo motivo) e come irragionevole, comparativamente alla disciplina prevista per le campagne elettorali, nel suo complesso (primo motivo).
Occorre premettere che, riguardando la materia l'esercizio di un diritto politico fondamentale, le limitazioni contestate - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - devono essere sottoposte a un rigoroso scrutinio, tanto più perché disposte con un provvedimento governativo provvisorio non ancora approvato dalla maggioranza parlamentare. Alla luce di tale premessa la fondatezza delle censure in esame emerge ove si venga a confrontare la particolarità dello strumento referendario con la natura e la misura del limite introdotto. E invero, mentre per le campagne elettorali la presenza di un limite temporale ragionevolmente contenuto per lo svolgimento della pubblicità può trovare giustificazione nel fatto di privilegiare la propaganda sulla pubblicità, al fine di preservare l'elettore dalla suggestione di messaggi brevi e non motivati, eguale esigenza non viene a prospettarsi per le campagne referendarie, dove i messaggi tendono, per la stessa struttura binaria del quesito, a risultare semplificati, così da rendere sfumata la distinzione tra le forme della propaganda e le forme della pubblicità.
Nelle campagne referendarie le forme espressive della propaganda vengono, invero, in larga parte a coincidere con le forme proprie della pubblicità, con la conseguenza che, per queste campagne, gli effetti delle limitazioni introdotte in materia pubblicitaria possono risultare aggravati fino a ridurre al di là della ragionevolezza gli spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati alla promozione o alla opposizione ai quesiti referendari.
Tale elemento di irragionevolezza appare ancora più grave ed evidente in relazione a quella parte della disposizione in esame che vieta la pubblicità per i periodi in cui si succedono varie consultazioni elettorali e referendarie. Questo divieto - oltre a risultare del tutto ingiustificato anche rispetto al fine, sotteso alla norma, di preservare la libertà psicologica dell'elettore nell'imminenza del voto - è tale da poter condurre, in presenza di una consultazione referendaria preceduta da consultazioni elettorali, alla pratica eliminazione dello strumento pubblicitario: così come accadrebbe, permanendo la vigenza di tale norma, per la tornata referendaria dell'11 giugno 1995, rispetto a cui il tempo per lo svolgimento della pubblicità è stato delimitato a soli quattro giorni (v. artt. 4 e 12 del provvedimento del Garante per la radiodiffusione e l'editoria del 12 aprile 1995).
In conseguenza della sua irragionevolezza ed eccessività la disposizione in esame viene, pertanto, a ledere la sfera di attribuzioni, spettanti ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, ai ricorrenti e va, di conseguenza, annullata.
7. - La decisione di merito ora adottata assorbe ogni pronuncia in ordine alla domanda di sospensione dell'atto impugnato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che non spetta al Governo adottare, con riferimento alle campagne referendarie, la disposizione di cui all'art. 3, comma 6, del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, e, conseguentemente, annulla tale disposizione nella parte in cui si applica alle campagne referendarie.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1995.
composta dai signori: Presidente: dott. Renato GRANATA; Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Ordinanza
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 6
del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle
pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche
fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172,
dell'art. 1 della legge 17 maggio 1995, n. 172 e dell'art. 21, quinto comma,
della legge lo maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque
dall'inquinamento), promossi con ordinanze emesse il 29 gennaio
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 16 ottobre 1996 il giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto che con nove ordinanze, emesse nel corso di altrettanti procedimenti penali promossi per violazioni delle norme per la tutela delle acque dall'inquinamento (art. 21, primo e terzo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319) , sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172; ovvero questioni di legittimità costituzionale della medesima legge di conversione, o, ancora, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento), come modificata dal citato decreto-legge;
che, in particolare, il giudice per le indagini preliminari presso la pretura circondariale di Udine, con sette ordinanze di identico contenuto emesse il 18 gennaio (reg. ord. n. 382 del 1996), il 19 gennaio (reg. ord. nn. 381 e 383 del 1996), il 29 gennaio (reg. ord. n. 377 del 1996), l'8 febbraio (reg. ord. n. 378 del 1996), il 9 febbraio (reg. ord. n. 380 del 1996) ed il 13 febbraio 1996 (reg. ord. n. 379 del 1996), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 9, secondo comma, 32, 10, 25, secondo comma, e 77 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, prima parte, del decreto-legge n. 79 del 1995. Il giudice rimettente ritiene che la norma denunciata, non configurando più come reato, ma come illecito amministrativo, il superamento dei limiti di accettabilità stabiliti dalle Regioni con i piani di risanamento delle acque per gli scarichi diversi da quelli provenienti da insediamenti produttivi, contrasterebbe:
a) con il principio di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), giacché la diversità di sanzioni (amministrative per gli scarichi civili e delle pubbliche fognature, penali per gli scarichi da insediamenti produttivi) sarebbe fondata non sulla diversa gravità dei fatti, ma sulla differente qualifica di chi li effettua;
b) con la tutela del paesaggio (art. 9, secondo comma, della Costituzione) e della salute (art. 32 della Costituzione), in quanto la depenalizzazione di alcuni comportamenti, che egualmente determinano inquinamento idrico, ridurrebbe il livello di protezione della salubrità dell'ambiente;
c) con l'obbligo di adeguamento al diritto comunitario, ed in particolare alla direttiva 91/271/CEE (art. 10 della Costituzione);
d) con gli artt. 25, secondo comma, e 77 della Costituzione, per la mancanza degli indispensabili requisiti della necessità e dell'urgenza, in una materia, quella penale, nella quale l'uso del decreto-legge dovrebbe essere del tutto eccezionale, per evitare il rischio di sottrarre al Parlamento la funzione ad esso riservata e che dà corpo alla riserva di legge;
che il giudice per le indagini preliminari presso la pretura circondariale di Prato, con ordinanza emessa il 6 marzo 1996 (reg. ord. n. 485 del 1996) , ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1995; dell'art. 1 della legge n. 172 del 1995, che converte il decreto-legge n. 79 del 1995; dell'art. 21, quinto comma, della legge n. 319 del 1976, aggiunto dall'art. 6, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1995, prospettando la violazione degli artt. 3, primo comma, 9, secondo comma, 32, 25, secondo comma, e 77, secondo comma, della Costituzione in termini analoghi a quelli in precedenza indicati. Il giudice rimettente dubita della costituzionalità della norma che colpisce con sanzione pecuniaria amministrativa (da dieci a cento milioni di lire), anziché con l'originaria sanzione penale, l'apertura o l'effettuazione di scarichi civili e delle pubbliche fognature senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, ovvero dopo che l'autorizzazione sia stata negata o revocata;
che il pretore di Pisa, sezione distaccata di San Miniato, con ordinanza emessa il 15 marzo 1996 (reg. ord. n. 628 del 1996), ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 6 della legge n. 172 del 1995 (più esattamente: del decreto-legge n. 79 del 1995, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 1995), là dove, per gli scarichi civili e delle pubbliche fognature, depenalizzano sia il superamento dei limiti di accettabilità sia l'apertura o l'effettuazione degli scarichi senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, ovvero dopo che la prescritta autorizzazione sia stata negata o revocata. Il giudice rimettente denuncia, in termini analoghi a quelli prospettati dalle precedenti ordinanze di rimessione, la lesione dei principi costituzionali di parità di trattamento e di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), come pure la violazione delle norme costituzionali di tutela del paesaggio e della salute (art. 9, secondo comma, e 32 della Costituzione). Lo stesso giudice denuncia anche la violazione della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 della Costituzione), sia perché questa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, alla quale è da ricondurre anche il principio "chi inquina paga" posto dalla normativa comunitaria, sia perché sarebbero penalizzate le imprese che hanno affrontato rilevanti investimenti per adeguare gli scarichi che non recapitano in pubbliche fognature alla normativa in vigore;
che in tutti i giudizi, tranne in quello promosso con l'ordinanza
del Giudice per le indagini preliminari presso
Considerato che i dubbi di legittimità costituzionale investono le innovazioni alle norme per la tutela delle acque dall'inquinamento (legge 10 maggio 1976, n. 319), introdotte con il decreto-legge 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172;
che tutte le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, sicché i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica pronuncia;
che i dubbi di legittimità costituzionale, prospettati in riferimento a vari parametri, si riferiscono alla configurazione dell'illecito come amministrativo, anziché penale, ed alla disciplina delle sanzioni per gli scarichi provenienti da insediamenti civili o da pubbliche fognature; disciplina differenziata rispetto a quella prevista per gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi senza autorizzazione o con superamento dei limiti di accettabilità;
che le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili (sentenza n. 330 del 1996; ordinanza n. 332 del 1996), giacché tendono a reintrodurre figure di reato, chiedendo una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, in quanto il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene è esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalità dei reati e delle pene, sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione (tra le molte, da ultimo, sentenza n. 411 del 1995 e, nella materia della tutela delle acque dall'inquinamento idrico, sentenze nn. 314 e 226 del 1983; ordinanze nn. 132 e 25 del 1995);
che, in ogni caso, per i vizi denunciati con riferimento alla
mancanza dei presupposti straordinari di necessità ed urgenza, oggetto del
giudizio di legittimità costituzionale è il decreto-legge n. 79 del 1995, per
il quale, a prescindere da ogni valutazione relativa all'avvenuta conversione
in legge, va rilevato che
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 6 del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, dell'art. 1 della legge 17 maggio 1995, n. 172 e dell'art. 21, quinto comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 9, secondo comma, 10, 25, secondo comma, 32, 41 e 77 della Costituzione, dai Giudici per le indagini preliminari presso le Preture circondariali di Udine e di Prato e dal Pretore di Pisa, sezione distaccata di San Miniato, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1996.
composta dai signori: Presidente: dott. Renato GRANATA; Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
ha pronunciato la seguente
Ordinanza
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 6, comma 2, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, promosso con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Franco Carraro ed altri, iscritta al n. 1182 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di costituzione dell'Associazione italiana per il WWF (World Wildlife Fund) nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 1997 il giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 3 febbraio 1996 nel corso di un procedimento penale promosso per violazione delle norme per la tutela delle acque dall'inquinamento (art. 21, primo e terzo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319), il pretore di Roma ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 9, secondo comma, 10, 25, 41 e 77 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 6, comma 2, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172;
che il dubbio di legittimità costituzionale investe
specificamente: a) le modifiche che l'art. 3 del decreto-legge. n. 79 del
che, secondo il giudice rimettente, le disposizioni denunciate violerebbero l'art. 3 della Costituzione, determinando una irragionevole disparità di trattamento rispetto a condotte meno gravi, che continuerebbero ad essere sanzionate penalmente, mentre l'illecito scarico da pubblica fognatura non autorizzato o che supera i limiti di tollerabilità, da considerare condotta più grave, sarebbe punito con la sola sanzione amministrativa; inoltre le stesse disposizioni sarebbero in contrasto con la tutela del paesaggio e con il diritto alla salute, configurato come diritto all'ambiente salubre (artt. 9, secondo comma, e 32 della Costituzione);
che il dubbio di legittimità costituzionale viene prospettato anche in riferimento: all'art. 10 della Costituzione, perché le disposizioni denunciate sarebbero in contrasto con la più rigorosa normativa comunitaria ed in particolare con la direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991; all'art. 41 della Costituzione, giacché sarebbero sottratti a sanzione penale gli scarichi delle pubbliche fognature nelle quali affluiscano scarichi di insediamenti produttivi, con l'effetto di danneggiare, nella libera concorrenza, le imprese con scarichi che non recapitano in pubbliche fognature e che hanno dovuto sostenere investimenti per adeguare gli impianti alla normativa in vigore;
che, infine, in contrasto con gli artt. 25 e 77 della Costituzione, il decreto-legge sarebbe stato emanato senza i necessari requisiti di necessità ed urgenza, da considerare ancor più indispensabili nella materia penale, per la quale l'uso del decreto-legge dovrebbe essere del tutto eccezionale, ad evitare il rischio di sottrarre al Parlamento la funzione che gli è propria e che sostanzia la riserva di legge in tale materia;
che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità della questione;
che si è costituita l'Associazione italiana per il WWF (World Wildlife Fund), parte civile nel processo principale, chiedendo che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme denunciate.
Considerato che il dubbio di legittimità costituzionale, prospettato in riferimento a vari parametri, si riferisce alla disciplina delle sanzioni, amministrative anziché penali, per gli scarichi (senza autorizzazione o con superamento dei limiti di accettabilità) provenienti da insediamenti civili o da pubbliche fognature; disciplina differenziata rispetto a quella prevista per gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi;
che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di rimessione, un'identica questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile (sentenza n. 330 del 1996) e manifestamente inammissibile (ordinanze nn. 332 e 432 del 1996), essendo diretta a reintrodurre figure di reato, mediante una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, in quanto il principio di stretta legalità dei reati e delle pene (art. 25, secondo comma, della Costituzione) riserva esclusivamente al legislatore la definizione delle fattispecie penali e l'aggravamento delle pene;
che si è già ritenuto, con la sentenza n. 330 del 1996 e con
l'ordinanza n. 432 del 1996, che, nel caso del decreto-legge n. 79 del
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 6, comma 2, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 9, secondo comma, 10, 25, 41 e 77 della Costituzione, dal pretore di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1997.
Massima n. 24307
Non
sono fondate, in riferimento all'art. 77 Cost. - in relazione agli artt. 117 e
118 Cost. - agli artt. 4, n. 2, e 8 dello Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia e agli artt. 8, n. 21, e 16 dello Statuto speciale della
Regione Trentino-Alto Adige - le questioni di legittimità costituzionale
sollevate, dalle Regioni Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia,
Emilia-Romagna, Liguria e Molise e dalla Provincia autonoma di Bolzano, in
materia di attuazione del regime comunitario di produzione lattiera, nei
confronti dei decreti-legge 15 marzo 1996, n. 124, 16 maggio 1996, n. 260, 8
luglio 1996, n. 353, 8 agosto 1996, n. 440, 6 settembre 1996, n. 463, 23
ottobre 1996, n. 542, e 23 ottobre 1996, n. 552, nonche' nei confronti delle
leggi 23 dicembre 1996, n. 649 e 20 dicembre 1996, n. 642. Riguardo al profilo
relativo alla pretesa carenza dei presupposti di necessità ed urgenza dei
decreti-legge, ribadito che tale carenza - non potendo il sindacato di legittimità
della Corte sovrapporsi alla valutazione di opportunita' politica riservata al
Parlamento - puo' risolversi in un vizio dell'atto rilevabile in questa sede,
solo quando appaia chiara e manifesta, deve riconoscersi che i limiti posti in
sede comunitaria ai quantitativi nazionali di produzione lattiera e l'esigenza
di introdurre misure intese al contenimento di questa, rendono non
manifestamente implausibile la valutazione governativa posta nel caso a base
del ricorso alla decretazione d'urgenza. Mentre, per quanto attiene al profilo
relativo alla reiterazione dei decreti non convertiti, va rilevato che il vizio
di reiterazione - come
composta dai signori: Presidente: dott. Renato GRANATA; Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale dei decreti-legge 15 marzo 1996, n. 124, e 16 maggio 1996, n. 260 (Regime comunitario di produzione lattiera); degli artt. 2 e 3 dei decreti-legge 8 luglio 1996, n. 353, 6 settembre 1996, n. 463, 23 ottobre 1996, n. 552 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996) e dell'art. 1, commi 1, 3 e 5, della legge 23 dicembre 1996, n. 642 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, concernente interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996); dell'art. 11 dei decreti-legge 8 agosto 1996, n. 440, e 23 ottobre 1996, n. 542 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale) e dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge 23 dicembre 1996, n. 649 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 542, recante differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale); dell'art. 2, commi 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173 e 174, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ricorsi della Regione Lombardia notificati il 15 aprile, il 15 giugno e il 31 luglio 1996, il 20 gennaio (n. 2 ricorsi) e 27 gennaio 1997, depositati il 22 aprile, il 21 giugno e il 9 agosto 1996, il 29 gennaio e il 3 febbraio 1997, rispettivamente iscritti ai nn. 18, 27 e 32 del registro ricorsi 1996 ed ai nn. 12, 14 e 20 del registro ricorsi 1997; della Regione Veneto notificati il 15 aprile, il 15 giugno, il 2 agosto, il 25 settembre, il 7 ottobre e il 21 novembre 1996, il 20 gennaio (n. 2 ricorsi) e 27 gennaio 1997, depositati il 22 aprile, il 21 giugno, il 9 agosto, il 2 e il 14 ottobre e il 27 novembre 1996, il 29 gennaio e il 3 febbraio 1997, rispettivamente iscritti ai nn. 19, 28, 33, 38, 41 e 47 del registro ricorsi 1996 ed ai nn. 13, 15 e 21 del registro ricorsi 1997; della Regione Friuli Venezia Giulia notificati il 14 giugno, il 4 ottobre e il 21 novembre (n. 2 ricorsi) 1996, il 18 gennaio (n. 2 ricorsi) e il 24 gennaio 1997, depositati il 17 giugno, l'8 ottobre e il 25 novembre 1996, il 24 e il 29 gennaio 1997, rispettivamente iscritti ai nn. 25, 40, 45 e 46 del registro ricorsi 1996 ed ai nn. 3, 4 ed 8 del registro ricorsi 1997; della Regione Emilia Romagna notificato il 6 agosto 1996, depositato il 14 successivo ed iscritto al n. 34 del registro ricorsi 1996; della Regione Lazio, notificato il 25 settembre 1996, depositato il 1 ottobre 1996 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 1996; della Regione Basilicata, notificati il 23 settembre e il 21 novembre 1996, depositati il 2 ottobre e il 28 novembre 1996, iscritti ai nn. 39 e 48 del registro ricorsi 1996; della Regione Molise notificato il 15 ottobre 1996, depositato il 23 successivo ed iscritto al n. 42 del registro ricorsi 1996; della Regione Liguria notificato il 22 novembre 1996, depositato il 2 dicembre 1996 ed iscritto al n. 49 del registro ricorsi 1996; della provincia autonoma di Bolzano notificati il 20, il 22 ed il 27 gennaio 1997, depositati il 29 successivo ed iscritti ai nn. 9, 10 e 11 del registro ricorsi 1997.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella udienza pubblica del 10 novembre 1998 il giudice relatore Carlo Mezzanotte;
Uditi gli avvocati Massimo Luciani per le Regioni Veneto e Lombardia, Renato Fusco per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Salvatore Di Mattia per la Regione Emilia-Romagna, Roland Riz e Sergio Panunzio per la provincia autonoma di Bolzano, Achille Chiappetti per la Regione Lazio e l'Avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Le Regioni Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Lazio, Molise e Basilicata, e la Provincia autonoma di Bolzano sollevano numerose questioni di legittimità costituzionale in ordine alla normativa concernente il regime delle quote latte contenuta nei decreti-legge 15 marzo 1996, n. 124 (Regime comunitario di produzione lattiera), 16 maggio 1996, n. 260 (Regime comunitario di produzione lattiera), 8 luglio 1996, n. 353 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), 8 agosto 1996, n. 440 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale), 6 settembre 1996, n. 463 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per 1996), nessuno dei quali convertito in legge, e nei decreti-legge 23 ottobre 1996, n. 542 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale) e 23 ottobre 1996, n. 552 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), convertiti rispettivamente dalle leggi 23 dicembre 1996, n. 649, e 20 dicembre 1996, n. 642, che dispongono anche la sanatoria degli effetti dei decreti non convertiti, e nella legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). I ricorsi investono in particolare le disposizioni dei decreti-legge, delle leggi di conversione e della legge n. 662 del 1996, oltre che per profili formali, dei quali subito si dirà, per il loro contenuto precettivo sui seguenti aspetti della complessa materia: la formazione dei bollettini dell'Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo (AIMA) concernenti la determinazione annuale della quota latte spettante a ciascun produttore e il regime delle impugnazioni degli stessi bollettini; il sistema e il procedimento di compensazione della produzione eccedentaria di latte; il programma di abbandono della produzione lattiera e la conseguente riassegnazione delle quote latte liberate; l'affitto e la vendita delle quote latte. Poiché i ricorsi hanno tutti ad oggetto l'identica materia delle quote latte, essi possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. - Tutte le ricorrenti censurano la normativa posta dai citati atti legislativi sul presupposto che essi vertano su materia di competenza regionale e provinciale; deve essere, pertanto, esaminata preliminarmente l'eccezione dell'Avvocatura dello Stato secondo la quale le misure statali sulle quote latte non atterrebbero a materia di competenza regionale e provinciale, ma costituirebbero un intervento di regolamentazione del mercato agricolo, riservato allo Stato ai sensi dell'art. 71, lettera b), del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (e oggi dell'art. 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143). L'eccezione deve essere respinta. È infatti ormai acquisito alla giurisprudenza di questa Corte che il comparto della produzione lattiera e delle strutture produttive intese in senso lato assume un rilievo distinto ed autonomo rispetto alla regolazione dei prezzi e dei mercati, sicché il nesso strumentale tra l'agricoltura, che è l'oggetto specifico delle misure in questione, e la politica del mercato agricolo non può giustificare l'attrazione della prima nell'ambito della seconda, poiché diversamente la competenza regionale verrebbe integralmente sacrificata in materia di agricoltura, posto che ogni attività agricola può sempre essere strumentale al mercato (sentenza n. 304 del 1987). Del resto, è proprio sulla base di questa premessa, con la quale si è rifiutata una configurazione in chiave squisitamente finalistica del riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni, che questa Corte, con la sentenza n. 520 del 1995, ha scrutinato nel merito le questioni sollevate in un giudizio in via principale sulla normativa concernente la riduzione delle quote latte, accogliendo in parte la prospettazione delle Regioni ricorrenti che ritenevano negativamente incisa la propria competenza costituzionale in materia di agricoltura.
3. - Ribadito dunque che si versa in materia di agricoltura e non di regolazione dei mercati, vanno esaminate, ancora in via preliminare, le censure che investono aspetti formali degli atti impugnati. A seguito della entrata in vigore del d.-l. n. 411 del 1997 (Misure urgenti per gli accertamenti in materia di produzione lattiera), convertito dalla legge n. 5 del 1998, che ha disposto nuovi interventi sulle quote latte, si è determinata solo in parte infatti, come si vedrà fra breve, la cessazione della materia del contendere, sicché le censure delle ricorrenti che investono gli atti in relazione alla loro formazione, devono essere esaminate per prime indipendentemente dal contenuto degli atti medesimi. Viene in primo luogo in considerazione la denunciata violazione dell'art. 77 della Costituzione, sotto il duplice profilo della carenza dei presupposti di necessità ed urgenza dei decreti-legge, e della reiterazione dei decreti non convertiti. Questa Corte ha affermato che la mancanza dei presupposti della decretazione d'urgenza può risolversi in vizio dell'atto, rilevabile in sede di giudizio di legittimità costituzionale, solo quando essa appaia chiara e manifesta perché solo in questo caso il sindacato di legittimità della Corte non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunità politica riservata al Parlamento (v. sentenze nn. 330 del 1996, 391, 161 e 29 del 1995; ordinanze nn. 90 del 1997 e 432 del 1996). Non è questo il caso dell'intervento straordinario operato dal Governo in materia di quote latte con i decreti-legge impugnati. I limiti posti in sede comunitaria ai quantitativi nazionali di produzione lattiera e l'esigenza di introdurre misure intese al contenimento di questa rendono non manifestamente implausibile la valutazione governativa, posta a base degli interventi, in ordine al ricorso alla decretazione d'urgenza. Non fondate sono anche le numerose censure rivolte contro la reiterazione dei decreti-legge. Questa Corte deve ribadire sul punto quanto affermato nella recente sentenza n. 360 del 1996: il vizio di reiterazione può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione, abbiano assunto come propri i contenuti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d'urgenza. Nel caso, i decreti-legge nn. 542 e 552, gli ultimi della doppia serie di decreti-legge reiterati, che ha inizio con i decreti nn. 124 del 1996 e 440 del 1996, sono stati convertiti rispettivamente dalle leggi 23 dicembre 1996, n. 649 e 20 dicembre 1996, n. 642, le quali contengono anche clausole di salvezza degli effetti prodotti dai precedenti decreti non convertiti.
4. - Sempre in via preliminare vanno dichiarate inammissibili le questioni prospettate dalle Regioni Lombardia e Veneto contro l'art. 2, commi 166-174, della legge n. 662 del 1996, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 72 della Costituzione, in relazione agli artt. 117 e 118. Gli anzidetti parametri sono invocati dalle Regioni per il fatto che, a seguito della questione di fiducia posta dal Governo sull'art. 2 della citata legge, si è proceduto con votazione unica sulla molteplicità di commi che tale articolo conteneva. Ne sarebbe derivato un rispetto soltanto formale della regola secondo la quale le leggi vanno approvate articolo per articolo, ma una sostanziale vulnerazione del principio di ragionevolezza nella attività legislativa, di conoscibilità delle leggi e di tutela della libertà e della dignità della persona umana. Ma il diritto di ricorrere contro le leggi dello Stato è dato alle Regioni e alle Province autonome a garanzia dell'integrità della propria competenza e della propria posizione di autonomia costituzionale. Ne discende che pretesi vizi delle leggi statali possono essere denunciati con il ricorso in via principale solo quando essi si risolvano in violazione o menomazione delle competenze, sia pure sotto il profilo del mancato esperimento delle procedure di coordinamento partecipativo che sono richieste nelle ipotesi di interferenza strutturale tra competenza statale e competenze regionali, quando cioè in una stessa materia si intersecano competenze diverse ovvero quando alla materia di competenza regionale o provinciale siano inestricabilmente connessi profili che attengono a interessi unitari che giustificano l'intervento statale. Con riferimento al caso in esame, essendo stato denunciato un vizio di formazione della legge statale per assunta violazione dell'art. 72 della Costituzione, non è chiaro nella prospettazione delle ricorrenti in qual modo tale vizio si risolverebbe in invasione o menomazione della competenza regionale. Non potrebbe certo affermarsi che la lesione della competenza consegua alla non chiarezza o alla più difficoltosa conoscibilità della legge. Le Regioni, peraltro dotate di apparati istituzionalmente preposti all'esame, anche sotto il profilo tecnico, della produzione legislativa dello Stato, non possono allegare la non conoscenza delle leggi statali, né invocare i parametri dai quali la Corte costituzionale, nella sentenza n. 364 del 1988, ebbe a desumere il principio secondo il quale solo leggi conoscibili possono essere osservate e rispettate.
5. - In via preliminare deve, infine, essere dichiarata non fondata la specifica censura prospettata dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, le quali denunciano la violazione delle disposizioni statutarie e di attuazione (art. 44 dello statuto per il Friuli-Venezia Giulia e art. 52, quarto comma, dello statuto per il Trentino-Alto Adige, attuato dall'art. 19, secondo comma, del d.P.R. n. 49 del 1973), in base alle quali il presidente della Giunta regionale ed il presidente della Giunta provinciale avrebbero dovuto partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri nelle quali sono stati approvati gli atti impugnati. La consolidata giurisprudenza di questa Corte è nel senso che la partecipazione dei presidenti alle sedute del Consiglio dei ministri è richiesta solo nel caso in cui sia ravvisabile un interesse differenziato e cioè proprio e peculiare della Regione o della Provincia autonoma (sentenze nn. 191 e 37 del 1991; 381, 343 e 224 del 1990). La riduzione dei quantitativi di riferimento individuali di latte e il regime delle impugnazioni, l'eliminazione del sistema di compensazione per associazioni di produttori (APL), la predisposizione di un piano di abbandono della produzione lattiera e la disciplina degli affitti e della vendita delle quote latte non possono non avere applicazione generale e non possono non operare indistintamente nei confronti di tutte le Regioni e delle Province autonome, sicché nessuna di loro si trova in una posizione differenziata rispetto alle altre.
6. - Si può ora passare all'esame delle censure di merito svolte dalle ricorrenti. In ordine al primo degli oggetti enumerati al punto 1 (formazione dei bollettini), vengono in considerazione i ricorsi proposti dalla Regione Lombardia e dalla Regione Veneto nei confronti dell'art. 1 del d.-l. 15 marzo 1996, n. 124, dalle medesime Regioni e dalla Regione Friuli-Venezia Giulia avverso l'art. 1 del d.-l. 16 maggio 1996, n. 260, dalle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna nei confronti dell'art. 2 del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto avverso l'art. 2 del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463 e l'art. 2 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti della legge 20 dicembre 1996, n. 642, di conversione, con modificazioni, del d.-l. n. 552 del 1996 e, in particolare, della clausola di salvezza degli effetti dei citati decreti-legge non convertiti in essa contenuta, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti, infine, del comma 171 dell'art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Oggetto delle censure sono: la previsione che l'AIMA pubblichi appositi bollettini di aggiornamento degli elenchi dei produttori di latte titolari di quota e dei quantitativi ad essi spettanti nel periodo di applicazione del regime comunitario delle quote latte 1995-1996; la previsione che tali bollettini costituiscano accertamento definitivo delle posizioni individuali e che sostituiscano ad ogni effetto i bollettini pubblicati precedentemente dall'AIMA per il periodo citato; la sospensione, prima, e l'abrogazione, poi, del regime dell'autocertificazione da parte dei produttori dei quantitativi di latte nelle ipotesi di contenzioso e nelle more dell'accertamento definitivo delle posizioni individuali; la previsione che i ricorsi avverso le determinazioni dei bollettini debbano essere proposti entro soli quindici giorni dalla loro pubblicazione e che la mancata pronuncia dell'AIMA nel termine di trenta giorni equivalga a reiezione delle impugnazioni. Le censure mosse dalle ricorrenti alla richiamata normativa si possono suddividere, pur nella varietà delle argomentazioni addotte, in due principali filoni. In primo luogo, invocando la sentenza n. 520 del 1995, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge n. 46 del 1995 di conversione del d.-l. n. 727 del 1994 (Norme per l'avvio degli interventi programmati in agricoltura e per il rientro della produzione lattiera nella quota comunitaria), nella parte in cui non prevedeva il parere delle Regioni nel procedimento di riduzione delle quote spettanti ai produttori di latte bovino, tutte le ricorrenti lamentano la mancata partecipazione alla formazione degli atti impugnati e l'assenza di qualsiasi forma di partecipazione regionale e provinciale nell'espletamento delle funzioni amministrative in materia di quote latte, affidate dalla normativa in questione allo Stato e, in particolare, all'AIMA. In ciò le Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano ravvisano la violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, del principio di leale cooperazione, degli artt. 4, numero 2, e 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, degli artt. 8, numero 21, e 16 dello statuto della Regione Trentino Alto Adige e delle relative norme di attuazione. Il secondo filone di censure si appunta, invece, sulla retroattività della disciplina dell'aggiornamento del bollettino ad opera dell'AIMA, che, pur essendo stata introdotta la prima volta il 15 marzo 1996, si applica alla campagna lattiero-casearia 1995-1996, la quale, anche in base alla normativa comunitaria, ha inizio il 1 aprile e termina il 31 marzo dell'anno successivo. Ne conseguirebbe la violazione delle competenze delle ricorrenti in materia di agricoltura stabilite nella Costituzione e negli statuti speciali, nonché la violazione dei principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto, operanti anche in ambito comunitario. La determinazione retroattiva delle quote latte, con riferimento ad una campagna già conclusa, comprimerebbe gli interessi dei produttori e impedirebbe alle Regioni ogni possibilità di governo del settore ed ogni funzione programmatoria. Censure analoghe sono indirizzate contro la disciplina dei ricorsi in opposizione. Subordinare il diritto dei produttori di agire in giudizio alla previa proposizione di un ricorso amministrativo, da presentarsi entro termini brevi e inidonei a consentire un efficace esercizio del diritto di difesa, significherebbe, ad avviso delle ricorrenti, creare in un settore di competenza regionale e provinciale una conflittualità talmente estesa da rendere impossibile o estremamente arduo l'esercizio delle funzioni di governo da parte delle Regioni e delle Province autonome. Ciò tanto più in quanto la sospensione, prima, e l'abrogazione, poi, della autocertificazione da parte dei produttori dei quantitativi di latte prodotti impedirebbe loro, fino al termine dei giudizi sulle impugnazioni, di riscuotere il credito che eventualmente avessero maturato, essendo gli acquirenti tenuti a considerare, ai fini della trattenuta del prelievo supplementare dovuto, per il periodo 1995-1996, esclusivamente le quote risultanti dai nuovi bollettini individuali. Un particolare profilo di censura nei confronti della disciplina in esame è dedotto dalle Regioni Lombardia e Veneto, le quali lamentano la violazione degli artt. 11, 5, 117 e 118 della Costituzione, in quanto risulterebbero favorite le Regioni nelle quali sono stati attuati i piani di sviluppo della produzione, di cui all'art. 2, comma 2-bis della legge n. 46 del 1995 di conversione del d.-l. n. 727 del 1994, che consentirebbero la produzione lattiera nella quantità in essi stabilita, malgrado la necessità, resa nota, di ridurre la produzione stessa.
7. - Con riferimento alla complessiva disciplina dei bollettini e alle questioni ad essa inerenti va dichiarata la cessazione della materia del contendere in applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale la sostituzione, con effetto retroattivo, di disposizioni di una legge statale che avevano formato oggetto di ricorso in via principale determina il venir meno dell'oggetto stesso del giudizio e, quindi, la cessazione della materia del contendere (v., da ultimo, sentenza n. 84 del 1998). Tale orientamento deve essere ribadito soprattutto quando la nuova disciplina, come è avvenuto nel caso in esame, introduca modificazioni non meramente formali. La disciplina censurata con i ricorsi delle Regioni sopra richiamate e della Provincia autonoma di Bolzano non è più vigente, in parte qua essendo stata sostituita, retroattivamente, dall'art. 2 del d.-l. 1 dicembre 1997, n. 411, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 gennaio 1998, n. 5. La nuova regolamentazione prevede infatti che l'AIMA debba determinare gli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato nei periodi 1995-1996 e 1996-1997, sulla base: della relazione della commissione governativa di indagine, istituita dal d.-l. 30 gennaio 1997, n. 11 (Misure straordinarie per la crisi del settore lattiero-caseario ed altri interventi urgenti a favore dell'agricoltura), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 1997, n. 81; delle risultanze della rilevazione straordinaria dei capi bovini da latte effettuata ai sensi del d.-l. 19 maggio 1997, n. 130 (Disposizioni urgenti per prevenire e fronteggiare gli incendi boschivi sul territorio nazionale, nonché interventi in materia di protezione civile, ambiente e agricoltura), convertito, con modificazioni, dalla legge 16 luglio 1997, n. 228; delle dichiarazioni di contestazione di cui al decreto del Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali 15 maggio 1997; dei controlli effettuati e già comunicati dalle Regioni e dalle Province autonome; degli altri elementi in suo possesso e dell'attività del Comitato di coordinamento delle iniziative in materia di gestione delle quote latte di cui al decreto del Ministro per le politiche agricole del 16 dicembre 1997, nonché dei modelli L1 già pervenuti (art. 2, comma 1). Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge, l'AIMA è tenuta a comunicare ai produttori, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, i quantitativi di riferimento individuali assegnati e i quantitativi di latte commercializzato (art. 2, comma 5). Si tratta, come è agevole notare, di una nuova disciplina che sostituisce interamente quella previgente e che, a seguito di una vera e propria rideterminazione delle quote individuali, rimuove, per il periodo 1995-1996, i bollettini adottati sulla base delle disposizioni censurate, i quali non costituiscono più "accertamento definitivo" delle posizioni individuali, poiché, come stabilito dal comma 11 dell'art. 2 del d.-l. in parola, i quantitativi di riferimento di ciascun produttore, ai fini delle operazioni di compensazione e del pagamento del prelievo supplementare, sono ormai quelli che risultano in esito alle procedure appena descritte. Che le innovazioni introdotte sul punto dal d.-l. n. 411 del 1997 non siano di pura forma e che pertanto il decreto stesso non possa essere inteso come diretto a vanificare il diritto delle Regioni e della Provincia autonoma ricorrenti, come da queste affermato, ad ottenere una decisione di questa Corte, appare poi evidente sol che si considerino l'entità delle modificazioni apportate e la novità dei criteri, elencati dalle lettere a)-e) del primo comma e a)-d) del terzo comma dell'art. 2, in base ai quali l'AIMA deve pervenire a un nuovo accertamento dei quantitativi di latte prodotto e aggiornare i quantitativi di riferimento individuali. È cessata la materia del contendere anche in relazione alle censure che investivano la disciplina delle impugnazioni dei produttori avverso il nuovo bollettino AIMA. Le nuove norme, poste dal d.-l. n. 411 del 1997, non prevedono più ricorsi in opposizione rivolti all'AIMA, ma ricorsi di riesame che vanno ora presentati alle Regioni e alle Province autonome e che queste decidono, con provvedimento motivato, previa istruttoria e convocazione del ricorrente in contraddittorio (art. 2, commi 5 e 6). Sono rimaste prive di oggetto anche le censure dirette contro l'intervenuta sospensione, prima, e abrogazione, poi, della disposizione che consentiva in ogni caso di contenzioso e nelle more dell'accertamento definitivo delle quote individuali (art. 2-bis comma 1, del d.-l. n. 727 del 1994, convertito dalla legge n. 46 del 1995) l'autocertificazione dei quantitativi di latte prodotti: infatti, il d.-l. n. 411 stabilisce, retroattivamente, al comma 11 dell'art. 2, che solo in esito alle decisioni dei ricorsi di riesame si perviene all'accertamento definitivo dei quantitativi individuali ai fini del pagamento del prelievo supplementare. Anche in questo caso la normativa sopravvenuta contiene innovazioni non meramente formali e tali da far venire meno l'oggetto del giudizio. La dichiarata cessazione della materia del contendere non pregiudica, ovviamente, sotto nessun profilo, la futura valutazione delle questioni sugli atti legislativi sopravvenuti, se ed in quanto siano stati tempestivamente e ritualmente impugnati.
8. - Sulla disciplina della compensazione delle produzioni eccedentarie di latte vengono in considerazione i ricorsi proposti dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna nei confronti dell'art. 3, commi 1, 2 e 3, del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto nei confronti dell'art. 3, commi 1, 2 e 3, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463 e dell'art. 3, commi 1, 2 e 3, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti della legge 20 dicembre 1996, n. 642, di conversione del d.-l. n. 552 del 1996 e di sanatoria degli effetti prodotti dai precedenti decreti non convertiti, nonché i ricorsi proposti dalle Regioni Lazio, Veneto, Basilicata e Molise nei confronti dell'art. 11 del d.-l. 8 agosto 1996, n. 440, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Basilicata e Liguria nei confronti dell'art. 11 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 542, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti della legge 23 dicembre 1996, n. 649, di conversione del d.-l. n. 542 del 1996 e di sanatoria degli effetti prodotti dal d.-l. n. 440, e dell'art. 2, commi 166-170 e 172, della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Le disposizioni censurate riguardano le procedure e il sistema della compensazione delle produzioni lattiere eccedentarie. Nella loro definitiva formulazione, risultante dall'art. 2, commi 166-170 della legge n. 662 del 1996, sostanzialmente riproduttiva della disciplina contenuta nei decreti-legge e nelle leggi di conversione, e dall'art. 3, comma 2, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, esse stabiliscono le misure di seguito elencate: la cessazione, a decorrere dalla campagna di produzione 1995-1996, della applicazione della procedura di compensazione che le associazioni provinciali dei produttori di latte effettuavano, in base all'art. 5, commi 5-9, della legge n. 468 del 1992; il venir meno della efficacia degli adempimenti già svolti dalle predette associazioni per la citata campagna; l'esclusività delle operazioni di compensazione su base nazionale, all'esito delle quali dovranno essere eseguiti i versamenti e le restituzioni delle somme trattenute dagli acquirenti a titolo di prelievo supplementare; lo svolgimento delle operazioni di compensazione nazionale in base a criteri di priorità delle varie categorie di produttori (nell'ordine: produttori delle zone di montagna; produttori titolari di quota A e di quota B nei confronti dei quali è stata ridotta la quota B, nei limiti del quantitativo ridotto; produttori ubicati nelle zone svantaggiate; produttori titolari esclusivamente della quota A, che hanno superato la propria quota, nel limite del cinque per cento della quota medesima; altri produttori); l'obbligo degli acquirenti che hanno già disposto la restituzione delle somme ai produttori di operare nuove trattenute nei confronti dei produttori interessati, in misura pari all'ammontare delle somme restituite; il versamento, da parte degli acquirenti, limitatamente al periodo 1995-1996, del prelievo supplementare determinato sulla base di appositi elenchi redatti dall'AIMA a seguito delle operazioni di compensazione nazionale e trasmessi alle Regioni e alle Province autonome; l'effettuazione della compensazione nazionale entro il 31 luglio di ciascun anno. Il comma 172 dell'art. 2 della legge n. 662 del 1996 provvedeva, poi, a far salvi gli effetti dei decreti-legge nn. 440, 463, 542 e 552 del 1996 (gli ultimi due convertiti, rispettivamente, dalle leggi nn. 649 e 642 del 1996); ma tale comma è stato soppresso il giorno stesso dell'entrata in vigore della legge che lo conteneva dall'art. 10, comma 9, del d.-l. 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per il 1997), convertito dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30. Quanto al merito di tale disciplina, con lievi differenze nelle argomentazioni, sempre sulla premessa della spettanza alle Regioni e alle Province autonome della competenza in materia, le ricorrenti si dolgono di non essere state consultate, ciò che avrebbe comportato una lesione del principio di leale collaborazione. Esse denunciano altresì la violazione dell'art. 3 della Costituzione, poiché il nuovo sistema di compensazione nazionale si applica retroattivamente alla campagna di produzione lattiera 1995-1996, con conseguente vanificazione, a loro avviso, delle competenze regionali e provinciali già legittimamente esercitate sulla base della previgente normativa; dell'art. 41 della Costituzione, poiché, di fronte ad una disciplina retroattiva in quanto applicabile al 1995-1996, risulterebbero compromessi i piani aziendali e vanificate, conseguentemente, le competenze programmatorie e di controllo spettanti alle Regioni e alle Province autonome; dell'art. 11 della Costituzione, che vincola all'osservanza del diritto comunitario, in primo luogo dei regolamenti, che fissano la campagna di produzione lattiera nel periodo che va dal 1 aprile di ciascun anno al 31 marzo successivo, nonché dei principi della certezza del diritto e dell'affidamento, anch'essi operanti nell'ordinamento comunitario, ai quali conseguirebbe il divieto di interventi normativi retroattivi da parte degli Stati membri. Le censure si estendono alle disposizioni che concorrono a delineare, con efficacia retroattiva, il nuovo procedimento della compensazione nazionale: da quelle che disciplinano i versamenti e le restituzioni delle somme trattenute dagli acquirenti a titolo di prelievo supplementare sulla base della previgente normativa; a quelle che riducono il ruolo delle Regioni e delle Province autonome a semplici destinatarie degli elenchi redatti dall'AIMA a seguito dell'effettuazione della compensazione nazionale; a quelle che obbligano gli acquirenti a versare il prelievo supplementare entro il 31 gennaio 1997; a quelle che individuano i criteri di priorità in sede di compensazione nazionale. Oltre che dei parametri costituzionali dei quali si è detto, la Regione Basilicata prospetta anche la violazione dell'art. 18 della Costituzione, conseguente, a suo avviso, alla soppressione del procedimento di compensazione effettuato all'interno delle associazioni provinciali di produttori; la Regione Lazio prospetta, a sua volta, la violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell'eccesso di potere legislativo, poiché la disciplina impugnata sarebbe tardiva e quindi inefficace rispetto al fine dichiarato di adeguare l'ordinamento interno ai regolamenti comunitari; la Regione Molise prospetta la violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, perché da un lato verrebbe riconosciuta l'impossibilità per gli acquirenti di operare il recupero del prelievo restituito a taluni produttori e dall'altro verrebbe imposto alle Regioni di recuperare coattivamente somme non più in possesso degli acquirenti in quanto questi hanno ottemperato a norme preesistenti. Un'altra censura è proposta poi dalle Regioni Lombardia e Veneto in relazione alla disposizione dell'art. 3 del d.-l. n. 552 del 1996, convertito dalla legge n. 642 del 1996, la quale, prevedendo l'operatività della compensazione nazionale solo "qualora" se ne determinino le condizioni, pur in presenza della contemporanea vigenza dei decreti-legge nn. 440 e 542, con i quali è stata disposta la cessazione della efficacia delle disposizioni che prevedevano la compensazione su base provinciale, aumentando la confusione della disciplina, violerebbe il principio di ragionevolezza e quello di buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione). Un'ulteriore censura è proposta dalla Provincia autonoma di Bolzano, la quale, in relazione all'art. 2, comma 172, della legge n. 662 del 1996, prospetta, sia pure in via ipotetica, la violazione dell'art. 136 della Costituzione, dal momento che l'eventuale accoglimento delle questioni sollevate nei confronti dei decreti-legge e delle leggi di conversione potrebbe risultare limitato dalla clausola di salvezza degli effetti prodotti dai medesimi decreti-legge contenuta, appunto, nel comma 172. La Regione Friuli-Venezia Giulia, infine, censura la sostanziale riproduzione di disposizioni già presenti in precedenti decreti-legge impugnati effettuata dall'art. 2, commi 166-170, della legge n. 662 del 1996. Tale tecnica legislativa potrebbe ritenersi volta, ad avviso della Regione, a porre nel nulla i ricorsi sui decreti-legge, in violazione del principio di leale collaborazione e delle norme statutarie attributive della competenza in materia di agricoltura.
9. - Con riferimento a queste censure, nella parte in cui con esse si investe la regolamentazione della compensazione per il periodo 1995-1996, va dichiarata la cessazione della materia del contendere. Infatti l'art. 3 del d.-l. n. 411 del 1997, nel testo risultante dalla legge di conversione, sostituendo interamente e con efficacia retroattiva la disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate, stabilisce che per il solo periodo 1995-1996 l'AIMA, nell'eseguire la rettifica della compensazione nazionale, procede al raffronto tra i dati della compensazione nazionale effettuata ai sensi dell'art. 3 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, e quelli derivanti dalla applicazione, da parte dell'AIMA stessa, delle regole della compensazione precedentemente in vigore, dati determinati sulla base dei risultati degli accertamenti di cui all'art. 2, ai quali si è accennato nel precedente punto 7, ed applica in via perequativa l'importo del prelievo supplementare che risulta meno oneroso per i produttori. Sia nell'ipotesi di compensazione secondo le regole precedenti sia in quella di compensazione nazionale, i dati da assumere a base non sono quelli conseguenti all'applicazione delle disposizioni impugnate, ma quelli nuovi, derivanti dagli accertamenti di cui all'art. 2 del d.-l. n. 411 del 1997, come si evince dall'univoco tenore dell'art. 3 e dell'art. 2, comma 11. La nuova disciplina investe, pertanto, sia la base della compensazione sia i criteri con i quali essa deve essere effettuata. La disciplina in vigore anteriormente a quella censurata era contenuta nell'art. 5, commi 5 e 12, della legge 26 novembre 1992, n. 468 (Misure urgenti nel settore lattiero-caseario). Il comma 5 prevedeva una compensazione per associazioni di produttori e il criterio era quello di compensare su base provinciale le maggiori quantità consegnate dai produttori con le minori, e di imputare il prelievo supplementare proporzionalmente alle quantità eccedenti commercializzate da ciascuno; il comma 12 prevedeva che, qualora si fossero determinate le condizioni per l'applicazione della compensazione nazionale, quando cioè residuassero dopo la compensazione per associazioni provinciali quantità di latte prodotto ancora da compensare, essa sarebbe stata effettuata secondo criteri da stabilirsi dal Ministro dell'agricoltura e delle foreste (oggi Ministro per le politiche agricole), sentite le Regioni. La disciplina precedente a cui si riferisce l'art. 3 del d.-l. n. 411 del 1997, riguarda, ovviamente, anche i regolamenti di cui al d.P.R. 23 dicembre 1993, n. 569, e al decreto ministeriale 27 dicembre 1994, n. 762. La disciplina sopravvenuta, in conclusione, relativamente alla campagna lattiero-casearia 1995-1996, innova retroattivamente e in maniera non puramente formale alle disposizioni impugnate: non può pertanto farsi luogo a una pronuncia diversa dalla cessazione della materia del contendere. Ciò non pregiudica, sotto nessun profilo, la futura valutazione delle questioni sugli atti legislativi sopravvenuti, se ed in quanto siano stati tempestivamente e ritualmente impugnati.
10. - Tuttora vigente e non coinvolto nelle modificazioni legislative sopravvenute è l'art. 2 della legge n. 662 del 23 dicembre 1996, nella parte in cui, riferendosi anche ai periodi successivi al 1995-1996, dispone la cessazione dell'applicazione della compensazione per APL (comma 166), rinnova l'opzione a favore delle procedure di compensazione a livello nazionale (comma 167) e fissa i criteri della compensazione e la gerarchia delle preferenze, disponendo che essa sia effettuata, nell'ordine, in favore dei produttori delle zone di montagna, dei titolari di quota A e di quota B nei confronti dei quali è disposta la riduzione della quota B nei limiti del quantitativo ridotto, in favore dei produttori ubicati nelle zone svantaggiate, dei titolari della quota A che hanno superato la propria quota nei limiti del cinque per cento della quota medesima, di tutti gli altri produttori (comma 168). Vigente altresì, in tema di compensazione, è l'art. 3, comma 2, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, il quale stabilisce, per quanto qui interessa, che la compensazione nazionale deve essere effettuata entro il termine del 31 luglio di ciascun anno e che gli acquirenti debbono comunicare, anche alle Regioni e alle Province autonome ove sono ubicate le aziende dei produttori, una situazione mensile delle consegne di latte. Sulla compensazione per i periodi successivi al 1995-1996, l'applicazione del principio della lex posterior fa di quelle ora citate le disposizioni allo stato scrutinabili. È in primo luogo da escludere che il fine perseguito dal legislatore, nell'inserire nella legge n. 662 del 1996 i commi 167 e seguenti dell'art. 2, fosse quello di privare le Regioni e la Provincia autonoma ricorrenti del diritto di ottenere una decisione nel merito sulle impugnazioni già proposte, come invece sostiene la difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia. Tra le corrispondenti disposizioni dei due precedenti decreti-legge, convertiti rispettivamente dalle leggi n. 642 e n. 649 del 1996, v'era una diversità di formulazione che aveva fatto sorgere, nelle stesse Regioni ricorrenti (segnatamente nelle Regioni Lombardia e Veneto), il dubbio che l'esito finale del sovrapposto legiferare attraverso le due distinte catene di decreti-legge non fosse l'eliminazione delle procedure di compensazione per APL, e che la normativa delle procedure di compensazione fosse rimasta frammentaria e confusa, e per ciò stesso censurabile per violazione del canone della certezza operante nei rapporti tra Stato e Regioni. Sta di fatto che la legge n. 642 del 1996, nel convertire il d.-l. n. 552 del 1996, ne stabilizzava gli effetti anche in relazione al suo art. 3, comma 1, la cui formulazione testuale ("qualora si determinino le condizioni per l'applicazione della compensazione nazionale" ecc.) poteva lasciar adito al dubbio che vi fossero situazioni in cui l'applicazione della compensazione nazionale non potesse aver luogo e che quindi sopravvivesse un qualche ambito di applicazione delle procedure di compensazione per APL, già regolate dall'art. 5 della legge n. 468 del 1992. È vero che la legge di conversione n. 649 del 1996, successiva se pure di soli tre giorni alla precedente, era stata più precisa nel disporre la soppressione della compensazione per APL e la permanenza in vigore delle sole procedure di compensazione a livello nazionale. E tuttavia il continuo avvicendarsi di decreti-legge, che recavano sul punto disposizioni non perfettamente coincidenti e di non univoca interpretazione e di leggi di conversione con formulazioni non omogenee era stato incalzante, sicché, anche in vista di un possibile decorso del termine di conversione del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 542, che conteneva la formulazione più precisa, è parso opportuno al Parlamento acquisire definitivamente, con disposizioni univoche, chiare e svincolate dalle incerte vicissitudini della decretazione d'urgenza, le nuove regole per la compensazione. Queste essendo le motivazioni che hanno indotto a riprodurre nella legge 23 dicembre 1996, n. 662, disposizioni che in parte erano già contenute in altri testi, esse non paiono a questa Corte censurabili: non si dà, infatti, nel caso presente, un'ipotesi in cui la legge riproduttiva non sia sorretta da alcuna riconoscibile ragion d'essere e sia perciò obiettivamente intesa a frustrare la già proposta impugnazione regionale. Ciò premesso, in relazione ai ricorsi aventi ad oggetto la compensazione per i periodi successivi al 1995-1996 contenuta nei decreti-legge, nelle leggi di conversione e nelle disposizioni di sanatoria, ivi compresa quella di cui all'art. 2, comma 172, della legge n. 662 del 1996, peraltro espressamente abrogata dal d.-l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, le sole disposizioni vigenti e scrutinabili essendo quelle contenute nei commi 166, 167 e 168 dell'art. 2 della legge n. 662 del 1996 e quella di cui all'art. 3, comma 2, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642.
11. - Prive di fondamento sono le censure proposte contro l'art. 2, commi 166 e 167 della legge n. 662 del 1996 dalle Regioni Veneto, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, le quali con analoghe formulazioni si dolgono del fatto che per effetto di queste disposizioni sia venuta meno la compensazione per APL, che consentiva un controllo dell'andamento della produzione e di riflesso l'esercizio dei poteri programmatori in una materia di competenza regionale e provinciale, nonché quelle proposte dalle medesime ricorrenti nei confronti dell'art. 3, comma 2, del d.-l. n. 552 del 1996, convertito dalla legge n. 642 dello stesso anno. La soppressione della compensazione per APL è sopravvenuta non come autonoma determinazione del legislatore, ma a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione CEE con parere motivato del 20 maggio 1996, nel quale, rilevato che con tale sistema di compensazione la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi che le incombevano in virtù del regolamento CEE 3950/1992 del Consiglio, la invitava ad adottare le misure necessarie per conformarsi. L'alternativa di fronte alla quale lo Stato italiano si era venuto a trovare a seguito del predetto parere era se mantenere il sistema vigente e contrastare con i mezzi offerti dal diritto comunitario la soluzione interpretativa del regolamento CEE adottata dalla Commissione, affrontando anche l'alea di una eventuale soccombenza, ovvero attenervisi. Pur vertendosi in materia di competenza regionale e provinciale, non può essere negato allo Stato il potere di decidere se e fino a quale punto corrisponda all'interesse nazionale intraprendere o protrarre una controversia in sede comunitaria. Il fatto che la controversia fosse nella specie destinata ad incidere sulla disciplina di una materia di competenza delle Regioni e delle Province autonome comportava indubbiamente che queste dovessero poter disporre di una sede nella quale esternare il proprio punto di vista e sottoporlo alla ponderazione dello Stato; richiedeva, cioè, che lo Stato avviasse adeguate procedure di consultazione. Nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato da alcune delle ricorrenti, tali procedure risultano essere state intraprese: dal verbale della riunione del Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali del 17 luglio del 1996 (acquisito agli atti a seguito dell'ordinanza istruttoria del 16 dicembre 1997) si evince che l'allora Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali ha reso nota ai rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome l'esistenza del parere della Commissione CEE ed ha annunciato l'intendimento governativo di evitare un contenzioso davanti alla Corte di giustizia. Alcuni dei rappresentanti regionali presenti hanno avuto l'opportunità di manifestare il proprio orientamento contrario e di esprimere l'avviso di resistere ai rilievi della Commissione. Dai verbali delle successive riunioni del Comitato risulta poi che il tema è stato ulteriormente dibattuto fra i rappresentanti delle Regioni e il Ministro prima della adozione in via definitiva della disciplina oggetto delle censure in esame. Anche se non vi è stata l'espressione di un vero e proprio parere delle Regioni, non può dirsi, in conclusione, che la consultazione regionale sia affatto mancata. Non si trattava, infatti, in questo caso di elaborazione o di coordinamento delle linee di politica agricola, agroindustriale e forestale, in relazione alla quale la più recente legislazione prevede, in luogo della consultazione prescritta dalla disciplina previgente (art. 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400), un'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome (art. 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143). Si trattava invece della decisione se contrapporsi alle determinazioni degli organi della comunità: una decisione che coinvolge gli indirizzi e la responsabilità dello Stato nella sua unità, in relazione alla quale è sufficiente che le Regioni abbiano avuto una sede di confronto in cui esternare i propri orientamenti affinché anch'essi, insieme alla contestazione avanzata dalla Commissione, si offrissero come base politica della determinazione da assumere.
12. - È fondata, invece, la censura nei confronti del comma 168 dell'art. 2 della legge n. 662 del 1996, proposta dalle Regioni Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, secondo cui l'ordine delle preferenze nell'applicazione della compensazione in sede nazionale è stato unilateralmente fissato dallo Stato senza aver previamente acquisito il parere delle Regioni e delle Province autonome. Che la determinazione dei criteri appartenga allo Stato e non alle Regioni e alle Province autonome non può essere revocato in dubbio e così pure non è dubitabile che spetti allo Stato l'applicazione dei criteri della compensazione. Si tratta di attività che trascendono la sfera delle Regioni e delle Province autonome e che per definizione non possono essere compiute in ambito locale. Nondimeno, poiché ne è coinvolto lo sviluppo della produzione lattiera in zone determinate del territorio a scapito di altre, e di riflesso la programmazione regionale e provinciale, i criteri non avrebbero potuto essere stabiliti se non dopo aver acquisito in maniera formale il parere delle Regioni e delle Province autonome espresso nella sede appropriata, non essendo bastevole una comunicazione del tutto informale al di fuori di un ordine del giorno prestabilito e non seguita da alcuna deliberazione da parte delle Regioni. Al riguardo non è priva di rilievo la circostanza che, per l'ipotesi di compensazione nazionale della produzione di latte, la disciplina previgente prevedeva un procedimento nel quale venivano sentite le Regioni e le Province autonome anche ai fini della determinazione dei criteri. Dai verbali delle riunioni del Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali, non risulta, invece, che sia mai stata sottoposta a deliberazione alcuna ipotesi per quanto concerne i criteri da seguire nella compensazione nazionale: se cioè dovessero essere preferite le zone di montagna rispetto a quelle svantaggiate, quale posto nella graduatoria sarebbe dovuto spettare alle aziende che avessero subito le riduzioni della quota B, ovvero riduzioni della quota A, e quale dovesse essere la collocazione degli altri produttori di latte. Non è stata offerta alle Regioni la possibilità di manifestare il proprio orientamento e di precisare se, in aggiunta o in sostituzione dei criteri enumerati, altri potessero essere individuati. L'innegabile interferenza con i poteri programmatori delle Regioni e delle Province, per il principio di leale cooperazione, postulava un coordinamento con queste almeno nella forma del parere. L'esser tale coordinamento mancato comporta la illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 168, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nella parte in cui stabilisce i criteri in base ai quali deve essere effettuata la compensazione nazionale senza che sia stato previamente acquisito il parere delle Regioni e delle Province autonome.
13. - Non è fondata, invece, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, sollevata dalle Regioni Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano. Tale disposizione introduce il comma 12-bis nell'art. 5 della legge 26 novembre 1992, n. 468, stabilendo, da un lato, che la compensazione nazionale deve essere effettuata dall'AIMA entro il 31 luglio di ciascuno anno e, dall'altro, che gli acquirenti devono trasmettere la situazione mensile delle consegne di latte anche alle Regioni o Province autonome. Non è violata alcuna competenza regionale, men che meno sono compromesse le funzioni di controllo spettanti alla Regioni, poiché, all'evidenza, si tratta di misure che tali funzioni sono dirette a facilitare.
14. - Deve essere ora esaminato quello che si è sopra individuato come terzo oggetto della disciplina impugnata, ovvero la normativa concernente i programmi volontari di abbandono della produzione lattiera. Occorre prendere in considerazione i ricorsi proposti dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna nei confronti dell'art. 3, commi 4 e 5, del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto nei confronti dell'art. 3, commi 4 e 5, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463, dalle Regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia nei confronti dell'art. 3, commi 4 e 5, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, dalle Regioni Veneto, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti della legge 20 dicembre 1996, n. 642, di conversione del d.-l. n. 552 del 1996, la quale ha, tra l'altro, introdotto, nell'art. 3 del decreto-legge, il comma 5-bis. Le disposizioni contenute nei decreti-legge, reiterate in un testo sostanzialmente identico, prevedono l'adozione, da parte dell'AIMA, secondo quanto disposto dall'art. 8 del regolamento CEE n. 3950/1992 del Consiglio del 28 dicembre 1992, di un programma di abbandono totale o parziale della produzione lattiera, previa corresponsione di una indennità a ciascun produttore per la cessione delle quote latte di cui è titolare, destinate a confluire nella riserva nazionale (art. 3, comma 4). L'AIMA provvede, poi, alla riassegnazione di tali quote ai produttori che ne facciano richiesta ad un prezzo pari all'indennità versata, in base ad alcuni criteri di priorità, specificamente determinati, in modo da assicurare che almeno il cinquanta per cento dei quantitativi liberati sia attribuito nella Regione o nella Provincia autonoma di provenienza e che le quote abbandonate dai produttori delle zone di montagna siano attribuite a produttori con azienda ubicata in dette zone (art. 3, comma 5). La disciplina della riassegnazione è stata modificata dalla legge di conversione del d.-l. n. 552 del 1996, la quale, da un lato, ha modificato il comma 5 dell'art. 3, prevedendo che i quantitativi liberati siano totalmente riattribuiti nella Regione o nella Provincia autonoma di provenienza e, dall'altro, ha introdotto il comma 5-bis il quale dispone che la riassegnazione delle quote è effettuata dall'AIMA nelle Regioni o nelle Province autonome di provenienza, prevedendo un periodo non inferiore a tre mesi per la presentazione delle domande; nel caso in cui in tali Regioni o Province autonome non vengano presentate domande, o ne vengano presentate per un ammontare inferiore alle disponibilità, l'AIMA provvede ad attribuire le quote non assegnate su base nazionale. Le sostanziali innovazioni introdotte dalla legge n. 642 del 1996 impongono di ritenere scrutinabili nel merito le sole questioni sollevate nei confronti del d.-l. n. 552 del 1996, quale risultante dalla legge di conversione, e di dichiarare cessata la materia del contendere in relazione alle questioni che hanno ad oggetto i decreti-legge nn. 353 e 463 del 1996, non convertiti, i cui effetti, in parte qua pur fatti salvi dall'art. 1, comma 5, della legge di conversione n. 642 del 1996, non si sono mai prodotti, essendo stato il programma di abbandono finanziato soltanto con deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) del 21 marzo 1997, e poi, come subito si dirà, sospeso fino a future determinazioni ministeriali. Le Regioni Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia e la Provincia autonoma di Bolzano deducono, in relazione alle disposizioni ora citate, la violazione delle competenze loro spettanti in materia di agricoltura in base alla Costituzione e agli statuti speciali e la violazione del principio di leale collaborazione tra Stato, Regioni e Province autonome, e ciò sotto un duplice profilo: da un lato, perché tali disposizioni sarebbero state adottate senza alcuna preventiva consultazione delle Regioni e delle Province autonome; dall'altro, perché nella individuazione dei criteri e nella concreta gestione dei programmi di abbandono non sarebbe previsto alcun coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome, pur vertendosi in materia di sicura competenza regionale e provinciale.
15. - La disciplina sopravvenuta, contenuta nel d.-l. n. 118 del 1997 (Disposizioni urgenti in materia di quote latte), convertito dalla legge n. 204 del 1997, non ha determinato la cessazione della materia del contendere. Il programma per l'abbandono volontario totale o parziale della produzione lattiera attraverso la cessione a pagamento all'AIMA, da parte degli allevatori che intendano cessare o diminuire la produzione di latte nelle loro aziende, delle relative quote in vista della ridistribuzione allo stesso prezzo da parte dell'AIMA, non è stato eliminato ma soltanto sospeso dall'art. 1-bis della predetta legge di conversione, la quale ha anche disposto che con apposito decreto del Ministro per le politiche agricole, da emanarsi dopo la conclusione delle procedure di revisione dei quantitativi della produzione nazionale di latte commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997 ripartita per singoli produttori, il programma medesimo verrà ripreso. Ciò posto, è fondata la censura avanzata dalle predette ricorrenti nei confronti dell'art. 3, comma 4, del d.-l. n. 552 del 1996, convertito nella legge n. 642 del 1996. Questa disposizione, nella parte in cui disciplina un programma di volontario abbandono, totale o parziale, della produzione lattiera adottato dall'AIMA senza neppure prevedere che in relazione ad esso lo Stato acquisisca il parere delle Regioni e delle Province autonome, viola le competenze regionali e provinciali in materia di programmazione e di sviluppo dell'agricoltura. Dal medesimo vizio è affetto il comma 5-bis secondo periodo, dell'art. 3 dello stesso decreto, introdotto dalla legge di conversione, nella parte in cui stabilisce che, nelle ipotesi in cui nelle Regioni o nelle Province autonome non vengano presentate domande di riassegnazione o vengano presentate per un ammontare inferiore alle disponibilità, l'AIMA provvede ad assegnare le quote non assegnate su base nazionale. Anche in questo caso, la potenziale incidenza sui poteri di programmazione regionale e provinciale della produzione lattiera avrebbe richiesto che lo Stato acquisisse il parere delle Regioni e delle Province autonome in ordine ai criteri con i quali tale assegnazione deve avvenire. Altresì fondate sono le censure che investono il comma 5 e il comma 5-bis primo periodo, del medesimo art. 3, in base ai quali è l'AIMA a provvedere alla riassegnazione delle quote secondo i criteri di priorità ivi elencati. Una volta stabilito, dallo stesso legislatore nazionale, che la riassegnazione delle quote latte liberate avvenga interamente nella Regione o nella Provincia autonoma di provenienza, la previsione che la competenza alla riassegnazione spetti allo Stato, e per esso all'AIMA, anziché alle stesse Regioni o Province autonome, comporta violazione delle competenze regionali e provinciali in materia di agricoltura fissate dagli artt. 117 e 118 della Costituzione e dagli artt. 8, numero 21, e 16 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige e 4, numero 2, e 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia. Nonostante che la materia delle quote latte sia regolata dal diritto comunitario, non vengono qui in considerazione, nella valutazione del medesimo legislatore nazionale, interessi unitari che trascendano l'ambito regionale o provinciale, sicché il riparto di competenze stabilito da norme costituzionali non può essere alterato. Spetta infatti alle Regioni e alle Province autonome dare attuazione ai regolamenti comunitari attraverso misure che per i loro effetti non eccedano l'ambito locale. Anche i criteri sulla base dei quali le riassegnazioni devono essere effettuate in ambito regionale e provinciale non possono essere stabiliti dalla legge statale, ma devono essere fissati dalle medesime Regioni e dalle Province autonome nel rispetto dei regolamenti comunitari e dei limiti costituzionali o statutari per esse rispettivamente previsti. È infatti proprio nella possibilità di determinare tali criteri che si compendia la scelta politica connessa alla posizione che la Costituzione e gli statuti garantiscono alle Regioni e alle Province autonome.
16. - In relazione alla disciplina delle vendite e dell'affitto delle quote latte, vengono, infine, in considerazione i ricorsi proposti dalle Regioni Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti dell'art. 2, commi 173 e 174, della legge n. 662 del 1996, che hanno rispettivamente sostituito il comma 6 dell'art. 10 della legge n. 468 del 1992 e stabilito che a decorrere dal periodo 1996-1997 l'acquisto di una quota-latte da parte di un produttore non comporta alcuna riduzione delle quote che precedentemente gli spettavano. Contro queste disposizioni le ricorrenti denunciano la lesione delle competenze ad esse spettanti in materia di agricoltura in base agli artt. 117 e 118 della Costituzione e alle corrispondenti disposizioni dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, nonché la violazione del principio di leale collaborazione. Prima della modificazione introdotta dal comma 173, la cessione o l'affitto delle quote latte - che, ricorrendo determinate condizioni, sono validi anche se con essi non viene alienata o concessa in affitto l'azienda agricola - potevano essere effettuati fino al 30 novembre di ciascun anno ed avevano efficacia a partire dal periodo lattiero successivo. La nuova disposizione ha spostato il termine di efficacia della vendita (così ora qualificata) o dell'affitto al 31 dicembre ed ha stabilito che, limitatamente al periodo 1996-1997, le parti possono concordare, dandone comunicazione alle Regioni e alle Province autonome sino al 15 gennaio 1997, che le vendite e gli affitti stipulati entro il 31 dicembre 1996 abbiano effetto anche nel periodo medesimo. Le censure svolte dalle ricorrenti nei confronti del comma 173 sono fondate nella parte in cui con esse si lamenta la violazione del principio di leale collaborazione, poiché la modificazione è stata introdotta senza che siano state ascoltate le Regioni e le Province autonome. Nella disciplina, di derivazione comunitaria, della cessione delle quote latte, funzioni squisitamente statali interferiscono con altre che spettano alle Regioni e alle Province autonome. La competenza dello Stato comprende aspetti della disciplina che direttamente o indirettamente investono istituti del diritto privato. E così la decisione se introdurre un regime di cedibilità della quota, che il regolamento CEE 3950/1992 del Consiglio all'art. 6, paragrafo 2, demanda a ciascuno Stato membro, è destinata ad incidere sul sistema dei rapporti tra privati imprenditori e sul regime giuridico dei beni aziendali (a partire dalla stessa possibilità di concepire la quota latte come una sorta di bene immateriale suscettibile di costituire l'oggetto di negozi di trasferimento separatamente dal complesso aziendale al quale inerisce); essa postula pertanto una regolamentazione uniforme sul territorio nazionale che è escluso possa essere elaborata in ambito regionale e provinciale. Per le medesime ragioni appartiene allo Stato la definizione legislativa dei tipi di contratto da ricomprendere nella generica formulazione di "cessione" che compare nella norma comunitaria, così come allo Stato compete la determinazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di validità della cessione, delle condizioni della sua efficacia o delle forme e dei tempi nei quali è consentita. E tuttavia, nel riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni e Province autonome, come attuato dalla legge n. 468 del 1992, le funzioni di controllo relative all'applicazione della normativa comunitaria sulle quote latte, incluse quindi quelle riguardanti il trasferimento e l'affitto delle quote anche separatamente dall'azienda, sono svolte dalle Regioni e dalle Province di Trento e di Bolzano (art. 8). Tali funzioni non possono esaurirsi in un'attività di riscontro cartolare, di tipo burocratico, della regolarità formale dei contratti, ma richiedono l'allestimento di un apparato ispettivo e di controllo adeguato all'attività da compiersi. Questa deve comportare la verifica dell'esistenza in concreto di tutti i requisiti prescritti dall'art. 10, terzo comma, della legge n. 468, quali, ad esempio, che il produttore cedente non svolga più, in relazione alle quote cedute, l'attività di produzione; il controllo, destinato a protrarsi nel tempo per risultare effettivo, circa il tipo di utilizzazione prescelto per il bestiame originariamente destinato alla produzione della quota ceduta, o ancora, nel caso di acquisto o affitto di quote aggiuntive a quelle inizialmente disponibili, la verifica che l'azienda agricola dell'acquirente abbia una produzione lattiera non superiore al limite di 30 tonnellate annue per ogni ettaro di superficie agraria utilizzata, esclusa quella destinata a boschi, a frutteti o comunque a colture arboree, nonché l'esistenza dell'ulteriore condizione che, con l'acquisizione delle nuove quote, il predetto limite non venga superato. Se si considera dunque la complessità dei riscontri richiesti e l'entità dei compiti a cui le Regioni e le Province autonome sono chiamate, appare evidente che l'aver spostato il termine di efficacia della cessione fino al limite estremo consentito dal regolamento comunitario ha comportato il restringimento dei tempi utili per lo svolgimento del controllo preventivo e al contempo ha imposto alle Regioni e alle Province autonome oneri organizzativi aggiuntivi e quindi ha inciso, condizionandole, sulle determinazioni che loro competono in ordine all'attività di controllo. Non risponde al principio di leale cooperazione che deve animare i rapporti tra Stato e Regioni e Province autonome l'aver escluso ogni forma di partecipazione regionale e provinciale alla determinazione della disciplina statale, quantomeno nella forma minima del parere. Sotto questo profilo la censura mossa dalle ricorrenti deve essere accolta. Non fondata è, invece, la censura che le medesime ricorrenti muovono all'art. 2, comma 174, della legge n. 662 del 1996. La previsione che per il produttore lattiero l'acquisto di una quota latte non comporta la riduzione della quota originariamente detenuta attiene unicamente agli effetti tipici degli atti negoziali che in nessun modo potrebbero essere inibiti dalle Regioni e dalle Province autonome e che non incidono sulle competenze programmatorie e di controllo delle quali queste ultime sono titolari.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 168, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui stabilisce i criteri in base ai quali deve essere effettuata la compensazione nazionale senza che sia stato previamente acquisito il parere delle Regioni e delle Province autonome;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 4, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, concernente interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), nella parte in cui prevede l'adozione di un piano di abbandono totale o parziale della produzione lattiera senza che su di esso sia stato previamente acquisito il parere delle Regioni e delle Province autonome;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, commi 5 e 5-bis primo periodo, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, nella parte in cui attribuisce all'AIMA anziché alle Regioni e alle Province autonome il compito di provvedere alla riassegnazione, in ambito regionale e provinciale, delle quote latte abbandonate e nella parte in cui stabilisce i criteri in base ai quali la riassegnazione di dette quote deve essere effettuata;
4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5-bis secondo periodo, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, nella parte in cui prevede la riassegnazione su base nazionale delle quote abbandonate e non riassegnate in ambito regionale e provinciale, senza previa consultazione delle Regioni e delle Province autonome;
5) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 173, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nella parte in cui, nel sostituire il comma 6 dell'art. 10 della legge 26 novembre 1992, n. 468 (Misure urgenti nel settore lattiero-caseario), differisce i termini ivi previsti senza la previa acquisizione del parere delle Regioni e delle Province autonome;
6) dichiara non fondate, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, in relazione agli artt. 117 e 118 della Costituzione, agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia e agli artt. 8, n. 21, e 16 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria e Molise e dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti dei decreti-legge 15 marzo 1996, n. 124 (Regime comunitario di produzione lattiera), 16 maggio 1996, n. 260 (Regime comunitario di produzione lattiera), 8 luglio 1996, n. 353 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), 8 agosto 1996, n. 440 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale), 6 settembre 1996, n. 463 (Interventi urgenti nei settori agricoli e fermo biologico della pesca per il 1996), 23 ottobre 1996, n. 542 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale) e 23 ottobre 1996, n. 552, nonché nei confronti delle leggi 23 dicembre 1996, n. 649 (Conversione, con modificazioni, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 542) e 20 dicembre 1996, n. 642, con i ricorsi indicati in epigrafe;
7) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 166-174, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 72 della Costituzione, in relazione agli artt. 117 e 118 della Costituzione, dalle Regioni Lombardia e Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe;
8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei decreti-legge 16 maggio 1996, n. 260, 6 settembre 1996, n. 463, 23 ottobre 1996, n. 542 e 23 ottobre 1996, n. 552, nonché delle leggi 23 dicembre 1996, n. 649, 20 dicembre 1996, n. 642 e 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate dalla Regione Friuli-Venezia Giulia in riferimento all'art. 44 dello statuto speciale, in relazione agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto stesso e dalla Provincia autonoma di Bolzano in riferimento all'art. 52, quarto comma, dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, in relazione agli artt. 8, n. 21, e 16 dello statuto stesso e all'art. 19, secondo comma, del d.P.R. 1 febbraio 1973, n. 49 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige: organi della regione e delle province di Trento e Bolzano e funzioni regionali), con i ricorsi indicati in epigrafe;
9) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.-l. 15 marzo 1996, n. 124, dell'art. 1 del d.-l. 16 maggio 1996, n. 260, dell'art. 2 del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, dell'art. 2 del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463, dell'art. 2 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, della legge 20 dicembre 1996, n. 642, nella parte in cui converte l'art. 2 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, e dell'art. 2, comma 171, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 24, 41, 97, 113, 116, 117 e 118 della Costituzione, nonché in riferimento agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia e 8, n. 21, e 16 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige dalle Regioni Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna e dalla Provincia autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe;
10) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1 e 3, del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, dell'art. 3, commi 1 e 3, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463, dell'art. 3, commi 1 e 3, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, e dell'art. 1, comma 5, di tale legge, nonché dell'art. 11 del d.-l. 8 agosto 1996, n. 440, e dell'art. 11 del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 542, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 dicembre 1996, n. 649, dell'art. 1, comma 2, di tale ultima legge e dell'art. 2, comma 172, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 18, 41, 97, 117, 118 e 136 della Costituzione e agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia e 8, n. 21, e 16 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, dalle Regioni Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Basilicata, Molise e Liguria e dalla Provincia autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe;
11) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 169 e 170, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nonché dei commi 166 e 167 del medesimo art. 2, nella parte in cui si riferiscono alla compensazione della produzione lattiera per il periodo 1995-1996, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 117, e 118 della Costituzione e agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia e 8, numero 21, e 16 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, dalle Regioni Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe;
12) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 166 e 167 dell'art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nella parte in cui si riferiscono alla compensazione della produzione lattiera per i periodi successivi al 1995-1996, sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 3, 11, 41, 97, 117 e 118 della Costituzione, agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia e agli artt. 8, n. 21, e 16 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, nonché per violazione del principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe;
13) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 552, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 642, sollevata, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, agli artt. 4, n. 2, e 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia e agli artt. 8, n. 21, e 16 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, dalle Regioni Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia e dalla Provincia autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe;
14) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 4 e 5, del d.-l. 8 luglio 1996, n. 353, e dell'art. 3, commi 4 e 5, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 463, e dell'art. 1, comma 5, della legge 20 dicembre 1996, n. 642, sollevate, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, 4, n. 2, e 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia e al principio di leale collaborazione, dalle Regioni Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia con i ricorsi indicati in epigrafe;
15) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 174, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevata, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione e agli artt. 8, n. 21, e 16, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, e al principio di leale collaborazione, dalle Regioni Lombardia e Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1998.
Massima n. 26772
Il sindacato sull’esistenza e sull’adeguatezza dei presupposti della decretazione d’urgenza, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, può essere esercitato solo in caso di “evidente mancanza” dei requisiti, sicché il mero fatto che il decreto legge sia stato emanato in collegamento con una manovra di finanza pubblica non è di per sé argomento sufficiente a sostenere il difetto dei presupposti in questione, tanto più nel caso di specie, attesa l’importanza della manovra finanziaria per il 1997, che perseguiva l’obiettivo di adeguare i conti pubblici ai parametri previsti dal Trattato di Maastricht. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera c) del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30, sollevata in riferimento all’art. 77 della Costituzione, nella parte in cui - modificando l’art. 69 del testo unico delle imposte sui redditi - ha eliminato la possibilità di cumulare, per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione, l’ammortamento tecnico previsto dagli artt. 67 e 68 dello stesso testo unico ed un ulteriore ammortamento definito finanziario, stabilendo invece l’alternatività fra le due specie di ammortamento. - Sulla “evidente mancanza” dei requisiti della decretazione d’urgenza, v. sentenza 29/1995, sentenza 161/1995, sentenza 330/1996, sentenza 398/1998, ordinanza 432/1996, ordinanza 90/1997. - Con riferimento alla specifica situazione della manovra finanziaria per il 1997, v. ordinanza 341/2000, sentenza 155/2001.
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera c) e comma 2, del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l'anno 1997), convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30, promosso con ordinanza emessa il 30 ottobre 2000 dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna sul ricorso proposto da SLIM S.p.a. contro la Direzione regionale delle entrate per l'Emilia-Romagna, iscritta al n. 852 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, 1ª serie speciale, dell'anno 2001.
Visti l'atto di costituzione della SLIM S.p.a. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 20 novembre 2001 il giudice relatore Franco Bile;
Uditi l'avvocato Gianni Marongiu per la SLIM S.p.a. e l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - La Commissione tributaria provinciale di Bologna, nel corso di un giudizio concernente il mancato accoglimento dell'istanza di rimborso di somme versate da una società a titolo di I.R.PE.G. ed I.LO.R., ha sollevato - in riferimento agli articoli 77 e 53 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale del comma 1, lettera c) e del comma 2 dell'art. 1 del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l'anno 1997), convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30.
Il comma 1, lettera c), è stato impugnato nella parte in cui - modificando l'art. 69 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) - ha eliminato la possibilità di cumulare, per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione, l'ammortamento tecnico previsto dagli articoli 67 e 68 dello stesso decreto ed un ulteriore ammortamento definito finanziario, stabilendo invece l'alternatività fra le due specie di ammortamento.
Il comma 2 è stato impugnato nella parte in cui prevede che la disposizione appena ricordata si applica "a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 1996" e dispone che, per le imprese che negli esercizi precedenti hanno dedotto quote di ammortamento finanziario in aggiunta a quote di ammortamento tecnico, "si considera già ammortizzato l'ammontare delle quote complessivamente dedotte" e "se tale ammontare supera il costo dei beni l'eccedenza concorre a formare il reddito del predetto periodo di imposta".
La violazione dell'art. 77 della Costituzione è ravvisata sotto il profilo che il decreto legge n. 669 del 1996 - intervenuto su una normativa vigente da tempo, al solo fine di completare la manovra di finanza pubblica per il 1997, come risulta dal suo stesso preambolo - sarebbe stato emanato in difetto del presupposto di costituzionalità costituito dalla straordinaria necessità ed urgenza.
La violazione dell'art. 53 della Costituzione è invece argomentata - sulla premessa della natura retroattiva dell'impugnato art. 1, comma 2 - con il richiamo ai principi affermati da questa Corte, secondo cui la retroattività di una legge incontra il limite dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e deve tener conto della prevedibilità della disciplina che ne deriva. Nella specie, questi principi sarebbero stati violati dalla totale imprevedibilità dell'introduzione dell'alternativa tra ammortamenti finanziari ed ammortamenti tecnici, in sostituzione del precedente regime di cumulo rimasto in vigore per oltre un ventennio, e inoltre dalla lesione dell'affidamento del contribuente nella sicurezza giuridica, per il retroattivo assoggettamento ad imposta di situazioni non ritenute in precedenza espressioni di capacità contributiva, e dall'accentuazione del carico fiscale sulle imprese.
2. - La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la censura di violazione dell'art. 53 della Costituzione riguardi l'art. 1, comma 2, del decreto legge n. 669 del 1996 solo nella parte in cui la norma prevede l'applicabilità del nuovo regime di alternatività fra ammortamenti tecnici e finanziari "a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 1996", e non anche nella rimanente parte secondo cui, ove negli esercizi precedenti siano state calcolate quote di ammortamento tanto finanziario che tecnico, "si considera già ammortizzato l'ammontare delle quote complessivamente dedotte" e "se tale ammontare supera il costo dei beni l'eccedenza concorre a formare il reddito del predetto periodo di imposta".
L'eccezione è infondata. La questione investe la complessiva previsione della norma, come rivela la formulazione della domanda di rimborso proposta nel giudizio a quo, la quale (come riferisce la stessa ordinanza) concerneva non soltanto le somme versate nel 1996 in applicazione della nuova regola dell'alternatività degli ammortamenti, ma anche il versamento della parte di imposta riferita all'inerenza al reddito del 1996 dell'eccedenza derivante dalla precedente deduzione cumulativa.
3. - Entrambe le questioni prospettate dal resistente non sono fondate.
4. - Per quanto concerne la censura di violazione dell'art. 77 Cost., secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il sindacato sull'esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti della necessità e dell'urgenza che legittimano il Governo ad emanare decreti legge, può essere esercitato - a prescindere dai problemi relativi all'identificazione dei suoi limiti - solo in caso di "evidente mancanza" dei requisiti stessi (sentenze n. 29 e n. 161 del 1995, n. 330 del 1996, n. 398 del 1998, nonché ordinanze n. 432 del 1996 e n. 90 del 1997).
In contrasto con tale orientamento, il giudice rimettente ha omesso del tutto di motivare sul punto che, nella specie, i presupposti della decretazione d'urgenza mancano in modo "evidente" e si limita a richiamare, a prova del loro difetto, il collegamento della norma impugnata con la manovra di finanza pubblica per il 1997.
Ma - a parte l'opinabilità della tesi del generale difetto di straordinaria necessità e urgenza da cui sarebbero affetti tutti i decreti legge miranti a completare manovre di finanza pubblica - il carattere straordinario della situazione cui si è riferita la manovra finanziaria disposta alla fine del 1996, per adeguare i conti pubblici ai parametri previsti dal Trattato di Maastricht, è già stato posto in rilievo da questa Corte (ordinanza n. 341 del 2000, sentenza n. 155 del 2001). E, considerata l'importanza di tale adeguamento, non può dirsi che la straordinaria necessità e urgenza richiesta dall'art. 77 della Costituzione manchi in modo evidente, onde la questione è infondata.
5. - La censura di violazione dell'art. 53 della Costituzione è formulata - sul presupposto della pretesa retroattività dell'impugnato art. 1, comma 2, del decreto legge n. 669 del 1996 - sotto il profilo di un assoggettamento a tassazione disposto sulla base di capacità contributiva riferita al passato.
La questione non è fondata, per erroneità del presupposto interpretativo.
L'erroneità riguarda anzitutto il profilo di censura concernente la parte della norma relativa alla decorrenza del regime di alternatività degli ammortamenti dal 1 gennaio 1996: poiché infatti questo regime è intervenuto quando l'anno finanziario 1996 era ancora in corso, ne consegue che il legislatore, disciplinando l'imposizione tributaria per tale anno, ha fatto riferimento ad una capacità contributiva attuale e non passata (ordinanza n. 341 del 2000).
6. - Altrettanto deve dirsi per la parte della norma secondo cui l'eccedenza rispetto al costo dei beni, risultante dall'applicazione del sistema del cumulo delle due tipologie di ammortamento ammesso dal vecchio regime, concorre alla formazione del reddito per il 1996. Neppure questa previsione normativa ha efficacia retroattiva, perché assume come oggetto di imposizione un reddito esistente al momento della propria entrata in vigore.
L'ammortamento finanziario - prima cumulabile con l'ammortamento tecnico, ed oggi alternativo ad esso - è stato sovente considerato come una vera e propria agevolazione tributaria, rivolta non tanto all'effettivo ammortamento di costi relativi a beni oggetto di concessione, quanto piuttosto ad alleggerire il carico fiscale sui concessionari; onde le quote annuali di ammortamento finanziario dedotte nel corso della concessione sono state considerate quote di utili esenti da imposta.
Tale qualificazione dell'ammortamento finanziario era avvalorata, sul piano normativo, dall'art. 69, comma 4, del d.P.R. n. 917 del 1986 (soppresso dall'art. 1, comma 1, lettera c) n. 3 del decreto legge n. 669 del 1996), secondo cui "l'eventuale differenza tra l'ammontare complessivo delle quote di ammortamento finanziario dedotte durante la concessione e il costo non ammortizzato ai sensi degli articoli 67 e 68 concorre a formare il reddito ... nell'esercizio in cui avviene la devoluzione".
Infatti, l'eventualità che, scaduta la concessione, le quote di ammortamento finanziario potessero superare il costo dei beni non ammortizzato con l'ammortamento tecnico, rivela la totale estraneità dell'ammortamento finanziario alle finalità tipiche dell'ammortamento; e, nel contempo, la qualificazione normativa della differenza come reddito discende dal rilievo che, limitatamente ad essa, l'ammortamento finanziario aveva consentito al concessionario di accantonare un utile, e che ad esso potevano attribuirsi i caratteri tipici di sopravvenienza attiva nell'esercizio in cui avveniva la devoluzione.
In questa prospettiva, la differenza tra le quote di ammortamento finanziario accantonate fino al 31 dicembre 1995 e il costo dei beni non ammortizzato con ammortamento tecnico ben poteva, una volta soppressa l'agevolazione a decorrere dall'esercizio 1996, essere considerata dal legislatore come idoneo indice di capacità contributiva per quell'esercizio.
In conseguenza - correlandosi la scelta legislativa ad una capacità contributiva attuale e non passata - deve escludersi che la norma abbia portata retroattiva.
7. - L'ordinanza di rimessione evoca il parametro dell'art. 53 della Costituzione anche sotto il diverso profilo che l'inopinata soppressione del regime del cumulo, risalente nel tempo, e la sua sostituzione con la nuova regola dell'alternatività avrebbero leso l'affidamento dei contribuenti.
Ma questa Corte ha più volte sottolineato come il principio sancito dall'art. 53 della Costituzione abbia un carattere oggettivo, in quanto si riferisce ad indici concretamente rivelatori di ricchezza e non già a stati soggettivi di affidamento del contribuente, se del caso rilevanti ai fini del diverso - ma non richiamato - parametro costituzionale della ragionevolezza (sentenza n. 229 del 1999; in precedenza sentenza n. 143 del 1982 e ordinanza n. 542 del 1987).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera c), e comma 2, del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l'anno 1997), convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna, in riferimento agli articoli 77 e 53 della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2002.
Massima n. 28093
composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 3 luglio 2001, n. 256 (Interventi urgenti nel settore dei trasporti), convertito, in legge 20 agosto 2001, n. 334, promossi con ordinanze del 25 settembre 2002 dal Tribunale di Prato, del 9 ottobre 2002 dal Tribunale di Roma e del 24 settembre 2002 dal Tribunale di Sassari, rispettivamente iscritte al n. 498 del registro ordinanze 2002 ed ai nn. 13 e 43 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2002 e nn. 5 e 7, prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visti gli atti di costituzione di LI VOLSI Salvatore ed altri, Leonardo MURA & C. s.n.c., della AGRIPACKING s.r.l., della DANZAS s.p.a. nonché gli atti di intervento della FITA-CNA ed altra e della Libera Associazione trasportatori, LIAT;
udito nell'udienza pubblica del 14 ottobre 2003 il Giudice relatore Romano Vaccarella;
udito l'avvocato Gabriello GIUBBILEI per LI VOLSI Salvatore ed altri, Leonardo MURA & C. s.n.c.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Prato, in riferimento agli artt. 3, 24, 41, 77, comma secondo, 101 comma secondo, 102 comma primo e 104 della Costituzione; il Tribunale di Roma, in riferimento agli artt. 3 e 77 della Costituzione; il Tribunale di Sassari in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 3 luglio 2001 n. 256 (Interventi urgenti nel settore dei trasporti), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 agosto 2001 n. 334, secondo il quale l'ultimo comma dell'art. 26 della legge 6 giugno 1974 n. 298 (Istituzione dell'albo nazionale degli autotrasportatori di cose per conto di terzi, disciplina degli autotrasporti di cose e istituzioni di un sistema di tariffe a forcella per i trasporti di merci su strada) - come modificato dall'art. 1 del decreto-legge 29 marzo 1993, n. 82 (Misure urgenti per il settore dell'autotrasporto di cose per conto di terzi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 maggio 1993 n. 162 - “si interpreta nel senso che la prevista annotazione sulla copia del contratto di trasporto dei dati relativi agli estremi dell'iscrizione all'albo e dell'autorizzazione al trasporto di cose per conto di terzi possedute dal vettore, nonché la conseguente nullità del contratto privo di tali annotazioni, non comportano l'obbligatorietà della forma scritta del contratto di trasporto previsto dall'art. 1678 del codice civile, ma rilevano soltanto nel caso in cui per la stipula di tale contratto le parti abbiano scelto la forma scritta”.
Le questioni sollevate, per la loro evidente connessione, vanno trattate congiuntamente, previa riunione dei relativi giudizi.
2.- Preliminarmente deve dichiararsi l'inammissibilità degli interventi spiegati dalle associazioni di categoria F.I.T.A., C.N.A. e L.I.A.T., e cioè da soggetti che non rivestivano le qualità di parti nei giudizi a quibus.
3.- La questione sollevata dal Tribunale di Prato, in riferimento agli artt. 24, 101, comma secondo, 102, comma primo, e 104 della Costituzione, investe la retroattività della norma interpretativa, la quale avrebbe avuto ad oggetto una norma - quella introdotta dall'art. 1 del decreto-legge 29 marzo 1993, n. 82 - inequivoca nel suo significato e uniformemente interpretata dall'unanime giurisprudenza.
Come questa Corte ha osservato nella sentenza n. 26 del 2003, la premessa della assoluta univocità dell'interpretazione consentita dalla lettera e dalla ratio della norma, oggetto dell'interpretazione autentica, non è accettabile, dal momento che, lungi dall'essere unanimemente condivisa, quell'interpretazione era contrastata da una consistente, anche se minoritaria, giurisprudenza che faceva leva sull'evidente inadeguatezza del mezzo (nullità del contratto carente di taluni, estrinseci requisiti formali) rispetto al fine asseritamente perseguito (repressione del fenomeno dell'abusivismo).
In assenza di qualsiasi ulteriore argomentazione, questa Corte non può che ribadire la conclusione cui, con la citata sentenza n. 26 del 2003, è pervenuta escludendo l'illegittimtà del ricorso del legislatore ad una legge d'interpretazione autentica, con ciò stesso escludendo ogni illegittima compressione del potere decisorio del giudice attraverso una indebita interferenza nei giudizi pendenti, così come deve negarsi ogni lesione di un legittimo affidamento nella nullità, per carenze formali, del contratto.
La questione, pertanto, deve essere dichiarata manifestamente infondata.
4.- I Tribunali di Prato e di Roma, inoltre, deducono la violazione dell'art. 77, comma secondo, della Costituzione per l'assenza dei presupposti (necessità ed urgenza) legittimanti il ricorso al decreto-legge.
Premesso che, per quanto si è osservato sub 3, l'asserita inesistenza di contrasti sul significato della norma interpretata non può essere dedotta a conforto della censura ora in esame, va rilevato che questa Corte ha ripetutamente statuito che «eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge» (sentenze n. 29 e n. 16 del 2002, n. 398 del 1998 e n. 330 del 1996); “in linea di principio” perché solo “l'evidente mancanza di quei presupposti configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione, avendo quest'ultima valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validità in realtà insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione” (sentenza n. 29 del 1995).
Osserva la Corte che, nella specie, non può certamente parlarsi di “evidente mancanza dei presupposti” di cui all'art. 77, comma secondo, Cost.: dai lavori parlamentari, infatti, risulta come la questione abbia formato oggetto di un ampio dibattito e come, pur nella varietà delle opinioni sull'opportunità politica della norma, sia emersa la sua funzione di evitare l'ulteriore proliferare di un già imponente contenzioso innescato dal precedente intervento che, sulla legge del 1974, era stato operato (peraltro, con decreto-legge) e di evitare, altresì, agitazioni sindacali nel settore dell'autotrasporto.
Esigenze, entrambe, astrattamente idonee a giustificare il ricorso alla decretazione d'urgenza e, quindi, a precludere ogni più penetrante sindacato di questa Corte; dal che l'infondatezza della censura.
5.- Tutti e tre i giudici rimettenti sollevano la questione della ingiustificata disparità di trattamento, censurabile ex art. 3 Cost., tra chi ha stipulato oralmente il contratto e chi, avendolo concluso in forma scritta, sarebbe soggetto al rischio di incorrere nella sanzione di nullità per l'omessa indicazione di dati non richiesti, invece, a chi abbia optato per la forma orale.
Osserva in proposito la Corte che la denunciata disparità di trattamento sussiste, nella prospettazione dei rimettenti, a danno di chi ha fatto ricorso alla forma scritta; sicché la declaratoria d'incostituzionalità dovrebbe colpire quella parte della norma che prevede la sanzione della nullità per l'omessa “annotazione sulla copia del contratto di trasporto dei dati relativi agli estremi dell'iscrizione all'albo e dell'autorizzazione al trasporto di cose per conto di terzi possedute dal vettore”.
Ma è evidente che, poiché in tutti e tre i giudizi a quibus il contratto era stato concluso oralmente, la questione è irrilevante, e deve conseguentemente essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Tale conclusione, a fortiori, si impone per la questione, sollevata dal Tribunale di Prato in riferimento all'art. 41 Cost.: la circostanza che la mancata annotazione dei dati relativi all'iscrizione all'albo consentirebbe, grazie alla nullità del contratto, la “facile elusione delle tariffe obbligatorie” deporrebbe, semmai, per l'illegittimità costituzionale di quella parte della norma che, attesa la forma orale del contratto stipulato nel caso di specie, non è applicabile nel giudizio a quo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili gli interventi della F.I.T.A., C.N.A. e L.I.A.T.;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 3 luglio 2001, n. 256 (Interventi urgenti nel settore dei trasporti), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 agosto 2001, n. 334, sollevate, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, dai Tribunali di Prato e di Roma, con le ordinanze in epigrafe;
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma sollevata, in riferimento agli articoli 24, 101, comma secondo, 102, comma primo, e 104 della Costituzione, dal Tribunale di Prato con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale della medesima norma sollevate, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, dai Tribunali di Prato, Roma e Sassari, nonché in riferimento all'articolo 41 della Costituzione, dal Tribunale di Prato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2003.
Massima n. 28187
Le
Regioni possono impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione
dell'art. 77 della Costituzione, ove adducano che da tale violazione derivi una
compressione delle loro competenze costituzionali. Peraltro, un decreto-legge
può di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi che
Massima n. 28188
Nel
caso del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 – impugnato, anche così come
convertito dalla legge 9 aprile 2002, n.
composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale) e della legge 9 aprile 2002, n. 55 concernente (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), promossi con ricorsi delle Regioni Umbria (n. 2 ricorsi), Basilicata e Toscana, notificati il 27 marzo, il 31 maggio, l'8 e il 7 giugno 2002, depositati in cancelleria il 4 aprile e il 6 e il 17 giugno successivi ed iscritti ai nn. 30, 39, 40 e 41 del registro ricorsi 2002.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 28 ottobre 2003 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi gli avvocati Giovanni Tarantini e Fulco Ruffo per la Regione Umbria, Mario Loria per la Regione Toscana e l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - La Regione Umbria ha impugnato il decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost., in quanto emanato in assenza delle condizioni di straordinaria necessità ed urgenza, dal momento che la situazione addotta a fondamento della sussistenza di tali requisiti non sarebbe basata su dati oggettivi, nonché per violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost., in quanto - ove si individuasse nel decreto-legge impugnato una manifestazione del potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni - ne mancherebbero i presupposti e le forme da tale disposizione previsti. La ricorrente, inoltre, ha impugnato il suddetto decreto-legge per violazione dell'art. 117, primo comma, secondo comma lettera m), e terzo comma, Cost., in quanto detterebbe una disciplina di dettaglio in una materia assegnata alla potestà legislativa concorrente delle Regioni quale quella relativa a "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia"; sarebbe violato, altresì, l'art. 118, primo e secondo comma, Cost., in quanto il decreto-legge impugnato attribuirebbe nella suddetta materia un potere autorizzatorio allo Stato, riconoscendo quindi "una competenza amministrativa generale e di tipo gestionale" all'amministrazione statale in assenza di esigenze di carattere unitario.
In subordine, e più specificamente, la Regione ha impugnato l'art. 1, commi 1, 2, 3 e 5, del d.l. n. 7 del 2002, per violazione dell'art. 117, primo e terzo comma, Cost., nonché dell'art. 118, primo e secondo comma, Cost.; l'art. 1, commi 2, 3, 4 e 5, è stato impugnato, infine, per violazione dell'art. 97, primo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione.
Con successivo ricorso, la Regione Umbria ha impugnato la legge 9 aprile 2002, n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione sia dell'art. 77, secondo comma, Cost., sia dell'art. 120, secondo comma, Cost., perché avrebbe convertito in legge un decreto-legge in assenza dei presupposti di necessità e di urgenza, e, comunque, in quanto non riconducibile ai poteri governativi di tipo sostitutivo. Inoltre, la legge sarebbe censurabile per violazione dell'art. 117, primo, secondo lettera m), e terzo comma, Cost.
In via subordinata, la Regione ha impugnato la legge n. 55 del 2002 per le parti in cui ha modificato le disposizioni del d.l. n. 7 del 2002, nonché per le parti di quest'ultimo già impugnate con il precedente ricorso e convertite senza modificazioni - riproponendo le medesime censure - per violazione dell'art. 117, primo e terzo comma, Cost., dell'art. 118, primo e secondo comma, Cost., nonché dell'art. 97, primo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione.
2. - Anche le Regioni Basilicata e Toscana hanno impugnato la legge n. 55 del 2002, nella parte in cui disciplina un procedimento unico per il rilascio dell'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto interferirebbe con norme di dettaglio in materie di competenza legislativa ripartita delle Regioni, nonché dell'art. 118 Cost., in quanto l'attribuzione allo Stato della funzione amministrativa di rilascio dell'autorizzazione si porrebbe in contrasto con i criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, violando altresì la potestà delle Regioni di disciplinare le procedure di svolgimento delle funzioni nelle materie di competenza legislativa ripartita.
La Regione Basilicata e Toscana impugnano la legge n. 55 del 2002 anche nella parte in cui prevede che l'autorizzazione unica abbia effetto di variante urbanistica, per contrasto con l'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto violerebbe la potestà legislativa regionale in materia di "governo del territorio".
3. - Data la sostanziale identità delle censure prospettate, i quattro ricorsi possono essere riuniti per essere trattati congiuntamente e decisi con unica sentenza.
I ricorsi in esame non sono fondati.
In via preliminare, occorre affrontare la questione di legittimità costituzionale posta dalla Regione Umbria sul decreto-legge n. 7 del 2002, in relazione alla lamentata carenza dei presupposti contemplati nell'art. 77 Cost.
Quanto alla deducibilità di tale vizio da parte delle Regioni in occasione della promozione della questione di legittimità costituzionale in via diretta, la recente giurisprudenza di questa Corte ha affermato la perdurante distinzione - anche dopo la riforma costituzionale del Titolo V - dei parametri invocabili da Stato e Regioni, rispettivamente nei riguardi di leggi regionali o di leggi od atti con forza di legge statali (sentenza n. 274 del 2003), al tempo stesso confermando che le Regioni possono contestare l'esistenza dei presupposti costituzionali degli atti con forza di legge "quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni o delle Province autonome ricorrenti" (sentenza n. 303 del 2003). D'altra parte, fin dalla sentenza n. 302 del 1988, questa Corte ha espressamente riconosciuto che le Regioni possono impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione dell'art. 77 Cost., ove adducano che da tale violazione derivi una compressione delle loro competenze costituzionali.
Peraltro, diversamente da come asserisce la Regione ricorrente, un decreto-legge può di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi che la Costituzione affida alla competenza statale, ivi compresa anche la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost.
I rilievi sollevati dalla Regione Umbria relativamente alla mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza del d.l. n. 7 del 2002, atto sicuramente incidente sui poteri regionali in materia, sono infondati; se la giurisprudenza di questa Corte sul punto ha più volte affermato che il sindacato sull'esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti della decretazione d'urgenza può essere esercitato solo in caso di loro "evidente mancanza" (fra le molte, si vedano le sentenze n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996), non può disconoscersi che, nel caso del d.l. impugnato, a fondamento dell'intervento normativo del Governo si pone una situazione nella quale, in assenza di un effettivo e rapido rafforzamento delle strutture di produzione e di distribuzione dell'energia elettrica, si possono produrre serie situazioni di difficoltà o addirittura interruzioni più o meno estese della fornitura di energia, con conseguenti gravi danni sociali ed economici. Ciò al di là dell'enfasi del primo comma dell'art. 1 del d.l. in questione (nel testo originario), che faceva riferimento all'"imminente pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale" (formula, non a caso, corretta in semplice "pericolo di interruzione" dalla legge di conversione n. 55 del 2002).
La sicura esistenza di elementi di fatto contrari all'"evidente mancanza" dei requisiti di urgenza del d.l. n. 7 del 2002 rende inutile la valutazione degli eventuali effetti sananti prodotti dalla legge n. 55 del 2002 di conversione di tale decreto.
4. - Quanto appena affermato rende altresì inutile l'esame dell'ulteriore rilievo prospettato dalla Regione Umbria circa il fatto che il d.l. impugnato non avrebbe potuto neppure trovare giustificazione negli speciali poteri sostitutivi attribuiti al Governo dall'art. 120, secondo comma, Cost., di recente specificati dall'art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), dal momento che - come ha anche notato l'Avvocatura dello Stato - non vi sono elementi formali o sostanziali per considerare il d.l. n. 7 del 2002 come atto adottato su questa base giuridica.
5. -Possono quindi essere affrontate le censure mosse dalle Regioni ricorrenti sulla legittimità costituzionale delle disposizioni del d.l. n. 7 del 2002 e della legge di conversione n. 55 del 2002, in relazione alla asserita violazione dell'art. 117 Cost.
Al riguardo, appare decisiva la ricostruzione di quale sia - al di là della stessa volontà del legislatore statale, quale deducibile dai lavori preparatori, o delle ricostruzioni suggerite dall'Avvocatura dello Stato - l'oggettivo fondamento costituzionale degli atti impugnati.
Il testo originario del d.l., mentre non fa alcun riferimento alle disposizioni costituzionali, sembra indicare il proprio fondamento nel ruolo riconosciuto al Ministero delle attività produttive dall'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica), di organo nazionale preposto "alla sicurezza ed all'economicità del sistema elettrico nazionale".
Solo la legge di conversione introduce alcuni riferimenti diretti ed indiretti alle disposizioni costituzionali e, in particolare, fa riferimento al fatto che la nuova disciplina resterebbe in vigore "sino alla determinazione dei principi fondamentali della materia in attuazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e comunque non oltre il 31 dicembre 2003" (art. 1, comma 1, del d.l. n. 7 del 2002 nel testo modificato).
L'Avvocatura dello Stato ha, reiteratamente sostenuto, che la disciplina contenuta negli atti impugnati rientrerebbe negli ambiti di competenza legislativa esclusiva dello Stato relativi a "sicurezza" (art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.] e "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" [art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.]; l'Avvocatura, inoltre, ha sostenuto che queste norme inciderebbero anche nella materia della "tutela della concorrenza", anch'essa affidata alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.). Peraltro, sempre secondo la difesa erariale, la disciplina impugnata sarebbe destinata a restare solo temporaneamente in vigore, poiché, successivamente al superamento della fase di carenza produttiva, si eserciterebbe liberamente la legislazione concorrente delle Regioni in tema di "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia".
Tali argomenti non possono essere condivisi.
Deve anzitutto negarsi che il concetto di "sicurezza" utilizzato nella legislazione sull'energia come "sicurezza dell'approvvigionamento di energia elettrica" e "sicurezza tecnica" (cfr. art. 2, n. 28, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2003/54/CE del 26 giugno 2003 relativa a norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica e che abroga la direttiva 96/92/CE) possa essere confuso con la materia "ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale", di cui alla lettera h) del secondo comma dell'art. 117 Cost., che già questa Corte ha interpretato come riferibile esclusivamente agli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell'ordine pubblico (sentenza n. 407 del 2002). Tanto meno appare condivisibile l'opinione che i possibili effetti in termini di ordine pubblico del cattivo funzionamento del settore energetico potrebbero giustificare limiti preventivi ai poteri regionali, dal momento che - semmai - il verificarsi di situazioni di fatto di questo tipo potrebbe eventualmente legittimare l'attivazione degli speciali poteri sostitutivi del Governo sulla base di quel "pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica" che è presupposto espressamente contemplato dall'art. 120, secondo comma, Cost. Analogamente è da dirsi per la pretesa riconduzione della normativa impugnata alla competenza legislativa statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.: come questa Corte ha già affermato (cfr. le sentenze n. 88 del 2003 e n. 282 del 2002), tale competenza legittima una eventuale predeterminazione legislativa dei "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali", ciò che nella specie non è intervenuto. La stessa utilizzazione di questi livelli essenziali quale fondamento dell'esercizio dei poteri sostitutivi, ai sensi del secondo comma dell'art. 120 Cost., di norma presuppone che lo Stato abbia previamente esercitato la propria potestà legislativa di tipo esclusivo.
Tuttavia, né il d.l. n. 7 del 2002 né la legge di conversione n. 55 del 2002 hanno un contenuto normativo di questo tipo, ma semplicemente disciplinano un nuovo complesso procedimento amministrativo finalizzato a garantire la produzione e l'approvvigionamento dell'energia elettrica.
Identiche considerazioni possono essere svolte in riferimento alla pretesa che la legislazione impugnata possa essere riconducibile alla "tutela della concorrenza" di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., dal momento che la disciplina in questione non è affatto caratterizzata dagli istituti e dalle procedure tipiche di questa particolare materia.
6. - La disciplina oggetto degli atti impugnati insiste indubbiamente nell'ambito della materia "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia", espressamente contemplata dall'art. 117, terzo comma, Cost. tra le materie affidate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni. Secondo le ricorrenti, il legislatore statale avrebbe invaso la competenza regionale, in quanto non si sarebbe limitato a stabilire i principi fondamentali della materia, disciplinando invece, in termini analitici, il procedimento di rilascio dell'autorizzazione per la costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica.
In effetti, è incontestabile che la disciplina impugnata non contiene principi fondamentali volti a guidare il legislatore regionale nell'esercizio delle proprie attribuzioni, ma norme di dettaglio autoapplicative e intrinsecamente non suscettibili di essere sostituite dalle Regioni. Tuttavia, occorre considerare che il problema della competenza legislativa dello Stato non può essere risolto esclusivamente alla luce dell'art. 117 Cost. È infatti indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell'esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell'art. 118 Cost., conformemente a quanto già questa Corte ha ritenuto possibile nel nuovo assetto costituzionale (cfr. sentenza 303 del 2003).
In questa logica, il d.l. n. 7 del 2002 e la sua legge di conversione n. 55 del 2002, pur senza negare il vigente ordinamento costituzionale ed in particolare l'attribuzione di potestà legislativa di tipo concorrente alle Regioni in tema di "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia", hanno ridefinito in modo unitario ed a livello nazionale i procedimenti di modifica o ripotenziamento dei maggiori impianti di produzione dell'energia elettrica, in base all'evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell'esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative.
Conseguentemente, per giudicare della legittimità costituzionale della normativa impugnata, è necessario non già considerarne la conformità rispetto all'art. 117 Cost., bensì valutarne la rispondenza da un lato ai criteri indicati dall'art. 118 Cost. per la allocazione e la disciplina delle funzioni amministrative (parametro quest'ultimo del resto esplicitamente invocato dalle Regioni ricorrenti), dall'altro al principio di leale collaborazione, così come questa Corte ha già avuto modo di evidenziare nella richiamata sentenza n. 303 del 2003.
Quanto appena affermato rende evidente l'infondatezza delle censure concernenti la violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., nonché di quelle relative alla violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera m), formulate dalla Regione Umbria.
Quanto invece alla lamentata violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al limite costituzionale - al di là della mancanza di qualsivoglia motivazione al riguardo nel ricorso della Regione Umbria - deve comunque notarsi che la deduzione del mancato rispetto del limite costituzionale in tale disposizione previsto non può costituire autonomo motivo di censura, risultando inevitabilmente collegato alla violazione di ulteriori e specifiche norme costituzionali.
7. - È possibile a questo punto passare all'esame delle censure prospettate dalle Regioni ricorrenti in relazione alla asserita violazione dell'art. 118 Cost.
La qualificazione della normativa in esame come espressiva di una scelta del legislatore statale di considerare necessario il conferimento allo Stato della responsabilità amministrativa unitaria in materia, "sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" di cui all'art. 118, primo comma, Cost., deve superare la preliminare obiezione delle Regioni ricorrenti sulla idoneità della fonte statale a compiere questa scelta anche là dove le norme costituzionali affidano solo limitati poteri legislativi allo Stato, come appunto nel caso delle materie di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost.
Il superamento di questa obiezione appare agevole se si considera che la valutazione della necessità del conferimento di una funzione amministrativa ad un livello territoriale superiore rispetto a quello comunale deve essere necessariamente effettuata dall'organo legislativo corrispondente almeno al livello territoriale interessato e non certo da un organo legislativo operante ad un livello territoriale inferiore (come sarebbe un Consiglio regionale in relazione ad una funzione da affidare - per l'esercizio unitario - al livello nazionale).
Questa scelta legislativa che trova sicuro, seppur implicito, fondamento costituzionale nell'art. 118 Cost., in relazione al principio di legalità, deve giustificarsi in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; questi ultimi, tuttavia, non possono trasformarsi - come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 303 del 2003 - "in mere formule verbali capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione".
Proprio per la rilevanza dei valori coinvolti, questa Corte ha quindi affermato, nella medesima sentenza, che una deroga al riparto operato dall'art. 117 Cost. può essere giustificata "solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata".
In altri termini, perché nelle materie di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l'esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni. È necessario, inoltre, che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine. Da ultimo, essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l'esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali. Quindi, con riferimento a quest'ultimo profilo, nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi - anche solo nei limiti di quanto previsto dall'art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) - la legislazione statale di questo tipo "può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà" (sentenza n. 303 del 2003).
Se si applicano i menzionati criteri alla normativa oggetto del presente giudizio, si rileva anzitutto la necessarietà dell'intervento dell'amministrazione statale in relazione al raggiungimento del fine di evitare il "pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale" (art. 1 del d.l. n. 7 del 2002); non v'è dubbio, infatti, che alle singole amministrazioni regionali - che si volessero attributarie delle potestà autorizzatorie contemplate dalla disciplina impugnata - sfuggirebbe la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia elettrica e l'autonoma capacità di assicurare il soddisfacimento di tale fabbisogno. In relazione agli altri criteri, d'altra parte, non si può non riconoscere da un lato la specifica pertinenza della normativa oggetto del presente giudizio in relazione alla regolazione delle funzioni amministrative in questione, dall'altro che tale normativa si è limitata - nell'esercizio della discrezionalità del legislatore - a regolare queste ultime in funzione del solo fine di sveltire le procedure autorizzatorie necessarie alla costruzione o al ripotenziamento di impianti di energia elettrica di particolare rilievo.
Resta da valutare il rispetto dell'ultimo criterio indicato, in relazione alla necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale e i livelli regionali.
Da quest'ultimo punto di vista devono considerarsi adeguati i due distinti livelli di partecipazione delle Regioni disciplinati nel d.l. n. 7 del 2002, quale convertito dalla legge n. 55 del 2002: per il primo comma dell'art. 1, quale opportunamente modificato in sede di conversione, la determinazione dell'elenco degli impianti di energia elettrica che sono oggetto di questi speciali procedimenti viene effettuata "previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano"; per il secondo comma dell'art. 1, l'autorizzazione ministeriale per il singolo impianto "è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, d'intesa con la Regione interessata". Appare evidente che quest'ultima va considerata come un'intesa "forte", nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento -come, del resto, ha riconosciuto anche l'Avvocatura dello Stato - a causa del particolarissimo impatto che una struttura produttiva di questo tipo ha su tutta una serie di funzioni regionali relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, etc.
I due distinti livelli di partecipazione - dell'insieme delle Regioni nel primo caso e della Regione direttamente interessata nel secondo - realizzano quindi, ove correttamente intesi ed applicati dalle diverse parti interessate, sufficienti modalità collaborative e di garanzia degli interessi delle istituzioni regionali i cui poteri sono stati parzialmente ridotti dall'attribuzione allo Stato dell'esercizio unitario delle funzioni disciplinate negli atti impugnati. Né mancano, ovviamente, strumenti di tutela contro eventuali prassi applicative che non risultassero in concreto rispettose della doverosa leale collaborazione fra Stato e Regioni.
L'insieme di tali considerazioni evidenzia quindi l'infondatezza dei rilievi delle Regioni ricorrenti relativamente alla pretesa violazione dell'art. 118 Cost., sia in riferimento ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, sia per quel che concerne la fonte statale utilizzata.
8. - Devono ora essere affrontate le censure sollevate dalle ricorrenti in relazione a specifiche disposizioni degli atti normativi oggetto del presente giudizio.
In particolare, alcuni di tali rilievi di costituzionalità riguardano la pretesa illegittima compressione dei poteri amministrativi e rappresentativi degli enti locali interessati, alla luce degli articoli 117 e 118 Cost.: più specificamente, si nega, da parte delle Regioni ricorrenti, che l'autorizzazione unica possa legittimamente essere configurata come sostitutiva di ogni altra autorizzazione di competenza degli enti locali e come modificativa degli strumenti urbanistici o del piano regolatore portuale, in quanto ciò sarebbe incompatibile con le competenze legislative regionali in materia di "governo del territorio", nonché con le funzioni amministrative che sarebbero riconosciute dall'art. 118 Cost. a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
Tali censure non sono fondate.
Quanto alla pretesa violazione dell'art. 117 della Costituzione, in questa sede ci si può limitare a richiamare le considerazioni svolte più sopra. La disciplina impugnata, infatti, concerne la allocazione e la regolazione di funzioni amministrative (in una materia affidata alla legislazione concorrente) e conseguentemente è nell'art. 118 della Costituzione e nei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza che deve trovare il proprio decisivo parametro di giudizio, secondo quanto esposto in precedenza.
L'infondatezza dei rilievi concernenti la lamentata violazione dell'art. 118 Cost., a sua volta, deriva proprio dalla necessaria unitarietà dell'esercizio delle funzioni amministrative che, come evidenziato, sta alla base della scelta del legislatore statale di introdurre eccezioni alla normale attribuzione delle funzioni amministrative al livello comunale prevista dall'art. 118, primo comma, Cost.
La eccezionale compressione delle competenze delle amministrazioni regionali e locali determinata dalla normativa in esame non può dunque ritenersi costituzionalmente illegittima. Ciò va affermato innanzi tutto in quanto, ragionando diversamente, la stessa finalità per la quale tale disciplina è stata posta in essere verrebbe frustrata da un assetto delle competenze amministrative diverso da quello da essa stabilito, anche in considerazione della necessaria celerità con cui - al fine di evitare il pericolo della interruzione della fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale - le funzioni amministrative concernenti la costruzione o il ripotenziamento di impianti di energia elettrica di particolare rilievo devono essere svolte.
In secondo luogo, non possono non assumere decisivo rilievo le conclusioni alle quali si è giunti in precedenza, dal momento che proprio il necessario coinvolgimento delle Regioni di volta in volta interessate mediante quello strumento particolarmente efficace costituito dall'intesa, assicura una adeguata partecipazione di queste ultime allo svolgimento del procedimento incidente sulle molteplici competenze delle amministrazioni regionali e locali.
D'altra parte, anche la legislazione preesistente conosce numerose fattispecie nelle quali alcuni atti espressivi delle scelte urbanistiche dei Comuni cedono dinanzi agli atti finali dei procedimenti adeguatamente partecipati di determinazione dei lavori pubblici di interesse generale (con specifico riferimento alle centrali elettriche, si veda l'art. 12 dello stesso allegato IV, recante «Procedure per i progetti di centrali termoelettriche e turbogas», del d.P.C.m. 27 dicembre 1988, la cui efficacia è stata sospesa appunto dall'art. 1 del d.l. n. 7 del 2002; e la stessa giurisprudenza di questa Corte si è espressa nel senso di non rilevare violazione dei principi costituzionali in casi analoghi (cfr., ad esempio, sentenza n. 308 del 2003 e sentenza n. 21 del 1991).
9. - Deve essere affrontata, inoltre, la specifica censura prospettata dalla Regione Umbria, secondo la quale il rinvio contenuto nell'art. 1, comma 2, del d.l. n. 7 del 2002, convertito dalla legge n. 55 del 2002, ad un "procedimento unico al quale partecipano le Amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni ed integrazioni, d'intesa con la regione interessata" violerebbe l'art. 97, primo comma, Cost. ed il principio di leale collaborazione; ciò perché questo procedimento, nel quale non sono previsti precisi tempi e modalità di partecipazione delle amministrazioni interessate, non sarebbe idoneo a garantire la adeguata ponderazione di tutti gli interessi in gioco né, conseguentemente, sarebbe "sufficiente a garantire il rilievo degli interessi della comunità regionale".
Per ciò che riguarda la pretesa violazione dell'art. 97, primo comma, Cost., deve essere osservato, innanzi tutto, che la normativa impugnata in realtà disciplina un particolare procedimento amministrativo, il quale deve esaurirsi entro centoottanta giorni e deve culminare in un'autorizzazione unica, con anche una speciale accelerazione per la procedura di valutazione di impatto ambientale prevista dal comma 3 dell'art. 1 del decreto impugnato (nel testo risultante dalla conversione in legge) ulteriormente modificato dall'art. 3 del d.l. 18 febbraio 2003, n. 25 (Disposizioni urgenti in materia di oneri generali del sistema elettrico e di realizzazione, potenziamento, utilizzazione e ambientalizzazione di impianti termoelettrici), convertito nella legge 17 aprile 2003, n. 83 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 febbraio 2003, n. 25, recante disposizioni urgenti in materia di oneri generali del sistema elettrico. Sanatoria degli effetti del decreto-legge 23 dicembre 2002, n. 281).
Sulla base delle considerazioni già svolte, deve essere evidenziato che, nel caso di specie, il giudizio sul rispetto del principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97, primo comma, Cost., fa tutt'uno con il giudizio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, dal momento che la scelta concernente la allocazione al livello centrale delle funzioni amministrative si giustifica proprio in relazione alla necessità di garantirne una più adeguata ed efficiente esplicazione. Di talché, lo scrutinio concernente la compatibilità della disciplina impugnata con i principi di cui all'art. 118, primo comma, Cost., conduce a ritenere infondati anche i rilievi sulla pretesa violazione dell'art. 97, primo comma, Cost.
D'altra parte, non solo lo stesso d.l. impugnato introduce - come già visto - la necessità del conseguimento di un'intesa "forte" con la Regione interessata, ma inoltre la legge n. 55 del 2002 ha modificato il comma 3 dell'art. 1, prescrivendo che "è fatto obbligo di richiedere il parere motivato del comune e della provincia nel cui territorio ricadono le opere" (seppure nel rispetto del limite temporale complessivo per la fase istruttoria). Tali prescrizioni - il cui rispetto naturalmente potrà essere garantito nelle competenti sedi giurisdizionali - assicurano indubbiamente un sufficiente coinvolgimento degli enti locali, in relazione agli interessi di cui siano portatori ed alle funzioni loro affidate.
Quanto appena affermato rende evidente, peraltro, anche l'infondatezza della censura concernente la pretesa violazione del principio di leale collaborazione.
10. - Da ultimo, vanno prese in considerazione le censure proposte dalle tre Regioni ricorrenti avverso il comma 1 dell'art. 1 del d.l. n. 7 del 2002, come modificato dalla legge di conversione, per violazione dell'art. 117 Cost., nella parte in cui prevede che la speciale disciplina si applichi "sino alla determinazione dei principi fondamentali della materia in attuazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e comunque non oltre il 31 dicembre 2003", nonché la censura specificamente prospettata dalla sola Regione Umbria avverso il comma 5 dell'art. 1 del medesimo decreto-legge, nella parte in cui prevede la sospensione dell'efficacia dell'allegato IV al d.P.C.m. 27 dicembre 1988 e del d.P.R. 11 febbraio 1998, n. 53, per violazione degli articoli 117 e 118 Cost.
In particolare, la prima di tali disposizioni è stata contestata da parte delle ricorrenti, che vi hanno letto la volontà di sospendere temporaneamente l'esercizio della potestà legislativa regionale in una materia di legislazione concorrente, addirittura vincolandola alla previa adozione di una normativa di cornice statale, nonostante i principi fondamentali possano essere fin da ora dedotti in via interpretativa dall'attuale legislazione. Se peraltro si considera che lo stesso originario testo del d.l. n. 7 del 2002, nella seconda delle disposizioni qui esaminate (art. 1, comma 5), sospende proprio "fino al 31 dicembre 2003" l'efficacia di tutta una serie di norme primarie e secondarie dello Stato che disciplinano appunto le procedure che il d.l. evidentemente si riprometteva di sveltire ulteriormente attraverso la unificazione e concentrazione dei diversi procedimenti, la (certo non felice) formula legislativa introdotta nel primo comma dell'art. 1 del d.l. ad opera della legge di conversione deve essere interpretata, in coerenza con il quadro costituzionale, come finalizzata semplicemente a ribadire la provvisorietà della soluzione procedimentale configurata dal d.l., in una situazione di urgente necessità che aveva comportato la contestuale sospensione dell'efficacia della normazione previgente e dei relativi principi.
Da questo punto di vista, infondati appaiono i rilievi mossi dalle ricorrenti al primo comma dell'art. 1, così come infondati sono quelli rivolti dalla Regione Umbria alla disciplina di cui al quinto comma del medesimo articolo, dal momento che ogni esercizio di potere legislativo da parte dello Stato comporta inevitabilmente o l'abrogazione o la sospensione dell'efficacia della legislazione statale previgente.
Le successive vicende legislative, culminate con l'adozione dell'art. 1-sexies, comma 8, della recentissima legge 27 ottobre 2003, n. 290 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 agosto 2003, n. 239, recante disposizioni urgenti per la sicurezza del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica. Deleghe al Governo in materia di remunerazione della capacità produttiva di energia elettrica e di espropriazione per pubblica utilità), sembrano evidenziare, seppur con una formula non del tutto chiara ("Per la costruzione e l'esercizio di impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici si applicano le disposizioni del decreto-legge 7 febbraio del 2002, n. 7, convertito, con modificazioni dalla legge 9 aprile 2002, n. 55"), la volontà del legislatore nazionale di stabilizzare definitivamente la soluzione, che era invece solo transitoria, del d.l. n. 7 del 2002 e della legge di conversione n. 55 del 2002.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Umbria avverso il decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale) e avverso il decreto-legge n. 7 del 2002, così come convertito dalla legge 9 aprile 2002, n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione degli artt. 77, secondo comma, 120, secondo comma, 117, primo comma, secondo comma lettera m), e terzo comma, 118, primo e secondo comma, Cost., con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Basilicata e Toscana avverso il decreto-legge n. 7 del 2002, così come convertito dalla legge 9 aprile 2002, n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione degli articoli 117, terzo comma e 118 della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Umbria avverso l'art. 1, commi 1, 2, 3 e 5 del predetto decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7, nonché dello stesso decreto-legge n. 7 del 2002, così come convertito dalla legge 9 aprile 2002 n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione degli artt. 117, primo comma e terzo comma, 118, primo e secondo comma, Cost., con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Umbria avverso l'art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 del predetto decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7, nonché dello stesso decreto-legge n. 7 del 2002, così come convertito dalla legge 9 aprile 2002, n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 recante - Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), per violazione dell'art. 97, primo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 2003.
Massima n. 28528
I
decreti-legge n. 150 del 2001, n. 126 del 2002 e n. 147 del 2003, tutti
convertiti in legge, hanno ripetutamente disposto la proroga dell’efficacia
delle norme di carattere processuale dettate dalla legge 28 marzo 2001, n.
composta dai signori: Presidente: Gustavo ZAGREBELSKY; Giudici: Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfonso QUARANTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150 (Disposizioni urgenti in materia di adozione e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 23 giugno 2001, n. 240; del decreto-legge 1° luglio 2002, n. 126 (Disposizioni urgenti in materia di difesa d'ufficio e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 2 agosto 2002, n. 175; dell'art. 15 del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147 (Proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 1° agosto 2003, n. 200, promossi con quattro ordinanze del 14 agosto 2003 dal Tribunale per i minorenni di L'Aquila, rispettivamente iscritte ai nn. da 795 a 798 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 aprile 2004 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. — Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale per i minorenni di L'Aquila con le ordinanze indicate in epigrafe hanno ad oggetto: il decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150 (Disposizioni urgenti in materia di adozione e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2001, n. 240 (impugnazione risultante peraltro dalla sola motivazione delle ordinanze); il successivo decreto-legge 1° luglio 2002, n. 126 (Disposizioni urgenti in materia di difesa d'ufficio e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito, con modificazioni, nella legge 2 agosto 2002, n. 175; ed infine l'art. 15 del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147 (Proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali), convertito, con modificazioni, nella legge 1° agosto 2003, n. 200. Queste disposizioni sono censurate nella parte in cui rispettivamente prevedono il differimento dell'efficacia delle disposizioni processuali della legge 28 marzo 2001, n. 149 al momento della emanazione, prevista per non oltre il 30 giugno 2002, di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità, nonché le successive proroghe del differimento stesso al 30 giugno 2003 e infine al 30 giugno 2004.
Tali norme, che si sostanziano in una serie di rinvii dell'applicabilità di una parte della disciplina introdotta dalla legge n. 149 del 2001, ad avviso del giudice rimettente sarebbero in contrasto con l'art. 77 della Costituzione, poiché i relativi decreti-legge sarebbero stati emanati in carenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, i quali soli legittimano l'esercizio della decretazione di urgenza.
2. — I giudizi in oggetto, concernendo la medesima questione in riferimento agli stessi parametri costituzionali, vanno riuniti per essere trattati congiuntamente e definiti con un'unica pronuncia.
3. — La questione non è fondata.
Ai fini dello scrutinio di costituzionalità delle norme in oggetto è opportuno innanzi tutto puntualizzare gli aspetti temporali della vicenda. La legge 28 marzo 2001, n. 149, che reca modifiche alla precedente legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozione ed affidamento dei minori, nonché riguardo a provvedimenti in tema di potestà genitoriale, ha introdotto una nuova disciplina dell'adozione, sia di carattere sostanziale, sia di carattere processuale. Mentre le disposizioni di carattere sostanziale sono entrate in vigore il giorno successivo alla pubblicazione della legge n. 149 e cioè il 27 aprile 2001, viceversa per le disposizioni di carattere processuale il decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, ha disposto il differimento della loro efficacia fino alla emanazione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti in questione, nonché in quelli ex art. 336 del codice civile, stabilendo che, fino a quel momento, in via transitoria, continuano ad applicarsi le disposizioni processuali previgenti.
Questo disposto normativo è stato ripetutamente prorogato dagli altri decreti-legge censurati, l'ultimo dei quali, ossia quello 24 giugno 2003, n. 147, convertito nella legge 1° agosto 2003, n. 200, ha fissato il termine del 30 giugno 2004. I suddetti decreti, ancorché convertiti, sarebbero, secondo il giudice rimettente, costituzionalmente illegittimi, giacché dispongono un prolungato rinvio dell'entrata in vigore delle norme indicate; rinvio di per sé incompatibile con i presupposti della necessità e dell'urgenza. Tale assunto non è però condivisibile.
Nella giurisprudenza costituzionale è stato ripetutamente affermato che il sindacato sulla esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti per la decretazione di urgenza può essere esercitato solo in presenza di una situazione di “evidente mancanza” dei requisiti stessi (cfr. da ultimo le sentenze n. 6 del 2004, n. 341 del 2003, n. 16 del 2002). Tale non può certo essere considerata la situazione in esame, giacché la disciplina transitoria, introdotta dai decreti-legge censurati, si è resa necessaria per il fatto che la citata legge n. 149 del 2001, nel prevedere l'obbligo dell'assistenza legale, non contiene specifiche disposizioni in ordine alla difesa di ufficio in favore di genitori e minori. Dalla carenza di tali disposizioni potrebbe infatti, come si rileva anche dalla relazione del Governo ai rispettivi disegni di legge di conversione, nonché, più in generale, dal relativo dibattito parlamentare, derivare un pregiudizio alla effettività del diritto di difesa del minore, soprattutto tenendo conto della necessità di avvalersi nei procedimenti in questione di professionisti in possesso di competenze adeguate alla particolarità e alla delicatezza della funzione da assolvere.
Sulla base di queste considerazioni non si può quindi dire che sussista quella “evidente mancanza” dei presupposti di necessità ed urgenza, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, preclude il ricorso alla decretazione di urgenza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150 (Disposizioni urgenti in materia di adozione e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2001, n. 240; del decreto-legge 1° luglio 2002, n. 126 (Disposizioni urgenti in materia di difesa d'ufficio e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito, con modificazioni, nella legge 2 agosto 2002, n. 175; dell'art. 15 del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147 (Proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali), convertito, con modificazioni, nella legge 1° agosto 2003, n. 200, sollevata, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di L'Aquila, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2004.
Massima n. 28565
La
disciplina del condono edilizio, inserita in un decreto legge dal titolo
«Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell'andamento dei conti pubblici» si colloca in un contesto in cui non può
rilevarsi un caso di «evidente mancanza» dei presupposti di necessità ed
urgenza prescritti dal secondo comma dell'art. 77 Cost.; la necessaria
omogeneità dell'oggetto del decreto legge non è un requisito costituzionalmente
imposto; un decreto legge può di per sé costituire legittimo esercizio dei
poteri legislativi che
composta dai signori: Presidente: Gustavo ZAGREBELSKY; Giudici: Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), e dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), promossi con due ricorsi della Regione Campania, rispettivamente notificati il 17 ottobre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 25 ottobre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 76 del registro ricorsi 2003 ed al n. 14 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Marche, rispettivamente notificati il 13 novembre 2003 e il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 19 novembre e il 26 gennaio successivi ed iscritti al n. 81 del registro ricorsi 2003 ed al n. 8 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Toscana, rispettivamente notificati il 12 novembre 2003 ed il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 21 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 82 del registro ricorsi 2003 ed al n. 10 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Emilia-Romagna, rispettivamente notificati il 20 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 26 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 83 del registro ricorsi 2003 ed al n. 13 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Umbria, rispettivamente notificati il 25 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 2 dicembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 87 del registro ricorsi 2003 e al n. 11 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Friuli-Venezia Giulia, rispettivamente notificati il 27 novembre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 4 dicembre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 89 del registro ricorsi 2003 ed al n. 12 del registro ricorsi 2004, con un ricorso della Regione Basilicata, notificato il 1° dicembre 2003, depositato in cancelleria il 5 dicembre successivo ed iscritto al n. 90 del registro ricorsi 2003 e con un ricorso della Regione Lazio, notificato il 20 gennaio 2004, depositato in cancelleria il 23 gennaio successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché gli atti di intervento del Comune di Salerno, del Comune di Ischia e del Comune di Lacco Ameno, dell'Associazione Italiana per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS e del CODACONS, del Comune di Roma;
udito nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi gli avvocati Vincenzo Cocozza per la Regione Campania, Stefano Grassi per la Regione Marche, Lucia Bora e Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, per la Regione Umbria e per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Gennaro Terracciano per la Regione Basilicata, Pietro Pesacane per la Regione Lazio, Lorenzo Bruno Molinaro per il Comune di Ischia e per il Comune di Lacco Ameno, Antonio Brancaccio per il Comune di Salerno, Alessio Petretti per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS, Sebastiano Capotorto per il Comune di Roma, Nicolò Paoletti per il CODACONS e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Le Regioni Campania, Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia hanno impugnato l'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 5, 14-20; 25-31; 32 e seguenti (reg. ric. n. 76 del 2003); 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41; (reg. ric. n. 81 del 2003); 1, 3, 5, 6, 9, 10, 14-20; 24, 25-40 (reg. ric. n. 82 del 2003); 1, 2, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, nonché l'Allegato 1 (reg. ric. nn. 83, 87 del 2003); 1, 2, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, nonché l'Allegato 1 (reg. ric. n. 89 del 2003). La Regione Marche ha impugnato anche l'art. 32 citato nel suo complesso.
Le prospettazioni contenute nei ricorsi introduttivi dei giudizi sollevano rilievi di costituzionalità sostanzialmente analoghi e sintetizzabili nella pretesa violazione dei seguenti parametri costituzionali:
l'art. 117, quarto comma, della Costituzione (nonché, secondo i ricorsi della Regione Campania, l'art. 114 Cost.), in quanto la normativa impugnata interverrebbe nella materia dell'edilizia, affidata alla competenza residuale delle Regioni; ovvero, in subordine, l'art. 117, quarto comma, Cost., in quanto interverrebbe nella materia dell'urbanistica, affidata alla competenza residuale delle Regioni (così, in particolare, i ricorsi della Regione Campania e della Regione Marche); ovvero, in via ulteriormente subordinata, l'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto interverrebbe con una disciplina di dettaglio in una materia, quale quella del “governo del territorio”, affidata alla competenza concorrente di Stato e Regioni, e non essendo, più in generale, la stessa idea di condono edilizio idonea ad essere qualificata quale principio fondamentale della materia;
l'art. 118 Cost., in quanto la disciplina del condono edilizio determinerebbe la vanificazione degli interventi di pianificazione e controllo locale, nonché la necessità di apprestare appositi strumenti urbanistici e soluzioni di governo del territorio che tengano conto delle conseguenze della disciplina statale impugnata, cosicché le Regioni e gli enti locali sarebbero costretti a subire, anziché governare, le destinazioni urbanistiche del territorio (così, in particolare, i ricorsi della Regione Campania, della Regione Marche e della Regione Toscana);
l'art. 77 Cost., dal momento che difetterebbero i presupposti costituzionali per l'esercizio della decretazione d'urgenza (così i ricorsi della Regione Campania e della Regione Marche); difetterebbe inoltre il requisito, costituzionalmente necessario, della omogeneità del contenuto del decreto-legge (così i ricorsi della Regione Campania); infine, il decreto-legge sarebbe inidoneo a porre i principi fondamentali di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.;
l'art. 119 Cost., e l'autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali in esso contemplata, in quanto il condono edilizio, disposto in vista di esigenze finanziarie del bilancio statale, comporterebbe spese particolarmente ingenti e di vario genere a carico delle finanze delle autonomie territoriali, a fronte di una compartecipazione al gettito delle operazioni di condono che sarebbe decisamente esigua;
l'art. 25 Cost., in quanto la reiterazione con cadenza novennale della sanatoria edilizia, implicando “non solo la lesione del principio di legalità”, ma ledendo “soprattutto la fiducia dei cittadini sulla effettiva capacità degli organi pubblici di garantire il rispetto dei valori costituzionali coinvolti nella disciplina urbanistica ed edilizia”, determinerebbe la violazione del principio di tassatività e certezza delle norme penali (così i ricorsi della Regione Marche);
l'art. 3 Cost., in quanto la disciplina in esame, riaprendo ed estendendo i termini del condono, introdurrebbe un sistema discriminatorio a svantaggio di coloro che, rispettando la normativa, non hanno costruito perché privi del titolo abilitativo, dovendo subire però le conseguenze in termini di degrado urbanistico del condono, trattando in modo uguale situazioni diverse, ossia quella di chi ha costruito in base ad un titolo legittimo e quella di chi ha costruito abusivamente, e non consentendo “di riportare ad uguaglianza, attraverso la sanzione, chi si è astenuto da comportamenti illeciti e chi illecitamente li ha compiuti”;
l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto la reiterazione del condono edilizio farebbe venir meno i caratteri di assoluta straordinarietà, eccezionalità ed irripetibilità che soli, secondo la giurisprudenza costituzionale, possono giustificare la sanatoria; nel caso in questione mancherebbero del tutto quelle circostanze eccezionali che, nelle precedenti situazioni, hanno portato la Corte costituzionale a ritenere giustificata la sanatoria; sarebbero incisi numerosi principi costituzionali, senza però che sia perseguito adeguatamente l'obiettivo della stessa disciplina impugnata;
l'art. 97 Cost., ed in particolare i principi di imparzialità dei pubblici poteri e di buon andamento dell'amministrazione, che sarebbero frustrati dalla inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di reprimere l'abusivismo;
l'art. 9 e l'art. 117, terzo comma, Cost. (che sancisce la competenza regionale in tema di valorizzazione dei beni ambientali), nonché il “principio costituzionale di indisponibilità dei valori costituzionalmente tutelati”, in quanto il valore costituzionale dell'ordinato assetto del territorio non potrebbe “essere scambiato con valori puramente finanziari”, come invece avviene nel caso del condono edilizio;
gli artt. 9, 32, 41 e 42 Cost., dal momento che la sanatoria prevista dalla disciplina impugnata inciderebbe negativamente nei confronti di valori costituzionali che tutti i livelli di governo e in particolare le regioni hanno il diritto-dovere di tutelare nella loro effettività, quali: i valori paesistico-ambientali, il valore della salute, il valore del corretto e ordinato svolgimento dell'attività imprenditoriale in materia edilizia, la tutela del diritto di proprietà (così i ricorsi della Regione Marche);
il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, nonché l'art. 2 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), che tale principio recepisce, e il principio costituzionale che prescrive “la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengano in materia di competenza concorrente”, desumibile dall'art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), dal momento che, in sede di adozione del decreto-legge, le autonomie regionali non sono state consultate attraverso la Conferenza Stato-Regioni;
il giudicato costituzionale, ed in particolare le sentenze di questa Corte n. 427 del 1995, n. 416 del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 del 1988 e n. 302 del 1988, con cui sarebbe stato “attribuito al regime di sanatoria […] carattere episodico e delimitato temporalmente”, pena la illegittimità costituzionale (così i ricorsi della Regione Campania);
l'art. 4, numero 12, e l'art. 8 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), in riferimento all'autonomia legislativa e amministrativa della Regione nella materia urbanistica, in quanto le competenze regionali in detta materia potrebbero essere legittimamente vincolate solo dalla Costituzione, dai principi generali dell'ordinamento giuridico e dalle norme fondamentali di grande riforma economico-sociale, tra le quali non potrebbe certo essere annoverata la previsione di un condono edilizio.
2. - Le ricorrenti hanno altresì proposto, in via subordinata, le seguenti specifiche censure:
il comma 26, lettera a), dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nella parte in cui subordina la sanabilità alla legge regionale nel caso degli abusi minori in zone non vincolate, sottraendo viceversa alla decisione regionale gli abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate, violerebbe i principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonché gli artt. 117 e 118 Cost.;
il comma 25, “in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia già iniziato”, violerebbe il principio di ragionevolezza, poiché - una volta iniziato il procedimento sanzionatorio - il condono edilizio non porterebbe alcun vantaggio al pubblico interesse, né in termini di “uscita allo scoperto” di situazioni di illegalità, né in termini economici, poiché le sanzioni urbanistiche sono essenzialmente di carattere pecuniario;
i commi 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, lettere b) e c), 37, 38, 40 e l'Allegato 1, in quanto con disciplina dettagliata ed autoapplicativa stabiliscono le modalità, i termini e le procedure relative al condono edilizio, violerebbero l'art. 117 Cost., perché la competenza dello Stato a dettare norme non cedevoli non sarebbe giustificata, nel caso di specie, né da materie indicate dall'art. 117, secondo comma, né dall'attrazione di funzioni amministrative allo Stato in base all'art. 118;
i commi 25 e 35 violerebbero il principio di ragionevolezza, in quanto la disciplina del comma 25 estende il condono agli abusi compiuti sino a sei mesi prima dell'entrata in vigore del decreto-legge impugnato (mentre nel caso dei due precedenti condoni il termine era rispettivamente di un anno e di diciassette mesi) e ciò renderebbe particolarmente difficile distinguere le opere ultimate da quelle non ultimate, complicando notevolmente l'attività di vigilanza amministrativa; la disciplina risulterebbe collegata al disposto del comma 35, in forza del quale è sufficiente, ove l'opera abusiva non superi i 450 metri cubi, una autocertificazione per la prova dello “stato dei lavori”, consentendo così di far passare per già costruite opere in corso di costruzione o ancora da costruire;
il comma 25 violerebbe gli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., nella parte in cui prevede un limite di volume (750 metri cubi) per ogni singola richiesta di sanatoria, senza però precisare che non sono ammesse più richieste riferite alla medesima area;
il comma 37 violerebbe il principio di ragionevolezza, dal momento che sarebbe “palese” il contrasto con tale principio di una norma che sana gli abusi in virtù del solo decorso del tempo con un meccanismo di “silenzio-assenso”, nonché gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost. (e gli artt. 4 e 8 dello Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), perché renderebbe eventuale il controllo dei Comuni sull'ammissibilità delle domande di condono, ledendo altresì le competenze regionali in materia di governo del territorio;
i commi da 14 a 20 ed il comma 24, che disciplinano la sanatoria degli abusi commessi sulle aree di proprietà statale, facendola dipendere unicamente dalla volontà e dalla decisione dello Stato proprietario, senza dare alcuna rilevanza a quanto in merito stabilito dal legislatore regionale, violerebbero l'art. 117 Cost., che affida alle Regioni la competenza a disciplinare l'ammissibilità urbanistica degli interventi anche sulle aree di proprietà dello Stato, nonché gli artt. 118 e 119, perché la decisione sulla ammissibilità della sanatoria viene riservata al soggetto proprietario dell'area, senza possibilità di contraddittorio con gli enti locali interessati e in assenza di una previa intesa con le Regioni;
il comma 5, il quale affida al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti un ruolo di coordinamento per l'applicazione della normativa sul condono, violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., perché non vi sarebbe alcuna esigenza unitaria in grado di giustificare l'attribuzione ad un organo statale di tale funzione, in una materia, come il “governo del territorio”, attribuita alla competenza regionale;
il comma 6 violerebbe l'art. 118 Cost., perché in una materia regionale determinerebbe la avocazione di funzioni amministrative al centro senza prevedere, come richiesto dalla sentenza n. 303 del 2003, l'intesa con la Regione interessata, nonché l'art. 119 Cost., il quale non ammette finanziamenti vincolati alla realizzazione di interventi scelti dal Ministro;
i commi 9 e 10 violerebbero gli artt. 118 e 119 Cost. per ragioni analoghe a quelle appena richiamate.
3. - Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna (quest'ultima con atto separato, notificato il 9 febbraio 2004 e depositato il 10 febbraio 2004) chiedono inoltre l'applicazione dell'art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito dall'art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), ritenendo sussistenti le condizioni ivi previste perché la Corte possa sospendere in via cautelare l'esecuzione della normativa impugnata.
4. - Le Regioni Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Campania hanno impugnato l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, così come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 9, 14-23; 25, 26, 32-38; 41 e 42 (reg. ric. n. 6 del 2004); 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41 (reg. ric. n. 8 del 2004); 1, 3, 5, 14-20; 25-43; 49-ter (reg. ric. n. 10 del 2004); 1, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 11 del 2004); 1, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 12 del 2004); 1, 2, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 13 del 2004); 1, 2, 3, 5, 14-20; 25-50 (reg. ric. n. 14 del 2004). Le Regioni Marche e Campania hanno impugnato anche l'art. 32 citato nel suo complesso.
Le ricorrenti ripropongono sostanzialmente le medesime censure già sollevate nei confronti dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 nel testo originario, con le seguenti precisazioni e aggiunte.
L'art. 77 Cost. sarebbe violato anche dalla legge n. 326 del 2003, dal momento che la carenza dei requisiti costituzionalmente previsti per la decretazione d'urgenza si ripercuoterebbe, quale vizio in procedendo, anche nei confronti della legge di conversione.
La Regione Marche lamenta la violazione dell'art. 79 Cost., in quanto il provvedimento normativo impugnato costituirebbe, nella sostanza, una vera e propria amnistia, adottata senza percorrere le vie del procedimento aggravato previsto dalla citata disposizione costituzionale
L'art. 3 Cost. è invocato, nel ricorso della Regione Lazio, anche in quanto la disciplina impugnata violerebbe il principio di eguaglianza a causa della perdita di valore degli immobili dei cittadini rispettosi della legge conseguente alla immissione sul mercato di immobili abusivi, nonché dell'aumento della pressione fiscale a carico dei medesimi cittadini al fine di reperire le risorse finanziarie volte alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Sempre secondo la Regione Lazio, il principio di ragionevolezza, sancito dal medesimo art. 3 Cost., sarebbe violato anche perché dalla normativa risultante dalle modifiche operate in sede di conversione e derivante dalle abrogazioni disposte dalla legge finanziaria per il 2004, emergerebbe chiaramente che sarebbe rimasto soltanto il condono edilizio, mentre sarebbero stati abrogati i fondi per la riqualificazione urbanistica e ambientale, pur ritenuti evidentemente insufficienti dalle Regioni, ciò che renderebbe palese “la irragionevolezza e la scarsa attendibilità del meccanismo congegnato attraverso le varie disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare finalità di reale e credibile intento di riqualificazione del territorio”; inoltre, la modifica dell'art. 32 della legge n. 47 del 1985 renderebbe applicabile il condono anche alla pratiche restate inevase sotto l'egida di precedenti condoni, con il risultato di realizzare l'effetto di un «condono 'open'».
Per quel che concerne le singole disposizioni contenute nell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, così come risultante dalla conversione ad opera della legge n. 326 del 2003, le Regioni ricorrenti ribadiscono le censure già proposte nei confronti del testo originario del decreto-legge, evidenziando, tuttavia, alcuni profili nuovi di impugnazione connessi con le modifiche normative introdotte dalla legge di conversione.
Il comma 25 dell'art. 32 viene censurato in quanto, prevedendo un limite massimo per la costruzione abusiva considerata nel suo complesso pari a 3000 metri cubi, violerebbe gli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., poiché non preciserebbe che non sono ammesse più richieste riferite alla medesima area; viene peraltro mantenuta ferma la censura rivolta al medesimo comma 25 nella versione originaria del d.l. n. 269 del 2003, in quanto gli emendamenti introdotti in sede di conversione opererebbero soltanto pro futuro.
Dei commi 9 e 10 si ribadisce il contrasto con l'art. 118 Cost., nonostante che il comma 9, nel testo risultante a seguito della conversione, preveda l'intesa con la Conferenza unificata, in quanto risulterebbe comunque riconosciuta una priorità alle aree oggetto di programmi di riqualificazione approvati con decreto del Ministro dei lavori pubblici.
Nei ricorsi suddetti si propone, infine, censura avverso il comma 49-ter, introdotto in sede di conversione, il quale, determinando l'accentramento della competenza concernente le demolizioni in capo al prefetto, violerebbe gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost.; ciò in quanto tale norma non esprimerebbe un principio fondamentale, né del resto sarebbe giustificabile in base ad esigenze unitarie, in quanto l'amministrazione statale non sarebbe adeguata allo svolgimento di tale funzione, non disponendo nemmeno dei dati per effettuare il controllo degli interventi edilizi.
5. - Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna chiedono inoltre, anche nei confronti dell'art. 32 come risultante dalle modifiche operate in sede di conversione, l'applicazione dell'art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131 del 2003, ritenendo sussistenti le condizioni ivi previste perché la Corte possa sospendere in via cautelare l'esecuzione della normativa impugnata.
6. - La Regione Basilicata ha impugnato, con un unico ricorso, l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, sia nel testo originario che nel testo risultante dalla legge di conversione, esponendo censure rivolte in generale nei confronti dell'intero art. 32, e sostanzialmente corrispondenti, nel merito, a quelle più sopra richiamate.
7. - La Regione Toscana, con il ricorso n. 10 del 2004, ha impugnato anche l'art. 14, commi 1 e 2, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito della legge di conversione n. 326 del 2003, mentre la Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2004, ha impugnato anche l'art. 21, nonché i commi 21 e 22 dell'art. 32. Tali ultime disposizioni, congiuntamente al comma 23, risultano impugnate altresì dalla Regione Campania, con entrambi i propri ricorsi (n. 76 del 2003 e n. 14 del 2004).
Per ragioni di omogeneità di materia, tali questioni di costituzionalità verranno trattate separatamente da quelle concernenti la disciplina del condono edilizio di cui all'art. 32 sollevate con i medesimi ricorsi e appena illustrate, per essere definite con distinte decisioni di questa Corte.
8. - In considerazione dell'identità della materia, nonché dei profili di illegittimità costituzionale fatti valere, i ricorsi, per la parte relativa all'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, sia nel testo originario, che in quello risultante dalla conversione ad opera della legge n. 326 del 2003, possono essere riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia.
9. - Con ordinanza letta nella pubblica udienza dell'11 maggio 2004 e allegata alla presente sentenza, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio dai Comuni di Roma, Salerno, Ischia e Lacco Ameno, dal CODACONS e dal World Wide Fund for Nature (WWF) ONLUS.
10. - Deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso n. 6 del 2004, proposto dalla Regione Lazio, in quanto notificato al Presidente del Consiglio dei ministri presso l'Avvocatura generale dello Stato e non presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (cfr., da ultimo, la sentenza n. 333 del 2000).
11. - Il ricorso della Regione Basilicata si rivolge genericamente nei confronti dell'intero art. 32, pur motivando soltanto in relazione al condono edilizio. È possibile tuttavia - non essendo specificamente indicati i commi dell'articolo nei cui confronti vengono rivolte le doglianze - interpretare il ricorso come rivolto esclusivamente nei confronti delle disposizioni che disciplinano il condono edilizio (cfr., ad esempio, sentenza n. 15 del 2004). Analogamente è da dirsi in relazione ai ricorsi delle Regioni Marche e Campania, nella parte in cui si rivolgono all'art. 32 nella sua interezza.
12. - Inammissibili, invece, devono essere ritenute le censure rivolte dalla Regione Campania specificamente nei confronti dei commi 44, 45, 46, 47, 48, 49 e 50 del d.l. n. 269 del 2003 e dei medesimi commi, nonché dei commi 49-bis e 49-quater, del testo dell'art. 32 convertito dalla legge n. 326 del 2003, in quanto non sorrette da alcuna delle argomentazioni in diritto rinvenibili nei ricorsi. Ciò a prescindere dal fatto che la medesima Regione Campania, nel ricorso n. 14 del 2004 avverso il testo del decreto-legge così come convertito in legge dalla legge n. 326 del 2003, impugna erroneamente i commi 48 e 49, soppressi in sede di conversione in legge.
Ancora, va esclusa l'ammissibilità delle censure sollevate dalla Regione Marche, con i ricorsi n. 81 del 2003 e n. 8 del 2004, in relazione ai parametri costituiti dagli artt. 32, 41 e 42 Cost., in quanto non viene fornita alcuna motivazione autonoma rispetto agli altri profili di doglianza.
Del pari inammissibile è la censura proposta dalla Regione Campania, con i ricorsi n. 76 del 2003 e n. 14 del 2004, in riferimento al parametro dell'art. 114 Cost., anch'essa non motivata in alcun modo.
Il rilievo di incostituzionalità di cui alla sopra indicata lettera h) - fondato sulla violazione dell'art. 97 Cost., in quanto i principi di imparzialità dei pubblici poteri e di buon andamento dell'amministrazione sarebbero frustrati dalla inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di reprimere l'abusivismo - deve invece essere dichiarato inammissibile perché eccessivamente generico.
Quanto alla censura concernente il comma 10 dell'art. 32, formulata in entrambi i ricorsi della Regione Marche e nel ricorso della Regione Toscana avverso il testo del d.l. n. 269 del 2003, ne va dichiarata l'inammissibilità con riferimento al ricorso n. 8 del 2004 della Regione Marche per carenza di qualunque autonoma motivazione, mentre le modifiche apportate dalla legge di conversione debbono ritenersi satisfattive delle doglianze prospettate delle ricorrenti in relazione al testo originario del decreto-legge, consentendo - in assenza di un'attuazione medio tempore della norma impugnata - di dichiarare la cessazione della materia del contendere (cfr., da ultimo, ordinanza n. 137 del 2004).
13. - Numerose tra le questioni proposte dalle Regioni ricorrenti fanno riferimento a parametri differenti da quelli specificamente concernenti il riparto di competenze tra le stesse e lo Stato. Non possono essere ritenute ammissibili le censure relative ad aspetti che non siano potenzialmente idonei “a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni o Province autonome ricorrenti” (sentenza n. 303 del 2003; cfr., inoltre, le sentenze n. 353 del 2001, n. 503 del 2000, n. 408 del 1998, n. 87 del 1996). Alla luce di tale criterio deve essere dichiarata l'inammissibilità della questione di cui alla sopra indicata lettera f), secondo la quale la disciplina impugnata violerebbe l'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di eguaglianza, perché discriminerebbe tra cittadini rispettosi della legalità e cittadini che non lo siano, in sfavore dei primi. È del tutto evidente, infatti, che tale vizio non sarebbe in grado di incidere in alcun modo sulla sfera di autonomia delle ricorrenti. Per le medesime ragioni è inammissibile anche la censura di cui alla sopra indicata lettera e), secondo la quale la disciplina impugnata violerebbe l'art. 25 Cost. e, in particolare, i principi di legalità, tassatività e certezza delle norme penali.
14. - Vanno disattese, invece, le eccezioni di inammissibilità formulate dall'Avvocatura dello Stato nei confronti delle censure di cui alle sopra indicate lettere d) e t), secondo le quali le Regioni non sarebbero legittimate a ricorrere avverso la disciplina impugnata, in quanto pretenderebbero di far valere competenze non solo proprie, ma anche degli enti locali.
Infatti, la stretta connessione, in particolare in materia urbanistica e in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali. Ciò al di là del fatto che il nuovo quarto comma dell'art. 123 Cost. ha configurato il Consiglio delle autonomie locali come organo necessario della Regione e che l'art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 (così come sostituito dall'art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003), ha attribuito proprio a tale organo un potere di proposta alla Giunta regionale relativo al promovimento dei giudizi di legittimità costituzionale in via diretta contro le leggi dello Stato.
15. - Nel periodo intercorrente tra l'approvazione della legge di conversione n. 326 del 2003 e la proposizione dei ricorsi nei confronti di quest'ultima, è intervenuta la legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004), che ha abrogato i commi 6, 9 e 24 dell'art. 32 in questione. Tale sopravvenienza normativa, in considerazione del tenore delle censure rivolte avverso le disposizioni menzionate, deve essere ritenuta satisfattiva delle pretese regionali. Conseguentemente, anche alla luce della evidente inattuazione medio tempore di tali disposizioni, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere riguardo alle predette censure.
16. - A questo punto è possibile passare ad esaminare i profili di merito delle rimanenti censure prospettate dalle Regioni ricorrenti, tenendo conto che i riferimenti che si faranno di seguito alle disposizioni oggetto del giudizio devono intendersi relativi, salvo diversa esplicita indicazione, al testo dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 quale convertito in legge dalla legge n. 326 del 2003.
17. - In via preliminare appare opportuno evidenziare alcune caratteristiche generali di questo nuovo condono edilizio.
Malgrado la titolazione dell'art. 32 sia “Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni delle aree demaniali”, l'oggetto fondamentale di tale disposizione è la previsione e la disciplina di un nuovo condono edilizio esteso all'intero territorio nazionale, di carattere temporaneo ed eccezionale rispetto all'istituto a carattere generale e permanente del “permesso di costruire in sanatoria”, disciplinato dagli artt. 36 e 45 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ancorato a presupposti in parte diversi e comunque sottoposto a condizioni assai più restrittive.
Si tratta, peraltro, di un condono che si ricollega sotto molteplici aspetti ai precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall'inizio degli anni ottanta: ciò è reso del tutto palese dai molteplici rinvii contenuti nell'art. 32 alle norme concernenti i precedenti condoni, ma soprattutto dal comma 25 dell'art. 32, il quale espressamente rinvia alle disposizioni dei “capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni”, disponendo che tale normativa, come ulteriormente modificata dal medesimo art. 32, si applica “alle opere abusive” cui la nuova legislazione appunto si riferisce. Attraverso questa tecnica normativa, consistente nel rinvio alle disposizioni dell'istituto del condono edilizio come configurato in precedenza, si ha una esplicita saldatura fra il nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo straordinario, cui si apportano solo alcune limitate innovazioni.
Resta, in particolare, la caratteristica fondamentale di mantenere collegato il condono penale con la sanatoria amministrativa: l'integrale pagamento dell'oblazione, oltre a costituire il presupposto per l'estinzione dei reati edilizi, estingue anche i relativi procedimenti di esecuzione delle sanzioni amministrative (cfr. art. 38, secondo comma, della legge n. 47 del 1985) e costituisce uno dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria (commi 32 e 37 dell'art. 32 in questione); ancora, l'oblazione interamente corrisposta costituisce condizione perché la sanatoria renda inapplicabili le sanzioni amministrative, “ivi comprese le pene pecuniarie e le sovrattasse previste per le violazioni delle disposizioni in materia di imposte sui redditi relativamente ai fabbricati abusivamente eseguiti” (cfr. art. 38, quarto comma, della legge n. 47 del 1985).
Ciò non esclude, peraltro, che - ove sia stata effettuata l'oblazione - pur in presenza di diniego di sanatoria, si estinguano i reati edilizi e le sanzioni amministrative consistenti nel pagamento di una somma di denaro siano “ridotte in misura corrispondente all'oblazione versata” (art. 39 della legge n. 47 del 1985).
Rispetto ai precedenti, l'attuale condono risulta per alcuni profili più ristretto, dal momento che il comma 25, relativamente alle nuove costruzioni residenziali, pone un limite complessivo di 3.000 metri cubi ai volumi sanabili, e definisce analiticamente le tipologie di abusi condonabili (comma 26 e Allegato 1), introducendo altresì alcuni nuovi limiti all'applicabilità del condono (comma 27), che si aggiungono a quanto previsto negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985. A fianco di tali previsioni, viene disciplinata analiticamente la possibilità di sanare opere abusive edificate su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale o su aree gravate da diritti di uso civico (commi da 14 a 20).
Il richiamo all'intero capo IV della legge n. 47 del 1985 rende applicabile anche al presente condono la sospensione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali disposta dall'art. 44 della legge n. 47 del 1985, con effetto dalla data di entrata in vigore del decreto e fino alla scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande di sanatoria [stabilito, come è noto, originariamente al 31 marzo 2004, quindi differito al 31 luglio 2004 dal decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82 (Proroga di termini in materia edilizia), convertito in legge ad opera della legge 28 maggio 2004 n. 141 (Conversione in legge del decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82, recante proroga di termini in materia edilizia)].
La regolare e tempestiva presentazione di tale domanda al Comune competente, nonché il versamento dell'oblazione, “sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative” (art. 38, primo comma, della legge n. 47 del 1985).
Il titolo abilitativo è rilasciato dal Comune, ove non vi siano motivi ostativi (art. 35 della legge n. 47 del 1985), ma il comma 37 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 dispone che il decorso di 24 mesi dalla consegna della documentazione, senza che l'amministrazione abbia adottato un provvedimento negativo, integra un'ipotesi di silenzio-assenso, che equivale al rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Da notare, infine, che permane l'atipicità dell'oblazione delineata da questa legislazione (e destinata all'erario statale, ai sensi dell'art. 34, primo comma, della legge n. 47 del 1985), che differisce sotto più profili dall'istituto disciplinato in generale dagli artt. 162 e 162-bis del codice penale, e la cui quantificazione è determinata o forfetariamente o in misura rapportata alla tipologia dell'abuso, alla qualità degli immobili e alla superficie della costruzione abusivamente realizzata (si veda, al riguardo, la sentenza n. 369 del 1988).
Quanto al ruolo riconosciuto in questa legislazione alle autonomie territoriali, i Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali, ivi compreso - come accennato - il “permesso di costruire in sanatoria”, sono tenuti da questa legislazione a rilasciare il titolo abilitativo in sanatoria (artt. 31 e 35, quattordicesimo comma, della legge n. 47 del 1985), anche per le opere edilizie contrastanti con i loro atti di pianificazione. A seguito della sanatoria sono altresì vincolati a rilasciare “il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica” (art. 35, diciottesimo comma, della legge n. 47 del 1985).
Tutto ciò comporta, come già ricordato, prima la sospensione del procedimento relativo alle sanzioni amministrative, poi l'estinzione dei relativi procedimenti di esecuzione, e infine, ove si giunga al rilascio del titolo in sanatoria, la loro inapplicabilità. Al tempo stesso, questo condono straordinario di fatto esclude, o comunque limita fortemente, la possibilità per i Comuni di rilasciare l'ordinario “permesso di costruire in sanatoria”.
Per quel che concerne i maggiori costi che le amministrazioni comunali devono affrontare, sia per lo svolgimento delle procedure amministrative sia per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e in genere per gli interventi di riqualificazione delle aree interessate dalle opere abusive, l'art. 32 prevede il ricorso a quattro diverse forme di introiti. La legge regionale può disporre un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura indicata dallo stesso art. 32 (Tabella C dell'Allegato 1) “ai fini della attivazione di politiche di repressione degli abusi edilizi e per la promozione di interventi di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo edilizio”, nonché per l'effettuazione di controlli periodici del territorio (comma 33). La legge regionale, ancora, può incrementare “fino al massimo del 100 per cento” gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria (comma 34). La stessa amministrazione comunale può aumentare fino ad un massimo del 10 per cento i diritti ed oneri ordinariamente previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi “da utilizzare con le modalità di cui all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre 1996, n. 662” (comma 40). Infine, il Ministero dell'economia attribuisce ai Comuni il 50 per cento delle somme riscosse a conguaglio dell'oblazione, “al fine di incentivare la definizione delle domande di sanatoria” (comma 41).
La nuova normativa sul condono, peraltro, prevede direttamente (al comma 38, che rinvia all'Allegato 1) la misura dell'anticipazione degli oneri concessori, la cui determinazione è, invece, di competenza del Comune e della legge regionale (cfr. art. 37 della legge n. 47 del 1985, nonché art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Quanto alle Regioni, malgrado l'intervenuto accrescimento dei loro poteri in conseguenza della riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 riserva loro ambiti di intervento assai ristretti ed entro termini molto esigui. Infatti, la normativa oggetto del presente giudizio prevede che le Regioni mediante leggi possano intervenire solo in questi limiti: per i soli illeciti relativi ad opere di restauro e risanamento conservativo o ad opere di manutenzione straordinaria realizzate in aree non soggette ai vincoli di cui all'art. 32 della legge n. 47 del 1985, come modificato dal comma 43 dell'impugnato art. 32, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della disciplina qui esaminata, la Regione, con propria legge, può determinare “la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio” (comma 26, lettera b); entro i medesimi sessanta giorni, possono anche essere emanate “norme per la definizione del procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria” (comma 33); inoltre, nello stesso termine, può essere previsto, tra l'altro, “un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura determinata nella tabella C” (comma 33); ancora, è possibile aumentare “gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria […] fino al massimo del 100 per cento”, nonché individuare modalità di attuazione della norma secondo cui chi esegua in tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria o secondaria può detrarre dall'importo complessivo degli oneri concessori quanto già versato a titolo di anticipazione (comma 34); infine, si può prevedere l'obbligo di allegare alla domanda di definizione dell'illecito ulteriore documentazione rispetto a quella già determinata dalla legge statale (comma 35, lettera c).
18. - La pluralità ed eterogeneità dei profili di costituzionalità sollevati dalle ricorrenti rende opportuno esaminare, in via prioritaria, le censure mosse nei confronti dell'intero istituto disciplinato dall'art. 32 oggetto del presente giudizio e delle sue caratteristiche complessive. A tale riguardo, è ovviamente preliminare l'analisi dei rilievi di costituzionalità relativi alla fonte utilizzata.
Le Regioni ricorrenti hanno anzitutto impugnato l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 per asserito contrasto con l'art. 77 Cost., sia per carenza dei presupposti di necessità e urgenza, sia per la disomogeneità del contenuto del decreto-legge, sia, infine, perché il decreto-legge sarebbe inidoneo a porre i principi fondamentali di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. Inoltre, le ricorrenti hanno negato la legittimità costituzionale della conversione in legge dell'art. 32 ad opera della legge n. 326 del 2003, in quanto i vizi del decreto-legge si ripercuoterebbero come vizi in procedendo sulla stessa legge di conversione.
Le questioni non sono fondate.
Per ciò che riguarda in particolare l'art. 32 nel testo originario del decreto-legge n. 269 del 2003, non può negarsi che la delicata materia del condono edilizio potrebbe meritare una più meditata elaborazione tramite l'ordinario procedimento di formazione delle leggi; al tempo stesso, peraltro, potrebbero essere addotti per questo particolare istituto anche alcuni specifici motivi per un'immediata adozione ed entrata in vigore del testo normativo, destinato ad avere - come prima esposto - efficacia sulle procedure giurisdizionali ed amministrative in corso, ma soprattutto per evitare o ridurre spinte alla modifica del disegno di legge sotto la pressione di interessi favorevoli a nuove opere abusive.
Se a ciò si aggiunge che in questo caso sembra aver pure pesato - seppur opinabilmente - la necessità di inserire questo provvedimento in un assai più ampio decreto-legge intitolato “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici”, non può negarsi che ci si trovi in un contesto nel quale la Corte costituzionale non può rilevare un caso di “evidente mancanza” dei presupposti di necessità e di urgenza prescritti dal secondo comma dell'art. 77 Cost., secondo la sua ormai consolidata giurisprudenza in materia (fra le molte, cfr. da ultimo la sentenza n. 341 del 2003 e la sentenza n. 6 del 2004).
Quanto poi alla presunta carenza di omogeneità dell'oggetto del decreto-legge, è sufficiente rilevare che non si tratta di requisito costituzionalmente imposto (seppur opportunamente previsto dal comma 3 dell'art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400, recante “Disciplina dell'attività di Governo ed ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”).
In ordine alla pretesa secondo la quale il decreto-legge sarebbe una fonte strutturalmente inidonea alla posizione di principi fondamentali, deve essere osservato che questa Corte ha già più volte chiarito che “un decreto-legge può di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi che la Costituzione affida alla competenza statale, ivi compresa anche la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost.” (sentenza n. 6 del 2004).
Tali considerazioni, peraltro, valgono anche ad escludere la lamentata violazione dell'art. 77 Cost. da parte della legge di conversione, senza che occorra in questa sede prendere in esame la possibilità secondo la quale i vizi del decreto-legge relativi alla carenza dei presupposti costituzionali per la sua adozione si riverberino anche su quest'ultima quali vizi in procedendo (sul punto, cfr. comunque le sentenze n. 341 del 2003, n. 29 e n. 16 del 2002, n. 398 del 1998 e n. 330 del 1996).
19. - La Regione Marche, nel ricorso contro l'art. 32 convertito dalla legge n. 326 del 2003, ha sollevato anche la questione di legittimità costituzionale dell'intero istituto del condono in riferimento alla presunta lesione dell'art. 79 Cost., così riproponendo una tesi che già più volte in passato era stata sostenuta in atti introduttivi di giudizi di legittimità costituzionale. In base a tale ricostruzione, il condono costituirebbe in realtà un tipo di amnistia impropria, che quindi andrebbe prevista e disciplinata solo tramite una legge conforme alle rigide prescrizioni di cui all'art. 79 Cost.
La questione non è fondata.
L'assoluta mancanza di nuove argomentazioni a sostegno del rilievo di costituzionalità sollevato, rispetto a quelle già in passato affrontate da questa Corte, induce a confermare gli esiti della precedente giurisprudenza: se nella sentenza n. 369 del 1988 si era negata la natura di amnistia impropria al condono, a causa della “complessa fattispecie estintiva” del reato, che “viene ad essere […] almeno di regola, costitutiva (di effetti amministrativi) ed estintiva (di effetti penali)”, e nella quale la non punibilità si produce “soltanto a seguito delle manifestazioni di concrete volontà degli interessati e dell'autorità amministrativa”, nella sentenza n. 427 del 1995 - adottata dopo la modificazione dell'art. 79 Cost. ad opera della legge costituzionale 6 marzo 1992 n. 1 (Revisione dell'articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto) - questa tesi è stata esplicitamente confermata, sottolineandosi inoltre come esistano nell'ordinamento casi di altre leggi determinanti “lo stesso effetto estintivo del reato prodotto dal condono edilizio”.
D'altra parte - come in precedenza evidenziato - l'attuale testo dell'art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede un analogo effetto estintivo del reato a seguito del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del medesimo d.P.R.
20. - In relazione alle censure di ordine sostanziale che le ricorrenti muovono nei confronti dell'intero istituto disciplinato nelle disposizioni impugnate, nonostante alcune di esse si rivolgano a contestare la stessa ammissibilità di un condono edilizio, è opportuno prendere in esame anzitutto i rilievi fondati sulla lamentata violazione del sistema costituzionale delle competenze, dal momento che tutte le Regioni ricorrenti contestano primariamente la legittimità costituzionale dell'art. 32 sulle base delle proprie attribuzioni costituzionali in tema di edilizia, di urbanistica o di governo del territorio: se le Regioni ad autonomia ordinaria lo fanno in riferimento ai commi terzo o quarto dell'art. 117 e all'art. 118 Cost., la Regione Friuli-Venezia Giulia lo fa in riferimento all'art. 4, numero 12, e all'art. 8 della legge costituzionale n. 1 del 1963 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
Solo la Regione Campania e la Regione Marche sostengono la tesi secondo la quale il condono edilizio inciderebbe in una materia di competenza residuale delle Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost. (l'edilizia o l'urbanistica), mentre tutte le Regioni ad autonomia ordinaria ritengono che, ove la disciplina oggetto del presente giudizio dovesse essere collocata nell'ambito di una materia affidata alla competenza concorrente di Stato e Regioni (nel caso di specie, “governo del territorio”), comunque contrasterebbe con l'art. 117, terzo comma, Cost., per violazione dei limiti posti da tale disposizione al legislatore statale. Ciò, innanzi tutto, in quanto l'art. 32 detterebbe una normativa di dettaglio, per di più intrinsecamente non cedevole; in secondo luogo, a causa della circostanza secondo la quale la stessa idea di condono edilizio, in quanto disciplina eccezionale, non sarebbe idonea ad essere qualificata quale principio fondamentale della materia.
Inoltre, si sostiene che, anche non contestandosi il pieno ed esclusivo potere del legislatore statale in materia penale, che lo abilita ad escludere la punibilità di determinate condotte, sarebbe inammissibile che la legge statale incida contestualmente sulla sanzionabilità amministrativa degli illeciti edilizi, che invece spetta all'autonomia regionale in quanto relativa alla disciplina del “governo del territorio”.
La Regione Friuli-Venezia Giulia sostiene che, disponendo essa di competenza legislativa primaria in materia di urbanistica, l'autonomia regionale in tale ambito potrebbe essere legittimamente vincolata esclusivamente dalla Costituzione, dai principi generali dell'ordinamento giuridico e dalle norme fondamentali delle leggi di grande riforma economico-sociale, tra le quali non potrebbe essere annoverata la previsione di un condono edilizio quale disciplinato dall'art. 32 anche sul versante della disciplina urbanistica.
A loro volta, alcune Regioni ad autonomia ordinaria (la Regione Campania, la Regione Marche e la Regione Toscana) evidenziano che alcune parti significative della disciplina del condono di cui all'art. 32 contrasterebbero con il nuovo art. 118 Cost., specie in riferimento al radicale svuotamento del principio di sussidiarietà che deriverebbe dalla disciplina impugnata in un ambito caratterizzato sia da funzioni indubbiamente proprie delle regioni, che da un'area di tradizionale titolarità di funzioni di gestione amministrativa da parte dei Comuni. Né, certo, la natura delle funzioni amministrative di gestione in materia urbanistica potrebbe legittimare la loro attribuzione al livello centrale in nome del principio di adeguatezza, come dimostrato dalla stessa legislazione sul condono, che le mantiene ai Comuni pur vincolandone radicalmente l'esercizio.
I suddetti rilievi appaiono in parte fondati, secondo quanto meglio di seguito specificato.
Il condono edilizio di tipo straordinario, quale finora configurato nella nostra legislazione, appare essenzialmente caratterizzato dalla volontà dello Stato di intervenire in via straordinaria sul piano della esenzione dalla sanzionabilità penale nei riguardi dei soggetti che, avendo posto in essere determinate tipologie di abusi edilizi, ne chiedano il condono tramite i Comuni direttamente interessati, assumendosi l'onere del versamento della relativa oblazione e dei costi connessi all'eventuale rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, appositamente previsto da questa legislazione.
Non vi è dubbio sul fatto che solo il legislatore statale può incidere sulla sanzionabilità penale (per tutte, v. la sentenza n. 487 del 1989) e che esso, specie in occasione di sanatorie amministrative, dispone di assoluta discrezionalità in materia “di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità” (sentenze n. 327 del 2000, n. 149 del 1999 e n. 167 del 1989). Peraltro, la circostanza che il comune sia titolare di fondamentali poteri di gestione e di controllo del territorio rende necessaria la sua piena collaborazione con gli organi giurisdizionali, poiché, come questa Corte ha affermato, “il giudice penale non ha competenza 'istituzionale' per compiere l'accertamento di conformità delle opere agli strumenti urbanistici” (sentenza n. 370 del 1988). Tale doverosa collaborazione per concretizzare la scelta del legislatore statale di porre in essere un condono penale si impone quindi su tutto il territorio nazionale, inerendo alla strumentazione indispensabile per dare effettività a tale scelta.
Al tempo stesso rileva la parallela sanatoria amministrativa, anche attraverso la previsione da parte del legislatore statale di uno straordinario titolo abilitativo edilizio, a causa dell'evidente interesse di coloro che abbiano edificato illegalmente ad un condono su entrambi i versanti, quello penale e quello amministrativo; ma sul piano della sanatoria amministrativa i vincoli che legittimamente possono imporsi all'autonomia legislativa delle Regioni, ordinarie e speciali, non possono che essere quelli ammissibili sulla base rispettivamente delle disposizioni contenute nel nuovo art. 117 Cost. e degli statuti speciali.
Per ciò che riguarda l'art. 117 Cost., la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito (cfr. le sentenze n. 303 e n. 362 del 2003) che nei settori dell'urbanistica e dell'edilizia i poteri legislativi regionali sono senz'altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di “governo del territorio”. E se è vero che la normativa sul condono edilizio di cui all'impugnato art. 32 certamente tocca profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia, è altresì innegabile che essa non si esaurisce in tali ambiti specifici ma coinvolge l'intera e ben più ampia disciplina del “governo del territorio” - che già questa Corte ha ritenuto comprensiva, in linea di principio, di “tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività” (cfr. sentenza n. 307 del 2003) - ossia l'insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio. Se poi si considera anche l'indubbio collegamento della disciplina con la materia della “valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”, appare evidente che alle Regioni è oggi riconosciuta al riguardo una competenza legislativa più ampia, per oggetto, di quella contemplata nell'originario testo dell'art. 117 Cost.; ciò - è bene ricordarlo - mentre le potestà legislative dello Stato di tipo esclusivo, di cui al secondo comma dell'art. 117 Cost., sono state consapevolmente inserite entro un elenco conchiuso.
Inoltre, nel nuovo art. 118 Cost. per la prima volta si è stabilito che, in virtù del principio di sussidiarietà garantito in una disposizione costituzionale, i Comuni sono normalmente titolari delle funzioni di gestione amministrativa, riconoscendosi inoltre che “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie”. A sua volta, il quarto comma del nuovo art. 119 Cost. per la prima volta afferma che le normali entrate dei Comuni devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
Tutto ciò implica necessariamente che, in riferimento alla disciplina del condono edilizio (per la parte non inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale, ivi compresa - come già affermato in precedenza - la collaborazione al procedimento delle amministrazioni comunali), solo alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell'art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante - più ampio che nel periodo precedente - di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo.
Al tempo stesso, se i Comuni possono, nei limiti della legge, provvedere a sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi, viene in evidente rilievo l'inammissibilità di una legislazione statale che determini anche la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento ai Comuni; d'altronde, l'ordinaria disciplina vigente attribuisce il potere di determinare l'ammontare degli oneri concessori agli stessi Comuni, sulla base della legge regionale (art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Per ciò che riguarda le Regioni ad autonomia particolare, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, lo spazio di intervento affidato al legislatore regionale appare maggiore, perché in questo caso possono operare solo il limite della “materia penale” (comprensivo delle connesse fasi procedimentali) e quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili), mentre spetta al legislatore regionale la eventuale indicazione di ulteriori limiti al condono, derivanti dalla sua legislazione sulla gestione del territorio: d'altra parte, su questo piano esiste il precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 418 del 1995, pronunciata appunto in relazione al rapporto tra le competenze statali relative al condono edilizio del 1994 e le competenze della Provincia autonoma di Trento, dotata in materia di potestà legislativa primaria.
È significativo che questa stessa sentenza prendesse positivamente atto dell'avvenuta adozione, nelle more del giudizio, della legge della Provincia autonoma di Trento 18 aprile 1995, n. 5 (Definizione agevolata delle violazioni edilizie - condono edilizio), che, determinando “disposizioni di coordinamento per l'applicazione nel territorio nella Provincia delle norme contenute nell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724”, subordinava la sanabilità amministrativa delle opere abusive anche al rispetto di tutta una serie di vincoli determinati dalla legislazione provinciale (cfr., in particolare, gli artt. 1 e 8), da accertare tramite speciali procedimenti dell'amministrazione provinciale, con esiti vincolanti per le amministrazioni comunali (cfr. gli artt. 5, 6 e 7).
Questa legislazione conferma, in una particolare realtà territoriale, quella che è una più generale caratteristica della legislazione sul condono, nella quale normalmente quest'ultimo ha effetti sia sul piano penale che sul piano delle sanzioni amministrative, ma che non esclude la possibilità che le procedure finalizzate al conseguimento dell'esenzione dalla punibilità penale si applichino ad un maggior numero di opere edilizie abusive rispetto a quelle per le quali operano gli effetti estintivi degli illeciti amministrativi; ciò è reso d'altra parte evidente nelle disposizioni dello stesso Capo IV della legge n. 47 del 1985, e successive modificazioni e integrazioni, che nell'art. 38 disciplina separatamente, al secondo ed al quarto comma, i presupposti del condono penale (il versamento dell'intera oblazione) ed amministrativo (il conseguimento del titolo abilitativo in sanatoria) e nell'art. 39 prevede che, ove si sia effettuata l'oblazione, si produca comunque l'estinzione dei reati anche ove “le opere non possano conseguire la sanatoria”.
D'altra parte, anche l'art. 32 impugnato prevede, al comma 36, i presupposti per il verificarsi dell'effetto estintivo penale, mentre i diversi presupposti per il conseguimento del titolo abilitativo in sanatoria sono regolati dal comma 37, così confermando che i due effetti possono essere indipendenti l'uno dall'altro, dal momento che l'effetto penale si produce a prescindere dall'intervenuta concessione della sanatoria amministrativa e anche se la sanatoria amministrativa non possa essere concessa.
21. - L'insieme delle considerazioni fin qui sviluppate induce a ritenere alcune parti della nuova disciplina del condono edilizio contenuta nell'art. 32 impugnato contrastanti con gli artt. 117 e 118 Cost., per ciò che riguarda le Regioni ad autonomia ordinaria, nonché con gli artt. 4, numero 12, e 8 della legge costituzionale n. 1 del 1963, per ciò che riguarda la Regione Friuli-Venezia Giulia: ciò perché questa norma, in particolare, comprime l'autonomia legislativa delle Regioni, impedendo loro di fare scelte diverse da quelle del legislatore nazionale, ancorché nell'ambito dei principi legislativi da questo determinati.
L'individuazione di profili di sicura competenza statale nella disciplina in esame, sia per la parte relativa agli aspetti penalistici sia per la parte relativa alla determinazione dei principi fondamentali sul governo del territorio, inducono questa Corte ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale solo parziale, limitandola a quelle disposizioni del testo legislativo che, in contraddizione con gli stessi enunciati dell'art. 32 (il comma 3 afferma che “le condizioni, i limiti e le modalità del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali”, mentre il comma 4 stabilisce che “sono in ogni caso fatte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano”), escludono il legislatore regionale da ambiti materiali che invece ad esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e statutarie.
Il riconoscimento in capo alle regioni di adeguati poteri legislativi, da esercitare entro termini congrui, rafforza indirettamente anche il ruolo dei Comuni, dal momento che indubbiamente questi possono influire sul procedimento legislativo regionale in materia, sia informalmente sia, in particolare, usufruendo dei vari strumenti di partecipazione previsti dagli statuti e dalla legislazione delle Regioni (in anticipazione o in attuazione di quanto ora previsto dal nuovo quarto comma dell'art. 123 Cost.).
Alla stregua di quanto sopra detto, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo anzitutto il comma 26 dell'art. 32, nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all'Allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003.
Analoga dichiarazione di illegittimità costituzionale va pronunziata per il comma 25 dell'art. 32, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli indicati nella medesima disposizione.
In terzo luogo, i possibili diversi limiti opponibili dalla legge regionale non possono non riguardare anche quelle opere situate nel territorio regionale cui i commi 14 e seguenti dell'art. 32 rendono applicabile il condono, malgrado si tratti di beni che insistono su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale: da ciò la dichiarazione di illegittimità costituzionale del comma 14, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 si applichi anche a questa categoria particolare di opere.
In quarto luogo, appare del tutto incongrua, rispetto alla complessità delle scelte spettanti alle autonomie regionali, la determinazione nel comma 33 di un termine perentorio di sessanta giorni - connesso alla previsione di cui alla lettera b) del comma 26 - entro il quale le Regioni dovrebbero esercitare il loro potere normativo; da ciò la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'inciso “entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto” e la necessità che esso sia sostituito con il rinvio esplicito alla legge regionale di cui al comma 26.
In quinto luogo, va altresì dichiarata la incostituzionalità del comma 37, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa disciplinare diversamente gli effetti del silenzio, protratto oltre il termine ivi previsto, del Comune cui gli interessati abbiano presentato la documentazione richiesta.
In sesto luogo, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del comma 38, nella parte in cui prevede che sia l'Allegato 1 dello stesso d.l. n. 269 del 2003, anziché la legge regionale di cui al comma 26, a determinare la misura dell'anticipazione degli oneri concessori, nonché le relative modalità di versamento; conseguentemente, è da dichiarare costituzionalmente illegittimo lo stesso Allegato 1, nelle parti in cui determina la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.
In settimo luogo, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 32 impugnato, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi ad opera del legislatore statale.
Infatti, il necessario riconoscimento del ruolo legislativo delle regioni nella attuazione della legislazione sul condono edilizio straordinario esige, ai fini dell'operatività della normativa in esame, che il legislatore nazionale provveda alla rapida fissazione di un termine, che dovrà essere congruo perché le regioni e le province autonome possano determinare tutte le specificazioni cui sono chiamate dall'art. 32 - quale risultante dalla presente sentenza - sulla base del dettato costituzionale e dei rispettivi statuti speciali. Il legislatore nazionale dovrà inoltre provvedere a ridefinire i termini previsti, per gli interessati, nei commi 15 e 32 dell'art. 32, nonché nell'Allegato 1 al d.l. n. 269 del 2003, convertito in legge ad opera della legge n. 326 del 2003, di recente già prorogati dal d.l. n. 82 del 2004, convertito dalla legge n. 141 del 2004 (ciò ovviamente facendo salve le domande già presentate). È peraltro evidente che la facoltà degli interessati di presentare la domanda di condono dovrà essere esercitabile in un termine ragionevole a partire dalla scadenza del termine ultimo posto alle Regioni per l'esercizio del loro potere legislativo.
In considerazione della particolare struttura del condono edilizio straordinario qui esaminato, che presuppone un'accentuata integrazione fra il legislatore statale ed i legislatori regionali, l'adozione della legislazione da parte delle Regioni appare non solo opportuna, ma doverosa e da esercitare entro il termine determinato dal legislatore nazionale; nell'ipotesi limite che una Regione o Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo in materia nel termine massimo prescritto, a prescindere dalla considerazione se ciò costituisca, nel caso concreto, un'ipotesi di grave violazione della leale cooperazione che deve caratterizzare i rapporti fra Regioni e Stato, non potrà che trovare applicazione la disciplina dell'art. 32 e dell'Allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003, così come convertito in legge dalla legge n. 326 del 2003 (fatti salvi i nuovi termini per gli interessati).
Le suddette considerazioni assorbono i rilievi mossi contro i commi 1, 2, 3 e 4 dell'art. 32.
22. - Le conclusioni appena raggiunte circa la parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate per violazione delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle autonomie regionali non possono non influire sulla valutazione delle ulteriori e più generali censure di ordine sostanziale proposte dalle Regioni ricorrenti.
23. - Alcune delle Regioni ricorrenti contestano la complessiva legittimità costituzionale della nuova legislazione sul condono edilizio poiché opererebbe un illegittimo bilanciamento fra valori costituzionali primari ed altri interessi pubblici: in particolare, si sacrificherebbe irrimediabilmente la tutela dei beni ambientali e paesaggistici di cui al secondo comma dell'art. 9 Cost., così violando anche l'art. 117, terzo comma, Cost., che affida alla competenza regionale la valorizzazione dei beni ambientali. La giurisprudenza costituzionale avrebbe elaborato un “principio costituzionale di indisponibilità dei valori costituzionalmente tutelati”; conseguentemente, il valore costituzionale di un ordinato assetto del territorio non potrebbe “essere scambiato con valori puramente finanziari”, come invece avverrebbe nel caso della sanatoria edilizia.
La questione non è fondata.
Non v'è dubbio che gli interessi coinvolti nel condono edilizio, in particolare quelli relativi alla tutela del paesaggio come “forma del territorio e dell'ambiente”, siano stati ripetutamente qualificati da questa Corte come “valori costituzionali primari” (cfr., tra le molte, le sentenze n. 151 del 1986, n. 359 e n. 94 del 1985); primarietà che la stessa giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente definito come “insuscettibilità di subordinazione ad ogni altro valore costituzionalmente tutelato, ivi compresi quelli economici” (in questi termini, v. sentenza n. 151 del 1986). Tale affermazione rende evidente che questa “primarietà” non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni; in altri termini, la “primarietà” degli interessi che assurgono alla qualifica di “valori costituzionali” non può che implicare l'esigenza di una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi decisionali all'interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte politiche o amministrative.
Il bilanciamento che nel caso di specie verrebbe in considerazione, secondo le ricorrenti, è quello tra i valori tutelati in base all'art. 9 Cost. e le esigenze di finanza pubblica; a questo proposito, però, le Regioni ritengono che nella disciplina impugnata si opererebbe una totale e definitiva compromissione dell'interesse paesistico-ambientale: ciò in quanto uno dei due interessi (quello relativo alla tutela dell'ambiente, del paesaggio e del territorio) apparirebbe, a differenza dell'altro, sacrificato in via del tutto definitiva (e ciò a differenza di altri condoni, come quello fiscale, che pure comportano effetti di clemenza penale).
In realtà, questa Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte riconosciuto - in particolare nella sentenza n. 85 del 1998 - come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio, poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell'iniziativa economica privata all'utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro, dall'altra (sentenze n. 302 del 1996 e n. 427 del 1995).
Alla luce di tali considerazioni, la disciplina del condono edilizio di cui all'art. 32 impugnato, come risultante dalle già argomentate dichiarazioni di illegittimità costituzionale parziale (che ne determinano, tra l'altro, la sostanziale discontinuità rispetto ai precedenti condoni del 1985 e del 1994), non appare, allo stato attuale, in contrasto con la primarietà dei valori sanciti nell'art. 9 Cost. È infatti evidente che la tutela di un fondamentale valore costituzionale sarà tanto più effettiva quanto più risulti garantito che tutti i soggetti istituzionali cui la Costituzione affida poteri legislativi ed amministrativi siano chiamati a contribuire al bilanciamento dei diversi valori in gioco. E il doveroso riconoscimento alla legislazione regionale di un ruolo specificativo - all'interno delle scelte riservate al legislatore nazionale - delle norme in tema di condono contribuisce senza dubbio a rafforzare la più attenta e specifica considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela dell'ambiente e del paesaggio, che sono - per loro natura - i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi.
24. - Non pochi rilievi di costituzionalità sollevati dalle Regioni concernono la violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della pretesa irragionevolezza del nuovo condono edilizio, in relazione ad una serie di elementi convergenti, essenzialmente caratterizzati dalla mancata considerazione, da parte del legislatore statale, dei mutamenti che si sono prodotti nel periodo più recente nella legislazione e nella gestione urbanistica. In sostanza, la attuale disciplina in tema di condono edilizio si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, poiché mancherebbero del tutto quelle circostanze eccezionali che, nelle precedenti situazioni, avevano portato la Corte costituzionale a ritenere giustificata la sanatoria; inoltre, l'irragionevolezza scaturirebbe dalla inidoneità intrinseca dello strumento rispetto agli scopi perseguiti in modo esplicito o implicito.
Le predette argomentazioni sono basate sulla circostanza secondo la quale, nelle precedenti occasioni, il condono era stato ritenuto strumento costituzionalmente accettabile in quanto inteso come “chiusura di una epoca di illegalità e punto di partenza di una nuova legalità”; e ciò in considerazione sia delle caratteristiche della normativa urbanistica allora in vigore, che appariva arcaica e farraginosa, sia della evidente incapacità dei Comuni di assicurare il rispetto della medesima normativa.
Secondo le ricorrenti, invece, occorrerebbe prendere atto che - al momento attuale - da una parte la ripetizione nel tempo del condono vanificherebbe i suoi effetti positivi, rinviando di continuo il punto di “ripartenza” della nuova legalità, mentre, dall'altra, sarebbe venuta meno quella situazione di farraginosità normativa che aveva giustificato la sanatoria del 1985 e che già nel 1994 (sentenza n. 427 del 1995) non era più considerata elemento rilevante. Inoltre, nel periodo più recente si sarebbe potuto registrare non solo il consolidamento della nuova legislazione urbanistica, specie tramite l'adozione del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, ma anche un significativo incremento delle attività di repressione degli illeciti edilizi e dunque un aumento del tasso complessivo di legalità nel settore.
Conseguentemente, la disciplina di sanatoria in esame, per le ricorrenti, da un lato sarebbe priva degli antichi presupposti che ne potevano sorreggere l'intrinseca adeguatezza rispetto agli obiettivi di riassetto del territorio, dall'altro assumerebbe inevitabilmente una potenzialità dannosa rispetto ai medesimi obiettivi, poiché si vanificherebbe quanto fino ad oggi è stato realizzato con il decisivo apporto delle autonomie territoriali.
In relazione agli obiettivi impliciti (l'entrata finanziaria), le Regioni ricorrenti affermano che la quantificazione delle risorse acquisibili alle casse dello Stato risulterebbe fondata su elementi assolutamente incerti e aleatori; in secondo luogo, si afferma che alle entrate programmate dovrebbero corrispondere certamente ingenti oneri di spesa aggiuntiva a carico degli enti territoriali per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e per la riqualificazione del territorio, oneri che non sarebbero stati stimati esattamente dal legislatore statale, così impedendo ogni corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
Le questioni, nei termini appena precisati, non sono fondate.
Questa Corte, nella già richiamata giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte messo in evidenza che fondamento giustificativo di questa legislazione è stata la necessità di “chiudere un passato illegale” in attesa di poter infine giungere ad una repressione efficace dell'abusivismo edilizio, pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche “ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria” (tra le altre, cfr. sentenze n. 256 del 1996, n. 427 del 1995 e n. 369 del 1988, nonché ordinanza n. 174 del 2002).
Ciò a giustificazione di un provvedimento normativo senza dubbio eccezionale e straordinario, che deve trovare la propria ratio sia nella “persistenza del fenomeno dell'abusivismo, con conseguente esigenza di recupero della legalità”, sia nella imputabilità di tale fenomeno di abusivismo “almeno in parte, proprio alla scarsa incisività e tempestività dell'azione di controllo del territorio da parte degli enti locali e delle Regioni” (cfr. sentenza n. 256 del 1996 e, analogamente, sentenze n. 302 del 1996 e n. 270 del 1996).
Su questo piano, non può negarsi che la legislazione statale negli ultimi anni sia profondamente mutata, prevedendo ormai strumenti preventivi e repressivi adeguati, e che abbia trovato anche una sua relativa stabilizzazione nel recente testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia adottato con d.P.R. n. 380 del 2001 (non a caso, il comma 2 dello stesso art. 32 impugnato si riferisce appunto - seppur con norma contestata dalle ricorrenti ed alla quale si farà riferimento oltre - a questo testo unico come ad una fonte idonea a creare discontinuità nella stessa legittimazione ad adottare un condono edilizio).
Al tempo stesso, non poche realtà comunali e regionali sembrano aver assunto linee di politica amministrativa e legislativa coerenti con un'azione di contrasto dell'abusivismo edilizio, anche se certo non in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale.
In realtà, la giurisprudenza di questa Corte ha sempre considerato ogni condono edilizio, che incide - come si è ripetutamente sottolineato - sulla sanzionabilità penale e sulla stessa certezza del diritto, nonché sulla tutela di valori essenziali come il paesaggio e l'equilibrato sviluppo del territorio, solo come un istituto “a carattere contingente e del tutto eccezionale” (in tale senso, ad esempio, sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995), ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” (sentenza n. 369 del 1988), dovendo in altre parole “trovare giustificazione in un principio di ragionevolezza” (sentenza n. 427 del 1995).
Pertanto questa Corte, specie dinanzi alla sostanziale reiterazione - tramite l'art. 39 della legge n. 724 del 1994 - del condono edilizio degli anni ottanta, più volte ha ammonito che non avrebbe superato il vaglio di costituzionalità una ulteriore reiterazione sostanziale della preesistente legislazione del condono (fra le molte, cfr. sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995, nonché ordinanze n. 174 del 2002, n. 45 del 2001 e n. 395 del 1996).
Tali affermazioni, tuttavia, non implicano l'illegittimità costituzionale di ogni tipo di condono edilizio straordinario, mai affermata da questa Corte.
Piuttosto, occorre uno stretto esame di costituzionalità del testo legislativo che preveda un nuovo condono edilizio, al fine di individuare un ragionevole fondamento, nonché elementi di discontinuità rispetto ai precedenti condoni edilizi, in modo da evitare l'obiezione secondo cui si sarebbe in realtà prodotto un vero e proprio ordinamento legislativo stabile, diverso e contrapposto a quello ordinario, della cui gestione per di più sono in larga parte titolari soggetti istituzionali diversi dallo Stato.
Sottoponendo l'art. 32 oggetto del presente giudizio all'esame se sussista una giustificazione del condono, rileva il comma 2 di questo articolo, il quale esprime - seppure con linguaggio in parte improprio - l'opportunità che si preveda ancora una volta un intervento straordinario di condono edilizio nelle contingenze particolari della recente entrata in vigore del testo unico delle disposizioni in materia edilizia (che - tra l'altro - disciplina analiticamente la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia e le relative responsabilità e sanzioni), nonché dell'entrata in vigore del nuovo Titolo V della seconda Parte della Costituzione, che consolida ulteriormente nelle regioni e negli enti locali la politica di gestione del territorio. In tale particolare contesto, pur trattandosi ovviamente di scelta nel merito opinabile, non sembrano rilevare elementi di irragionevolezza tali da condurre ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 32.
In realtà, il comma 2 dell'art. 32 è stato interpretato da alcune ricorrenti come finalizzato a sospendere l'esercizio dei poteri legislativi delle stesse Regioni “nelle more dell'adeguamento della disciplina regionale ai principi contenuti nel testo unico” e quindi a legittimare l'intervento legislativo statale, che supplirebbe al mancato intervento delle Regioni. Peraltro, un'interpretazione del genere urterebbe in modo palese sia con la nuova disciplina costituzionale, che non subordina l'esercizio dei poteri regionali al previo recepimento dei principi fondamentali, sia con l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte sul principio di continuità legislativa (cfr. fra le altre, sentenze n. 383 e n. 376 del 2002, nonché ordinanza n. 270 del 2003).
Da ciò la necessità che, invece, al comma 2 dell'art. 32 si dia l'interpretazione prima esposta, compatibile con l'attuale ordinamento costituzionale, tra l'altro così valorizzando il dato testuale dell'inciso in esso contenuto “in conformità al titolo V della Costituzione”.
25. - Quanto agli altri rilievi di costituzionalità formulati dalle Regioni ricorrenti in relazione alla complessiva normativa di cui all'art. 32, va anzitutto fatto riferimento a quello fondato sulla pretesa violazione del giudicato costituzionale e cioè di quanto previsto dal terzo comma dell'art. 137 Cost.: a tal fine vengono citate, in particolare, le sentenze n. 427 e n. 416 e del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 e n. 302 del 1988, con cui sarebbe stato “attribuito al regime di sanatoria […] carattere episodico e delimitato temporalmente”, pena la sua illegittimità costituzionale.
La questione non è fondata.
Anche volendosi prescindere dal fatto che, come affermato in precedenza, la giurisprudenza di questa Corte non può essere interpretata come assolutamente preclusiva rispetto alla ammissibilità di condoni edilizi straordinari, la censura è priva di fondamento, in quanto l'ultimo comma dell'art. 137 Cost. non può essere riferito ad un nuovo atto legislativo ritenuto contrastante con precedenti affermazioni di questa Corte relative ad altri atti legislativi.
26. - Le ricorrenti sostengono, inoltre, che l'art. 32 contrasterebbe con l'art. 119 Cost., in quanto il condono edilizio previsto dalla normativa impugnata sarebbe stato disposto in vista di esigenze finanziarie del bilancio statale, ma comporterebbe spese particolarmente ingenti, di vario genere, a carico delle finanze comunali, a fronte di una compartecipazione al gettito delle operazioni di condono che sarebbe decisamente esigua.
La questione non è fondata.
All'evidente interesse dello Stato agli introiti straordinari derivanti dall'oblazione (solo parzialmente ridotti dalla previsione, di cui al comma 41, secondo cui spetta ai Comuni la metà delle somme riscosse a conguaglio dell'oblazione), corrispondono, nell'art. 32 impugnato, quattro diverse forme di possibile incremento delle finanze locali, previste dai commi 33, 34, 40 e 41; tali entrate non solo sono di ardua quantificazione, ma sono difficilmente raffrontabili con gli impegni finanziari delle amministrazioni comunali conseguenti all'applicazione del condono edilizio (a loro volta di incerta entità). Inoltre, l'attribuzione al legislatore regionale del potere di specificare la disciplina del condono sul piano amministrativo, secondo quanto esposto al precedente punto 21, potrà far considerare in questa legislazione regionale i profili attinenti alle conseguenze del condono sulle finanze comunali.
27. - In relazione alla censura concernente la pretesa illegittimità costituzionale dell'art. 32, per violazione del principio di leale collaborazione nei procedimenti legislativi - che sarebbe affermato o deducibile dall'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997 - e del principio costituzionale che prescriverebbe “la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengono in materia di competenza concorrente”, che sarebbe desumibile dall'art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, secondo le ricorrenti tale violazione sarebbe resa palese dal fatto che le Regioni non sono state consultate attraverso la Conferenza Stato-Regioni né in sede di adozione del decreto-legge, né in sede di adozione del disegno di legge di conversione.
La questione non è fondata.
Ciò anzitutto perché non è individuabile un fondamento costituzionale dell'obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni (né risulta sufficiente il sommario riferimento all'art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001).
Quanto alla disciplina contenuta nell'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997 (atto normativo primario), essa prevede solo un parere non vincolante della Conferenza Stato-Regioni sugli “schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento”, mentre non prevede ovviamente nulla di analogo per i decreti-legge, la cui adozione è consentita, ai sensi dell'art. 77, secondo comma, Cost., solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”; né è pensabile che il parere della Conferenza Stato-Regioni possa essere chiesto sul disegno di legge di conversione, che deve essere presentato immediatamente alle Camere e non può che avere il contenuto tipico di un testo di conversione. In relazione alla previsione, nel comma 5 dell'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997, che il Governo debba sentire la Conferenza Stato-Regioni successivamente, nella fase della conversione dei decreti-legge, la procedura ivi prevista appare configurata come una mera eventualità.
28. - Debbono a questo punto essere esaminati gli specifici profili di censura di singole disposizioni avanzati dalle ricorrenti nell'ipotesi in cui questa Corte non avesse dichiarato la complessiva illegittimità costituzionale dell'art. 32.
Al riguardo sono da considerare assorbiti non soltanto i rilievi relativi alle disposizioni in precedenza dichiarate in parte costituzionalmente illegittime - commi 25, 26 e 37 - ma anche la specifica impugnazione del comma 35 (relativo alla documentazione da allegare alla domanda di condono), in quanto il particolare ruolo che viene ad essere riconosciuto ai legislatori regionali consente di ritenere soddisfatte le pretese delle ricorrenti. Analogamente è da dirsi in riferimento alla censura relativa ai commi da 14 a 20 dell'art. 32, dal momento che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del comma 14 risponde pienamente alle ragioni di doglianza fatte valere nei ricorsi introduttivi del giudizio.
Va invece dichiarata non fondata la particolare questione concernente il comma 5 in relazione agli artt. 117 e 118 Cost., là dove è affidato al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con le Regioni interessate, un compito di supporto alle amministrazioni comunali ai fini dell'applicazione della disciplina oggetto del presente giudizio e per il coordinamento con la legge n. 47 del 1985 e con l'art. 39 della legge n. 724 del 1994. La previsione dell'intesa con ciascuna delle Regioni interessate, quale condizione affinché il Ministero possa esercitare questa attività di semplice “supporto” agli enti locali, rende evidente l'assenza di qualunque profilo di lesione delle competenze costituzionalmente riconosciute alle ricorrenti.
29. - Da ultimo, viene in considerazione la questione concernente il comma 49-ter, introdotto dalla legge di conversione, che viene impugnato in quanto, concentrando nell'autorità prefettizia la competenza a far effettuare le demolizioni conseguenti ad abusi edilizi, violerebbe il terzo comma dell'art. 117 Cost., in quanto norma di dettaglio e non principio fondamentale, e l'art. 118 Cost., in quanto sottrarrebbe ai Comuni una funzione amministrativa, concentrandola in un organo statale senza che ciò sia giustificabile in base ad esigenze unitarie.
La questione è fondata.
La norma in oggetto sostituisce l'art. 41 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, nella sua formulazione originaria, prevedeva le diverse procedure che il Comune poteva seguire in tutti i casi in cui la demolizione dovesse avvenire a cura dello stesso Comune (anche con l'intervento a sostegno di organi statali), con la possibilità, qualora si rivelasse impossibile l'affidamento dei lavori di demolizione, di darne notizia all'ufficio territoriale del Governo, il quale provvedeva alla demolizione. Il comma 49-ter prevede invece che il Comune, così come le amministrazioni statali e regionali, debbano trasmettere ogni anno al prefetto l'elenco delle opere da demolire e che il prefetto provveda all'esecuzione delle demolizioni.
La disposizione in oggetto contrasta con il primo ed il secondo comma dell'art. 118 Cost., dal momento che non si limita ad agevolare ulteriormente l'esecuzione della demolizione delle opere abusive da parte del Comune o anche, in ipotesi, a sottoporre l'attività comunale a forme di controllo sostitutivo in caso di mancata attività, ma sottrae al Comune la stessa possibilità di procedere direttamente all'esecuzione della demolizione delle opere abusive, senza che vi siano ragioni che impongano l'allocazione di tali funzioni amministrative in capo ad un organo statale.
30. - Resta assorbito l'esame di ogni altra doglianza relativa ad ulteriori singoli commi dell'art. 32.
31. - Non vi è luogo a provvedere sulle istanze di sospensione dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 e dell'art. 32 dello stesso d.l. come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge n. 326 del 2003, presentate dalle Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata ogni decisione sulle questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 14, 21 e 32, commi 21, 22 e 23 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, sollevate dalle Regioni Campania, Toscana ed Emilia-Romagna con i ricorsi citati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 25 dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 26 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all'Allegato 1;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 14 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede il rispetto della legge regionale di cui al comma 26;
4) dichiara l' illegittimità costituzionale del comma 33 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui prevede le parole “entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto” anziché le parole “tramite la legge di cui al comma 26”;
5) dichiara l' illegittimità costituzionale del comma 37 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa disciplinare diversamente gli effetti del prolungato silenzio del Comune;
6) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 38 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui prevede che sia l'Allegato 1 dello stesso decreto-legge n. 269 del 2003, anziché la legge regionale di cui al comma 26, a determinare la misura dell'anticipazione degli oneri concessori, nonché le relative modalità di versamento;
7) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale;
8) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 49-ter dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, introdotto dalla legge di conversione n. 326 del 2003;
9) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'Allegato 1 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui determina la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento;
10) dichiara inammissibile il ricorso n. 6 del 2004, proposto dalla Regione Lazio;
11) dichiara inammissibili le questioni proposte dalla Regione Campania, con i ricorsi indicati in epigrafe, nei confronti dei commi 44, 45, 46, 47, 48, 49 e 50 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nonché dei commi 44, 45, 46, 47, 48, 49, 49-bis, 49-quater e 50 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, come risultanti dalla conversione in legge ad opera della legge n. 326 del 2003;
12) dichiara inammissibile la questione proposta dalla Regione Marche, con il ricorso n. 8 del 2004, nei confronti del comma 10 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge n. 326 del 2003;
13) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione degli artt. 32, 41 e 42 Cost., proposte dalla Regione Marche con i ricorsi indicati in epigrafe;
14) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 114 Cost., proposte dalla Regione Campania con i ricorsi indicati in epigrafe;
15) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 97 Cost., proposte dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia, con i ricorsi indicati in epigrafe;
16) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di eguaglianza, proposte dalle Regioni, Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia, con i ricorsi indicati in epigrafe;
17) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 25 Cost., proposte dalla Regione Marche con i ricorsi indicati in epigrafe;
18) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale del comma 10 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, per violazione degli artt. 118 e 119 Cost., proposte dalle Regioni Marche e Toscana con i ricorsi n. 81 e n. 82 del 2003;
19) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dei commi 6, 9 e 24 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, proposte dalle Regioni Marche e Toscana con i ricorsi indicati in epigrafe;
20) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 77 Cost., proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
21) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, come risultante dalla conversione in legge ad opera dalla legge n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 79 Cost., proposta dalla Regione Marche con il ricorso n. 10 del 2004;
22) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 9 Cost., proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
23) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
24) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 137, terzo comma, Cost., proposta dalla Regione Campania con i ricorsi indicati in epigrafe;
25) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 119 Cost., proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
26) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione del principio di leale collaborazione, proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
27) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 5 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione degli artt. 117 e 118 Cost., proposta dalle Regioni Marche e Toscana con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 24 giugno 2004.
Allegato:
Ordinanza emessa nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 e dell'art. 32 del medesimo d.l. come convertito dalla legge n. 326 del 2003, promossi dalle Regioni Campania, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio e Marche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi iscritti al registro ricorsi nn. 76 del 2003, 82 del 2003, 83 del 2003, 87 del 2003, 6 del 2004, 8 del 2004 e 14 del 2004.
Considerato che il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via di azione ai sensi dell'art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale;
che pertanto, alla stregua della normativa in vigore e conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, cfr. sentenza n. 338 del 2003), non è ammesso l'intervento in tali giudizi di soggetti privi di potere legislativo.
Per questi motivi
dichiara inammissibili gli interventi spiegati nei giudizi in via principale relativi all'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e la correzione dell'andamento dei conti pubblici) nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, dai Comuni di Roma, Salerno, Ischia e Lacco Ameno, nonché dal CODACONS e dal World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS.
Massima n. 28741
Il sindacato sull’esistenza e sull’adeguatezza dei presupposti della decretazione d’urgenza, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi, sicché la mera affermazione, da parte del giudice rimettente, che il decreto legge, ponendosi a conclusione di una serie di decreti-legge non convertiti, dei quali ha riprodotto la disposizione impugnata, renderebbe “manifesta l’insussistenza, al 31 maggio 1994, della straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia tributaria”, non è da sola idonea a rendere “evidente” la mancanza del presupposto per il ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del Governo. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 77 della Costituzione, dell’art. 3, comma 7, secondo periodo, prima parte, d.l. 31 maggio 1994, n. 330 (convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 luglio 1994, n. 473).
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, secondo periodo, primo inciso, del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 330 (Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 27 luglio 1994, n. 473, e dell'art. 1 della medesima legge di conversione, promosso con ordinanza del 22 gennaio 2003 dalla Commissione tributaria provinciale di Torino sul ricorso proposto da Borravicchio Luigi contro l'Agenzia delle Entrate - Ufficio di Rivoli 1, iscritta al n. 1148 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2004.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2004 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.— La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, con ordinanza 22 gennaio 2003, concerne - innanzitutto - l'art. 3, comma 7, secondo periodo, primo inciso, del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 330 (Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 27 luglio 1994, n. 473.
La norma è censurata nella parte in cui, nello stabilire che «le altre disposizioni contenute nel comma 1 e quelle dei commi 2 e 6 si applicano a partire dal periodo d'imposta in corso alla data dell'8 dicembre 1993», ha fatto sì che il nuovo regime di detraibilità - previsto per l'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) dall'art. 13-bis, comma 1, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), introdotto dall'art. 3, comma 1, lettera e), del d.l. n. 330 del 1994 - trovi applicazione sin dal periodo d'imposta in corso alla data dell'8 dicembre 1993, indipendentemente dall'epoca della stipula del contratto di mutuo cui afferiscono gli interessi passivi, e quindi si applichi, retroattivamente, anche ai mutui agrari stipulati prima del 31 dicembre 1989.
La questione di legittimità costituzionale concerne, altresì, l'art. 1 della predetta legge n. 473 del 1994, nella parte in cui, nel disporre la conversione in legge del d.l. n. 330 del 1994, conserva validità agli atti e ai provvedimenti adottati, e fa, infine, salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei seguenti decreti-legge non convertiti: 6 dicembre 1993, n. 503, 4 febbraio 1994, n. 90, e 31 marzo 1994, n. 222 (tutti recanti il titolo «Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria»).
Il rimettente dubita della legittimità costituzionale delle norme denunciate con riferimento, per la prima, agli artt. 3, 53, 77, 97, primo comma, della Costituzione, e per la seconda agli artt. 3, 53, 97, primo comma, della Costituzione.
2.- Prima di esaminare le singole questioni sollevate dall'ordinanza di rimessione, appare utile indicare l'evoluzione della disciplina delle agevolazioni fiscali previste, in ordine all'IRPEF, per gli interessi passivi corrisposti in dipendenza di un mutuo agrario.
Nell'anno 1984 - quando venne stipulato il contratto fonte dell'obbligazione accessoria avente ad oggetto il pagamento degli interessi passivi di cui al giudizio a quo - la disciplina delle relative agevolazioni fiscali, previste per l'IRPEF, era contenuta nell'art. 10, comma primo, lettera c), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche).
Tale articolo - nel testo sostituito dall'art. 5, primo comma, della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), e successivamente modificato dall'art. 1, primo comma, della legge 24 aprile 1980, n. 146 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 1980) - prevedeva la deducibilità integrale, dal reddito complessivo, degli interessi passivi pagati in dipendenza di prestiti o mutui agrari di ogni specie.
Detta disciplina è stata poi sostanzialmente trasfusa nell'art. 10 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Successivamente, l'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 27 aprile 1990, n. 90 (Disposizioni in materia di determinazione del reddito ai fini delle imposte sui redditi, di rimborsi dell'imposta sul valore aggiunto e di contenzioso tributario, nonché altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 26 giugno 1990, n. 165, introduceva - innovando rispetto al sistema previgente - la deducibilità dei suddetti interessi passivi dal reddito complessivo, «nei limiti dei redditi dei terreni dichiarati». Detta limitazione, peraltro, per effetto dell'art. 14, comma 1, del medesimo decreto-legge, si applicava «agli interessi per prestiti e mutui agrari contratti dopo il 31 dicembre 1989», di tal che era irrilevante per la posizione del ricorrente nel giudizio a quo, titolare − come si è precisato − di un mutuo stipulato nell'anno 1984.
Ciò premesso, deve osservarsi come il regime dell'agevolazione fiscale in questione sia stato profondamente modificato con il d.l. 31 maggio 1994, n. 330, emanato dopo i tre decreti-legge non convertiti innanzi citati.
Tale decreto-legge, entrato in vigore il 1° giugno 1994, ha eliminato il regime della “deducibilità” dal reddito complessivo, agli effetti dell'IRPEF, degli interessi sui mutui agrari e - introducendo l'art. 13-bis nel d.P.R. n. 917 del 1986 - lo ha sostituito con quello della “detraibilità” dall'imposta lorda degli interessi in questione, nei limiti del 27 per cento del loro ammontare (aliquota ridotta, successivamente, prima al 22 per cento e quindi al 19 per cento, ma senza che tale modificazione abbia rilievo nel giudizio a quo).
Quanto alla decorrenza della suindicata modificazione di regime giuridico, lo stesso d.l. n. 330 del 1994, con la disposizione censurata dal rimettente, ha stabilito che la nuova normativa sulla “detraibilità” degli interessi passivi, pagati in dipendenza di un mutuo agrario, trovi applicazione «a partire dal periodo di imposta in corso alla data dell'8 dicembre 1993».
In tal modo, il nuovo regime giuridico della agevolazione in esame è divenuto identico per tutti i contribuenti, indipendentemente dalla circostanza che la data di stipula del contratto di mutuo agrario sia anteriore o successiva al 31 dicembre 1989.
3.— Così esposto il quadro normativo, si possono esaminare le specifiche censure sollevate.
Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, secondo periodo, primo inciso, del d.l. n. 330 del 1994, per violazione dell'art. 53 della Costituzione.
La questione non è fondata.
La disposizione censurata prevede, come si è precisato, che le norme contenute nel comma 1 del medesimo articolo - tra le quali vi è quella che ha aggiunto al d.P.R. n. 917 del 1986 l'art. 13-bis (il quale, tra l'altro, ha sottoposto al regime della “detraibilità” gli interessi passivi sui mutui agrari, «nei limiti dei redditi dei terreni dichiarati») - si applichino «a partire dal periodo di imposta in corso alla data dell'8 dicembre 1993».
Orbene, nel rimettere all'esame di questa Corte la citata disposizione, il giudice a quo non ha preso in considerazione affatto il mutamento di disciplina intervenuto con il passaggio dell'onere relativo al pagamento degli interessi passivi sui mutui agrari dal regime della “deducibilità” integrale dal reddito complessivo a quello della “detraibilità”, sia pure ridotta, dall'imposta lorda. Il rimettente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione stessa, limitandosi ad osservare che la norma denunciata, per il suo carattere asseritamente retroattivo, violerebbe l'art. 53 della Costituzione. La retroattività consisterebbe nell'avere previsto l'applicabilità del nuovo regime della “detraibilità” degli interessi passivi per l'anno 1993 e per l'anno 1994, quando per questo ultimo erano già decorsi (all'atto dell'entrata in vigore del decreto-legge in questione) cinque mesi, sicché vi sarebbe stato un assoggettamento a tassazione effettuato sulla base di una capacità contributiva relativa al passato.
4.— Relativamente all'anno fiscale 1994, non correttamente viene richiamato dal rimettente il tema della retroattività delle norme tributarie e il limite di questa rappresentato dalla necessaria coerenza con una capacità contributiva attuale e non pregressa. Nella specie, la norma censurata, nel prevedere una limitazione della facoltà per i contribuenti di portare in detrazione gli interessi sui mutui di miglioramento agrario, pur essendo entrata in vigore quando erano decorsi i primi cinque mesi dell'anno di riferimento fiscale, ha di fatto preso in considerazione una capacità contributiva attuale e non passata (sentenza n. 16 del 2002). L'evenienza della retroattività si sarebbe potuta verificare se la limitazione della detraibilità degli interessi passivi avesse avuto riguardo a rapporti non più espressivi di una capacità contributiva attuale.
D'altronde, il periodo d'imposta sul quale commisurare l'IRPEF è indubbiamente quello dell'intero anno solare nel quale si produce il reddito (art. 7 del d.P.R. n. 917 del 1986), per cui sarebbe stata illogica la sottoposizione dei primi cinque mesi dell'anno ad un determinato regime di tassazione diverso da quello applicabile per i sette mesi successivi. L'attualità della capacità contributiva prevista dall'art. 53 della Costituzione va, pertanto, esaminata con riferimento all'anno solare preso in considerazione nel suo complesso dalla norma, sicché neanche viene in rilievo, in senso proprio, un problema di retroattività della disposizione censurata dal rimettente.
5.— Per quanto attiene all'anno d'imposta 1993, sebbene detto periodo sia fuori contestazione nel giudizio a quo, è da osservare che, anche a voler prendere in considerazione la decorrenza del nuovo regime agevolativo dal periodo d'imposta in corso alla data dell'8 dicembre 1993, si perviene egualmente alle medesime conclusioni di cui innanzi in ordine alla inconfigurabilità della retroattività della disciplina censurata. Tale data, infatti, è quella dell'entrata in vigore del primo decreto-legge non convertito (d.l. 6 dicembre 1993, n. 503), i cui effetti e i correlati rapporti giuridici - al pari degli altri due decreti, anch'essi non convertiti, che hanno preceduto il d.l. n. 330 del 1994 che si pone in continuità con i precedenti decreti-legge - sono stati fatti espressamente salvi dalla legge n. 473 del 1994. Consegue da ciò che il nuovo regime agevolativo concernente gli interessi passivi in questione risulta, in definitiva, adottato nello stesso anno di riferimento fiscale preso in considerazione, vale a dire il 1993, sicché non può ritenersi sussistente alcuna sostanziale retroattività delle disposizioni attinenti alla detraibilità dall'imposta lorda dell'onere del pagamento degli interessi sui mutui agrari. Di qui l'inconfigurabilità di una imposizione che abbia fatto riferimento ad una capacità contributiva pregressa e non attuale.
A conforto di tale conclusione può essere utilmente richiamata la sentenza n. 143 del 1982, con la quale questa Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23 del d.P.R. 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), nella parte in cui estendeva la disciplina dell'art. 5, secondo comma, lettera c), alle dichiarazioni dei redditi da presentare nell'anno 1977, relative ai redditi percepiti nell'anno 1976.
Anche in quella sede i giudici a quibus avevano dubitato della legittimità costituzionale del citato art. 23 sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Con tale sentenza questa Corte ha ritenuto che in quella fattispecie non fosse ravvisabile un deterioramento della capacità contributiva dei soggetti interessati, intervenuto tra il momento della nascita del rapporto tributario (anno 1976) e quello della successiva entrata in vigore della norma impugnata (anno 1977), osservando che la brevità del tempo trascorso tra i due momenti suddetti induceva ad escludere che si fosse potuta verificare una siffatta evenienza.
6.— Il giudice a quo ha, inoltre, sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, secondo periodo, primo inciso, del d.l. n. 330 del 1994 per violazione dell'art. 77 della Costituzione, sotto il profilo della insussistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza.
La questione non è fondata.
La giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 6 del 2004, n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996 e n. 29 del 1995) ha più volte affermato che il sindacato sull'esistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi. Nella specie - a prescindere dalla valutazione degli effetti prodotti dalla legge n. 473 del 1994 di conversione del predetto decreto-legge - deve ritenersi non sussistente il denunciato vizio. Il rimettente, infatti, si è limitato ad affermare che la circostanza per la quale il d.l. n. 330 del 1994 «si pone a conclusione di una serie di decreti-legge non convertiti (…) dei quali ha riprodotto la disposizione che qui viene in rilievo» renderebbe «manifesta l'insussistenza, al 31 maggio 1994, della straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni concernenti la semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria». Si tratta di una mera affermazione, non idonea, in quanto tale, a rendere “evidente” la mancanza dei presupposti per il ricorso alla decretazione d'urgenza da parte del Governo.
7.— Il giudice a quo ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, per la violazione del principio di eguaglianza e del principio di imparzialità della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97, primo comma, della Costituzione), derivante «dalla irragionevole assimilazione, con efficacia retroattiva, a tutti gli effetti, delle differenti posizioni dei contribuenti che abbiano stipulato un mutuo fondiario prima del 31 dicembre 1989 (e che dunque a ciò si siano disposti consapevoli della totale detraibilità degli interessi pagati, sì da rendere percorribile la via dell'indebitamento anche per terreni di modesto reddito) e di quelli che, conoscendo ex ante i limiti di detraibilità degli interessi, tale scelta abbiano compiuto dopo il 31 dicembre 1989».
La questione non è fondata.
È, infatti, erroneo ritenere che un beneficio fiscale (nella specie, quello della totale deducibilità dal reddito complessivo degli interessi passivi pagati sui mutui in questione) previsto dalla pregressa disciplina normativa di settore (nella specie, dall'art. 10 del d.P.R. n. 917 del 1986) non possa giammai subire modificazioni in negativo per l'affidamento creato nei contribuenti; di tal che al legislatore sarebbe impedito di effettuare nuove valutazioni al fine di ripartire più equamente il carico fiscale.
La circostanza, dunque, che dal 1984 (anno nel corso del quale è stato stipulato il contratto di mutuo da parte del contribuente) al 1993 (anno dal quale è venuta meno l'integralità del beneficio) l'interessato abbia goduto della possibilità di sottrarre dal reddito complessivo l'onere degli interessi passivi sul mutuo stesso per il suo intero ammontare non comporta affatto che si sia consolidata in lui una posizione soggettiva di intangibilità, anche per l'avvenire, della situazione di vantaggio conseguita.
Né ad avvalorare la tesi della violazione dei principi di eguaglianza e di imparzialità può farsi richiamo all'esigenza del rispetto dell'aspettativa alla intangibilità del beneficio ricevuto, che la precedente normativa avrebbe creato nei contribuenti, atteso che nessuna aspettativa di tal genere può considerarsi oggetto di protezione dall'ordinamento. In realtà, il passaggio dell'onere in questione, dal regime della “deducibilità” dal reddito complessivo a quello della “detraibilità” dall'imposta lorda, ha sostanzialmente modificato il sistema di determinazione del carico fiscale con riferimento all'incidenza degli interessi passivi corrisposti sui mutui di miglioramento agrario. E rientrava nella piena discrezionalità del legislatore la modifica della previgente disciplina senza che i beneficiari di un pregresso regime agevolativo potessero vantare alcun diritto a mantenere indefinitamente il vantaggio precedentemente loro accordato dalla normativa.
8.— Le censure proposte nei confronti del d.l. n. 330 del 1994 sono rivolte anche alla legge 27 luglio 1994, n. 473, sia nella parte in cui ha convertito in legge il suddetto decreto-legge, sia in quella con la quale è stata conservata validità agli atti e ai provvedimenti adottati e sono stati fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge (non convertiti) n. 503 del 1993, n. 90 del 1994 e n. 222 del 1994.
Anche tali censure devono essere disattese per le stesse ragioni già esposte con riferimento alle disposizioni del d.l. n. 330 del 1994. L'ordinanza di rimessione, infatti, non contiene alcuno specifico rilievo riferito alle richiamate disposizioni della legge di conversione, oggetto d'autonoma valutazione, di tal che la questione sollevata, per relationem, nei confronti della legge di conversione, non può avere esito diverso da quella nei confronti del decreto-legge.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, secondo periodo, primo inciso, del decretolegge 31 maggio 1994, n. 330 (Semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 27 luglio 1994, n. 473, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, 77 e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, con l'ordinanza in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della suddetta legge 27 luglio 1994, n. 473, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53 e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2004.
Massima n. 29203
E’
infondata,”salvo quanto disposto nei capi d ed e” [di cui alla massima
successiva], la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli
articoli 77 e 117 Cost., nonché ai principi costituzionali di sussidiarietà, di
ragionevolezza e di leale collaborazione, del decreto legge 14 dicembre 2003,
n. 314, conv., con mod., nella legge 24 dicembre 2003, n. 368, che, nel dettare
disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio dei
rifiuti radioattivi, prevede che la sistemazione in sicurezza di questi ultimi,
degli elementi di combustibile irraggiati e dei materiali nucleari, ivi inclusi
quelli rivenienti dalla disattivazione delle centrali elettronucleari e degli
impianti di ricerca e di fabbricazione del combustibile, sia effettuata presso
un Deposito nazionale costituente “opera di difesa militare di proprietà dello
Stato”; stabilisce il procedimento per l’individuazione del sito da parte di un
Commissario straordinario, e regola la successiva “validazione” del sito stesso
da parte del Consiglio dei ministri. Quanto, anzitutto, alla lamentata
violazione dell’art. 77 Cost., non solo non è evidente la mancanza dei
presupposti di straordinaria necessità ed urgenza legittimanti il ricorso al
decreto legge ma, al contrario, l’esigenza di prevedere una adeguata disciplina
idonea a consentire la realizzazione delle opere per un corretto smaltimento
dei rifiuti radioattivi, evitando pericoli per la salute e per l’ambiente,
configura un valido presupposto per un intervento d’urgenza, la quale riguarda il
provvedere, anche quando occorra tempo per conseguire – con il completamento
delle procedure e delle opere - il risultato voluto. Riguardo alle ulteriori
censure, la competenza statale in tema di tutela dell’ambiente, di cui all’art.
117, secondo comma, lettera s, Cost., offre piena legittimazione ad un
intervento legislativo volto a realizzare un impianto necessario per lo
smaltimento dei rifiuti radioattivi, oggi conservati in via provvisoria in
diversi siti, ma destinati a trovare una loro collocazione definitiva che offra
le garanzie necessarie sul piano della protezione dell’ambiente e della salute:
e il fatto che tale competenza statale non escluda la concomitante possibilità
per le Regioni di intervenire, perseguendo finalità di tutela ambientale, e nell’esercizio
delle loro competenze in tema di tutela della salute e di governo del
territorio, entro determinati limiti, non comporta che lo Stato debba
necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di
questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad
una ulteriore normativa regionale; e così è a dire per le funzioni
amministrative il cui esercizio sia necessario per realizzare interventi di
rilievo nazionale, la cui attribuzione può essere disposta, in questo ambito,
dalla legge statale, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera s, e in base ai criteri generali
dettati dall’art. 118, primo comma, Cost., vale a dire ai principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Ma quando gli interventi
individuati come necessari e realizzati dallo Stato, in vista di interessi
unitari di tutela ambientale, concernono l’uso del territorio, e in particolare
la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo
rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l’intreccio, da un lato, con
la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre
che con altre competenze regionali, dall’altro lato con gli interessi delle
popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone l’adozione di modalità
di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune
forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono
destinati a realizzarsi: nella specie, quanto all’individuazione del sito, è
corretto il coinvolgimento, attuato dal decreto legge, delle Regioni e delle
autonomie locali nel loro insieme, attraverso
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale della legge della Regione Sardegna 3 luglio 2003, n. 8 (Dichiarazione della Sardegna territorio denuclearizzato); dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata 21 novembre 2003, n. 31 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 31 agosto 1995, n. 59); della legge della Regione Calabria 5 dicembre 2003, n. 26 (Dichiarazione della Calabria denuclearizzata. Misure di prevenzione dall'inquinamento proveniente da materiale radioattivo. Monitoraggio e salvaguardia ambientale e salute dei cittadini), del decreto-legge 14 novembre 2003, n. 314 (Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi) e della relativa legge di conversione 24 dicembre 2003, n. 368 promossi con tre ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri e con un ricorso della Regione Basilicata notificati il 4 settembre 2003, il 19 gennaio, il 6 febbraio e il 9 marzo 2004, depositati in cancelleria l'11 settembre 2003, il 26 gennaio, il 6 febbraio e il 17 marzo 2004 ed iscritti al n. 67 del registro ricorsi 2003 ed ai nn. 7, 19 e 40 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione delle Regioni Sardegna, Basilicata, Calabria e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 12 ottobre 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;
uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Alberto Romano per la Regione Sardegna e Benito Spanti per la Regione Calabria.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.– Il Governo impugna tre leggi regionali, rispettivamente delle Regioni Sardegna (r.ric. n. 67 del 2003), Basilicata (r.ric. n. 7 del 2004) e Calabria (r.ric. n. 19 del 2004), aventi in comune fra loro l'oggetto, consistente essenzialmente nella dichiarazione del territorio regionale come territorio “denuclearizzato” e precluso al transito e alla presenza di materiali nucleari provenienti da altri territori.
A sua volta la Regione Basilicata impugna (r.ric. n. 40 del 2004) il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza dei rifiuti radioattivi), e la relativa legge di conversione 24 dicembre 2003, n. 368, il cui oggetto riguarda principalmente la previsione di un Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi e le competenze e le procedure per la sua realizzazione.
2.– Data la connessione oggettiva, i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
3.– La legge della Regione Sardegna 3 luglio 2003, n. 8 (Dichiarazione della Sardegna territorio denuclearizzato) si compone di 4 articoli. L'art. 1 sancisce al comma 1 che «la Regione autonoma della Sardegna, sulla base dei principi costituzionali e delle competenze esclusive in materia di urbanistica ed ambiente attribuite dall'articolo 3, lettera f, dello statuto speciale, interpretate dall'articolo 58 del d.P.R. n. 348 del 1979 e dall'articolo 80 del d.P.R. n. 616 del 1977, nonché delle attribuzioni in via concorrente in materia di salute pubblica, protezione civile e governo del territorio di cui al terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione, dichiara il territorio regionale della Sardegna denuclearizzato e precluso al transito ed alla presenza, anche transitoria, di materiali nucleari non prodotti nel territorio regionale».
Il comma 2 stabilisce che «sono esclusi dal divieto di cui al comma 1 i materiali necessari per scopi sanitari, per il supporto della sicurezza, del controllo e della produzione industriale e per la ricerca scientifica».
L'art. 2 prevede la nomina di una Commissione di inchiesta con compiti di verifica della eventuale presenza di materiali radioattivi e dello stato di avanzamento degli studi in vista delle localizzazioni di depositi di detti materiali nel territorio regionale (comma 1), e dispone che successivamente il Presidente della Regione, su parere vincolante del Consiglio approvato a maggioranza di due terzi dei consiglieri, «esprime la definitiva posizione della Regione sia sull'utilizzo ed il deposito nel territorio regionale di sostanze radioattive o scorie e rifiuti di sostanze radioattive, sia anche sullo stoccaggio in Sardegna di rifiuti pericolosi o dannosi non prodotti nel territorio regionale» (comma 2), mentre «ove necessario il Consiglio regionale promuove l'adozione di apposite norme di attuazione statutarie, che regolino i controlli e le azioni amministrative necessarie per l'effettiva denuclearizzazione del proprio territorio».
L'art. 3 prevede Misure urgenti di vigilanza e controllo curate dalle strutture regionali preposte alla vigilanza ambientale e sanitaria; l'art. 4 disciplina l'entrata in vigore della legge.
Il ricorrente censura l'intera legge in quanto interferirebbe con la materia dell'ambiente, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, non potrebbe trovare base nelle competenze regionali in materia di urbanistica, governo del territorio e protezione civile, e in quanto, con riferimento alla competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute, non si sarebbe attenuta ai principi fondamentali desumibili dalla legislazione statale preesistente, secondo i quali «restrizioni generalizzate alle attività economiche, non legate a situazioni particolari di ambiente o di operatore», andrebbero fondate su dati scientifici attendibili e non su valutazioni genericamente prudenziali.
La legge impugnata violerebbe altresì l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto contrasterebbe con la disciplina attuativa di direttive comunitarie recata dal d.lgs. n. 230 del 1995, che sarebbe fonte della “disciplina integrale della materia”. Inoltre, precludendo la circolazione dei rifiuti radioattivi sul territorio regionale, la legge violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione (che riserva allo Stato la competenza in materia di tutela della concorrenza), perché interferirebbe nel mercato dei materiali nucleari, anch'essi soggetti alla disciplina della concorrenza.
Dalla incostituzionalità dell'art. 1 discenderebbe come conseguenza necessaria quella degli articoli 2 e 3 della legge, destinati ad operare sul presupposto della efficacia dell'art. 1 medesimo.
4.– La questione è fondata.
Un intervento legislativo della portata di quello posto in essere dalla Regione Sardegna con la legge impugnata non trova fondamento in alcuna delle competenze attribuite alla Regione medesima dallo statuto speciale e dalla Costituzione.
In particolare, non può valere a fondare tale intervento la competenza legislativa primaria in materia di “edilizia ed urbanistica” (art. 3, lettera f, dello statuto), che non comprende ogni disciplina di tutela ambientale, e deve comunque esercitarsi – quando si tratti di ambiti in cui le Regioni ordinarie non abbiano acquisito con il nuovo titolo V, parte II, della Costituzione, maggiori competenze invocabili anche dalle Regioni speciali in forza dell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 (cfr. sentenza n. 536 del 2002) – nei limiti statutari delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e degli obblighi internazionali e comunitari (a cui si può ricondurre almeno in parte la disciplina del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230, recante “Attuazione delle direttive 89/618/Euratom, 90/641/Euratom, 92/3/Euratom e 96/29/Euratom in materia di radiazioni ionizzanti”, la quale infatti trova applicazione anche nei confronti delle Regioni speciali, come risulta da alcune delle sue disposizioni in materia di rifiuti radioattivi, quali ad esempio gli artt. 29, comma 2, 30, comma 2, 33, comma 1).
Per quanto riguarda la disciplina ambientale, non solo le Regioni ordinarie non hanno acquisito maggiori competenze, invocabili anche dalle Regioni speciali, ma, al contrario, una competenza legislativa esclusiva in tema di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema è stata espressamente riconosciuta allo Stato, sia pure in termini che non escludono il concorso di normative delle Regioni, fondate sulle rispettive competenze, al conseguimento di finalità di tutela ambientale (cfr. sentenze n. 407 del 2002, n. 307 e n. 312 del 2003, n. 259 del 2004).
Né, in proposito, può valere riferirsi, come fa l'art. 1, comma 1, della legge impugnata, all'art. 58 delle norme di attuazione dello statuto sardo di cui al d.P.R. n. 348 del 1979, che si limita a trasferire alla Regione le funzioni amministrative concernenti gli interventi per la protezione della natura, le riserve e i parchi naturali, e all'art. 80 del d.P.R. n. 616 del 1977, che pur includendo la “protezione dell'ambiente” nell'ambito della disciplina dell'uso del territorio riconducibile alla materia “urbanistica” non ha fatto venir meno le competenze statali in materia specificamente ambientale.
Ancor meno la legge censurata può giustificarsi in base alla competenza concorrente della Regione in materia di salute pubblica, protezione civile e governo del territorio: mentre questi ultimi due titoli di competenza non aggiungono nulla ai poteri della Regione in campo ambientale, in presenza della competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s, i poteri della Regione nel campo della tutela della salute non possono consentire, sia pure in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi suscettibili, come nella specie, di pregiudicare, insieme ad altri interessi di rilievo nazionale (cfr. sentenza n. 307 del 2003), il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi.
È, in ogni caso, decisivo osservare che alle Regioni, sia ad autonomia ordinaria sia ad autonomia speciale, è sempre interdetto adottare misure di ogni genere capaci di ostacolare “in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni” (art. 120, primo comma, Cost., pur non espressamente invocato dal ricorrente): e una normativa, come quella impugnata, che preclude il transito e la presenza, anche provvisoria, di materiali nucleari provenienti da altri territori è precisamente una misura fra quelle che alle Regioni sono vietate dalla Costituzione.
In fatto, poi, è ben noto che il problema dello smaltimento dei rifiuti pericolosi – e quelli radioattivi lo sono – di origine industriale non può essere risolto sulla base di un criterio di “autosufficienza” delle singole Regioni (cfr. sentenze n. 281 del 2000, n. 335 del 2001, n. 505 del 2002), poiché occorre tener conto della eventuale irregolare distribuzione nel territorio delle attività che producono tali rifiuti, nonché, nel caso dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, della necessità di trovare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza dei rifiuti medesimi. La comprensibile spinta, spesso presente a livello locale, ad ostacolare insediamenti che gravino il rispettivo territorio degli oneri connessi (secondo il noto detto “not in my backyard”), non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione di impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale.
5.– Nemmeno varrebbe, a contrastare la fondatezza della censura, il rilievo che il comma 2 dell'art. 1 della legge impugnata esclude dal divieto di transito e di presenza “i materiali necessari per scopi sanitari, per il supporto della sicurezza, del controllo e della produzione industriale e per la ricerca scientifica”, né il rilievo del carattere in qualche modo transitorio della disciplina, in attesa che, ai sensi dell'art. 2, comma 2, della stessa legge, la Regione adotti la propria “definitiva posizione” sull'utilizzo ed il deposito nel territorio regionale di sostanze radioattive o di rifiuti radioattivi.
Quanto al primo rilievo, basta infatti osservare che queste esenzioni non riguardano il caso dello smaltimento di rifiuti radioattivi, che è, notoriamente, il problema che fa sorgere le maggiori difficoltà in termini di individuazione dei siti idonei.
Quanto alla transitorietà della disciplina, essa, anche se sussistesse (ma l'art. 1 non si esprime in questi termini), non varrebbe a giustificarla sul piano costituzionale, una volta che si riscontri, come si è fatto, che essa eccede dalla competenza della Regione e vîola limiti a questa imposti dalla Costituzione.
L'art. 1 della legge regionale è dunque costituzionalmente illegittimo. Lo sono egualmente, per la loro stretta connessione con l'art. 1, le altre disposizioni della legge: l'art. 2, infatti, presuppone la possibilità per la Regione di decidere autonomamente sullo stoccaggio in Sardegna di rifiuti pericolosi prodotti fuori del territorio regionale, e l'art. 3 si riferisce espressamente a misure dirette ad impedire “l'immissione di nuove ed ulteriori consistenze” di materiali nucleari nel medesimo territorio della Regione.
6.– La legge regionale della Basilicata 21 novembre 2003, n. 31 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 31 agosto 1995, n. 59), aggiunge, con l'art. 1, un comma 1-bis all'art. 1 della legge regionale 31 agosto 1995, n. 59 (Normativa sullo smaltimento dei rifiuti), del seguente tenore: «Il territorio della Regione Basilicata è dichiarato denuclearizzato e precluso al transito e alla presenza, anche transitoria, di materiali nucleari non prodotti nel territorio regionale. Tale preclusione non si applica ai materiali necessari per scopi sanitari e per la ricerca scientifica».
L'art. 2 della legge impugnata, a sua volta, aggiunge alla legge regionale n. 59 del 1995 il seguente art. 4-bis: «La Regione, attraverso le proprie strutture preposte alla vigilanza ambientale e sanitaria, ivi comprese l'ARPAB e le Aziende del Servizio sanitario regionale, cura la rilevazione tecnica e strumentale di presenze sul territorio regionale di materiale nucleare e adotta le misure di prevenzione necessarie ai fini di cui al precedente articolo 1, comma 1-bis».
Il ricorrente lamenta la violazione della competenza statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, la violazione di norme comunitarie e dunque dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, il contrasto con i principi fondamentali ricavabili in materia dal d.lgs. n. 230 del 1995.
7.– La questione è fondata.
Poiché la legge impugnata tende a disciplinare in modo preclusivo di ogni altro intervento la presenza e lo stesso transito, nel territorio regionale, di sostanze radioattive, fra cui i rifiuti radioattivi, è palese la invasione della competenza esclusiva attribuita allo Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema dall'art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione, nonché la violazione del vincolo generale imposto alle Regioni dall'art. 120, primo comma, Cost. (pur non espressamente invocato dal ricorrente), che vieta ogni misura atta a ostacolare la libera circolazione delle cose e delle persone fra le Regioni.
Né può essere invocato, a difesa della legge, un potere della Regione di intervenire a difesa della salute con misure più rigorose di quelle fissate dallo Stato, poiché, come si è già osservato a proposito dell'analoga legge della Regione Sardegna, la Regione non può in ogni caso adottare misure che pregiudichino, insieme ad altri interessi di rilievo nazionale, lo stesso interesse alla salute in un ambito più vasto, come accadrebbe se si ostacolasse la possibilità di smaltire correttamente i rifiuti radioattivi.
Anche in questo caso, come in quello della Regione Sardegna, e per le stesse ragioni, l'illegittimità della legge non può essere esclusa invocando le esenzioni dal divieto previste dallo stesso comma 1-bis introdotto nell'art. 1 della legge regionale n. 59 del 1995.
L'art. 1 della legge impugnata (art. 1, comma 1-bis, della legge regionale n. 59 del 1995) è dunque costituzionalmente illegittimo; e altrettanto è a dirsi, di conseguenza, per l'art. 2 (art. 4-bis della legge regionale n. 59 del 1995), che si riferisce a misure “necessarie ai fini” di cui al detto art. 1.
8.– La legge regionale della Calabria 5 dicembre 2003, n. 26 (Dichiarazione della Calabria denuclearizzata. Misure di prevenzione dall'inquinamento proveniente da materiale radioattivo. Monitoraggio e salvaguardia ambientale della salute dei cittadini) si compone di 5 articoli.
L'art. 1 stabilisce che «La Regione Calabria, sulla base dei principi costituzionali e delle competenze in materia di urbanistica ed ambiente, nonché delle attribuzioni in via concorrente in materia di salute pubblica, protezione civile e governo del territorio di cui al terzo comma dell'art. 117 della Costituzione, dichiara il territorio regionale della Calabria denuclearizzato e precluso al transito ed alla presenza, anche transitoria, di materiali nucleari non prodotti nel territorio regionale».
L'art. 2 dispone la promozione di una «Conferenza per la sicurezza e la cooperazione del Sud» intesa a «rilanciare la denuclearizzazione di territori vocati all'agricoltura e al turismo individuando forme di collaborazione solidaristica tra le popolazioni interessate».
L'art. 3 prevede la nomina di un “Collegio referente” con compiti di verifica, a seguito della cui attività il Presidente della Regione, su parere vincolante del Consiglio regionale sugli esiti dell'inchiesta esprimerà «la definitiva posizione della Regione sull'utilizzo ed il deposito nel territorio regionale di sostanze nucleari o di loro residui» (comma 2); e la adozione di «apposite norme che regolino i controlli e le azioni amministrative necessarie per l'effettiva denuclearizzazione del proprio territorio» (comma 4).
L'art. 5 prevede misure di vigilanza e controllo necessarie per impedire ogni contiguità di materiali nucleari con le popolazioni e le strutture civili «prevenendo l'immissione di nuove consistenze dei medesimi materiali».
L'art. 5 disciplina l'entrata in vigore della legge.
Il ricorrente censura la legge con argomentazioni analoghe a quelle riferite alla legge della Regione Basilicata.
9.– La questione è fondata, per le medesime ragioni e in base ai medesimi argomenti già svolti a proposito della analoga legge della Regione Basilicata, nonché a proposito della legge della Regione Sardegna circa l'asserita non definitività della disciplina adottata.
Anche in questo caso l'illegittimità dell'art. 1 comporta necessariamente la dichiarazione di illegittimità dell'intera legge: infatti l'art. 2 nuovamente si riferisce alla “denuclearizzazione” di territori; l'art. 3 presuppone la possibilità per la Regione di adottare una “definitiva posizione” autonoma sull'utilizzo e sul deposito nel territorio regionale di sostanze nucleari e di loro residui; e l'art. 4 finalizza le misure alla prevenzione dell'ingresso di materiali nucleari nel territorio regionale.
10.– Il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi), è impugnato dalla Regione Basilicata nel testo risultante dalla legge di conversione 24 dicembre 2003, n. 368.
Esso, a differenza del testo originario del decreto, non individua più nel territorio del Comune di Scanzano Jonico, in Provincia di Matera, il sito per la realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Si limita invece a prevedere che la sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi, degli elementi di combustibile irraggiati e dei materiali nucleari, ivi inclusi quelli rivenienti dalla disattivazione delle centrali elettronucleari e degli impianti di ricerca e di fabbricazione del combustibile, sia effettuata presso il Deposito nazionale, riservato ai soli rifiuti di III categoria, che costituisce “opera di difesa militare di proprietà dello Stato”; e che il sito sia individuato entro un anno dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell'art. 2, sentita l'apposita Commissione tecnico-scientifica, e previa intesa in sede di conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, ovvero, in mancanza del raggiungimento dell'intesa entro il termine stabilito, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1).
La realizzazione del Deposito è affidata alla società gestione impianti nucleari (SOGIN s.p.a.: art. 1, comma 2), utilizzando le procedure speciali previste per le opere cosiddette strategiche dalla legge n. 443 del 2001 e dal d.lgs. n. 190 del 2002 (art. 1, comma 3).
La “validazione” del sito è effettuata dal Consiglio dei ministri, sulla base degli studi effettuati dalla apposita Commissione tecnico-scientifica, previo parere dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici, del Consiglio nazionale delle ricerche e dall'Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente (art. 1, comma 4-bis).
L'art. 2 prevede la nomina da parte del Presidente del Consiglio dei ministri di un Commissario straordinario, il quale provvede “in deroga alla normativa vigente” agli adempimenti relativi alla realizzazione del Deposito, fra cui l'approvazione dei progetti (comma 1, lettera f), ed è autorizzato ad adottare, con speciali modalità e poteri, anche sostitutivi, tutti i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla progettazione, all'istruttoria, all'affidamento e alla realizzazione del Deposito nazionale, fatte salve le sole competenze del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio in materia di valutazione di impatto ambientale e le competenze dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici-APAT (comma 2). È prevista una speciale Commissione tecnico-scientifica composta da diciannove esperti, di cui quattro nominati dalla Conferenza unificata, espressi due dalle Regioni e due dagli enti locali. Il Presidente della Commissione (a seguito di una successiva modifica introdotta con l'art. 1, comma 106, della legge n. 239 del 2004) è nominato dal Presidente del Consiglio d'intesa con la Conferenza unificata (comma 3).
L'art. 3 prevede la allocazione e gestione in via definitiva dei rifiuti radioattivi di III categoria e del combustibile irraggiato nel Deposito nazionale, e la messa in sicurezza e lo stoccaggio dei rifiuti di I e II categoria in base ad un decreto del Presidente del Consiglio.
L'art. 4 prevede fra l'altro misure compensative a favore dei siti che ospitano impianti nucleari, e successivamente del territorio che ospita il Deposito nazionale.
L'art. 5 dispone misure di carattere finanziario; l'art. 6 disciplina l'entrata in vigore del decreto.
11.– La ricorrente Regione Basilicata censura il decreto legge nel suo complesso, in primo luogo, lamentando la mancanza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza idonei a legittimare l'intervento del Governo, e quindi la violazione dell'art. 77 della Costituzione. Essa osserva che il decreto disciplina attività, come la realizzazione del Deposito, destinate ad essere completate solo entro il 2008, e che non vi era urgenza di provvedere per la inerzia del Parlamento, il quale aveva in itinere l'approvazione di una legge di delega sull'argomento, dal contenuto più rispettoso delle autonomie regionali.
In secondo luogo la ricorrente lamenta la violazione delle competenze legislative della Regione in materia di tutela della salute, protezione civile e governo del territorio, in quanto la disciplina adottata produrrebbe effetti vincolanti e irreversibili, e non si limiterebbe, come sarebbe stato doveroso, a fissare principi sulla cui base le Regioni potessero dettare una ulteriore normativa.
Infine la ricorrente denuncia la violazione dei principi costituzionali di “sussidiarietà, ragionevolezza, leale collaborazione e previa intesa tra Stato e Regioni”, osservando che, pur avendo lo Stato competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, le funzioni amministrative dovrebbero essere svolte dagli enti territoriali ogni volta che l'ente sia coinvolto da iniziative riguardanti il suo territorio o la sua popolazione. Lo Stato, per assumere le funzioni amministrative che apparterrebbero naturaliter agli enti territoriali, dovrebbe preliminarmente esaurire una fase interlocutoria di previa intesa, coinvolgente tutte le Regioni, per procedere alla individuazione del territorio ove ubicare il deposito, e successivamente, per la realizzazione dell'opera, la Regione il cui territorio fosse stato individuato come area utile per collocarvi l'opera stessa. Solo a seguito di un infruttuoso tentativo di intesa sarebbe consentito allo Stato di avocare a sé le funzioni amministrative in questione. Nella normativa impugnata, invece, secondo la ricorrente, non vi sarebbe traccia dell'esaurimento di tale fase interlocutoria e l'intervento dell'esecutivo statale non sarebbe previsto come successivo «ad un espresso atto di diniego proveniente dall'ente regionale interessato».
12.– Non può accogliersi l'eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri di tardività dell'impugnazione perché effettuata solo dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, che avrebbe solo completato la disciplina. La giurisprudenza di questa Corte è costante nel riconoscere la tempestività della impugnazione dei decreti legge dopo la loro conversione, che ne stabilizza la presenza nell'ordinamento (cfr. sentenze n. 113 del 1967, n. 192 del 1970, n. 25 del 1996 e n. 287 del 2004).
13.– La censura di violazione dell'art. 77 della Costituzione, anche a volerla considerare ammissibile in quanto intesa a far valere in via indiretta una lesione delle competenze della Regione derivante dal contenuto delle norme del decreto legge, è infondata.
Non solo non è evidente, nella specie, la mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, che legittimano il ricorso al decreto legge (cfr. sentenze n. 29 del 1995 e nn. 6 e 285 del 2004): ma, al contrario, appare evidente come l'esigenza di prevedere una adeguata disciplina idonea a consentire la realizzazione delle opere, oggi mancanti, necessarie per un corretto smaltimento dei rifiuti radioattivi, evitando pericoli per la salute e per l'ambiente, configuri un valido presupposto per un intervento d'urgenza: anche se poi il completamento delle procedure e delle opere necessarie possa richiedere tempi non brevi. L'urgenza infatti riguarda il provvedere, anche quando occorra tempo per conseguire il risultato voluto.
14.– Passando alle censure fondate sull'art. 117 della Costituzione e sui principi di sussidiarietà e leale collaborazione (mentre non viene in esame un autonomo profilo attinente alla “ragionevolezza” della legge), si deve anzitutto disattendere l'ulteriore eccezione di inammissibilità avanzata dall'Avvocatura erariale, secondo cui difetterebbe nel ricorso la individuazione di singole disposizioni in ipotesi non di principio, e come tali denunciate in quanto lesive della competenza regionale.
È vero che l'impugnazione riguarda l'intero decreto legge, ma è altrettanto vero che il contenuto di questo è omogeneo e assai specifico, concernendo le competenze ed i procedimenti per la individuazione del sito in cui ubicare il Deposito nazionale e per la sua realizzazione. Pertanto l'oggetto delle censure appare sufficientemente precisato.
15.– La questione, sotto questi profili, è solo parzialmente fondata.
La competenza statale in tema di tutela dell'ambiente, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s, Cost., è tale da offrire piena legittimazione ad un intervento legislativo volto a realizzare un impianto necessario per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, oggi conservati in via provvisoria in diversi siti, ma destinati a trovare una loro collocazione definitiva che offra tutte le garanzie necessarie sul piano della protezione dell'ambiente e della salute.
È ben vero che tale competenza statale non esclude la concomitante possibilità per le Regioni di intervenire, anche perseguendo finalità di tutela ambientale (cfr. sentenze n. 407 del 2002, n. 307 del 2003 e n. 259 del 2004), così nell'esercizio delle loro competenze in tema di tutela della salute e di governo del territorio, ovviamente nel rispetto dei livelli minimi di tutela apprestati dallo Stato e dell'esigenza di non impedire od ostacolare gli interventi statali necessari per la soddisfazione di interessi unitari, eccedenti l'ambito delle singole Regioni. Ma ciò non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l'esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale.
Del pari, l'attribuzione delle funzioni amministrative il cui esercizio sia necessario per realizzare interventi di rilievo nazionale può essere disposta, in questo ambito, dalla legge statale, nell'esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione, e in base ai criteri generali dettati dall'art. 118, primo comma, della Costituzione, vale a dire ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Nella specie, la localizzazione e la realizzazione di un unico impianto destinato a consentire lo smaltimento dei rifiuti radioattivi potenzialmente più pericolosi, esistenti o prodotti sul territorio nazionale, costituiscono certamente compiti il cui esercizio unitario può richiedere l'attribuzione della competenza ad organi statali.
16.– Tuttavia, quando gli interventi individuati come necessari e realizzati dallo Stato, in vista di interessi unitari di tutela ambientale, concernono l'uso del territorio, e in particolare la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l'intreccio, da un lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall'altro lato con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi (cfr. sentenza n. 303 del 2003).
Il livello e gli strumenti di tale collaborazione possono naturalmente essere diversi in relazione al tipo di interessi coinvolti e alla natura e all'intensità delle esigenze unitarie che devono essere soddisfatte.
Nella specie, i procedimenti configurati dal decreto legge impugnato concernono sia la individuazione del sito in cui collocare il Deposito, e dunque la scelta dell'area più idonea sotto il profilo tecnico e in relazione ad ogni altra circostanza rilevante, sia la concreta localizzazione e la realizzazione dell'impianto.
Sotto il primo profilo è corretto il coinvolgimento, che il decreto legge attua, delle Regioni e delle autonomie locali nel loro insieme, attraverso la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, chiamata a cercare l'intesa sulla individuazione del sito (art. 1, comma 1, del decreto legge impugnato). Naturalmente, ove l'intesa non venga raggiunta, lo Stato deve essere posto in condizioni di assicurare egualmente la soddisfazione dell'interesse unitario coinvolto, di livello ultraregionale. Pertanto, non si presta a censure la previsione secondo cui, in caso di mancata intesa, la individuazione del sito è rimessa, secondo uno schema ben noto ed usuale, ad un provvedimento adottato dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Consiglio dei ministri, e dunque col coinvolgimento del massimo organo politico-amministrativo, che assicura il livello adeguato di relazione fra organi centrali e autonomie regionali costituzionalmente garantite.
Parimenti appare idonea ad assicurare la tutela degli interessi degli enti territoriali la previsione secondo cui, nella apposita Commissione tecnico-scientifica incaricata di fornire pareri e studi, quattro membri sono nominati dalla Conferenza unificata, mentre il Presidente (in base alla modifica introdotta nell'art. 2, comma 3, del decreto legge dall'art. 1, comma 196, della legge n. 239 del 2004) è nominato dal Presidente del Consiglio d'intesa con la medesima Conferenza unificata.
17.– Quando però, una volta individuato il sito, si debba provvedere alla sua “validazione”, alla specifica localizzazione e alla realizzazione dell'impianto, l'interesse territoriale da prendere in considerazione e a cui deve essere offerta, sul piano costituzionale, adeguata tutela, è quello della Regione nel cui territorio l'opera è destinata ad essere ubicata. Non basterebbe più, a questo livello, il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata, il cui intervento non può sostituire quello, costituzionalmente necessario, della singola Regione interessata (cfr. sentenze n. 338 del 1994, n. 242 del 1997, n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004).
Da questo punto di vista, la disciplina recata dal decreto legge impugnato è carente. Infatti essa prevede che alla “validazione” del sito provveda il Consiglio dei ministri, sulla base degli studi della Commissione tecnico-scientifica, e sentiti i soli pareri di enti nazionali (l'Agenzia per la protezione dell'ambiente, il CNR e l'ENEA: art. 1, comma 4-bis). A sua volta il Commissario straordinario statale provvede, fra l'altro, anche in deroga alla normativa vigente, ad approvare i progetti (art. 2, comma 1, lettera f).
È dunque necessario, al fine di ricondurre tali previsioni a conformità alla Costituzione, che siano previste forme di partecipazione al procedimento della Regione interessata, fermo restando che in caso di dissenso irrimediabile possono essere previsti meccanismi di deliberazione definitiva da parte di organi statali, con adeguate garanzie procedimentali.
Una garanzia minima della Regione è invece presente nella previsione del comma 2, primo periodo, dell'art. 2, ai cui sensi il Commissario straordinario è autorizzato ad adottare, anche in sostituzione dei soggetti competenti, tutti i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla progettazione, all'istruttoria, all'affidamento e alla realizzazione del Deposito nazionale, ma operando con le modalità e i poteri di cui all'articolo 13 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997, n. 135. Infatti il comma 4, secondo periodo, di detto art. 13 prevede che, ove il Commissario, decorso un termine per l'adozione degli atti necessari da parte delle amministrazioni competenti, provveda in sostituzione, in caso di competenza regionale i provvedimenti siano comunicati al Presidente della Regione, il quale, entro quindici giorni, può disporne la sospensione, anche provvedendo diversamente.
Quanto alle procedure per la messa in sicurezza e lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi di I e II categoria, cui provvede, ai sensi dell'art. 3, comma 1-bis, il Presidente del Consiglio con proprio decreto, vale osservare che per tale messa in sicurezza “si applicano le procedure tecniche e amministrative di cui agli articoli 1 e 2” del decreto, fatta eccezione per quelle speciali previste dalla legge n. 443 del 2001 e dal d.lgs. n. 190 del 2002. Pertanto, anche a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale degli art. 1 e 2, a tali procedure vengono ad essere estese le garanzie previste per quelle relative al Deposito nazionale.
In definitiva, i soli artt. 1, comma 4-bis, e 2, comma 1, lettera f, devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono idonee forme di partecipazione al procedimento da parte della Regione nel cui territorio l'opera sia destinata ad essere realizzata.
Avendo la Corte deciso il merito del ricorso, non vi è luogo a procedere in ordine alla istanza di sospensione del decreto legge impugnato, formulata dalla ricorrente Regione Basilicata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale della legge regionale della Sardegna 3 luglio 2003, n. 8 (Dichiarazione della Sardegna territorio denuclearizzato);
dichiara l'illegittimità costituzionale della legge regionale della Basilicata 21 novembre 2003, n. 31 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 31 agosto 1995, n. 59);
dichiara l'illegittimità costituzionale della legge regionale della Calabria 5 dicembre 2003, n. 26 (Dichiarazione della Calabria denuclearizzata. Misure di prevenzione dall'inquinamento proveniente da materiale radioattivo. Monitoraggio e salvaguardia ambientale della salute dei cittadini);
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 4-bis, del decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi), convertito con modificazioni dalla legge 24 dicembre 2003, n. 368, nella parte in cui non prevede una forma di partecipazione della Regione interessata, nei sensi di cui in motivazione, al procedimento di “validazione” del sito;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera f, del predetto decreto legge n. 314 del 2003 nella parte in cui non prevede una forma di partecipazione della Regione interessata, nei sensi di cui in motivazione, al procedimento di approvazione dei progetti;
dichiara non fondata, salvo quanto disposto nei capi d ed e, la questione di legittimità costituzionale del predetto decreto legge n. 314 del 2003, sollevata, in riferimento agli articoli 77 e 117 della Costituzione, nonché ai principi costituzionali di sussidiarietà, di ragionevolezza e di leale collaborazione, dalla Regione Basilicata con il ricorso in epigrafe (r.ric. n. 40 del 2004).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2005.
Massima n. 29553
Non è fondata, in relazione agli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 Cost., la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998 e del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999. Infatti, non sussiste nella specie il denunciato vizio di carenza dei presupposti della decretazione d’urgenza, in quanto la necessità di introdurre nell'ordinamento interno misure regolatrici, volte a dare attuazione agli obblighi comunitari relativi al regime delle quote latte, rende non manifestamente implausibile la valutazione governativa, posta a base degli interventi, in ordine al ricorso alla decretazione d'urgenza. - In tema di dedotta mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza, v. citate sentenze n. 285 e n. 6/2004, n. 16/2002, n. 398/1998, n. 330/1996 e n. 29/1995.
composta dai signori: Presidente: Piero Alberto CAPOTOSTI; Giudici: Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 01, commi 1 e 2, art. 1 commi da 1 a 20 e da 28 a 44, artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 nonché dell'intero decreto-legge 31 gennaio 1997, n. 11 (Misure straordinarie per la crisi del settore lattiero-caseario ed altri interventi urgenti a favore dell'agricoltura), anche come convertito con modificazioni nella legge 28 marzo 1997, n. 81 (ric. numeri 25, 26, 36 e 37 del 1997); dell'art, 1, commi 1, 3 e 4 nonché dell'intero decreto-legge 7 maggio 1997, n. 118 (Disposizioni urgenti in materia di quote latte) (ric. n. 41 del 1997); dell'art. 1, commi 1, 2, 3, 3-bis e 4-bis, art. 2, commi 1, lettera c) e lettera d), 2, 3 lettera c), 4, 5, 6, 8, 8-bis, 9 e 10, art. 3, commi 1 e 1-bis, art. 4, art. 4-bis, art. 5, nonché dell'intero decreto-legge 1° dicembre 1997, n. 411 (Misure urgenti per gli accertamenti in materia di produzione lattiera), anche come convertito con modificazioni nella legge 27 gennaio 1998, n. 5 (ric. numeri 3, 4, 16, 18 e 19 del 1998); dell'art. 1, comma 1, nonché dell'intero decreto-legge 15 giugno 1998 n. 182 (Modifiche alla normativa in materia di accertamenti sulla produzione lattiera e disposizioni sull'igiene dei prodotti alimentari), come convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 1998, n. 276 (ric. n. 38 del 1998); dell'art. 1, commi 1, 2, 3, 3-bis, 3-ter, 4, 4-bis, 5, 6, 7, 8, 9,10, 11, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 21, 21-bis, 21-ter nonché dell'intero decreto-legge 1° marzo 1999, n. 43 (Disposizioni urgenti per il settore lattiero-caseario), anche come convertito con modificazioni nella legge 27 aprile 1999, n. 118 (ric. numeri 14, 15, 18 e 19 del 1999); dell'art. 1, commi 1, 1-bis, 2, 3, 3-bis, 4, 5, 6, 7, 7-bis, 8, 8-bis, 8-ter, e dell'intero decreto-legge 4 febbraio 2000, n. 8 (Disposizioni urgenti per la ripartizione dell'aumento comunitario del quantitativo globale di latte e per la regolazione provvisoria del settore lattiero-caseario), anche come convertito con modificazioni nella legge 7 aprile 2000, n. 79 (ric. numeri 10 e 14 del 2000), promossi con ricorsi delle Regioni Lombardia (ric. numeri 25 e 36 del 1997; 4 e 18 del 1998; 14 e 18 del 1999), Veneto (ric. numeri 26, 37 e 41 del 1997; 3, 19, 38 del 1998; 15 e 19 del 1999; 10 e 14 del 2000) e Sicilia (ric. n. 16 del 1998), rispettivamente notificati il 3 marzo, il 24 aprile, il 6 giugno, il 29 dicembre 1997 e il 30 dicembre 1997, il 27 febbraio e il 9 settembre 1998, il 31 marzo e il 31 maggio 1999, il 7 marzo e il 5 maggio 2000, depositati in Cancelleria il 12 marzo, il 30 aprile, il 13 giugno 1997, l'8 gennaio, il 3 marzo, il 9 marzo 1998, il 16 settembre 1998, il 9 aprile e il 9 giugno 1999, il 17 marzo e il 15 maggio 2000, ed iscritti ai numeri 25, 26, 36, 37 e 41 del registro ricorsi 1997, ai numeri 3, 4, 16, 18, 19 e 38 del registro ricorsi 1998, ai numeri 14, 15, 18 e 19 del registro ricorsi 1999 ed ai numeri 10 e 14 del registro ricorsi 2000.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 3 maggio 2005 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi l'avvocato Giuseppe Ferrari per le Regioni Lombardia e Veneto, l'avvocato Giovanni Carapezza Figlia per la Regione Siciliana e l'avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.- Le Regioni Lombardia e Veneto e la Regione Siciliana, con distinti ricorsi (rispettivamente iscritti, nel registro ricorsi, per la Regione Lombardia ai numeri 25 e 36 del 1997; 4 e 18 del 1998; 14 e 18 del 1999; per la Regione Veneto ai numeri 26, 37 e 41 del 1997; 3, 19 e 38 del 1998; 15 e 19 del 1999; 10 e 14 del 2000; per la Regione Siciliana al n. 16 del 1998), hanno proposto questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni, concernenti tutte il regime delle quote latte, contenute nei seguenti testi normativi: decreto-legge 31 gennaio 1997, n. 11 (Misure straordinarie per la crisi del settore lattiero-caseario ed altri interventi urgenti a favore dell'agricoltura), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 1997, n. 81; decreto-legge 19 maggio 1997, n. 130 (Disposizioni urgenti per prevenire e fronteggiare gli incendi boschivi sul territorio nazionale, nonché interventi in materia di protezione civile, ambiente e agricoltura), convertito, con modificazioni, nella legge 16 luglio 1997, n. 228; decreto-legge 7 maggio 1997, n. 118 (Disposizioni urgenti in materia di quote latte), convertito, con modificazioni, nella legge 3 luglio 1997, n. 204; decreto-legge 1° dicembre 1997, n. 411 (Misure urgenti per gli accertamenti in materia di produzione lattiera), convertito, con modificazioni, nella legge 27 gennaio 1998, n. 5; legge 3 agosto 1998, n. 276 recante conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 giugno 1998, n. 182 (Modifiche alla normativa in materia di accertamenti sulla produzione lattiera e disposizioni sull'igiene dei prodotti alimentari); decreto-legge 1° marzo 1999, n. 43 (Disposizioni urgenti per il settore lattiero-caseario), convertito, con modificazioni, nella legge 27 aprile 1999, n. 118; decreto-legge 4 febbraio 2000, n. 8 (Disposizioni urgenti per la ripartizione dell'aumento comunitario del quantitativo globale di latte e per la regolazione provvisoria del settore lattiero-caseario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2000, n. 79.
Considerata la sostanziale analogia dell'oggetto, i ricorsi possono essere riuniti per essere trattati congiuntamente e decisi con unica sentenza.
1.1.- La Corte, all'esito dell'udienza pubblica del 26 ottobre 1999, ha emanato, in data 15 dicembre 1999, ordinanza istruttoria con la quale ha disposto l'acquisizione dei seguenti elementi di conoscenza:
1) verbali delle riunioni tenute, a far data dal 1° dicembre 1996, dal Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali, prima, e dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e Province autonome, dopo, nelle quali sia stata trattata la materia delle quote latte (e relativi allegati riferentisi alla stessa materia);
2) relazione finale della Commissione di garanzia quote latte, istituita dall'art. 4-bis del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998;
3) prospetto delle date di emissione dei bollettini dell'Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo (AIMA) in riferimento alle campagne lattiero-casearie 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998;
4) quadro del contenzioso civile e amministrativo in corso, in relazione alla determinazione delle quote latte individuali e alle compensazioni effettuate dall'AIMA (oggi, Agenzia per le erogazioni in agricoltura – AGEA).
1.2.- Successivamente, all'udienza del 23 ottobre 2001, per consentire la discussione congiunta degli ulteriori ricorsi proposti dalla Regione Veneto in via principale, iscritti ai numeri 10 e 14 del registro ricorsi del 2000, si procedeva al rinvio a nuovo ruolo di tutti i ricorsi al fine di permettere alle parti di svolgere le proprie difese anche in relazione alla disciplina contenuta nella legge di revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione.
1.3.— La Regione Lombardia, con deliberazione n. 26176 del 14 marzo 1997, ha rinunciato alle censure proposte nei confronti dell'art. 7 del decreto-legge n. 11 del 1997.
In prossimità dell'udienza pubblica la Regione Veneto, con atti del 16 marzo 2005, ha espressamente rinunciato alle impugnazioni proposte con i ricorsi numeri 26, 37 e 41 del 1997; 3, 19 e 38 del 1998; 15 e 19 del 1999; 10 e 14 del 2000.
Tali ultime rinunce sono state accettate dall'Avvocatura generale dello Stato per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, con atti del 14 aprile 2005.
L'oggetto del contendere, pertanto, è limitato alle impugnazioni proposte dalla Regione Lombardia (ric. numeri 25 e 36 del 1997; 4 e 18 del 1998; 14 e 18 del 1999) e dalla Regione Siciliana (ric. n. 16 del 1998), in ordine alle disposizioni dei decreti-legge n. 11 del 1997, n. 411 del 1997, n. 43 del 1999 e delle relative leggi di conversione.
2.— Prima di procedere alla disamina delle singole questioni di legittimità costituzionale sollevate, appare opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale in relazione alle ragioni che hanno condotto all'emanazione della disciplina le cui disposizioni formano oggetto di impugnazione.
I testi normativi che contengono le norme sospettate di illegittimità costituzionale costituiscono un segmento della disciplina adottata nel tempo dal legislatore italiano per regolare il settore delle quote latte, in ragione di quanto previsto dalla normativa comunitaria.
2.1.— Il Trattato che ha istituito la Comunità europea (Trattato 25 marzo 1957) – modificato prima dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 (Trattato di Amsterdam che modifica il trattato sull'Unione europea, i trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi), in vigore dal 1° maggio 1999, e successivamente dal Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 (Trattato di Nizza che modifica il trattato sull'Unione europea, i trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi), in vigore dal 1° febbraio 2003 – dispone agli artt. 32-38, che corrispondono nella sostanza agli originali artt. 38-46, gli interventi riconducibili alla Politica agricola comune (PAC).
Così come per le diverse produzioni agricole, anche per i prodotti lattiero-caseari la politica comunitaria si è articolata attraverso diverse tipologie di interventi: misure per la regolarizzazione degli scambi, rafforzamento delle strutture produttive, misure di sostegno dei redditi degli agricoltori, misure per riequilibrare domanda ed offerta.
2.1.1.— In ordine al settore lattiero-caseario, con reg. n. 13/64/CEE (espressamente richiamato nel reg. n. 804/68/CEE, del 27 giugno 1968, recante «Regolamento del Consiglio relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari»), veniva stabilito, in origine, che l'organizzazione comune del mercato si sarebbe realizzata, gradualmente, a partire dal 1964. L'organizzazione di mercato così istituita, comportava, principalmente, la fissazione annuale di un prezzo indicativo del latte, di prezzi d'entrata determinati per i prodotti pilota dei diversi gruppi di generi lattiero-caseari (e al cui livello il prezzo dei prodotti importati doveva essere riportato, a mezzo di un prelievo variabile), nonché di un prezzo di intervento per il burro.
Tuttavia, solo con il reg. n. 804/68/CEE – successivamente modificato e poi da ultimo abrogato dal reg. n. 1255/99/CE, del 17 maggio 1999, recante «Regolamento del Consiglio relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari» – si determinava l'avvio di un complesso sistema di interventi comunitari nel settore. Nei “considerando” di detto regolamento si afferma, tra l'altro, che «la politica agricola comune ha lo scopo di attuare gli obiettivi dell'art. 39 del Trattato; che, specie nel settore del latte, è necessario, per stabilizzare i mercati e assicurare un equo tenore di vita alla popolazione agricola interessata, che gli organismi d'intervento continuino a prendere le misure d'intervento sul mercato, uniformate al tempo stesso per non ostacolare la libera circolazione dei prodotti in causa all'interno della Comunità».
Il reg. n. 804/68/CEE, secondo una linea che ha caratterizzato una prima fase della PAC, prevedeva, quindi, una serie di misure riconducibili principalmente ad un complesso sistema di prezzi, stabiliti a livello comunitario (prezzo indicativo, prezzo d'intervento, prezzo minimo d'importazione) e a politiche protezionistiche.
2.1.2.— L'utilizzazione di prezzi di intervento e di prezzi minimi di importazione dava luogo, tuttavia, ad alcuni fenomeni distorsivi e cioè, da un lato, alla creazione di rilevanti scorte di prodotto eccedente, dall'altro alla mancata selezione delle produzioni più remunerative.
Pertanto, a partire dagli anni '70 si è avuto un graduale mutamento caratterizzato dalla incentivazione della politica strutturale, sino a giungere agli anni '90, in cui, anche in ragione delle linee di riforma tracciate dalla relazione del Commissario all'agricoltura in carica all'epoca (1991), si è raggiunto un maggiore equilibrio dei mercati agricoli comunitari, con riduzione delle eccedenze di molti prodotti e delle spese sostenute.
Sono stati, quindi, adottati vari regolamenti che hanno interessato quattro importanti settori dell'agricoltura riguardanti: i seminativi, le carni, il tabacco e i prodotti lattiero-caseari.
Il mercato unico del settore lattiero-caseario non è basato, pertanto, solo su un sistema di prezzi, ma si articola in una serie di misure normative attraverso le quali la Comunità ha cercato di controllare la domanda e l'offerta dei prodotti considerati. La Comunità ha inteso, quindi, risolvere il problema della sovrapproduzione con una serie di meccanismi, tra cui quello delle c.d. quote latte.
2.1.3.— In particolare, con il regolamento n. 856/84/CEE, del 31 marzo 1984, recante «Regolamento del Consiglio che modifica il regolamento (CEE) n. 804/68 relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari» – che ha introdotto l'art. 5-quater nel regolamento (CEE) n. 804/68, peraltro successivamente abrogato dal reg. n. 1255/99/CE – veniva istituito, a decorrere dal 2 aprile 1984, un “prelievo supplementare” sulla produzione di latte che avesse superato un quantitativo annuo di riferimento.
Il sistema si caratterizza così per il fatto che non è impedita la produzione, né la commercializzazione al di là della soglia fissata, ma si introduce un meccanismo di responsabilità finanziaria, che opera nella fase della stessa commercializzazione. L'importo del prelievo, essendo rapportato alla quantità di latte eccedente la quota latte assegnata, rende non conveniente la produzione che eccede il quantitativo predeterminato (cfr. sentenza n. 100 del 1998). Tale sistema «mira a ristabilire l'equilibrio tra domanda e offerta sul mercato lattiero, caratterizzato da eccedenze strutturali, limitando la produzione lattiera» (Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VI, 25 marzo 2004, in cause riunite C-231/00, C-303/00 e C-451/00, nonché sentenza in pari data, in cause riunite da C-480/00 a C-482/00, C-484/00, da C-489/00 a C-491/00, da C-497/00 a C-499/00). Il prelievo, inoltre, – ha precisato la Corte di giustizia con le citate sentenze – «si iscrive (...) nell'ambito delle finalità di sviluppo razionale della produzione lattiera e di mantenimento di un tenore di vita equo della popolazione agricola interessata, contribuendo ad una stabilizzazione del reddito di quest'ultima»; per tali ragioni esso non ha natura sanzionatoria, costituendo «una restrizione dovuta a regole di politica dei mercati o di politica strutturale».
Il regime così introdotto è stato prorogato, con modifiche, dapprima con il regolamento CEE 28 dicembre 1992, n. 3950/92 (Regolamento del Consiglio che istituisce un prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari), per sette periodi di dodici mesi, decorrenti dal 1° aprile 1993, e successivamente con il regolamento CE n. 1256/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999, di modifica del reg. CEE n. 3950/92, che ha sancito la protrazione della disciplina per altri otto periodi consecutivi di dodici mesi a decorrere dal 1° aprile 2000. Con regolamento della Commissione del 9 marzo 1993, n. 536/93 CEE, emanato in attuazione del reg. n. 3950, sono state stabilite le modalità operative per l'applicazione del prelievo supplementare.
2.1.4.— Di recente è stato emanato il regolamento del Consiglio del 29 settembre 2003, n. 1788/2003 CE che, al fine di «mettere a frutto l'esperienza acquisita in un intento di semplificazione e chiarezza», ha abrogato «a decorrere dal 1° aprile 2004» il reg. CEE n. 3950/92 (art. 25). Con regolamento (CE) n. 595/2004, del 30 marzo 2004, della Commissione, sono state infine dettate, in relazione al citato regolamento (CE) n. 1788/2003, disposizioni di attuazione sostitutive di quelle già previste dal reg. (CE) n. 1392/2001 in relazione al reg. n. 3950/92.
2.2.— In Italia è stata data attuazione ai regolamenti comunitari in questa materia – dopo una lunga fase transitoria caratterizzata anche dalla condanna dello Stato italiano da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee per violazione degli obblighi comunitari – con una prima disciplina organica, a partire dalla legge 26 novembre 1992, n. 468 (Misure urgenti nel settore lattiero-caseario), con la quale si è previsto che a ciascun produttore fosse assegnata annualmente una quota individuale, ossia un quantitativo massimo di produzione consentita, il cui superamento avrebbe determinato l'applicazione di un prelievo supplementare. Le quote assegnate a ciascun produttore dovevano essere indicate in appositi bollettini che l'AIMA avrebbe dovuto pubblicare entro il 31 gennaio anteriore al periodo di riferimento.
I ritardi connessi all'attuazione di tale disciplina hanno aperto una nuova fase caratterizzata da una lunga trattativa tra l'Italia e gli organi comunitari per il definitivo allineamento alle posizioni sancite a livello europeo che ha portato, tra l'altro, all'emanazione degli atti legislativi oggetto dell'attuale scrutinio di costituzionalità.
2.3.— Ciò precisato, occorre rilevare che, successivamente alla proposizione dei ricorsi di cui innanzi, è stato emanato il decreto-legge 28 marzo 2003, n. 49, recante «Riforma della normativa in tema di applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari», convertito, con modificazioni, nella legge 30 maggio 2003, n. 119, che è stato, a sua volta, in parte, modificato dal decreto-legge 28 febbraio 2005, n. 22, recante «Interventi urgenti nel settore agroalimentare», convertito, con modificazioni, nella legge 29 aprile 2005, n. 71. La nuova normativa contenuta nel decreto-legge n. 49 del 2003 ha stabilito che «gli adempimenti relativi al regime comunitario del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari (...) sono di competenza delle Regioni e delle Province autonome, alle quali spettano anche le funzioni di controllo relative all'applicazione del regime medesimo» (art. 1, comma 1). Ha stabilito, altresì, che ad esse sono devoluti i proventi delle sanzioni, mentre restano demandate all'AGEA la gestione della riserva nazionale, l'esecuzione del calcolo delle quantità e degli importi globali e l'esecuzione delle comunicazioni agli organismi comunitari.
Su alcune delle disposizioni introdotte dal decreto-legge n. 49 del 2003 – relative alla possibilità della nomina, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di un Commissario straordinario del Governo, per assicurare il monitoraggio e la vigilanza sull'applicazione del decreto nei suoi primi due periodi di attuazione, Commissario al quale è attribuito, nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione, il potere sostitutivo in relazione ad inadempienze delle amministrazioni regionali in merito all'attuazione della normativa in tema di prelievo supplementare (art. 10, commi 42, 43, 44 e 45) – è intervenuta, su ricorso proposto dalla Regione Emilia-Romagna, la sentenza di questa Corte n. 240 del 2004. Con tale pronuncia la Corte ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità proposta.
2.4.— L'art. 10, comma 47, del suddetto decreto-legge n. 49 del 2003 ha, tra l'altro, abrogato l'art. 01 e l'art. 1, commi da 13 a 21 e commi da 28 a 35, dell'emendato testo del decreto-legge n. 11 del 1997, nonché per intero i decreti-legge n. 411 del 1997 e n. 43 del 1999, e relative leggi di conversione.
Lo stesso art. 10 ha, inoltre, previsto, da un lato, che «le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano, ove non diversamente ed espressamente specificato, a decorrere dal primo periodo di commercializzazione successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso; pertanto, tutti gli adempimenti relativi ai periodi precedenti sono regolamentati dalla normativa precedentemente in vigore» (comma 46); dall'altro, e conseguentemente, che le disposte abrogazioni hanno effetto «a decorrere dal primo periodo di applicazione del presente decreto» (comma 47, primo inciso).
L'abrogazione disposta nei modi che precedono non determina, tuttavia, la cessazione della materia del contendere, in quanto le norme impugnate – come emerge anche dalle risultanze istruttorie – hanno ricevuto, medio tempore, una qualche attuazione (cfr., ex multis, sentenza n. 424 del 2004).
3.- Tutto ciò premesso, va ribadito che la disciplina delle c.d. quote latte, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, rientra nell'ambito della materia dell'agricoltura e non in quella di regolazione dei mercati.
Questa Corte ha, infatti, chiarito che «il comparto della produzione lattiera e delle strutture produttive intese in senso lato assume un rilievo distinto ed autonomo rispetto alla regolazione dei prezzi e dei mercati, sicché il nesso strumentale tra l'agricoltura, che è l'oggetto specifico delle misure in questione, e la politica del mercato agricolo non può giustificare l'attrazione della prima nell'ambito della seconda, poiché diversamente la competenza regionale verrebbe integralmente sacrificata in materia di agricoltura, posto che ogni attività agricola può sempre essere strumentale al mercato» (sentenze n. 398 del 1998; v. anche sentenza n. 304 del 1987).
3.1.— Pur sussistendo, all'epoca della proposizione dei ricorsi, la predetta competenza legislativa concorrente delle Regioni, nondimeno era configurabile un titolo di legittimazione dello Stato ad intervenire nel settore in esame.
3.1.1.— In particolare, l'intervento del legislatore statale rinveniva una propria giustificazione, a livello costituzionale, nella necessità di adottare una normativa di carattere uniforme sull'intero territorio nazionale, e ciò soprattutto in vista della conformazione delle regole dell'ordinamento, nella materia oggetto dell'intervento, alla normativa comunitaria. In altri termini, la sussistenza di un interesse nazionale (categoria, all'epoca, certamente rilevante agli effetti del riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni) rendeva costituzionalmente legittimo l'intervento della legge statale, pur nel rispetto dell'esigenza di assicurare, nelle forme e nei modi di volta in volta necessari o opportuni, il coinvolgimento delle singole Regioni e delle Province autonome, e giustificava nella materia in questione anche la competenza amministrativa dello Stato.
Nell'assetto costituzionale precedente alla riforma del Titolo V della Costituzione spettava, infatti, allo Stato la tutela di interessi nazionali ed unitari, in quanto non suscettibili di frazionamento territoriale. Nel quadro, pertanto, dell'unità ed indivisibilità della Repubblica sussistevano limiti alla potestà legislativa regionale proprio per assicurare il rispetto dei predetti interessi nazionali. Pur in presenza di interessi regionali, che radicavano nelle Regioni determinate competenze costituzionali, potevano essere coinvolti interessi di dimensione ultraregionale; quest'ultimi erano salvaguardati non già attraverso una diminuzione qualitativa o quantitativa delle attribuzioni regionali ma, più correttamente, indirizzando e coordinandone l'esercizio.
La Corte ha, inoltre, precisato, da un lato, che «la stessa ragione d'essere dell'ordinamento regionale risiede nel fatto che la Costituzione, presupponendo l'esistenza di interessi regionalmente localizzati, ha disposto che essi siano affidati alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale», dall'altro e specularmente, che «la cura di interessi unitari tali in quanto non suscettibili di frazionamento territoriale» faccia capo alla competenza dello Stato (sentenza n. 138 del 1972); e «che, in considerazione della rilevanza che in alcuni casi può assumere l'interesse nazionale, lo Stato possa legittimamente adottare una disciplina legislativa di dettaglio pur nell'ambito di materie attribuite in via generale alla competenza regionale» (sentenza n. 177 del 1988).
3.1.2.— Di tali principî questa Corte ha fatto applicazione in attuazione di direttive comunitarie, ritenendo legittimo l'intervento statale quando esso trovi giustificazione «nel generale interesse nazionale» (sentenze n. 81 del 1979 e n. 182 del 1976), ravvisabile nella sussistenza di «interessi unitari, che impongano l'attuazione uniforme della normativa comunitaria nell'intero territorio nazionale» (sentenza n. 304 del 1987).
In ordine ai regolamenti comunitari questa Corte ha avuto, inoltre, modo di affermare che, pur spettando in linea di principio alla competenza delle Regioni la potestà di adottare le misure necessarie per dare applicazione ai regolamenti stessi, tuttavia l'intervento di atti normativi nazionali rinviene una specifica legittimazione «quando lo richieda la necessità di garantire (…) il puntuale e corretto adempimento degli obblighi comunitari, ovvero lo esigano interessi unitari, che impongano l'attuazione uniforme della normativa comunitaria nell'intero territorio nazionale» (sentenza n. 304 del 1987).
4.— Prima di passare all'esame delle specifiche censure occorre, altresì, chiarire, ratione temporis, quali siano i parametri costituzionali rispetto ai quali deve essere effettuato lo scrutinio di costituzionalità, nonché quali vizi siano deducibili da parte delle Regioni in occasione della promozione di questione di legittimità costituzionale in via diretta.
4.1.— Trattandosi di ricorsi proposti prima dell'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della Parte seconda della Costituzione), con i quali vengono dedotti, in particolare, vizi attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni, lo scrutinio di costituzionalità dovrà essere effettuato avendo riguardo ai parametri costituzionali vigenti alla data di emanazione degli atti legislativi impugnati e, quindi, alla loro formulazione anteriore alla riforma di cui alla citata legge costituzionale (cfr. sentenze n. 103 del 2003; n. 524 e n. 376 del 2002).
4.2.— Le Regioni censurano le disposizioni impugnate asserendo la violazione non solo dei parametri costituzionali contenuti nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione (artt. 115, 117, 118 e 119), in ragione della ritenuta violazione del riparto delle competenze legislative e amministrative tra Stato e Regioni nella materia de qua, ma anche degli artt. 3, 5, 11, 24, 41, 77, 97 e 113 della Costituzione.
Questa Corte, con orientamento costante, ritiene che le Regioni possano addurre la violazione di norme costituzionali non relative al riparto di competenze con lo Stato, soltanto quando tale violazione comporti una compromissione delle loro attribuzioni costituzionalmente garantite (ex multis, sentenze n. 50 del 2005; n. 287, n. 196, n. 6 e n. 4 del 2004; n. 274 del 2003). È bene, però, precisare sin da ora che, nel caso di specie, le Regioni – formulando, ad eccezione di talune specifiche ed autonome doglianze, censure che involgono complessivamente gli indicati parametri costituzionali, anche diversi da quelli inclusi nel Titolo V della Costituzione – supportano le proprie argomentazioni difensive muovendo generalmente dal presupposto che le Regioni stesse siano titolari nella materia in esame di competenza legislativa ed amministrativa (cfr. sentenza n. 4 del 2004).
5.— Nell'esaminare le questioni si ritiene opportuno affrontare in primo luogo quelle che sono state proposte nei confronti dell'intero testo dei decreti-legge n. 411 del 1997 (ric. n. 4 del 1998) e n. 43 del 1999 (ric. n. 14 del 1999), nonché nei confronti delle rispettive leggi di conversione.
6.— La Regione Lombardia deduce la mancanza dei presupposti atti a giustificare la decretazione di urgenza, in violazione degli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
In particolare, con riferimento ai decreti-legge n. 411 del 1997 e n. 43 del 1999 e alle relative leggi di conversione (rispettivamente legge n. 5 del 1998 e legge n. 118 del 1999), la ricorrente – traendo argomentazioni a sostegno della dedotta illegittimità costituzionale dal contenuto di alcune specifiche disposizioni di cui ai testi legislativi impugnati – osserva che, pur se in ipotesi potrebbe riconoscersi nell'intervento normativo censurato il carattere dell'urgenza, risultando esso adottato per fronteggiare la protesta degli allevatori chiamati a pagare il cosiddetto superprelievo, tuttavia, non potrebbe non considerarsi che si tratterebbe in ogni caso di urgenza autoprodotta, rinvenendo la protesta degli allevatori le proprie ragioni nella inadeguatezza delle scelte di governo del settore e nella inefficienza dell'amministrazione dello Stato. In tali condizioni, afferma la Regione, il ricorso alla decretazione d'urgenza non potrebbe essere ammesso, soprattutto se quest'ultima ha per conseguenza la lesione di sfere di competenza costituzionalmente garantite alle Regioni. Difetterebbe, altresì, il requisito della straordinarietà, posto che in materia di produzione lattiero-casearia il susseguirsi di atti provvisori mediante la decretazione d'urgenza costituirebbe oramai «la regola».
6.1.— La questione non è fondata.
Questa Corte ha più volte affermato (sentenze n. 285 e n. 6 del 2004, n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996 e n. 29 del 1995) che il sindacato sull'esistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi.
Nella specie – a prescindere dalla valutazione degli effetti prodotti dalle leggi di conversione – non sussiste il denunciato vizio, in quanto la necessità di introdurre nell'ordinamento interno misure regolatrici, volte a dare attuazione agli obblighi comunitari relativi al regime delle quote latte, rende non manifestamente implausibile la valutazione governativa, posta a base degli interventi, in ordine al ricorso alla decretazione d'urgenza (cfr. sentenza n. 398 del 1998).
7.— La Regione Lombardia ritiene, altresì, che i decreti-legge n. 411 del 1997 e n. 43 del 1999 e le relative leggi di conversione violino gli artt. 3, 5, 11, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, anche in relazione al principio di leale cooperazione e all'art. 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), nonché all'art. 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n 143 (Conferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale).
In particolare (ric. n. 4 del 1998), la ricorrente lamenta che il decreto-legge n. 411 del 1997, pur disciplinando materie di sicura competenza regionale e dettando le linee generali di disciplina del settore, sarebbe stato adottato senza la previa consultazione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, in contrasto con quanto statuito, in linea di principio, da questa Corte con la sentenza n. 520 del 1995. Il mancato coinvolgimento della Conferenza e la conseguente mancata considerazione degli interessi e degli aspetti rilevanti nel settore, determinerebbe, poi, la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, nonché del principio secondo cui l'iniziativa economica privata può essere guidata e controllata solo per fini di utilità sociale, nonché dell'art. 11 della Costituzione, posto che l'efficienza e la coerenza delle scelte di governo della produzione lattiero-casearia sono valori propri dell'ordinamento comunitario, che lo Stato italiano è tenuto a salvaguardare. Analogamente, la ricorrente, con specifico riferimento al decreto-legge n. 43 del 1999 (ric. n. 14 del 1999), censura il fatto che tale decreto sarebbe nato come stralcio di un più ampio disegno di legge, in ordine al quale, invocando l'art. 2, comma 5, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), il Governo ha attivato un meccanismo di consultazione successiva delle Regioni, salvo poi, a fronte dell'opposizione della maggioranza dei rappresentanti regionali in sede di Conferenza permanente in data 24 febbraio 1999, abbandonare l'iniziale intento e trasfondere parte del testo originario nel decreto-legge impugnato, a ciò ritenendosi legittimato in forza di un presunto parere favorevole, comunque successivo, espresso dalla Conferenza nella stessa seduta. In relazione alla legge di conversione n. 118 del 1999, la ricorrente si duole della circostanza che non sarebbe stata neppure rispettata la prescrizione afferente l'esame del parere successivo della Conferenza permanente in sede di discussione parlamentare della censurata legge di conversione. Dai lavori preparatori, infatti non emergerebbe né l'esame, né tanto meno l'adeguamento al parere negativo reso dai rappresentanti regionali in sede di Conferenza permanente del 24 febbraio 1999 sui contenuti della riforma.
7.1.— La questione non è fondata.
Escluso ogni rilievo – nei termini precisati – al richiamo, da parte della ricorrente, a parametri costituzionali diversi da quelli concernenti il riparto delle competenze legislative, non può ritenersi che la legittimità degli atti impugnati sia condizionata dalla necessità dell'intervento della Conferenza permanente nella fase di adozione dei decreti-legge ovvero delle leggi di conversione. Ciò in quanto non è individuabile un fondamento costituzionale all'obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni (sentenza n. 196 del 2004, punto 27 del Considerato in diritto). Lo scrutinio di costituzionalità deve, invece, essere svolto con riferimento alla verifica del rispetto del principio di leale collaborazione in relazione alle singole disposizioni di disciplina della fase di attuazione delle disposizioni stesse. Né vale il richiamo operato dalla ricorrente a quanto statuito da questa Corte con la sentenza n. 520 del 1995, con la quale si è dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge 24 febbraio 1995, n. 46, recante conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 dicembre 1994, n. 727, «nella parte in cui non prevede il parere delle Regioni interessate» nella fase, però, attuativa, relativa al «procedimento di riduzione delle quote individuali spettanti ai produttori di latte bovino».
A ciò va aggiunto che l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 281 del 1997, pure richiamato dalla ricorrente, prevede obbligatoriamente l'intervento consultivo della Conferenza Stato Regioni in sede di predisposizione dei disegni di legge governativi e dei decreti legislativi, non anche in quella dei decreti-legge e dunque anche delle relative leggi di conversione; salvo quanto previsto dal comma 5 per la c.d. “consultazione successiva” (v. sentenza n. 196 del 2004, punto 27 del Considerato in diritto).
8.— Esaminate le questioni involgenti l'intero testo dei provvedimenti legislativi impugnati, si può passare all'esame delle censure rivolte nei confronti di specifiche disposizioni degli stessi.
Al riguardo, si ritiene opportuno procedere mediante un raggruppamento delle questioni che tenga conto della omogeneità di contenuto delle singole disposizioni impugnate, piuttosto che della loro appartenenza allo stesso atto legislativo.
9.— Vengono in primo luogo in rilievo le disposizioni che hanno istituito la “Commissione di garanzia” e la “Commissione ministeriale per l'esame dei contratti di circolazione delle quote latte”.
9.1.— La Regione Lombardia (ric. n. 18 del 1998) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto-legge n. 411 del 1997, aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, per contrasto con gli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
Il comma 1 del citato art. 4-bis ha disposto l'istituzione, con decreto del Ministro per le politiche agricole, di una Commissione di garanzia «composta di sette membri, esperti della materia, scelti anche tra i componenti della commissione governativa di indagine in materia di quote latte, con il compito di verificare la conformità alla vigente legislazione delle procedure e delle operazioni effettuate per la determinazione della quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997 e per l'aggiornamento dei quantitativi di riferimento spettanti ai produttori per i periodi precisati nel presente decreto».
9.1.1.— Secondo la Regione ricorrente, la suindicata disposizione violerebbe gli evocati parametri costituzionali poiché, pur essendo la Commissione di garanzia destinata ad occuparsi di una materia di sicura competenza regionale, non sarebbero previsti né la partecipazione ad essa di alcun rappresentante delle Regioni, né momenti di raccordo tra l'attività della Commissione e le amministrazioni regionali, essendo, anzi, prevista la comunicazione dei risultati della Commissione solo al Ministro per le politiche agricole e all'AIMA e non anche alle Regioni, con conseguente violazione del principio di leale cooperazione e di efficienza dell'amministrazione del settore.
9.1.2.— La questione non è fondata.
La previsione contenuta nella disposizione di cui all'art. 4-bis risponde, sul piano del riparto delle competenze legislative ed amministrative, alla necessità di garantire l'interesse unitario all'accertamento tempestivo sull'intero territorio nazionale della effettiva quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi presi in considerazione, con conseguente eventuale aggiornamento dei quantitativi di riferimento individuali spettanti ai singoli produttori, ciò al fine di assicurare la corretta esecuzione del regime comunitario delle quote latte.
Né sussiste la necessità di un coinvolgimento delle Regioni nei termini prospettati dalla ricorrente: da un lato, la composizione della Commissione risponde ad evidenti ragioni di “terzietà” che stanno poi alla base della scelta, come componenti del predetto organismo collegiale, anche di soggetti già facenti parti della Commissione governativa d'indagine in materia di quote latte (istituita ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge n. 11 del 1997); dall'altro, la tipologia delle attività attribuite alla Commissione esclude che possano sussistere interferenze con competenze regionali inerenti allo specifico territorio di riferimento.
9.2.— La Regione Lombardia (ric. n. 4 del 1998) dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 411 del 1997, che, in particolare, ha istituito una Commissione ministeriale per l'esame dei contratti di circolazione delle quote latte.
Detta norma:
– dispone che i contratti di circolazione delle quote latte di cui al comma 1, lettera d), debbano essere fatti pervenire all'AIMA entro 15 giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge, prevedendo, in caso di ritardato od omesso invio, che le Regioni competenti possano procedere alla revoca del riconoscimento di cui all'art. 23 del d.P.R. 23 dicembre 1993, n. 569 (Regolamento di esecuzione della legge 26 novembre 1992, n. 468, concernente misure urgenti nel settore lattiero-caseario);
– prevede l'istituzione, con decreto del Ministro per le politiche agricole, di un'apposita Commissione, composta da cinque membri, per l'esame dei suddetti contratti e di quelli risultanti dalla relazione della Commissione governativa di indagine;
– dispone che i quantitativi di latte commercializzati mediante i suddetti contratti siano imputati, a tutti gli effetti, al produttore proprietario del bestiame qualora ne sia dichiarata, a seguito di tale esame, la natura fittizia o comunque illecita;
– stabilisce che i risultati dell'esame della Commissione debbano essere comunicati all'AIMA entro il termine perentorio di trenta giorni dalla scadenza del termine precedentemente indicato.
9.2.1.— La ricorrente deduce che la norma impugnata violerebbe gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto la disciplina così introdotta sarebbe, in primo luogo, retroattiva, ma anche qualora non lo fosse, essa, prevedendo competenze di accertamento solo in capo all'AIMA e ad una Commissione d'indagine di istituzione ministeriale, andrebbe, comunque, ad incidere illegittimamente sulle prerogative delle Regioni. Queste ultime, infatti, sarebbero spogliate di qualsivoglia potere di accertamento in ordine ai contratti in oggetto. In tal modo, l'interferenza con l'attività programmatoria regionale determinerebbe ancora una volta uno sconvolgimento retroattivo di rapporti di diritto privato, suscettibile di serie conseguenze sulla produzione del latte.
Ciò, in particolare, in quanto:
– viene negato ogni ruolo delle Regioni, in una materia di loro competenza, ad eccezione di quello relativo all'applicazione della revoca del beneficio a seguito dell'accertamento effettuato dall'AIMA, alla quale soltanto devono essere trasmessi i contratti;
– vengono, in particolare, soppresse le competenze attribuite alle Regioni dall'art. 8 della legge n. 468 del 1992 in ordine all'accertamento e ai controlli sugli acquirenti;
– si introducono retroattivamente, per le annate 1995-1996 e 1996-1997, previsioni di carattere sanzionatorio nei riguardi dei contratti di circolazione delle quote latte di durata inferiore a sei mesi, in contrasto con le norme del codice civile che non prevedono alcuna presunzione di illiceità dei contratti di breve durata;
– si istituisce una Commissione della quale non fanno parte rappresentanti delle Regioni, pur dovendo essa effettuare l'esame dei contratti di cessione delle quote latte e quindi esercitare funzioni in materia di competenza regionale.
9.2.2.— La Regione ricorrente (ric. n. 18 del 1998) ha formulato poi ulteriori censure nei confronti del citato art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 411 del 1997, nel testo modificato dalla legge di conversione (legge n. 5 del 1998); in particolare, ha impugnato la disposizione con la quale il legislatore statale ha stabilito che la Commissione ministeriale possa esaminare i contratti pervenuti prima della loro comunicazione: tale norma, secondo la ricorrente, sarebbe di oscura formulazione e quindi lesiva del canone di ragionevolezza della normazione e del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in una materia di sicura competenza regionale.
9.3.— La questione non è fondata.
Deve, infatti, ribadirsi la sussistenza della competenza statale anche in relazione agli accertamenti che investono i contratti di circolazione delle quote latte, in considerazione della presenza di un interesse nazionale sotteso a verifiche, necessariamente unitarie, che attengono, per fini di attuazione della normativa comunitaria, ad istituti che incidono sulle dinamiche della produzione lattiero-casearia. Tale interesse giustifica, altresì, la previsione di controlli a posteriori, volti a garantire che la produzione lattiera non superi, in ossequio ai limiti posti a livello comunitario, il quantitativo globale garantito (cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VI, 25 marzo 2004, già in precedenza richiamata).
In relazione poi alla lamentata violazione del principio di leale collaborazione, valgono le considerazioni poc'anzi esposte con riferimento alla Commissione di garanzia di cui all'art. 4-bis dello stesso decreto-legge n. 411 del 1997.
Né è fondata l'ulteriore censura formulata nei confronti della norma introdotta dalla legge di conversione secondo cui la «Commissione può comunque esaminare i contratti pervenuti alla stessa» prima della comunicazione all'AIMA. La norma, infatti, presenta – a prescindere dalla sua idoneità ad incidere in maniera diretta o indiretta sulle competenze delle Regioni – un contenuto comunque non lesivo, in quanto non attribuisce ulteriori poteri decisionali o valutativi alla predetta Commissione.
10.— Alcune censure riguardano la disciplina della ripartizione delle quote latte confluite nella riserva nazionale.
Va in proposito osservato come la normativa comunitaria abbia autorizzato gli Stati membri ad alimentare una riserva nazionale, nella quale far confluire «tutti i quantitativi che, indipendentemente dai motivi, non hanno o non hanno più una destinazione individuale», e ciò al fine di consentire agli Stati stessi di poterne disporre per far fronte a situazioni particolari «determinate da criteri obiettivi» (tredicesimo “considerando” e art. 5 del reg. CEE 28 dicembre 1992, n. 3950/92; art. 6 del reg. CEE 9 marzo 1993, n. 536/93, recante “Regolamento della Commissione che stabilisce le modalità di applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari”).
10.1.— In particolare, la Regione Lombardia ha impugnato l'art. 1, commi 21 e 21-bis, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999.
Il citato comma 21 dispone che, a decorrere dal periodo 1999-2000, le quote resesi disponibili a seguito, tra l'altro, dell'attuazione del decreto-legge n. 411 del 1997 affluiscono alla riserva nazionale e sono ripartite tra le Regioni e le Province autonome, ai fini della assegnazione ai produttori titolari di quota, in misura proporzionale ai quantitativi individuali di riferimento allocati presso ciascuna Regione o Provincia autonoma, accertati per i periodi 1995-1996 e 1996-1997 (nella originaria formulazione, il decreto-legge, oggetto di specifica censura, stabiliva che la ripartizione dovesse avvenire in relazione alla media regionale commercializzata accertata per i medesimi periodi), per essere assegnate secondo criteri oggettivi di priorità deliberati dalle stesse, tenendo prioritariamente conto delle riduzioni effettuate ai sensi del decreto-legge 23 dicembre 1994, n. 727 (Norme per l'avvio degli interventi programmati in agricoltura e per il rientro della produzione lattiera nella quota comunitaria).
Il comma 21-bis, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 118 del 1999, stabilisce che in nessun caso possono beneficiare della riassegnazione i produttori che, nel corso dei periodi 1997-1998 e 1998-1999, abbiano venduto ovvero affittato, in tutto o in parte, le quote di cui erano titolari.
10.1.1.— La Regione ricorrente ritiene (ric. n. 14 del 1999) che il comma 21 dell'art. 1 sia costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
– irragionevolmente non terrebbe conto della situazione delle Regioni che, nei periodi 1995-1996 e 1996-1997, sono state maggiormente interessate dalla riduzione delle quote;
– pur rimettendo la determinazione dei criteri di ripartizione alle Regioni e alle Province autonome, individuerebbe comunque, in contrasto con quanto affermato nella sentenza n. 398 del 1998 di questa Corte, un criterio di priorità, così limitando i poteri programmatori spettanti, in materia, alle Regioni.
La stessa Regione, con successivo ricorso (n. 18 del 1999), ha ribadito le censure rivolte nei confronti del comma 21, asserendo che le innovazioni introdotte dalla legge di conversione avrebbero “aggravato” la lesione delle prerogative regionali, sostituendo al criterio della produzione media, ai fini del riparto, quello delle quote individuali allocate presso le Regioni.
Il comma 21-bis dello stesso art. 1 sarebbe, sempre secondo la ricorrente, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto, in contrasto con il principio secondo cui spetterebbe alle Regioni e Province autonome la determinazione dei criteri di priorità, escluderebbe una intera categoria di produttori, con conseguente limitazione dei poteri di programmazione attribuiti alle Regioni in materia.
10.2.— Le questioni non sono fondate.
Le disposizioni in esame, nel prevedere la riassegnazione ai produttori delle quote resesi disponibili, demandano alle Regioni di stabilire, in generale, quali debbano essere i criteri di priorità. Nell'effettuare tale scelta, il legislatore statale ha inteso comunque imporre il rispetto di taluni criteri obiettivi (cfr. normativa comunitaria richiamata ai punti da 2 a 2.1.4.), volti a garantire sull'intero territorio nazionale un trattamento uniforme tra tutti i produttori lattierio-caseari che abbiano subìto una riduzione della quota di riferimento individuale in attuazione di obblighi comunitari secondo le modalità stabilite dal decreto-legge n. 727 del 1994. A ciò si aggiunga che, pur dopo l'abrogazione della norma in esame, l'art. 3, comma 4, lettera a) del decreto-legge n. 49 del 2003, non oggetto di impugnazione, ha reintrodotto un analogo criterio di priorità che richiama, in parte, quanto statuito dal citato decreto-legge n. 727 del 1994. L'esigenza di garantire l'interesse unitario all'assegnazione di quote a soggetti che dimostrano un interesse verificabile all'attività di produzione lattiero-casearia è alla base anche della scelta oggettiva di escludere dall'assegnazione di quote i produttori che in precedenza hanno venduto, ovvero affittato, in tutto o in parte, la quota di propria spettanza (art. 21, comma 1-bis). Né può ritenersi che fosse necessario, sotto questo specifico profilo, un coinvolgimento delle Regioni: si tratta, infatti, di previsione e attuazione di criteri non discrezionali che prescindono dalla necessità di valutare eventuali interessi afferenti a specifici ambiti territoriali.
11.— La Regione ricorrente censura l'art. 8, commi 1 e 3, del decreto-legge n. 11 del 1997 (ric. n. 25 del 1997), nonché l'art. 1, commi 36-44, del medesimo decreto-legge, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 81 del 1997 (ric. n. 36 del 1997), relativi all'istituzione dell' “anagrafe del bestiame”.
Il comma 1 dell'art. 8 stabilisce che, al fine di rendere disponibili in modo aggiornato e continuo i dati reali derivanti dall'applicazione del d.P.R. 30 aprile 1996, n. 317 (Regolamento recante norme per l'attuazione della direttiva 92/102/CEE relativa all'identificazione e alla registrazione degli animali), il Ministero della sanità realizza un sistema informativo nazionale basato su un'unica banca dati.
Il comma 3 prevede che il Ministero delle risorse agricole alimentari e forestali e l'AIMA debbano essere interconnessi, attraverso i propri sistemi informativi, a tale banca dati, mentre le altre amministrazioni dello Stato e gli altri soggetti interessati possono accedere ad essa secondo modalità da stabilirsi con decreto interministeriale.
11.1.— Secondo la ricorrente, le predette disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, per violazione degli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, anche in riferimento al principio di leale collaborazione e all'art. 12 della legge 23 agosto 1998, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), nonchè agli artt. 66 e segg. del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382). Ciò in quanto non sarebbe, innanzitutto, prevista alcuna consultazione delle Regioni in vista dell'adozione del decreto ministeriale che deve determinare le modalità di accesso ad un archivio elettronico di sicuro interesse regionale. In secondo luogo – nonostante la norma in esame disciplini un settore di competenza regionale incidendo sulla materia della zootecnia in generale e della produzione lattiero-casearia in particolare – l'accesso alle banche dati sarebbe riservato ad un ente statale e «graziosamente» concesso alle Regioni mediante un successivo decreto ministeriale. Da qui, altresì, l'asserito contrasto: a) con l'art. 3 Cost. per irragionevolezza e incoerenza della norma; b) con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.); c) con il principio secondo il quale l'iniziativa privata può essere guidata e controllata solo per perseguire finalità sociali (art. 41 Cost.); d) con l'art. 11 Cost. «atteso che efficienza e coerenza delle scelte del governo della produzione lattiero-casearia sono valori propri dell'ordinamento comunitario, che lo Stato italiano è tenuto a salvaguardare». A seguito dell'emanazione della legge di conversione le predette norme sono state inserite nelle disposizioni di cui ai commi 36, 37 e 39 dell'art. 1 dello stesso decreto-legge.
11.2.— In via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell'art. 1, commi 38, 40, 41, 42, 43 e 44 del decreto-legge, nel testo risultante a seguito della legge di conversione, dal momento che nel ricorso non vengono addotti specifici motivi di illegittimità, né avendo le suddette disposizioni formato oggetto di censura nelle impugnative concernenti le “corrispondenti” disposizioni del decreto-legge. A ciò si aggiunga che l'art. 1, comma 38, si riferisce alla Provincia autonoma di Bolzano e alla Regione Valle d'Aosta, già dotate di anagrafe del bestiame, mentre l'art. 1, comma 42, contiene una disposizione non ricompresa nel testo originario del decreto-legge.
11.3.— In relazione, invece, alle sole censure riconducibili al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, che hanno investito l'art. 8, commi 1 e 3, del testo originario del decreto-legge, deve dichiararsi la intervenuta cessazione della materia del contendere, atteso che l'art. 1, comma 39, del decreto-legge, nel testo risultante dalla legge di conversione, ha stabilito che, ai fini dell'espletamento delle funzioni di rispettiva competenza, non soltanto il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, ma anche le Regioni e le Province autonome sono interconnesse attraverso i propri sistemi informativi alla banca dati di cui al comma 36 dello stesso art. 1. Questa modifica – in mancanza di una attuazione medio tempore della norma contenuta nel decreto-legge – deve ritenersi satisfattiva delle pretese formulate dalla ricorrente (sentenza n. 196 e ordinanza n. 137 del 2004). Conseguentemente non sono fondate le censure rivolte nei confronti dell'art. 1, commi 36, 37 e 39, del decreto-legge n. 11 del 1997, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 81 del 1997.
12.— Alcune delle questioni proposte attengono all'attribuzione di funzioni amministrative, ritenute di spettanza regionale, all'AIMA.
In ragione della complessità delle censure, è opportuno procedere all'analisi separata delle relative norme sospettate di illegittimità costituzionale.
12.1.— Vengono in primo luogo in rilievo le disposizioni generali di conferimento delle funzioni all'AIMA.
L'art. 01, comma 1, del decreto-legge n. 11 del 1997, introdotto dalla legge di conversione n. 81 del 1997, prevede che, a decorrere dal periodo di applicazione 1997-1998, le funzioni amministrative relative all'attuazione della normativa comunitaria in materia di quote latte e di prelievo supplementare siano svolte dalle Regioni e dalle Province autonome, fatti salvi, in attesa della riforma organica del settore, i compiti dell'AIMA in materia di aggiornamento del bollettino 1997-1998, di riserva nazionale, di compensazione nazionale e di programmi volontari di abbandono.
12.1.1.— Ad avviso della ricorrente (ric. n. 36 del 1997) la riportata disposizione solo formalmente riconosce le attribuzioni regionali in materia, mentre, in realtà, fa salve le prerogative dell'AIMA, riservando alle Regioni compiti non decisionali ma meramente burocratici ed impedendo loro l'efficiente governo del settore. Da qui la violazione: a) dell'art. 97 Cost. (unitamente agli artt. 5, 115, 117 e 118); b) dell'art. 41 Cost., atteso che verrebbe preclusa la possibilità che l'iniziativa privata sia realmente indirizzata a fini sociali; c) dell'art. 11 Cost. (unitamente agli artt. 5, 117 e 118), in quanto verrebbe stravolto l'assetto delle competenze con impedimento ad attuare gli impegni comunitari.
12.1.2.— La questione non è fondata.
La norma in esame, dal punto di vista costituzionale, rinviene un idoneo presupposto giustificativo nella necessità di garantire, per esigenze unitarie, una attuazione uniforme e puntuale della normativa comunitaria nell'intero territorio nazionale in settori nevralgici per il corretto funzionamento del complessivo regime delle quote latte. La scelta del legislatore appare non irragionevole e strettamente proporzionata allo scopo perseguito, alla luce, in particolare, della natura dichiaratamente provvisoria della norma in esame: quest'ultima precisa, infatti, che le funzioni amministrative sono attribuite all'AIMA in attesa della riforma organica del settore, che è poi intervenuta con il decreto-legge n. 49 del 2003, convertito nella legge n. 119 del 2003, il cui art. 10, comma 47, lettera i), come già sottolineato, ha disposto l'abrogazione, tra le altre, della norma impugnata.
12.2.— Un ulteriore sottogruppo di censure riguarda le disposizioni relative alle funzioni attribuite all'AIMA di accertamento, aggiornamento e relativa pubblicazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto.
12.2.1.— L'art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997, dispone che l'AIMA, sulla base della relazione della Commissione governativa d'indagine, delle risultanze della rilevazione straordinaria dei capi bovini effettuata ai sensi dell'art. 6 del decreto-legge n. 130 del 1997, delle dichiarazioni di contestazione di cui al decreto ministeriale 15 maggio 1997, dei controlli effettuati e già comunicati dalle Regioni e dalle Province autonome, degli altri elementi in suo possesso e dell'attività del comitato di coordinamento delle iniziative in materia di gestione delle quote latte, di cui al decreto del Ministro per le politiche agricole 16 settembre 1997, nonché dei modelli L1 pervenuti entro la data di entrata in vigore del decreto-legge n. 411, debba determinare gli effettivi quantitativi di latte prodotto (il riferimento al latte prodotto è stato aggiunto dalla legge di conversione) e commercializzato. La norma prevede che tale attività debba essere effettuata con riguardo a casi specificamente indicati, e, in particolare, ai modelli L1 con quantità di latte commercializzato non compatibile con la consistenza di stalla accertata in base alla rilevazione straordinaria, tenuto conto della media provinciale per capo, qualora la produzione dichiarata superi tale media del venti per cento (lettera c), nonché al caso dei contratti di circolazione delle quote latte, rientranti nelle tipologie individuate come anomale dalla Commissione governativa di indagine (disposizione quest'ultima introdotta in sede di conversione), quali le soccide, i comodati di stalla, gli affitti di azienda di durata inferiore ai sei mesi (lettera d).
12.2.1.1.— Secondo la ricorrente (ric. n. 4 del 1998) la disposizione di cui all'art. 2, comma 1, lettera d) del testo originario del decreto-legge n. 411 del 1997 sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione. Nel ricorso n. 18 del 1998 vengono ulteriormente approfondite e specificate le censure, estendendole anche alla lettera c) del comma 1, del predetto art. 2.
Si ipotizza la violazione degli evocati parametri costituzionali (e con essi anche dell'art. 41 Cost.) in quanto:
– alla lettera c), verrebbe determinato in maniera arbitraria e irragionevole l'eccedenza della media provinciale per capo, della quale si deve tenere conto in particolare per la determinazione degli effettivi quantitativi prodotti e commercializzati negli anni 1995-1996 e 1996-1997, nella misura del 20 per cento per qualunque parte del territorio nazionale, e quindi senza tenere conto delle diverse realtà regionali e senza che le Regioni siano state consultate;
– alla lettera d), si attribuirebbe alla valutazione della Commissione governativa di indagine (così rinunciando il legislatore ad esercitare una competenza che gli appartiene e che andrebbe attuata in stretto raccordo con le Regioni), senza predeterminazione di criteri, con effetto retroattivo, e senza alcuna consultazione delle Regioni, la individuazione delle tipologie contrattuali di circolazione delle quote latte da considerarsi anomale ai fini della determinazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato.
12.2.1.2.— Le questioni non sono fondate.
Le funzioni attribuite all'AIMA dalle disposizioni in esame si giustificano in quanto connesse alla necessaria determinazione dell'effettivo quantitativo di produzione lattiera all'esito delle attività accertative indicate dalla norma stessa e imposte dalle esigenze di celere attuazione degli obblighi comunitari. In particolare, risponde ad ineludibili esigenze unitarie la rideterminazione delle quote a seguito della verificata non compatibilità tra la quantità di latte commercializzato e la consistenza di stalla accertata (art. 2, comma 1, lettera c). Né appare necessaria l'attivazione di procedure di concertazione con le Regioni: la norma in esame – stabilendo che occorre tenere conto della media provinciale per capo elaborata dall'Associazione italiana allevatori, con un margine ragionevole di tollerabilità del 20 per cento – non prevede una generalizzata rideterminazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto, bensì garantisce, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, una adeguata considerazione delle specificità territoriali.
Allo stesso modo risulta non lesiva di attribuzioni regionali la previsione di cui alla lettera d): la norma, infatti, incide indirettamente su istituti di diritto privato la cui regolamentazione spetta al legislatore statale in considerazione della necessità di garantire un trattamento uniforme sull'intero territorio nazionale. La insussistenza di implicazioni connesse alle specificità delle singole realtà regionali rende, altresì, costituzionalmente non necessario il coinvolgimento delle Regioni mediante strumenti di concertazione.
L'attribuzione, poi, alla Commissione d'indagine del compito di individuare, anche in riferimento a periodi trascorsi (cfr. Corte di giustizia europea, sez. VI, 25 marzo 2004, già citata), le tipologie contrattuali da considerare anomale – a prescindere dall'incidenza diretta o indiretta su poteri regionali – è strettamente funzionale all'espletamento dei compiti di accertamento delle modalità di gestione delle quote, nonché delle irregolarità verificatesi nella commercializzazione, al fine di imputare agli allevatori la determinazione dei quantitativi effettivamente prodotti (cfr. relazione della Commissione di garanzia quote latte del 4 febbraio 1999, depositata all'esito dell'ordinanza istruttoria di questa Corte del 15 dicembre 1999).
12.3.— L'art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 411 del 1997, come convertito dalla legge n. 5 del 1998, dispone che l'AIMA debba aggiornare i quantitativi di riferimento dei singoli produttori per i periodi 1995-1996, 1996-1997 e 1997-1998, sulla base di alcuni criteri, tra i quali (lettera c del predetto comma 3) quello dei trasferimenti di quote e dei cambi di titolarità conformi alla normativa vigente, per i suddetti periodi, comunicati dalle Regioni e dalle Province autonome e pervenuti all'AIMA entro il 15 novembre 1997, tenendo conto (inciso aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998) che i quantitativi trasferiti mediante contratti di sola quota con validità per i periodi 1997-1998 e successivi non sono assoggettati ad alcuna riduzione percentuale. L'art. 2, comma 4, stabilisce la perentorietà dei termini indicati nel comma 3.
12.3.1.— Nel ricorso n. 4 del 1998, con cui la ricorrente ha impugnato il decreto-legge n. 411 del 1997, si assume che il predetto art. 2, comma 3, lettera c), violerebbe gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
a) contrasterebbe con l'attribuzione delle funzioni amministrative in materia di quote latte alle Regioni a far data dalla stagione 1997-1998, disposta dall'art. 01 del decreto-legge n. 11 del 1997, assegnando all'AIMA anche per il periodo 1997-1998 funzioni ormai trasferite;
b) avrebbe efficacia retroattiva, pretendendo di disciplinare l'aggiornamento dei dati anche per la stagione 1997-1998 (e cioè per un periodo che, al momento della entrata in vigore del decreto-legge n. 411 del 1997, era quasi ultimato), ed introducendo, altresì, un onere di deposito dei contratti entro una data, il 15 novembre 1997 (da ritenersi rispettata solo se in tale termine i contratti vengono ricevuti dall'AIMA, essendo insufficiente che ne sia avvenuta la spedizione), non prevista dalla legislazione precedente, la quale consentiva invece di comunicarli alla Regione nei quindici giorni successivi alla conclusione della stagione stessa, determinando così anche una discriminazione tra contratti fatti pervenire o non fatti pervenire entro un termine arbitrariamente fissato e per l'innanzi sconosciuto.
è dedotta, altresì, l'illegittimità dell'art. 2, comma 4.
Nel ricorso n. 18 del 1998, con cui la stessa Regione ha impugnato la legge di conversione n. 5 del 1998, sono state ribadite le censure già formulate nei confronti del decreto-legge ed è stata censurata la previsione contenuta nell'art. 2, comma 3, lett. c) – con cui si è specificato che i quantitativi trasferiti con contratti di sola quota non subiscono alcuna riduzione – introdotta dalla predetta legge.
12.3.2.— La Regione ricorrente ha impugnato anche l'art. 4, commi 1, 2, 3, e 4 e l'art. 5, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997 (ric. n. 4 del 1998), nonché le stesse disposizioni nel testo risultante dalla legge di conversione n. 5 del 1998 (ric. n. 18 del 1998).
In particolare, il comma 1 dell'art. 4 dispone che, per il periodo 1997-1998, l'AIMA procede all'aggiornamento degli elenchi dei produttori titolari di quota e dei quantitativi ad essi spettanti con la comunicazione di cui all'art. 2, comma 5, dello stesso decreto; stabilisce che tali aggiornamenti sostituiscono ad ogni effetto i bollettini pubblicati precedentemente; che di essi viene data comunicazione individuale, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento a tutti i produttori interessati e comunicazione alle Regioni e alle Province autonome; che ai fini delle trattenute per il periodo suddetto e del versamento del prelievo supplementare eventualmente dovuto, gli acquirenti sono tenuti a considerare esclusivamente le quote individuali risultanti dai suddetti atti e che all'esito della decisione dei ricorsi di riesame l'AIMA proceda all'aggiornamento definitivo degli elenchi.
Il comma 2 dell'art. 4 disciplina, sempre per il periodo 1997-1998, gli adempimenti ai quali sono tenuti gli acquirenti, stabilendo che le dichiarazioni che questi hanno l'obbligo di trasmettere ed i modelli L1 controfirmati dai produttori devono essere redatti in conformità dei modelli approvati con decreto del Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali. Esso precisa, inoltre, che tale documentazione è inviata su supporto magnetico e cartaceo, secondo standards definiti in sede ministeriale, ed infine prevede – secondo quanto stabilito in sede di conversione in legge del predetto decreto n. 411 del 1997 – che, se il produttore non controfirma il modello L1, l'AIMA effettua gli opportuni accertamenti, all'esito dei quali, se la mancata sottoscrizione risulta ingiustificata, al produttore si applica una sanzione amministrativa.
I commi 3 e 4 dettano disposizioni in ordine ai quantitativi di latte consegnati ad acquirenti non riconosciuti e che risultino da modelli pervenuti all'AIMA oltre il termine del 15 maggio 1997.
L'art. 5, comma 1, dispone che per il periodo 1998-1999, in attesa della riforma del settore lattiero-caseario, in deroga a quanto previsto dall'art. 01 del decreto-legge n. 11 del 1997, come convertito nella legge n. 81 del 1997, l'AIMA provveda all'aggiornamento degli elenchi dei produttori titolari di quota e dei quantitativi ad essi spettanti, trasmettendoli alle Regioni e Province autonome e dandone comunicazione all'interessato, mediante raccomandata con avviso di ricevimento (modalità, quest'ultima, introdotta in sede di conversione), entro il termine di cui all'art. 3, comma 1 (trenta giorni dalla scadenza del termine imposto alle Regioni e alle Province autonome per la decisione dei ricorsi di riesame).
12.3.2.1.— Nel ricorso n. 4 del 1998 la Regione ricorrente assume che le disposizioni riportate e, in particolare, i commi 1 e 2 dell'art. 4, nonché l'art. 5, comma 1, violerebbero gli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, anche in riferimento alla legge n. 81 del 1997, alla legge n. 204 del 1997, al d.lgs. n. 143 del 1997 e alla relativa legge di delega n. 59 del 1997, in quanto – in contrasto con quanto disposto dalle leggi ora citate, e in particolare dall'art. 01 del decreto-legge n. 11 del 1997, introdotto dalla relativa legge di conversione, che circoscrive i compiti dell'AIMA ad adempimenti relativi ad annate precedenti – le disposizioni in questione attribuiscono a quest'ultima funzioni ormai trasferite alle Regioni – privando le medesime del potere di intervento nel governo del settore – e introducono norme con efficacia retroattiva. L'art. 5 sarebbe, invece, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, in quanto alle Regioni sarebbe affidato un compito meramente esecutivo di cui non sarebbe dato intravedere il contenuto reale.
Nel ricorso n. 18 del 1998, la Regione censura, in particolare, i nuovi artt. 4, comma 2, ultimi periodi e 5, comma 1 per contrasto con gli art. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto essi «confermano l'AIMA nel suo ruolo di gestione delle procedure di settore, aggirando l'istanza regionale, nonostante la chiara titolarità di competenze a garanzia costituzionale e gravando sugli interessi dei produttori, oltre che sulla capacità programmatoria regionale, a suggello del meccanismo di prelievo che viene qui completato e “perfezionato”».
12.3.2.2.— In via preliminare devono essere dichiarate inammissibili le censure relative ai commi 3 e 4 dell'art. 4. La ricorrente chiede, infatti, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'intero art. 4, ma non argomenta in ordine alle ragioni che dovrebbero condurre ad una pronuncia di incostituzionalità anche delle disposizioni contenute nei commi 3 e 4, incentrando le censure esclusivamente sulle disposizioni di cui ai precedenti commi 1 e 2.
12.3.2.3.— Nel merito le ulteriori questioni non sono fondate.
Gli artt. 2, 4 e 5, nelle parti impugnate ora all'esame della Corte, disciplinano le funzioni attribuite all'AIMA di accertamento e aggiornamento degli effettivi quantitativi di riferimento dei singoli produttori, che poi sono comunicati mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno ai produttori medesimi. La ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, assumendo che l'art. 01 del decreto-legge n. 11 del 1997 non attribuirebbe anche tale funzione all'AIMA per il periodo 1997-1998. Invero, quest'ultima disposizione, assegnando all'AIMA in via transitoria la funzione amministrativa di aggiornamento del bollettino 1997-1998 presuppone anche l'attribuzione della funzione di accertamento dei quantitativi di riferimento dei singoli produttori, ai fini, appunto, della successiva pubblicazione dei risultati tramite bollettino. La circostanza che il decreto-legge n. 411 del 1997 abbia modificato le modalità di pubblicità dei risultati dell'attività svolta dall'AIMA non incide, tuttavia, sul complessivo sistema che riconosce ad un ente statale, con disposizione esente da profili di incostituzionalità per le ragioni già esposte, la funzione di determinazione e aggiornamento dei quantitativi individuali di riferimento. Né vale assumere la illegittimità delle disposizioni in esame per avere le stesse, per taluni profili, disciplinato un periodo che al momento della entrata in vigore del decreto-legge n. 411 del 1997 era quasi ultimato. A prescindere dalla effettiva natura retroattiva delle disposizioni in esame, il rilievo è destituito di fondamento: la disciplina delle funzioni di accertamento e aggiornamento dei dati, anche in relazione a campagne lattiere già concluse, è conseguenza diretta di controlli successivi effettuati dagli organi statali preposti al settore che sono, a loro volta, funzionali ad una efficace operatività del prelievo supplementare sul latte, nonché in generale ad una applicazione corretta della normativa comunitaria sull'intero territorio nazionale (cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VI, 25 marzo 2004, già menzionata).
Si deve, altresì, rilevare che il comma 2 dell'art. 4 – stabilendo le modalità procedurali attraverso le quali gli acquirenti devono trasmettere le proprie dichiarazioni relative al latte che è stato loro consegnato dai produttori – costituisce attuazione di quanto prescritto dall'art. 3, paragrafo 2, del reg. CEE n. 536/1993 della Commissione datato 9 marzo 1993: non potendo tale attuazione essere ritardata in considerazione del fatto che l'attività dell'acquirente e il controllo sulla stessa è essenziale per garantire il corretto funzionamento sull'intero territorio nazionale del complessivo meccanismo che presiede al regime delle quote latte, si giustifica, sul piano costituzionale, la disciplina di dettaglio prescritta dal legislatore statale.
Va rilevato, altresì, con riferimento all'art. 5, comma 1, come il legislatore statale potesse, nell'esercizio non irragionevole della propria discrezionalità, attribuire all'AIMA funzioni amministrative in via dichiaratamente provvisoria, per esigenze unitarie connesse al corretto avvio della campagna 1998-1999, anche in relazione a tale ultimo periodo.
13.— Prima di esaminare le censure relative alla compensazione, occorre rilevare come la normativa comunitaria consenta a ciascuno Stato membro, nella fase di verifica della produzione nel periodo considerato, di compensare i quantitativi di latte assegnati e non utilizzati da taluni produttori per ridurre o eliminare le sanzioni a carico dei produttori che, al contrario, hanno prodotto latte in misura eccedente la quota agli stessi concessa.
13.1.— La ricorrente censura l'art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998. Esso dispone che, anche ai fini dell'attuazione dell'art. 1, comma 35, del decreto-legge n. 11 del 1997 (il quale prevede che l'AIMA debba tenere conto delle specifiche risultanze della relazione della Commissione governativa di indagine), la predetta Azienda, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 8 dell'art. 2 (termine previsto per la decisione sui ricorsi di riesame da parte delle Regioni e delle Province autonome), effettui la rettifica della compensazione nazionale per il periodo 1995-1996 e la compensazione nazionale per il periodo 1996-1997, sulla base dei modelli L1 pervenuti entro la data di entrata in vigore del decreto-legge n. 411 del 1997, nonché degli accertamenti compiuti e della decisione dei ricorsi di riesame di cui all'art. 2. La disposizione de qua, inoltre, a seguito delle modifiche apportate in sede di conversione, stabilisce che per il solo periodo 1995-1996, nella esecuzione della rettifica, si proceda al raffronto tra i dati della compensazione nazionale, eseguita ai sensi dell'art. 3 del decreto-legge n. 552 del 1996, e quelli derivanti dalla applicazione, da parte dell'AIMA stessa, delle regole della compensazione precedentemente in vigore (compensazione per APL), determinati sulla base dei risultati degli accertamenti di cui all'art. 2 dello stesso decreto-legge, con applicazione, in via perequativa, dell'importo del prelievo supplementare che risulta meno oneroso per il produttore. La disposizione in esame prevede, altresì, che la rettifica della compensazione nazionale per il periodo 1995-1996 sostituisca a tutti gli effetti le imputazioni di prelievo supplementare operate precedentemente per lo stesso periodo (comma 1); stabilisce, infine, che a seguito della verifica in tal modo effettuata, il Governo comunichi all'Unione europea l'esatta produzione delle annate 1995-1996 e 1996-1997 per la rettifica dei prelievi dovuti (comma 1-bis).
13.2.— La Regione ricorrente (ric. n. 4 del 1998) ritiene che detta norma – nella sua formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge di conversione – sia costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione in quanto:
– inciderebbe retroattivamente sulla disciplina della compensazione di campagne già concluse, in contrasto con il principio sancito dalla normativa comunitaria che prevede una periodizzazione delle campagne di produzione lattiera;
– l'avvenuta soppressione del livello provinciale di compensazione non sostituito da alcuna istanza regionale, non solo opererebbe l'ennesimo by-pass del governo regionale, ma recherebbe ancor «più grave pregiudizio agli interessi degli agricoltori della Regione ricorrente», atteso che «più si innalza (...) il livello di compensazione, meno è probabile che le eccedenze locali possano trovare aggiustamento e compensazione senza danno per la produzione complessiva a livello provinciale e regionale».
Con il successivo ricorso n. 18 del 1998 la ricorrente ha, altresì, censurato l'art. 3, commi 1 e 1-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, rispettivamente, come modificato e come introdotto dalla legge di conversione n. 5 del 1998. Il comma 1, nel testo integrato dalla legge di conversione, stabilisce che per il solo periodo 1995-1996, nella esecuzione della rettifica, si proceda al raffronto tra i dati della compensazione nazionale eseguita ai sensi dell'art. 3 del decreto-legge n. 552 del 1996 e quelli derivanti dalla applicazione, da parte dell'AIMA stessa, delle regole della compensazione precedentemente in vigore (compensazione per APL).
Le disposizioni in questione si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto la Regione sarebbe estromessa dal procedimento e non potrebbe prevedere in alcun modo l'esito delle operazioni da compiersi da parte dell'AIMA, con ovvi effetti negativi sulla sua capacità programmatoria di settore.
13.2.1.— La questione non è fondata.
L'avvenuta soppressione della compensazione per APL non viola i parametri costituzionali evocati dalla ricorrente.
Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di affermare la legittimità della scelta compiuta dal legislatore statale di introdurre il sistema della compensazione nazionale, in ragione della necessità di adeguare la normativa italiana alle determinazioni comunitarie (sentenza n. 398 del 1998, punto 11 del Considerato in diritto), e di prevedere un meccanismo operativo che, per la infrazionabilità dell'interesse allo stesso sotteso, operi necessariamente sull'intero territorio nazionale (cfr. sentenza n. 424 del 1999).
La previsione poi introdotta dalla legge di conversione della possibilità attribuita all'AIMA di valutare comparativamente i risultati della compensazione nazionale e per APL non è lesiva delle attribuzioni della Regione ricorrente. Questa Corte ha, al riguardo, già sottolineato, in relazione a censure che investivano il sistema di compensazione nazionale, che la suddetta regolamentazione per il periodo 1995-1996 doveva comunque ritenersi satisfattiva delle pretese regionali in quanto prevede, all'esito della comparazione, l'applicazione del metodo nazionale o di quello provinciale a seconda di quale dei due consenta un prelievo supplementare meno oneroso per i produttori (sentenza n. 398 del 1998, punto 9 del Considerato in diritto). Né appare costituzionalmente necessario garantire un coinvolgimento delle Regioni, trattandosi di un procedimento caratterizzato da una disamina obiettiva dei dati acquisiti dall'ente statale – cui non sono attribuiti poteri discrezionali – che consente di raggiungere un risultato oggettivamente verificabile.
Per quanto attiene, invece, alla censura relativa alla retroattività delle rettifiche disposta dalla norma in esame deve ancora una volta ribadirsi che la ricorrente muove da una interpretazione della normativa comunitaria disattesa dalla Corte di giustizia europea (cfr. la più volte citata sentenza del 25 marzo 2004): quest'ultima ha, infatti, affermato che i regolamenti n. 3950/92 e n. 536/93 consentono alle autorità nazionali, successivamente alla campagna lattiera interessata, di effettuare le rettifiche necessarie a far sì «che la produzione esonerata da prelievo supplementare di uno Stato membro non superi il quantitativo globale garantito assegnato a tale Stato».
In ordine, infine, alla doglianza che ha investito il comma 1-bis, introdotto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, la stessa non è fondata, non solo perché nella prospettazione regionale assume una connotazione consequenziale alla declaratoria di incostituzionalità del comma 1, ma anche perché tale disposizione costituisce adempimento dell'obbligo comunitario di comunicare in tempi necessariamente rapidi tutte le modifiche dei dati che possano condurre ad una rettifica dei prelievi dovuti (cfr. art. 8 del reg. CEE 9 marzo 1993, n. 536/93).
13.3.— L'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 118 del 1999, impugnato anch'esso dalla ricorrente, dispone: che le compensazioni nazionali per i periodi di produzione lattiera 1995-1996 e 1996-1997, di cui all'art. 3 del decreto-legge n. 411 del 1997, siano effettuate dall'AIMA, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 43 del 1999, sulla base degli accertamenti inviati e delle decisioni dei ricorsi di riesame fatte pervenire attraverso il sistema informatico; che per il solo periodo 1995-1996, l'AIMA, nell'esecuzione della rettifica di cui all'art. 3 del decreto-legge n. 411 del 1997, non applichi le riduzioni della quota B in ottemperanza alle sentenze concernenti la illegittimità delle stesse riduzioni (previsione, questa, introdotta dalla legge di conversione); che l'esubero complessivo nazionale, sul quale è calcolato il prelievo da ripartirsi tra i produttori, sia costituito dalla differenza tra il quantitativo nazionale garantito e il latte complessivamente prodotto e commercializzato in ciascun periodo; che i risultati delle compensazioni siano comunicati, entro lo stesso termine, agli acquirenti, ai produttori e alle Regioni e Province autonome interessate.
13.3.1.— La ricorrente ritiene (ric. n. 14 del 1999) che tali norme siano costituzionalmente illegittime, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
a) nell'attribuire all'AIMA compiti in relazione alle operazioni di compensazione per gli anni 1995-1996 e 1996-1997, lederebbero le competenze regionali in materia, per di più con efficacia retroattiva, trattandosi di periodi di produzione ormai conclusi da tempo;
b) prevedendo che l'AIMA effettui, anche per il periodo 1995-1996, la compensazione nazionale, sembrerebbero precludere l'applicabilità del meccanismo di cui all'art. 3 del decreto-legge n. 411 del 1997 che, per quella stagione, faceva comunque salva la possibilità di operare la compensazione secondo il meccanismo previgente (quello per APL), ove meno oneroso per i produttori, con conseguente pregiudizio degli interessi di questi ultimi e, ad un tempo, delle competenze programmatorie e di governo attribuite alle Regioni in materia.
Le censure sono state ribadite in sede di impugnazione della legge di conversione (ric. n. 18 del 1999). È stato, altresì, impugnato l'art. 1, comma 1, nel testo risultante all'esito della conversione, per violazione delle medesime disposizioni costituzionali. La ricorrente ritiene che l'illegittimità costituzionale delle norme impugnate sarebbe stata aggravata e che la prevista non applicazione della riduzione della quota B solo nei casi in cui l'illegittimità della riduzione fosse stata accertata con sentenza, si porrebbe in contrasto con quanto in precedenza stabilito dal decreto-legge n. 411 del 1997.
13.3.2.— La questione non è fondata.
Sul punto valgono le considerazione già svolte, sia in ordine ai profili di retroattività, sia in ordine alla legittimità della previsione del sistema di compensazione nazionale, limitandosi le norme in esame a richiamare genericamente il meccanismo previsto dall'art. 3 del decreto-legge n. 411 del 1997 (e quindi, deve ritenersi, anche, la previsione dell'opzione tra sistema nazionale di compensazione e quello per APL), specificando che l'AIMA dovrà provvedere alle rettifiche imposte a seguito degli accertamenti e delle decisioni dei ricorsi di riesame fatti pervenire attraverso il sistema informatico.
13.4.— Secondo la Regione ricorrente (ric. n. 14 del 1999 e ric. n. 18 del 1999) anche l'art. 1, commi 6, 8 e 9, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, nonché il comma 21-ter, introdotto in sede di conversione, sarebbero costituzionalmente illegittimi per violazione degli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
Il comma 6 impone alle Regioni, ai fini dell'applicazione da parte dell'AIMA dei criteri di priorità per la compensazione nazionale determinati dall'art. 8, di comunicare le informazioni relative all'esatta localizzazione delle aziende ubicate in Comuni parzialmente delimitati ai sensi dell'art. 3, paragrafi 3, 4 e 5, della direttiva 75/268/CEE, ma solo con effetto a decorrere dal periodo 1998-1999.
Il comma 8 individua i criteri di priorità in base ai quali deve essere effettuata la compensazione nazionale per i periodi 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998 e 1998-1999: a) in favore dei produttori titolari di quota delle zone di montagna; b) in favore dei produttori titolari di quota A e di quota B nei confronti dei quali sia stata disposta la riduzione della quota B, nei limiti del quantitativo ridotto; c) in favore dei produttori titolari di quota ubicati nelle zone svantaggiate; d) in favore dei produttori titolari esclusivamente della quota A che abbiano superato la propria quota, nei limiti del cinque per cento della quota medesima; e) in favore di tutti gli altri produttori.
Il comma 9 dispone che per i periodi 1997-1998 e 1998-1999 si applica la priorità prevista dall'art. 13, comma 6-bis, del decreto-legge 30 gennaio 1998, n. 6 (Ulteriori interventi in favore delle zone terremotate delle Regioni Marche e Umbria e di altre zone colpite da eventi calamitosi), convertito, con modificazioni, nella legge 30 marzo 1998, n. 61.
Il comma 21-ter stabilisce che, in attesa della riforma del settore, i criteri e l'ordine di priorità stabiliti dal comma 8 si applicano anche per l'effettuazione della compensazione nazionale per il periodo 1999-2000 e che a tale periodo si applicano pure le disposizioni previste dal comma 10.
13.4.1.— La ricorrente ritiene (ric. n. 14 e ric. n. 18 del 1999) che le disposizioni riportate contrastino con quanto affermato nella sentenza n. 398 del 1998 di questa Corte, in quanto determinano i criteri della compensazione senza alcun coinvolgimento delle Regioni. In particolare, si è sottolineato che la previsione di cui al comma 9 introduce un criterio di priorità discriminatorio nei confronti di altre Regioni che pure hanno subìto rilevanti calamità naturali.
Con il ricorso n. 18 del 1999, la ricorrente ha ribadito le censure nei confronti dell'art. 1, comma 8, come modificato in sede di conversione in legge, ed ha, in particolare, sottolineato la illogicità del criterio di cui al citato comma, non avendo i produttori non titolari di quota alcun interesse alle operazioni di compensazione.
Con riferimento al comma 6, la ricorrente assume che lo stesso violerebbe le prerogative regionali non solo in materia di agricoltura, ma anche di governo del territorio.
Con riferimento, infine, al comma 21-ter, vengono ribadite le censure già formulate nei confronti del comma 8.
13.4.2.— La questione non è fondata.
Il comma 8 dell'art. 1 del decreto-legge n. 43 del 1999 ha sostanzialmente reintrodotto il contenuto delle disposizioni di cui al comma 168 dell'art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). Nell'esaminare la legittimità costituzionale di quest'ultima norma, questa Corte ha osservato che non può essere revocato in dubbio che la competenza alla determinazione dei criteri di compensazione appartenga allo Stato e non alle Regioni, così pure non è dubitabile che spetti allo Stato l'applicazione dei criteri della compensazione. Ciò in quanto «si tratta di attività che trascendono la sfera delle Regioni e delle Province autonome e che per definizione non possono essere compiute in ambito locale» (sentenza n. 398 del 1998). Questa Corte ha specificato che, nondimeno, essendo coinvolto lo sviluppo della produzione lattiera in zone determinate del territorio a scapito di altre e, di riflesso, la programmazione regionale, «i criteri non avrebbero potuto essere stabiliti se non dopo avere acquisito in maniera formale il parere delle Regioni e delle Province espresso nella sede appropriata». Da qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 168, della legge n. 662 del 1996.
La norma, oggetto del presente scrutinio di costituzionalità, pur riproducendo sostanzialmente il contenuto della disposizione già caducata, si sottrae alle odierne censure nei termini in cui le stesse sono state formulate dalla ricorrente. Dalla disamina della documentazione prodotta a seguito dell'ordinanza istruttoria del 15 dicembre 1999 risulta, infatti, che sul disegno di legge, il cui contenuto è stato poi trasfuso nel testo delle disposizioni in esame, esaminato in via d'urgenza e approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 12 febbraio 1999, la Conferenza permanente, nella seduta del 24 febbraio 1999, ha formulato apposito parere.
L'acquisizione del predetto parere in ordine ai criteri di priorità individuati consente di ritenere esente dai profili di incostituzionalità anche il comma 21-ter, con il quale il legislatore, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità modulata in attuazione di precisi obblighi comunitari, ha esteso la validità di tali criteri anche al periodo 1999-2000.
Per quanto attiene, infine, alle censure formulate nei confronti del comma 6 dell'art. 1, al di là della genericità delle stesse ed alla inconferenza del richiamo alla materia del “governo del territorio”, la questione non è fondata, attesa la natura strettamente consequenziale della disposizione in esame rispetto a quelle sin qui esaminate.
13.5.— Ulteriore censura riguarda l'art. 1, comma 7, del decreto-legge n. 43 del 1999, come convertito nella legge n. 118 del 1999, il quale dispone che l'AIMA effettui la compensazione sulla base di dati certi (indicazione quest'ultima inserita in sede di conversione) per il periodo 1997-1998 entro trenta giorni dalle determinazioni definitive di cui al comma 5 da parte delle Regioni e delle Province autonome e comunque entro e non oltre il 30 settembre 1999, prevedendo che i risultati della compensazione siano comunicati agli acquirenti, ai produttori e alle Regioni e Province autonome interessate.
13.5.1.— Secondo la Regione ricorrente (ric. n. 14 e n. 18 del 1999) tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione, in quanto, oltre a ribadire l'attribuzione all'AIMA dei compiti in relazione alla compensazione nazionale, non determinerebbe i criteri in base ai quali i dati possono essere considerati certi e non prevederebbe alcun coinvolgimento delle Regioni in siffatta determinazione.
Le censure sono state ribadite nei confronti della disposizione come convertita in legge (ric. n. 18 del 1999).
13.5.2.— La questione è in parte inammissibile e in parte non fondata.
Deve, in primo luogo, ribadirsi la legittimità della previsione che attribuisce all'AIMA funzioni relative alla compensazione nazionale. Va, quindi, dichiarata la inammissibilità della censura relativa alla mancata indicazione dei criteri per la determinazione dei «dati certi», non essendo la stessa corredata da alcun supporto argomentativo atto a dimostrarne l'incidenza sulle attribuzioni costituzionalmente garantite alle Regioni.
Non è fondata la censura di violazione del principio di leale collaborazione: a prescindere dalla sussistenza della effettiva necessità di prevedere, nel caso di specie, strumenti di concertazione con le Regioni, la norma in esame garantisce il coinvolgimento delle Regioni stesse, prevedendo che la compensazione venga effettuata tenendo conto di quelle determinazioni definitive formulate da Regioni (e Province autonome), le cui modalità procedurali sono fissate con decreto del Ministro per le politiche agricole da emanarsi d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome (art. 1, comma 5).
13.6.— La ricorrente dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, del decreto-legge n. 43 del 1999, come convertito nella legge n. 118 del 1999, il quale dispone che, ai fini dell'esecuzione della compensazione nazionale per il periodo 1997-1998, l'AIMA, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 1 (sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge), effettui: a) l'aggiornamento dei quantitativi individuali, già accertati per detto periodo sulla base del decreto-legge n. 411 del 1997, in ragione dei mutamenti di titolarità e delle informazioni relative ai contratti ed alle mobilità fornite dalle Regioni e dalla Province autonome; b) la comunicazione individuale ai produttori dei quantitativi individuali di riferimento di cui alla lettera a) delle produzioni commercializzate per il periodo 1997-1998, risultanti dai modelli L1 pervenuti all'AIMA e dalle anomalie in essi riscontrate, tenuto anche conto delle risultanze dei ricorsi relativamente al numero dei capi accertati (criterio, quest'ultimo, inserito in sede di conversione).
Il comma 3-bis dell'art. 1 del decreto-legge n. 43 del 1999, introdotto in sede di conversione, dispone che i produttori sono tenuti a trasmettere copia della comunicazione individuale di cui all'art. 1, comma 3, al rispettivo acquirente, il quale si avvale delle risultanze della stessa ai fini del prelievo supplementare.
Il successivo comma 3-ter, pure introdotto dalla legge di conversione, dispone che le comunicazioni di cui all'art. 1, comma 3, lettera b), sono trasmesse all'AIMA, alle Regioni e alle Province autonome anche su supporto magnetico e stabilisce che detti enti ne forniscano copia agli acquirenti, alle loro organizzazioni, nonché alle associazioni di produttori di latte riconosciute.
Il comma 4 dell'art. 1 del decreto-legge n. 43 del 1999 stabilisce che, con la medesima comunicazione di cui all'art. 1, comma 3, lettera b), l'AIMA provveda all'aggiornamento definitivo dei quantitativi individuali di riferimento per il periodo 1998-1999, sulla base dei mutamenti di titolarità e delle informazioni relative ai contratti e alle mobilità fornite dalle Regioni e Province autonome, prevedendo altresì che tali aggiornamenti siano validi come attribuzione provvisoria per il periodo 1999-2000.
13.6.1.— Secondo la ricorrente (ric. n. 14 del 1999), l'art. 1, commi 3 e 4, sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 5, 117 e 118 della Costituzione, in quanto attribuirebbe ancora all'AIMA il potere di aggiornamento dei quantitativi individuali in violazione delle competenze regionali e per di più con effetto retroattivo e ciò determinerebbe conseguenze incontrollabili sia per i produttori, che per l'ente territoriale preposto al governo del settore.
Con il ricorso n. 18 del 1999 la ricorrente ha ulteriormente censurato – oltre alla lettera b) del comma 3 (comma modificato dalla legge di conversione) – i commi 3-bis, 3-ter e 4-bis del citato art. 1 del decreto-legge n. 43 del 1999, introdotti in sede di conversione, deducendone il contrasto con gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
In particolare la ricorrente, con riferimento alla modifica, introdotta dalla legge di conversione, del comma 3, ritiene che la stessa, prevedendo che si debba tenere conto solo delle risultanze dei ricorsi relativamente al numero dei capi accertati, introdurrebbe una illogica discriminazione tra queste decisioni e quelle assunte dalle Regioni in ordine alle molteplici fattispecie esaminate ai fini dell'aggiornamento definitivo.
Il comma 3-bis sarebbe costituzionalmente illegittimo in via derivata, per la stretta connessione esistente con il precedente comma 3.
Il comma 3-ter, secondo la ricorrente, sarebbe anch'esso illegittimo in via derivata per gli stessi vizi che inficiano la lettera b) del comma 3, ma contestualmente li aggraverebbe «imponendo alle Regioni l'onere della comunicazione dei dati agli acquirenti, alle loro organizzazioni, nonché alle associazioni di produttori».
Il comma 4-bis violerebbe, infine, gli evocati parametri costituzionali, in quanto illegittimamente si consentirebbe il rilascio di certificazioni provvisorie sulla base di dati non definitivi e perciò stesso dichiaratamente modificabili, con conseguente possibilità di alterazione del complessivo quadro di riferimento qualora solo alcune Regioni si avvalessero della «facoltà» prevista dalla norma.
13.6.2.— Le questioni non sono fondate.
Il potere di aggiornamento dei quantitativi individuali – attribuito in via transitoria all'AIMA – ai fini dell'esecuzione della compensazione nazionale, si giustifica sul piano costituzionale, come già sottolineato, per l'esigenza di perseguire interessi territorialmente infrazionabili. Rientra, inoltre, nella discrezionalità del legislatore nazionale determinare le concrete modalità di gestione delle funzioni assegnate all'AIMA nei limiti in cui le stesse siano strettamente funzionali al raggiungimento delle suddette finalità. Né assume rilevanza, per ritenere fondata la censura, la natura retroattiva di talune previsioni, in quanto le stesse si giustificano, in ossequio alle prescrizioni comunitarie e di quanto già riconosciuto dalla Corte di giustizia (sentenza 25 marzo 2004, già richiamata), alla luce della necessità di adeguare i quantitativi individuali e il sistema di compensazione alle risultanze delle verifiche svolte dagli organi a ciò preposti.
13.7.— L'art. 1, comma 5, del decreto-legge n. 43 del 1999 dispone che con decreto del Ministro per le politiche agricole, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, sono disciplinate le modalità per addivenire alle determinazioni definitive, da parte delle Regioni e delle Province autonome, dei dati comunicati ai sensi dell'art. 1, commi 3 e 4, del medesimo decreto, entro sessanta giorni dalle comunicazioni stesse, fermi restando gli accertamenti effettuati ai sensi del decreto-legge n. 411 del 1997.
L'art. 1, comma 10, del medesimo decreto-legge stabilisce che le disposizioni di cui al comma 5 si applicano per la comunicazione individuale ai produttori delle produzioni commercializzate per il periodo 1998-1999, risultanti dai modelli L1 pervenuti all'AIMA.
L'art. 1, comma 19, a sua volta, dispone che il prelievo dovuto per il periodo 1998-1999 è versato dall'acquirente entro venti giorni dal ricevimento della comunicazione da parte dell'AIMA, a seguito delle operazioni di compensazione di cui al comma 10.
13.7.1.— Ad avviso della ricorrente (ric. n. 14 del 1999), le norme citate sarebbero costituzionalmente illegittime per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto, pur riconoscendo il potere delle Regioni di pervenire a determinazioni definitive, negherebbero loro il potere di stabilire le modalità procedurali per addivenire a tali determinazioni, in contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione e con lesione delle competenze costituzionalmente attribuite alle Regioni. Dette censure sono state riproposte nel successivo ricorso n. 18 del 1999 della medesima Regione Lombardia.
13.7.2.— Le questioni non sono fondate.
Il coinvolgimento delle Regioni mediante la previsione della previa intesa con la Conferenza permanente ai fini dell'emanazione del decreto ministeriale di disciplina delle modalità per addivenire alle determinazioni definitive, costituisce, infatti, sufficiente garanzia di salvaguardia delle competenze regionali.
13.8.— L'art. 1, comma 12, del decreto-legge n. 43 del 1999 dispone che i risultati delle compensazioni nazionali effettuate (periodi 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998, 1998-1999, 1999-2000) sono definitivi ai fini del pagamento del prelievo supplementare, dei relativi conguagli e della liberazione della garanzie fideiussorie, salvo che per i soggetti di cui al successivo comma 13.
13.8.1.— La Regione ricorrente ne assume la illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, per le medesime ragioni prospettate nei confronti delle disposizioni che regolamentano le singole compensazioni nazionali.
13.8.2.— La questione non è fondata per lo stesso ordine di argomentazioni sopra prospettate al punto 13.7.2.
14.— Vanno ora esaminate le questioni relative alla previsione del c.d. avvalimento di uffici regionali.
15.— L'art. 1, comma 15, del decreto-legge n. 43 del 1999 stabilisce che, qualora le somme trattenute dall'acquirente a titolo di prelievo per i periodi 1995-1996 e 1996-1997 non siano sufficienti a coprire il prelievo complessivamente dovuto, il produttore deve corrispondere all'acquirente la differenza entro il quinto giorno antecedente la scadenza del termine per il versamento degli importi trattenuti dall'acquirente stesso; in difetto, la norma affida alle Regioni, su comunicazione dell'acquirente e previa intimazione di pagamento, la riscossione coattiva del debito residuo mediante ruolo.
15.1.— Ad avviso della Regione Lombardia (ric. n. 14 del 1999), tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima, per violazione degli artt. 3, 81, 97, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione, in quanto – tenuto conto che la disposizione in esame non prevede alcun corrispettivo per il sostanziale avvalimento di uffici regionali – verrebbero compromesse la potestà organizzatoria delle Regioni e, ad un tempo, anche l'autonomia finanziaria regionale in contrasto con il principio che impone l'obbligo per lo Stato di prevedere la copertura delle nuove spese ai sensi dell'art. 81 della Costituzione.
La questione è stata prospettata (ric. n. 18 del 1999) anche nei confronti della disposizione suddetta come modificata dalla legge di conversione.
15.2.— Sul punto deve rilevarsi che la norma in esame, nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 118 del 1999, in effetti stabiliva che, per finalità attinenti al perseguimento di interessi statali, fosse previsto l'avvalimento di uffici regionali per la riscossione coattiva mediante ruolo dei prelievi dovuti da parte del produttore.
La predetta legge di conversione, però, modificando in parte qua l'originaria disposizione del comma 15, sancisce, con previsione satisfattiva delle doglianze prospettate dalla ricorrente, che la riscossione delle somme dovute venga effettuata, non più tramite uffici regionali, bensì direttamente dall'AIMA. Ciò consente – in assenza di una attuazione medio tempore della norma impugnata – di dichiarare la cessazione della materia del contendere (sentenza n. 196 e ordinanza n. 137 del 2004).
16.— Ulteriori censure sono sollevate con riguardo alla disciplina dei ricorsi di riesame e dell'efficacia delle decisioni giurisdizionali in materia di quantitativi individuali.
16.1.— La Regione Lombardia ha, innanzitutto, impugnato con il ricorso n. 4 del 1998 l'art. 2, commi 5, 6, 8, 9 e 10 del decreto-legge n. 411 del 1997, nel testo vigente prima della conversione in legge.
L'art. 2, comma 5, del citato decreto-legge dispone che l'AIMA debba comunicare ai produttori, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, i quantitativi di riferimento individuali assegnati e i quantitativi di latte commercializzato, accertati ai sensi dei commi 1-3 del medesimo articolo, e che gli interessati possano presentare, a pena di decadenza, ricorso di riesame entro quindici giorni dalla data di ricezione della comunicazione, utilizzando l'apposito modulo predisposto dall'AIMA e fornendo le necessarie prove documentali.
L'art. 2, comma 6, dello stesso decreto-legge stabilisce che i ricorsi di riesame sono presentati alle Regioni e alle Province autonome ove è ubicata l'azienda del produttore ricorrente e contemporaneamente inviati all'AIMA; prevede, inoltre, che le Regioni e le Province autonome, previa convocazione per il riesame, in contraddittorio, del produttore ricorrente e, ove necessario, dell'acquirente, provvedano all'istruttoria degli stessi e alla relativa decisione motivata, dandone comunicazione all'AIMA e al ricorrente, secondo le modalità stabilite con apposito decreto del Ministro per le politiche agricole.
L'art. 2, comma 8, dispone che per l'istruttoria e la decisione dei ricorsi di riesame sia fissato il termine perentorio di sessanta giorni, decorrente dalla scadenza di quello per la presentazione dei ricorsi di riesame, e che nello stesso termine le decisioni debbano essere fatte pervenire all'AIMA, pena la loro irricevibilità, ferma restando la responsabilità civile, penale, amministrativa e disciplinare degli autori dell'omissione della decisione o del ritardo nell'invio della stessa.
L'art. 2, comma 9, stabilisce che, qualora l'esito dei ricorsi di riesame comporti una conferma dei quantitativi di riferimento individuali assegnati dall'AIMA o dei quantitativi di latte commercializzato dalla stessa accertati, i costi degli accertamenti, nella misura determinata da ciascuna Regione o Provincia autonoma, sono a carico del produttore ricorrente.
Infine, l'art. 2, comma 10, prevede che con decreto del Ministro per le politiche agricole, da emanarsi d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, siano disciplinate le modalità per l'istruttoria dei ricorsi di riesame.
16.1.1.— Secondo la ricorrente Regione Lombardia (ric. n. 4 del 1998) dette disposizioni si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
In particolare, le norme contenute nei commi 5, 6 e 8, del predetto art. 2, relegherebbero le Regioni al ruolo di mero supporto dell'azione statale, costringendole a rispettare termini perentori previsti in misura irragionevolmente breve per rivedere dati ascrivibili all'azione di altri soggetti (l'AIMA) e prevedendo sanzioni sul piano civile, penale, amministrativo e disciplinare, a carico degli autori di omissioni o ritardi. La ricorrente osserva, inoltre, che, decorrendo il termine per proporre azione di riesame dalla comunicazione di cui al comma 5 effettuata dall'AIMA ai produttori, la Regione non potrebbe conoscere tale data e conseguentemente non potrebbe neanche valutare la ricevibilità dei ricorsi stessi.
Con il successivo ricorso n. 18 del 1998 la ricorrente, impugnando il decreto-legge n. 411 del 1997 nel testo risultante dalla legge di conversione, ha ribadito le censure già formulate con il ricorso n. 4 del 1998 ed ha, in particolare, lamentato la mancanza di copertura finanziaria per l'espletamento delle funzioni assegnate alle Regioni dalle norme in esame. Inoltre, la ricorrente ha impugnato l'art. 2, comma 8-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, nella parte in cui dispone che, in caso di inadempienza nel rispetto dei termini perentori stabiliti dal comma 8 relativi alla decisione dei ricorsi di riesame, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per le politiche agricole e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, adotti i provvedimenti necessari. Tale norma sarebbe, secondo la ricorrente, costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione, in quanto accollerebbe alle Regioni gravi responsabilità, sanzionando in forma istituzionale, con la perdita delle loro competenze, l'eventuale impossibilità di ottemperare in tempi ristrettissimi ad obblighi derivanti da pregresse omissioni ad esse non imputabili.
16.1.2.— L'art. 2, commi 6 e 8, è stato impugnato anche dalla Regione Siciliana (ric. n. 16 del 1998). In particolare, la ricorrente ritiene che il comma 6 dell'art. 2, sul presupposto della sua applicabilità anche alle Regioni a statuto speciale (comma 5), sia costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 14, lettere a) ed e), dello statuto siciliano e delle relative norme di attuazione, in quanto le funzioni ivi previste rientrano tra quelle attribuite all'AIMA dalle norme di attuazione e quindi non potrebbero essere demandate alla Regione Siciliana con legge ordinaria.
Il comma 8 dello stesso art. 2 sarebbe, invece, costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 97 della Costituzione e dell'art. 14, lettere p) e q), dello statuto siciliano, in quanto:
– scaricherebbe sulle Regioni, in contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione, le inefficienze dell'AIMA;
– inciderebbe, attraverso la previsione della responsabilità degli impiegati, sullo stato giuridico dei dipendenti regionali, la cui disciplina è riservata alla Regione;
– l'avvalimento degli uffici regionali creerebbe un rilevante aggravio dei compiti dell'assessorato regionale all'agricoltura, con conseguente turbamento dell'ordinaria attività degli uffici regionali, e senza che sia previsto alcun concorso in relazione agli oneri economici dell'attività demandata a detti uffici.
16.1.3.— Innanzitutto, deve essere dichiarata la inammissibilità della censura con cui la Regione Lombardia lamenta la mancanza di copertura finanziaria per l'espletamento delle funzioni assegnate alle Regioni, non essendo stato indicato nel ricorso alcun parametro costituzionale, né lo stesso è univocamente deducibile dal contenuto della censura, che risulta carente di qualunque autonoma motivazione. E anche a voler individuare tale parametro nell'art. 81 della Costituzione, la deduzione della sua violazione sarebbe ugualmente inammissibile trattandosi di parametro estraneo al riparto delle competenze tra Stato e Regioni.
16.1.4.— Le ulteriori questioni non sono fondate.
Va premesso che la competenza del legislatore statale a disciplinare, con norme proporzionate allo scopo, le procedure relative ai ricorsi di riesame si giustifica alla luce della necessità di garantire il perseguimento dell'interesse nazionale ad una disciplina uniforme sull'intero territorio dello Stato.
Non è irragionevole, altresì, la scelta del legislatore statale di prevedere termini brevi di definizione dei ricorsi amministrativi proposti dai produttori, in considerazione della necessità di definire in tempi rapidi i procedimenti pendenti al fine di dare celere attuazione agli obblighi imposti sul piano comunitario. Né sarebbe possibile, nel caso di specie, stabilire quale altro termine – peraltro portato da sessanta ad ottanta giorni dall'art. 1 del decreto-legge 15 giugno 1998, n. 182 (Modifiche alla normativa in materia di accertamenti sulla produzione lattiera e disposizioni sull'igiene dei prodotti alimentari) convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 1998, n. 276 – potrebbe essere considerato congruo (cfr. sentenza n. 459 del 1989), senza invadere sfere riservate alla discrezionalità legislativa dello Stato. Deve, pertanto, ritenersi che la norma censurata non determini alcuna compromissione di sfere di attribuzione costituzionalmente garantite alle Regioni.
Alla legittimità della disposizione in esame consegue il rigetto della censura con la quale le ricorrenti contestano la connessa previsione della responsabilità civile, penale e amministrativa degli autori del ritardo o dell'omissione. Tale previsione costituisce, infatti, la conseguenza, sul piano sanzionatorio, della mancata osservanza di termini non irragionevoli imposti dal legislatore statale e rappresenta espressione di principî generali che la norma impugnata si limita soltanto ad enunciare formalmente.
Il presupposto da cui muove la ricorrente si rivela, altresì, erroneo nella parte del gravame in cui si deduce che, decorrendo il termine per proporre i ricorsi di riesame dalla comunicazione ex comma 5 effettuata dall'AIMA ai produttori, la Regione non sarebbe posta in grado di poter valutare la ricevibilità dei ricorsi stessi. Invero, l'art. 2, comma 2, del decreto ministeriale 17 febbraio 1998 emanato – d'intesa con la Conferenza permanente – in attuazione di quanto prescritto dall'art. 2, comma 10, del decreto-legge n. 411 del 1997, dispone che i dati contenuti nelle notifiche individuali effettuate dall'AIMA ai produttori vengono, altresì, comunicati dall'AIMA stessa alle Regioni entro il medesimo termine di sessanta giorni. Le Regioni, pertanto, sono state così poste nella condizione di conoscere anche la data della comunicazione dei quantitativi di riferimento individuali effettuata ai produttori, da cui decorre il termine per proporre l'azione di riesame.
Non è, infine, irragionevole – in relazione alle specifiche censure formulate dalla Regione Lombardia – la previsione di un potere sostitutivo conferito al Presidente del Consiglio dei ministri che agisce su proposta del Ministro per le politiche agricole e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Tale potere, infatti, rinviene il proprio fondamento nell'esigenza di assicurare il rispetto di un termine da considerare congruo, nonché strettamente necessario a garantire l'interesse nazionale ad una celere definizione dei procedimenti in esame (cfr. sentenze n. 324 del 1989, n. 177 del 1988, n. 182 del 1976).
16.1.5.— Per quanto attiene, infine, alla specifica censura fatta valere dalla Regione Siciliana nei confronti del comma 6 dell'art. 2, la stessa non è fondata. Ciò in quanto, nel caso di specie, non si tratta di competenze che spettavano all'AIMA e che poi sono state trasferite, come lamentato dalla ricorrente, senza il rispetto delle procedure concertative statutariamente imposte: le funzioni amministrative inerenti alla gestione dei ricorsi di riesame non competevano, infatti, all'AIMA, ma sono state direttamente attribuite alle Regioni. In ogni caso, tale attribuzione non lede le prerogative delle Regioni a statuto speciale, in quanto l'art. 5 dello stesso decreto-legge n. 411 del 1997 sancisce che queste ultime «provvedono agli adempimenti demandati dal presente decreto alle Regioni nel rispetto degli statuti e delle norme di attuazione».
16.2.— L'art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 43 del 1999, nel testo risultante dalla relativa legge di conversione, dispone che l'AIMA recepisca le correzioni degli errori effettuati nelle operazioni di riesame, motivatamente segnalati dalle Regioni e dalle Province autonome, correzioni da queste effettuate, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte (il decreto-legge prevedeva che si dovesse tenere conto delle risultanze della relazione della medesima Commissione). La disposizione de qua, inoltre, pone a carico delle Regioni e delle Province autonome l'onere di effettuare le necessarie comunicazioni agli interessati mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento (tale modalità di comunicazione è stata introdotta dalla legge di conversione).
L'art. 1, comma 14, del medesimo decreto-legge, sul punto non modificato dalla legge di conversione, dispone che ogni ulteriore questione relativa alle operazioni di riesame, non risolta ai sensi del comma 2, dovrà essere definita, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, con provvedimenti del Ministro per le politiche agricole, adottati d'intesa con la Conferenza permanente.
16.2.1.— Secondo la ricorrente Regione Lombardia (ric. n. 14 del 1999), tali norme si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
– in una materia di competenza regionale attribuirebbero alle Regioni compiti meramente esecutivi da svolgere sulla base di indicazioni fornite da organi statali;
– sovrapponendo irragionevolmente competenze statali a competenze regionali, comprometterebbero il buon andamento nella gestione del sistema, impedendo alle Regioni, attraverso un meccanismo di continue correzioni, rettifiche e prese d'atto reciproche da parte di organi sia statali sia regionali, l'efficace governo del settore, con violazione del canone di razionalità interna della legislazione;
– incoerentemente ed irrazionalmente sovrapporrebbero alle decisioni assunte dalle Regioni in sede di riesame le valutazioni di un organo statale istituito al solo fine del generico controllo di legalità delle operazioni di riesame;
– la ristrettezza dei termini non permetterebbe il corretto svolgimento dei compiti affidati alle Regioni;
– il comma 14, in particolare, potrebbe consentire al Ministro una totale rivisitazione delle risultanze delle operazioni di riesame non risolte ai sensi del comma 2.
16.2.2.— Le questioni non sono fondate.
Ribadita la legittimità della competenza statale in materia, per ragioni connesse alla esigenza di garantire un trattamento uniforme sull'intero territorio nazionale, deve ritenersi che le disposizioni in esame non determinino alcun vulnus alle competenze regionali. L'AIMA, infatti, si limita a “recepire” le correzioni degli errori intervenuti nelle operazioni di riesame, senza sovrapporre proprie autonome valutazioni a quelle regionali, effettuate «sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte». Deve, altresì, ritenersi congruo – e dunque non lesivo di attribuzioni costituzionalmente garantite alle Regioni – il termine di trenta giorni per la segnalazione imposta dalla norma, considerata l'urgenza, ancora una volta prescritta per ragioni connesse ad una celere attuazione della normativa comunitaria, di definire in tempi rapidi i procedimenti di riesame. Per quanto attiene, invece, alla censura che ha investito il comma 14, va rilevato che la suddetta disposizione non comporta alcuna compromissione di prerogative regionali, attesa, da un lato, la natura “residuale” del precetto in essa contenuto, dall'altro, la garanzia del coinvolgimento delle Regioni attraverso la previsione della necessità che i decreti ministeriali siano adottati d'intesa con la Conferenza permanente.
16.3.— L'art. 1, comma 11, del decreto-legge n. 43 del 1999 dispone che, ai fini delle operazioni previste dallo stesso decreto-legge (quelle, cioè, di compensazione), nei casi in cui sia intervenuto provvedimento giurisdizionale anche cautelare o non definitivo, notificato entro il trentesimo giorno precedente la scadenza del termine fissato per l'effettuazione delle compensazioni previste dal medesimo art. 1, l'AIMA utilizzi i dati quantitativi contenuti in detto provvedimento ovvero, in caso di mancanza di tali dati, quelli accertati dalle Regioni e dalle Province autonome.
La legge di conversione n. 118 del 1998 del predetto decreto ha aggiunto che, qualora manchino i dati quantitativi, gli stessi possono anche essere rideterminati dall'AIMA nel caso in cui siano intervenuti provvedimenti giurisdizionali anche non definitivi che abbiano fatto obbligo agli acquirenti di restituire ai produttori gli importi trattenuti a titolo di anticipo per gli eventuali prelievi supplementari dovuti, precisando che la riscossione del prelievo addebitato a compensazione nazionale avvenuta viene effettuata dall'AIMA, previa intimazione del relativo pagamento, con riscossione coattiva mediante ruolo.
16.3.1.— Con ricorso n. 14 del 1999 la Regione ricorrente ritiene che il comma in esame sia costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 5, 24, 97, 113, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
– introdurrebbe una ingiustificata e penalizzante limitazione degli effetti dei provvedimenti giurisdizionali ottenuti dai produttori, in contrasto con il diritto di difesa di questi ultimi e con il divieto di esclusione o limitazione della tutela giurisdizionale, di cui all'art. 113 Cost., con conseguente diretta ed immediata compromissione della potestà programmatoria delle Regioni e stravolgimento degli accertamenti compiuti dalle Regioni medesime sulla base di quei provvedimenti;
– la predetta limitazione sarebbe, altresì, irragionevole ed arbitraria, giacché la mancata indicazione dei dati quantitativi non escluderebbe il riconoscimento giurisdizionale del diritto alla produzione, né la possibilità di quantificarne l'oggetto. Con il ricorso n. 18 del 1999 la ricorrente censura lo stesso art. 1, comma 11, nel testo risultante all'esito della conversione in legge.
16.3.2.— La questione è inammissibile.
La ricorrente – ritenendo che la norma in esame comporti una limitazione degli effetti di pronunce giurisdizionali emesse a favore dei produttori – non deduce vizi di legittimità costituzionale che ridondino nella violazione delle proprie competenze costituzionalmente garantite; rimane, infatti, indimostrato l'assunto secondo cui tale limitazione determinerebbe una diretta ed immediata compromissione della potestà programmatoria svolta dalle Regioni.
16.4.— L'art. 1, comma 13, del decreto-legge n. 43 del 1999 dispone che le decisioni amministrative o giurisdizionali concernenti i ricorsi in materia, notificate oltre il trentesimo giorno precedente la scadenza del termine fissato per l'effettuazione delle compensazioni previste dallo stesso decreto-legge, non producano effetti sui risultati delle compensazioni, che restano fermi nei confronti dei produttori estranei ai relativi procedimenti, prevedendo, altresì, che al produttore, il cui ricorso sia stato accolto, il prelievo versato venga comunque restituito per la parte non dovuta.
16.4.1.— Nei ricorsi n. 14 e n. 18 del 1999 si prospetta la contrarietà della citata norma agli artt. 3, 5, 24, 97, 113, 117 e 118 della Costituzione, in quanto, posto che per definizione le decisioni giurisdizionali e amministrative possono avere effetto solo nei confronti delle parti, il riferimento ai produttori “estranei”, secondo la ricorrente, presupporrebbe l'inefficacia dei provvedimenti emessi su ricorso di associazioni di categoria, così ledendo i principî di autonomia organizzativa e le potestà programmatorie delle Regioni.
16.4.2.—La questione non è fondata.
La ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, ritenendo che la norma in esame persegua la finalità di limitare l'efficacia dei provvedimenti giurisdizionali e amministrativi emanati su ricorsi di associazioni di categoria. Invero, la disposizione in esame, stabilendo che tali provvedimenti non producano effetti nei confronti «dei produttori estranei ai procedimenti» nei quali tali provvedimenti sono stati emessi, intende escludere la possibilità che la pubblica amministrazione estenda gli effetti del giudicato o della decisione amministrativa anche ad altri eventuali soggetti non ricorrenti.
16.5.— L'art. 1, comma 17, del decreto-legge n. 43 del 1999, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione, prevede che l'AIMA, per i fini di certificazione di propria competenza, entro quindici giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 1 (sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge), trasmetta agli acquirenti per i quali sia stato accertato, ai sensi del decreto-legge n. 411 del 1997, un quantitativo di latte diverso rispetto ad almeno una delle dichiarazioni di commercializzazione da essi presentate per i periodi 1995-1996 e 1996-1997, nonché alle Regioni e Province autonome, un elaborato di verifica contenente l'indicazione, per ciascun produttore conferente, della produzione dichiarata nei modelli L1 presentati e di quella definitivamente accertata ai sensi del decreto-legge n. 411 del 1997. Il citato comma prevede, altresì, che ove, nei trenta giorni successivi alla ricezione dell'elaborato, l'acquirente confermi le singole posizioni accertate, apponendo per ognuno il timbro e la firma per accettazione del legale rappresentante dell'azienda, e provveda a restituire all'AIMA e alle Regioni e Province autonome l'elaborato stesso, il quale vale a tutti gli effetti come rettifica dei modelli L1 a suo tempo inviati, siffatta rettifica determini la non applicazione della revoca del riconoscimento contemplata dall'art. 23 del d.P.R. 23 dicembre 1993, n. 569 (Regolamento di esecuzione della legge 26 novembre 1992, n. 468, concernente misure urgenti nel settore lattiero-caseario) e la non applicazione delle altre sanzioni amministrative previste. La norma de qua inoltre stabilisce che, in ogni caso, gli accertamenti effettuati e le decisioni dei ricorsi di riesame costituiscano a tutti gli effetti modifica delle risultanze dei modelli L1 a suo tempo inviati, ferme le procedure sanzionatorie previste dalla legge.
Il successivo comma 18 prevede l'applicazione anche al periodo 1997-1998, delle disposizioni di cui al riportato comma 17.
16.5.1.— Secondo la Regione ricorrente (ric. n. 14 e n. 18 del 1999), tali norme sarebbero costituzionalmente illegittime, per violazione degli artt. 3, 24, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
a) ignorerebbero la posizione dei produttori che non hanno proposto ricorso di riesame o che hanno proposto ricorsi irricevibili, con ciò escludendoli dalla possibilità di sanare eventuali pregresse irregolarità nelle dichiarazioni, così imponendo una limitazione irragionevole e discriminatoria al diritto di difesa;
b) attribuirebbe all'AIMA la conduzione dei procedimenti di sanatoria, rispetto ai quali le Regioni avrebbero solo un ruolo istruttorio, con spoliazione delle loro competenze a livello sia di programmazione, che di controllo.
16.5.2.— Le questioni sono in parte inammissibili e in parte non fondate.
In particolare, la censura sub a) è inammissibile risolvendosi anch'essa nella assunta violazione di parametri costituzionali che non comportano alcuna incidenza sul sistema di riparto delle competenze tra Stato e Regione.
Per quanto attiene, invece, alla censura sub b), deve ribadirsi la conformità a Costituzione dell'attribuzione provvisoria all'AIMA di funzioni amministrative attinenti, nella specie, alla “conduzione” dei procedimenti di sanatoria che, tra l'altro, si inseriscono in un complesso iter procedurale volto alla verifica degli accertamenti effettivi della produzione lattiera che il decreto-legge n. 411 del 1997 demanda al predetto ente statale.
17.— La Regione ricorrente censura alcune disposizioni che disciplinano le funzioni di indirizzo e di coordinamento e i poteri sostitutivi del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali.
17.1.— In particolare, la ricorrente (ric. n. 36 del 1997) ha impugnato l'art. 01, comma 2, del decreto-legge n. 11 del 1997, nel testo introdotto dalla relativa legge di conversione n. 81 del 1997, il quale dispone che al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali rimangano assegnate le funzioni di indirizzo e coordinamento, nonché le azioni sostitutive nel caso di eventuale inadempienza delle Regioni e Province autonome.
17.2.— Secondo la ricorrente, detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. 5, 115, 117 e 118 della Costituzione, anche in riferimento agli artt. 3, comma 1, della legge n. 382 del 1975, 4, comma 1, del d.P.R. n. 616 del 1977 e 2, comma 3, lettera d) della legge n. 400 del 1988, in quanto la funzione di indirizzo e coordinamento viene attribuita al Ministero e non al Consiglio dei ministri e non è prevista alcuna garanzia sostanziale e procedimentale per l'esercizio dei poteri sostitutivi.
17.3.— La questione è fondata.
In relazione al potere statale di indirizzo e di coordinamento questa Corte – nella vigenza del vecchio Titolo V della Costituzione – ha da sempre riconosciuto il sicuro fondamento costituzionale dello stesso, configurandolo non già come un limite ulteriore all'autonomia delle Regioni, che si aggiunge a quelli espressamente sanciti dalla Costituzione, ma come espressione o manifestazione di limiti costituzionalmente fissati (sentenze n. 18 del 1997, n. 242 del 1989, n. 177 del 1988). In particolare, la Corte ha affermato che sono «le esigenze unitarie insuscettibili di frazionamento o di localizzazione territoriale sottese ai limiti costituzionalmente fissati alle competenze regionali che autorizzano lo Stato a esercitare nei confronti delle autonomie regionali (o provinciali) una funzione di indirizzo e di coordinamento» (sentenze n. 18 del 1997 e n. 242 del 1989). Allo stesso tempo questa Corte ha, però, affermato che l'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento è soggetto, non solo a precisi requisiti di sostanza rappresentati dalla sussistenza di una idonea base legislativa in ossequio al principio di legalità sostanziale, ma anche a puntuali requisiti di forma. Quest'ultimi nelle specie mancano. La giurisprudenza costituzionale è, infatti, costante nel ritenere necessario che l'esercizio della funzione trovi svolgimento attraverso atti collegiali del Governo e cioè attraverso una deliberazione del Consiglio dei ministri (ex multis, sentenze n. 314 del 2001 e n. 381 del 1996). Tale requisito formale è richiesto in quanto la deliberazione del Consiglio dei ministri esprime «l'assunzione di responsabilità a livello dell'organo chiamato a delineare, sotto la direzione del Presidente del Consiglio, la “politica generale del Governo” (art. 95 della Costituzione), in ordine alla esigenza di indirizzare e coordinare l'attività delle Regioni in vista di interessi unitari individuati dalla legge della Repubblica» (sentenza n. 408 del 1998). Di qui, dunque, la illegittimità costituzionale dell'art. 01, comma 2, del decreto-legge n. 11 del 1997 nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, nella parte in cui attribuisce tale potere al singolo Ministro e non già al Consiglio dei ministri.
Anche per quanto attiene al potere sostitutivo deve sottolinearsi il fondamento costituzionale dello stesso, che, nel caso di specie, è finalizzato a garantire, tra l'altro, l'interesse nazionale ad un puntuale e tempestivo adempimento degli obblighi comunitari in presenza di inadempienze delle Regioni. Questa Corte ha, però, da sempre ritenuto che la legittimità costituzionale di ogni forma di controllo sostitutivo deve essere assistita da garanzie sostanziali e procedurali. La norma oggetto del presente scrutinio di costituzionalità – pur limitandosi a prevedere in via generale un potere di sostituzione senza disciplinare specifiche ipotesi in cui il potere stesso possa essere esercitato – deve ritenersi, per gli aspetti regolamentati, non conforme ai requisiti costituzionali nella parte in cui, individuando l'organo competente in un singolo Ministro, non prevede la deliberazione del Consiglio dei ministri.
Alla luce delle considerazioni innanzi svolte, deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale, in parte qua, dell'art. 01, comma 2, del citato decreto-legge n. 11 del 1997, introdotto dalla relativa legge di conversione n. 81 del 1997.
18.— Un gruppo di censure riguarda alcune disposizioni relative al ripristino della liquidità.
18.1.— L'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, per questa parte senza modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, dispone che, in attesa degli accertamenti della produzione lattiera di cui al successivo art. 2, gli importi trattenuti dagli acquirenti a titolo di prelievo supplementare per il periodo 1996-1997 debbano essere, entro 15 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, restituiti ai produttori con gli interessi legali maturati, nella misura dell'80 per cento degli importi predetti, dandone comunicazione all'AIMA e al Ministero del tesoro. La norma stabilisce, altresì, che le garanzie fideiussorie surrogatorie del prelievo, prestate per lo stesso periodo, siano liberate nella medesima percentuale, mentre resta fermo l'obbligo dei produttori al pagamento del prelievo supplementare ove questo risulti comunque dovuto dopo l'effettuazione della compensazione nazionale.
L'art. 1, comma 2, dello stesso decreto-legge prevede che le restituzioni di cui al comma 1 non siano effettuate nei confronti dei produttori che non hanno sottoscritto i modelli L1 senza presentare dichiarazione di contestazione, ovvero che hanno sottoscritto i modelli L1 privi della indicazione dei bovini da latte detenuti in stalla e che risultano tali anche dalla rilevazione straordinaria dei capi bovini effettuata ai sensi del decreto-legge n. 130 del 1997, convertito dalla legge n. 228 del 1997, o risultano non incrociabili con la rilevazione stessa (la formulazione originaria del decreto-legge prevedeva che le restituzioni fossero ridotte alla misura del 20 per cento).
18.1.1.— La Regione Lombardia (ric. n. 4 del 1998) ritiene che tali norme siano costituzionalmente illegittime:
– per violazione degli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto, in materia di competenza regionale, detterebbero una disciplina irrazionale e discriminatoria, posto che la restituzione viene limitata ad una stagione soltanto e solo per una quota del relativo prelievo, benché la situazione di fatto, caratterizzata dalla ignoranza dei dati, sia identica anche per la stagione 1995-1996, per la quale nessun rimborso è previsto, con conseguente compromissione della capacità programmatoria delle Regioni, le quali, per il passato, devono fare i conti con operazioni illogiche e tali da sconvolgere il mercato del settore, senza esservi state in alcun modo coinvolte.
18.1.2.— Con il ricorso n. 18 del 1998 la ricorrente ha impugnato anche l'art. 1, comma 3, del decreto-legge n. 411 del 1997, nella parte in cui prevede che, limitatamente al periodo 1997-1998, gli acquirenti di latte bovino devono restituire ai produttori l'intero importo trattenuto, a titolo di prelievo supplementare relativo alla parte di quota B ridotta, nonché l'importo degli esuberi conseguiti da produttori titolari esclusivamente di quota A nei limiti del dieci per cento della medesima, stabilendo che le somme siano restituite ai produttori nel termine di dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (nella formulazione del decreto-legge era prevista la restituzione ai produttori del 70 per cento del prelievo supplementare per la quota B, mentre nulla era disposto per la quota A).
È oggetto di impugnazione anche il comma 3-bis dell'art. 1, nella parte in cui prevede che le somme trattenute a titolo di prelievo supplementare, a partire dal periodo 1995-1996, finché permangono nella disponibilità dell'acquirente, siano produttive di interessi legali che devono essere corrisposti al produttore entro il medesimo termine di cui al precedente comma 3.
Secondo la ricorrente, il comma 3, primo periodo, sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione. In particolare, si assume che la limitazione al 10 per cento della restituzione del prelievo relativo alla quota A sarebbe irrazionale e non consentirebbe di porre rimedio alle passate omissioni ed irregolarità non imputabili né ai produttori né alle Regioni, la cui capacità di governo del settore risulterebbe compromessa. La Regione assume, inoltre, che anche l'art. 1, comma 3-bis sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 5, 77, 115, 117 e 118 della Costituzione.
18.1.3.— L'art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 5 del 1998, prevede che la validità delle garanzie fideiussorie surrogatorie del prelievo, prestate per conto dei produttori per il periodo 1995-1996, sia, a richiesta, prorogata sino al 31 maggio 1998, salvo che siano intervenute rilevanti modificazioni nella situazione patrimoniale dell'obbligato principale.
18.1.3.1.— La Regione ricorrente ritiene (ric. n. 18 del 1998) tale norma costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto irrazionalmente fisserebbe il termine della proroga al 31 maggio 1998, incidendo in tal modo sui calcoli economici dei produttori, con conseguente compromissione della potestà programmatoria della Regione.
18.2.— Le questioni come sopra riassunte sono in parte inammissibili e in parte non fondate.
La inammissibilità concerne le censure che hanno investito i commi 2 e 3-bis dell'art. 1, non essendo le stesse supportate da alcuna specifica motivazione.
Le rimanenti censure non sono fondate.
Il legislatore statale ha previsto – nell'esercizio della sua discrezionalità e al fine di garantire un trattamento uniforme sull'intero territorio nazionale connesso alla introduzione di misure unitarie di stabilizzazione del sistema in una fase transitoria di accertamento – il c.d. “ripristino di liquidità”, limitando gli effetti della disposizione di cui al primo comma soltanto agli anni 1996-1997. La ratio della norma è quella di assicurare la restituzione delle somme prelevate per l'anno in corso al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge, rinviando all'esito degli accertamenti della produzione lattiera la definizione dei procedimenti di dare e avere per gli anni 1995-1996. La scelta legislativa non è irragionevole garantendo un equo contemperamento degli interessi in gioco: in una situazione di incertezza derivante dalla esistenza di una procedura di accertamento in corso per gli anni 1995-1996 e 1996-1997 – che potrebbe, in tesi, condurre a mantenere integralmente fermo il pagamento del prelievo supplementare già effettuato – ai produttori è “garantita” la restituzione delle somme riferite ad uno soltanto dei bienni presi in considerazione dalla legge.
Allo stesso modo rientra nella discrezionalità del legislatore statale limitare l'obbligo di restituzione in capo agli acquirenti, previsto dal comma 3 dello stesso art. 1, dell'importo trattenuto a titolo di prelievo supplementare limitatamente al periodo 1997-1998 e soltanto in riferimento ad una parte delle quote A e B. La scelta è anche in questo caso il frutto di un equo contemperamento degli interessi in gioco, in attesa della definizione della compensazione nazionale. Lo stesso comma 3 precisa, infatti, che rimane «fermo l'obbligo dei produttori al pagamento del prelievo supplementare ove questo risulti comunque dovuto dopo l'effettuazione della compensazione nazionale».
Con riferimento, infine, alla censura che ha investito il comma 4-bis, la ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, atteso che la proroga fino al 31 maggio 1998 per la validità delle garanzie fideiussorie del prelievo non è automatica, bensì è subordinata alla presentazione di una «richiesta» da parte del produttore: il contenuto precettivo della disposizione impugnata non potrebbe, pertanto, incidere sui calcoli economici dei produttori stessi e dunque sulla potestà programmatoria delle Regioni.
19.— Un ultimo gruppo di censure riguarda l'affitto e la vendita di quote senza trasferimento di azienda.
19.1.— L'art. 1, comma 20, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito dalla legge n. 118 del 1999, prevede che, con effetto dal periodo 1996-1997, il termine per la stipula dei contratti di affitto e vendita di quota senza trasferimento di azienda sia fissato al 31 dicembre di ciascun anno, fatti salvi gli accertamenti eseguiti ai sensi del decreto-legge n. 411 del 1997 e che per il periodo 1996-1997 tali atti abbiano effetto su concorde volontà delle parti, comunicata all'AIMA.
19.2.— Con il ricorso n. 14 del 1999 la ricorrente deduce la incostituzionalità della norma per violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, in quanto:
– avrebbe efficacia retroattiva, essendo destinata ad operare anche per annate già concluse;
– violerebbe il principio di buon andamento dell'azione amministrativa;
– determinerebbe una indebita ingerenza dello Stato in una materia di indubbia competenza regionale;
– si porrebbe in contrasto con quanto affermato nella sentenza di questa Corte n. 398 del 1998, non prevedendo alcun coinvolgimento delle Regioni in ossequio al principio di leale collaborazione. Tali censure sono state riproposte nel ric. n. 8 del 1999 della medesima Regione Lombardia.
19.3.— La questione non è fondata.
Innanzitutto, la competenza relativa all'affitto e all'acquisto di quote latte appartiene allo Stato, investendo direttamente o indirettamente istituti di diritto privato: il regime di cedibilità della quota attiene, infatti, ai rapporti giuridici tra imprenditori, nonché alla situazione dei beni aziendali (sentenza n. 398 del 1998, punto 16 del Considerato in diritto). La regolamentazione non potrebbe, pertanto, che essere uniforme sull'intero territorio nazionale, dovendosi escludere che possa essere adottata in ambito regionale (sentenza n. 398 del 1998). Spetta, inoltre, allo Stato stabilire l'incidenza temporale della disposizione in esame, in quanto essa si risolve nella valutazione della efficacia o inefficacia, sotto il profilo civilistico, dei contratti già conclusi.
Né può ritenersi che la norma si ponga “in contrasto” con quanto statuito da questa Corte con la citata sentenza n. 398 del 1998. In quella circostanza era stato impugnato l'art. 2, comma 173, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), che, modificando il comma 6 dell'art. 10 della legge n. 468 del 1992, aveva spostato il termine di efficacia della cessione dal 30 novembre al 31 dicembre. Questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui, in violazione del principio di leale collaborazione, aveva pretermesso qualsiasi forma di partecipazione regionale, quantomeno nella forma minima del parere. Il coinvolgimento delle Regioni è stato, però, ritenuto necessario in quanto all'epoca le funzioni di controllo relative all'applicazione della normativa comunitaria spettavano interamente alle Regioni: lo spostamento del termine di efficacia della cessione aveva, pertanto, comportato il restringimento dei tempi utili per l'espletamento del controllo preventivo e conseguentemente imposto oneri organizzativi aggiuntivi che richiedevano appunto una diretta consultazione dell'ente regionale.
La norma oggetto del presente scrutinio di costituzionalità, si inserisce, invece, per quanto rileva in questa sede, in un contesto normativo parzialmente mutato, in cui gran parte delle funzioni relative, tra l'altro, agli adempimenti dello Stato nei confronti dell'Unione europea nel settore lattiero-caseario sono state affidate, ancorché in via transitoria, all'AIMA. A ciò si aggiunga che tale norma fa comunque salvi gli accertamenti della produzione lattiera già eseguiti ai sensi del decreto-legge n. 411 del 1997. Deve, pertanto, escludersi la necessità di un coinvolgimento delle Regioni, dovendosi ritenere legittima la previsione ex novo del termine del 31 dicembre indicato dal legislatore nazionale nell'esercizio non irragionevole della propria discrezionalità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara estinti per rinuncia i giudizi di cui ai ricorsi numeri 26, 37 e 41 del 1997; 3, 19 e 38 del 1998; 15 e 19 del 1999; 10 e 14 del 2000, ricorsi tutti proposti dalla Regione Veneto;
dichiara estinto per rinuncia – limitatamente all'impugnazione dell'art. 7 del decreto-legge 31 gennaio 1997, n. 11 (Misure straordinarie per la crisi del settore lattiero-caseario ed altri interventi urgenti a favore dell'agricoltura), nel testo anteriore alla legge di conversione 28 marzo 1997, n. 81 – il giudizio di cui al ricorso n. 25 del 1997, proposto dalla Regione Lombardia;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 01, comma 2, del decreto-legge 31 gennaio 1997, n. 11 (Misure straordinarie per la crisi del settore lattiero-caseario ed altri interventi urgenti a favore dell'agricoltura), aggiunto dalla legge di conversione 28 marzo 1997, n. 81;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 38, 40, 41, 42, 43 e 44, del citato decreto-legge n. 11 del 1997, nel testo modificato dalla legge di conversione n. 81 del 1997, proposte – in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, al principio di leale cooperazione tra lo Stato e le Regioni, nonché all'art. 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, ed infine agli artt. 66 e seguenti del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 36 del 1997;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del decreto-legge 1° dicembre 1997, n. 411 (Misure urgenti per gli accertamenti in materia di produzione lattiera), convertito, con modificazioni, nella legge 27 gennaio 1998, n. 5, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 77, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, commi 3 e 4, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 6 e 8 del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – sotto il profilo della mancanza di copertura finanziaria – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, del decreto-legge 1° marzo 1999, n. 43 (Disposizioni urgenti per il settore lattiero-caseario), convertito, con modificazioni, nella legge 27 aprile 1999, n. 118, nella parte in cui «non determinerebbe i criteri in base ai quali i dati non possono essere considerati certi», proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 11, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 97, 113, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 17 e 18, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, nella parte in cui «ignorerebbero la posizione dei produttori che non hanno proposto ricorso di riesame o che hanno proposto ricorsi irricevibili, con ciò escludendoli dalla possibilità di sanare eventuali pregresse irregolarità nelle dichiarazioni», proposta – in riferimento agli artt. 3, 24, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, commi 1 e 3, del già citato decreto-legge n. 11 del 1997, questione proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, nonché all'art. 12 della legge n. 400 del 1988 ed agli artt. 66 e seguenti del d.P.R. n. 616 del 1977 – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 25 del 1997;
dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 15, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 81, 97, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 14 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 01, comma 1, del decreto-legge n. 11 del 1997, aggiunto dalla legge di conversione n. 81 del 1997, proposta – in riferimento agli artt. 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 36 del 1997;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 36, 37 e 39, del decreto-legge n. 11 del 1997, aggiunti dalla legge di conversione n. 81 del 1997, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni e all'art. 12 della legge n. 400 del 1988, oltre che agli artt. 66 e seguenti del d.P.R. n. 616 del 1977 – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 36 del 1997;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'intero testo del decreto-legge n. 411 del 1997, proposta – in riferimento agli artt. 5, 77, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'intero testo del decreto-legge n. 411 del 1997, proposta – in riferimento agli artt. 5, 11, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale cooperazione ed all'art. 12 della legge n. 400 del 1988 – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 3, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera c), del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera d), del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, lettera c), del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 5, 6, 8, 9 e 10, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 6 e 8 del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento all'art. 97 della Costituzione, ed all'art. 14, lettere a), e), p) e q), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), convertito dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, come attuato dal decreto legislativo 7 maggio 1948, n. 789, modificato con d.P.R. 24 marzo 1981, n. 218 – dalla Regione Siciliana, con il ricorso n. 16 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 8-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1-bis, del decreto-legge n. 411 del 1997, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, commi 1 e 2, e 5, comma 1, del decreto-legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, nella legge n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, nonché alla legge 28 marzo 1997, n. 81, alla legge 3 luglio 1997, n. 204, al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 ed alla relativa legge di delega 15 marzo 1997, n. 59 – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 4 e 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto-legge n. 411 del 1997, aggiunto dalla legge di conversione n. 5 del 1998, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 41, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1998;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'intero decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 77, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'intero decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione, al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, all'art. 12 della legge n. 400 del 1988 nonché all'art. 2 del decreto legislativo n. 143 del 1997 – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 2 e 14, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 3 e 4, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 3, lettera b), 3-bis, 3-ter e 4-bis, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 5, 10 e 19, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi. numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 6, 8 e 9, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 7, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – relativamente alla censura di violazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e le Regioni – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 12, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 13, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 97, 113, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, commi 17 e 18, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, nella parte in cui «attribuirebbero all'AIMA la conduzione dei procedimenti di sanatoria», proposta – in riferimento agli artt. 3, 24, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 20, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 21, del decreto-legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, nella legge n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con i ricorsi numeri 14 e 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 21-bis, del decreto-legge n. 43 del 1999, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1999;
dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 1, comma 21-ter, del decreto-legge n. 43 del 1999, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 118 del 1999, proposta – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione – dalla Regione Lombardia, con il ricorso n. 18 del 1999.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2005.
Massima n. 30274
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito, con modificazioni, nella legge 28 gennaio 2005, n. 5, censurati in riferimento agli artt. 72, 76, 77 e 117, commi primo, terzo, quarto e quinto, Cost., dal momento che tali disposizioni, nel fornire una definizione di colture transgeniche, biologiche e convenzionali e nell'affermare il principio di coesistenza di tali colture, in forme tali da tutelarne le peculiarità e le specificità produttive, sono espressive della competenza esclusiva dello Stato nella materia "tutela dell'ambiente" e della competenza concorrente nella materia "tutela della salute". Inoltre, rispetto alla sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza di cui all'art. 77 Cost., deve essere considerata nel caso di specie la necessità di superare con immediatezza la situazione prodotta dalla vigenza di diverse leggi regionali che prevedevano il divieto di impiego, o limitazioni di impiego, degli OGM autorizzati dalla Comunità europea, mentre la raccomandazione 2003/556/CE muove dal presupposto che sia lecito nel diritto comunitario l'impiego nella produzione agricola di OGM purchè autorizzati. > >- Secondo la sentenza n. 282/2002, l'imposizione di limiti alla libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell'interesse dell'ambiente e della salute, può essere giustificata costituzionalmente solo sulla base di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite tramite istituzioni e organismi a ciò deputati, indirizzi la cui elaborazione non può spettare che a legge dello Stato, chiamata ad individuare il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte (sentenza n. 307/2003), che si imponga, in termini non derogabili dal legislatore regionale, uniformemente sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 338/2003). > >- Rispetto alla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 77 Cost., il sindacato della Corte è circoscritto a verificare il carattere "evidente" della loro carenza: v. citate, tra le molte, sentenze n. 272 e n. 62/2005 e n. 6/2003.
composta dai signori: Presidente: Annibale MARINI; Giudici: Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), convertito, con modificazioni, in legge 28 gennaio 2005, n. 5, promosso con ricorso della Regione Marche notificato il 22 marzo 2005, depositato in cancelleria il 30 marzo 2005 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2005.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché l'atto di intervento della AS.SE.ME Associazione Sementieri Mediterranei;
udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 2006 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche e l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. – La Regione Marche ha impugnato gli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), nel testo convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5, per violazione degli artt. 117, commi primo, secondo, lettera s), terzo, quarto, quinto e sesto, e 118 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 9, 32, 33, 72, 76 e 77 della Costituzione.
La ricorrente afferma, anzitutto, la «assenza palese dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza» richiesti dall'art. 77 della Costituzione, posto il carattere non vincolante della raccomandazione 2003/556/CE e la necessità, invece, sulla base della normativa comunitaria ed internazionale, di realizzare in materia forme di «consultazione e di dibattito ampio e condiviso»: da ciò la violazione degli articoli 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, con riferimento agli artt. 72, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione.
Tutte le norme impugnate sarebbero altresì in contrasto con l'art. 117, commi secondo, lettera s), terzo, quarto e quinto della Costituzione, con riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, poiché pregiudicherebbero interventi regionali a tutela dell'ambiente e della salute umana, animale e vegetale, secondo i principi di prevenzione e precauzione.
Inoltre, tutte le norme censurate violerebbero l'art. 117, quarto comma, della Costituzione, giacché recherebbero una disciplina vertente nella materia “agricoltura”, oggetto di potestà legislativa residuale: la minuziosa disciplina contenuta, in particolare, negli articoli 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 7 e 8 del decreto-legge impugnato, sottrarrebbe in modo palese alle Regioni il controllo del settore agricolo relativo agli OGM.
La natura dettagliata di tali norme le renderebbe anche illegittime con riferimento alle materie oggetto di potestà legislativa concorrente dell' “alimentazione” e della “tutela della salute”.
Né lo Stato potrebbe appellarsi ad obblighi di attuazione della normativa comunitaria al di fuori delle materie indicate dall'art. 117, secondo comma, della Costituzione, se non violando anche l'art. 117, quinto comma, della Costituzione.
Inoltre, premesso che la tutela dell'ambiente non potrebbe essere prerogativa esclusiva dello Stato, laddove incida su interessi di competenza regionale, le disposizioni impugnate lederebbero l'articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione “anche in relazione all'art. 117, secondo comma, lettera s), e agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione”.
Gli articoli 3, comma 1, 4, comma 3-bis, e 7, commi 2 e 4, del decreto-legge impugnato violerebbero anche il sesto comma dell'art. 117 della Costituzione, poiché tali disposizioni disciplinerebbero l'adozione di “atti normativi di rango sublegislativo” in una materia che è oggetto di potestà legislativa residuale della Regione. Qualora, invece, si ritenesse che tali atti abbiano carattere primario, sarebbe leso l'art. 76 della Costituzione.
Gli artt. 5, commi 3 e 4, e 7 del decreto-legge impugnato violerebbero anche gli articoli 117, sesto comma, e 118 della Costituzione, poiché disciplinerebbero funzioni amministrative di spettanza regionale, in difetto dei presupposti per allocare tali competenze a livello centrale.
L'art. 6 del decreto-legge impugnato, a sua volta, violerebbe il principio del parallelismo tra competenza a disciplinare una determinata materia ed introduzione di sanzioni amministrative pecuniarie vertenti sulla medesima.
Infine, illegittimamente gli articoli 3 e 4 del decreto-legge impugnato imporrebbero l'adozione dei piani di coesistenza mediante “provvedimento”, anziché mediante legge regionale.
2. – Preliminarmente va dichiarata la inammissibilità dell'intervento dell'Associazione Sementieri Mediterranei (AS.SE.ME), dal momento che il giudizio in via principale si svolge di norma esclusivamente fra i titolari delle competenze legislative in contestazione, secondo quanto questa Corte ha già più volte affermato (fra le molte, le sentenze n. 51 del 2006, n. 383, n. 336 e n. 150 del 2005, n. 196 del 2004).
3. – Inammissibile è la censura sollevata dalla Regione ricorrente in riferimento alla mancata consultazione delle popolazioni interessate prima di adottare le norme impugnate, secondo quanto prescriverebbe la normativa comunitaria ed internazionale: anche volendosi prescindere dalla dubbia riferibilità delle disposizioni comunitarie e internazionali richiamate ai procedimenti legislativi, le Regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte primaria statale, se non «quando essi si risolvano in violazioni o menomazioni delle competenze» regionali (in particolare le sentenze n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e n. 50 del 2005).
Del pari inammissibili sono le censure che la ricorrente svolge, evocando a parametro l'art. 117, secondo comma, lettera s), anche in relazione agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione.
I suddetti parametri, secondo la ricorrente, sarebbero invocabili in forza del “diritto-dovere” della Regione «ad intervenire nel caso di inadempimento statale, a tutela della popolazione di cui la stessa è espressione in ordine a materie e valori costituzionalmente garantiti». Al riguardo, tuttavia, va osservato che il perimetro, entro il quale assumono rilievo gli interessi al cui perseguimento è tesa l'attività legislativa, risulta rigorosamente conformato dalle norme costituzionali attributive di competenza, sicché non è concesso alla Regione di dedurre, a fondamento di un proprio ipotetico titolo di intervento, una competenza primaria riservata in via esclusiva allo Stato, neppure quando essa si intreccia con distinte competenze di sicura appartenenza regionale: saranno, semmai, queste ultime a poter essere dedotte a fondamento di un ricorso di legittimità costituzionale in via principale promosso da una Regione.
Quanto agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione, fermo quanto appena precisato circa l'ambito entro cui interessi, principi e valori costituzionali assumono rilievo ai fini del giudizio in via principale delle leggi promosso dalle Regioni, non può che ribadirsi che queste possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illogicità o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra le molte, sentenze n. 383 e n. 50 del 2005; n. 287 del 2004).
4. – L'esame nel merito delle questioni di costituzionalità poste alla Corte esige un previo chiarimento del quadro normativo comunitario e nazionale in tema di organismi geneticamente modificati (OGM).
4.1. – La direttiva 2001/18/CE del 12 marzo 2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati, che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio) costituisce il testo normativo fondamentale, in punto sia di “immissione in commercio” di OGM (tale essendo, ai sensi dell'art. 2, comma 1, numero 2, di detta direttiva «un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l'accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale»), sia di “emissione deliberata” di OGM nell'ambiente.
Tali nozioni, benché distinte e fondate su separate previsioni normative (sentenza n. 150 del 2005), sono nel loro insieme sufficientemente ampie per ricomprendervi ogni fase dell'impiego di OGM in agricoltura, una volta superate le complesse fasi di autorizzazione previste dalla medesima direttiva: tali procedure comportano una penetrante valutazione, caso per caso, degli eventuali rischi per l'ambiente e la salute umana, connessi all'immissione in commercio, ovvero anche all'emissione di ciascun OGM ai fini dell'uso agricolo.
Le originarie disposizioni in tema di coltivazione degli OGM sono state specificate dalla decisione della Commissione n. 2002/623/CE del 24 luglio 2002 (recante note orientative ad integrazione dell'Allegato II della direttiva 2001/18/CE) che ha ulteriormente arricchito i criteri cui attenersi per la valutazione del rischio ambientale, anche con particolare ed espresso riferimento alle “pratiche agricole”.
Sulla base di tali presupposti, il regolamento n. 1829/2003 del 22 settembre 2003 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli alimenti ed ai mangimi geneticamente modificati), disciplinando con analoghe forme di tutela il regime degli alimenti geneticamente modificati, ha chiarito (art. 7, comma 5) che «l'autorizzazione concessa secondo la procedura […] è valida in tutta la Comunità», ed ha introdotto nel corpo della direttiva 2001/18/CE l'art. 26 bis, secondo il quale «gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti». Questa stessa disposizione si riferisc espressamente anche alla «coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali ed organiche».
Con ciò si viene a completare il quadro di tutela approntato dalla normativa comunitaria in tema di OGM a presidio dell'ambiente e della salute.
Su un piano connesso, ma distinto, la raccomandazione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 (Raccomandazione della Commissione recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali e biologiche) disciplina in modo espresso ed analitico la coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali e biologiche nell'ambito della produzione agricola, ponendo inoltre come sua esplicita premessa il principio che «nell'Unione europea non deve essere esclusa alcuna forma di agricoltura, convenzionale, biologica e che si avvale di OGM» (primo “considerando”).
Al riguardo, deve essere evidenziato che tale raccomandazione, muovendo dalla premessa secondo cui “gli aspetti ambientali e sanitari” connessi alla coltivazione di OGM sono affrontati e risolti esaustivamente alla luce del regime autorizzatorio disciplinato dalla direttiva 2001/18/CE, circoscrive espressamente il proprio campo applicativo ai soli “aspetti economici connessi alla commistione tra culture transgeniche e non transgeniche”, in relazione alle “implicazioni” che l'impiego di OGM può comportare sulla “organizzazione della produzione agricola” (introduzione, paragrafo 1.1).
Si tratta di «orientamenti, sotto forma di raccomandazioni non vincolanti rivolte agli Stati membri», il cui campo di applicazione si estende dalla produzione agricola a livello dell'azienda al primo punto di vendita, ossia “dal seme al silo” (punto 1.5).
Il fatto che l'impiego di OGM autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria ha trovato ulteriore conferma nella decisione 2003/653/CE della Commissione europea del 2 settembre 2003 (relativa alle disposizioni nazionali sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati nell'Austria superiore, notificate dalla Repubblica d'Austria a norma dell'art. 95, par. 5, del Trattato CE), con cui, ai sensi dell'art. 95 del Trattato, è stato respinto un progetto di legge del Land dell'Austria superiore, inteso a vietare in via generale sul proprio territorio l'utilizzo di OGM, al fine di proteggere i sistemi di produzione agricola tradizionali. In questa decisione si è affermato che, in presenza delle disposizioni comunitarie in materia miranti a “ravvicinare la legislazione degli Stati membri”, questi ultimi non possono impedire la coltivazione delle sementi OGM autorizzate, ma semmai eventualmente utilizzare la apposita “clausola di salvaguardia” di cui all'art. 23 della medesima direttiva, peraltro sempre in riferimento all'impiego di singoli OGM.
4.2. – Per ciò che riguarda la normativa italiana in questa materia, il decreto legislativo 8 luglio 2003 n. 224 (Attuazione della direttiva 2001/18/CE concernente l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati), recependo la direttiva 2001/18/CE, pone un'analitica e complessa disciplina di tutela allo specifico fine di «proteggere la salute umana, animale e l'ambiente relativamente alle attività di rilascio di organismi geneticamente modificati» (art. 1, comma 1).
Con specifico riguardo all'impiego di OGM in agricoltura, l'art. 8, comma 2, lettera c), del medesimo d.lgs. n. 224 del 2003 impone che la notifica preliminare all'emissione nell'ambiente di OGM, necessaria ai fini dell'autorizzazione da parte dell'autorità nazionale competente, contenga la «valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare, in conformità alle prescrizioni stabilite dal decreto» di cui al successivo comma 6.
È palese la strumentalità della disciplina così approntata rispetto a finalità di tutela dell'ambiente e della salute: il Ministro dell'ambiente è individuato come “autorità nazionale competente” (art. 2); presso il Ministero dell'ambiente viene costituita una “Commissione interministeriale di valutazione” (con una presenza solo minoritaria di rappresentanti regionali) (art. 6); si regolano analiticamente procedure di autorizzazione, controllo, vigilanza, sanzionate anche penalmente, e si introduce l'obbligo di risarcimento per chi provochi, in violazione delle disposizioni del decreto legislativo stesso, danni “alle acque, al suolo, al sottosuolo e ad altre risorse ambientali” che non siano eliminabili “con la bonifica ed il ripristino ambientale” (art. 36).
Il decreto interministeriale previsto dall'art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 224 del 2003 è stato adottato in data 19 gennaio 2005 (Prescrizioni per la valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare relativamente alle attività di rilascio deliberato nell'ambiente di OGM per qualsiasi fine diverso dall'immissione sul mercato): questo testo normativo reca dettagliate previsioni concernenti il “rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare”, attribuendo ad un decreto interministeriale il potere di definire “i protocolli tecnici operativi per la gestione del rischio delle singole specie GM” (art. 1, comma 2). Al tempo stesso, alcune funzioni vengono attribuite alle Regioni e queste compongono in maggioranza il Comitato tecnico di coordinamento, che opera presso il Ministero delle politiche agricole e forestali.
In particolare, si prevede che la emissione degli OGM nell'ambiente, per qualsiasi fine diverso dalla immissione sul mercato, debba avvenire in appositi “siti” - e cioè terreni di proprietà o gestiti “da istituti di ricerca pubblici, università, enti di sviluppo agricolo, sistema delle agenzie per la protezione dell'ambiente (APAT/ARPA), regioni e province autonome, enti locali” - individuati dalle Regioni interessate (art. 3).
4.3 – In tale contesto è stato approvato il testo normativo oggetto del presente giudizio e cioè il decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), successivamente convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5: testo normativo che esplicitamente si dichiara attuativo della raccomandazione 2003/556/CE, al fine di disciplinare il «quadro normativo minimo per la coesistenza tra le colture transgeniche, e quelle convenzionali e biologiche» ed esclude, invece, dalla propria area di competenza le colture per fini di ricerca e sperimentazione autorizzate ai sensi del d.m. 19 gennaio 2005.
Gli artt. 1 e 2 del decreto-legge impugnato muovono dalla sussistenza del principio, di derivazione comunitaria, di coesistenza tra le colture transgeniche e quelle convenzionali e biologiche, per poi articolarlo in alcune regole generali.
L'adozione delle “misure di coesistenza” necessarie per dare ulteriore attuazione a tale principio è, peraltro, affidata dall'art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ad un decreto “di natura non regolamentare” del Ministro per le politiche agricole e forestali, “adottato d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, emanato previo parere delle competenti Commissioni parlamentari”. A questo atto è attribuito il potere di definire “le norme quadro per la coesistenza”, in coerenza con le quali le Regioni approveranno i propri piani di coesistenza, adottando appositi “provvedimenti” (artt. 3 e 4); questo stesso atto statale individua “le diverse tipologie di risarcimento dei danni” per inosservanza delle misure del piano di coesistenza e definisce “le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà nazionale”; esso disciplina inoltre le forme di utilizzo “di specifici strumenti assicurativi da parte dei conduttori agricoli” (art. 5, comma 1-ter) e definisce “le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà” (art. 4, comma 3-bis); infine, con un atto analogo si deliberano le norme sulle “modalità di controllo” (art. 7, comma 4).
In questo contesto, il piano di coesistenza è adottato con “provvedimento” di ciascuna Regione e Provincia autonoma e «contiene le regole tecniche per realizzare la coesistenza, prevedendo strumenti che garantiscono la collaborazione degli enti territoriali locali, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» (art. 4.1).
Fino all'adozione dei singoli piani di coesistenza, «le colture transgeniche, ad eccezione di quelle autorizzate per fini di ricerca e di sperimentazione, non sono consentite» (art. 8).
Infine l'art. 7 prevede un altro organo consultivo nazionale, il “Comitato consultivo in materia di coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche”, a composizione mista e con una presenza minoritaria di esperti designati dalla Conferenza permanente Stato-Regioni.
5 – Alla luce del quadro normativo appena indicato è possibile affrontare il merito delle questioni poste dalla Regione ricorrente.
Infondata è anzitutto la censura relativa alla lesione dell'art. 77 della Costituzione sulla base della asserita palese carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, anche a volerla considerare ammissibile in quanto intesa a far valere in via indiretta una lesione delle competenze regionali.
Premesso che, rispetto alla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 77 della Costituzione, il sindacato di questa Corte è circoscritto a verificare l'eventuale carattere “evidente” della loro supposta carenza (tra le molte, le sentenze n. 272 del 2005 e n. 62 del 2005, n. 6 del 2003), vi è da considerare nel caso in questione la necessità di superare con immediatezza la situazione prodotta dalla vigenza di diverse leggi regionali che prescrivevano, in termini più o meno rigorosi, il divieto di impiego, ovvero l'obbligo di attenersi a particolari limitazioni di impiego, degli OGM autorizzati dalla Comunità europea, mentre la raccomandazione 2003/556/CE muove dal presupposto che sia lecito nel diritto comunitario l'impiego nella produzione agricola di OGM, purché autorizzati. Specie dopo la decisione 2003/653/CE della Commissione europea, può essere pacificamente escluso l'asserito manifesto difetto di una situazione di straordinaria necessità ed urgenza ai fini dell'adozione di un testo normativo che eliminasse o riducesse una situazione di evidente contrasto con il diritto comunitario, e consentisse di avviare, pur nel doveroso rispetto delle competenze regionali, un procedimento di attuazione del principio di coesistenza tra colture, con la celerità imposta dall' “imminente approvvigionamento delle sementi per la prossima campagna di semina”.
6 – Per risolvere le ulteriori questioni poste dal ricorso della Regione ricorrente, occorre confrontare il complesso quadro normativo in tema di organismi geneticamente modificati con la ripartizione delle competenze che è contenuta nel Titolo V della Costituzione.
Non vi sono dubbi che il d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224, di ricezione della direttiva 2001/18/CE, ed il d.m. 19 gennaio 2005, che ad esso ha dato attuazione, operano in un'area normativa riconducibile in via primaria alla tutela dell'ambiente, e solo in via secondaria alla tutela della salute e della ricerca scientifica. D'altronde appare significativo del condiviso primato in materia dello Stato, pur in presenza di alcune competenze regionali, sia il riconoscimento in esse di un ruolo sostanzialmente secondario delle Regioni, sia la stessa mancata impugnativa di questi atti normativi statali da parte delle Regioni.
Diverso è l'esito del processo di individuazione della materia entro cui ricondurre la coltivazione degli organismi geneticamente modificati a fini produttivi. Il decreto-legge n. 279 del 2004, oggetto di ricorso, è stato espressamente adottato «in attuazione della raccomandazione della Commissione 2003/556/CE del 23 luglio 2003» (art. 1), atto comunitario che disciplina l' “organizzazione della produzione agricola” per gli aspetti “economici” conseguenti all'utilizzo in agricoltura di OGM ed, invece, estraneo a profili “ambientali e sanitari”. Si tratta di un atto comunitario che si inserisce in un preesistente quadro normativo vincolante, relativo alla prevenzione di potenziali pregiudizi per l'ambiente e la salute umana legati all'impiego di OGM. Inoltre, nel formulare tale raccomandazione, la Commissione europea muove dal presupposto, ormai non più controverso nel diritto comunitario, costituito dalla facoltà di impiego di OGM in agricoltura, purché autorizzati.
Per la parte, quindi, che si riferisce al principio di coesistenza e che implicitamente ribadisce la liceità dell'utilizzazione in agricoltura degli OGM autorizzati a livello comunitario, il legislatore statale con l'adozione del decreto-legge n. 279 del 2004 ha esercitato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela dell'ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione), nonché quella concorrente in tema di tutela della salute (art. 117, terzo comma, della Costituzione), con ciò anche determinando l'abrogazione per incompatibilità dei divieti e delle limitazioni in tema di coltivazione di OGM che erano contenuti in alcune legislazioni regionali.
Infatti, la formulazione e specificazione del principio di coesistenza tra colture transgeniche, biologiche e convenzionali, rappresenta il punto di sintesi fra i divergenti interessi, di rilievo costituzionale, costituiti da un lato dalla libertà di iniziativa economica dell'imprenditore agricolo e dall'altro lato dall' esigenza che tale libertà non sia esercitata in contrasto con l'utilità sociale, ed in particolare recando danni sproporzionati all'ambiente e alla salute.
Va aggiunto che l'imposizione di limiti all'esercizio della libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell'interesse dell'ambiente e della salute umana, può essere giustificata costituzionalmente solo sulla base di «indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sovranazionali, a ciò deputati, dato l'essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico scientifici» (sentenza n. 282 del 2002).
Inoltre, l'elaborazione di tali indirizzi non può che spettare alla legge dello Stato, chiamata ad individuare il «punto di equilibrio fra esigenze contrapposte» (sentenza n. 307 del 2003), che si imponga, in termini non derogabili da parte della legislazione regionale, uniformemente sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 338 del 2003).
Sulla base di tali premesse, sono da ritenersi non fondate le censure rivolte avverso gli artt. 1 e 2 del decreto-legge n. 279 del 2004, giacché tali disposizioni, nel fornire una definizione di colture transgeniche, biologiche e convenzionali (art. 1), e nell'affermare il principio di coesistenza di tali colture, in forme tali da “tutelarne le peculiarità e le specificità produttive”, sono espressive della competenza esclusiva dello Stato nella materia “tutela dell'ambiente”, e della competenza concorrente nella materia “tutela della salute”.
7. – Venendo all'esame delle questioni poste sulle ulteriori disposizioni impugnate, la Corte osserva che, mentre il rispetto del principio di coesistenza delle colture transgeniche con le forme di agricoltura convenzionale e biologica inerisce ai principi di tutela ambientale elaborati dalla normativa comunitaria e dalla legislazione statale, invece la coltivazione a fini produttivi riguarda chiaramente il «nocciolo duro della materia agricoltura, che ha a che fare con la produzione di vegetali ed animali destinati all'alimentazione» (come si esprime la sentenza di questa Corte n. 12 del 2004). Infatti, il decreto-legge n. 279 del 2004, mentre esclude in modo espresso dalla sua area di efficacia proprio le colture transgeniche realizzate sulla base del d.m. 19 gennaio 2005, atto di attuazione del d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224 (che, a sua volta, recepisce la direttiva 2001/18/CE), mira palesemente a disciplinare la produzione agricola in presenza anche di colture transgeniche.
Ciò non toglie che questa disciplina, pur essenzialmente riferita alla materia agricoltura, di competenza delle Regioni ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost. (sentenze n. 282 e n. 12 del 2004), debba o possa essere accompagnata dal parallelo esercizio della legislazione statale in ambiti di esclusiva competenza dello Stato (come, ad esempio, per quanto attiene alla disciplina dei profili della responsabilità dei produttori agricoli) o in ambiti di determinazione dei principi fondamentali, ove vengano in gioco materie legislative di tipo concorrente.
Tale non è tuttavia il caso degli artt. 3, 4 e 7 del decreto-legge n. 279 del 2004, quali convertiti dalla legge n. 5 del 2005.
In queste norme anzitutto si stabiliscono le modalità per adottare le “norme quadro per la coesistenza” (art. 3), prevedendo un atto statale dalla indefinibile natura giuridica (cui peraltro si attribuisce la disciplina di materie che necessiterebbero di una regolamentazione tramite fonti primarie). In secondo luogo, si prevede lo sviluppo ulteriore di queste “norme quadro” tramite piani regionali di natura amministrativa (art. 4). Scelte del genere sono peraltro lesive della competenza legislativa delle Regioni nella materia agricoltura, dal momento che non può essere negato, in tale ambito, l'esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo. Infine, neppure appare giustificabile la creazione di un nuovo organo consultivo statale, strettamente strumentale all'esercizio dei poteri ministeriali di cui all'art. 3 (art. 7).
Tali disposizioni devono pertanto essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Del pari, va dichiarata la illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 6 del decreto-legge n. 279 del 2004, quale convertito dalla legge n. 5 del 2005, dal momento che la regolamentazione delle sanzioni amministrative spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia la cui inosservanza è in tal modo sanzionata (fra le molte, le sentenze n. 63 del 2006; n. 384 e n. 50 del 2005).
Quanto agli artt. 5, commi 3 e 4, ed 8, prescindendosi in questa sede dalle censure avanzate dalla ricorrente, appare sufficiente per la loro dichiarazione di illegittimità costituzionale la constatazione che le loro discipline si pongono in nesso inscindibile con le norme che questa Corte ha appena ritenuto illegittime, con particolare riferimento alle “norme quadro” statali di cui all'art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ed ai piani di coesistenza regionali di cui all' art. 4 del medesimo testo normativo.
Del pari va dichiarato illegittimo l'art. 6, comma 2, recante sanzioni penali in caso di inosservanza del divieto posto dall'art. 8, a causa del suo stretto rapporto con quanto disciplinato in tale ultima disposizione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l'intervento in giudizio dell'Associazione Sementieri Mediterranei;
dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 3, 4, 6, comma 1, e 7 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5 ;
dichiara la conseguente illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 3 e 4, 6, comma 2, e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5, sollevata dalla Regione Marche in relazione agli articoli 9, 32, 33 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge n. 279 del 2004, convertito in legge con modificazioni dalla legge n. 5 del 2005, sollevate dalla Regione Marche in relazione agli articoli 72, 76, 77, 117, commi primo, terzo, quarto e quinto della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2006.
Sulla trasferibilità del controllo dei presupposti della decretazione d’urgenza, in caso di loro “evidente mancanza”, sulla legge di conversione quale vizio in procedendo
Massima n. 21561
A
norma dell'art. 77 Cost., la pre-esistenza di una situazione di fatto
comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di
uno strumento eccesionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità
costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che l'eventuale
evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità
costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell'ambito
delle possibilita' applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio 'in
procedendo' della stessa legge di conversione, avendo quest'ultima, nel caso
ipotizzato, valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validità in realtà
insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere
legittimo oggetto di conversione. Pertanto, non esiste alcuna preclusione
affinche'
(il testo della sentenza è riportato nella sezione precedente a pag.
Massima n. 28093
(il testo della sentenza è riportato nella sezione precedente a pag.
Massima n. 28565
La
disciplina del condono edilizio, inserita in un decreto legge dal titolo
«Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell'andamento dei conti pubblici» si colloca in un contesto in cui non può
rilevarsi un caso di «evidente mancanza» dei presupposti di necessità ed
urgenza prescritti dal secondo comma dell'art. 77 Cost.; la necessaria
omogeneità dell'oggetto del decreto legge non è un requisito costituzionalmente
imposto; un decreto legge può di per sé costituire legittimo esercizio dei
poteri legislativi che
(il testo della sentenza è riportato nella sezione precedente a pag.
Sulla sanabilità dei vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza da parte della legge di conversione
composta dai signori: Prof. LIVIO PALADIN, Presidente - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Dott. FRANCESCO SAJA - Prof. GIOVANNI CONSO - Prof. ETTORE GALLO - Prof. GIUSEPPE BORZELLINO - Dott. FRANCESCO GRECO - Prof. RENATO DELL'ANDRO - Prof. GABRIELE PESCATORE - Avv. UGO SPAGNOLI - Prof. FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2 l. 25 luglio 1984 n. 377 (Norme correttive e integrative degli artt. 24 e 67 della legge 27 luglio 1978 n. 392), 1, commi 9 bis, 9 ter, 9 quater e 9 quinquies d.l. 7 febbraio 1985 n. 12, convertito in l. 5 aprile 1985 n. 118 (Misure finanziarie in favore delle aree ad alta tensione abitativa), promossi con ordinanza emessa il 10 agosto 1984 dal Pretore di Bettola nel procedimento civile vertente tra Gioia Giuseppe e Guglielmetti Luigi (iscritta al n. 1141 del registro ordinanze 1984), nonché con ordinanze del Pretore di Roma, emesse il 10 maggio 1985 nei procedimenti vertenti tra Mancinelli Concetta e Spaggiari Guido (n. 368 del 1985), tra Caffarelli Livia Elena e Sirabella Renato (n. 369 del 1985), e tra Rizza Salvatore e Borzi Clara (n. 370 del 1985); dell'8 maggio 1985, in causa Arrigoni Clementina c. Badioli Renato (n. 371 del 1985); del 6 maggio 1985, in causa Gesualdi Nicola c. Marinucci Tiziana (n. 372 del 1985); del 13 maggio 1985, in cause Fugger Giuntini Valeria c. Mariotti Gino (n. 440 del 1985) e Agostinelli Augusto c. Ramazzotti Gherardo (n. 441 del 1985); del 22 maggio 1985, in causa Istituto per i ciechi "Sant'Alessio" c. Giaroli Egidio (n. 487 del 1985); del 27 maggio 1985, in causa Innocenzi Settimio c. Di Tommaso Maria (n. 488 del 1985); del 24 maggio 1985, in causa vertente tra i medesimi (n. 489 del 1985); del 10 maggio 1985, in cause Cicerchia Arnoldo c. Gheri Carlo (n. 531 del 1985), nonché Escobar Losada Maria Josefa c. Pinci Gioacchino (n. 532 del 1985); del 27 giugno 1985, in causa Forconi Claudio c. Riponi Bruno (n. 611 del 1985); del 25 giugno 1985, in cause Di Veroli Guido c. Mazzacchera Pietro (n. 612 del 1985) e Di Veroli Ettore c. Mannoia Castrense (n. 613 del 1985); del 5 luglio 1985, in causa Colivicchi Flora ed altri c. s.r.l. D.B. De Rossi Biancavilla (n. 614 del 1985); del 13 giugno 1985, in causa Monfreda Mario c. Damizia Giulio (n. 615 del 1985); del 4 luglio 1985, in causa Paparelli Remo c. De Crisogano Marisa (n. 616 del 1985); del 20 giugno 1985, in causa Caccetta Giuseppe ed altri c. Ferlisi Antonio (n. 617 del 1985); del 6 giugno 1985, in causa Forquet Maria Laura c. s.r.l. Cavalieri Residence (n. 618 del 1985); del 6 giugno 1985, in causa Del Raso Ugo c. Banfi Maria (n. 619 del 1985); del 27 maggio 1985, in causa Formica Maria c. Calbi Nicola (n. 620 del 1985); del Pretore di Albano Laziale, emessa il 3 maggio 1985 nel procedimento vertente tra De Santis Maurizio e Santinelli Franco (n. 442 del 1985); e ancora con ordinanze del Pretore di San Donà di Piave, emessa il 4 maggio 1985 nel procedimento vertente tra Muner Eldino e Casagrande Isabel (n. 450 del 1985), dal Pretore di Palermo, emessa il 10 luglio 1985 nel procedimento vertente tra Pugno Cleonice e De Lisi Vincenzo (n. 579 del 1985), dal Pretore di Monza, emesse il 26 giugno 1985 in cause promosse dalla Fondazione ricovero Martinelli c. Beretta Vittorio (n. 683 del 1985) e c. Mattioli Vittorio (n. 684 del 1985), tutte pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42 bis del 18 febbraio 1985, 202 bis del 18 agosto 1985, 291 bis dell'11 dicembre 1985, 287 bis del 6 dicembre 1985, 256 bis del 30 ottobre 1985, 267 bis del 13 novembre 1985, 2 serie speciale del 15 gennaio 1986, 302 bis del 24 dicembre 1985, 1 serie speciale dell'8 gennaio 1986.
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Gioia Giuseppe, De Santis Maurizio e Pugno Cleonice, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 18 marzo 1986 il giudice relatore Francesco Saja;
uditi gli avvocati Paolo Barile, Giorgio Marino, Giangaleazzo Stendardi, Ercole Caruso per De Santis Maurizio; gli avvocati Carmelo Lo Cascio, Paolo Barile e Giangaleazzo Stendardi per Pugno Cleonice e gli avvocati dello Stato Paolo Cosentino e Benedetto Baccari per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto:
1. - L'ordinanza del pretore di Bettola, da un verso, e, dall'altro, quelle emesse dai numerosi giudici indicati in epigrafe, pur se dirette contro differenti disposizioni di legge, hanno per oggetto principale questioni analoghe: i relativi giudizi vanno quindi riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. - I provvedimenti di rimessione concernono i rapporti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, in corso al momento di entrata in vigore della l. 27 luglio 1978 n. 392 (c.d. legge sull'equo canone). La quale, al fine di regolare il graduale passaggio dal precedente regime vincolistico a quello libero, dispose, relativamente ai rapporti già soggetti a proroga, un'ulteriore proroga di quattro, cinque o sei anni, a seconda che i contratti fossero stati stipulati prima del 31 dicembre 1964 o tra il 1 gennaio 1965 e il 31 dicembre 1973 ovvero successivamente a quest'ultima data (art. 67 cit., primo comma, lett. a), b) e c)); mentre, di quelli in corso non soggetti a proroga, stabill' la protrazione coattiva di durata pari a quella prescritta per i nuovi contratti dagli artt. 27 e 42, primo comma (art. 711. cit.).
Successivamente, con l'art. 15 bis del d.l. 23 gennaio 1982 n. 9, come convertito nella l. 25 marzo 1982 n. 94, fu disposta per i contratti di cui al citato art. 67 un'altra proroga di due anni, presa in esame da questa Corte con la sent. n. 89 del 1984, alla quale si farà più volte riferimento.
In seguito, è sopravvenuta la l. 25 luglio 1984 n. 377, che nell'art. 2, secondo comma, ha statuito che le scadenze dei contratti di cui all'art. 67, primo comma, lett. a) della legge 27 luglio 1978 n. 392 (ossia i contratti stipulati anteriormente al 31 dicembre 1964) erano prorogate sino al 31 dicembre 1984: ed è contro questa disposizione che si appunta il sospetto di illegittimità costituzionale del pretore di Bettola, sul rilievo che la nuova proroga sarebbe in contrasto con le norme degli artt. 42, 41 e 3 della Costituzione. Infine è intervenuto il d.l. 7 febbraio 1985 n. 12, convertito nella legge 5 aprile 1985 n. 118, la quale nell'art. 1, comma 9 bis, tra l'altro: 1) ha disposto il rinnovo ex lege dei ricordati contratti previsti dagli artt. 67 e 71 cit. l. n. 392 del 1978 per i periodi di cui all'art. 27 di questa stessa legge (sei anni ovvero nove in caso di industrie alberghiere); 2) ha fissato la nuova misura del canone sulla base di quello iniziale, rivalutato con le variazioni accertate dall'ISTAT dell'indice dei prezzi al consumo e aggiornato a partire dal secondo anno nella misura del 75% delle variazioni stesse; 3) ha stabilito che al rinnovo non si fa luogo nel caso in cui il locatore abbia la necessità di riottenere la disponibilità dell'immobile per uno dei motivi indicati nell'art. 29 cit. l. n. 392/1978, regolando l'indennità spettante al conduttore per la perdita dell'avviamento sulla base del canone corrente di mercato.
Tale norma costituisce l'oggetto dell'impugnazione di tutte le altre ordinanze di rimessione, le quali, oltre a formulare in via preliminare due rilievi di cui si dirà in prosieguo, deducono fondamentalmente che il rinnovo imposto sarebbe in realtà una proroga del precedente rapporto locativo, anch'essa in contrasto con le ricordate disposizioni degli artt. 42, 41 e 3 Cost. Non manca in verità, tra i detti provvedimenti, qualche lieve differenza, tuttavia non rilevante, essendo stato impugnato da alcuni giudici a quibus (pretori di Albano Laziale, San Donà di Piave, Palermo e Monza) integralmente il disposto del cit. art. 1, comma 9 bis, il cui contenuto va pertanto esaminato nella sua interezza con riferimento ai parametri sopra ricordati.
Alcune ordinanze peraltro denunciano anche i commi 9 ter (pretore di Monza), 9 quater (pretori di San Donà di Piave, Palermo e Monza), e 9 quinquies (pretori di San Donà di Piave e di Monza), che regolano, nell'ambito della normativa in oggetto, la disdetta del locatore, l'efficacia dei provvedimenti di rilascio e i giudizi in corso: censure, queste, su cui logicamente influirà la decisione della questione principale nel caso in cui essa venga ritenuta fondata.
3. - Così precisati il quadro normativa e l'oggetto del giudizio, ritiene utile la Corte muovere da una premessa di carattere comune alle questioni sollevate, richiamando la sua precedente giurisprudenza, con la quale ha reiteratamente osservato come i limiti legali al diritto di proprietà, previsti dall'art. 42 Cost. al fine di assicurarne la funzione sociale, consentano di ritenere legittima la disciplina vincolistica, a condizione che essa abbia un carattere straordinario e temporaneo (cfr., tra le altre, le sentt. n. 3 e 225/1976). Pertanto ha insistentemente rivolto invito al legislatore a non dare alla detta disciplina un carattere di ordinarietà che ne avrebbe compromesso l'aderenza ai principi costituzionali: invito accolto con la ricordata l. n. 392 del 1978, la quale ha posto una nuova e permanente regolamentazione del contratto di locazione di immobili urbani ed ha altresl' disciplinato transitoriamente il graduale passaggio dal vecchio regime vincolistico a quello da essa introdotto, conferendo maggior rilievo all'autonomia privata.
Successivamente a detta normativa, la Corte con la sentenza n. 89 del 1984, specificamente attinente ai rapporti locativi degli immobili ad uso non abitativo, ha ritenuto che sfiorasse il limite della legittimità costituzionale la ricordata proroga concessa con l'art. 15 bis cit. l. n. 94 del 1982, avvertendo che non ne sarebbero state ammissibili altre successive, giacché esse sostanzialmente avrebbero perpetuato quel regime vincolistico, incompatibile - se ulteriormente protratto dopo vari decenni di vigenza - con la tutela attribuita al diritto di proprietà dalla Carta fondamentale.
4. - Ciò posto, osserva la Corte, rispetto alla prima questione (quella sollevata dal pretore di Bettola), che l'art. 21. n. 377 del 1984 prevede senza alcun dubbio una proroga legale in quanto dispone la protrazione coattiva del precedente rapporto locativo oltre il termine finale pattuito dalle parti. In tal senso è concorde l'orientamento della giurisprudenza e della dottrina, le quali correttamente richiamano la formulazione letterale usata ("le scadenze... sono prorogate..."), nonché l'intenzione del legislatore, resa palese dai lavori preparatori, nei quali si fa sempre riferimento all'istituto predetto. Del resto, ciò è ammesso incondizionatamente anche dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale, pur aderendo in linea di principio al contenuto della sent. n. 89/1984, deduce che tuttavia nella specie non potrebbe ravvisarsi un'illegittima compressione della posizione del proprietario a causa della limitata durata della proroga (sei mesi) stabilita dalla richiamata legge 377 del 1984.
La Corte non ritiene però di poter condividere tale deduzione, e ciò per un duplice ordine di motivi.
È intuitivo infatti come non possa escludersi la violazione di un diritto costituzionalmente garantito, sol perché essa è temporalmente limitata. La nostra Costituzione dispone che "la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge"(art. 42, secondo comma), in armonia peraltro con un principio generalmente condiviso e sancito anche nell'art. 17 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata alla unanimità da tutti gli Stati aderenti all'ONU, secondo cui: "ogni individuo ha diritto di avere una proprietà personale o in comune con altri. Nessun individuo può essere arbitrariamente privato della sua proprietà". Non è consentito perciò al legislatore ordinario intervenire liberamente su tale posizione soggettiva, che può essere legittimamente compressa sol quando lo esiga il limite della "funzione sociale", considerato nello stesso precetto costituzionale poc'anzi ricordato: funzione sociale, la quale esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione. Conseguentemente non ha fondamento la ricordata eccezione dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui, in sostanza, non potrebbe considerarsi violazione del precetto costituzionale la compressione della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata sol perché temporanea.
Anche se limitato nel tempo, l'intervento legislativo risulta legittimo unicamente se ricorrono le condizioni poste dalla Costituzione, il che nella specie non è neppure dedotto, facendosi leva esclusivamente sull'entità temporale della proroga.
5. - Ma, oltre a ciò, va osservato che il riferimento dell'Avvocatura dello Stato alla brevità del termine in questione non è per nulla esatto. La proroga de qua, infatti, non può essere considerata isolatamente, avulsa cioè dal quadro normativo generale, nell'ambito del quale, in effetti, essa funziona come presupposto di un'ulteriore e lunga protrazione del rapporto, autoritativamente imposta. Per vero, la stessa è stata seguita dal d.l. 7 febbraio 1985 n. 12, che nell'art. 1, comma 8, ha prorogato gli stessi contratti considerati dalla l. n. 377 del 1984 di altri sei mesi, mentre la legge di conversione n. 118 del 1985 (art. 1, comma 9 bis) ha disposto anche il "rinnovo" dei medesimi negozi (e di quelli indicati alle lettere b) e c) del già cit. art. 67 l. n. 392 del 1978). Rinnovo che, al di là dell'espressione letterale adoperata, come tra breve si dirà, costituisce un'altra vera e propria proroga legale, rispetto alla quale la ricordata disposizione dell'art. 2 l. n. 377 del 1984 costituisce appunto il momento preliminare, essendo noto come, secondo la giurisprudenza ordinaria, la proroga (o il rinnovo) ha per indefettibile presupposto la pendenza del rapporto e non è quindi ammissibile quando questo si è comunque esaurito: il che si sarebbe verificato nella specie senza le due proroghe semestrali sopra indicate.
6. - Portando ora l'esame sul cit. art. 1, comma 9 bis, l. n. 118 del 1985, la cui legittimità costituzionale è messa in dubbio in tutti i rimanenti provvedimenti di rimessione, la Corte deve anzitutto esaminare due eccezioni di carattere preliminare. Con la prima i pretori di Roma e di Palermo rilevano che la norma del comma 9 bis sarebbe in contrasto col principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., in quanto essa, sebbene concernente la protrazione del rapporto locativo di immobili non abitativi, è stata inserita in un provvedimento legislativo finalizzato, come risulta anche dal suo titolo ("Misure finanziarie a favore delle aree ad alta tensione abitativa"), alla tutela del diritto all'abitazione. Con la seconda il pretore di Palermo deduce l'illegittimità costituzionale del d.l. n. 12 del 1985, che sarebbe in contrasto con l'art. 77 Cost. in quanto emanato in difetto dei requisiti della necessità e dell'urgenza.
È evidente però come la prima questione concerna la topografia della norma denunciata, la cui improprietà può essere criticabile sotto il profilo della tecnica legislativa, ma non può dar luogo ad un vizio di legittimità costituzionale, non sussistendo in proposito alcuna disposizione della nostra Carta fondamentale. Mentre, per quanto riguarda la seconda questione, a parte ogni altro rilievo, è da osservare che nel caso di specie il decreto suddetto è stato convertito in legge dal Parlamento.
7. - Ciò premesso, rileva la Corte che, durante i lavori preparatori della norma in esame, espressamente fu ripetuto che la nuova regolamentazione intendeva uniformarsi rigorosamente al principio enunciato nella più volte ricordata decisione n. 89 del 1984, principio che non venne affatto messo in discussione. La norma, pertanto, non era diretta - sempre secondo i lavori preparatori - a disporre una nuova proroga, ma perseguiva una finalità diversa, ossia quella di inserire i rapporti di locazione non abitativa ancora in corso (comprendendovi, oltre ai contratti indicati nell'art. 67, anche quelli di cui all'art. 71, non considerati nella l. n. 94 del 1982) nel regime ordinario della cit. l. n. 392 del 1978, attraverso l'istituto della rinnovazione, proprio di quest'ultima legge (artt. 27, 28 e 29).
Senonché non sembra alla Corte che la normativa de qua consenta di considerare realizzato l'intento suddetto, Così sul piano giuridico-formale come su quello dell'assetto sostanziale degli interessi, dovendosi invece ritenere che essa ha introdotto per l'appunto un'ulteriore proroga dei precedenti rapporti locativi.
Da ciò muove la denuncia delle ordinanze di rimessione, seguite, nelle more di questo giudizio, da numerose altre (tra cui una, di particolare rilievo, della Corte di cassazione), di contenuto analogo a quelle in epigrafe, e non incluse in questo giudizio solo per non essere state ancora compiute tutte le formalità prescritte dalla legge.
Non potendosi ritenere, a rigor di termini, che sussista sulla norma impugnata un'interpretazione consolidata, in quanto l'esperienza giurisprudenziale risulta esclusivamente dagli stessi provvedimenti di rimessione, ed essendo l'elaborazione dottrinale, d'altra parte, contenuta in limiti estremamente ristretti, non può la Corte non soffermarsi sull'oggetto della suddetta disposizione attualmente sottoposta al suo esame.
Al riguardo, va preliminarmente ricordato, - anche se l'argomento non ha peso decisivo - che la rubrica dell'impugnato art. 1 contiene l'espressione "proroga dei contratti...". È ben vero che le espressioni dei titoli e delle rubriche non hanno forza cogente per l'interprete, ma è altrettanto vero che esse non possono considerarsi completamente prive di significato, soprattutto quando, come nella specie, vi era al fondo un problema di scelta legislativa, con i conseguenti riflessi anche di carattere terminologico.
Comunque, di grande e decisiva importanza risulta la giuridica impossibilità di porre sullo stesso piano la cosiddetta rinnovazione di cui al cit. art. 1, comma 9 bis, e quella prevista dalla disciplina ordinaria (artt. 28 e 29 cit. l. n. 392 del 1978). Quest'ultima, invero, è caratterizzata dal fatto che le parti, nel momento in cui manifestano la volontà di stipulare, hanno contezza (e vogliono) che il rapporto, alla scadenza, si rinnoverà ove si verifichi un determinato fatto o atto (generalmente: la mancata disdetta). Nel caso in esame, per contro, la protrazione della durata del contratto è coattivamente imposta al locatore durante la pendenza del rapporto, sicché la rinnovazione prescinde dalla sua volontà ed anzi può ritenersi, secondo l'id quod plerumque accidit, che sia in contrasto con la medesima: con l'ovvia conseguenza che la formula letterale è nettamente smentita dall'essenza dell'istituto, nel quale deve chiaramente ravvisarsi la suddetta protrazione coattiva, ossia proprio quella proroga legale che in sede di formazione della legge si era espressamente dichiarato di voler ripudiare. E può aggiungersi che un elemento di conferma si ricava dallo stesso contesto della previsione normativa ("... il conduttore ha diritto al rinnovo..."), chiaramente espressiva della particolare posizione di soggezione del locatore e tipica della legislazione vincolistica, mentre rispetto alla rinnovazione prevista dalla disciplina comune le due parti sono poste su un piano paritetico (art. 28: "... il contratto si rinnova tacitamente...").
Né vale opporre l'aumentata entità del canone, il quale non corrisponde però a quello di mercato, come invece è previsto (ben s'intende, per gli immobili destinati ad uso diverso dall'abitazione) nella disciplina dettata dalla legge n. 392/1978, ma è fissato dalla norma denunciata in misura assai spesso inferiore, mediante il ricorso all'artificioso meccanismo che prende a base il canone iniziale, rivalutato secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo; questo meccanismo si presenta anche viziato da evidente irrazionalità per la frequente eventualità che le zone in cui si trovano gli immobili abbiano subito profonde modificazioni urbanistiche, con conseguenti mutamenti nel volume del traffico commerciale, sicché il canone a suo tempo convenuto non risulta più neppure approssimativamente indicativo della nuova realtà economico-sociale (di sviluppo ovvero di degrado).
L'impossibilità, infine, di considerare la normativa in esame come mezzo realmente diretto a ricondurre i contratti nella disciplina comune è resa più evidente dalla circostanza che la facoltà di non rinnovare il contratto, nel caso in cui il locatore "intenda" riottenere l'immobile per uno dei motivi di cui all'art. 29 l. n. 392/1978, è stata notevolmente ristretta, richiedendosi dalla legge impugnata che ricorra l'estremo della "necessità": previsione, questa, tipica del regime vincolistico e perciò estranea al principio di autonomia negoziale, che, come s'è detto, caratterizza, pur con sensibili limitazioni, la citata legge del 1978.
Da tutto ciò si trae il sicuro convincimento che la disciplina denunciata non può essere considerata come diretta a stabilire una regolamentazione riconducibile alla normativa comune, dovendosi, per contro, ravvisare la reintroduzione di una nuova proroga, pur essendo stato inequivocabilmente riconosciuto durante i lavori preparatori, come già s'è ricordato, che il ricorso ad essa sarebbe stato costituzionalmente illegittimo.
8. - Ciò detto, ritiene la Corte di dovere formulare due ulteriori considerazioni.
Da qualche parte si è affermato, peraltro in modo generico e assiomatico, che una disciplina come quella impugnata avrebbe impedito l'aggravarsi della disoccupazione che, altrimenti, si sarebbe verificata nell'ambito delle varie attività d'impresa e professionali.
Per contro, costituisce comune dato di esperienza che negli anni successivi a quello di emanazione della legge sull'equo canone (1978) vi è stato un notevolissimo aumento dell'attività imprenditoriale relativa alla fornitura di servizi, nuovi o tradizionali, resi dal mercato (e la diminuzione di quelli prestati dallo Stato e dagli enti pubblici) con il continuo sviluppo del settore economico cosiddetto terziario: il che ha comportato necessariamente l'esigenza di prendere in locazione gli immobili necessari per l'esercizio delle relative attività (locazioni stipulate sulla base del canone di mercato, secondo la citata legge n. 392 del 1978), senza che ciò abbia ostacolato ovvero costituito remora al ricordato sviluppo imprenditoriale.
Va inoltre rilevato che due ampie categorie di conduttori già operano con il canone corrente di mercato. Oltre a tutti quelli (e non sono pochi, in relazione a quanto ora detto) che hanno stipulato i contratti in questi ultimi otto anni, ossia successivamente all'entrata in vigore della legge n. 392 del 1978, si tratta altresl' di coloro che, in numero niente affatto trascurabile, a seguito di tale legge hanno raggiunto accordi con i locatori, sicché i relativi contratti sono ora assoggettati al regime ordinario.
Pertanto, la disciplina denunciata, lungi dal sacrificare legittimamente il diritto di proprietà per la tutela di interessi generali, si risolve obiettivamente, e di sicuro contro l'intenzione del legislatore, nell'attribuzione di un lucro ad esclusivo favore del limitato numero di conduttori a cui essa si applica.
9. - Da tutte le osservazioni ora formulate discende chiaramente come le proroghe disposte dalle norme censurate non possano più trovare giustificazione in un quadro normativo che, superato il lungo periodo di emergenza, dal quale era scaturita l'esigenza della legislazione eccezionale vincolistica, aveva riportato dopo vari decenni (con la l. n. 392 del 1978) la materia nel regime ordinario.
Il periodo transitorio stabilito dagli artt. 67 (con il successivo ampliamento di cui all'art. 15 bis l. n. 94 del 1982) e 71 era stato fissato con dimensioni tali da permettere un'ulteriore durata, eccezionalmente ampia, della disciplina vincolistica. Sicché le ulteriori proroghe, e in particolare quella ex art. 1, comma 9 bis, in effetti si risolvono nell'irrazionale ripristino della legislazione eccezionale e temporanea e perciò offendono la coerenza dell'ordinamento, di cui la nuova legge del 1978 forma ormai parte integrante, in sostituzione della corrispondente normativa codicistica: ne risulta violato il diritto che la Costituzione, nell'art. 42, ha inteso riconoscere e proteggere da interferenze non giustificate da quella necessità di tutelare un interesse generale, che integra il limite della funzione sociale della proprietà stessa.
Non è, per contro, pertinente alla materia qui esaminata la tutela dell'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), che pure è stata invocata, giacché - come la Corte ha più volte osservato (sentt. n. 252 del 1983, 89 del 1984, ord. n. 87 del 1985) - non è ravvisabile alcuna attività di impresa del locatore.
10. - D'altronde, non può la Corte esimersi dal rilevare che la disciplina impugnata risulta anche in contrasto con l'art. 3 Cost. Valgono in proposito le considerazioni svolte nel precedente paragrafo n. 8 e si deve inoltre aggiungere che tale disciplina pone una proroga generalizzata ed indifferenziata, senza una previa valutazione comparativa delle condizioni economiche del conduttore e del locatore: valutazione la quale sarebbe stata invece indispensabile per intuitive ragioni di giustizia sociale, del resto espressamente richiamate dalla Corte all'attenzione del legislatore (cfr. in particolare la sent. n. 3 del 1976). Dalle norme in esame può infatti conseguire, con evidente frattura del più elementare criterio logico, che, in mancanza di elementi discriminatori, categorie di conduttori economicamente più forti si arricchiscano ai danni di categorie di locatori i quali si trovano in una posizione economica più debole: e ciò risulta in stridente contrasto con il principio di eguaglianza tutelato dal ricordato precetto, costituzionale, che non consente sovvertimenti del genere, i quali si appalesano senza dubbio macroscopicamente irrazionali e contrari ai principi della nostra Costituzione.
11. - Va quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma impugnata dal pretore di Bettola, illegittimità che, in applicazione dell'art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87, si estende anche all'art. 1, commi 8 e 9, d.l. 7 febbraio 1985 n. 12 convertito nella legge 5 aprile 1985 n. 118, il quale ha ampliato la previsione normativa denunciata e conseguentemente risulta parimenti viziato.
Deve poi essere dichiarata, in base alle precedenti osservazioni, l'illegittimità costituzionale del comma 9 bis dell'art. 1, ora ricordato, nonché dei commi 9 ter, quater e quinquies, pure impugnati dalle ordinanze di rimessione, i quali trovano il necessario presupposto nella disposizione viziata.
La caducazione del comma 9 bis, espressamente abrogativo dell'art. 69 l. n. 392/1978, importa, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sent. n. 107 del 1974), il ripristino della norma precedentemente abrogata, dalla quale saranno di conseguenza regolati i rapporti giuridici in essa considerati. È probabile che, nell'applicazione di tale norma, possano sorgere incertezze interpretativi, essenzialmente derivanti dalla temporanea vigenza di quella attualmente annullata: in particolare, in materia di termini di decadenza potrebbe profilarsi il pericolo di un pregiudizio della parte che non abbia fatto valere tempestivamente (nei termini stabiliti nel testo originario del cit. art. ora ripristinato) le proprie ragioni, scusabilmente fondandosi sulla efficacia della norma ora dichiarata incostituzionale; pregiudizio che contrasterebbe certamente con lo spirito della presente pronuncia perché lesivo delle posizioni soggettive, costituzionalmente rilevanti, qui considerate e tutelate. A tutto ciò non può ovviare questa Corte, per la sua posizione istituzionale, ma deve provvedere la giurisprudenza ordinaria, come già ha fatto recentemente in casi simili, salvo che se ne occupi il legislatore per adeguare in via normativa il sistema vigente alla presente decisione.
12. - La pronuncia di illegittimità costituzionale non si estende ai commi 9 sexies, septies et octies del cit. art. 1, in quanto essi contengono disposizioni che non si riferiscono affatto alle innovazioni dallo stesso apportate ma concernono la regolamentazione ordinaria della locazione di immobili urbani per uso non abitativo. Precisamente, con il primo dei commi ora detti sono disciplinate diversamente le modalità di revisione del canone, in sostituzione di quelle previste dall'art. 32 della l. n. 392 del 1978, mentre con gli altri due il legislatore ha inteso eliminare le incertezze ermeneutiche relative al criterio discriminatore, in tema di attività alberghiera, tra locazione di immobile, al quale si applica la ricordata l. n. 392 del 1978, e affitto di azienda, a cui invece detta disciplina non sarebbe riferibile (sul punto, com'è noto, è stata peraltro eccepita da vari giudici una ingiustificato disparità di trattamento): e ha fornito la definizione dei due tipi contrattuali, statuendo che "si ha locazione di immobile e non affitto di azienda, in tutti i casi in cui l'attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore". Tale norma, insieme a quella del comma 9 octies, che detta la disciplina transitoria della medesima materia, è chiaramente estranea all'oggetto di questo giudizio e pertanto non rimane coinvolta nella presente pronuncia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, l. 25 luglio 1984 n. 377;
2) in applicazione dell'art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 8 e 9, del d.l. 7 febbraio 1985 n. 12 convertito nella l. 5 aprile 1985 n. 118;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 9 bis, 9 ter e 9 quater e 9 quinquies, del cit. d.l. 7 febbraio 1985 n. 12 convertito nella legge 5 aprile 1985 n. 118.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 1986.
Massima n. 4391
Una volta che sia intervenuta la conversione in legge, perdono rilievo le censure rivolte al decreto legge (convertito), tanto piu` se venga denunciata dalle ricorrenti (regioni) la insussistenza dei presupposti - di straordinaria necessita` e urgenza - richiesti per la legittima adozione del decreto, da parte del Governo, ai sensi dell'art. 77 Cost., dal momento che tale censura non riguarda la sfera delle competenze regionali. (Non fondatezza, ai sensi di cui in motivazione, della questione di legittimita` costituzionale, proposta in via principale in riferimento all'art. 77 Cost., del d.l. 22 aprile 1985, n. 144). - S. nn. 55/1977, 34/1985.
composta dai signori: Presidente: prof. Virgilio ANDRIOLI; Giudici: prof. Giuseppe FERRARI, dott. Francesco SAJA, prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, prof. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del d.l. 22 aprile 1975, n. 144 recante "Norme per l'erogazione di contributi finalizzati al sostegno delle attività di prevenzione e reinserimento dei tossicodipendenti, nonché per la distruzione di sostanze stupefacenti e psicotrope sequestrate e confiscate" e degli artt. 1, 1- bis , 1- ter , 1-quater e 2 della legge 21 giugno 1985, n. 297 di conversione con modificazioni del predetto d.l. n. 144/1985, promossi con ricorsi delle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, notificati il 22 e 23 maggio, il 18 e il 22 luglio 1985, depositati in cancelleria il 29 maggio, il 3 giugno, il 26 e 29 luglio 1985 ed iscritti ai nn. 23, 24, 25, 29, 30, 31 e 32 del registro ricorsi 1985.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1987 il Giudice relatore Francesco Greco;
Uditi gli avv.ti Gaspare Pacia per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Valerio Onida per le Regioni Lombardia ed Emilia-Romagna, Enzo Cheli per la Regione Toscana e l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - I giudizi possono essere riuniti e decisi con una unica sentenza in quanto prospettano questioni identiche o connesse.
2. - La Regione Friuli-Venezia Giulia ha impugnato l'art. 1 del d.l. 22 aprile 1985 n. 144 (Reg. Ric. n. 23 del 1985) assumendo che esso, nella parte in cui prevede l'erogazione da parte del Ministero dell'Interno di contributi statali a favore di soggetti, pubblici o privati, che svolgono, senza fini di lucro, attività di prevenzione dell'emarginazione nonché di reinserimento sociale dei tossicodipendenti, violerebbe la sfera di competenza assegnatale dall'art. 5, n. 16, dello Statuto speciale (legge cost. 31 gennaio 1963 n. 1) e dalle relative norme di attuazione (artt. 1 d.P.R. 9 agosto 1966 n. 869 e 9 d.P.R. 25 novembre 1975 n. 902).
Ha, successivamente, impugnato (Reg. Ric. n. 30/1985) gli artt. 1 e 1- bis nel testo risultante dalla legge di conversione (legge 21 giugno 1985 n. 297) aggiungendo alle ragioni già esposte, la circostanza che in materia sono state già emanate le leggi regionali 23 agosto 1982 n. 57 che disciplina minutamente la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle tossicodipendenze e 6 novembre 1982 n. 74 che, tra l'altro, regola anche la collaborazione con enti ed associazioni di volontariato, per il recupero ed il reinserimento sociale dei tossicodipendenti. Sostiene che la già denunciata illegittimità è aggravata dall'avvenuto abbandono del connotato della provvisorietà caratterizzante il decreto legge e dalla concezione dell'intervento del Ministero dell'Interno come un'attribuzione normale, parallela a quella regionale e, quindi, riduttiva anche delle risorse economiche di cui essa ricorrente potrebbe giovarsi.
2.1. - Le Regioni Lombardia ed Emilia Romagna, con distinti ricorsi (Reg. Ric. nn. 24 e 25 del 1985), dello stesso decreto legge n. 144 del 1985 hanno censurato oltre che l'art. 1 anche l'art. 2 il quale disciplina l'entità degli stanziamenti e la loro collocazione nello stato di previsione, per violazione:
a) degli artt. 117, 118, 119 Cost. in relazione agli artt. 22, 27 e 126, comma terzo, del d.P.R. n. 616 del 1977, alla legge 28 dicembre 1978 n. 833, agli artt. 2, 90, 94 e 103 della legge 22 dicembre 1975 n. 685, risultando invasa la sfera della loro competenza in materia;
b) dell'art. 77 Cost. per la insussistenza della necessità di provvedere con decretazione di urgenza.
2.2. - Le stesse Regioni hanno proposto (Reg. Ric. nn. 31 e 32 del 1985) la impugnazione contro la legge di conversione n. 297 del 1985 non solo degli stessi articoli ma anche degli artt. 1-quater e 2 contenente la disciplina delle domande di contributi e gli stanziamenti in bilancio statale.
Assumono che le norme censurate attengono alle competenze spettanti alle Regioni in materia di sanità (art. 27 d.P.R. n. 616 del 1977 e legge n. 833 del 1976) e di assistenza sociale (art. 22 d.P.R. n. 616 del 1977) come confermato dalla legge 22 dicembre 1975 n. 685 che ha devoluto (art. 2) alle Regioni l'esercizio delle funzioni necessarie ad assicurare la cura, il reinserimento sociale e la riabilitazione dei tossicodipendenti (art. 90, comma secondo) ed ha previsto anche le strutture relative (art. 90, commi terzo e quarto), la utilizzazione della collaborazione di enti ed istituzioni pubbliche e private, agenti senza fine di lucro, per la realizzazione degli stessi fini; lo stanziamento di fondi a carico del bilancio del Ministero della Sanità e le modalità dell'utilizzo.
Sostengono che le predette norme escludono la competenza delle Regioni anche per quanto riguarda il rapporto con le organizzazioni del volontariato; creano nuovi organismi aggravando così la emarginazione di esse ricorrenti; stanziano somme notevolmente superiori a quelle destinate nel bilancio del Ministero della Sanità agli stessi fini, in contrasto con l'art. 126, terzo comma, del d.P.R. n. 616 del 1977 che fa divieto di istituire nel bilancio statale capitoli di spesa con finalità inerenti alle funzioni trasferite.
Le ricorrenti assumono, poi, di avere già legiferato in materia: la Regione Lombardia con la legge regionale 30 marzo 1983 n. 21 (finanziamento di interventi finalizzati alla lotta contro le tossicodipendenze) e con altra legge regionale approvata il 20 marzo 1985 di completamento della disciplina precedente (rinviata dal Governo per motivi formali).
La Regione Emilia Romagna con le leggi regionali nn. 6 e 15 del 1981 e n. 2 del 1985, contenenti programmi organici di interventi con strutture e finanziamenti anche in materia.
Contestano, infine, la ricorrenza dei presupposti per la decretazione di urgenza sussistendo già le strutture regionali, la previsione della collaborazione con associazioni di volontariato e con organismi che, siccome operanti a livelli territoriali limitati, davano garanzia di una migliore operatività anche perché sottoposti a controlli regionali; rilevano la insussistenza di una presunta temporaneità, essendo previsti finanziamenti triennali ed una pluralità di termini annuali per la presentazione delle domande.
2.3. - Anche la Regione Toscana ha impugnato le stesse norme (Reg. Ric. n. 29 del 1985) nonché l'art. 1- ter della legge n. 297 del 1985 che demanda alle Province di Trento e Bolzano l'attuazione, secondo le modalità dei rispettivi ordinamenti, delle finalità della legge in quanto lesive della sfera della sua competenza.
Ha, inoltre, specificato che essa ha già dato attuazione alla legge n. 685 del 1975 in tutti i suoi profili e con legge regionale 6 dicembre 1984 n. 70 ha approvato un intervento programmatico prioritario in materia di assistenza ai tossicodipendenti.
3. - Non è fondata la questione che concerne la violazione dell'art. 77 Cost., sollevata dalle Regioni Lombardia ed Emilia Romagna nel rilievo della mancanza dei presupposti della decretazione di urgenza e dell'avvenuta regolamentazione della materia con le leggi regionali da esse emanate.
Anzitutto l'avvenuta conversione in legge del decreto legge fa ritenere superate le proposte censure.
Inoltre, come questa Corte ha più volte affermato (sentenze nn. 55/1977 e 34/1985), la questione della sussistenza o meno delle condizioni per la decretazione di urgenza non riguarda la sfera delle competenze regionali.
4. - Le altre censure non sono fondate per quanto si dirà.
Lo Stato, anche in adempimento degli obblighi internazionali assunti (Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961 e protocollo di emendamenti adottato a Ginevra il 25 marzo 1971, ratificata con legge 5 giugno 1974 n. 412), si è assunto il compito di debellare il fenomeno della tossicodipendenza in tutti i suoi complessi aspetti ed in tutte le sue implicanze ed effetti dannosi.
Si ricorda che l'art. 38 della detta convenzione, modificato dall'art. 15 del protocollo di emendamento, stabilisce che gli Stati adotteranno le misure più idonee per assicurare la pronta diagnosi, la cura, la post-cura, la riabilitazione ed il reinserimento sociale delle persone interessate.
Per una più completa e radicale disciplina della materia, a modifica della legislazione precedente, con la legge n. 685 del 1975, lo Stato ha trasferito alle Regioni le funzioni per la prevenzione e l'intervento contro l'uso non terapeutico delle sostanze stupefacenti e psicotrope per i suddetti fini (diagnosi, cura, riabilitazione e reinserimento sociale degli interessati) riservandosi funzioni di indirizzo e di coordinamento con poteri di autorizzazione, di controllo, di vigilanza e di sostituzione in caso di inerzia delle Regioni, non solo perché fosse assicurato l'adempimento degli obblighi internazionali assunti ma anche perché l'azione da svolgere risultasse più organica ed uniforme per la tutela degli interessi unitari nazionali e la garanzia dei valori riconosciuti dalla Costituzione (artt. 18 e 32 Cost.; sent. n. 31 del 1983).
4.1. - Tuttavia, il fenomeno della tossicodipendenza non risultava sconfitto anzi si diffondeva con gravi implicanze sul piano della criminalità che, anche per effetto di essa, risultava in forte aumento.
Si constatavano deficienze e carenze sul piano operativo, per la mancanza di servizi appositamente strutturati e finalizzati a realizzare gli aspetti sociali della prevenzione, della cura e, soprattutto, del recupero della personalità dei tossicodipendenti per il loro reinserimento nella famiglia e nella società.
Le strutture sanitarie avevano svolto una funzione piuttosto di tipo medicalizzante, sostituendo, in molti casi, all'uso della droga interventi farmacologici e terapie di solo mantenimento sicché il soggetto non raggiungeva il necessario equilibrio personale onde la sussistenza, in concreto, del pericolo di una ripresa dell'uso della droga.
Non era di per sé sufficiente la sola disintossicazione dell'organismo, ma più utile e proficua era la impostazione di rapporti interpersonali ed un più o meno lungo processo socio-pedagogico per vincere la dipendenza psichica, il cui superamento era importante quanto quello della dipendenza fisica.
Era risultata più utile e produttiva degli effetti sperati la permanenza dei tossicodipendenti in comunità terapeutiche organizzate da associazioni di volontariato o da privati con ben determinati programmi di recupero sociale nei quali, accanto alle terapie mediche e psico-mediche, si ponevano attività di lavoro e di studio. Utile era la vita in comune, con lo svolgimento del lavoro liberamente scelto e gradito, o la continuazione degli studi sospesi o interroti, senza costrizioni o vincoli di sorta, per riacquistare il perduto equilibrio e le necessarie difese contro un possibile ritorno all'uso della droga.
Il volontariato aveva assunto anche un ruolo politico-sociale perché realizzava la partecipazione popolare alla lotta contro il grave flagello della droga.
Esso, quindi, era meritevole di considerazione, di affidamento e di sostegno, per gli sforzi compiuti e da compiere, implicanti la necessità di adeguati mezzi economici.
4.2. - Del resto il ricorso al volontariato era già stato previsto nella legge n. 697 del 1975 e dalla legge n. 833 del 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale.
La norma (art. 45) in quest'ultima contenuta, nella sua generalità era riferibile ad ogni tipo di associazioni: quelle animate da spirito caritativo e filantropico, con propositi e finalità di tutela dell'interesse della collettività alla salute (associazioni di consumatori, sindacati, comitati di quartiere ecc.) e persino le occasionali aggregazioni che si formano allorché il diritto alla salute è concretamente minacciato. Le dette associazioni agiscono in collaborazione con le unità sanitarie locali nell'ambito della programmazione e della legislazione sanitaria regionale.
In via generale si nota che il volontariato è diffuso ormai largamente nel campo del diritto pubblico e si pone come uno strumento utile per sopperire a carenze delle strutture pubbliche, come nuovo modello di cura di interessi pubblici e di esercente attività idonee a conseguire fini sociali senza avere scopi di lucro e, anche per questa ragione, con ampia libertà di organizzazione.
In definitiva svolge un ruolo che la stessa Costituzione prevede (art. 18 Cost.).
5. - La avvertita necessità della riforma si era evidenziata con la presentazione in Parlamento di numerose proposte legislative ad iniziativa di vari gruppi parlamentari e di un organico disegno di legge del Governo (n. 2195 del 24 ottobre 1984). Ma la previsione di un lungo iter legislativo per la complessità della materia e dei problemi da affrontare e l'urgenza e la indifferibilità della disciplina di alcuni aspetti, risultanti anche dall'attenzione dell'opinione pubblica, hanno consigliato il ricorso a un decreto legge poi convertito in legge.
5.1. - Con il decreto legge n. 144 del 1985 e la legge di conversione n. 297 del 1985, che ha sostituito alcuni articoli del d.l. e ne ha aggiunti altri, sono stati disciplinati tre aspetti del fenomeno della tossicodipendenza.
Con gli artt. 1-bis, 1- ter e 1-quater è stata prevista l'erogazione di contributi, tra gli altri, ad alcuni enti ed associazioni di volontariato che operano nel campo del recupero e del reinserimento sociale dei tossicodipendenti con un apposito procedimento nonché la sistemazione delle somme relative nel bilancio dello Stato (art. 2). E questa parte è oggetto dell'impugnazione delle Regioni ricorrenti.
Con gli artt. 3, nuovo testo, a sostituzione dell'art. 80- bis della legge n. 685 del 1975, e l'aggiunta degli artt. 80- ter e quater, a sostituzione dell'art. 23 e l'abrogazione degli artt. 24 e 25 della stessa legge n. 685 del 1975, sono state emanate disposizioni per la distruzione delle sostanze stupefacenti e psicotrope sequestrate e confiscate, per il quantitativo non necessario ai fini di giustizia, per impedirne la possibile reimmissione nel mercato.
Dopo l'art. 4 del d.l. cit., in aggiunta all'art. 47 della legge n. 354 del 1975, sono stati inseriti gli artt. 4-bis, ter, quater, quinquies e sexies con i quali si sono conciliati la sanzione penale, il recupero ed il reinserimento nella società dei tossicodipendenti.
Per quelli già condannati si è previsto l'affidamento in prova al servizio sociale e la possibilità per essi di continuare il programma di recupero, eventualmente in corso, anche presso le comunità terapeutiche e le associazioni di volontariato; per quelli colpiti da provvedimenti restrittivi della libertà personale, i quali si trovassero nella fase di recupero, la possibilità di continuare il relativo programma, impedendosi così una sua dannosa interruzione.
Dal contesto dell'intera legge vanno desunte, anzitutto, le ragioni della nuova disciplina.
Del complesso fenomeno della tossicodipendenza si sono voluti disciplinare gli aspetti incidenti sulla criminalità, sulla sicurezza pubblica e sull'ordine pubblico inteso in senso ampio, sia pure con un ricorso privilegiato alla intensificazione della fase di recupero e di reinserimento dei soggetti nella famiglia e nella società.
Trova, quindi, giustificazione l'intervento del Ministro dell'Interno piuttosto che del Ministro della Sanità.
Ma, ai fini dell'esame delle questioni sollevate, va rilevato che la materia disciplinata è di competenza dello Stato piuttosto che delle Regioni.
Per quanto più specificamente riguarda l'erogazione dei contributi si osserva che le norme relative hanno durata limitata e temporanea.
È, infatti, testualmente statuito che l'erogazione dei contributi avviene secondo le modalità previste fino a quando non sarà regolata, con una nuova normativa legislativa, la disciplina dei rapporti di enti e associazioni di volontariato che operano sul territorio nazionale nel campo del recupero e del reinserimento sociale dei tossicodipendenti (artt. 1 e 2 della legge n. 297 del 1985).
Inoltre, sono previsti stanziamenti di bilancio per un triennio (1985-1987) ormai scaduto (art. 2 del d.l. n. 144 del 1985).
Dall'esame delle norme che interessano risulta che destinatari dell'erogazione dei contributi sono oltre i Comuni e le unità sanitarie locali, anche altri enti, nonché le associazioni di volontariato, le cooperative ed i privati che operano, senza scopo di lucro, e che l'erogazione avviene tramite l'ente locale che certamente può essere anche la Regione.
È previsto un coordinamento delle attività svolte a mezzo delle apposite convenzioni stipulate con le unità sanitarie locali (artt. 1 e 1- bis stessa legge).
Si esige la garanzia del diritto di autodeterminazione dei tossicodipendenti e la esclusione di interventi violenti (art. 1- bis).
Si richiedono, poi, altre condizioni:
a) la dimostrazione della effettiva realizzazione dei servizi e delle iniziative corredata dal parere dell'ente locale che non si esclude possa essere la Regione;
b) la presentazione dei bilanci con l'indicazione dei risultati raggiunti (art. 1-bis, nn. 2 e 3).
La ripartizione dei contributi avviene in base ai dati forniti dall'osservatorio permanente, che è presso il Ministero dell'Interno al quale le Regioni possono certamente far pervenire elementi riguardanti il loro territorio, e secondo criteri e requisiti determinati dalla Commissione Speciale, istituita presso la Presidenza del Consiglio, composta, oltre che dai rappresentanti di vari Ministeri, da quelli di tre Regioni e Comuni designati, rispettivamente, dalla conferenza dei presidenti delle Regioni e dall'Anci.
La Commissione, in base ai criteri ed ai requisiti, formula al Ministero dell'Interno le proposte riguardanti la concessione dei contributi riferiti alle domande presentate.
L'interpretazione delle norme, nel loro complesso, e la prevista partecipazione nel procedimento degli enti locali, tra cui sono da comprendersi certamente le Regioni, porta a non escludere il loro intervento e la loro partecipazione anche nella fase della formulazione dei pareri e delle proposte.
Non si può, quindi, escludere un'intesa ed una collaborazione tra Stato e Regioni in un campo che, in definitiva, interessa entrambi sebbene la materia disciplinata dalle norme in esame riguardi più specificamente lo Stato che può utilizzare i Comuni come enti di decentramento in materia di competenza statale.
Inoltre, resta ferma la competenza delle Regioni per gli aspetti del fenomeno afferenti al campo dell'igiene, della sanità e dall'assistenza.
E rimane integra la legislazione apprestata dalle stesse Regioni che concorre con quella statale che ad essa non si sovrappone.
6. - Non è certamente lesa l'autonomia finanziaria delle Regioni ed in particolare non risulta violato l'art. 126, comma terzo, del d.P.R. n. 616 del 1977, che fa divieto di istituire, nel bilancio statale, capitoli di spesa con finalità inerenti alle funzioni trasferite.
Anzitutto la materia finanziata con le norme impugnate (art. 2 d.l. n. 144 del 1985) non rientra tra quelle trasferite alle Regioni, come si è detto innanzi.
Inoltre non risulta intaccato il finanziamento delle Regioni in quanto il capitolo del Ministero del Tesoro, indicato (il n. 6856 del Ministero del Tesoro) per la materia disciplinata dalle norme censurate, riguarda il fondo occorrente per fare fronte ad oneri dipendenti da provvedimenti legislativi in corso e l'accantonamento delle somme relative alla voce del bilancio del Ministero dell'Interno per le misure urgenti in materia di lotta alla droga.
Non hanno rilievo le critiche mosse dalle ricorrenti alla legge in ordine alle modalità della sua attuazione (procedure complesse ed eventuali ritardi per la concessione dei contributi ecc.) mentre la riserva delle competenze delle Province autonome di Trento e Bolzano non incide direttamente nella sfera delle competenze delle ricorrenti.
Pertanto, tutte le questioni sollevate vanno dichiarate non fondate ai sensi di cui in motivazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate, ai sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 1-bis, 1-ter, 1-quater, 2 del d.l. 22 aprile 1985 n. 144 (Norme per l'erogazione di contributi finalizzati al sostegno delle attività di prevenzione e di reinserimento dei tossicodipendenti nonché per la distruzione di sostanze stupefacenti e psicotrope sequestrate e confiscate), nel testo risultante dalla legge di conversione 21 giugno 1985 n. 297, sollevate dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia (Reg. Ric. nn. 23 e 30/1985) Lombardia (Reg. Ric. nn. 24 e 31/1985), Emilia Romagna (Reg. Ric. nn. 25 e 32/1985) e Toscana (Reg. Ric. n. 29/1985), in riferimento agli artt. 77, 117, 118 e 119 Cost. nonché all'art. 5, n. 16, della legge costituzionale 31 gennaio 1963 n. 1.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 1987.
Massima n. 14167
Non e' ammissibile il giudizio di costituzionalita' - in riferimento all'art. 77 Cost. - nei confronti di una norma che, contenuta in un decreto-legge non convertito, sia stata riprodotta in successivo decreto-legge, convertito senza modifiche al testo della norma stessa. (Manifesta inammissibilita' della questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, ultimo comma, del d.l. 23 gennaio 1982 n. 9, sollevata in riferimento all'art. 77 Cost.).
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art.15, ultimo comma, del d.-l. 23 gennaio 1982, n. 9 "Norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti", promosso con ordinanza emessa il 12 febbraio 1982 dal Pretore di Napoli nel procedimento civile vertente tra Capezzuto Giovanni e Portarapillo Giuseppe, iscritta al n.183 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 255 dell'anno 1982;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1988 il Giudice relatore Enzo Cheli;
Ritenuto che nel giudizio promosso dinanzi al pretore di Napoli da
Giuseppe Portarapillo, locatore di un appartamento, al fine di ottenere la
revoca di un decreto emesso dallo stesso pretore in data 18 gennaio 1982 (sotto
la vigenza del d.-l. 20 novembre 1981 n. 663) con il quale era stata
dilazionata sino al 31 marzo 1982 la data di esecuzione dello sfratto
pronunciato con sentenza 4 dicembre 1980 (confermata in appello il 16 ottobre
1981) a carico del conduttore Giovanni Capezzuto, il giudicante, con ordinanza
del 12 febbraio
che, nel giudizio a quo, il locatore ha posto a fondamento della sua domanda il fatto che il conduttore, in base alla normativa contenuta nel d.-l. 23 gennaio 1982 n. 9 (emanato dopo la decadenza del d.-l. n. 663/1981) non avrebbe diritto ad alcuna dilazione della data di esecuzione dello sfratto in quanto risulta dagli atti che, per l'anno 1980, mentre il locatore non ha percepito alcun reddito, l'inquilino ha percepito un reddito di L. 4.508.121;
che, secondo il giudice rimettente, sarebbe di ostacolo all'accoglimento dell'istanza di revoca la disposizione dell'art. 15, ultimo comma, del d.-l. n. 9 del 1982 secondo cui "i provvedimenti...emessi ai sensi degli artt. 10 e 12 del d.-l. 20 novembre 1981 n. 663...conservano la loro efficacia";
che, ad avviso dello stesso giudice, la suddetta disposizione - conferendo una sorta di ultrattività temporale ad una norma contenuta in un precedente decreto-legge non convertito - violerebbe l'art. 77 Cost. che attribuisce alle Camere, e non al Governo, il potere di regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti e comunque non consente di conferire ulteriore vigenza ai decreti decaduti;
che, sempre secondo il giudice rimettente, la norma impugnata si porrebbe anche in contrasto con l'art. 3 Cost., fissando, per la proroga degli sfratti contemplati nel decreto-legge n. 9 del 1982, requisiti di reddito diversi da quelli previsti in precedenza dal d.-l. 663 del 1981, con una arbitraria disparità di trattamento tra inquilini che versano nelle stesse condizioni economiche a seconda del tempo in cui sia stata avanzata la richiesta di proroga;
che nessuna delle parti del giudizio a quo si è costituita dinanzi a questa Corte, mentre ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza della questione;
Considerato che il d.-l. 23 gennaio 1982 n. 9 è stato convertito nella legge 25 marzo 1982 n. 94 senza che il testo dell'art. 15, ultimo comma, del decreto-legge abbia subito alcuna modifica;
che per effetto dell'avvenuta conversione in legge del d.-l. n. 9 del 1982 perde ogni rilievo e non può trovare ingresso nel giudizio dinanzi a questa Corte la censura formulata con riferimento all'art. 77 Cost. ed in particolare alla esclusiva competenza delle Camere nel disciplinare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti;
che pertanto la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione all'art. 77 Cost. va dichiarata manifestamente inammissibile;
che, sotto il diverso profilo della pretesa violazione dell'art. 3 Cost., la questione può essere affrontata nel merito, in quanto il contenuto della disposizione impugnata è stato recepito senza modificazioni dalla legge di conversione;
che, peraltro, la diversità di trattamento che si lamenta nell'ordinanza di rinvio risulta determinata da valutazioni discrezionali del legislatore connesse alla naturale diversificazione delle situazioni soggettive che il trascorrere del tempo ha prodotto in relazione all'evoluzione della disciplina delle locazioni;
che per questa ragione la questione va dichiarata manifestamente infondata;
Visti gli artt. 26, secondo comma, legge 11 marzo 1953 n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, ultimo comma, del d.-l. 23 gennaio 1982 n. 9 sollevata, in riferimento all'art. 77 Cost., dal Pretore di Napoli con l'ordinanza in epigrafe;
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 15, ultimo comma, d.-l. 23 gennaio 1982 n. 9 (così come recepito nell'articolo unico della L. 25 marzo 1982 n. 94) sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., con la stessa ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1988.
Massima n. 15636
A seguito della conversione in legge, senza modifiche, di un decreto legge, non possono piu' trovare ingresso nel giudizio di costituzionalita' le censure ad esso relative, formulate con riguardo ai limiti dei poteri del Governo nell'adozione reiterata di tali provvedimenti e alla esclusiva competenza delle Camere a disciplinare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti- legge non convertiti. (Manifesta inammissibilita' della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, del d.l. 26 maggio 1984, n. 158 - rectius: art. 6, del d.l. 25 gennaio 1985, n. 8 - denunziato, in riferimento agli artt. 77, terzo comma, 24, primo comma, e 101, secondo comma, Cost.).
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.l. 26 maggio 1984, n. 158 "Ripiano dei disavanzi di amministrazione delle unità sanitarie locali al 31 dicembre 1983 e norme in materia di convenzioni sanitarie", promosso con ordinanza emessa il 22 febbraio 1985 dal Tribunale di Firenze nei procedimenti civili riuniti vertenti tra l'Amministrazione del Tesoro e Masi Angiolo ed altro, iscritta al n. 248 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 202 bis dell'anno 1985;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1988 il Giudice relatore Enzo Cheli;
Ritenuto che nel giudizio d'appello promosso dal Ministro del
Tesoro - quale rappresentante ex lege dei disciolti enti mutualistici - avverso
due sentenze del Pretore di Lucca, rispettivamente del 28 ottobre 1982 e del 15
novembre 1982, con le quali era stato dichiarato il diritto di Angiolo Masi e Marrigo
Simonetti, medici convenzionati, a ricevere la maggiorazione periodica dei loro
compensi secondo l'andamento del costo della vita ai sensi dell'art. 11 della
convenzione 14 luglio 1973 stipulata tra vari enti mutualistici e
che la norma impugnata opera un'interpretazione autentica degli artt. 11, primo comma, della legge 29 giugno 1977 n. 349 e 8, sesto comma, del d.l. 8 luglio 1974 n. 264, convertito con modificazioni nella legge 17 agosto 1974 n. 386, stabilendo che tali articoli vanno intesi come norme che dispongono il blocco delle tariffe dei medici convenzionati con i soppressi enti mutualistici, in attesa delle nuove tariffe previste dalla legge di riforma sanitaria;
che, ad avviso del giudice a quo, l'art. 6 del d.l. n. 8 del 1985, ripetendo fedelmente il testo dell'art. 6 di cinque precedenti decreti legge non convertiti (il d.l. n. 41 del 28 marzo 1984, il d.l. n. 158 del 26 maggio 1984, il d.l. n. 371 del 25 luglio 1984, il d.l. n. 597 del 21 settembre 1984, il d.l. n. 790 del 28 novembre 1984), avrebbe posto in essere - in violazione dell'art. 77 Cost. - "una sorta di conferma d'efficacia" dei cinque precedenti decreti legge non convertiti o, quanto meno, avrebbe realizzato un prolungamento di ulteriori sessanta giorni del termine di conversione "rimuovendo la precisa volontà della Costituzione in ordine ai limiti della potestà governativa di emanare norme con valore di legge ordinaria";
che, inoltre, secondo il Tribunale rimettente, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 24 Cost., facendo sì che, per effetto di una illegittima iniziativa del Governo, la funzione di accertamento della volontà della legge ad opera del giudice rimanga impedita fino a quando le disposizioni del decreto legge siano suscettibili di consolidarsi per effetto della conversione in legge o perdano efficacia per la decorrenza del termine di sessanta giorni dalla pubblicazione;
che, sempre ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe anche l'art. 101, secondo comma Cost., poiché l'iniziativa governativa si risolverebbe in un assoggettamento non consentito e temporalmente indeterminato dei giudici alla volontà del Governo invece che della legge;
che nessuna delle parti del giudizio a quo si è costituita, mentre ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, argomentando e concludendo per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza della questione;
Considerato che la disposizione impugnata dinanzi a questa Corte è l'art. 6 del d.l. 25 gennaio 1985 n. 8, cui si riferiscono tutte le censure formulate dal giudice a quo nella motivazione dell'ordinanza di rinvio, e non l'art. 6 del d.l. 26 maggio 1984 n. 158, che risulta erroneamente menzionato nel solo dispositivo dell'ordinanza stessa;
che il citato d.l. 25 gennaio 1985 n. 8 è stato convertito nella legge 27 marzo 1985 n. 103, senza che il testo dell'art. 6 del decreto legge abbia subito alcuna modifica;
che, per effetto dell'avvenuta conversione in legge del d.l. n. 8 del 1985 perdono ogni rilievo e non possono più trovare ingresso nel giudizio dinanzi a questa Corte le censure di illegittimità costituzionale dedotte dal giudice a quo, censure che sono tutte formulate con riguardo ai limiti dei poteri del Governo nell'adozione reiterata dei decreti-legge e con riferimento alla esclusiva competenza delle Camere a disciplinare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti;
che per queste ragioni la questione va dichiarata manifestamente inammissibile;
Visti gli artt. 26, secondo comma, legge 11 marzo 1953 n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.l. 26 maggio 1984 n. 158 (rectius: art. 6 del d.l. 25 gennaio 1985 n. 8) sollevata, in riferimento agli artt. 77, terzo comma, 24, primo comma e 101, secondo comma, Cost. dal Tribunale di Firenze con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1988.
Massima n. 13279
Ove
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7, 8 e 9 del d.l. 23 gennaio 1982, n. 9 contenente "Norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti", e della legge 25 marzo 1982, n. 94, dal titolo "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, concernente norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti", promossi con ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna e Sardegna, notificati il 22 e 23 febbraio 1982 e il 2 aprile 1982, depositati in cancelleria rispettivamente il 2 e 4 marzo e il 30 aprile successivi ed iscritti ai nn. 16, 18 e 25 del registro ricorsi 1982;
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 22 marzo 1988 il Giudice relatore Antonio BALDASSARRE;
Uditi l'Avvocato Fabio Lorenzoni per la Regione Emilia-Romagna, l'Avvocato Paolo Mercuri per la Regione Sardegna e l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - I ricorsi indicati in epigrafe prospettano varie censure d'illegittimità costituzionale nei confronti degli artt. 6, 7, 8 e 9 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9 ("Norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti"), convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1982, n. 94.
Più precisamente, la Regione Emilia-Romagna sospetta l'illegittimità dei predetti articoli per l'asserito contrasto con tre distinti parametri costituzionali:
a) l'art. 77 Cost., in quanto le disposizioni impugnate sono state adottate con un decreto-legge emanato al di fuori dei presupposti di urgenza e di necessità e lesivo delle prerogative del Parlamento, perché di fatto ha, esso stesso, prorogato gli effetti di un precedente decreto non convertito, con ciò esercitando una competenza che l'ultimo comma dell'art. 77 Cost. riserva alle Camere;
b) gli artt. 117 e 119 Cost., in quanto tutti gli articoli impugnati conterrebbero norme di dettaglio, non riconducibili a principi della materia, la cui adozione vanificherebbe le competenze legislative e l'autonomia di spesa costituzionalmente assicurate alle regioni in materia di urbanistica;
c) l'art. 97 Cost., che risulterebbe violato dagli artt. 6 e 8 del decreto impugnato, i quali, impedendo l'esercizio di funzioni di coordinamento o sottraendo irragionevolmente all'amministrazione regionale parti essenziali di un procedimento pubblico di programmazione, si porrebbero in contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione pubblica.
La stessa Regione chiede, inoltre, con specifico riferimento alle dedotte violazioni dell'art. 77 Cost., che sia disposta la sospensione cautelare del decreto-legge impugnato.
Infine, sempre la Regione Emilia-Romagna, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, chiede che sia dichiarata cessata la materia del contendere in relazione alle censure mosse agli artt. 6 e 8 del decreto-legge impugnato, per il fatto che le parti oggetto di censura non sono state convertite, con il conseguente venir meno di tutti i motivi che l'avevano indotta a dubitare della costituzionalità dei predetti articoli.
La Regione Sardegna, con i due ricorsi indicati in epigrafe, impugna i medesimi artt. 6, 7, 8 e 9 del decreto-legge n. 9 del 1982, tanto nel testo originario, quanto nel testo modificato in sede di conversione, allegando in ambo i casi i medesimi dubbi di costituzionalità. In particolare, la ricorrente ritiene che i quattro articoli impugnati, stabilendo una disciplina dettagliata non riconducibile ai principi generali dell'ordinamento o alle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, si pongano in contrasto con l'art. 3, lett. f), St. Sa., che attribuisce alla Regione la competenza legislativa esclusiva in materia di "edilizia ed urbanistica". Tali dubbi sarebbero, poi, aggravati dal fatto che, quantomeno in relazione alle materie disciplinate dagli artt. 6, 7 e 8 del decreto impugnato, la Regione avrebbe già stabilito una propria disciplina, difforme da quella statale.
Poiché tutti e tre i ricorsi ora menzionati hanno ad oggetto le medesime norme di legge, è opportuno riunire i relativi giudizi e deciderli con un'unica sentenza.
2. - Con riferimento al ricorso presentato dalla Regione Emilia-Romagna, va preliminarmente rilevato che l'avvenuta conversione del decreto-legge n. 9 del 1982 nella legge n. 94 del 1982 fa venir meno il presupposto sul quale si basano le censure sollevate dalla ricorrente in relazione alla pretesa violazione dell'art. 77 Cost. da parte del decreto stesso. Poiché, infatti, la Regione lamentava la mancanza dei presupposti costituzionali per l'adozione dei decreti-legge e la presunta illegittimità della sostanziale conversione di un decreto-legge non convertito operata attraverso la reiterazione di quel decreto, la sostituzione, con efficacia ex-tunc, della legge di conversione al decreto impugnato, fa venir meno sin dall'inizio l'atto oggetto delle predette censure, le quali, vanno dichiarate inammissibili anzitutto per questo motivo (v., da ultimo, sentt. nn. 474 del 1988, 108 del 1986 e 34 del 1985).
Consequenzialmente a ciò, va considerata assorbita anche la richiesta avanzata dalla ricorrente per ottenere la sospensiva dell'efficacia del medesimo decreto-legge.
3. - Sempre con riferimento al ricorso della Regione Emilia-Romagna, va dichiarata la inammissibilità della questione concernente gli artt. 6 e 8 del decreto-legge impugnato, involgente i profili relativi agli artt. 97 e 117 della Costituzione. In sede di conversione, infatti, sono stati sostituiti, con efficacia ex tunc, i primi due commi dell'art. 6, in modo che nel nuovo testo manca ogni riferimento alla decorrenza dell'efficacia dei programmi pluriennali di attuazione dal momento della loro adozione (da parte del comune), anziché da quello dell'approvazione (da parte della Regione), decorrenza che stava alla base di tutte le censure mosse dalla ricorrente al citato art. 6. Analoghe considerazioni valgono a proposito delle censure mosse contro l'art. 8 del medesimo decreto per la pretesa violazione degli artt. 97, 117 e 119 della Costituzione, essendo stati soppressi i commi cui quelle censure si riferivano (cioè i commi che vanno dal sesto al decimo).
4. - Venendo al merito delle impugnazioni proposte tanto dalla Regione Emilia-Romagna quanto dalla Regione Sardegna, va dichiarata l'infondatezza di tutte le questioni sollevate, in quanto le norme impugnate costituiscono parti integranti di norme fondamentali delle riforme economico-sociali e, come tali, pongono limiti costituzionalmente giustificati sia nei confronti della competenza legislativa delle Regioni a statuto ordinario in materia di urbanistica (art. 117 Cost.), sia nei confronti della competenza legislativa esclusiva spettante nella stessa materia alla Regione Sardegna (art. 3 St. Sa.).
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 4 e 13 del 1964, 37 del 1966, 92 del 1968, 160 del 1969, 13 del 1980, 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987), il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali si caratterizza sotto un triplice profilo:
a) si deve trattare di norme legislative dello Stato che - in considerazione del contenuto, della motivazione politico-sociale e degli scopi che si prefiggono - presentino un carattere riformatore, diretto a incidere significativamente nel tessuto normativo dell'ordinamento giuridico o nella vita della nostra comunità giuridica nazionale (v., spec., sent. n. 219 del 1984);
b) le stesse leggi, tenuto conto della tavola di valori costituzionali, devono avere ad oggetto settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza, quali, ad esempio, "la soddisfazione di un bisogno primario o fondamentale dei cittadini" (sent. n. 4 del 1964) o un "essenziale settore economico del paese" (sentt. n. 13 del 1964, e, analogamente, n. 219 del 1984);
c) si deve trattare, inoltre, di "norme fondamentali", vale a dire della posizione di norme-principio o della disciplina di istituti giuridici - nonché delle norme legate con queste da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione - che rispondano complessivamente ad un interesse unitario ed esigano, pertanto, un'attuazione su tutto il territorio nazionale (sent. n. 160 del 1969) e che, in ogni caso, lascino alle Regioni, nelle materie di propria competenza, uno spazio normativo sufficiente per adattare alle proprie peculiarità locali i principi e gli istituti introdotti dalle leggi nazionali di riforma (sent. n. 219 del 1984).
Analizzata sulla base dei criteri appena accennati, la normativa oggetto delle presenti impugnazioni risponde alle condizioni ivi stabilite. E ciò si afferma non certo perché tutte le disposizioni impugnate sono rivolte a modificare, direttamente o indirettamente, una legge, come la n. 10 del 28 gennaio 1977 ("Norme per la edificabilità dei suoli"), che questa Corte ha già giudicato nel suo complesso come legge di riforma economico-sociale (sent. n. 13 del 1980).
Infatti, come ha esattamente osservato la difesa della Regione Sardegna, un ragionamento del genere sarebbe viziato, in quanto farebbe dipendere da un carattere esteriore e relazionale - cioè dal rapporto della norma abrogativa o modificativa rispetto a quella abrogata o modificata - una qualificazione sostanziale, come il carattere riformatore di una disciplina, la cui sussistenza va verificata per ogni norma in sé considerata. Al contrario, il riconoscimento delle norme impugnate come appartenenti al genere delle riforme economico-sociali dipende dalla ricorrenza in concreto, in ognuna di esse, dei caratteri che la giurisprudenza di questa Corte ha individuato come propri di tale categoria di norme.
4.1. - Secondo l'insindacabile giudizio del legislatore, chiaramente desumibile dalla relazione al disegno di legge di conversione e dai lavori preparatori parlamentari, il decreto-legge n. 9 del 1982 e la conseguente legge (di conversione) n. 94 del 1982 hanno il precipuo scopo di far fronte a una grave crisi nella disponibilità degli alloggi e a una situazione di emergenza, caratterizzata dal blocco dell'attività edilizia, attraverso la previsione di norme dirette ad agevolare l'acquisizione di alloggi e, soprattutto, la ripresa dell'attività produttiva del settore. Sempre secondo l'insidacabile giudizio del legislatore, una parte non secondaria della responsabilità della situazione appena ricordata era da attribuire al ritardato corso delle pratiche edilizie, dovuto alle lentezze delle amministrazioni comunali competenti al rilascio degli atti di assentimento che devono precedere i permessi rilasciati dagli stessi comuni, nonché alla concorrente macchinosità delle procedure legate all'istituto del silenzio-rigetto, allora pressoché assolutamente dominante in tal campo.
È sulla base di tale motivazione politico-sociale che lo scopo preminente della legge n. 94 del 1982 è costituito da un significativo e sostanziale allargamento delle ipotesi del silenzio-assenso (o silenzio-accoglimento) sulle istanze di autorizzazione gratuita e su quelle di concessione ad edificare per interventi di edilizia residenziale, rispettivamente previsto dagli artt. 7, terzo comma, e 8, primo comma, del predetto decreto-legge n. 9 del 1982, convertito, sul punto, senza modificazioni. Tali disposizioni, infatti, hanno esteso in modo rilevante l'area delle ipotesi in cui il silenzio serbato dal Sindaco sulle istanze per ottenere permessi di costruire a fini residenziali equivale ad accoglimento delle stesse, un'area che, per l'innanzi, era circoscritta, nella legislazione nazionale della materia, al caso previsto dall'art. 48 della legge 5 agosto 1978, n. 457 ("Norme per l'edilizia residenziale"), in base al quale l'istanza al Sindaco per ottenere l'autorizzazione a eseguire interventi di manuntenzione straordinaria in un immobile si ha per accolta qualora il Sindaco stesso non si pronunzi entro novanta giorni. E l'estensione è tale che, nel settore considerato, l'istituto del silenzio-assenso ha sostituito il proprio regime a quello del silenzio-rifiuto: un regime che innova profondamente tanto il versante dei rapporti tra amministrazione e cittadino, quanto il sistema di programmazione urbanistica, che, dato il carattere dovuto o limitatamente discrezionale del titolo di legittimazione a costruire nei casi contemplati dalla legge impugnata (carattere che costituisce, per l'appunto, il presupposto dell'operatività del silenzio-assenso), è messo in grado di funzionare in modo più rapido ed efficiente.
Sulla scorta dei motivi appena accennati, non si può dubitare che l'introduzione del nuovo regime fondato sull'istituto del silenzio accoglimento in un settore di vitale importanza, sia per la soddisfazione di elementari e fondamentali bisogni dei cittadini (v., sentt. nn. 49 del 1987, 217 e 404 del 1988), sia per l'attività produttiva e lavorativa del sistema economico del nostro Paese (sent. n. 13 del 1980), rientri, in base ai criteri elaborati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, fra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali. Come tale, il nuovo regime non può non vincolare l'esercizio delle competenze legislative regionali, compresa quella esclusiva, nel campo dell'edilizia residenziale, salva sempre la libertà del legislatore regionale, commisurata al proprio grado di autonomia, di regolare le modalità attuative dell'istituto del silenzio-assenso, in conformità, ovviamente, con i motivi che ne hanno suggerito l'estensione.
4.2. - Analogo discorso va fatto anche in relazione alle censure che la Regione Sardegna muove all'art. 6 della legge impugnata.
Quest'ultimo articolo contiene alcune deroghe all'art. 13 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, che aveva istituito e disciplinato i programmi pluriennali di attuazione. In particolare, la norma impugnata, oltre a esonerare i piccoli comuni (con popolazione fino a 10.000 abitanti) dal dotarsi del programma pluriennale di attuazione e a prevedere lo snellimento delle procedure di formazione dei predetti programmi (eliminazione dell'approvazione regionale e dei pareri preventivi di altre amministrazioni statali o sub-regionali), prevede, con norme temporanee applicabili fino al 31 dicembre 1984, le opere che possono essere realizzate nelle aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione, identificandole negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e negli interventi da realizzare su aree comprese nei piani di zona e su aree di completamento che siano dotate di opere di urbanizzazione primaria collegate funzionalmente con quelle comunali.
Con la sentenza n. 13 del 1980, questa Corte ha definito la legge n. 10 del 1977 come legge fondamentale di riforma economico-sociale proprio con specifico riferimento, fra l'altro, alla previsione dei programmi pluriennali di attuazione. Ed, invero, l'introduzione di questo strumento urbanistico, com'è ampiamente riconosciuto, è diretta a modificare profondamente le tecniche del governo pubblico del territorio, in quanto, affiancando all'ordinaria pianificazione spaziale di vincoli o di scelte conformatrici della proprietà una programmazione temporale di attività, ne ha trasformato radicalmente il senso, convertendole da strumenti essenzialmente negativi e impeditivi a strumenti di impulso, che esigono un'interazione con le attività e i progetti dei privati. A buon diritto, pertanto, l'art. 13 della legge n. 10 del 1977 è stato qualificato come norma fondamentale delle riforme economico-sociali.
Di questa natura partecipano anche le disposizioni oggetto della presente impugnazione, non solo per la parte che modifica il procedimento di formazione dei programmi pluriennali di attuazione, ma anche per quelle che determinano i comuni esonerati dalla adozione dei medesimi e stabiliscono eccezioni temporanee al principio di edificazione soltanto nelle aree comprese negli stessi programmi. La caratterizzazione di un istituto giuridico, infatti, non è data soltanto dalla definizione del tipo e del principio che l'ispira, ma anche dalla sua estensione e dalla sua sfera di efficacia in tutte le connotazioni essenziali che concorrono a definirle. Le eccezioni alla piena espansione di un principio non sono, da questo punto di vista, accidenti insignificanti, ma piuttosto elementi essenziali che concorrono a definire il principio stesso nella sua effettiva portata e, quindi, nella sua caratterizzazione positiva. In tal senso è, del resto, la costante giurisprudenza di questa Corte, che ha voluto significare anche questo quando, a proposito delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, ha affermato che "non si può escludere l'estensione di tale qualifica a norme diverse da quelle contenenti i principi fondamentali della riforma, purché legate con queste ultime da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione" (sentt. nn. 219 del 1984, 151 del 1986, 99 del 1987).
Né si può sostenere, in senso contrario, che la temporaneità delle deroghe previste dall'art. 6, come del resto quella relativa al silenzio-assenso sulle istanze di concessione (art. 8, primo comma), rappresenti un ostacolo insormontabile al fine di considerare le une e l'altra come parti integranti delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali. L'idea che debbano essere "fondamentali" soltanto le riforme che non hanno limiti di tempo, patrocinata in tal caso dalla Regione Sardegna, non è accettabile, sia perché, se fosse vera, verrebbe espunta dalla categoria delle leggi in questione proprio l'ipotesi più importante per la quale tale categoria è stata pensata in Assemblea Costituente, cioè la programmazione economica (che è sempre a termine), sia perché il carattere riformatore di una legge è sempre commisurato, spazialmente o temporalmente, alla concreta situazione che il legislatore intende cambiare.
Più in particolare, le due ipotesi contestate dalla Regione Sardegna sono direttamente legate alle due cause che, nell'insindacabile valutazione del legislatore, avevano portato alla crisi degli alloggi e alla stasi dell'attività di costruzione: il ritardo della grande maggioranza delle Regioni nell'adottare i programmi pluriennali di attuazione e la già ricordata lentezza e macchinosità delle procedure comunali nel rilascio delle concessioni. Appare allora chiaro che la temporaneità delle riforme in discussione - vale a dire la previsione di eccezioni al principio dell'edificazione in aree comprese nei programmi pluriennali di attuazione e l'applicabilità del silenzio-assenso anche alle concessioni edilizie - mirano a riattivare un meccanismo che si riteneva inceppato momentaneamente, per un insieme di cause temporanee che hanno portato a una situazione di emergenza.
Per tali ragioni, anche le deroghe temporanee previste dall'art. 6 della legge n. 94 del 1982 si impongono, quali norme fondamentali delle riforme economico-sociali, alle Regioni ad autonomia comune e a quelle ad autonomia differenziata, che in ogni caso conservano in proposito un ampio spazio normativo, poiché le ipotesi previste dall'articolo impugnato costituiscono semplicemente un minimo al di sotto del quale le Regioni non possono andare.
4.3. - Restano, infine, da considerare le altre censure che sia la Regione Emilia-Romagna, sia la Regione Sardegna muovono all'art. 7 e all'art. 9 della legge n. 94 del 1982.
Per quel che in questa sede rileva, l'art. 7 - non modificato in sede di conversione - prevede (primo e secondo comma) alcune ipotesi di deroga al principio di onerosità della concessione edilizia, stabilito dall'art. 3 della legge n. 10 del 1977. Del pari, l'art. 9 prevede, tanto nel testo originario, quanto in quello risultante dalla legge di conversione, norme in deroga allo stesso principio, determinando alcuni casi in cui il contributo per il rilascio della concessione edilizia è dovuto in misura ridotta rispetto al suo ammontare ordinario, che, ai sensi del suddetto art. 3 della legge n. 10 del 1977, va commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. In altre parole, l'uno e l'altro articolo prevedono eccezioni o deroghe a un medesimo principio, il quale rientra indubbiamente fra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, non tanto perché stabilito in una legge che questa Corte ha già assegnato nella sua totalità a tale categoria di norme (sent. n. 13 del 1980), ma piuttosto perché il principio di onerosità della concessione incide profondamente su un punto nevralgico della disciplina della rendita fondiaria, modificando radicalmente il precedente regime. Pertanto, anche in tal caso vale il discorso svolto nel punto precedente della motivazione, in base al quale anche le deroghe o le limitazioni di un principio, legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria con lo stesso, partecipano della sua stessa natura di norma fondamentale delle riforme economico-sociali, in quanto concorrono a determinare l'effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio medesimo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi indicati in epigrafe:
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7, 8 e 9 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, intitolato "Norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti", convertito, con modificazioni, con legge 25 marzo 1982, n. 94, sollevate, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 8, sesto, settimo, ottavo, nono e decimo comma, del decreto legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito, con modificazioni, con legge 23 marzo 1982, n. 94 sollevate, in riferimento agli artt. 97, 117 e 119 della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7, 8 e 9 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1982, n. 94, sollevate dalla Regione Sardegna in riferimento all'art. 3, lett. f, dello Statuto di autonomia della medesima Regione (legge cost. 26 febbraio 1948, n. 3) e, limitatamente agli artt. 7 e 9, dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 1988.
Massima n. 15012
In tema di rapporti tra decreto-legge e legge di conversione, l'impugnativa proposta nei confronti del decreto-legge si estende anche alle corrispondenti disposizioni della legge di conversione, costituendo l'intervenuta conversione, un ulteriore ed autonomo motivo di inammissibilita' in sede di giudizio di costituzionalita'. (Manifesta inammissibilita' della questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 12 gennaio 1988, n. 2, convertito, con modificazioni, con legge 13 marzo 1988, n. 68, sollevata, in riferimento all'art. 77 Cost., e gia', peraltro, dichiarata inammissibile). - S. nn. 75/1967, 151/1986, 302/1988, 1033/1988.
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, terzo comma, 11, 12 e 13 del d. l. 12 gennaio 1988, n. 2, intitolato: "Modifiche alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, concernente nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive", promosso con ricorso della Regione Umbria, notificato il 12 febbraio 1988, depositato in cancelleria il 20 successivo ed iscritto al n. 8 del registro ricorsi 1988.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1988 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.
Ritenuto che
che, innanzitutto,
che, inoltre,
che, in particolare, ad avviso della ricorrente, l'art. 4, terzo comma, il quale rimette ad un decreto ministeriale la determinazione degli accertamenti da eseguire al fine della certificazione richiesta dal secondo comma, lettera b, dell'art. 35 della legge n. 47 del 1985, violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., in relazione al d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, allegato A, in quanto incide sulla funzione di vigilanza, sia preventiva che successiva all'inizio dei lavori, sulle costruzioni in zone sismiche, di sicura competenza regionale;
che l'art. 11, secondo il quale agli effetti della tabella allegata alla legge n. 47 del 1985 si considerano conformi agli strumenti urbanistici vigenti anche le opere conformi a strumenti adottati entro la data del 2 ottobre 1986, anche se non ancora approvati, violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto esclude la rilevanza dell'approvazione degli strumenti urbanistici da parte dei competenti organi regionali, e l'art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente prevede che gli stessi effetti vengano prodotti da strumenti urbanistici approvati e da strumenti urbanistici solo adottati, determinando, altresì, la possibilità per soggetti che si trovano in situazioni differenti di ottenere il condono mediante il pagamento di una somma computata con i medesimi criteri;
che l'art 12, nel suo complesso, in quanto prevede un sistema di gestione del vincolo paesaggistico-ambientale non idoneo a garantire l'attuazione del valore primario del paesaggio, secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 151 del 1986, violerebbe l'art. 9 Cost., mentre il terzo comma del medesimo art. 12 violerebbe l'art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117 e 118 Cost., in quanto il continuo spostamento del termine per la presentazione delle domande, determinato dalla reiterazione dei decreti-legge non convertiti, vanifica, anche attraverso il semplice decorso del termine, gli eventuali pareri negativi espressi dalla regione, nell'esercizio delle competenze ad essa attribuite dalle leggi nn. 47 e 431 del 1985 (ritenuta, quest'ultima, con la citata sentenza, conforme al principio cooperativistico, come applicato nei rapporti tra Stato e regioni);
che, infine, l'art. 13, primo comma, il quale attribuisce al Ministro dei lavori pubblici il potere di stabilire i criteri e gli indirizzi per il coordinamento delle politiche di risanamento delle zone interessate dall'abusivismo, violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto consente un intervento statale, caso per caso, in una materia di sicura competenza regionale;
che si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, eccependo la inammissibilità delle questioni proposte in riferimento a disposizioni costituzionali non direttamente attributive di competenza alle regioni, e chiedendo che le altre questioni siano dichiarate non fondate.
Considerato che il ricorso della Regione Umbria solleva questioni identiche a quelle proposte dalla Regione Toscana avverso il medesimo decreto-legge e decise con la sentenza n. 302 del 10 marzo 1988, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 12 del decreto-legge n. 2 del 1988, la inammissibilità delle questioni proposte in riferimento ai soli artt. 77, 3 e 9 Cost., e la infondatezza delle restanti questioni concernenti gli artt. 4, 11 e 13 del predetto decreto-legge;
che, peraltro, successivamente alla citata sentenza, il decreto-legge impugnato è stato convertito, con modificazioni, con la legge 13 marzo 1988, n. 68;
che le modificazioni, rilevanti ai fini del presente giudizio, apportate in sede di conversione, concernono gli artt. 4, terzo comma, 12, e 13, primo comma;
che, in particolare, l'art. 4, terzo comma, è stato integrato con la previsione che il decreto del Ministro dei lavori pubblici debba essere adottato entro il termine di tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione;
che l'art. 12 è stato interamente sostituito, prevedendosi che il parere di cui all'art. 32, primo comma, della legge n. 47 del 1985, sia espresso in base al meccanismo di cooperazione fra regioni e Stato previsto dall'art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, come modificato dal d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito con legge 8 agosto 1985, n. 431;
che, del pari, l'art. 13 è stato interamente sostituito, prevedendosi, al primo comma, che gli indirizzi per il recupero edilizio, urbanistico ed ambientale delle zone interessate dall'abusivismo siano fissati dal Ministro dei lavori pubblici, sentite le Regioni, le quali possono anche fornire indicazioni per la predisposizione di programmi di interventi per le zone maggiormente interessate;
che, secondo la pregressa giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra decreto-legge e legge di conversione, l'impugnativa proposta nei confronti del decreto-legge si estende anche alle corrispondenti disposizioni della legge di conversione (v., in tal senso, sentt. nn. 75 del 1967 e 151 del 1986);
che, conseguentemente, la questione di legittimità costituzionale dell'intero decreto-legge, sollevata in riferimento all'art. 77 Cost., già dichiarata inammissibile con la sentenza n. 302 del 1988, va dichiarata manifestamente inammissibile, costituendo, anzi, l'intervenuta conversione un ulteriore ed autonomo motivo di inammissibilità (v., da ultimo, sent. n. 1033 del 1988);
che, parimenti, manifestamente inammissibili devono essere dichiarate le questioni concernenti l'art. 12 del decreto-legge n. 2 del 1988, innanzitutto, in quanto, un'identica questione, sollevata in riferimento all'art. 9 Cost., è già stata dichiarata inammissibile con la sentenza n. 302 del 1988; in secondo luogo, in quanto le questioni sollevate in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost. hanno dato luogo a una dichiarazione d'illegittimità costituzionale pronunziata con la sentenza da ultimo citata; e, infine, in quanto le nuove disposizioni introdotte dalla legge di conversione richiamano norme (art. 82, comma nono, del d.P.R. n. 616 del 1977 introdotto dal d.l. n. 312 del 1985, convertito con l. n. 431 del 1985) radicalmente diverse da quelle impugnate e sulle quali, peraltro, questa Corte si è già pronunziata nel senso dell'infondatezza dei dubbi sollevati sulla loro incostituzionalità (sent. n. 151 del 1986);
che la questione concernente l'art. 4, terzo comma, del d. l. n. 2 del 1988, come convertito con la legge n. 68 del 1988, deve essere dichiarata manifestamente infondata, in quanto identica questione è già stata dichiarata non fondata con la sentenza n. 302 del 1988, mentre le modificazioni apportate in sede di conversione non incidono in alcun modo sul contenuto precettivo della disposizione impugnata;
che le questioni concernenti l'art. 11 del citato decreto-legge,
non modificato dalla legge di conversione n. 68 del 1988, vanno dichiarate
l'una - quella proposta in riferimento all'art. 3 Cost. - manifestamente
inammissibile, in quanto già dichiarata inammissibile con la citata sentenza n.
302 del 1988, e l'altra - quella proposta in riferimento agli artt. 117 e 118
Cost. - manifestamente infondata, in quanto già dichiarata non fondata con la
predetta sentenza, senza che
che, infine, la questione concernente l'art. 13, primo comma, nel testo risultante dalla legge di conversione, va dichiarata manifestamente infondata, in quanto la questione relativa alla disposizione contenuta nel decreto-legge è stata già dichiarata non fondata in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., mentre le modificazioni introdotte, pur apportando sensibili innovazioni, non appaiono tali, tuttavia, da indurre ad escludere l'effetto estensivo della impugnativa, potendosi anzi dire che, se infondata era la questione di legittimità costituzionale della originaria disposizione, a maggior ragione lo sarebbe quella concernente le disposizioni introdotte dalla legge di conversione, che hanno previsto la partecipazione delle regioni all'attività ivi disciplinata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 25 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale.
per questi motivi
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 12 gennaio 1988, n. 2 ("Modifiche alla legge 28 febbraio 1985 n. 47, concernente nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive"), convertito, con modificazioni, con legge 13 marzo 1988, n. 68, sollevata, in riferimento all'art. 77 Cost., dalla Regione Umbria con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 12 del decreto-legge 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con legge 13 marzo 1988, n. 68, sollevate, rispettivamente, in riferimento all'art. 3, e agli artt. 9, 117, 118, e 77 Cost., dalla Regione Umbria con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, terzo comma, 11 e 13, primo comma, del decreto-legge 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con legge 13 marzo 1988, n. 68, sollevate, in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., dalla Regione Umbria con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 1988.
Massima n. 12965
DECRETO-LEGGE
– CONVERSIONE. Sopravvenuta, nelle more del giudizio di legittimità
costituzionale, la conversione del decreto legge, censurato per l'asserito
difetto dei necessari requisiti di necessità ed urgenza, la censura stessa ne risulta
travolta e percio' priva di fondamento, essendo ormai la materia regolata dalla
legge di conversione e non piu' dal decreto legge. (Non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 359/'
composta dai signori: Dott. Francesco SAJA, Presidente - Prof. Giovanni CONSO - Prof. Ettore GALLO - Prof. Giuseppe BORZELLINO - Dott. Francesco GRECO - Prof. Renato DELL'ANDRO - Prof. Gabriele PESCATORE - Avv. Ugo SPAGNOLI - Prof. Francesco Paolo CASAVOLA - Prof. Vincenzo CAIANIELLO - Avv. Mauro FERRI - Prof. Luigi MENGONI - Prof. Enzo CHELI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 23, quarto comma, e 30 del d.l. 31 agosto 1987, n. 359 (Provvedimenti urgenti per la finanza locale) convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 440, promosso con ordinanze emesse il 9 novembre 1987 dal Tribunale di Firenze, il 10 ottobre 1987 (n. 3 ordinanze) dal Tribunale di Genova, l'11 dicembre 1987 dal Pretore di Genova, il 26 novembre 1987 (n. 3 ordinanze) dal Tribunale di Parma, il 25 febbraio 1988 (n. 3 ordinanze) dal Pretore di Parma e il 26 novembre 1987 dal Pretore di Firenze, iscritte rispettivamente ai nn. 13, 37, 38, 39, 112, 135, 136, 137, 212, 213, 214 e 226 del registro ordinanze 1988 e pubblicate nelle GG.UU. nn. 5, 7, 14, 17, 22 e 23/I ss. dell'anno 1988.
Visti gli atti di costituzione di Cassi Bruno, Boni Maria, Alfieri Maria e Fabbri Bruna, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 ottobre 1988 il Giudice relatore Francesco Greco;
uditi gli avv.ti Luciano Petronio e Luciano Ventura per Cassi Bruno, Boni Maria, Alfieri Maria e Fabbri Bruna e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Genova (R.O. nn. 37, 38, 39 del 1988) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 30 del d.l. 31 agosto 1987, n. 359, convertito con modificazioni in legge 29 ottobre 1987, n. 440, secondo cui restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei dd.ll. 30 dicembre 1986 n. 922, 2 marzo 1987 n. 55, 2 maggio 1987 n. 167 e 30 giugno 1987, n. 256, per violazione dell'art. 77 Cost., in quanto i rapporti giuridici in definitiva restano regolati da un decreto-legge anziché da una legge e perché, non ricorrendo i requisiti di necessità ed urgenza, si ha un caso di appropriazione da parte del Governo del potere di conversione spettante al Parlamento e, quindi, una alterazione della stessa forma di Governo parlamentare prevista dalla Costituzione.
1.1 - La questione non è fondata.
Essendo avvenuta la conversione in legge del decreto-legge, tutta la materia de qua resta regolata dalla legge e non più dal decreto-legge.
2. - È, inoltre, sottoposta all'esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale del comma quarto, ultima parte, dell'art. 23 del d.l. 31 agosto 1987, n. 359, convertito, con modificazioni, in legge 29 ottobre 1987, n. 440, il quale dispone che "le somme dovute a titolo di riliquidazione dell'indennità premio di servizio non danno luogo a corresponsione di interessi e rivalutazione", sollevata dal Tribunale di Genova (R.O. nn. 37, 38, 39 del 1988), dal Tribunale di Parma (R.O. nn. 135, 136, 137), dal Pretore di Parma (R.O. nn. 212, 213, 214 del 1988), dal Pretore di Firenze (R.O. n. 226 del 1988), con riferimento:
a) all'art. 3 Cost., in quanto il credito de quo risulterebbe discriminato rispetto a ogni altro credito previdenziale, legalmente produttivo di interessi ed, eventualmente, di maggior danno ex art. 1224 c.c., o di rivalutazione monetaria in base al principio che trova conferma anche nell'ambito previdenziale negli artt. 46 e 47 d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, risultando, per di più, vanificati i diritti già acquisiti da parte dei creditori di prestazioni liquide ed esigibili di un ente previdenziale;
b) agli artt. 24 e 113 Cost. (Tribunale di Genova: R.O. nn. 37, 38 e 39 del 1988) in quanto, senza giustificato motivo, risulterebbe limitato il diritto di difesa di una categoria di cittadini alla quale è preclusa la possibilità di ottenere qualsiasi tipo di risarcimento danni per inadempimento dell'I.N.A.D.E.L.;
c) all'art. 36 Cost. (Pretura di Firenze: R.O. n. 226 del 1988 e Pretura di Parma: R.O. nn. 212, 213, 214 del 1988) in quanto si provvederebbe in modo inadeguato alle esigenze relative alla vecchiaia dei lavoratori mediante erogazione previdenziale tardiva e non rivalutata e perché il legislatore inciderebbe su diritti quesiti con interventi irrazionali ed arbitrari frustrandosi anche l'affidamento dei cittadini nella certezza giuridica;
d) all'art. 36 Cost. (Pretura di Parma: R.O. nn. 212, 213, 214 del 1988) perché anche la retribuzione differita, ai fini previdenziali, corrisposta alla cessazione del rapporto sotto forma di trattamento di liquidazione e quiescenza, farebbe parte del patrimonio del lavoratore e, quindi, della complessiva situazione giuridica tutelata dal citato precetto costituzionale;
e) all'art. 97 Cost. (Tribunale di Parma: R.O. nn. 135, 136, 137 del 1988; Pretura di Parma: R.O. nn. 212, 213, 214 del 1988) perché l'esonero dell'I.N.A.D.E.L. dal risarcimento del danno per svalutazione monetaria e dal pagamento degli interessi farebbe venir meno l'unica sanzione che può costituire remora al ritardo nel pagamento e, quindi, idonea a garantire il buon funzionamento dell'Ente.
3. - È preliminare l'esame delle eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura Generale dello Stato.
Si è rilevato che in alcune ordinanze (R.O. nn. 37, 38, 39/88) non viene chiarito se la rivalutazione si riferisca anche alle somme dovute successivamente al 31 gennaio 1977; che, inoltre, in primo grado non è stata accolta la domanda di rivalutazione e avverso la sentenza non è stato proposto appello sul punto, onde l'irrilevanza della questione, per effetto della formazione del giudicato contrario; e inoltre, nell'ordinanza n. 13 del 1988 manca la motivazione sulla rilevanza né risultano il periodo e il titolo per i quali è stata richiesta la liquidazione del maggior danno commisurato alla svalutazione; in altre ordinanze (R.O. nn. 226, 112, 135, 136, 137 del 1988) non si è precisato se si tratti di adempimento o di risarcimento e se sia stata proposta o meno la domanda di risarcimento per comportamento colposo dell'I.N.A.D.E.L.
3.1 - Le eccezioni non possono avere accoglimento.
Invero, dei fatti esposti non vi è puntuale riscontro nell' oggetto dei vari giudizi, tutti concernenti la riliquidazione della indennità premio di servizio e l'opposizione alla pretesa dell'I.N.A.D.E.L. di corrisponderla senza la maggiorazione della rivalutazione e degli interessi, fondata nella norma denunciata per sospetta illegittimità costituzionale.
4. - Nel merito la questione è, sia pure solo in parte, fondata.
Anzitutto, si richiama l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (sent. n. 408 del 1988) secondo cui, per i crediti previdenziali, a differenza dei crediti di lavoro privato (per i crediti di lavoro dei dipendenti statali vigono i principi affermati nella sentenza n. 52/1986), non trova applicazione l'art. 429 c.p.c. ma piuttosto l'art. 1224, secondo comma, c.c.. Secondo detto articolo, occorre la domanda di pagamento del maggior danno e la dimostrazione del pregiudizio patrimoniale risentito, per cui assumono rilevanza le condizioni e le qualità personali del creditore idonee a fondare presunzioni a suo favore; tra le dette condizioni personali va considerata la qualità di pensionato, non isolatamente, però, ma nel contesto globale della sua situazione (capacità economica, condizioni di vita personali e familiari) e delle sue peculiari necessità in modo che si possa determinare la concreta destinazione delle somme spettantegli.
Si deve, però, considerare che l'art. 23 ora censurato è stato emanato per sanare la situazione finanziaria venutasi a creare in seguito alla sentenza di questa Corte n. 236 del 1986, la quale, risolvendo i dubbi interpretativi cui avevano dato luogo in tutti i gradi di giurisdizione le disposizioni regolatrici della indennità premio di servizio a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 297 del 1982 e dell'abolizione del congelamento dei punti di contingenza, sanciva la inclusione dell'indennità integrativa speciale nell'indennità premio di servizio, a partire dall'entrata in vigore della predetta legge n. 297 del 1982.
Per la mancata richiesta ai dipendenti di contributi e la loro mancata riscossione da parte dell'I.N.A.D.E.L., si era verificata una situazione di "deficit" che rendeva estremamente precario il soddisfacimento delle pur legittime richieste di pagamento dell'indennità maggiorata con l'inclusione suddetta.
Lo Stato, per porre termine ai ritardi e addirittura alla impossibilità dei pagamenti, si è assunto l'onere dei contributi previdenziali per il quadriennio 1982-1986, mentre i dipendenti solo all'atto della liquidazione venivano a subire la decurtazione dalla somma loro spettante della quota di contributi da essi dovuta, in un'unica soluzione ma senza corresponsione di interessi.
Trattasi, quindi, di una norma eccezionale, di durata temporanea (solo un quadriennio) e, sopratutto, di una valutazione legislativa non arbitraria e sufficientemente razionale, il che deve indurre l'Istituto previdenziale ad una rapida definizione delle pendenze. Inoltre, non sono affatto omogenee le situazioni poste a raffronto dai giudici a quibus, quella in esame, assolutamente eccezionale, straordinaria e transitoria, e quella, ordinaria, di un comune pagamento di un credito previdenziale.
Basta l'indubbia situazione di incertezza, verificatasi in ordine all' interpretazione dell'articolo censurato a giustificare il comportamento dell'Istituto previdenziale, tenuto, peraltro, ad osservare anche il precetto costituzionale del buon andamento dell'Amministrazione (art. 97 Cost.).
Nemmeno risultano violati gli artt. 24 e 113 Cost., essendo quella denunciata una norma di diritto sostanziale e non di natura processuale, per cui il diritto di difesa dei dipendenti non ne soffre limitazioni o impedimenti.
Inoltre, la riduzione del credito, non essendo eccessiva, non incide sulle condizioni poste dagli artt. 36 e 38 Cost.
Per quanto riguarda gli interessi, va osservato, anzitutto, che, sia secondo quanto già ritenuto da questa Corte (sent. n. 408/1988), sia secondo l'indirizzo giurisprudenziale della stessa Corte di cassazione, la relativa tematica è autonoma rispetto a quello della rivalutazione. La decorrenza dei termini di pagamento determina automaticamente la mora dell'Istituto. I tempi del meccanismo di liquidazione della prestazione sono prefissati per legge, decorrenti dalla richiesta del dipendente, pur in assenza dell'emissione del mandato di pagamento. Pertanto, la previsione della corresponsione di interessi non è razionale e crea discriminazioni e disparità di trattamento ingiustificate con gli altri creditori degli Istituti previdenziali. Risulta, così, violato l'art. 3 della Costituzione.
La violazione degli altri articoli (24, 113, 36, 38, 97 Cost.) rimane assorbita.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i ricorsi:
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 23, comma quarto, del d.l. 31 agosto 1987, n. 359 (Provvedimenti urgenti per la finanza locale), convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 440, nella parte in cui dispone che "le somme dovute a titolo di riliquidazione dell'indennità premio di servizio non danno luogo a corresponsione di interessi";
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma quarto, del d.l. 31 agosto 1987, n. 359, conv. in legge 29 ottobre 1987, n. 440, nella parte in cui dispone che "le somme dovute a titolo di riliquidazione delle indennità premio di servizio non danno luogo... a rivalutazione monetaria", sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 38, 97 e 113 Cost., dai Tribunali di Parma, Genova e Firenze nonché dai Pretori di Parma, di Firenze, di Genova, con le ordinanze in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30 del d.l. 31 agosto 1987, n. 359, convertito in legge 29 ottobre 1987, n. 440, sollevata, in riferimento all'art. 77 Cost., dal Tribunale di Genova.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 novembre 1988.
Massima n. 21031
L'asserito difetto dei presupposti della necessità e dell'urgenza perde rilievo ove il decreto-legge, sotto tale profilo censurato innanzi alla Corte, sia gia' stato convertito in legge dal Parlamento; ne' e' idoneo ad attivare lo scrutinio di costituzionalita' il rilievo - espressivo di un mero punto di vista - che la ripetuta reiterazione del decreto-legge piu' volte decaduto avrebbe coartato la libera espressione della volonta' delle Camere. (Inammissibilita' della questione di costituzionalita' dell'art. 2 del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, conv. in l. 24 marzo 1993, n. 75, sollevata in riferimento all'art. 77 Cost.). red.: L.I. rev.: S.P.
composta dai signori: Presidente: Prof. Francesco Paolo CASAVOLA; Giudici: Prof. Gabriele PESCATORE; Avv. Ugo SPAGNOLI; Prof. Antonio BALDASSARRE; Prof. Vincenzo CAIANIELLO; Avv. Mauro FERRI; Prof. Luigi MENGONI; Prof. Enzo CHELI; Dott. Renato GRANATA; Prof. Giuliano VASSALLI; Prof. Cesare MIRABELLI; Prof. Fernando SANTOSUOSSO; Avv. Massimo VARI; Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonché altre disposizioni tributarie), convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75; 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, recante disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie); 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n.287 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie); 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie); del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), promossi con ordinanze emesse il 4 agosto 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, il 13 maggio 1993 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia, il 23 novembre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano, il 2 ottobre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, il 10 novembre 1993 dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria (n. 2 ordinanze) e il 20 novembre 1993 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Perugia, iscritte rispettivamente ai nn. 628, 656 e 798 del registro ordinanze 1993 e ai nn. 5, 31, 33 e 118 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, nn. 43 e 44 dell'anno 1993 e nn. 5, 6, 8 e 13 dell'anno 1994.
Visti gli atti di costituzione di Boselli Ernestina, dell'Associazione della proprietà edilizia di Perugia ed altro, del Comune di Perugia, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1994 il Giudice relatore Massimo VARI;
uditi gli Avvocati Valerio Onida per Boselli Ernestina, Valerio Onida, Gaspare Falsitta e Mario Rampini per l'Associazione della proprietà edilizia di Perugia ed altro, Alarico Mariani Marini e Gaetano Ardizzone per il Comune di Perugia e l'Avvocato dello Stato Carlo Bafile per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.- I giudizi di cui in epigrafe, ponendo questioni identiche o quantomeno connesse, vanno riuniti in rito per essere decisi con un'unica sentenza.
2.1.- Le ordinanze delle varie commissioni tributarie di cui si è riferito in narrativa - e cioè Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993), Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.n. 5 del 1994), Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118 del 1994)- chiamano la Corte a stabilire se l'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui ripristina, sia pure in via transitoria, le disposizioni contenute nei decreti ministeriali 20 gennaio 1990 e 27 settembre 1991, relativi alla revisione delle tariffe di estimo del catasto edilizio urbano, dichiarate illegittime dal giudice amministrativo, violi gli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto la tassazione delle rendite immobiliari, fondata su una ipotesi di fruttuosità del valore capitale di un immobile determinata con criteri di tipo patrimoniale, apparirebbe in contrasto con i principi della capacità contributiva e della progressività, palesando altresì la propria irrazionalità, come si evince dalla circostanza che lo stesso criterio viene abbandonato per i periodi successivi al 1994.
Le medesime ordinanze di cui sopra, con esclusione di quella della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n.5 del 1994), denunciano le stesse norme per violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, in quanto ripristinatorie di una forma di "solve et repete", differendo al periodo di imposta successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità da parte dei contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in più e il relativo contenzioso.
2.2.- Le ordinanze predette sollevano le seguenti ulteriori questioni relative al già citato art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, e cioé se esso:
a) configuri una ipotesi di "straripamento" del potere legislativo nel campo riservato istituzionalmente al potere giudiziario, con violazione degli artt. 102 e 103 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, nella prima ordinanza di rimessione (R.O. n. 628 del 1993), e dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n. 798 del 1993); con violazione degli artt. 102, 103 e 104 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n.118 del 1994); con violazione degli artt. 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza nella seconda ordinanza di rimessione (R.O. n.5 del 1994);
b) violi l'art. 77, secondo comma, della Costituzione, in quanto la reiterazione dei decreti-legge si sarebbe tradotta in una coartazione della volontà delle Camere, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n.656 del 1993), che ritiene questo profilo assorbente della violazione del principio della divisione dei poteri per l'evidente fine dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 e della relativa legge di conversione di superare l'annullamento della determinazione tariffaria discendente dalla sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, non senza invocare, sia pure nel solo dispositivo dell'ordinanza, la violazione anche degli artt.70, 101, 102 e 104; ovvero violi lo stesso art. 77, per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza del decreto-legge, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.n. 5 del 1994).
3.1.- Le due ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria (R.O. n.31 e R.O. n. 33 del 1994) pongono questioni che investono, anzitutto, l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui prevede che "fino al 31 dicembre 1993 resta fermo per i comuni e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo, dell'art. 2 del citato decreto-legge n. 16 del 1993". Investono, altresì, l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, le dette disposizioni contrastano, la prima in via diretta e la seconda in via derivata, con:
a) gli artt. 24, 55 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg., e 113 della Costituzione, ledendo il diritto di difesa dei cittadini e le prerogative del potere giurisdizionale, in quanto legittimano, fino alla data del 31 dicembre 1993, un decreto ministeriale annullato e producono una "sanatoria con efficacia retroattiva di una procedura amministrativa illegittima"; censura che, ad avviso del Tribunale amministrativo regionale, "non è sminuita" dall'intervento del decreto-legge n. 16 del 1993, il cui contrasto con gli artt. 70, 77, 101, 102 e 104 e segg. della Costituzione è stato già evidenziato nelle ordinanze di rimessione alla Corte di cui al R.O. n. 628 del 1993 e R.O. n.656 del 1993, per avere il Governo, da una parte, inciso sul patrimonio dei proprietari e, dall'altra, operato precludendo le scelte che potevano scaturire da un libero dibattito parlamentare;
b) gli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg. e 97 della Costituzione, per avere il legislatore, con la sanatoria di cui sopra, sia pure in via transitoria, leso le prerogative di autotutela della pubblica amministrazione.
3.2.- Le medesime ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria chiedono, altresì, alla Corte di stabilire se l'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e il Capo I (artt.1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nell'istituire l'imposta comunale sugli immobili, violino gli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, per avere il legislatore concepito un'imposta sugli immobili basata su valori di redditività assolutamente astratti e rivalutabili sulla base di parametri non pertinenti e comunque non attendibili, venendo a colpire il patrimonio immobiliare lordo del contribuente, anzichè il reddito effettivamente ritraibile dal medesimo;nonchè contrastino con:
a) l'art. 3 della Costituzione, discriminando illegittimamente i contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, senza tener conto di altre possibili espressioni di ricchezza;
b) l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto non attribuiscono rilievo significativo agli oneri e alle passività che gravano sul patrimonio immobiliare, sicchè l'imposta illegittimamente si attesterebbe sullo stesso piano degli istituti ablatori, "con l'ulteriore aggravante che la relativa disciplina non concede ristoro alcuno, in termini di componenti negativi del reddito tassabile";
c) l'art. 53 della Costituzione, collidendo con il principio della capacità contributiva, in quanto "viene squilibrata la stessa capacità di contribuzione a tutto danno del contribuente proprietario di immobili, senza considerazione alcuna in ordine alla pressione tributaria specifica che già opprime tali cespiti"; ciò atteso che l'ICI prevede una aliquota a misura unica, applicabile sulla medesima base imponibile già gravata dall'aliquota progressiva dell'IRPEF, ovvero dall'aliquota proporzionale dell'IRPEG, senza alcun beneficio di detrazione dall'IRPEF (o dall'IRPEG) medesima, così come previsto, a suo tempo, per l'ILOR.
4.- Infine, l'ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993) solleva le seguenti ulteriori questioni:
- se l'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e l'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 -nel dare competenza esclusiva alla commissione censuaria centrale in tema di revisione degli estimi, con esautoramento delle commissioni distrettuali e provinciali ed esclusione dell'interpello dei comuni interessati- violino l'art. 3 della Costituzione, "sotto il profilo del diverso trattamento normativo riservato a situazioni del tutto analoghe tra loro";
- se le stesse norme di cui sopra violino gli artt. 102 e 103 della Costituzione, in quanto rimettono nei termini il Ministero delle finanze per inoltrare i ricorsi presso la commissione censuaria centrale, modificando così il valore sostanziale della "res iudicata" e ponendo in essere uno straripamento del potere legislativo in un campo riservato al potere giudiziario.
5.- Nei giudizi di cui sopra, l'Avvocatura dello Stato, oltre a contestare nel merito il fondamento delle questioni sottoposte all'esame della Corte, ha dedotto l'inammissibilità delle questioni sollevate da tre delle ordinanze menzionate, sotto il profilo dell'inesistenza dei presupposti atti a dare ingresso al giudizio di costituzionalità.
Più in particolare, viene negata l'ammissibilità:
a) delle questioni sollevate con l'ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), per mancanza del carattere di incidentalità, non essendo controverso un rapporto di imposta e trattandosi, in ipotesi, di una impugnazione in via principale di un atto avente forza di legge, cioè dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16;
b) della questione di costituzionalità dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, e dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, in quanto la stessa esulerebbe dall'ambito di cognizione del giudice amministrativo e sarebbe comunque irrilevante nel processo a quo, in quanto al Tribunale amministrativo regionale spetterebbe, in tema di imposta comunale sugli immobili, "la giurisdizione solo sull'altezza dell'aliquota, in misura superiore a quella minima di legge".
Quanto alla prima delle eccezioni, il giudice remittente, come risulta dall'ordinanza, si è dato carico di esaminare il profilo della rituale introduzione innanzi a sè del giudizio, individuandone l'oggetto nella lesione diretta ed immediata delle situazioni soggettive dei ricorrenti, "in quanto gli interessati non possono in alcun modo sottrarsi alla tariffazione del loro immobile come operata dall'amministrazione".
Tanto è sufficiente perchè il giudizio di costituzionalità possa ritenersi ritualmente introdotto, in quanto il controllo della Corte costituzionale, ai fini dell'ammissibilità della questione di legittimità ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va limitato all'adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere.
Quanto all'altra eccezione, con la quale si deduce l'inammissibilità della questione per il fatto che essa esulerebbe dal thema decidendum affidato al giudice amministrativo nella materia di cui trattasi, giova ricordare, in linea generale, che, secondo il costante indirizzo della Corte, il difetto di giurisdizione del giudice a quo, per comportare l'irrilevanza della questione, deve risultare chiaramente dalla legge o corrispondere ad un univoco orientamento giurisprudenziale, sì da rivestire il carattere dell'evidenza. Nel giudizio pendente innanzi al Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, nel quale è in discussione la legittimità di un provvedimento amministrativo, vale a dire la delibera comunale determinativa dell'aliquota dell'ICI, il controllo della Corte -una volta accertata l'esistenza di un giudizio sulla legittimità di un atto della pubblica amministrazione, e cioè dell'oggetto tipico del giudizio amministrativo- non può implicare un sindacato circa l'iter logico seguito dal giudice remittente per affermare la propria competenza a fronte della specifica questione, ma deve limitarsi alla verifica di una ragionevole possibilità, valutata a priori in limine litis, che la disposizione denunziata sia applicabile ai fini della pronunzia da emettere nel giudizio stesso.
6.- Definite come sopra le eccezioni pregiudiziali poste dalla difesa erariale, la Corte ritiene, prima di passare al merito delle questioni di costituzionalità, e per delineare un più chiaro quadro di riferimento, svolgere una breve puntualizzazione sulla vicenda normativa della quale è chiamata ad occuparsi.
L'esigenza dell'aggiornamento del catasto edilizio urbano, resa manifesta dapprima con il d.P.R. 29 settembre 1973, n. 604, e ribadita, da ultimo, dalla legge 30 dicembre 1989, n.427, ebbe avvio con il decreto ministeriale 20 gennaio 1990, che, nel dettare i criteri per la revisione del catasto, fece riferimento, per la determinazione delle tariffe di estimo, nonchè per le rendite catastali delle unità immobiliari a destinazione speciale o particolare, al "valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile", determinato "come media dei valori riscontrati nel biennio 1988- 1989".
All'esito delle operazioni di revisione seguì il decreto ministeriale 27 settembre 1991 che stabilì le tariffe di estimo per l'intero territorio nazionale, con effetto dal 1o gennaio 1992, in conformità ai criteri di cui al precedente decreto ministeriale 20 gennaio 1990.
I predetti provvedimenti formarono oggetto di diverse sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, che li dichiararono illegittimi per aver trasformato, in contrasto con il d.P.R. 1o dicembre 1949, n. 1142, da eccezionale a generale il criterio della determinazione delle tariffe di estimo sulla base dell'interesse del capitale fondiario, anzichè sulla base del reddito virtualmente ritraibile, trasformazione che non era consentito effettuare in via amministrativa.
Dopo l'annullamento dei predetti decreti, il Governo è intervenuto con una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali è stato finalmente convertito in legge, e cioé quello in data 23 gennaio 1993, n. 16, il cui art. 2 ha disposto -con effetto dal 1o gennaio 1995- una nuova revisione generale delle zone censuarie, delle tariffe di estimo, delle rendite delle unità immobiliari urbane e dei criteri di classamento, ad opera di un decreto ministeriale che, al fine di determinare la redditività media ordinariamente ritraibile, faccia riferimento al valore del mercato degli immobili e delle locazioni. Lo stesso art. 2 del decreto-legge ha peraltro previsto, fino al 31 dicembre 1993, la permanenza in vigore e quindi l'applicazione delle tariffe di estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto 20 gennaio 1990 (art. 2, primo comma, terzo periodo). A sua volta la legge 24 marzo 1993, n. 75, nel convertire il decreto menzionato, ha aggiunto al predetto art. 2 i commi 1 bis, 1-ter e 1-quater, con i quali si è data facoltà ai comuni di ricorrere alle commissioni censuarie provinciali e, in sede di appello, alla commissione censuaria centrale "con riferimento alle tariffe di estimo e alle rendite vigenti ai sensi del primo comma" del medesimo art. 2.
Le tariffe d'estimo e le rendite modificate in conseguenza di tali ricorsi, nonchè quelle derivanti da ulteriori modificazioni al fine di mantenere l'invarianza del gettito, recepite in un apposito decreto legislativo, secondo quanto stabilito dall'art. 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75, si sarebbero applicate per l'anno 1994.
Peraltro, ai fini delle imposte dirette (salve alcune esclusioni), l'applicazione sarebbe stata anticipata al 1o gennaio 1992 ove fossero risultate inferiori a quelle stabilite col decreto ministeriale 27 settembre 1991.
Di ciò i contribuenti avrebbero tenuto conto nella dichiarazione dei redditi da presentare per il 1993, secondo criteri indicati sempre dal predetto art. 2 del decreto- legge 23 gennaio 1993, n. 16, peraltro modificati con decreto-legge 31 maggio 1994, n.330.
É venuta così a determinarsi una articolata e complessa disciplina non priva di farraginosità, in spregio alla chiarezza dei rapporti fra fisco e contribuenti, per effetto della quale:
a) dal 1995 dovrebbero entrare in vigore i nuovi estimi, in attuazione della prevista revisione generale, che dovrebbe tener conto, ai fini della "redditività media ordinariamente ritraibile", dei "valori del mercato degli immobili e delle locazioni";
b) per il 1992-1993 è stata riconfermata l'applicabilità delle tariffe stabilite con il decreto ministeriale 27 settembre 1991;
c) per il 1994, ma con eventuale retroattività, in caso di maggior favore, si applicano le tariffe eventualmente modificate - all'esito dei ricorsi previsti dai commi 1-bis, 1-ter e 1-quater dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993- dall'apposito provvedimento che la legge di conversione aveva previsto e che, nel frattempo, risulta emanato, vale a dire il decreto legislativo 28 dicembre 1993, n. 568.
7.1.- Passando all'esame del merito delle varie questioni di legittimità, non fondata è, anzitutto, quella sollevata dalle varie Commissioni tributarie menzionate, le quali lamentano la violazione, da parte dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, degli artt. 3 e 53 della Costituzione, deducendo, in particolare, che la tassazione delle rendite immobiliari fondata su un'ipotesi di fruttuosità di un immobile, determinata con criteri di tipo patrimoniale, colliderebbe con il principio della capacità contributiva e del la progressività, evidenziando, altresì, profili di irrazionalità.
Al riguardo va, in primo luogo, rilevato che il riferimento al principio di progressività appare inconferente, giacchè tale principio si riferisce, come la giurisprudenza costituzionale ha avuto occasione di precisare, al sistema tributario nel suo complesso e non ai singoli tributi, dal momento che il principio stesso, se inteso come crescita dell'aliquota correlata con l'ammontare del reddito, non può che aver riguardo al rapporto diretto fra imposizione e reddito personale complessivo del contribuente (sentenza n. 159 del 1985).
Quanto agli altri profili dedotti, la Corte osserva come, nella specie, il legislatore, con la norma denunciata, rimane nell'ottica tipica del catasto, sistema che già a suo tempo ha superato positivamente il vaglio di costituzionalità (sentenza n. 16 del 1965) e la cui finalità è quella di fissare in valori obiettivi, rappresentati dalla c.d. rendita catastale, l'attitudine del bene a produrre reddito. Nel caso della disposizione portata all'esame della Corte, il procedimento seguito, anzichè fondarsi sul tradizionale parametro del valore locatizio, si basa sul valore di mercato del bene in sè, nell'implicito presupposto, tratto dall'esperienza, di una connessione fra valore del bene e idoneità dello stesso a produrre un reddito.
Il criterio, presumibilmente ispirato dalla constatazione di una scarsa attuale rappresentatività del mercato delle locazioni in ordine alla potenziale capacità di produrre reddito da parte del bene, in presenza di una contingente situazione legislativa quale quella connessa al regime vincolistico degli alloggi, si discosta indubbiamente da quello codificato nell'art. 15 del d.P.R. 1o dicembre 1949, n. 1142; questo pone, infatti, a base del calcolo "il canone annuo di fitto, ordinariamente ritraibile", salvo i casi, pure previsti per legge, in cui un siffatto calcolo non sia possibile, vale a dire quando la locazione non esista o abbia carattere d'eccezione (così l'art.27 del medesimo d.P.R. n. 1142 del 1949).
Ma tutto ciò non è sufficiente per dedurre la illegittimità costituzionale del criterio seguito, per contrarietà al principio della capacità contributiva, tanto più che ciò che viene qui in discussione non è la disciplina di una specifica imposta, quanto un sistema come quello catastale, volto a definire valori, i quali hanno la limitata funzione di fornire una base di riferimento generale per l'applicazione delle singole imposte, secondo la disciplina apprestata per ciascuna di esse dal legislatore, sicchè sarà piuttosto nell'ambito della regolamentazione delle singole imposte che si potrà verificare il rispetto del predetto canone costituzionale.
É pur vero che i criteri di determinazione delle tariffe di estimo e delle rendite catastali, ove non ispirati a principi di ragionevolezza, potrebbero, benchè le tariffe e le rendite non siano di per sè atti di imposizione tributaria, porre le premesse per l'incostituzionalità delle singole imposte che su di essi si fondino.
Peraltro, nel momento in cui, per determinare tariffe di estimo e rendite catastali, si abbandona il tradizionale ancoraggio al reddito ritraibile e si privilegia il valore di mercato del bene, si opera una scelta procedimentale alla quale non è logicamente estraneo il rischio di determinazione di rendite catastali tali da superare per la loro misura il reddito effettivo, sicchè imposte ordinarie, che a tali rendite si rifacessero, porterebbero ad una sostanziale progressiva erosione del bene.
Ma, a parte il fatto che, al di là di generiche doglianze di non razionalità, le ordinanze non prospettano profili idonei a concretamente evidenziare una incongruità dei criteri di determinazione dei valori adottati nella norma denunciata rispetto al fine che con essi si è inteso perseguire, è importante rilevare la transitorietà della disciplina denunciata, peraltro ripetutamente sottolineata anche dalle ordinanze di rimessione e superata, a partire dal 1995, dai nuovi criteri indicati dal legislatore, e cioé il valore di mercato insieme al valore locativo, nei quali si è evidentemente tenuto conto della più recente evoluzione legislativa che tende, come è noto, a superare il regime vincolistico delle locazioni.
7.2.- Del pari infondata è la doglianza relativa alla pretesa reintroduzione della regola del "solve et repete", in violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione. In realtà le ordinanze muovono da una erronea premessa interpretativa dell'ultima parte dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, assumendo che detta norma preveda che, ove gli estimi catastali, determinati con decreto ministeriale, secondo i criteri previsti a decorrere dal 1995, risultino inferiori a quelli già vigenti per gli anni precedenti, il contribuente possa tenerne conto ai fini della imposta personale che dovrà essere pagata a partire dal 1992.
Come già rilevato, nell'illustrare, nelle sue linee generali, il quadro normativo discendente dall'art. 2 del decreto-legge n.16 del 1993 e dalla relativa legge di conversione n. 75 del 1993, il raffronto va fatto non fra le tariffe di estimo di cui al decreto del Ministro delle finanze 27 settembre 1991 e quelle che entreranno in vigore dal 1995, bensì fra quelle di cui al predetto decreto e quelle risultanti all'esito dei ricorsi alle commissioni censuarie, proposti dai comuni ai sensi dei commi 1-bis, 1-ter e 1- quater dello stesso art. 2. In ogni caso, a parte l'erroneità della premessa interpretativa, la censura è infondata, non essendo la situazione ipotizzata dalla disposizione impugnata in alcun modo assimilabile a quelle che si ispirano al principio del "solve et repete", dichiarato a suo tempo incostituzionale (sentenza n. 21 del 1961), riguardante, come è noto, l'imposizione dell'onere di pagamento di un tributo quale presupposto indefettibile dell'esperibilità del- l'azione giudiziaria diretta a ottenere la tutela del diritto del contribuente, mediante l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del tributo stesso.
7.3.- Neppure fondata è la doglianza concernente la violazione degli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, per il lamentato straripa mento del potere legislativo nel campo riservato al potere giudiziario.
Il tema delle leggi, per lo più interpretative o innovative con effetto retroattivo, che interagiscono con controversie in corso, ha formato, come è noto, oggetto di ricorrente esame da parte della giurisprudenza costituzionale, la quale ritiene che tali leggi non urtino, in linea di principio, contro la Costituzione, nè vulnerino le attribuzioni degli organi giurisdizionali, a meno che non siano preordinate a vanificare i giudicati, dovendosi tener conto che l'opera del legislatore si svolge su un piano diverso da quello dell'opera interpretativa ed applicativa affidata al giudice (sentenza n. 455 del 1992).
D'altro canto, non può negarsi al legislatore nemmeno la facoltà di disciplinare settori per i quali vi sia una insufficiente copertura legislativa, come talora la Corte ha avuto occasione di precisare (sentenza n. 356 del 1993). Nel caso di specie, per negare fondamento alla proposta censura, appare decisiva la considerazione che a ben vedere il legislatore, più che a vanificare pronunzie giudiziali, ha provveduto a dare fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva considerato illegittimi proprio perchè enunciati in un decreto ministeriale, in contrasto con le norme sul catasto, sovraordinate in quanto contenute in un regolamento governativo.
7.4.- Inammissibile è poi la questione che l'ordinanza della già menzionata Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994) solleva in ordine al medesimo art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, deducendo che sarebbero mancati i presupposti della necessità e dell'urgenza, per l'emanazione dello stesso. Come più volte affermato da questa Corte, intervenuta la conversione, perdono rilievo e non possono trovare ingresso nel giudizio di costituzionalità le censure di illegittimità dedotte con riguardo ai limiti dei poteri del Governo nell'adozione dei decreti- legge.
Quanto, poi, al rilievo che la ripetuta reiterazione del decreto-legge avrebbe coartato, in violazione dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione la libera espressione della volontà delle Camere, secondo quanto sostenuto dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia, trattasi di notazione espressiva di null'altro che di un mero punto di vista, come tale inidonea ad attivare lo scrutinio di costituzionalità e che quindi non può che mettere capo ad una pronuncia di inammissibilità.
Come ad una pronuncia di inammissibilità non possono che mettere capo i profili sollevati nella stessa ordinanza, richiamando, nel solo dispositivo, gli artt. 70, 101, 102 e 104 della Costituzione, senza addurre alcun cenno di motivazione.
8.- Quanto alle questioni prospettate dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, vanno anzitutto esaminate quelle che investono l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 e, in via derivata l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 24, 55 e segg., 70 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione. Poichè, l'art.2 della legge n. 75 del 1993, nella parte in cui forma oggetto di censura, dispone che "fino al 31 dicembre 1993, resta fermo per i comuni e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo," del decreto-legge n. 16 del 1993, ne consegue che, sia pure nella diversità delle disposizioni investite, la sostanza delle questioni portate all'esame della Corte corrisponde a quella di cui alle ordinanze delle già ricordate Commissioni tributarie, segnatamente nella parte in cui si lamenta la lesione del diritto di difesa dei cittadini e delle prerogative del potere giurisdizionale. A ciò si aggiunge l'ulteriore profilo attinente alla denunciata lesione delle prerogative di autotutela della pubblica amministrazione.
La Corte sarebbe portata a dubitare della corretta proposizione di una questione di costituzionalità, quando il giudice remittente, come nella specie, invochi a sostegno di essa parametri puntualmente indicati, ma faccia, al tempo stesso, generico richiamo a quelli che ad essi seguono, per di più senza adeguatamente ed analiticamente moti vare in ordine a ciascuno dei parametri che si assumono violati.
Ad ogni modo, valgono le considerazioni già svolte, nel senso che, nella specie, il legislatore ha provveduto a dare fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva considerato illegittimi, proprio perchè enunciati in un decreto ministeriale che contrastava con la disciplina del catasto contenuta nel d.P.R. 1o dicembre 1949, n. 1142.
Tutto ciò, se da una parte vale ad escludere, come già precisato, una illegittima interferenza nell'esercizio della funzione del giudice, non consente nemmeno di scorgere una lesione dei poteri di autotutela della pubblica amministrazione, in quanto nel caso di specie il legislatore è intervenuto a sanare situazioni derivanti proprio dall'accertata inidoneità dello strumento amministrativo a realizzare una determinata disciplina. Fermo quanto detto, non è comunque configurabile un profilo di illegittimità derivata nell'art. 5 del decreto legislativo n. 504 del 1992, rispetto all'art. 2 della legge n. 75 del 1993, posto che la prima norma, anche per essere cronologicamente anteriore, non fa, nè in alcun modo potrebbe fare, rinvio ai criteri enunciati nella seconda, ma si limita, nel de finire la base imponibile per l'imposta comunale sugli immobili, a richiamare le rendite risultanti in catasto, da rivalutare "periodicamente in base a parametri che tengono conto dell'effettivo andamento del mercato immobiliare", ma senza qualificare la relativa fonte.
9.- Il Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria dubita, poi, della legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione.
La lesione di tali parametri viene prospettata sotto molteplici profili, attinenti all'incidenza dell'imposta sul patrimonio immobiliare lordo anzichè sul reddito, alla discriminazione fra contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, alla mancata considerazione degli oneri e passività nonchè della pressione tributaria specifica che già grava sugli immobili stessi.
A proposito del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, occorre osservare che la denuncia proposta, la quale investe il Capo I (artt.1-18) nella sua totalità, si risolve sostanzialmente nella censura dell'intero complesso normativo riguardante l'istituzione e la disciplina, nei suoi aspetti sostanziali e procedimentali, dell'imposta comunale sugli immobili. Nei termini in cui viene proposta, la questione è da dichiarare inammissibile, in quanto le disposizioni del testo impugnato hanno oggetti eterogenei, fra i quali non è dato ravvisare quella reciproca, intima connessione che consente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, di introdurre validamente un giudizio di legittimità costituzionale quando questo ha ad oggetto un intero testo legislativo. Nè possono valere a superare un siffatto rilievo le puntuali censure prospettate dalla difesa delle parti private, in quanto, secondo costante giurisprudenza, la Corte deve esaminare le questioni nei limiti in cui esse sono state precisate nelle ordinanze di rinvio (da ultimo, ordinanza n. 469 del 1992).
Per la stessa ragione è da considerare inammissibile la questione di costituzionalità in quanto riferita all'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 -disposizione dalla quale trae fondamento la delega a suo tempo conferita al Governo per la istituzione dell'ICI- e che si compone di molteplici proposizioni normative, in riferimento a ben diciannove principi e criteri direttivi.
Quanto, infine, ai rilievi che le due ordinanze svolgono in ordine all' art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, per violazione degli artt. 70, 77, 101, 102, 104 e segg. della Costituzione -senza sollevare, almeno a quanto risulta dall'articolazione espositiva delle ordinanze medesime, specifica questione di costituzionalità- possono valere le argomentazioni svolte a proposito delle questioni sollevate con le ordinanze della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993) e della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), alle cui prospettazioni il giudice amministrativo remittente fa del resto rinvio.
10.- Inammissibile è, infine, la questione sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano nei confronti dell'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e dell'art. 1 del decreto- legge 9 ottobre 1993, n. 405, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103 della Costituzione.
Anzitutto, il primo di essi non è stato convertito in legge, anche se i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge 10 novembre 1993, n. 457, di conversione del successivo decreto-legge n. 405 del 1993. In ogni caso, i due decreti-legge riguardano le procedure di ricorso previste dai commi 1-bis e 1-ter del decreto-legge n. 16 del 1993, per la contestazione degli estimi fra comuni e amministrazione finanziaria, destinate a concludersi con le pronunzie poi recepite con il decreto legislativo n. 568 del 28 dicembre 1993. Le norme denunziate dispongono, in particolare, che i ricorsi non decisi per mancata costituzione delle commissioni censuarie alla data di entrata in vigore del decreto stesso si intendono accolti, fissando, a decorrere da questa medesima data, un termine di trenta giorni per i ricorsi, da parte dell'amministrazione, alla commissione censuaria centrale. Poichè nel giudizio pendente innanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Rossano si discute delle rendite catastali, quali derivanti dagli estimi di cui al decreto ministeriale 27 settembre 1991, assunti a contenuto dell'art. 2 del decreto- legge n. 16 del 1993, risulta estranea al thema decidendum ogni questione attinente alle procedure di ricorso di cui sopra, peraltro non ancora definite all'epoca dell'ordinanza di rimessione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, sollevata con le ordinanze della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993), in riferimento agli artt.3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione; della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 24, 3 e 53 della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 101, 102 e 104 della Costituzione; della Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118 del 1994), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102, 103 e 104 della Costituzione;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n.656 del 1993), in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione, e con la ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento all'art. 77 della Costituzione;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 70, 101, 102 e 104 della Costituzione;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, recante disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie) e dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 55 e segg., 70 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, con due ordinanze in data 10 novembre 1993 (R.O. n. 31 del 1994 e R.O. n. 33 del 1994);
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, con le menzionate ordinanze del predetto Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria;
6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie) e 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano, con la menzionata ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/06/94.
Massima n. 22879
La valutazione preliminare dell'esistenza dei presupposti di necessità ed urgenza, richiesti dall'art. 77 Cost., e' riferita solo alla fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo e non si estende alle norme adottate dal Parlamento. Tale valutazione riguarda esclusivamente la evidente mancanza di quei presupposti, tale cioe' da fare palesemente ritenere che l'atto sia stato adottato del Governo al di fuori dell'ambito delle possibilita' applicative costituzionalmente previste per il decreto-legge. Pertanto, una pronuncia di illegittimità costituzionale puo' essere giustificata solo in caso di "evidente mancanza" dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza di tali presupposti. - V. S. nn. 29/1995, 161/1995, 391/1995, 84/1996. red.: A. Franco
Massima n. 22881
Non e' fondata, in riferimento agli artt. 25 e 77 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'intero testo del decreto-legge 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), sollevata sotto il profilo che esso sarebbe stato adottato in assenza degli indispensabili requisiti di necessità e di urgenza, in una materia, quella penale, dove l'uso del decreto-legge dovrebbe essere del tutto eccezionale, per evitare di sottrarre al Parlamento una funzione ad esso esclusivamente attribuita. Invero - premesso che la valutazione della Corte costituzionale puo' riguardare esclusivamente la evidente mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza - nella specie non ricorre quella "evidente mancanza" dei requisiti di validità costituzionale, che puo' giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale. Il decreto-legge impugnato, infatti, pur succedendo ad altri precedenti, analoghi atti non convertiti e decaduti, e' sostenuto da una specifica motivazione, resa esplicita nella relazione governativa che accompagna il disegno di legge di conversione. Quanto al profilo relativo alla materia penale - premesso che, in linea di principio, i decreti- legge possono toccare anche fattispecie e sanzioni penali -, il rischio di sottrazione al Parlamento del potere e della responsabilita' delle scelte in materia penale, che secondo i giudici rimettenti potrebbe derivare dall'uso del decreto legge come atto di normazione penale del tutto precario e non imputabile alla volonta' del legislatore, non ha comunque ragion d'essere per il decreto-legge impugnato, che e' stato convertito in legge. - V. le precedenti massime A e B. red.: A. Franco
composta dai signori: Presidente:, avv. Mauro FERRI; Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature); degli artt. 1, 2, 3, 6 e 7 del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172; dell'art. 1, secondo comma, della legge 17 maggio 1995, n. 172 e dell'art. 21, terzo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento), promossi con ordinanze emesse: il 24 marzo 1995 dal pretore di Perugia, sezione distaccata di Todi; l'11 aprile 1995 dal pretore di Busto Arsizio; il 31 marzo 1995 dal pretore di Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere; il 6 aprile 1995 dal pretore di Pordenone, sezione distaccata di Spilimbergo; il 10 aprile 1995 (n. 2 ordinanze) dal pretore di Ferrara, sezione distaccata di Comacchio; il 5 maggio 1995 dal pretore di Trento; il 31 maggio 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Udine; il 27 giugno 1995 dal pretore di Perugia, sezione distaccata di Assisi; il 30 giugno 1995 dal pretore di Perugia, sezione distaccata di Todi; il 24 giugno 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Udine; il 27 marzo 1995 dal pretore di Brescia; il 5 aprile 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Lecce; il 30 giugno 1995 dal pretore di Pistoia, sezione distaccata di Pescia; il 3 aprile 1995 (n. 3 ordinanze) dal pretore di Ferrara; il 12 aprile 1995 dal pretore di Ferrara; il 14 aprile 1995 dal pretore di Ferrara; il 30 marzo 1995 dal pretore di Ferrara; il 20 aprile 1995 dal pretore di Udine; il 26 giugno 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Pisa; il 24 agosto 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Trieste; il 17 luglio 1995 dal pretore di Vicenza; il 1 settembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Livorno; il 26 settembre 1995 (n. 2 ordinanze) dal pretore di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco; il 4 ottobre 1995 dal pretore di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco; il 6 aprile 1995 dal pretore di Grosseto; il 28 settembre 1995 dal pretore di Palmi; il 10 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Udine; il 13 ottobre 1995 (n. 2 ordinanze) dal pretore di Pisa, sezione distaccata di San Miniato; il 12 ottobre 1995 dal pretore di Trento; l'8 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Lecce; il 13 dicembre 1995 dal pretore di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco; il 3 novembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Lecce; ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 336, 345, 346, 371, 384, 385, 432, 495, 537, 584, 588, 607, 608, 616, 634, 642, 643, 649, 650, 672, 685, 688, 718, 776, 786, 807, 808, 809, 895, 896, 916, 919, 920 del registro ordinanze 1995 e ai nn. 9, 60, 112, 131 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, nn. 24, 25, 26, 30, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 48, 49 e 53 dell'anno 1995 e nn. 2, 5, 7 e 8 dell'anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1.1. - Tutte le questioni di legittimità costituzionale investono le innovazioni alle norme per la tutela delle acque dall'inquinamento (legge 10 maggio 1976, n. 319), introdotte con il d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172.
1.2. - Alcuni dei dubbi di legittimità costituzionale coinvolgono l'intero decreto-legge n. 79 del 1995, in riferimento agli artt. 3, 25 e 77 della Costituzione. Le ordinanze di rimessione, emesse prima della legge di conversione n. 172 del 1995, sottolineano che dal 15 novembre 1993 si sono succeduti decreti-legge non convertiti, con contenuto parzialmente diverso, i quali hanno modificato il regime delle sanzioni in materia di scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature. In particolare alcune condotte illecite non sono più configurate come reato, ma come illecito amministrativo punito con sanzioni pecuniarie. I giudici rimettenti ritengono che il decreto-legge n. 79 del 1995 sia stato adottato in assenza degli indispensabili requisiti di necessità ed urgenza, in una materia, quella penale, nella quale l'uso del d.-l. dovrebbe essere del tutto eccezionale, per evitare il rischio di sottrarre al Parlamento una funzione ad esso esclusivamente attribuita. Ad avviso dei giudici rimettenti, inoltre, la successione di decreti-legge dal contenuto parzialmente diverso determinerebbe una disparità di trattamento, giacché la stessa condotta potrebbe essere sanzionata in modo diverso, in ragione della casualità delle decisioni secondo il tempo in cui sono emesse, cioè sotto la vigenza dell'uno o dell'altro decreto-legge.
1.3. - Altre questioni di legittimità costituzionale riguardano il merito della disciplina degli scarichi provenienti da insediamenti civili e da pubbliche fognature, con riferimento al trattamento sanzionatorio per essi previsto, che è differenziato rispetto a quello degli scarichi provenienti da insediamenti produttivi.
Le questioni investono specificamente:
a) le modifiche che l'art. 3, primo comma, del decreto-legge n. 79 del 1995 (nel testo originario o in quello risultante a seguito della conversione nella legge n. 172 del 1995) apporta all'art. 21, terzo comma, della legge n. 319 del 1976: per gli scarichi diversi da quelli provenienti da insediamenti produttivi l'inosservanza dei limiti di accettabilità stabiliti dalle Regioni con i piani di risanamento delle acque (art. 14, secondo comma, della stessa legge) costituisce illecito amministrativo punito con sanzione pecuniaria (da tre a trenta milioni di lire), anziché reato;
b) le modifiche che l'art. 6, secondo comma, del decreto-legge n. 79 del 1995 apporta all'art. 21 della legge n. 319 del 1976, con l'aggiunta di un ultimo comma che colpisce con sanzione pecuniaria amministrativa (da dieci a cento milioni di lire), anziché con sanzione penale, l'apertura o l'effettuazione di scarichi civili e delle pubbliche fognature senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, ovvero dopo che l'autorizzazione è stata negata o revocata;
c) l'esclusione dell'applicabilità, per gli scarichi da pubbliche fognature, delle sanzioni amministrative nei confronti dei pubblici amministratori che dispongano di progetti esecutivi cantierabili per opere destinate alla depurazione delle acque (art. 3, primo comma, ultimo periodo, del decreto-legge n. 79 del 1995, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 1995; art. 21, terzo comma, ultimo periodo, della legge n. 319 del 1976, nel testo sostituito con l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1995, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 1995);
d) le modifiche che l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1995 reca alla disciplina delle sanzioni per il superamento dei limiti di accettabilità da parte di scarichi provenienti da insediamenti produttivi, punito con la pena alternativa dell'ammenda o dell'arresto, anziché con la sola pena dell'arresto, come era invece previsto nel testo originario dell'art. 21, terzo comma, della legge n. 319 del 1976;
e) ancora l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1995, convertito, con modificazioni, nella legge n. 172 del 1995, nella parte in cui depenalizza il superamento dei limiti di accettabilità da parte degli scarichi produttivi esistenti con recapito in pubblica fognatura dotata di impianto centralizzato di depurazione funzionante;
f) il procedimento di regolarizzazione degli scarichi in esercizio (art. 7, commi 2, 3 e 5, del decreto-legge n. 79 del 1995, soppressi in sede di conversione in legge);
g) l'art. 1, secondo comma, della legge n. 172 del 1995, che, nel convertire in legge il decreto-legge n. 79 del 1995, rende validi gli atti ed i provvedimenti adottati e fa salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge succedutisi in materia, dal n. 454 del 1993 al n. 9 del 1995, non convertiti in legge nei termini costituzionalmente previsti.
Il contrasto delle disposizioni denunciate con la Costituzione viene essenzialmente riferito:
a) al principio di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3), giacché la diversità di sanzioni (amministrative per gli scarichi provenienti da insediamenti civili e da pubbliche fognature, penali per gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi) sarebbe fondata non sulla diversa gravità dei fatti, ma sulla differente qualifica di chi effettua lo scarico;
b) alla tutela del paesaggio (art. 9) e della salute (art. 32), in quanto la depenalizzazione di alcuni comportamenti, che egualmente determinano inquinamento idrico, e la riduzione della gravità delle sanzioni diminuirebbero il livello di protezione della salubrità dell'ambiente;
c) agli artt. 101 e 112, in quanto la depenalizzazione di talune condotte, introdotta con decreto-legge, inciderebbe sull'obbligo del pubblico ministero di esercitare l'azione penale e comporterebbe una soggezione del giudice al potere esecutivo, anziché alla legge;
d) all'obbligo di assicurare il rispetto delle norme comunitarie (artt. 10 e 11 della Costituzione), emanate in particolare con la direttiva 91/271/CEE;
e) alla libertà di iniziativa economica (art. 41), giacché le imprese che non recapitano i loro scarichi in pubbliche fognature sarebbero svantaggiate, avendo dovuto affrontare rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alla normativa in vigore.
Alcune questioni, pur concernendo specifici aspetti della disciplina sostanziale dettata dal decreto-legge n. 79 del 1995, e senza coinvolgere l'atto nella sua interezza, fanno riferimento agli artt. 25 e 77 della Costituzione, per denunciare il contrasto con il principio di riserva di legge in materia penale e la mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza.
2. - Tutte le ordinanze di rimessione riguardano il decreto-legge n. 79 del 1995, nell'intero testo o in alcune sue disposizioni, o l'art. 21 della legge n. 319 del 1976, nel testo che risulta a seguito delle modifiche apportate con il decreto-legge n. 79 del 1995, oppure la legge di conversione n. 172 del 1995.
Essendo le questioni identiche o analoghe, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
3.1. - Il primo gruppo di questioni investe la validità del decreto-legge n. 79 del 1995 nella sua interezza. Viene, difatti, denunciata la lesione dei principi costituzionali in materia di decretazione di urgenza, sia in relazione alle condizioni che legittimano il Governo ad adottare tale atto, sia in relazione alla materia, quella penale, da esso disciplinata (artt. 77 e 25 della Costituzione).
Le questioni sono infondate.
Il decreto-legge n. 79 del 1995 è l'ultimo di una serie di analoghi atti aventi forza di legge, decaduti e reiterati. Esso è stato convertito in legge e le situazioni alle quali, nei giudizi principali, deve essere applicato precedono tutte la legge di conversione. La valutazione preliminare dell'esistenza dei presupposti di necessità ed urgenza, richiesti dall'art. 77 della Costituzione, è riferita solo alla fase della decretazione d'urgenza esercitata dal Governo e non si estende alle norme adottate dal Parlamento (sentenza n. 391 del 1995). Questa valutazione riguarda esclusivamente la evidente mancanza di quei presupposti, tale cioè da far palesemente ritenere che l'atto sia stato adottato dal Governo al di fuori dell'ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste per il d.-l. (sentenza n. 29 del 1995). Nel caso del decreto-legge n. 79 del 1995 non ricorre quella "evidente mancanza" dei requisiti, che deve essere affermata per giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenze n. 84 del 1996 e n. 161 del 1995). Il decreto-legge in esame, difatti, pur succedendo ad altri precedenti, analoghi atti non convertiti e decaduti, è sostenuto da una specifica motivazione, resa esplicita nella relazione governativa che accompagna il disegno di legge di conversione. Quanto al dubbio di legittimità costituzionale del decreto-legge n. 79 del 1995, prospettato in relazione alla materia penale che ne costituisce l'oggetto, non si può affermare, in linea di principio, che i decreti-legge non possano toccare fattispecie e sanzioni penali. Se così fosse, verrebbe introdotto un limite al contenuto dei decreti-legge non previsto dall'art. 77 della Costituzione e che non può essere desunto dal principio di riserva di legge in materia penale (art. 25 della Costituzione), venendo tale riserva osservata anche da atti aventi forza di legge (cfr. sentenza n. 184 del 1974), purché nel rigoroso rispetto dei presupposti costituzionali ad essi inerenti. Il rischio di sottrazione al Parlamento del potere e della responsabilità delle scelte in materia penale, che i giudici rimettenti ritengono possa derivare dall'uso del d.-l. come atto di normazione penale del tutto precario e non imputabile alla volontà del legislatore, non ha, comunque, ragion d'essere per il decreto-legge n. 79 del 1995, che è stato convertito in legge.
3.2. - Altri dubbi di legittimità costituzionale che investono l'intero decreto-legge sono stati prospettati in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Alcune ordinanze di rimessione considerano che la successione di atti normativi diversi, dotati di vigenza precaria, possa portare alla mutevolezza delle norme da applicare, determinando una varietà di decisioni giurisdizionali, che dipende dal tempo della loro pronuncia. Questi esiti irragionevoli non possono, tuttavia, essere riferiti al decreto-legge in esame, che, convertito in legge, ha acquistato stabile e definitivo valore normativo. Né può essere assunta quale elemento di comparazione, per la disciplina da esso dettata, quella contenuta in precedenti decreti-legge non convertiti, che hanno ormai perso efficacia ed i cui effetti, già prodotti solo in via eccezionale, sono stati, poi, sanati nel contesto della legge di conversione.
4.1. - Le questioni attinenti a singoli contenuti normativi della disciplina dettata dal decreto-legge n. 79 del 1995, e dalla legge di conversione n. 172 del 1995, riguardano anzitutto la natura e l'entità delle sanzioni per le condotte qualificate come illecite; sanzioni che le ordinanze di rimessione considerano inadeguate e tali da determinare incoerenze nella tutela delle acque dall'inquinamento, come delineata dalla legge n. 319 del 1976. I vizi di legittimità costituzionale discenderebbero, difatti, essenzialmente dal differente trattamento degli scarichi provenienti da insediamenti produttivi, rispetto a quelli provenienti da insediamenti civili e da pubbliche fognature. L'apertura, l'effettuazione o il mantenimento senza la prescritta autorizzazione costituisce solo per i primi reato, mentre per i secondi si configura come illecito amministrativo, sanzionato con pene pecuniarie. Anche l'effettuazione di scarichi che superano i limiti di accettabilità continua ad essere configurata come reato solo per quelli provenienti da insediamenti produttivi. L'unificazione delle figure, previste in ogni caso come reato senza che assuma rilievo la provenienza dello scarico, è mantenuta invece per il superamento dei limiti di accettabilità inderogabili per i parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile. La distinzione dei tipi di scarico (provenienti da insediamenti civili e da pubbliche fognature, da un lato, o provenienti da insediamenti produttivi, dall'altro), e la conseguente diversità nella natura delle sanzioni, costituiscono una scelta di fondo del legislatore, intervenuto a seguito del mutato orientamento della giurisprudenza nell'interpretazione dell'art. 21 della legge n. 319 del 1976, le cui sanzioni penali, previste per gli scarichi non autorizzati o che superano i limiti di accettabilità, si riteneva in precedenza fossero riferite solo agli scarichi da insediamenti produttivi. Dopo che la giurisprudenza, stabilizzata dal più recente e ripetuto orientamento della Corte di cassazione a sezioni unite, ha affermato l'uniformità della disciplina per tutti gli scarichi, applicando le sanzioni previste dall'art. 21, primo e terzo comma, della legge n. 319 del 1976 anche a quelli provenienti da pubbliche fognature e da insediamenti civili, il legislatore ha ritenuto di attuare una correzione normativa del sistema. È stata, così, introdotta l'espressa differenziazione di trattamento sanzionatorio degli scarichi provenienti da insediamenti produttivi rispetto a quelli provenienti da pubbliche fognature e da insediamenti civili. L'apertura, l'effettuazione o il mantenimento di uno scarico senza la prescritta autorizzazione, ed il superamento dei limiti di accettabilità (eccettuati quelli previsti per i parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile, il cui superamento è sempre sanzionato penalmente), rimangono configurati come reato solo per i primi, mentre per i secondi costituiscono illecito amministrativo, sanzionato con pene pecuniarie. Venuta meno la possibilità di definire gli scarichi delle pubbliche fognature come scarichi indiretti degli insediamenti a monte, acquista specifico rilievo la fissazione dei limiti di accettabilità determinati dalle Regioni nell'ambito dei piani di risanamento, di loro competenza, e dai regolamenti dell'autorità locale; mentre l'assoluta uniformità di disciplina rimane per i limiti inerenti ai parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile. Diversamente, configurando come reato il superamento dei limiti di accettabilità fissati dalle Regioni nell'ambito dei piani di risanamento delle acque, l'autonomia attribuita alle stesse nello stabilire tali limiti, affermata sul piano amministrativo, non potrebbe essere esercitata, ritenendosi necessario rendere uniforme, quanto ai limiti di accettabilità, la configurazione delle condotte penalmente sanzionate.
4.2. - I dubbi di legittimità costituzionale investono, in particolare, gli artt. 3 e 6 del decreto-legge n. 79 del 1995, che, sostituendo il testo del terzo comma dell'art. 21 della legge n. 319 del 1976, ed aggiungendo ad esso un ultimo comma, configurano come illecito amministrativo, sanzionato con pena pecuniaria, l'apertura, l'effettuazione o il mantenimento di uno scarico non autorizzato o il superamento dei limiti di accettabilità da parte di scarichi provenienti da insediamenti civili o da pubbliche fognature, mentre rimane reato l'apertura, l'effettuazione o il mantenimento di uno scarico non autorizzato o il superamento dei limiti tabellari, se proveniente da insediamenti produttivi. La scelta del legislatore è contestata dalle ordinanze di rimessione, le quali assumono, sostanzialmente, come necessaria la statuizione di sanzioni penali, e non solo amministrative, per le condotte considerate e ritengono irragionevole il differente trattamento, per esse, rispetto a quello previsto per gli stessi comportamenti riferiti agli scarichi provenienti da insediamenti produttivi. Come pure è posta in discussione la prevista attenuazione delle sanzioni penali (ammenda come possibile alternativa all'arresto) per il superamento dei limiti di accettabilità per scarichi provenienti da insediamenti produttivi. Ancor prima di valutare la fondatezza delle questioni che vengono prospettate, in relazione ai molteplici profili proposti, ne deve essere rilevata l'inammissibilità. Le questioni tendono ad introdurre, o reintrodurre, figure di reato e aggravamenti di pena, chiedendo una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, giacché il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene è esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalità dei reati e delle pene, sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione (tra le molte, da ultimo, sentenza n. 411 del 1995 e, nella materia della tutela delle acque dall'inquinamento idrico, sentenze nn. 314 e 226 del 1983; ordinanze nn. 132 e 25 del 1995).
5. - Il pretore di Vicenza (reg. ord. n. 776 del 1995) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3 (primo comma, secondo periodo) del decreto-legge n. 79 del 1995, ritenendo che tale disposizione abbia depenalizzato il superamento dei limiti di accettabilità da parte degli scarichi produttivi esistenti, che recapitano in pubbliche fognature dotate di impianto centralizzato di depurazione funzionante. Il dubbio di legittimità costituzionale è prospettato in relazione agli artt. 3, 10, 11, 77 e 25 della Costituzione. La disposizione denunciata richiama l'art. 12, primo comma, numero 2, della legge n. 319 del 1976 solo per stabilire che gli scarichi provenienti da insediamenti produttivi che recapitano in pubbliche fognature devono, prima dell'entrata in funzione dell'impianto centralizzato di depurazione, rispettare i limiti di accettabilità previsti dalla legge n. 319 del 1976 (tabella C); mentre dopo l'entrata in funzione dell'impianto di depurazione gli stessi scarichi si devono adeguare ai limiti di accettabilità stabiliti, in relazione alla capacità dell'impianto di depurazione, dalle amministrazioni che provvedono alla gestione di tale servizio. Il richiamo all'art. 12 non è diretto a distinguere tra scarichi nuovi o preesistenti, ma individua i criteri di determinazione dei limiti di accettabilità in relazione all'esistenza o meno di un impianto di depurazione. Questa interpretazione rispecchia, del resto, l'orientamento della Corte di cassazione, che ha ritenuto non rilevante, ai fini ora considerati, la distinzione tra scarichi nuovi o preesistenti. La questione è, dunque, infondata per erroneità del presupposto interpretativo.
6. - Alcune questioni di legittimità costituzionale investono la disposizione che stabilisce la non applicabilità delle sanzioni, relative all'inosservanza dei limiti di accettabilità per gli scarichi da pubbliche fognature, nei confronti dei pubblici amministratori che, alla data di accertamento della violazione, dispongano di progetti esecutivi cantierabili, finalizzati alla depurazione delle acque. Le questioni sono poste individuando questa norma nell'art. 3, primo comma, ultimo periodo, del decreto-legge n. 79 del 1995, convertito con modificazioni nella legge n. 172 del 1995 (pretore di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco, ordinanze n. 807 e n. 809 del reg. ord. del 1995), ovvero nell'art. 21, terzo comma, ultimo periodo, della legge n. 319 del 1976, il cui testo è stato appunto sostituito con l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1995 (pretore di Trento, ordinanza n. 9 del reg. ord. del 1996). I dubbi di legittimità costituzionale sono prospettati in riferimento all'art. 25 della Costituzione per la indeterminatezza della fattispecie penale, che non preciserebbe la nozione di progetto "cantierabile". È anche denunciata la violazione dell'art. 3 della Costituzione, tanto per disparità di trattamento degli amministratori pubblici nei confronti di ogni altro soggetto in possesso di progetti esecutivi per depuratori da realizzare, quanto per l'irrazionale indeterminatezza dei limiti temporali previsti per la realizzazione delle opere. Le questioni sono inammissibili. Le ordinanze di rimessione, difatti, non motivano la rilevanza che la soluzione del dubbio di legittimità costituzionale avrebbe nei giudizi principali. In questi erano imputati pubblici amministratori, ma non viene in alcun modo valutato se esistessero quei progetti esecutivi, idonei a far escludere l'applicabilità delle sanzioni penali.
7. - Alcune questioni di legittimità costituzionale investono l'art. 7 (più precisamente, i commi 2, 3 e 5) del decreto-legge n. 79 del 1995, che prevede un procedimento di regolarizzazione degli scarichi in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.-l. (consentendo ai titolari degli stessi di presentare, entro novanta giorni da tale data, la relativa domanda) e dispone che il rilascio dell'autorizzazione estingue i reati previsti dall'art. 21, primo e secondo comma, della legge n. 319 del 1976. I dubbi di legittimità costituzionale sono prospettati in riferimento agli artt. 3, 9, 32, 25 e 77 della Costituzione. La norma denunciata è stata soppressa dalla legge n. 172 del 1995 in sede di conversione del decreto-legge, senza che sia prevista la salvezza degli effetti prodotti. Le questioni sono, pertanto, inammissibili (cfr. ordinanza n. 84 del 1993).
8. - Il pretore di Perugia, sezione distaccata di Todi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 9, 10 e 32 della Costituzione, anche dell'art. 1, secondo comma, della legge n. 172 del 1995. La disposizione denunciata fa salvi gli atti, i provvedimenti adottati e gli effetti prodottisi in base ai precedenti decreti-legge non convertiti e decaduti. Il giudice rimettente ritiene che la sanatoria si riferisca anche alle domande di autorizzazione presentate, in base all'art. 7 del decreto-legge n. 79 del 1995, nel tempo della sua vigenza. Ma questa interpretazione non può essere seguita, giacché in sede di conversione l'art. 7 (commi 2 e seguenti) del decreto-legge n. 79 del 1995 è stato soppresso, senza che ne siano stati salvaguardati gli effetti. La questione è, pertanto, infondata per erroneità del presupposto interpretativo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale:
a) del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79 (Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25 e 77 della Costituzione, dal pretore di Ferrara, sezione distaccata di Comacchio, e dal pretore di Ferrara con le ordinanze indicate in epigrafe;
b) dell'art. 3, primo comma, secondo periodo, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 25 e 77 della Costituzione, dal pretore di Vicenza con l'ordinanza indicata in epigrafe;
c) dell'art. 1, secondo comma, della legge 17 maggio 1995, n. 172 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, recante modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature), sollevata, in riferimento agli artt. 9, 10, 25, 32 e 77 della Costituzione, dal pretore di Perugia, sezione distaccata di Todi, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale:
a) degli artt. 1, 2 e 3, primo comma, primo periodo, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, ovvero dell'art. 21, terzo comma, primo periodo, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento), nel testo sostituito con l'art. 3 del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 9, 10, 11, 25, 32, 41, 77, 101 e 112 della Costituzione, dai pretori di Busto Arsizio, Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, Pordenone, sezione distaccata di Spilimbergo, Trento, Udine, Grosseto, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Udine, dal pretore di Pistoia, sezione distaccata di Pescia, dal giudice per le indagini preliminari presso le Preture circondariali di Pisa, Trieste e Livorno, dai pretori di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco, Palmi e Pisa, sezione distaccata di San Miniato, con le ordinanze indicate in epigrafe;
b) dell'art. 3, primo comma, secondo periodo, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 77 della Costituzione, dai pretori di Perugia, sezione distaccata di Todi, e Grosseto con le ordinanze indicate in epigrafe;
c) dell'art. 3, primo comma, ultimo periodo, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, ovvero dell'art. 21, terzo comma, ultimo periodo, della legge 10 maggio 1976, n. 319, nel testo sostituito con l'art. 3 del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dai pretori di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco, e Trento con le ordinanze indicate in epigrafe;
d) dell'art. 6 del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 17 maggio 1995, n. 172, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 9, 10, 11 25, 32, 77, 101 e 112 della Costituzione, dai pretori Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, Pordenone, sezione distaccata di Spilimbergo, Trento, Brescia, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Lecce, dal pretore di Perugia, sezione distaccata di Assisi, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Pisa, e dal pretore di Padova, sezione distaccata di Piove di Sacco, con le ordinanze indicate in epigrafe;
e) dell'art. 7, commi 2, 3 e 5, del d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 9, 32, 25 e 77 della Costituzione, dai Pretori di Perugia, sezione distaccata di Todi, Mantova, sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, Pordenone, sezione distaccata di Spilimbergo, e Trento con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1996.
Massima n. 22912
Devono considerarsi costituzionalmente illegittimi, per violazione dell'art. 77 Cost., i decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione, in quanto il decreto-legge iterato o reiterato - per il fatto di riprodurre (nel suo complesso o in singole disposizioni) il contenuto di un decreto-legge non convertito, senza introdurre variazioni sostanziali - collide con la previsione costituzionale sia perché altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza, procrastinando, di fatto, il termine invalicabile previsto dalla Costituzione per la conversione in legge; sia perché toglie valore al carattere "straordinario" dei requisiti della necessità e dell'urgenza, posto che la reiterazione viene a stabilizzare e a prolungare nel tempo il richiamo ai motivi gia' posti a fondamento del primo decreto; sia perché attenua la sanzione della perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, posto che il ricorso ripetuto alla reiterazione suscita nell'ordinamento l'aspettativa di consolidamento degli effetti determinati dalla decretazione d'urgenza mediante la sanatoria finale della disciplina reiterata; sia perché la prassi della reiterazione, tanto piu' se diffusa e prolungata nel tempo, incide sugli equilibri istituzionali, alterando i caratteri della stessa forma di governo e l'attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 Cost.); sia , infine, perché siffatta prassi, se diffusa e prolungata, intacca anche la certezza del diritto nei rapporti fra i diversi soggetti, per l'impossibilita' di prevedere la durata nel tempo delle norme reiterate e l'esito finale del processo di conversione, con conseguenze ancora piu' gravi nei casi in cui il decreto reiterato incida nella sfera dei diritti fondamentali, nella materia penale, o sia, comunque, tale da determinare effetti irreversibili in ipotesi di mancata conversione finale. - S. nn. 302/1988; 161/1995; O. n. 197/1996. red.: S. Di Palma
composta dai signori: Presidente: avv. Mauro FERRI; Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale del d.-l. 8 novembre 1995, n. 463 (Disposizioni in materia di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti), e dell'art. 12, comma 4, dello stesso decreto; del d.-l. 8 gennaio 1996, n. 8 (Disposizioni in materia di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti), e dell'art. 12, comma 4, dello stesso decreto; del d.-l. 8 marzo 1996, n. 113 (Disposizioni in materia di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti), e dell'art. 12, quarto comma, dello stesso decreto, giudizi promossi con ordinanze emesse il 22 dicembre 1995, il 19 gennaio 1996, il 22 dicembre 1995, il 18 marzo, il 19 febbraio, il 29 gennaio ed il 22 marzo 1996 dal pretore di Macerata rispettivamente iscritte ai nn. 218, 247, 334, 536, 615, 633 e 639 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 11, 12, 16, 25, 27 e 28, prima serie speciale, dell'anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 2 ottobre 1996 il giudice relatore Enzo Cheli.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Le sette ordinanze del pretore di Macerata, pur riferendosi a tre distinti decreti-legge, pongono questioni sostanzialmente identiche sia con riferimento agli atti considerati nel loro complesso che alla particolare disposizione espressa nell'art. 12, comma 4, di tali decreti.
I giudizi relativi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con una stessa pronuncia.
2. - Le ordinanze in esame sollevano questione di legittimità costituzionale nei confronti dei decreti-legge n. 463 dell'8 novembre 1995, n. 8 dell'8 gennaio 1996, e n. 113 dell'8 marzo 1996 (tutti recanti "Disposizioni in materia di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti"), per violazione dell'art. 77 della Costituzione, e, nell'ambito di tali decreti, della disposizione di cui all'art. 12, comma 4 - dove si prevede una particolare causa di non punibilità per i reati di cui al d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 - per violazione anche dell'art. 24 della Costituzione.
Ad avviso del giudice rimettente i decreti-legge in questione, in quanto ripetutamente reiterati con contenuto sostanzialmente identico, verrebbero a contrastare sia con il requisito dell'urgenza che con il carattere della provvisorietà richiesti dall'art. 77 della Costituzione per l'adozione da parte del Governo di un atto con forza di legge, determinando anche una surrettizia sostituzione del decreto-legge alla legge ordinaria.
Nell'ambito di tali decreti-legge la disposizione contenuta nell'art. 12, comma 4, risulterebbe, altresì, viziata per violazione dell'art. 24 della Costituzione, avendo previsto come causa di non punibilità un comportamento praticamente inesigibile, in quanto connesso al rispetto di condizioni fissate in un decreto del Ministro dell'ambiente (d.m. 26 gennaio 1990) in gran parte annullato a seguito di una pronuncia di questa Corte (sentenza n. 512 del 1990).
3. - Dopo l'adozione delle ordinanze di rimessione nessuno dei tre decreti-legge impugnati è stato convertito in legge. L'ultimo di tali decreti (d.-l. 8 marzo 1996, n. 113) è stato, peraltro, ulteriormente reiterato con il d.-l. 3 maggio 1996, n. 246, di identico contenuto, anch'esso non convertito.
Successivamente, la materia del riutilizzo dei residui e dello smaltimento dei rifiuti è stata regolata con il d.-l. 8 luglio 1996, n. 352 (Disciplina delle attività di recupero dei rifiuti), che in parte ha reiterato e in parte ha modificato la disciplina contenuta nei precedenti decreti. La disposizione espressa nell'art. 12, comma 4, dei decreti impugnati - oggetto di specifica censura - è stata, invece, reiterata, senza alcuna modifica, con l'art. 6, comma 4, del decreto-legge suddetto. Anche questo decreto non è stato convertito, ma reiterato, senza alcuna variante, con il d.-l. 6 settembre 1996, n. 462, che è attualmente in vigore.
In sintesi, il decreto-legge n. 462 del 6 settembre 1996, oggi vigente, ha introdotto variazioni formali e sostanziali rispetto agli atti (decreti-legge nn. 463 del 1995, 8 e 113 del 1996) che formano oggetto delle impugnative, ma ha recepito integralmente, nell'art. 6, comma 4, il contenuto della disposizione già espressa nell'art. 12, comma 4, specificamente impugnata.
Secondo i principi enunciati nella sentenza n. 84 del 1996 di questa Corte (v., in particolare, il n. 4.2.3 del considerato in diritto), la questione di costituzionalità sollevata, con le ordinanze in esame, nei confronti dei decretilegge nn. 463 del 1995, 8 e 113 del 1996 non può, pertanto, essere "trasferita" sul decreto-legge n. 462 del 1996 considerato nel suo complesso, dal momento che lo stesso ha introdotto variazioni nel quadro generale della disciplina posta con i decreti-legge impugnati. Il "trasferimento" può essere, invece, operato nei confronti dell'art. 6, comma 4, del d.-l. n. 462 del 1996, che ha riprodotto sia il contenuto precettivo essenziale che la formulazione letterale dell'art. 12, comma 4, dei decreti-legge impugnati.
Le censure formulate con le ordinanze in esame, sia in relazione all'art. 77 che all'art. 24 della Costituzione, vanno, di conseguenza, riferite soltanto alla norma che è stata reiterata mediante l'art. 6, quarto comma, del decreto-legge n. 462 del 1996, oggi in vigore: norma che risulta anche essere la sola rilevante ai fini della definizione dei giudizi nel cui ambito le questioni di costituzionalità sono state sollevate.
4. - La questione relativa alla violazione dell'art. 77 della Costituzione è fondata.
La norma impugnata - così come riprodotta nell'art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 462 del 1996 - ha formato oggetto di una lunga serie di reiterazioni operate mediante decreti-legge, che trovano il loro punto di partenza nel d.-l. 7 gennaio 1994, n. 12, e che si sono prolungate, attraverso una catena ininterrotta, fino ad oggi.
L'art. 77, commi 2 e 3, della Costituzione prevede la possibilità per il Governo di adottare, sotto la propria responsabilità, atti con forza di legge (nella forma del decreto-legge) come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise. Tali atti, qualificati dalla stessa Costituzione come "provvisori", devono risultare fondati sulla presenza di presupposti "straordinari" di necessità ed urgenza e devono essere presentati, il giorno stesso della loro adozione, alle Camere, ai fini della conversione in legge, conversione che va operata nel termine di sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Ove la conversione non avvenga entro tale termine, i decreti-legge perdono la loro efficacia fin dall'inizio, salva la possibilità per le Camere di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti.
Questa disciplina, nella sua limpida formulazione, non offre alternative al carattere necessariamente provvisorio della decretazione d'urgenza: o le Camere convertono il decreto in legge entro sessanta giorni o il decreto perde retroattivamente la propria efficacia, senza che il Governo abbia la possibilità di invocare proroghe o il Parlamento di provvedere ad una conversione tardiva. La disciplina costituzionale viene, pertanto, a qualificare il termine dei sessanta giorni fissato per la vigenza della decretazione d'urgenza come un limite insuperabile, che - proprio ai fini del rispetto del criterio di attribuzione della competenza legislativa ordinaria alle Camere - non può essere né violato né indirettamente aggirato.
Ora, il decreto-legge iterato o reiterato - per il fatto di riprodurre (nel suo complesso o in singole disposizioni) il contenuto di un decreto-legge non convertito, senza introdurre variazioni sostanziali - lede la previsione costituzionale sotto più profili: perché altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza procrastinando, di fatto, il termine invalicabile previsto dalla Costituzione per la conversione in legge; perché toglie valore al carattere "straordinario" dei requisiti della necessità e dell'urgenza, dal momento che la reiterazione viene a stabilizzare e a prolungare nel tempo il richiamo ai motivi già posti a fondamento del primo decreto; perché attenua la sanzione della perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, venendo il ricorso ripetuto alla reiterazione a suscitare nell'ordinamento un'aspettativa circa la possibilità di consolidare gli effetti determinati dalla decretazione d'urgenza mediante la sanatoria finale della disciplina reiterata.
Su di un piano più generale, la prassi della reiterazione, tanto più se diffusa e prolungata nel tempo - come è accaduto nella esperienza più recente - viene, di conseguenza, a incidere negli equilibri istituzionali (v. sentenza n. 302 del 1988), alterando i caratteri della stessa forma di governo e l'attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 della Costituzione).
Non solo. Questa prassi, se diffusa e prolungata, finisce per intaccare anche la certezza del diritto nei rapporti tra i diversi soggetti, per l'impossibilità di prevedere sia la durata nel tempo delle norme reiterate che l'esito finale del processo di conversione: con conseguenze ancora più gravi quando il decreto reiterato venga a incidere nella sfera dei diritti fondamentali o - come nella specie - nella materia penale o sia, comunque, tale da produrre effetti non più reversibili nel caso di una mancata conversione finale (v. sentenza n. 161 del 1995; ordinanza n. 197 del 1996).
5. - Il divieto di iterazione e di reiterazione, implicito nel disegno costituzionale, esclude, quindi, che il Governo, in caso di mancata conversione di un decreto-legge, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo dell'intero testo o di singole disposizioni del decreto non convertito, ove il nuovo decreto non risulti fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza, motivi che, in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto. Se è vero, infatti, che, in caso di mancata conversione, il Governo non risulta spogliato del potere di intervenire nella stessa materia con lo strumento della decretazione d'urgenza, è anche vero che, in questo caso, l'intervento governativo - per poter rispettare i limiti della straordinarietà e della provvisorietà segnati dall'art. 77 - non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito (come accade con l'iterazione e con la reiterazione), ma dovrà, in ogni caso, risultare caratterizzato da contenuti normativi sostanzialmente diversi ovvero da presupposti giustificativi nuovi di natura "straordinaria".
6. - I principi richiamati conducono, dunque, ad affermare l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 77 della Costituzione, dei decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione.
Restano, peraltro, salvi gli effetti dei decreti-legge iterati o reiterati già convertiti in legge o la cui conversione risulti attualmente in corso, ove la stessa intervenga nel termine fissato dalla Costituzione. A questo proposito va, infatti, considerato che il vizio di costituzionalità derivante dall'iterazione o dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la conseguenza è che tale vizio può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d'urgenza.
7. - Da quanto precede discende l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 4, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 462, che ha reiterato, con contenuto immutato ed in assenza di nuovi presupposti di necessità ed urgenza, la disposizione espressa nell'art. 12, quarto comma, dei decreti-legge impugnati.
Resta assorbita la censura relativa alla violazione dell'art. 24 della Costituzione.
8. - Questa Corte, nell'adottare la presente pronuncia, è consapevole delle difficoltà di ordine pratico che dalla stessa, nei tempi brevi, potranno derivare sul piano dell'assetto delle fonti normative, stante l'ampiezza assunta dal fenomeno della reiterazione nel corso delle ultime legislature. Tali difficoltà, ancorché ben presenti, non sono, peraltro, tali da poter giustificare il protrarsi di una prassi che è andata sempre più degenerando e che ha condotto ad oscurare principi costituzionali di rilevanza primaria quali quelli enunciati nell'art. 77 della Costituzione, principi la cui violazione o elusione è suscettibile di incidere non soltanto sul corretto svolgimento dei processi di produzione normativa, ma anche sugli equilibri fondamentali della forma di governo.
Su questo piano, la Corte non può fare altro che segnalare al Parlamento ed al Governo l'opportunità di intervenire sulle cause che hanno condotto, negli ultimi anni, a dilatare il ricorso alla reiterazione, cause che - anche al di fuori della prospettiva di una riforma dell'art. 77 della Costituzione - potrebbero, sin da ora, essere contenute e rimosse, mediante il più rigoroso rispetto da parte del Governo dei requisiti della necessità e dell'urgenza e attraverso le opportune iniziative che il Parlamento, nell'ambito delle proprie competenze, potrà, a sua volta, adottare.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 4, del d.-l. 6 settembre 1996, n. 462, recante "Disciplina delle attività di recupero dei rifiuti".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996
Massima n. 25722
Non e' fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 21, ultimo periodo, del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, convertito in legge dall'art. 1, comma 1, della legge 28 novembre 1996 n. 608 impugnato, in riferimento all'art. 77 della Costituzione, nella parte in cui prevede che le assunzioni a tempo determinato effettuate dall'ente Poste italiane nel periodo compreso tra il 26 novembre 1994 e il 30 giugno 1997 decadano allo scadere del termine finale di ciascun contratto e non possano, quindi, dare luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Va, infatti, osservato che sia la censura relativa all'asserita mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per l'emanazione della norma impugnata sia quella riguardante la reiterazione di un precedente decreto-legge non convertito sono venute meno per effetto della legge di conversione del d.l. n. 510 del 1996 cit., successiva all'ordinanza di rimessione. Precedenti: - sent. n. 360/1996 sul vizio di costituzionalita' derivante dall'iterazione o reiterazione di decreti legge. L.T.
composta dai signori: Presidente: Cesare MIRABELLI; Giudici: Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 21, ultimo periodo, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito nella legge 28 novembre 1996, n. 608, promossi con ordinanze emesse il 16 ottobre 1996 dal pretore di Genova, il 22 ottobre 1996 dal pretore di Fermo, il 16 dicembre 1996 dal pretore di Torino, il 3 febbraio 1997 dal pretore di Milano, il 5 febbraio 1997 dal pretore di Salerno, il 17 dicembre 1996 dal pretore di Padova, il 5 febbraio 1997 dal pretore di Lecco, il 5 marzo 1997 (3 ordinanze) dal pretore di Ferrara, l'8 aprile 1997 dal pretore di Fermo, il 24 febbraio 1997 dal pretore di Parma, il 1° marzo 1997 dal pretore di Saluzzo, il 18 marzo 1997 dal pretore di Livorno, l'8 marzo 1997 dal pretore di Gorizia, il 27 maggio 1997 dal pretore di Latina, il 6 marzo 1997 dal Tribunale di Venezia, il 13 gennaio 1997 (2 ordinanze) dal pretore di Camerino, il 18 marzo 1997 (3 ordinanze) dal pretore di Livorno, il 7, il 14 ed il 20 ottobre 1997 dal pretore di Bologna, il 18 novembre 1997 dal pretore di Nicosia, il 19 febbraio 1998 dal pretore di Macerata, il 26 novembre 1997 dal pretore di Latina, il 30 novembre 1998 (5 ordinanze) dal pretore di Trento e il 23 aprile 1997 dal pretore di Pordenone, rispettivamente iscritte ai nn. 1299 e 1379 del registro ordinanze 1996, 53, 136, 172, 188, 227, 284, 285, 306, 337, 339, 418, 510, 548, 563, 664, 671, 672, 725, 726, 727, 909 e 910 del registro ordinanze 1997, 39, 210, 334 e 377 del registro ordinanze 1998, 86, 87, 88, 89, 90 e 445 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1996, nn. 4, 9, 14, 15, 16, 19, 23, 24, 25, 28, 36, 37, 38, 41, 42, 43 e 44, prima serie speciale, dell'anno 1997, nn. 3, 6, 14, 20 e 22, prima serie speciale, dell'anno 1998, nn. 9 e 37, prima serie speciale, dell'anno 1999;
Visti gli atti di costituzione di Luciani Sandro ed altri, Ferrari Antonella, Gatti Federica, Mazzini Marina ed altra, Nalon Tommaso, La Falce Mina, Ciccalè Romina, Rossi Monica ed altri, Ticciati Claudia ed altre, Papi Alessandra e dell'ente Poste Italiane, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 2000 e nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il giudice relatore Annibale Marini;
Uditi gli avvocati Sergio Vacirca per Gatti Federica, Alberto Medina per Mazzini Marina ed altra, Carlo Cester per Nalon Tommaso, Sergio Galleano per La Falce Mina, Alberto Lucchetti per Ciccalè Romina, Giorgio Bellotti per Rossi Monica ed altri e per Ticciati Claudia ed altre, Luigi Fiorillo, Roberto Pessi e Giampaolo Rossi per la S.p.a. Poste Italiane e l'Avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Le numerose autorità giudiziarie indicate in epigrafe hanno sollevato, con riferimento a differenti parametri (artt. 3, 4, 24, 35, 39, 41, 77, 101, 102 e 104 della Costituzione) e sotto i profili analiticamente esposti in narrativa, questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 21, ultimo periodo, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 28 novembre 1996, n. 608, che così recita: "Le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall'ente Poste Italiane, a decorrere dalla data della sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto".
2. - Stante dunque l'identità dell'oggetto, i giudizi promossi dai Pretori di Nicosia, di Macerata, di Latina, di Trento e di Pordenone, fissati per la camera di consiglio del 5 aprile 2000, vanno riuniti, per essere unitariamente decisi, a quelli, già precedentemente riuniti, chiamati all'udienza pubblica del 4 aprile 2000.
3. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce preliminarmente l'inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione sollevata dal pretore di Salerno.
L'eccezione è fondata.
Il giudizio a quo come si evince dall'ordinanza di rimessione, ha ad oggetto la declaratoria di nullità - ai sensi dell'art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato) - di un contratto di lavoro a termine stipulato il 16 agosto 1994. Il rimettente assume peraltro, non implausibilmente, che le norme di natura privatistica di cui alla legge n. 230 del 1962 trovino applicazione ai rapporti di lavoro dei dipendenti dell'ente Poste Italiane solamente dal 26 novembre 1994, data del primo C.C.N.L. per i dipendenti dell'ente. Ne discende, pertanto, secondo la prospettazione dello stesso rimettente, l'inapplicabilità della suddetta disciplina privatistica al rapporto di lavoro dedotto in giudizio, in quanto stipulato anteriormente al 26 novembre 1994, e la conseguente irrilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
4. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce, altresì, l'inammissibilità della questione sollevata dal pretore di Padova, per difetto di motivazione in punto di rilevanza.
Anche tale eccezione è fondata.
Il giudice rimettente, nel sollevare la questione, omette, infatti, qualsiasi indicazione riguardo agli elementi della fattispecie oggetto del giudizio cui egli è chiamato, cosicché a questa Corte risulta precluso il controllo sull'effettivo apprezzamento da parte dello stesso rimettente del requisito preliminare della rilevanza. Né, d'altro canto, l'omessa descrizione della fattispecie può ritenersi sanata dalle indicazioni fornite al riguardo dalla parte privata nella memoria di costituzione, trattandosi di allegazioni di parte inidonee a sostituire, in quanto tali, quelle demandate in via esclusiva al giudice rimettente.
5. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce, inoltre, l'inammissibilità della questione sollevata dal pretore di Ferrara, quanto alla denunciata violazione dei principi costituzionali posti a tutela dell'autonomia e dell'indipendenza dell'ordine giudiziario, sull'assunto che il rimettente, lamentando in realtà l'esercizio asseritamente distorto del potere legislativo, avrebbe dovuto semmai sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ai sensi dell'art. 134 Cost.
L'eccezione è priva di fondamento. Seppure, infatti, non può radicalmente escludersi l'esperibilità - da parte del potere giudiziario - del conflitto di attribuzione avverso atti aventi forza di legge, tuttavia non vi è dubbio che il giudizio incidentale costituisca - allorché, come nella fattispecie, sia concretamente utilizzabile - lo strumento tipico per pervenire alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma di legge della quale il giudice sia chiamato a fare applicazione (sentenza n. 457 del 1999; ordinanze n. 144 del 2000 e n. 398 del 1999).
6. - Le parti private Marina Mazzini e Clara Fiorentin, nella memoria depositata nell'imminenza dell'udienza pubblica del 24 novembre 1998, eccepiscono l'inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione sollevata dal pretore di Milano, assumendo che la norma denunciata debba trovare applicazione con riferimento ai soli rapporti di lavoro a termine ancora in corso - diversamente da quelli dedotti nel giudizio a quo - alla data di entrata in vigore della norma stessa.
L'eccezione va disattesa.
Il rimettente motiva, infatti, specificamente sul punto relativo alla applicabilità della norma in questione ai rapporti di lavoro a termine già esauriti, concludendo non implausibilmente per la soluzione affermativa sulla scorta di argomenti ermeneutici di carattere sia logico che letterale.
Argomenti rappresentati, da un lato, dalla considerazione che l'impegno, assunto dal Governo contestualmente alla conversione in legge del decreto, di "garantire comunque l'assunzione di quanti hanno proposto e vinto ricorso in prima istanza o inoltrato ricorso prima della emanazione del decreto 404 del 1996" (ordine del giorno Borghetta e Strambi, n. 9/2698/1), si giustifica solamente sul presupposto che anche i rapporti a termine già esauriti siano assoggettati alla disciplina impugnata; dall'altro, dalla circostanza che gli effetti della norma vengano fatti espressamente decorrere da una data, quella di costituzione dell'ente, risalente a quasi tre anni addietro, così da rendere assolutamente improbabile tenuto conto della breve durata dei contratti a termine normalmente stipulati dall'ente Poste Italiane - che l'intenzione del legislatore fosse quella di rimuovere solamente i contratti in corso alla data di entrata in vigore della norma stessa.
7. - Del pari infondate sono le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza sollevate, in riferimento a due delle ordinanze del pretore di Livorno, dalle parti private Francesco Rossi, Maria Adele Picerno, Monica Rossi e Alessandra Papi, nel giudizio iscritto al n. 726 del r.o. del 1997, e dalle parti private Claudia Ticciati, Vincenza Formisano e Silvia Panicucci, nel giudizio iscritto al n. 727 del r.o. del 1997, tutte basate sull'assunto che la norma denunciata debba trovare applicazione con riferimento alle sole ipotesi di conversione del contratto a termine ai sensi dell'art. 2 della legge n. 230 del 1962, con esclusione quindi dei casi, dedotti nei giudizi a quibus di contratti ab origine nulli, ai sensi dell'art. 1 della stessa legge, per illegittima apposizione del termine.
L'assunto del rimettente, secondo il quale debbono invece ricomprendersi nell'ambito applicativo della norma anche le ipotesi di illegittima apposizione del termine, viene infatti giustificato sulla base della ratio della norma, individuata nella finalità di limitare le assunzioni dell'ente Poste Italiane, comunque derivanti dalla conversione di contratti a termine, senza distinzione perciò tra le ipotesi previste dall'art. 1 e quelle di cui all'art. 2 della legge n. 230 del 1962.
Motivazione, quella ora riferita, di per sé non implausibile e, pertanto, sottratta al sindacato di questa Corte.
8. - Nel merito, la questione non è fondata sotto alcuno dei profili evocati.
9. - Va in primo luogo disattesa la censura sollevata, con riferimento all'art. 77 Cost., dal solo pretore di Genova, con ordinanza di data anteriore alla legge di conversione del decreto-legge n. 510 del 1996, fondata sul rilievo secondo cui la norma impugnata, emanata in difetto dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, costituirebbe mera reiterazione di quella di cui all'art. 9, comma 21, del decreto-legge 2 agosto 1996, n. 404 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), decaduto per mancata conversione.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che "il vizio di costituzionalità derivante dall'iterazione o dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la conseguenza è che tale vizio può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d'urgenza" (sentenza n. 360 del 1996).
Deve poi escludersi ogni rilievo, nella specie, dei presupposti di necessità ed urgenza, posto che l'efficacia retroattiva della norma convertita in legge è tale da coprire anche il periodo intercorrente tra l'emanazione del decreto e la sua conversione.
La conversione in legge del decreto n. 510 del 1996 - successiva, come si è detto, all'ordinanza di rimessione - ha, pertanto, sanato ogni eventuale vizio attinente al procedimento di formazione del decreto stesso e porta ad escludere l'asserita violazione, nella specie, dell'art. 77 Cost.
10. - Tutti i rimettenti, ad eccezione del pretore di Pordenone, hanno evocato, sotto differenti profili, il parametro di cui all'art. 3 Cost.
In particolare, i Pretori di Torino, di Milano, di Ferrara, di Gorizia, di Bologna ed il Tribunale di Venezia individuano, tra l'altro, la violazione del menzionato precetto costituzionale nella efficacia retroattiva della norma, attraverso la quale risulterebbe leso il principio di ragionevolezza nonché l'affidamento legittimamente sorto nei destinatari della norma stessa.
La retroattività della disciplina denunciata, siccome finalizzata a spiegare effetti sui giudizi in corso, comprometterebbe inoltre - ad avviso del pretore di Milano - l'esercizio neutrale ed indipendente della funzione giurisdizionale, garantita dagli artt. 24, 101 e 104 Cost.
Sulla scorta di analoghe considerazioni la norma, in quanto retroattiva, è ritenuta in contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione dai Pretori di Genova, di Ferrara, di Saluzzo e di Gorizia, ovvero con i soli artt. 101 e 104 della Costituzione dal pretore di Pordenone, mentre il pretore di Parma ravvisa nella deroga al principio di irretroattività della legge una lesione del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., per la limitazione che ne conseguirebbe alla possibilità per i cittadini di agire in giudizio per la tutela dei loro diritti.
10.1. - Al riguardo va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il divieto di retroattività della legge - pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell'ordinamento, cui il legislatore deve in linea di principio attenersi - non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell'art. 25 della Costituzione relativo alla sola materia penale. Il legislatore ordinario, nel rispetto di tale limite, può dunque emanare norme retroattive, purché trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, così da non incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, nn. 153 e 6 del 1994, n. 283 del 1993).
Ai fini del giudizio di legittimità costituzionale della norma denunciata, sotto il profilo considerato, deve, dunque, in primo luogo valutarsi se la sua efficacia retroattiva risponda a criteri di ragionevolezza ovvero costituisca un regolamento irrazionalmente lesivo di interessi sostanziali tutelati da norme preesistenti.
10.2. - Giova a questo punto ricordare che la vicenda di privatizzazione dell'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni si è sviluppata attraverso due distinti passaggi. Dapprima, con l'art. 1 del decreto-legge 1° dicembre 1993, n. 487 (Trasformazione dell'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni in ente pubblico economico e riorganizzazione del Ministero), convertito in legge, con modificazioni, con la legge 29 gennaio 1994, n. 71, detta Amministrazione è stata trasformata in ente pubblico economico denominato appunto ente Poste Italiane. Successivamente, in base alla previsione già contenuta nel secondo comma dello stesso art. 1 del decreto-legge n. 487 del 1993, con deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica n. 244 del 18 dicembre 1997, l'ente Poste Italiane è stato trasformato in società per azioni, le cui azioni sono state attribuite per intero al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
Da tale pur sommaria esposizione emerge con chiarezza come la costituzione dell'ente Poste Italiane abbia rappresentato la fase transitoria del processo di privatizzazione, evidentemente finalizzata alla realizzazione delle condizioni economiche e strutturali per la gestione in forma di società per azioni del servizio postale.
10.3. - L'art. 6, comma 2, del citato decreto-legge n. 487 del 1993, costitutivo dell'ente Poste Italiane, prevedeva che il personale dell'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni restasse alle dipendenze dell'ente "con rapporto di diritto privato".
Da ciò discendeva, come correttamente assumono i rimettenti, l'applicabilità ai rapporti di lavoro a termine stipulati dall'ente della disciplina, appunto privatistica, di cui alla legge n. 230 del 1962, applicabilità del resto ribadita dall'art. 8 del C.C.N.L. del 26 novembre 1994 per i dipendenti dell'ente Poste Italiane.
Le informazioni acquisite da questa Corte a seguito dell'ordinanza istruttoria del 18 dicembre 1998 - anche tenendo conto delle diverse allegazioni delle parti private - evidenziano, peraltro, nel periodo intercorrente tra la data di costituzione dell'ente Poste Italiane e quella di emanazione della norma denunciata, un diffuso e non spiegato ritardo, da parte degli organi locali dell'ente preposti alle assunzioni di personale a tempo determinato, nell'adeguarsi alla disciplina privatistica di cui alla legge n. 230 del 1962, così da porre in essere i presupposti per la trasformazione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato di un elevatissimo numero di rapporti a termine (comunque dell'ordine di svariate migliaia), stipulati in violazione degli artt. 1 e 2 della suddetta legge.
L'assoluta eccezionalità di tale situazione, a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine alle eventuali responsabilità degli organi dell'ente, consente di individuare agevolmente la ratio della norma denunciata nella esigenza, avvertita come prioritaria, di salvaguardare l'interesse generale al buon esito del processo di privatizzazione del servizio postale. Il legislatore - come emerge con chiarezza anche dai lavori preparatori - ha cioè ritenuto che l'imprevista assunzione coattiva con rapporto a tempo indeterminato di migliaia di lavoratori potesse gravemente ed irreparabilmente pregiudicare il risanamento finanziario dell'ente, costituente ineludibile presupposto per la sua trasformazione in una società per azioni, destinata ad operare sul mercato in regime di parziale concorrenza e con criteri di economicità.
Sulla scorta di tali valutazioni, sicuramente non implausibili alla luce degli elementi di fatto di cui si è dato conto, l'attribuzione di efficacia retroattiva alla norma impugnata appare giustificata dalla esigenza di porre rimedio ad una situazione del tutto eccezionale e tale da compromettere irreparabilmente l'equilibrio finanziario e lo stesso processo di privatizzazione dell'ente.
Il sacrificio imposto ai lavoratori - peraltro attenuato dal riconoscimento, contenuto nella stessa norma, di un diritto di precedenza nelle future assunzioni a tempo indeterminato - risulta dunque non contrastante né con il principio di ragionevolezza né - come meglio si vedrà più avanti - con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti.
10.4. - Deve per altro verso escludersi che l'efficacia retroattiva della norma, con la sua conseguente incidenza sui giudizi in corso, comporti una lesione delle prerogative del potere giudiziario e perciò la violazione degli artt. 101, 102 e 104 Cost.
Questa Corte ha da tempo chiarito, infatti, che la funzione giurisdizionale non può dirsi violata per il solo fatto di un intervento legislativo con efficacia retroattiva, quando il legislatore - come nella specie - agisca sul piano astratto delle fonti normative senza ingerirsi nella specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio (in tal senso, ancora, le sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del 1994, n. 402 del 1993). Sicché, anche in relazione ai suddetti parametri, la questione deve essere dichiarata infondata.
10.5. - Sulla scorta di analoghe considerazioni deve, altresì, escludersi che la norma denunciata sia in contrasto con l'art. 24 Cost., in quanto la modifica del modello normativo, cui la decisione giudiziale deve riferirsi, operando sul piano sostanziale, evidentemente non incide sul diritto alla tutela giurisdizionale, a cui presidio è posta la norma costituzionale invocata.
11. - Il parametro di cui all'art. 3 della Costituzione è anche evocato da gran parte dei rimettenti sotto il diverso profilo della violazione del principio di eguaglianza: in particolare, dai Pretori di Genova, di Fermo, di Lecco, di Ferrara, di Parma, di Saluzzo, di Livorno, di Gorizia, di Latina, di Camerino, di Bologna, di Nicosia, di Macerata, di Trento e dal Tribunale di Venezia, in relazione all'ingiustificata disparità di trattamento che la norma introdurrebbe tra i lavoratori assunti con contratto a termine dall'ente Poste Italiane e quelli assunti con analogo contratto da altri datori di lavoro privati o enti pubblici economici; dai Pretori di Fermo, di Parma, di Latina, di Camerino e di Trento, in relazione all'ingiustificata disparità di trattamento tra l'ente Poste Italiane e gli altri datori di lavoro, anche in ipotesi operanti nel medesimo settore; dai Pretori di Milano e di Nicosia, in relazione alla protezione accordata agli interessi di una delle parti del rapporto, e cioè il datore di lavoro, rispetto all'altra.
Le medesime considerazioni già svolte in ordine alla ragionevolezza della norma, quanto alla sua efficacia retroattiva, rendono peraltro evidente la non fondatezza di tali censure.
Le denunciate disparità di trattamento trovano, infatti, adeguata giustificazione nella più volte ricordata esigenza di tutela dell'interesse pubblico al buon esito del processo di privatizzazione del servizio postale: interesse, questo, la cui rilevanza è tale da rendere non omogenee le situazioni poste di volta in volta a raffronto dai rimettenti.
La legittimità costituzionale di discipline differenziate del lavoro a termine, giustificate dalle peculiari caratteristiche dei singoli rapporti di lavoro, è stata del resto già riconosciuta da questa Corte (sentenza n. 80 del 1994, ordinanza n. 347 del 1988). Ed è per altro verso significativa la considerazione che una regola opposta a quella della conversione del rapporto a termine nullo è dettata dall'art. 36, comma 8, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, il cui rapporto di lavoro - del pari privatizzato - presenta non poche analogie con quello dei dipendenti di un ente pubblico, quale l'ente Poste Italiane, derivante dalla trasformazione di una pubblica amministrazione.
Il legislatore in ogni caso, in relazione alla eccezionalità delle circostanze di fatto che hanno reso nella specie necessaria una deroga alla disciplina comunque ritenuta in via generale applicabile ai dipendenti dell'ente Poste Italiane, ha contenuto l'operatività di detta deroga entro un preciso limite temporale, e cioè dalla data di costituzione dell'ente sino al 30 giugno 1997, con ciò evitando il consolidamento di situazioni di vantaggio in favore dell'ente stesso e di correlativo svantaggio in danno dei suoi dipendenti.
12. - Proprio in relazione a tale aspetto della disciplina denunciata, il pretore di Livorno ed il Tribunale di Venezia prospettano un'ulteriore violazione del principio di eguaglianza, con riguardo alla disparità di trattamento che sussisterebbe tra i lavoratori assunti dall'ente Poste Italiane con contratto a termine prima del 30 giugno 1997 e quelli assunti successivamente a tale data.
Anche tale censura è tuttavia priva di fondamento, atteso che l'individuazione del termine entro il quale contenere la deroga alla disciplina comune non può che essere rimessa alla discrezionalità del legislatore, rimanendo il relativo esercizio sottratto - salva la manifesta irragionevolezza, non ravvisabile nella specie - al sindacato di legittimità costituzionale.
13. - L'asserita disparità di trattamento tra l'ente Poste Italiane e gli altri datori di lavoro operanti nel medesimo settore è poi ritenuta dai Pretori di Fermo, di Latina, di Camerino, di Macerata, di Trento e dal Tribunale di Venezia strumento distorsivo della concorrenza tale da comportare violazione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost.
A tale proposito è sufficiente tuttavia osservare che l'ente Poste Italiane ha operato in regime di concorrenza limitatamente ai servizi di tipo non universale e non riservato, restando peraltro obbligato - in base all'art. 1, comma 3, del contratto di programmma del 17 gennaio 1995 - ad assicurare la prestazione, espressamente qualificata nello stesso Contratto di programma come prioritaria, di tutti i servizi universali e riservati, già svolti dall'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni.
Non sussistendo, dunque, nell'ambito dei servizi postali, una situazione di piena concorrenza, deve conseguentemente escludersi che la deroga apportata dalla norma denunciata alla disciplina dei contratti di lavoro a termine, limitatamente a quelli stipulati dall'ente Poste Italiane, possa considerarsi in contrasto con la libertà di iniziativa economica privata sancita dall'art. 41 Cost.
Giova d'altro canto ricordare, al riguardo, che la Corte di giustizia della comunità europea, in sede di pronuncia pregiudiziale a norma dell'art. 177 del trattato CE, con sentenza del 7 maggio 1998 ha statuito, proprio in riferimento alla norma oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale, che "una disposizione nazionale che esoneri una sola impresa dall'obbligo di osservare la normativa di applicazione generale riguardante i contratti di lavoro a tempo determinato non costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1, del Trattato CE".
14. - Non sussiste nemmeno la violazione del diritto al lavoro prospettata, con riferimento al parametro di cui all'art. 4 Cost., dai Pretori di Torino e di Saluzzo, con riferimento al parametro di cui all'art. 35 Cost., dai Pretori di Fermo, di Parma, di Gorizia, di Camerino e di Macerata e con riferimento ad entrambi i suddetti parametri dai Pretori di Milano, di Lecco e di Bologna.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la garanzia del diritto al lavoro apprestata dagli artt. 4 e 35 della Costituzione è infatti affidata alla discrezionalità del legislatore quanto alla scelta dei tempi e dei modi di attuazione e non comporta una diretta ed incondizionata tutela del posto di lavoro (sentenze n. 46 del 2000, n. 419 del 1993, n. 152 del 1975; ordinanza n. 254 del 1997).
15. - Va altresì disattesa la censura riferita al parametro di cui all'art. 39 Cost., evocato dai Pretori di Torino, di Milano e di Saluzzo e dal Tribunale di Venezia.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che nella attuale situazione di inattuazione delle regole costituzionali relative alla stipulazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes non può ipotizzarsi un conflitto tra l'attività sindacale e l'attività legislativa, non essendovi alcuna riserva legislativa e contrattuale a favore dei sindacati (sentenze n. 697 del 1988, n. 141 del 1980). La circostanza che una determinata disciplina legislativa venga recepita ed integrata in un contratto collettivo di lavoro non preclude dunque al legislatore la possibilità di modificarla o di derogarvi, tanto più quando la deroga sia - come nella specie - giustificata da una situazione eccezionale, a salvaguardia di un interesse generale, ed abbia carattere di transitorietà.
16. - Palesemente infondata è infine la questione sollevata dal pretore di Lecco, con riferimento all'art. 41, secondo comma, Cost., sull'assunto che la norma, sacrificando il diritto al posto di lavoro già sorto in capo ai lavoratori, detti una disciplina dell'attività economica contrastante con la dignità umana di costoro.
Il suddetto parametro, essendo posto a salvaguardia dei diritti fondamentali della persona nello svolgimento delle attività produttive, non può essere infatti utilmente invocato - come del resto l'art. 4 della Costituzione - quando, come nella specie, venga in gioco la tutela del posto di lavoro. Ciò che porta, ovviamente, ad escludere la necessità di qualsiasi ulteriore considerazione al riguardo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
a) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 21, ultimo periodo, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 28 novembre 1996, n. 608, sollevate, con le ordinanze in epigrafe, dal pretore di Salerno, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, e dal pretore di Padova, in riferimento agli artt. 3 e 39 della Costituzione;
b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 21, ultimo periodo, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 28 novembre 1996, n. 608, sollevate, con le ordinanze in epigrafe, dal pretore di Genova, in riferimento agli artt. 3, 77, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal pretore di Fermo, in riferimento agli artt. 3, 35 e 41 della Costituzione, dal pretore di Torino, in riferimento agli artt. 3, 4 e 39 della Costituzione, dal pretore di Milano, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 39, 101 e 104 della Costituzione, dal pretore di Lecco, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal pretore di Ferrara, in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal pretore di Parma, in riferimento agli artt. 3, 24 e 35 della Costituzione, dal pretore di Saluzzo, in riferimento agli artt. 3, 4, 39, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal pretore di Livorno, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di Gorizia, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 35, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal pretore di Latina, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia, in riferimento agli artt. 3, 39 e 41 della Costituzione, dal pretore di Camerino, in riferimento agli artt. 3, 35 e 41 della Costituzione, dal pretore di Bologna, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione, dal pretore di Nicosia, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di Macerata, in riferimento agli artt. 3, 35 e 41 della Costituzione, dal pretore di Trento, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal pretore di Pordenone, in riferimento agli artt. 101 e 104 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2000.
Massima n. 26775
Escluso che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti, in linea di principio eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza devono ritenersi sanati dalla conversione in legge. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24 - secondo il quale “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale e dell’art. 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento” - sollevata in riferimento all’art. 77 della Costituzione. - Sulla estensione alla legge di conversione delle censure riferite al decreto-legge, v. sentenza 400/1996.
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), promosso con ordinanza emessa il 30 dicembre 2000 dal Tribunale di Benevento, iscritta al n. 153 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, 1a serie speciale, dell'anno 2001, nonché nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, promossi con ordinanze emesse il 4 maggio 2001 dal Tribunale di Benevento e il 27 giugno 2001 dal Tribunale di Taranto, rispettivamente iscritte ai numeri 587 e 703 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 33 e 38, 1ª serie speciale, dell'anno 2001 e nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 28 febbraio 2001, n. 24 (Conversione in legge, con modificazioni, del dcereto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, concernente interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), promosso con ordinanza emessa il 18 marzo 2001 dal Tribunale di Trento, iscritta al n. 369 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, 1ª serie speciale, dell'anno 2001.
Visti gli atti di costituzione di Scialpi Stefano, della Cassa rurale ed artigiana-Banca di credito cooperativo del Sannio-Calvi s.c. a r.l., del Mediocredito Trentino-Alto Adige s.p.a. e della Banca nazionale del lavoro s.p.a. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 4 dicembre 2001 il giudice relatore Annibale Marini;
Uditi gli avvocati Antonio Tanza e Bruno Inzitari per Scialpi
Stefano, l'avvocato Antonio Baldassarre per
Ritenuto in fatto
(…)
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Benevento, con due distinte ordinanze, ed il Tribunale di Taranto sollevano, in riferimento agli articoli 3, 24, 35, 41, 47 e 77 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, secondo il quale "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 del codice penale e dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento".
Assumono in buona sostanza i rimettenti che la norma, solo apparentemente interpretativa ma in realtà innovativa, costituisca irragionevole sanatoria - ad esclusivo vantaggio degli istituti di credito - di comportamenti obiettivamente usurari, così da porsi in contrasto con gli indicati parametri costituzionali.
Il Tribunale di Trento censura invece l'art. 1 della legge di conversione assumendo lesiva dell'art.3 della Costituzione la disciplina dettata dal medesimo decreto-legge nella parte in cui prevede, per i contratti in corso, che la sostituzione del tasso pattuito dalle parti con quello indicato all'art. 1, commi 2 e 3, abbia luogo solamente per le rate con scadenza successiva al 2 gennaio 2001.
Stante l'evidente connessione oggettiva, i quattro giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente decisi.
2. - La questione sollevata dal Tribunale di Benevento con l'ordinanza del 4 maggio 2001 deve ritenersi inammissibile.
Il giudice rimettente - che dichiara accertata, nel giudizio a quo, l'usurarietà del tasso convenuto dalle parti "vuoi considerando l'odierno tasso effettivo globale medio del 10, 96, vuoi considerando quello ancor più basso delle rilevazioni precedenti" - muove dalla esplicita premessa che la norma impugnata comporti l'impossibilità di far valere la nullità anche originaria delle clausole con le quali siano stati convenuti, dopo l'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, interessi usurari. Contrariamente a tale assunto, nel caso di interessi originariamente usurari pattuiti dopo l'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, è indubbio che la nullità della relativa clausola ai sensi dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile come novellato dalla suddetta legge del 1996 non è in alcun modo preclusa dall'applicazione della norma impugnata. E ciò rende priva di rilevanza la questione prospettata.
2.1. - Vanno invece respinte le ulteriori eccezioni di inammissibilità, sollevate sia dalla difesa delle parti private che dall'Avvocatura generale dello Stato ed analiticamente esposte in narrativa.
2.2. - In particolare, la questione sollevata dal Tribunale di Benevento con l'ordinanza del 30 dicembre 2000 si appalesa rilevante nel giudizio a quo in quanto il rimettente - chiamato a pronunciarsi su una opposizione a decreto ingiuntivo - si duole propriamente del fatto che la norma impugnata - nella parte in cui sarebbe, a suo avviso, modificativa dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile - precluda la declaratoria di nullità sopravvenuta delle clausole di interessi che risultino eccedenti il tasso soglia, contenute in contratti stipulati anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel caso in esame.
Il difetto di una specifica motivazione in ordine alla applicabilità anche agli interessi moratori dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile risulta ininfluente nella specie, in quanto il credito azionato, essendo costituito da rate di mutuo, è comunque comprensivo anche di interessi corrispettivi, pur essi eccedenti il tasso soglia, rispetto ai quali la rilevanza della questione è assolutamente pacifica. Va in ogni caso osservato - ed il rilievo appare in sé decisivo - che il riferimento, contenuto nell'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi "a qualunque titolo convenuti" rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori.
La dichiarata adesione, da parte del rimettente, all'indirizzo interpretativo seguito dalla Corte di cassazione è infine sufficiente a giustificare l'opzione ermeneutica - da cui il rimettente muove - secondo la quale, in mancanza della norma impugnata, le clausole di interessi eccedenti il tasso soglia sarebbero colpite dalla sanzione di nullità di cui al citato art. 1815, secondo comma, del codice civile, pur se originariamente lecite in quanto contenute in contratti stipulati anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996.
2.3. - La questione sollevata dal Tribunale di Trento è a sua
volta rilevante, in quanto il rimettente - dinanzi al quale è proposta domanda
di accertamento della nullità sopravvenuta di una pattuizione di interessi contenuta
in un contratto di finanziamento stipulato nel 1993 - prospetta il contrasto
con l'art. 3 della Costituzione della disciplina recata dal decreto-legge n.
394 del 2000, come modificato dalla legge di conversione, a motivo della
applicabilità del tasso di sostituzione, previsto dal secondo e terzo comma
dell'art. 1, alle sole rate aventi scadenza successiva al 2 gennaio
La censura di disparità di trattamento tra i singoli clienti - pur volendo ritenerla estranea all'oggetto del giudizio a quo - non rende comunque irrilevante la questione, essendo prospettata come profilo meramente secondario ed aggiuntivo rispetto a quello principale, rappresentato dalla irragionevolezza della norma impugnata.
Non sussiste, sotto altro aspetto, alcuna ambiguità nella individuazione della questione poiché lo stesso rimettente, censurando la norma di conversione, invoca la caducazione dell'intero art. 1 del decreto-legge n. 394 del 2000, non ritenendo in diverso modo emendabile il denunciato vizio di legittimità costituzionale.
Costituisce infine questione di fatto, rimessa all'esclusiva valutazione del giudice a quo, la qualificazione del rapporto contrattuale dedotto in giudizio, al fine della individuazione del tasso soglia ad esso riferibile.
3. - Per quanto concerne da ultimo l'ordinanza del Tribunale di Taranto, va in primo luogo rilevato che il giudice a quo dà espressamente conto del fatto che l'oggetto del contendere è rappresentato esclusivamente dalla misura degli interessi, non essendovi contestazione alcuna riguardo ai maggiori oneri derivanti per il mutuatario dal mutamento del tasso di cambio tra lira e franco svizzero.
Il fatto, poi, che il rimettente ritenga inapplicabile alla fattispecie dedotta in giudizio l'art. 1815, secondo comma, del codice civile non pregiudica la rilevanza della questione.
Il rimettente medesimo muove infatti dalla premessa che l'inesigibilità degli interessi eccedenti il tasso soglia, pur se lecitamente convenuti, discenderebbe - in mancanza della norma impugnata, cui egli attribuisce efficacia di abolitio criminis - dalla illiceità penale della percezione di tali interessi, a suo avviso originariamente sancita dalla legge n. 108 del 1996.
La norma impugnata, abrogando la figura criminosa rappresentata dal farsi dare interessi usurari, avrebbe retroattivamente escluso - ad avviso dello stesso rimettente - anche l'inesigibilità della pretesa creditoria, in tal modo precludendo l'accoglimento della opposizione all'esecuzione sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi.
È evidente - anche in tal caso - che ogni eventuale valutazione riguardo alla fondatezza di siffatta premessa interpretativa attiene al merito e non già alla ammissibilità della questione.
4. - Le questioni, pure riguardanti l'art. 1, comma 1, del
decreto-legge n. 394 del 2000, sollevate dal Tribunale di Benevento, con
l'ordinanza del 30 dicembre
4.1. - Per quanto riguarda il parametro di cui all'art. 77 della Costituzione, evocato dal Tribunale di Benevento sotto il profilo della carenza dei presupposti di necessità ed urgenza, è sufficiente osservare che eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge e che deve comunque escludersi che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione. Ferma restando l'estensione alla legge di conversione delle ulteriori censure riferite al decreto-legge (sentenza n. 400 del 1996).
4.2. - Con riferimento agli ulteriori parametri evocati, va rilevato che entrambi i rimettenti - pur nella diversità dei rispettivi percorsi argomentativi - muovono dalla comune premessa della applicabilità della legge n. 108 del 1996 anche ai contratti in corso al momento della sua entrata in vigore, da ciò facendo derivare la nullità sopravvenuta delle clausole determinative di interessi (ovvero, secondo la prospettazione del Tribunale di Taranto, l'inesigibilità degli interessi stessi) ogni qualvolta il tasso pattuito risulti, in proseguo di tempo, superiore al tasso soglia.
Sulla scorta di tale assunto essi attribuiscono quindi alla norma contenuta nell'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, un'efficacia irrazionalmente sanante della nullità (o inesigibilita) derivante dalla natura (divenuta) obiettivamente usuraria di rapporti contrattuali intercorrenti con gli istituti di credito, tale da porsi in contrasto sia con il generale canone di ragionevolezza, sia con il principio di eguaglianza, sia con il diritto di difesa, sia infine con il principio di favore per l'accesso del risparmio popolare alla proprietà della casa di abitazione.
Siffatta impostazione appare peraltro viziata proprio nelle sue premesse.
Va innanzitutto considerato che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere dall'esistenza di una situazione di incertezza nell'applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali, a condizione che l'interpretazione non collida con il generale principio di ragionevolezza (cfr., da ultimo, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 229 del 1999).
Lo scrutinio di costituzionalità della norma impugnata si sostanzia dunque nella valutazione riguardo alla sua compatibilità con il tenore della norma interpretata, alla ragionevolezza della opzione ermeneutica imposta ed al rispetto dei limiti alla retroattività delle norme extra-penali individuati dalla giurisprudenza di questa Corte.
4.3. - A tale riguardo occorre muovere dalla constatazione che la ratio della legge n. 108 del 1996, quale risulta con chiarezza dai lavori preparatori, è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario. Siffatta finalità è stata essenzialmente perseguita, per ciò che interessa il presente giudizio, da un lato rendendo più agevole l'accertamento del reato, attraverso l'individuazione di un tasso obiettivamente usurario e la trasformazione dell'approfittamento dello stato di bisogno, di difficile prova, da elemento costitutivo del reato a circostanza aggravante, dall'altro inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita (articoli 1 e 4 della legge).
Assodato, dunque, che la legge di cui si tratta risulta dettata dall'esclusivo e dichiarato intento di reprimere una specifica fattispecie di illecito, non può non rilevarsi come fosse sorto - in giurisprudenza ed in dottrina - il dubbio (risolto con esiti interpretativi diversi) circa gli effetti, ai fini penali e civili, da riconnettere all'ipotesi in cui, nel corso del rapporto, il tasso soglia discenda al di sotto del tasso di interessi convenzionale originariamente pattuito.
La norma denunciata trova giustificazione, sotto il profilo della ragionevolezza, nell'esistenza di tale obiettivo dubbio ermeneutico sul significato delle espressioni "si fa dare [...] interessi [...] usurari" e "facendo dare [...] un compenso usurario" di cui all'art. 644 del codice penale, in rapporto al tenore dell'art. 1815, secondo comma, del codice civile ("se sono convenuti interessi usurari") ed agli effetti correlativi sul rapporto di mutuo.
L'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui agli articoli 644 del codice penale e 1815, secondo comma, del codice civile trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone - tra le tante astrattamente possibili - un'interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla legge n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza.
Restano, invece, evidentemente estranei all'ambito di applicazione della norma impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali.
4.4. - Deve, d'altro canto, escludersi che la norma impugnata si ponga in contrasto con gli ulteriori parametri evocati.
Quanto all'art. 24 della Costituzione, è sufficiente rilevare che l'intervento legislativo oggetto di censura, operando sul piano sostanziale, evidentemente non incide sul diritto alla tutela giurisdizionale a cui esclusivo presidio è posta la norma costituzionale invocata (sentenza n. 419 del 2000).
Egualmente infondato è il richiamo all'art. 47 della Costituzione che enuncia - secondo la giurisprudenza di questa Corte - un principio al quale il legislatore ordinario deve ispirarsi, bilanciandolo con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, nell'esercizio di un potere discrezionale che incontra il solo limite - nella specie sicuramente non valicato - della contraddizione del principio stesso (sentenze n. 143 del 1995 e n. 19 del 1994).
5. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevata dal Tribunale di Trento in riferimento all'art. 3 della Costituzione, è fondata, nei limiti di seguito precisati.
5.1. - Il rimettente censura specificamente la disposizione, contenuta nel secondo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 394 del 2000, come modificato dalla legge di conversione, secondo cui la sostituzione del tasso convenuto dalle parti con quello, eventualmente più favorevole per il debitore, previsto dalla stessa norma "si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001".
Ritiene il giudice a quo che siffatto differimento della operatività della norma sia irragionevole e fonte di disparità di trattamento in danno dei mutuatari rispetto agli istituti di credito, se posto in relazione con la efficacia retroattiva della disposizione di cui al primo comma, in virtù della quale i medesimi mutuatari si vedrebbero preclusa la possibilità - che ad essi, ad avviso dello stesso rimettente, avrebbe dovuto precedentemente riconoscersi - di far dichiarare la nullità sopravvenuta delle clausole di interessi nei casi di superamento del tasso soglia.
Le considerazioni svolte riguardo alla natura interpretativa della
norma di cui all'art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000 ed alla sua
conformità al generale canone di ragionevolezza rendono a questo punto palese
l'infondatezza dell'assunto, da cui muove il giudice a quo, secondo il quale la
suddetta disposizione avrebbe ingiustificatamente avvantaggiato gli istituti di
credito mediante una generalizzata sanatoria di clausole contrattuali invalide,
rendendo costituzionalmente obbligata una altrettanto generalizzata
applicazione del tasso di sostituzione di cui al successivo comma
Ciò non esclude, tuttavia, che il differimento dell'operatività del tasso di sostituzione si riveli, sotto altro aspetto, comunque privo di ragionevolezza, così da porsi effettivamente in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
Va rilevato, a tale riguardo, che nel citato comma 2 dell'art. 1 del decreto-legge è stata inserita una specifica e puntuale indicazione delle ragioni dell'intervento d'urgenza del Governo sui contratti di mutuo a tasso fisso in corso. Ragioni incentrate sulla constatazione "dell'eccezionale caduta dei tassi di interesse avvenuta in Europa e in Italia nel biennio 1998-1999, avente natura strutturale".
La norma risulta, dunque, inequivocamente dettata dalla urgente necessità di ricondurre ad equità in maniera generalizzata - ed indipendentemente dall'eventuale esercizio di azioni giudiziarie - i contratti di mutuo a tasso fisso divenuti eccessivamente onerosi, a danno dei mutuatari, per effetto dell'eccezionale caduta dei tassi di interesse verificatasi nel biennio 1998-1999.
In relazione a siffatta ratio, se non può certo ritenersi costituzionalmente imposta una efficacia retroattiva della norma censurata, risulta invece manifestamente irragionevole la scelta di differirne, di pochissimi giorni, l'efficacia all'evidente scopo di escludere che la norma possa trovare applicazione anche riguardo alle rate in scadenza tra il 31 dicembre 2000, giorno di entrata in vigore del decreto-legge, ed il 2 gennaio 2001.
In tal modo, infatti, il legislatore, anziché eliminare, ha finito per protrarre, relativamente alle rate di mutuo in scadenza nel periodo indicato, quella situazione di eccessiva onerosità e, quindi, di sostanziale iniquità per i mutuatari dallo stesso evidenziata ed ha, conseguentemente, reso la norma, in parte qua, manifestamente illogica e contraddittoria e, quindi, lesiva del generale canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, nella parte in cui dispone che la sostituzione prevista nello stesso comma si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001 piuttosto che a quelle con scadenza a decorrere dal giorno stesso dell'entrata in vigore del decreto-legge.
Conseguentemente, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del comma 3 dello stesso articolo, limitatamente alle parole "per le rate con scadenza a decorrere dal 3 gennaio 2001".
per questi motivi
riuniti i giudizi,
1) Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, nella parte in cui dispone che la sostituzione prevista nello stesso comma si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001 anziché a quelle che scadono dal giorno stesso dell'entrata in vigore del decreto-legge;
2) Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, limitatamente alle parole "per le rate con scadenza a decorrere dal 3 gennaio 2001";
3) Dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevata dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli articoli 3, 24, 35, 41 e 47 della Costituzione, con l'ordinanza emessa il 4 maggio 2001.
4) Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2001, n. 24, sollevate dal Tribunale di Benevento, in riferimento agli articoli 3, 24, 47 e 77 della Costituzione, con l'ordinanza emessa il 30 dicembre 2000, e dal Tribunale di Taranto, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe;
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 2002.
Sulla delimitazione del contenuto della materia elettorale e sulla non utilizzabilità in tale materia dello strumento del decreto-legge
composta dai signori: Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Presidente - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO ROSSI - Avv. LEONETTO AMADEI - Prof. GIULIO GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Prof. GUIDO ASTUTI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso del Ministro per l'interno, delegato dal Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 28 giugno 1972, depositato in cancelleria il 7 luglio successivo ed iscritto al n. 20 del registro conflitti 1972, per conflitto di attribuzione sorto per effetto: a) della delibera 17 aprile 1972, n. 4363, con la quale il Comitato regionale di controllo della Regione Emilia- Romagna nominava un Commissario nel Comune di Cortemaggiore per provvedere all'adempimento delle operazioni prescritte dall'art. 4 della legge 4 aprile 1956, n. 212; b) della delibera 19 aprile 1972, n. 4472, dello stesso Comitato, concernente l'annullamento della deliberazione 17 aprile 1972, n. 56, con la quale il Commissario di nomina prefettizia aveva già provveduto alle operazioni predette nel Comune di Cortemaggiore.
Udito nell'udienza pubblica del 16 maggio 1973 il Giudice relatore Giovanni Battista Benedetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
Con decreto 17 aprile 1972 il prefetto di Piacenza nominava il dott. Lorenzo de Luca di Pietralata Commissario ad acta con l'incarico di provvedere, nel Comune di Cortemaggiore, in sostituzione della Giunta municipale inadempiente, all'assegnazione degli spazi per l'affissione di materiale di propaganda elettorale, ai sensi dell'art. 4 della legge 4 aprile 1956, n. 212. Con deliberazione 17 aprile 1972, n. 56, il suddetto funzionario adempiva l'incarico affidatogli.
Nonostante ciò il Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali - sezione di Piacenza - con deliberazione n. 4363 del 17 aprile 1972 affidava il medesimo incarico ad un proprio Commissario, all'uopo nominato, il quale, a sua volta, con proprio atto emesso il 18 aprile rinnovava il provvedimento adottato il giorno precedente dal Commissario prefettizio. Lo stesso Comitato, con deliberazione n. 4472 del 19 aprile 1972, provvedeva poi ad annullare, per ritenuta incompetenza, il provvedimento del Commissario prefettizio.
Avverso queste due deliberazioni del Comitato di controllo ha proposto ricorso, per regolamento di competenza, il Ministro per l'interno a seguito di delega avuta dal Presidente del Consiglio dei ministri. Nel ricorso, notificato il 28 giugno 1972, si sostiene che i provvedimenti impugnati violano gli artt. 117, 118, 129, 130 e 134 della Costituzione, in relazione all'art. 59 della legge 10 febbraio 1953, n. 62, e alla V disposizione transitoria dello Statuto regionale dell'Emilia-Romagna, giacché la ripartizione degli spazi destinati alla propaganda elettorale è adempimento strettamente inerente alla materia elettorale ed in siffatta materia non compete alle Regioni a statuto ordinario alcuna competenza legislativa e, conseguentemente, nessuna funzione amministrativa.
Né varrebbe in
contrario opinare che essendo gli adempimenti di cui trattasi riservati alla
Giunta comunale dovrebbe riconoscersi la competenza dell'organo di controllo
regionale sugli Enti locali, giusta l'art. 130 della Costituzione, l'art. 59
della legge 10 febbraio 1953, n. 62, e
Riguardo poi alla
seconda deliberazione, con la quale il Comitato di controllo regionale ha
annullato il provvedimento adottato dal Commissario prefettizio ritenendo, per
contro, legittimo l'analogo provvedimento emesso dal Commissario regionale, nel
ricorso si osserva che palese è la violazione dell'art. 130 Cost. ai sensi del
quale il controllo da parte dell'organo regionale può avvenire sugli atti delle
Province, dei Comuni e degli altri Enti locali e non anche sugli atti adottati
dallo Stato in sostituzione di quelli dei predetti Enti locali. Il Commissario
prefettizio non agiva quale organo del Comune ma come missus del prefetto; il
suo provvedimento, non poteva quindi essere annullato da parte del Comitato
regionale di controllo. Soltanto
Conclude, pertanto, il ricorrente chiedendo l'annullamento delle delibere impugnate, in quanto invasive della competenza costituzionalmente attribuita allo Stato nella materia in esame e la declaratoria di spettanza allo Stato del potere di esercitare, a mezzo di Commissario prefettizio, il controllo sostitutivo nella soggetta materia, nonché il potere di controllo sulle Conseguenti deliberazioni adottate dal Commissario.
Nel giudizio
dinanzi a questa Corte
Considerato in diritto:
1. - Il presente ricorso per regolamento di competenza proposto dal Ministro per l'interno, su delega del Presidente del Consiglio dei ministri, ha ad oggetto due deliberazioni emesse dal Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali della Regione Emilia-Romagna: la prima (n. 4363 del 17 aprile 1972) concernente la nomina di un Commissario ad acta con incarico di provvedere nel Comune di Cortemaggiore alle operazioni di assegnazione definitiva degli spazi per l'affissione del materiale di propaganda elettorale da parte dei candidati al Senato della Repubblica nelle elezioni politiche del 7 maggio 1972; la seconda (n. 4472 del 19 aprile 1972) contenente l'annullamento da parte dello stesso Comitato, della deliberazione 17 aprile 1972 con cui il Commissario ad acta, all'uopo nominato dal prefetto di Piacenza, aveva già provveduto alle anzidette operazioni.
Nel ricorso si sostiene che l'adempimento delle operazioni di cui trattasi, che la legge 4 aprile 1956, n. 212, affida alla Giunta municipale, rientra nella materia elettorale di competenza statale, sicché spetta allo Stato, in sostituzione della Giunta inadempiente, provvedere a detta incombenza a mezzo di Commissario di nomina prefettizia.
2. - Il ricorso è fondato.
Nel nostro ordinamento costituzionale alle Regioni a statuto ordinario non è attribuita alcuna competenza legislativa (art. 117 Cost.) e, quindi, alcuna correlativa funzione amministrativa (art. 118 Cost.) nella materia elettorale. Nella disciplina di questa materia va ricompreso anche ciò che attiene alla organizzazione della funzione elettorale, ossia tutta quella normazione positiva riguardante lo svolgimento delle elezioni.
Orbene,
indubbiamente fanno parte del procedimento elettorale le "norme per la
disciplina della propaganda elettorale" dettate dal legislatore con la
citata legge n. 212 del 1956, che vengono in considerazione nel presente
giudizio. È a termini di questa legge che, nel caso di specie, il prefetto di
Piacenza, al fine di garantire il regolare corso delle elezioni politiche del
La delimitazione degli spazi affissionali per la propaganda elettorale e la loro ripartizione in tante sezioni distinte quante sono le liste o le candidature ammesse sono operazioni che il legislatore ha affidato alla Giunta municipale (art. 4). La stessa legge ha peraltro statuito (art. 2, ultimo comma) che, nel caso in cui la giunta non provveda entro il termine di cinque giorni dalla data di pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi a determinare e ripartire gli spazi per le affissioni, il prefetto nomina un suo commissario che si sostituisce alla giunta nell'espletamento di tali compiti.
Ora è di tutta evidenza che le indicate operazioni sono eseguite dalla Giunta municipale nella qualità di organo cui la legge affida l'esercizio di funzioni statali.
In relazione a detta specifica posizione e alla natura delle funzioni attribuite appare quindi ovvia la riserva allo Stato dei poteri di vigilanza e di controllo sostitutivo su detto organo.
Facendo
applicazione di tali concetti al caso in esame non può pertanto disconoscersi
che - non avendo
Invasivo della competenza statale deve perciò ritenersi il provvedimento 17 aprile 1972 con il quale il Comitato di controllo sugli atti degli enti locali della Regione ha nominato un proprio commissario perché, in luogo della Giunta municipale, procedesse all'adempimento delle operazioni di riparto degli spazi per l'affissione del materiale di propaganda elettorale. Siffatto intervento sostitutivo non può essere giustificabile alla stregua degli artt. 130 Cost., 59 della legge 10 febbraio 1953, n. 62 e V disposizione transitoria dello Statuto regionale, giacché il sistema dei controlli previsto dalle citate norme si riferisce unicamente agli organi rappresentativi degli enti locali che pongono in essere atti rientranti nella loro competenza istituzionale e non può, per contro, estendersi agli stessi organi ove agiscano per l'esercizio di attribuzioni statali ad essi demandate.
3. - Le considerazioni anzisvolte valgono anche a dimostrare l'illegittimità del secondo provvedimento (19 aprile 1972, n. 4472) con il quale il Comitato di controllo ha annullato l'atto 17 aprile 1972, n. 56, con cui il Commissario prefettizio aveva disposto la ripartizione degli spazi per la propaganda elettorale. Il potere di annullamento del Comitato può, infatti, esercitarsi su atti ritenuti illegittimi che siano stati adottati dalle Province, dai Comuni e da altri Enti locali. Il Commissario di nomina prefettizia non agiva in qualità di organo comunale, né poneva in essere attività propria del Comune. Il suo atto - in quanto relativo allo svolgimento del servizio elettorale la cui organizzazione è di riserva statale - va considerato come provvedimento imputabile e riferibile allo Stato e come tale non poteva essere annullato dall'organo di controllo regionale.
per questi motivi
dichiara che spetta allo Stato il potere di nominare un Commissario che, in sostituzione della Giunta municipale inadempiente, provveda a delimitare e ripartire gli spazi affissionali per la propaganda elettorale ai sensi degli artt. 2 e 4 della legge 4 aprile 1956, n. 212, e, per conseguenza,
annulla:
a) il provvedimento 17 aprile 1972, n. 4363, con il quale il Comitato regionale di controllo sugli atti degli Enti locali della Regione Emilia-Romagna ha nominato un proprio Commissario con incarico di procedere alle operazioni anzidette nel Comune di Cortemaggiore;
b) il provvedimento 19 aprile 1972, n. 4472, con il quale il Comitato ha annullato la deliberazione n. 56 del 17 aprile 1972, con cui il Commissario, all'uopo nominato dal prefetto di Piacenza, aveva già provveduto alle indicate operazioni nel Comune di Cortemaggiore.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1973.
Massima n. 21406
La esistenza, nell'ordinamento, riguardo alle leggi e agli atti equiparati, di un sistema di garanzia costituzionale accentrato sul sindacato incidentale previsto dall'art. 134 Cost., non e' valida ragione per ritenere che i decreti-legge e, in particolari situazioni, anche le leggi e i decreti legislativi, restino esclusi dalla sfera di operativita' del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Come e' noto, infatti, per il decreto-legge, il sindacato incidentale, benche' possibile, si presenta di fatto non praticabile in relazione ai tempi ordinari del giudizio incidentale ed alla limitata vigenza dello stesso decreto, e pertanto il profilo di garanzia che pur, per esso - come emerge dallo stesso disegno tracciato dall'art. 77 Cost. - e' essenziale e tende a prevalere su ogni altro, verrebbe a risultare, se non compromesso, certamente limitato se il controllo di costituzionalita' restasse circoscritto alla sola ipotesi del sindacato incidentale, con prospettive non prive di rischi sul piano degli equilibri tra i poteri fondamentali, tanto piu' se si pensi - anche alla luce dell'esperienza piu' recente - al dilagare della decretazione d'urgenza, e ai connessi fenomeni quali l'uso anomalo della prassi della reiterazione dei decreti-legge non convertiti. Inoltre la possibilita' - deprecabile, ma che non puo' escludersi in modo assoluto - che l'impiego del decreto-legge conduca a comprimere diritti fondamentali (e in particolare diritti politici), ad incidere sulla stessa materia costituzionale e a determinare - nei confronti dei soggetti privati - situazioni non piu' reversibili ne' sanabili anche in seguito alla perdita di efficacia della norma, dimostra che il ricorso allo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato puo' rappresentare la via necessaria per apprestare una difesa in grado di unire all'immediatezza l'efficacia. Per cui appare giustificato riconoscere la possibilita' di utilizzare tale strumento, nei confronti del decreto-legge - e nelle su evidenziate ipotesi - anche nei confronti della legge e del decreto legislativo, come controllo da affiancare al sindacato incidentale. - In senso "in linea di principio" contrario, ma avvertendo l'esigenza di evitare, comunque, "che si formino zone franche di incostituzionalita'", S. n. 406/1989. Riguardo al fenomeno della reiterazione dei decreti-legge non convertiti, v., in particolare, S. n. 302/1988. red.: S. Pomodoro
(il testo della sentenza è riportato nella prima sezione a pag.
Costituzione della Repubblica italiana
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Art. 77
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere (80), emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria .
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni (81) .
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti .
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(80) Vedi art. 76.
(81) Vedi art. 61, comma primo, e 62, comma primo. Vedi anche art. 35 Reg. Senato.
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(omissis)
Art. 134
sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge (197), dello Stato e delle Regioni (198);
sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;
sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione (199) (200).
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(197) Vedi artt. 76 e 77.
(198) Vedi art. 127.
(199) Vedi artt. 90 e 96.
(200) Alinea così modificato dall'art. 2 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1.
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(omissis)
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Pubblicata nella Gazz. Uff. 12 settembre 1988, n. 214, S.O.
Vedi, anche, il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303.
Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti circolari:
- I.N.P.S. (Istituto nazionale previdenza sociale): Circ. 23 gennaio 1997, n. 13; Circ. 6 aprile 1998, n. 76;
- Ministero dei trasporti e della navigazione: Circ. 18 novembre 1996, n. 7;
- Ministero del lavoro e della previdenza sociale: Circ. 21 novembre 1996, n. 5/27319/70/OR;
- Ministero del tesoro: Circ. 6 agosto 1998, n. 70;
- Ministero delle finanze: Circ. 9 maggio 1996, n. 111/E; Circ. 13 agosto 1996, n. 199/E; Circ. 16 settembre 1996, n. 225/E; Circ. 31 dicembre 1996, n. 307/E; Circ. 28 maggio 1998, n. 134/E; Circ. 4 giugno 1998, n. 141/E; Circ. 26 giugno 1998, n. 168/E; Circ. 27 agosto 1998, n. 209/E;
- Ministero per i beni culturali e ambientali: Circ. 4 ottobre 1996, n. 117;
- Ministero della pubblica istruzione: Circ. 3 aprile 1996, n. 135; Circ. 3 aprile 1996, n. 133; Circ. 17 aprile 1996, n. 147; Circ. 3 ottobre 1996, n. 627; Circ. 17 ottobre 1996, n. 654; Circ. 16 dicembre 1996, n. 750; Circ. 19 febbraio 1998, n. 60;
- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Circ. 27 marzo 1997, n. 62; Circ. 3 giugno 1997, n. 117; Circ. 18 giugno 1997, n. 116; Circ. 5 gennaio 1998, n. DIE/ARE/1/51; Circ. 30 gennaio 1998, n. DIE/ARE/1/452; Circ. 16 febbraio 1998, n. DIE/ARE/1/687; Circ. 5 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/994; Circ. 5 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/995; Circ. 12 marzo 1998, n. AGP/2/584/SF.49.2/CH; Circ. 19 marzo 1998, n. DIE/ARE/1/12.03; Circ. 14 maggio 1998, n. DIE/ARE/1/1942; Circ. 24 agosto 1998, n. DIE/ARE/1/3124; Circ. 25 settembre 1998, n. DIE/ARE/1/3484; Circ. 17 giugno 1998, n. AGP/1/2/2154/98/AR2.1; Circ. 5 maggio 1988, n. AGP/1/2/1531/98/AR.2.1; Circ. 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92;
- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi: Circ. 17 febbraio 1999, n. DAGL041290/10.3.1;
- Presidenza del Consiglio dei Ministri: Dipartimento per la funzione pubblica e gli affari regionali: Circ. 27 novembre 1995, n. 22/95; Circ. 16 maggio 1996, n. 30692; Circ. 12 dicembre 1996, n. 610.
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(omissis)
Art. 15
Decreti-legge.
1. I provvedimenti provvisori con forza di legge ordinaria adottati ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione sono presentati per l'emanazione al Presidente della Repubblica con la denominazione di «decreto-legge» e con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione, nonché dell'avvenuta deliberazione del Consiglio dei ministri.
2. Il Governo non può, mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione;
b) provvedere nelle materie indicate nell'articolo 72, quarto comma, della Costituzione;
c) rinnovare le disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere;
d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti;
e) ripristinare l'efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento (28).
3. I decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
4. Il decreto-legge è pubblicato, senza ulteriori adempimenti, nella Gazzetta Ufficiale immediatamente dopo la sua emanazione e deve contenere la clausola di presentazione al Parlamento per la conversione in legge.
5. Le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest'ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge.
6. Il Ministro di grazia e giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine sia data immediata pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
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(28)
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(omissis)
CAMERA |
SENATO |
Art. 96-bis 1. Il Presidente della Camera assegna i disegni di legge di conversione dei decreti-legge alle Commissioni competenti, in sede referente, il giorno stesso della loro presentazione o trasmissione alla Camera e ne dà notizia all'Assemblea nello stesso giorno o nella prima seduta successiva, da convocarsi anche appositamente nel termine di cinque giorni dalla presentazione, ai sensi del secondo comma dell'articolo 77 della Costituzione. La proposta di diversa assegnazione, ai sensi del comma 1 dell'articolo 72, deve essere formulata all'atto dell'annunzio dell'assegnazione e l'Assemblea delibera per alzata di mano, sentiti un oratore contro e uno a favore per non più di cinque minuti ciascuno. I disegni di legge di cui al presente articolo sono altresì assegnati al Comitato per la legislazione di cui all'articolo 16-bis, che, nel termine di cinque giorni, esprime parere alle Commissioni competenti, anche proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino con le regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti-legge, previste dalla vigente legislazione. 2. Nella relazione del Governo, che accompagna il disegno di legge di
conversione, è dato conto dei presupposti di necessità e urgenza per
l'adozione del decreto-legge e vengono descritti gli effetti attesi dalla sua
attuazione e le conseguenze delle norme da esso recate sull'ordinamento. 3. Entro il quinto giorno dall'annunzio all'Assemblea della presentazione o della trasmissione alla Camera del disegno di legge di conversione, un presidente di Gruppo o venti deputati possono presentare una questione pregiudiziale riferita al contenuto di esso o del relativo decreto-legge. La deliberazione sulla questione pregiudiziale è posta all'ordine del giorno entro il settimo giorno dal suddetto annunzio all'Assemblea. Le questioni pregiudiziali sono discusse secondo le disposizioni dell'articolo 40, commi 3 e 4. Chiusa la discussione, l'Assemblea decide con unica votazione sul complesso delle questioni pregiudiziali presentate. Nell'ulteriore corso della discussione dei disegni di legge di cui al presente capo non possono proporsi questioni pregiudiziali o sospensive. 4. Il disegno di legge di conversione è iscritto al primo punto
dell'ordine del giorno delle sedute della Commissione cui è assegnato.
5. È in facoltà del Presidente, in casi particolari, anche in relazione alla data di trasmissione del disegno di legge di conversione dal Senato, di modificare i termini di cui ai commi 3 e 4. 6. Per l'esame dei disegni di legge di conversione già approvati dalla Camera e modificati dal Senato i termini per l'esame in sede referente di cui al comma 4 sono stabiliti dal Presidente; non si applicano le disposizioni di cui al comma 3. 7. Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge. Qualora ritenga opportuno consultare l'Assemblea, questa decide senza discussione per alzata di mano. |
Art. 78 1. Nel caso previsto dall'articolo 77 della Costituzione il Presidente, pervenutogli dal Governo il disegno di legge di conversione di un decreto-legge, qualora il Senato sia sciolto o i suoi lavori siano aggiornati, procede immediatamente alla convocazione dell'Assemblea perchè questa si riunisca entro cinque giorni. 2. Il disegno di legge di conversione, presentato dal Governo al Senato o trasmesso dalla Camera dei deputati, è deferito alla Commissione competente, di norma, lo stesso giorno della presentazione o della trasmissione. Il Presidente, all'atto del deferimento, apprezzate le circostanze, fissa i termini relativi all'esame del disegno di legge stesso. 3. Il disegno di legge di conversione è altresì deferito, entro il termine di cui al precedente comma 2, alla 1a Commissione permanente, la quale trasmette il proprio parere alla Commissione competente entro cinque giorni dal deferimento. Qualora la 1a Commissione permanente esprima parere contrario per difetto dei presupposti richiesti dall'articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, tale parere deve essere immediatamente trasmesso, oltre che alla Commissione competente, al Presidente del Senato, che lo sottopone entro cinque giorni al voto dell'Assemblea. Nello stesso termine il Presidente sottopone il parere della Commissione al voto dell'Assemblea ove ne faccia richiesta, entro il giorno successivo a quello in cui il parere è stato espresso, un decimo dei componenti del Senato. Nella discussione può prendere la parola non più di un rappresentante per ogni Gruppo parlamentare, per non più di dieci minuti ciascuno. Sul parere contrario della 1a Commissione permanente l'Assemblea si pronunzia con votazione nominale con scrutinio simultaneo. 4. Se l'Assemblea si pronunzia per la non sussistenza dei presupposti richiesti dall'articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto. Qualora tale deliberazione riguardi parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono soppresse. 5. Il disegno di legge di conversione, presentato dal Governo al Senato, è in ogni caso iscritto all'ordine del giorno dell'Assemblea in tempo utile ad assicurare che la votazione finale avvenga non oltre il trentesimo giorno dal deferimento.
6. Gli emendamenti proposti in Commissione e da questa fatti propri debbono essere presentati come tali all'Assemblea e sono stampati e distribuiti prima dell'inizio della discussione generale. |
CAMERA |
SENATO |
Art. 86 1. Gli articoli aggiuntivi e gli emendamenti sono, di regola, presentati e svolti nelle Commissioni. Possono comunque essere presentati in Assemblea nuovi articoli aggiuntivi ed emendamenti, e quelli respinti in Commissione, purché nell'ambito degli argomenti già considerati nel testo o negli emendamenti presentati e giudicati ammissibili in Commissione, entro il giorno precedente la seduta nella quale avrà inizio la discussione degli articoli.
Art. 89 1. Il Presidente ha facoltà di negare l'accettazione e lo svolgimento di ordini del giorno, emendamenti o articoli aggiuntivi che siano formulati con frasi sconvenienti, o siano relativi ad argomenti affatto estranei all'oggetto della discussione, ovvero siano preclusi da precedenti deliberazioni e può rifiutarsi di metterli in votazione. Se il deputato insiste e il Presidente ritenga opportuno consultare l'Assemblea, questa decide senza discussione per alzata di mano. |
Art. 97 1. Sono improponibili ordini del giorno, emendamenti e proposte che siano estranei all'oggetto della discussione o formulati in termini sconvenienti. 2. Sono inammissibili ordini del giorno, emendamenti e proposte in contrasto con deliberazioni già adottate dal Senato sull'argomento nel corso della discussione. 3. Il Presidente, data lettura dell'ordine del giorno, dell'emendamento o della proposta, decide inappellabilmente.
Art. 76-bis 2. Sono improponibili gli emendamenti di iniziativa governativa che comportino nuove o maggiori spese ovvero diminuzione di entrate e non siano corredati della relazione tecnica redatta nei termini di cui al comma 1. |
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Art. 100 8. Il Presidente può stabilire, con decisione inappellabile, la inammissibilità di emendamenti privi di ogni reale portata modificativa e può altresì disporre che gli emendamenti intesi ad apportare correzioni di mera forma siano discussi e votati in sede di coordinamento, con le modalità di cui all'articolo 103. |
CAMERA |
SENATO |
5. Ammissibilità degli emendamenti. 5.1 La disposizione dell'articolo 89 del Regolamento deve essere applicata nel senso di dichiarare inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi affatto estranei all'oggetto della discussione, non solo ove non siano inerenti al contenuto del provvedimento in esame, ma anche ove esulino dalla funzione propria dell'atto legislativo o del tipo di strumento legislativo all'esame della Commissione. 5.2 Debbono quindi essere dichiarati inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi palesemente incongrui rispetto al contesto logico e normativo e quelli manifestamente lesivi della sfera di competenza riservata ad altre fonti del diritto (leggi costituzionali, regolamenti parlamentari, legislazione regionale, regolamenti comunitari) o che comunque modifichino in modo del tutto frammentario e parziale disposizioni contenute in atti normativi non aventi forza di legge. 5.3 Relativamente ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge, l'articolo 96-bis, comma 8, del Regolamento prescrive che sono inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi non strettamente attinenti alla materia del decreto. La materia deve essere valutata con riferimento ai singoli oggetti e alla specifica problematica affrontata dall'intervento normativo.
5.4 Ciascun deputato ha il diritto di opporsi alla dichiarazione di inammissibilità pronunziata dal presidente della Commissione. In tale ipotesi, ed altresì in tutti i casi in cui l'ammissibilità di emendamenti ed articoli aggiuntivi appaia comunque dubbia, non deve procedersi alla loro votazione la questione deve essere rimessa al Presidente della Camera, al quale spetta adottare le relative decisioni ai sensi dell'articolo 41, comma 2, del Regolamento, conformemente ai pareri più volte espressi dalla Giunta per il regolamento. Ove la pronunzia del Presidente non intervenga in tempi utili, resta fermo il diritto di ripresentare l'emendamento in Assemblea, per verificarne in quella sede l'ammissibilità. 5.5 Gli emendamenti meramente formali non sono posti in votazione, ma sono presi in considerazione ai soli fini del coordinamento formale del testo.
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5. Proponibilità degli emendamenti 5.1 La disposizione dell'articolo 97, comma 1, del Regolamento deve essere applicata nel senso di dichiarare improponibili gli emendamenti che siano estranei all'oggetto della discussione, non solo ove non siano inerenti al contenuto del provvedimento in esame, ma anche ove esulino dalla funzione propria dell'atto legislativo o del tipo di strumento legislativo all'esame della Commissione. 5.2 Debbono quindi essere dichiarati improponibili gli emendamenti palesemente incongrui rispetto al contesto logico e normativo e quelli manifestamente lesivi della sfera di competenza riservata ad altre fonti del diritto (leggi costituzionali, regolamenti parlamentari, legislazione regionale, regolamenti comunitari) o che comunque modifichino in modo del tutto frammentario e parziale disposizioni contenute in atti normativi non aventi forza di legge. 5.3 Relativamente ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge, la citata disposizione dell'articolo 97, comma 1 - secondo il parere reso dalla Giunta per il Regolamento l'8 novembre 1984 - deve essere interpretata in modo particolarmente rigoroso, in modo da tener conto della indispensabile preservazione dei caratteri di necessità e urgenza già verificati con la procedura prevista dall'articolo 78 del Regolamento, con riferimento sia al decreto-legge che al disegno di legge di conversione. 5.4 Sia per i disegni di legge ordinari che per quelli di conversione, la dichiarazione di improponibilità spetta al Presidente della Commissione, salva la facoltà di quest'ultimo - da esercitarsi in casi del tutto particolari, secondo il suo prudente apprezzamento - di rimettere la questione al Presidente del Senato. In questa eventualità, l'esame in Commissione prosegue, ove possibile, per le parti non deferite al Presidente del Senato. Gli emendamenti dichiarati improponibili in Commissione possono essere riproposti in Assemblea, al pari di quelli respinti.
5.5 Sono inammissibili gli emendamenti privi di reale portata modificativa, salvo che intendano apportare correzioni di forma, nel qual caso vanno esaminati e votati in sede di coordinamento (articolo 100, comma 8, del Regolamento). |
CAMERA |
SENATO |
Parere del 9 marzo 1982
“La Giunta ritiene applicabile, in via analogica, alle Commissioni in sede referente il secondo comma dell’articolo 41 del Regolamento, limitatamente all’ammissibilità di emendamenti riferiti a decreti-legge; ritiene altresì che la questione può essere sollevata anche d’ufficio dal Presidente della Commissione. Restano fermi i poteri del Presidente dell’Assemblea sull’ammissibilità degli emendamenti presentati in Aula”. |
Parere dell’8 novembre 1984
“Quando il Senato, in sede di valutazione dei presupposti, giudica per un decreto-legge sussistenti i requisiti richiesti dall’articolo 77 della Costituzione, accetta che al provvedimento sia riservato un tragitto preferenziale, con la garanzia che per questo tragitto non si debbano far passare ipotesi normative del tutto svincolate dalla necessità e dalla urgenza che giustificarono l’emanazione del decreto-legge. Pertanto, in sede di conversione di un decreto-legge, la norma del primo comma dell’articolo 97 del Regolamento – secondo la quale non sono proponibili emendamenti che siano estranei all’oggetto della discussione – deve essere interpretata in modo particolarmente rigoroso, che tenga conto anche della indispensabile preservazione dei caratteri di necessità e di urgenza già verificati con la procedura prevista dall’articolo 78 del Regolamento, con riferimento sia al decreto-legge che al disegno di legge di conversione”.
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Parere del 23 marzo 1988
“La Giunta concorda all’unanimità nel ritenere che: a) debba essere ribadito il principio, già delineato dalla Giunta stessa nel parere reso il 9 marzo 1982, secondo cui nel corso dell’esame, in sede referente, di disegni di legge di conversione le questioni di ammissibilità di emendamenti devono essere sottoposte al Presidente della Camera, in applicazione analogica del comma 2 dell’articolo 41 del Regolamento; b) le suddette questioni devono essere comunque sollevate d’ufficio dal Presidente della Commissione ogni qualvolta la Commissione stessa intenda introdurre nel provvedimento disposizioni non strettamente attinenti alla materia del decreto-legge, anche in considerazione del fatto che su di esse non è intervenuto l’esame ai sensi dei primi tre commi dell’articolo 96-bis del Regolamento e che le medesime possono investire la competenza primaria di altre Commissioni; c) i poteri del Presidente della Camera sull’ammissibilità degli emendamenti trovano esplicazione sia sulle questioni sottopostegli dal Presidente della Commissione e sugli emendamenti presentati direttamente in Assemblea sia sulle disposizioni introdotte dalla Commissione in sede referente senza il vaglio preventivo del Presidente della Camera.
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[1] Si tratta delle materie per le quali è preclusa la possibilità di approvazione dei progetti di legge direttamente in sede legislativa. Il quarto comma dell’articolo 72 recita infatti: “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi”. Come si vedrà, la sentenza della Corte costituzionale n. 171 del 2007 contiene un interessante accenno all’intervento con decreto-legge in materia elettorale.
[2] L’art. 7 del testo unificato riformula l’art. 70 Cost. prevedendo, per la generalità delle leggi statali, un procedimento di approvazione affidato in misura preminente alla Camera dei deputati. L’attuale procedimento bicamerale è tenuto fermo per le leggi costituzionali e per i disegni di legge (o singole norme):
§ in materia elettorale;
§ in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali degli enti locali;
§ concernenti l’esercizio delle funzioni dello Stato indicate negli artt. 116, co. 3°; 117, co. 5° e 9°; 118, co. 2° e 3°; 119, co. 3° e 5°; 122, co. 1°; 132, co. 2°; 133, co. 1°;
§ in materia di informazione ed emittenza radiotelevisiva;
§ di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali;
§ in materia di amnistia e indulto.
[3] L’attinenza soltanto indiretta alle disposizioni originarie fa sì che “viene sottoposta per la promulgazione una legge che converte un decreto-legge notevolmente e ampiamente diverso da quello da me a suo tempo emanato”.
[4] “Tutto ciò – prosegue il messaggio – mette in evidenza la necessità che il Governo, non soltanto segua criteri rigorosi nella predisposizione dei decreti-legge, ma vigili, successivamente, nella fase dell’esame parlamentare, allo scopo di evitare che il testo originario venga trasformato fino a diventare non più rispondente ai presupposti costituzionali e ordinamentali sopra richiamati.
Tutto ciò postula, inoltre, l’esigenza imprescindibile che identica e rigorosa vigilanza sia esercitata dagli organi delle Camere specificamente preposti alla produzione legislativa, segnatamente dalle Commissioni competenti, sia in sede primaria, sia in sede consultiva”.
[5] Il presente paragrafo è stato tratto dal dossier del Servizio Studi del Senato dedicato ala sentenza n. 171/2007 della Corte costituzionale.
[6] La Corte ha statuito che “La valutazione preliminare dei presupposti della necessità e dell'urgenza investe, infatti, secondo il disposto costituzionale, soltanto la fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, nè può estendersi alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina "aggiunta" a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che - a differenza di quella espressa con la decretazione d'urgenza del Governo - non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento dell'entrata in vigore della legge di conversione”.
Si veda, al riguardo, il parere reso dalla Giunta per il regolamento del Senato nel 1984 (supra, par. 1).
[7] Va segnalato che la Corte, in linea con alcune posizioni dottrinali, sembra giunta anche a operare una distinzione tra il fenomeno della decretazione in assenza dei presupposti costituzionali e quello, analogo ma non identico, della reiterazione. Secondo la dottrina, infatti, mentre nel primo caso il Governo agisce in vera e propria carenza di potere “in concreto”, nel secondo esso fa un “cattivo uso” di un potere legittimamente attivato. Pertanto il fenomeno della reiterazione appare meno grave di quello della mancanza dei presupposti, tanto che la conversione può far ritenere sanati i vizi determinati dalla reiterazione (sentenza n. 360 del 1996), ma non anche quelli dovuti alla carenza dei presupposti (cfr in particolare sentenza n. 398 del 1998).
[8] Nell’ultima delle sentenze citate, ad esempio, la Corte afferma che “eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione”.