Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||
Titolo: | Commissione giustizia - Politiche legislative e attività istituzionale nella XIV legislatura | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 2 Progressivo: 2 | ||
Data: | 19/05/2006 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | II-Giustizia |
Camera dei deputati
XV LEGISLATURA
SERVIZIO STUDI
Documentazione e ricerche
Commissione GIUSTIZIA
Politiche legislative e attività istituzionale
nella XIV legislatura
n. 2/2
Maggio 2006
Il “dossier di inizio legislatura” si propone di fornire un quadro sintetico delle principali politiche e degli interventi normativi che hanno interessato nella XIV legislatura i settori di competenza delle Commissioni permanenti.
Alla redazione del dossier hanno partecipato il Servizio Commissioni e l’Ufficio Rapporti con l’Unione europea.
Dipartimento Giustizia
SIWEB
I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
File: GI0001.doc
INDICE
Temi di interesse e di intervento (a cura del Servizio studi)
L’attività della Commissione Giustizia (a cura del Servizio commissioni)
Principali politiche e interventi legislativi
§ La modifica del sistema elettorale del CSM
§ La delega per la riforma dell’Ordinamento giudiziario
§ Gli altri provvedimenti in materia di Ordinamento giudiziario
Interventi sull’esecuzione penale
§ Interventi sull’esecuzione della pena
§ Interventi sull’ordinamento penitenziario
§ La riforma del processo civile
§ Altri provvedimenti in materia di processo civile
Criminalità e sicurezza dei cittadini
§ Le misure di contrasto ai fenomeni di violenza negli stadi
§ I provvedimenti di contrasto nel settore degli incidenti stradali
§ Misure di contrasto alla diffusione delle droghe
Modifiche all’ordinamento civile
Sanzioni in attuazione di normativa UE
Famiglia e minori: norme civili e penali
Diritto commerciale e delle società
La riforma del diritto societario
La riforma delle procedure concorsuali
Proprietà industriale e intellettuale
§ Il decreto legislativo di attuazione
Occupazione, lavoro e professioni
Interventi in materia di professioni
§ Le modifiche alla professione di avvocato
§ Le modifiche alla professione di notaio
§ Le nuove professioni contabili
§ Professioni: i princìpi fondamentali
Il nuovo sistema elettorale del C.S.M.
Riforma dell’ordinamento giudiziario
§ La disciplina di attuazione della riforma dell’ordinamento giudiziario
Modifiche al concorso in magistratura
Disciplina di attuazione di Eurojust
Tribunale internazionale per il Ruanda
Criminalità organizzata transnazionale
Magistrati delle indagini preliminari
Procedimenti riguardanti i magistrati
Disciplina transitoria dell’appello
Impugnazione delle sentenze contumaciali
Rimessione del processo penale
Disciplina dell’inappellabilità
Disciplina delle intercettazioni
Sospensione dell’esecuzione della pena
La riforma del processo civile
§ La novella al processo di cognizione
§ La novella al processo di esecuzione
§ Le modifiche in materia di separazione e divorzio
§ La nuova disciplina del processo di Cassazione e dell’arbitrato
Contrasto al terrorismo internazionale
Sospensione condizionale della pena
Tutela del commercio filatelico
Recidiva, usura e prescrizione
Mutilazioni genitali femminili
Riforma della legittima difesa
Violenza nelle competizioni sportive
La novella al Testo Unico sulla droga
Tutela degli acquirenti di immobili
La nuova disciplina dell’impresa sociale
Contributo unificato iscrizione a ruolo
Sospensione termini legali in Lombardia
Testo Unico spese di giustizia
Amministrazione della giustizia
Unione europea - Disciplina sanzionatoria di attuazione
Disposizioni processuali transitorie
Diritto commerciale e delle società
Disciplina degli illeciti societari
La novella alla legge fallimentare
Occupazione, lavoro e professioni
Disciplina della professione di avvocato
Disciplina della professione di notaio
§ La novella alla legge quadro in materia di numero e ripartizione dei notai sul territorio
Unificazione delle professioni contabili
Professioni: i principi fondamentali
§ Il contenuto del decreto legislativo
Nel corso della XIV legislatura i provvedimenti esaminati ed approvati dalla II Commissione sono stati molto numerosi ed hanno riguardato aspetti diversi.
I temi ai quali è stata dedicata attenzione sono stati, in alcuni casi, il risultato di esigenze emerse da tempo nell’ambito dei singoli settori, in altri, hanno rappresentato la risposta ad esigenze di adeguamento poste dalla normativa europea od internazionale, o comunque determinate dal verificarsi di avvenimenti che hanno travalicato i confini dei singoli Stati, costituendo, come nel caso del terrorismo, una minaccia internazionale. In altri casi ancora, come è accaduto per le misure introdotte in tema di famiglia e minori, i provvedimenti approvati sono stati indirizzati a soddisfare esigenze fortemente avvertite dalla coscienza collettiva. Ne è derivato un quadro normativo piuttosto ricco ed articolato, nell’ambito del quale, all’interno del singolo settore, non sempre i diversi provvedimenti adottati confluiscono alla realizzazione di un’identica finalità, affrontando per lo più aspetti specifici e peculiari, essendo finalizzati a soddisfare esigenze emerse nel funzionamento del sistema e a completare e a rendere più funzionali innovazioni già introdotte in precedenza. Qui di seguito ci si limiterà a ricordare i provvedimenti più significativi approvati nei diversi settori, rinviando al prosieguo della trattazione l’illustrazione più compiuta degli stessi.
Nel settore dell’Ordinamento giudiziario, in conformità con le linee programmatiche illustrate dal Ministro per la giustizia innanzi alla II commissione agli esordi della XIV legislatura, sono intervenute due leggi molto significative: la legge 28 marzo 2002, n. 44 che delinea sostanzialmente un nuovo sistema elettorale per l’elezione dei rappresentanti togati del Consiglio medesimo, e la legge 25 luglio 2005, n. 150 che interviene ad innovare e modificare profondamente la disciplina dell’Ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12. Nell’ambito della cooperazione giudiziaria allo scopo di dettare le disposizioni interne necessarie a conformarsi a due decisioni quadro del Consiglio dell’Unione Europea, sono intervenute la legge 22 aprile 2005, n. 69 e la legge 14 marzo 2005, n. 41, riguardanti, rispettivamente, la disciplina del mandato di arresto europeo, destinata a sostituire quella di estradizione, e l’istituzione di Eurojust che è un organismo con compiti di coordinamento e supporto alle autorità giudiziarie statali. Vanno poi ricordate la legge 5 ottobre 2001, n. 367 che, nata dall’esigenza di dare attuazione all’accordo tra Italia e Svizzera del 10 settembre 1998, opera anche una serie di modifiche ed integrazioni al codice penale e processuale penale in tema di rogatorie internazionali, e la legge 16 marzo 2006, n. 146,avente per oggetto la Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.
In tema di processo penale vanno ricordate:
§ la legge 12 giugno 2003, n. 134 diretta a potenziare, in funzione deflattiva del processo medesimo, l’istituto del c.d. patteggiamento, ampliando la possibilità di accedere a tale procedimento pre-dibattimentale di tipo premiale;
§ la legge 22 aprile 2005, n. 60, di conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17 che,anche per conformare l’ordinamento italiano ad alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, modifica la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione della sentenza contumaciale od opposizione al decreto penale di condanna, rendendo più agevole per il contumace la proposizione della relativa richiesta;
§ la legge 7 novembre 2002, n. 248 cheintroduce alcune rilevanti novità alla disciplina vigente in tema di rimessione del processo, intervenendo sui presupposti e sugli effetti della richiesta, sulla relativa decisione e sulla disciplina transitoria;
§ la legge 20 febbraio 2006, n. 46, che detta significative modifiche al codice di procedura penale e il cui nucleo significativo e qualificante è rappresentato dalla previsione di una limitazione dei casi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento alle sole ipotesi di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado;
Inoltre, mentre sul tema dell’esecuzione della pena, va ricordata l’approvazione della legge 1° agosto 2003, n. 207 che disciplina la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena che può essere concessa a favore del condannato, con sentenza definitiva, a pena detentiva, che abbia espiato almeno metà della pena, con un residuo non superiore a due anni, nel settore dell’ordinamento penitenziario, appaiono significative le norme introdotte dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279, con la quale viene stabilizzato il regime di cui all’articolo 41-bis nell’ordinamento penitenziario, adeguando i contenuti della disciplina dell’istituto, assai scarna e basata per lo più su fonti secondarie, alle pronunce della Corte costituzionale, nel rispetto dei principi di civiltà giuridica e di garanzia dei diritti del cittadino.
Nel settore del processo civile sono stati approvati alcuni provvedimenti che, pur non operando una radicale sostituzione della vigente disciplina in tema di processo di cognizione e di processo esecutivo, hanno apportato significative novelle ad istituti essenziali alla dinamica degli stessi; vanno ricordate le modifiche normative dettate da alcune disposizioni del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263 e dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52. Le innovazioni introdotte dai provvedimenti citati si muovono essenzialmente nell’ottica dell’abbreviazione della durata del processo attraverso una concentrazione delle fasi processuali, dell’ampliamento delle ipotesi di decadenza dai propri poteri delle parti che non li esercitino tempestivamente, dell’introduzione della facoltà di proseguire il processo ordinario attraverso il c.d. rito societario. Inoltre, l’articolo 1 della legge 80/2005, di conversione del D.L. 35/2005, ha conferito una delega al Governo per modificare il codice di procedura civile, relativamente all’introduzione di una disciplina del processo di cassazione che ne valorizzi la funzione nomofilattica ed alla razionalizzazione della disciplina dell’arbitrato. La delega è stata esercitata con l’emanazione del decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006.
In tema di contrasto al terrorismo l’intensa attività legislativa che si è svolta nel corso della XIV legislatura, ha costituito una risposta alla crisi internazionale determinatasi in seguito ai gravissimi attentati dell’11 settembre 2001; in proposito va ricordata l’adozione di diversi provvedimenti, tra i quali, il decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito nella legge 15 dicembre 2001, n. 438, che ha inserito nel codice penale la fattispecie di terrorismo internazionale, la legge 14 gennaio 2003, n. 7 che ha ratificato la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, la legge 14 febbraio 2003, n. 34 che ha ratificato la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici per mezzo di esplosivo, Va inoltre ricordata l’adozione nel luglio 2005, a seguito dei tragici attentati di Londra e Sharm el Sheikh, del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito nella legge 31 luglio 2005, n. 155, che si propone quale obbiettivo prioritario la lotta al terrorismo internazionale, adottando diverse e specifiche misure di contrasto a tale fenomeno.
Nel settore degli interventi di diritto penale i provvedimenti esaminati ed approvati dalla II commissione riguardano aspetti diversi. Si ricordano la legge 11 agosto 2003, n. 228, cheha introdotto nuove disposizioni penali allo scopo di contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e, più in particolare, quella forma di riduzione in schiavitù derivante dal traffico di esseri umani, la legge 5 dicembre 2005, n. 251, che interviene sul regime delle circostanze del reato e sulla disciplina delle misure alternative alla detenzione nonché, nucleo qualificante del provvedimento, in tema di prescrizione del reato, la legge 9 gennaio 2006, n. 7 finalizzata a fornire una specifica risposta, preventiva e repressiva, al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, e la legge 13 febbraio 2006, n. 59, che, aggiungendo due nuovi commi all’articolo 52 del codice penale in tema di legittima difesa, è intervenuta a precisare i limiti della proporzionalità tra difesa ed offesa, sia pure soltanto con riguardo al delitto di violazione di domicilio.
Nel settore della criminalità e sicurezza dei cittadini alcuni provvedimenti di urgenza, adottati nella forma del decreto legge, sono stati approvati per combattere il fenomeno della violenza degli stadi, soprattutto a seguito del verificarsi di nuovi episodi criminosi in occasione di manifestazioni sportive, dettando modifiche alla legge 13 dicembre 1989, n. 401 che, a suo tempo, ha introdotto una prima disciplina legislativa per la repressione e la prevenzione dei fenomeni citati; sull’oggetto della prevenzione e repressione più efficace delle fattispecie di reato connesse o collegate al tema dell’incidentistica stradale sono poi state approvate la legge 21 febbraio 2006, n. 102 e la legge 9 aprile 2003, n. 72. Infine,mediante l’inserimento, nel corso dell’esame parlamentare presso il Senato, di alcuni articoli nel testo del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272,convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, il legislatore, sul finire della XIV legislatura, ha introdotto una serie di modifiche di rilievo al Testo unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/90) che ne hanno cambiato parzialmente l’impianto. In tema di ordinamento civile vanno ricordate la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, inserendo un nuovo capo nell’ambito del Titolo XII del Libro I del codice civile, prevede e disciplina l’istituto dell’amministrazione di sostegno, diverso ed ulteriore rispetto a quelli dell’interdizione e dell’inabilitazione, la legge 13 giugno 2005, n. 118 che, mediante il conferimento di una delega al Governo (esercitata mediante l’emanazione del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155),ha inteso colmare una lacuna dell’ordinamento relativa alla disciplina di un tipo particolare di impresa, definita “sociale” e ricompresa nell’ambito dei cosiddetti enti non profit,e la legge 14 febbraio 2006 n. 55 che ha introdotto nel codice civile una significativa disciplina derogatoria al generale divieto di patti successori riguardante il settore della successione di impresa.
Nel settore del diritto alla riservatezza, con l’emanazione del decreto legislativo30 giugno 2003, n. 196 viene completato il processo di definizione e messa a punto di un’organica normativa in materia, in linea con le prescrizioni dettate dalla normativa comunitaria. Nel settore della famiglia e dell’infanzia vanno ricordate, in materia di diritto civile, le nuove norme sull’affidamento condiviso dei figli contenute nella legge 8 febbraio 2006, n. 54 e in materia di diritto penale le norme più severe dirette a prevenire e contrastare i reati contro i minori contenute nella legge 6 febbraio 2006, n. 38. La complessiva riforma del diritto societario avviata con l’approvazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366, si è poi articolata in una serie di decreti legislativi e provvedimenti normativi intervenuti successivamente. Per quanto attiene, in particolare, alle materie più strettamente attinenti alle competenze della II commissione, va ricordata l’emanazione del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, che detta la disciplina in tema di illeciti societari, successivamente modificata per alcuni aspetti dall’articolo 30 legge 28 dicembre 2005, n. 262, e del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che detta nuove norme di procedura per le controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria nonché in materia bancaria ecreditizia. Nel settore delle procedure concorsuali, oltre ad alcune disposizioni urgenti dettate dal decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, una significativa riforma organica della materia è stata introdotta in forza della delegalegislativa contenuta nella citata legge di conversione, mediante l’emanazione del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5.
Infine, nel settore delle professioni, le innovazioni introdotte hanno riguardato gli avvocati, i commercialisti ed i notai. Per quanto attiene alla prima delle categorie citate vanno menzionate le innovazioni che in tema di svolgimento degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense sono state dettate dal decreto legge del 21 maggio 2003, n. 112, convertito dalla legge 18 luglio 2003, n. 180. In tema di professione notarile va ricordata l’emanazione di tre schemi di decreto legislativo sulla base della delega di cui all’articolo 7 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005) che ha conferito al Governo il potere di adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto e la codificazione delle disposizioni vigenti in materia di ordinamento del notariato e degli archivi notarili. Per quanto riguarda la professione di commercialista, va ricordata l’emanazione della legge 24 febbraio 2005, n. 34, del decreto legislativo 28 giugno 2005, n. 139 e del decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 28 dirette a realizzare l’unificazione degli Ordini professionali dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali, delle rispettive Casse di previdenza e assistenza, e ad attribuire, al nuovo ordine professionale, competenze sul registro dei revisori contabili.
Per quanto attiene ai temi di interesse europeo attinenti al settore della giustizia si fa rinvio al capitolo relativo alle Questioni all’esame dell’UE.
Il Presidente della Camera, con la circolare del 16 ottobre 1996 sugli ambiti di competenza delle Commissioni permanenti, ha specificato che rientrano nella competenza della Commissione Giustizia le seguenti materie: giustizia ordinaria, amministrativa (giurisdizione del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali e disciplina del processo dinanzi a tali organi) e militare e contenzioso tributario; codici civile (la disciplina dei contratti previsti dal codice civile appartiene alla competenza della II Commissione, mentre rientra nella competenza delle singole Commissioni di settore la regolamentazione delle attività relative ai suddetti contratti), di procedura civile, penale e di procedura penale; funzioni di polizia giudiziaria; criminalità; misure di prevenzione; ordinamento giudiziario; stato giuridico ed economico dei magistrati ordinari e amministrativi; diritto di famiglia; ordinamento dello stato civile; alla determinazione dei profili ordinamentali delle società commerciali (la disciplina dell'attività delle società commerciali rientra nella competenza della Commissione Finanze).
Con la lettera circolare del 21 luglio 2001, il Presidente della Camera ha altresì specificato che rientrano nell’ambito di competenza della Commissione Giustizia le questioni attinenti alle locazioni ad uso diverso da quello abitativo, spettando quelle ad uso abitativo alla Commissione Ambiente.
La Commissione giustizia esprime altresì un parere cosiddetto rinforzato ai sensi degli articoli 73, comma 1-bis, e 93, comma 3-bis, del Regolamento sui progetti di legge relativi ad ordini e collegi professionali e sui progetti di legge recanti disposizioni sanzionatorie, per i quali la competenza prevalente sia di altre Commissioni.
Pur se la richiamata circolare del Presidente della Camera ha sostanzialmente ridotto le questioni di competenza tra le Commissioni, sono rimasti profili di contiguità tra la competenza della Commissione Giustizia e quella di altre Commissioni che sono stati superati solamente con il ricorso all'assegnazione in sede congiunta. A questa si è fatto ricorso, tra l’altro, per l’esame del disegno di legge di riforma del diritto societario, assegnato alle Commissioni riunite Giustizia e Finanze, in quanto in tal caso la materia di competenza specifica di ciascuna delle due Commissione (determinazione dei profili ordinamentali delle società commerciali, per la Commissione Giustizia, e disciplina dell'attività delle società commerciali, per la Commissione Finanze) sono tra loro strettamente intrecciate. Con la lettera circolare del 21 luglio 2001, il Presidente della Camera ha confermato la prassi instauratasi di assegnare alle Commissioni riunite Giustizia e Finanze i progetti di legge in materia di diritto societario, qualora non risulti possibile effettuare una valutazione di prevalenza.
Nel corso della legislatura la Commissione Giustizia non ha ravvisato l’esigenza di sollevare conflitti di competenza. Si sono invece registrati alcuni conflitti di competenza sollevati dalla Commissione Affari sociali relativi a progetti di legge assegnati in sede referente alla Commissione Giustizia. Si è trattato di provvedimenti che, se pur diretti a modificare il codice civile o quello penale, presentavano profili sociali. Il Presidente della Camera ha confermato la competenza primaria della Commissione Giustizia per i progetti di legge in materia di pedofilia (C. 311 ed abbinati), di prostituzione (C. 65 ed abbinati) e di affidamento dei figli in caso di separazione dei coniugi (C. 66 ed abbinati), mentre ha assegnato alle Commissioni riunite Giustizia ed Affari sociali i progetti di legge in materia di divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile (C. 150 ed abbinate). In questo ultimo caso, si è proceduto alla assegnazione alle Commissioni riunite in quanto, nel corso dell’esame presso la Commissione Giustizia dei progetti di legge in materia di divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, è emerso che in tale materia l’aspetto penalistico e quello sociale sono difficilmente separabili.
Nel corso della XIV legislatura la Commissione Giustizia si è concentrata prevalentemente sull’attività di natura legislativa, approvando 97 progetti di legge, di cui 76 in sede referente e 21 in sede legislativa. Inoltre, la Commissione, in sede referente, ha approvato in congiunta con altre Commissioni ulteriori 18 progetti di legge. Sono, pertanto, 115 i progetti approvati complessivamente dalla Commissione.
Tra i 115 progetti di leggi approvati, 74 sono divenuti legge, di cui 14 in congiunta con altre Commissioni.
Per quanto attiene alla natura dei progetti di legge approvati, si segnala che 8, di cui 5 divenuti legge, hanno avuto natura di delegazione legislativa, mentre 23 hanno convertito decreti-legge.
Circa la distribuzione per sedi dell’attività legislativa, la Commissione ha approvato in sede legislativa 21 progetti di legge, che costituiscono circa il 18 per cento dei progetti da essa approvati in totale.
La Commissione ha svolto un intenso lavoro in sede consultiva, esprimendo in totale 312 pareri. Si è trattato in massima parte di pareri espressi ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento (c.d. pareri rinforzati) su norme recanti sanzioni. Attraverso lo strumento consultivo la Commissione ha svolto una attività diretta principalmente ad uniformare e razionalizzare le sanzioni previste da provvedimenti esaminati in via primaria da altre Commissioni.
La Commissione ha altresì espresso il parere su 36 schemi di decreto legislativo e su uno schema di regolamento nonché su dieci altri atti.
Per quanto riguarda la sede ispettiva, la Commissione ha svolto 87 interrogazioni (il 34 per cento delle interrogazioni assegnatele), e 58 interrogazioni a risposta immediata.
L’attività di indirizzo si è concretizzata nell’approvazione di tre risoluzioni.
Sono stati approvati dalla Commissione, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento, tre documenti su altrettanti progetti di decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea in materia di cooperazione giudiziaria.
Nell’ambito dell’attività conoscitiva, la Commissione ha svolto una indagine nell’ambito dell’istruttoria legislativa avente ad oggetto le proposte di legge in tema di patti civili di solidarietà, mentre, in congiunta con la Commissione Affari sociali, ha svolto una indagine conoscitiva sulla riforma della medicina penitenziaria.
Sempre nell’ambito dell’attività conoscitiva la Commissione ha svolto dieci audizioni formali, ai sensi dell’articolo 143 del Regolamento, tra cui, in particolare, quelle del Ministro della giustizia sulle linee programmatiche del dicastero e sulle riforme della giustizia.
La Commissione Giustizia ha istituito, ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del Regolamento quattro Comitati permanenti: il Comitato permanente per i pareri, il Comitato permanente per l’esame dei problemi penitenziari, il Comitato permanente per la giustizia dei minori ed il Comitato permanente sull’organizzazione degli uffici giudiziari. Mentre al primo di essi è stato delegato il compito di esprimere i pareri sui progetti di legge assegnati in sede consultiva alla Commissione, agli altri è stata affidata una funzione istruttoria rispetto alla attività legislativa e di indirizzo della Commissione, in relazione a particolari materie.
Scopo della attività del Comitato permanente per l’esame dei problemi penitenziari è stato quello di disegnare una mappatura generale della situazione carceraria anche al fine dell'esercizio di funzioni conoscitive e di sindacato nei confronti dell'amministrazione penitenziaria. In particolare, il Comitato si è assunto il compito di verificare le condizioni di vivibilità degli istituti e i problemi della popolazione detenuta cercando, al contempo, di monitorare anche quelli relativi al personale civile e di custodia. L'attività del Comitato si è articolata principalmente attraverso audizioni e sopralluoghi presso strutture carcerarie. Ciò ha consentito al Comitato di disporre di notevoli elementi conoscitivi che sono poi serviti anche per la predisposizione di iniziative legislative in campo penitenziario.
Il Comitato permanente per la giustizia dei minori ha avuto il compito di approfondire tutte le questioni inerenti ai minori che rientrano nell'ambito della competenza della Commissione Giustizia. Pertanto, il Comitato ha affrontato, attraverso audizioni e sopralluoghi presso gli istituti penali per i minorenni ed i Tribunali per i minorenni, problemi dei minori che attengono tanto alla materia civile quanto a quella penale, sotto i profili sostanziali, processuali e di ordinamento giudiziario. Anche in questo caso l’attività del Comitato è stata propedeutica a quella legislativa della Commissione, in quanto è servita sia per la predisposizione di iniziative legislative sia per l’istruttoria legislativa relativa ad alcuni progetti di legge in materia di minori esaminati dalla Commissione.
Al Comitato permanente sull’organizzazione degli uffici giudiziari è spettato il compito di verificare l’adeguatezza delle strutture e dell'organico dell'amministrazione giudiziaria alla complessità delle funzioni che la legge attribuisce agli organi giudiziari. L'obiettivo del Comitato è stato, ad un lato, quello di verificare se le riforme di diritto civile e penale di natura sostanziale o processuale fossero accompagnate da un potenziamento del personale togato e amministrativo e dei mezzi degli uffici giudiziari e, dall’altro, di analizzare le prospettive di razionalizzazione della organizzazione degli uffici stessi.
Nel corso della XIV legislatura la produzione legislativa in materia di giustizia è stata caratterizzata da interventi di riordino dell’ordinamento giudiziario, del diritto societario e del diritto fallimentare, e da una serie di interventi puntuali in materia penale e civile, che hanno riguardato sia il diritto sostanziale che quello processuale.
Le citate riforme sono state realizzate attraverso lo strumento della delegazione legislativa, con decreti legislativi, gli schemi dei quali sono stati esaminati dalla Commissione ai fini del parere al Governo.
La riforma del diritto societario, esaminata in congiunta con la Commissione Finanze, ha riguardato la disciplina sia sostanziale che processuale delle società nonché il relativo apparato sanzionatorio. In attuazione della delega sono stati emanati cinque decreti legislativi, i cui schemi sono stati anch’essi esaminati in congiunta con la Commissione Finanze, ad eccezione di quello diretto a definire gli illeciti penali ed amministrativi, esaminato dalla sola Commissione Giustizia. A tale proposito, si segnala che la materia degli illeciti successivamente è stata in parte modificata dalla legge recante disposizioni per la tutela del risparmio.
Particolarmente complesso è stato tanto l’esame del disegno di legge di delega relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario, quanto quello successivo dei dieci schemi di decreto legislativo trasmessi alle Camere per l’espressione del prescritto parere. L’iter legislativo, caratterizzato dal rinvio del Presidente della Repubblica alle Camere del provvedimento approvato in seconda lettura dalla Camera, si è protratto per oltre tre anni.
La riforma del diritto fallimentare è stata oggetto di un approfondito esame da parte della Commissione Giustizia in occasione dell’espressione del parere sullo schema di decreto legislativo trasmesso alle Camere dal Governo in attuazione di una delega contenuta in una legge di conversione di un decreto-legge, il cui disegno di legge era stato esaminato dalla Commissione in sede consultiva.
Per quanto riguarda la rimanente attività legislativa, come si è detto, la Commissione ha approvato una serie di progetti di legge diretti a modificare – in alcuni casi anche in misura rilevante - specifici istituti (sostanziali e processuali) di diritto civile e penale.
In materia di diritto civile sono stati approvati sei progetti di legge, di cui cinque divenuti legge. Tra le più significative, si segnalano le proposte di legge di iniziativa parlamentare in materia di affidamento condiviso dei figli e di amministratore di sostegno di persone non autosufficienti.
La disciplina del processo civile è stata in parte modificata da tre progetti di legge, di cui uno di iniziativa governativa, che hanno innovato sostanzialmente il processo di cognizione, quello di esecuzione ed i procedimenti speciali.
In materia penale gli interventi sul codice hanno riguardato sia la parte generale che la parte speciale. Tra le leggi approvate, si segnalano, per quanto riguarda la parte generale, quelle in materia di legittima difesa, recidiva e prescrizione del reato, e, per la parte speciale, quelle in materia di reati di opinione, tratta di persone, pedofilia, mutilazioni genitali femminili, omissione di soccorso e maltrattamenti degli animali. Salvo che per i progetti in materia di tratta di persone e pedofilia, per i quali il Governo ha presentato due disegni di legge, si è trattato di leggi che sono scaturite da proposte di legge di iniziativa parlamentare.
Il processo penale è stato oggetto di una serie di interventi puntuali di iniziativa per lo più parlamentare, che, in alcuni casi, sono stati oggetto di forti polemiche tra maggioranza ed opposizione. Tra gli interventi che si sono tradotti in legge si ricordano i provvedimenti in materia di rogatorie, allargamento del patteggiamento, rimessione del processo, inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e ampliamento dei casi di ricorso per cassazione. Quest’ultimo provvedimento è stato oggetto di un rinvio da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 74 della Costituzione. Sono stati, invece, approvati dalla Commissione, ma non sono divenuti legge, i progetti di legge in materia di revisione dei processi penali a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, giudizio abbreviato, investigazioni difensive, messa alla prova dell’imputato e ricorso immediato al giudice.
La Commissione ha prestato attenzione anche ai problemi inerenti all’esecuzione della pena, approvando la legge 1° agosto 2003, n. 207 (c.d. indultino), stabilizzando il regime di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e modificando la disciplina della liberazione anticipata.
Attraverso quattro decreti-legge, uno dei quali esaminato in congiunta con la Commissione Affari costituzionali, sono stati realizzati, in particolare, una serie di interventi normativi volti a contrastare il terrorismo internazionale, che sono apparsi necessari dopo le stragi terroristiche di New York (2001), Madrid (2004), Londra e Sharm el Sheikh (2005). Inoltre, sempre per predisporre strumenti di contrasto al terrorismo internazionale, sono stati approvati due disegni di legge di ratifica di Convenzioni internazionali, che la Commissione ha esaminato in congiunta con la Commissione Affari esteri.
Lo strumento della decretazione d’urgenza è stato più volte utilizzato anche per introdurre nell’ordinamento disposizioni penali sostanziali e processuali volte a contrastare il fenomeno della violenza negli stadi.
In occasione dell’esame del disegno di legge di conversione del decreto-legge recante misure per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le Olimpiadi di Torino, nonché disposizioni per favorire il recupero dei tossicodipendenti, la Commissione Giustizia, in congiunta con la Commissione Affari sociali, ha esaminato la riforma del testo unico in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, soffermandosi in particolare, sulle disposizioni sanzionatorie di natura penale ed amministrativa.
Di particolare rilevanza, infine, sono stati tre progetti di legge approvati in materia di cooperazione giudiziaria internazionale. Si tratta, in particolare, dei provvedimenti che hanno attuato le decisioni-quadro del Consiglio d’Europa in materia di mandato d’arresto europeo e di istituzione di Eurojust, nonché, del disegno di legge (esaminato in congiunta con la Commissione Affari esteri) volto a ratificare una Convenzione dell’ONU sul crimine transnazionale.
L’incisiva riforma che, in tema di Ordinamento giudiziario, è stata approvata nel corso della XIV legislatura, appare sostanzialmente conforme agli intenti che, in tale settore, erano stati preannunciati dal Ministro Roberto Castelli, nel corso dell’illustrazione del programma per la giustizia presentato alla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 24 luglio 2001. Oltre ad individuare la necessità di una modifica del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, nel senso di stabilire, all’interno della componente togata, una diversa proporzione tra giudici e pubblici ministeri, in modo da rappresentare il rapporto numerico esistente tra le due componenti, il Ministro della giustizia riteneva non procrastinabile delineare una separazione delle carriere dei giudici e dei PM, mantenendo un accesso unico in magistratura e prevedendo, dopo un percorso comune, l'immissione in due ruoli distinti, il potenziamento dell'organico e la modifica dei criteri di reclutamento dei magistrati, l’istituzione di sedi decentrate del Ministero della giustizia, l’ampliamento della composizione dei consigli giudiziari, con l’intervento delle regioni alle quali attribuire la competenza alla nomina dei componenti laici. In conformità delle linee programmatiche illustrate è quindi intervenuta l’approvazione della legge 44/2002 e 150 /2005. Gli ulteriori provvedimenti approvati hanno riguardato aspetti specifici e settoriali.
Con la legge 28 marzo 2002, n. 44[1] (v. scheda Il nuovo sistema elettorale del C.S.M) mediante la modifica di una serie di articoli della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, viene delineato sostanzialmente un nuovo sistema elettorale per l’elezione dei rappresentanti togati del Consiglio medesimo.
le principali innovazioni introdotte dal legislatore riguardano:
§ una riduzione del numero dei componenti elettivi (da 30 a 24), alla quale si collegano alcune disposizioni concernenti la riduzione del quorum funzionale e dei componenti la sezione disciplinare;
§ una modificazione del sistema elettorale e delle operazioni di voto;
§ la previsione secondo la quale, a parte i magistrati con funzioni di cassazione (due), i magistrati con funzioni requirenti siano eletti separatamente rispetto a quelli con funzioni giudicanti, sulla base di un riparto prefissato, quattro e dieci rispettivamente (in precedenza, infatti, la rappresentanza dei magistrati, cassazione a parte, era indifferenziata); in tal senso vengono quindi istituiti tre collegi unici nazionali cui sono candidabili, rispettivamente, magistrati di Cassazione, giudici di merito e pubblici ministeri, e viene stabilito il principio del voto separato;
§ l’introduzione di alcuni vincoli per i componenti del CSM, diretti a prevedere, ad esempio, che gli stessi debbano rientrare in ruolo nella stessa sede e con le stesse funzioni che avevano quando furono eletti, o che non possano essere nominati a uffici direttivi o semi-direttivi per un biennio.
L’intervento legislativo, che, in quanto tale, si caratterizza per una modifica puntuale ad alcune disposizioni della citata legge 195 del 1958, senza alterarne l’impianto generale, tuttavia, per certi aspetti, sembra anticipare i contenuti della riforma più complessiva realizzata successivamente con l’approvazione della legge di riforma dell’Ordinamento giudiziario (legge 150/2005), ed i decreti legislativi attuativi (cfr. ultra), in particolare per quanto riguarda l’aspetto della separazione delle carriere e delle funzioni tra magistrati dell’accusa e quelli giudicanti, in linea con le indicazioni programmatiche che Ministro della giustizia illustrava agli esordi della XIV legislatura..
Approvata a conclusione di un iter – comprensivo anche della fase di rinvio del provvedimento alle Camere da parte del Presidente della Repubblica[2] – piuttosto lungo e complesso che ha impegnato per circa tre anni i due rami del Parlamento e, in particolare, le commissioni giustizia di Camera e Senato, la legge 25 luglio 2005, n. 150[3] (v. scheda Riforma dell’ordinamento giudiziario) interviene ad innovare e modificare profondamente la disciplina dell’Ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, prevedendo 14 deleghe al Governo ed una serie di norme direttamente applicabili.
Le linee generali della legge delega investono un po’ tutti i principali aspetti dell’Ordinamento giudiziario, tra i quali il reclutamento e la formazione iniziale dei magistrati, i controlli di professionalità successivi e la formazione permanente, la composizione e i poteri dei consigli giudiziari, il ruolo della Corte di cassazione, l’ufficio del pubblico ministero e le relazioni fra esercizio di funzioni giudicanti e requirenti, la disciplina.
Dei decreti legislativi previsti, 10 sono stati già emanati dal Governo (di cui uno non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) (v. scheda Riforma dell’ordinamento giudiziario); per i restanti, il relativo termine per l’esercizio della delega non è ancora scaduto.
Rinviando alle schede di dettaglio l’illustrazione puntuale dei contenuti della riforma si procederà, in questa sede, a ricordare le principali novità introdotte dalla legge in esame.
Le deleghe al Governo riguardano:
§ La disciplina transitoria per il conferimento degli uffici direttivi di legittimità e di merito (articolo 2, comma 10 della legge 150/2005): vengono stabiliti criteri per il conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimità e di merito nelle more di entrata in vigore del complessivo sistema di progressione in carriera dettato dalla riforma. Il sistema prevede che le funzioni direttive di legittimità non possano essere conferite a magistrati che al momento della pubblicazione della vacanza del posto abbiano già compiuto i 68 anni di età e che, analogamente, non possano essere conferite funzioni direttive di merito a magistrati che, alla stessa data, abbiano compiuto i 66 anni di età; sulla base della citata delega è stato emanato il decreto legislativo 16 gennaio 2006, n. 20;
§ La definizione di nuove regole per l’accesso e la progressione in carriera (articolo 1, comma 1, lettera a), e 2, comma 1, lettere da a) ad r) della legge 150/2005): - viene previsto un unico concorso sia per le funzioni giudicanti che per quelle requirenti, il candidato, tuttavia all’atto della presentazione della domanda dovrà indicare la propria preferenza per una delle due funzioni;
- il passaggio dall’una all’altra funzione può avvenire soltanto entro il 5° anno dall’ingresso in magistratura, altrimenti la scelta fatta diviene irreversibile;
- la progressione economica, di norma automatica e legata all’anzianità di servizio può tuttavia essere accelerata attraverso il superamento di specifici concorsi o ritardata per coloro che, non avendo effettuato i suddetti concorsi, non ottengono neanche l’idoneità da parte del CSM in alcune verifiche obbligatorie;
- ferma restando la facoltà del magistrato di svolgere per tutta la carriera funzioni di primo grado – essendo in tal caso sottoposto a periodiche valutazioni di professionalità da parte del CSM - , lo svolgimento delle ulteriori funzioni – di 2° grado, di legittimità, semidirettive, direttive e direttive superiori di legittimità – viene subordinato al superamento di una serie di concorsi per titoli ed esami – o per soli titoli - che sostanzialmente concretanoi meccanismi di controllo di professionalità successivi all’entrata nel corpo. Per disciplinare nel dettaglio questi aspetti è stato quindi emanato il Decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160.
§ L’istituzione della Scuola della magistratura (articolo 1, comma 1, lettera b) e 2, comma 2 della legge 150/2005): si tratta di un ente autonomo composto da rappresentanti della magistratura, dell’avvocatura, del mondo universitario ed da un rappresentante nominato dal Ministro della giustizia; essa inoltre si avvale di personale nell’organico del Ministero della giustizia o comandato da altre amministrazioni. Essa ha il compito di gestire il tirocinio degli uditori giudiziari e la formazione e l’aggiornamento professionale dei magistrati nel corso della carriera; ad essa inoltre spettano, in linea con i compiti attribuiti in tema di formazione permanente, compiti di valutazione ai fini della progressione in carriera dei magistrati. Del giudizio finale della Scuola Il CSM infatti dovrà tener conto ai fini delle valutazioni di sua competenza. Il Decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, emanato in attuazione dei principi di delega, ha poi previsto l’articolazione della scuola in tre sedi: una per i distretti dell’Italia settentrionale, una per i distretti dell’Italia centrale, una per i distretti dell’Italia meridionale.
§ L’introduzione di alcune modifiche per quanto attiene ai Consigli giudiziari (articolo 1, comma 1, lettera c) e 2, comma 3 della legge 150/2005). Si prevede, in particolare, l’istituzione di un Consiglio direttivo della Corte di cassazione al quale spettano le valutazioni sui magistrati che esercitano funzioni di legittimità e viene riformata la composizione dei Consigli giudiziari con l’introduzione di due rappresentanti delle regioni distrettualmente competenti. Viene inoltre attuato un decentramento dei Consigli su base territoriale. In attuazione della citata delega è stato emanato il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25.
§ La riforma dell’ufficio del pubblico ministero (articolo 1, comma 1, lettera d) e 2, comma 4 della legge 150/2005). La disciplina dell’attività di tale ufficio viene maggiormente “gerarchizzata”, attraverso un rafforzamento del ruolo e della funzione del procuratore capo. Quest’ultimo, infatti, ha la titolarità esclusiva dell’azione penale, ferma restando la facoltà di delega ai procuratori aggiunti per la trattazione di affari specificamente indicati. E’ inoltre il procuratore capo ad esercitare poteri organizzativi e gestionali relativi all’andamento del suo ufficio, ad avere la competenza esclusiva dei rapporti con i mezzi di informazione, e a dare l’assenso scritto a tutte le richieste di misure cautelari personali o reali, salve le ipotesi di arresto, fermo o sequestro. La delega è stata poi esercitata con l’emanazione del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106.
§ La modifica dei criteri riguardanti la designazione di magistrati di merito allo svolgimento delle proprie funzioni presso la Corte di cassazione (articolo 1, comma 1, lettera e) e 2, comma 5 della legge 150/2005). Nel rivedere la pianta organica della Corte di Cassazione il legislatore delegante ha inteso destinare all’esercizio delle funzioni di legittimità solo magistrati ai quali il Consiglio superiore abbia conferito tali specifiche funzioni, eliminando, quindi, la possibilità che esse siano attribuite a magistrati di merito con provvedimenti dei Capi della procura generale e della Corte stessa. Viene inoltre potenziato l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione attraverso l’incremento della dotazione organica di magistrati di tribunale destinati a tale funzione. Sulla base di tale delega è stato poi emanato il decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 24.
§ Gli illeciti dei magistrati; il procedimento disciplinare per l’applicazione delle sanzioni relative (articolo 1, comma 1, lettera f) e 2, commi 6 e 7 della legge 150/2005). Si provvede ad una tipizzazione delle condotte costituenti illecito disciplinare – distinti a seconda che siano commessi nell’esercizio delle funzioni, fuori dall’esercizio delle funzioni o che siano conseguenti a reato - del magistrato e ad una definizione delle sanzioni applicabili. Viene anche riformato il procedimento disciplinare per i magistrati con la previsione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione per il procuratore generale della Corte di cassazione (azione che rimane facoltativa per il Ministro della giustizia) e dall’applicabilità al rito delle disposizioni del nuovo codice di procedura penale. Viene anche modificata la disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento d’ ufficio. Le due deleghe sono state esercitata con l’emanazione del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109.
§ Il decentramento del Ministero della giustizia (articolo 1, comma 1, lettera a) e 2, comma 12 della legge 150/2005). Vengono dettate norme relative, da un lato all’individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari, dall’altro al decentramento sul territorio di alcune funzioni relative all’organizzazione dei servizi giudiziari del Ministero della Giustizia. Per quanto attiene al primo dei due aspetti, pur riconoscendo al magistrato capo la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio giudiziario, nonché l’amministrazione del personale di magistratura e l’organizzazione del lavoro giudiziario, viene riconosciuto e valorizzato il ruolo del dirigente amministrativo dell’ufficio. In tale ottica presso i più grandi distretti di Corte di appello (Roma, Milano, Napoli e Palermo) si prevede l’istituzione dell’ufficio del “direttore tecnico” , organo di livello dirigenziale generale, con funzioni di organizzazione e gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali relative al complesso dei servizi tecnici ed amministrativi degli uffici giudiziari del distretto. Quanto al secondo dei due aspetti vengono istituite le direzioni regionali ed interregionali dell’organizzazione giudiziaria, alla cui guida è preposto un direttore generale responsabile dell’intera attività dell’ufficio e dell’attuazione dei programmi. Il decreto legislativo di attuazione di tale delega, non è stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
§ Modifica della disciplina dei Consigli di presidenza della Corte dei conti e della giustizia amministrativa (articolo 2, comma 17, della legge 150/2005).
In attuazione delle previsioni del legislatore delegante riguardanti l’adozione di una nuova disciplina diretta a rendere omogenee le modalità di elezione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti con quelle del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, è stato emanato il decreto legislativo 7 febbraio 2006, n. 62, che, da un lato, modifica la composizione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, dall’altro dispone alcune modifiche relative alle modalità di votazione per l’elezione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
§ La previsione di forme di pubblicità degli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati di ogni ordine e grado (articoli 1, comma 1, lettera g) e 2, comma 8, della legge 25 luglio 2005, n. 150). In attuazione della citata delega è stato emanato il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 35 che disciplina la pubblicità da parte del C.S.M., mediante la pubblicazione in un apposito sito Internet, degli incarichi conferiti ai magistrati.
Vanno infine ricordate le quattro deleghe legislative per le quali il termine per l’esercizio del relativo potere delegato non è ancora scaduto. Si tratta:
§ della delega (articolo 1, comma 3 della legge 150/2005) per il coordinamento normativo, vale a dire per l’emanazione delle norme di coordinamento tra le nuove disposizioni e le leggi dello Stato già vigenti, da esercitare entro 90 giorni dall’emanazione dei decreti, sopra ricordati, emanati ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 150/2005;
§ della delega (articolo 1, comma 6 della legge 150/2005) per l’emanazione di eventuali disposizioni correttive delle norme già emanate da esercitare entro due anni dall’entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi ai quali si riferiscono le correzioni;
§ della delega (articolo 2, comma 19 della legge 150/2005) all’emanazione di un Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento giudiziario, da esercitare entro quattro anni dalla data di acquisto di efficacia dell’ultimo dei decreti legislativi emanati ai sensi del comma 1 dell’articolo1 della legge 150/2005;
§ della delega (articolo 2, comma 21, della legge 150/2005) per l’emanazione di un Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento giudiziario, da esercitare entro un anno dalla data di entrata in vigore del Testo unico delle disposizioni legislative.
Aspetti settoriali e riguardanti problematiche particolari sono trattati da tre provvedimenti legislativi che, in tema di Ordinamento giudiziario, sono stati approvati nel corso della XIV legislatura.
All’esigenza di assicurare la continuità delle funzioni dei magistrati in relazione a procedimenti penali di particolare delicatezza e complessità è ispirata la legge 14 maggio 2002, n. 94[4], in materia di applicazione extradistrettuale dei magistrati ordinari (v. scheda Applicazione dei magistrati). Intervenendo a modificare l’articolo 110 dell’Ordinamento giudiziario (R.D. 12/1941), la legge è finalizzata a consentire ai magistrati applicati al di fuori del distretto di appartenenza di essere prorogati, alla scadenza del periodo di applicazione - che di norma non può superare i tre anni -, limitatamente ai dibattimenti in corso relativi ai procedimenti per uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, ovvero i delitti di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (630 c.p.) e associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti; in tal modo si evita il rischio di pregiudicare l’ultimazione di processi la cui definizione richiede spesso tempi non brevi.
Sul tema dell’accesso al concorso per uditore giudiziario interviene l’articolo unico del decreto legge 7 settembre 2004, n. 234[5], convertito nella legge 5 novembre 2004, n. 262 (v. scheda Modifiche al concorso in magistratura). Più in particolare il provvedimento interviene sull’aspetto della prova preselettiva informatica che, eliminata a regime, dalla nuova disciplina dettata in materia dalla legge 13 febbraio 2001, n. 48, può essere applicata, in via transitoria, in forza delle disposizioni di cui all’articolo 22 della medesima legge 48/2001 - sul cui fondamento è stato poi emanato il decreto ministeriale 19 ottobre 2001 - ai concorsi straordinari, con prove semplificate, diretti al reclutamento, dei magistrati necessari a coprire i posti vacanti nell’organico, ivi compresi i 1000 posti aumentati dall’articolo 1 della stessa legge (articolo 18); peraltro lo stesso decreto legge provvede a prorogare di un anno (portandolo da tre a quattro anni) il termine per bandire i concorsi straordinari di cui all’articolo 18 della legge. Il decreto legge, anche in conseguenza di alcune eccezioni di incostituzionalità sollevate da giudici amministrativi del T.A.R. e del Consiglio di Stato, stabilisce un ampliamento delle categorie dei soggetti esonerati dallo svolgimento della citata prova preselettiva, disponendo contestualmente l’applicazione transitoria della nuova disciplina anche ai concorsi già banditi alla data della sua entrata in vigore.
In materia di geografia giudiziaria interviene, poi, la legge 21 febbraio 2006, n. 98[6] che istituisce, nella città di Luino, una sezione distaccata del Tribunale di Varese, mediante opportune modifiche alle tabelle A e B allegate al decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (v. scheda Circoscrizioni giudiziarie).
Prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado, Luino costituiva sede di sezione distaccata della pretura di Varese; la mancata trasformazione nel ’98 della soppressa pretura in sezione distaccata e l’accorpamento dell’ex mandamento di Luino alla sezione distaccata di Gavirate, ha comportato seri problemi per i cittadini-utenti del servizio giustizia della zona, che, per la particolare conformazione della stessa e l’assenza di adeguati collegamenti, si sono trovati in grandi difficoltà nell’accedere alla sezione di Gavirate. La legge detta anche norme transitorie per l’assegnazione delle cause civili e penali pendenti presso la sezione di Gavirate.
Nel corso della XIV legislatura sono stati adottati significativi provvedimenti in tema di cooperazione giudiziaria, in adempimento di normative internazionali o comunitarie o di accordi comunque vincolanti per il nostro Paese.
Allo scopo di dettare le disposizioni interne necessarie a conformarsi a due decisioni quadro del Consiglio dell’Unione Europea, sono intervenute la legge 22 aprile 2005, n. 69[7] e la legge 14 marzo 2005, n. 41[8].
A differenza dei tradizionali strumenti di cooperazione a livello intergovernativo, quali convenzioni e accordi, la decisione quadro non richiede per la sua operatività di essere ratificata dagli Stati membri, ma vincola i paesi appartenenti all'Unione a porre in essere, entro i limiti di tempo fissati nella decisione stessa, le necessarie procedure di adattamento del diritto nazionale alle disposizioni in essa contenute, lasciando tuttavia, al pari delle direttive comunitarie, piena discrezionalità a ciascuno Stato in ordine alle forme e ai mezzi da adottare per il raggiungimento dello scopo prefissato, non potendo la decisione stessa modificare direttamente le situazioni giuridiche soggettive dei cittadini (effetto che, invece, è proprio del regolamento comunitario).
Quanto al primo dei due provvedimenti sopra citati, attuativo del mandato d’arresto europeo, va ricordato che l’adozione nel 2002 da parte del Consiglio dell’Unione europea della decisione quadro 2002/584/GAI ha costituito una risposta all’ esigenza di superare ed eliminare la complessa e lunga procedura di estradizione, ritenuta ormai inadeguata ad uno spazio senza frontiere - caratterizzato da un alto livello di fiducia e di cooperazione reciproca tra gli Stati dell’Unione - e di sostituirla con una forma di consegna che superi gli inconvenienti solitamente legati ai rapporti di cooperazione interstatuali[9]. La decisione quadro definisce il mandato d’arresto europeo come una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista dell’arresto o della consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata al fine di esercitare l’azione penale, di eseguire una pena o una misura di sicurezza privativa della libertà. L’idea che costituisce il fondamento della decisione è quella secondo cui la cooperazione giudiziaria all’interno dell’Unione, in attesa di una maggiore omogeneizzazione delle legislazioni nazionali, può comunque poggiare sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie. In tal senso, quindi, il riconoscimento reciproco è destinato ad operare per effetto della comune adesione all’acquis dell’Unione. La nuova disciplina introdotta dalla decisione quadro costituisce, quindi, una delle prime applicazioni del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie da parte degli Stati membri, affermato nella Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000 sull’assistenza giudiziaria in materia penale, in conformità al titolo VI del Trattato dell'Unione europea, relativo allo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (c.d. terzo pilastro). Secondo tale inedito modello, la cooperazione giudiziaria nell'ambito dei paesi aderenti all'Unione si deve fondare sulla libera circolazione dei provvedimenti emanati dall'autorità giudiziaria competente in conformità alla propria legislazione, costituenti titoli idonei a produrre effetti anche nel territorio di Stati diversi da quello nel quale sono stati adottati, in un clima di reciproca fiducia. In applicazione di tale principio, eliminata la fase politico-amministrativa che caratterizzava la disciplina sull'estradizione, l'esecuzione del mandato di arresto avviene attraverso contatti diretti tra le autorità giudiziarie nazionali, individuate sulla base degli ordinamenti statali.
Rinviando alle schede analitiche per un descrizione più dettagliata del contenuto del mandato d’arresto, in questa sede può ricordarsi che, oltre a poggiare sul già ricordato principio del mutuo riconoscimento, caratteristiche fondamentali del mandato d’arresto sono il venir meno di ogni valutazione politica in materia – rappresentando la consegna un fatto giudiziario nel quale il ruolo riservato all’autorità centrale è di mero supporto rispetto all’interlocuzione tra le autorità giudiziarie dei due paesi - e la parziale eliminazione del principio della doppia incriminazione; l’eliminazione è solo parziale poiché per un gruppo di reati considerati maggiormente significativi, e inseriti in un elenco soggetto ad opportuni aggiornamenti, la consegna avviene indipendentemente dalla doppia incriminazione - purché la legge dello Stato emittente vi riconnetta una pena o una misura di sicurezza privativa della libertà personale superiore a tre anni -, per gli altri la consegna può essere subordinata alla condizione che essi siano considerati reato anche nello Stato richiesto. Inoltre è la stessa decisione quadro che prevede ipotesi di non esecuzione obbligatorie o facoltative. In caso di esecuzione del mandato sono invece assicurate al soggetto passivo una serie di garanzie, all’informazione, ad avere un’interprete, ad avere la necessaria assistenza di consulente e difensore, ad essere sentito, ad una decisione giudiziale che intervenga in tempi stretti.
Tuttavia l’iter parlamentare della proposta di legge (A.C. 4246) recante norme di recepimento della decisione quadro, della quale i deputati firmatari (Kessler, Finocchiaro, Bonito e Carboni) hanno successivamente ritirato la propria sottoscrizione, è stato piuttosto lungo e complesso: iniziato, infatti, presso la commissione giustizia della camera nel settembre 2003, si è concluso presso la medesima commissione, in sede deliberante, in terza lettura, nel marzo 2005.
Trattandosi infatti di regole e principi coinvolgenti la libertà personale e la tutela dei diritti giudiziari fondamentali il dibattito è stato molto articolato e in esso sono emerse posizioni diverse anche rispetto alle modalità per assicurare il rispetto dei principi costituzionali italiani. La legge 22 aprile 2005, n. 69 (v. scheda Mandato di arresto europeo), pertanto, dettando disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro, ha anche stabilito particolari condizioni e modalità diretti ad assicurare il rispetto di alcuni limiti. In primo luogo, l’obbligo dell’Italia di dare esecuzione al mandato di arresto europeo è stato subordinato alla condizione che il provvedimento cautelare in base al quale il mandato è stato emesso sia stato sottoscritto da un giudice e sia motivato o che la sentenza da eseguire sia irrevocabile[10]. Viene poi assicurato il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e del giusto processo. Inoltre le modifiche dell’articolo 2, paragrafo 2 della decisione quadro, che individua i reati che danno luogo a consegna indipendentemente dalla doppia incriminazione (cfr. supra), sono sottoposte dal Governo a riserva parlamentare. Tale riserva che, quale istituto generale è già disciplinata nel nostro ordinamento dalla legge 11/2005 (Partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), seguirà, per le modifiche all’articolo 2, par. 2 della decisione quadro, un iter particolare delineato dalla legge in esame. In tal senso il Presidente del Consiglio dei ministri trasmette alle Camere i relativi progetti di modifica, unitamente ad una relazione con la quale illustra lo stato dei negoziati e l'impatto delle disposizioni sull'ordinamento italiano, chiedendo di esprimersi al riguardo. La pronuncia non favorevole della Camera dei deputati o del Senato della Repubblica è vincolante e non consente l'adesione dello Stato italiano alle modifiche proposte. Viene designato il Ministro della giustizia quale autorità centrale con compiti di assistenza delle autorità giudiziarie competenti. Vengono poi specificamente disciplinate la procedura passiva e attiva di consegna. Per quanto attiene alla procedura passiva, vale a dire all’esecuzione, in Italia, del mandato di arresto europeo emesso in un altro Stato membro, vengono stabilite le garanzie giurisdizionali mediante la definizione di un procedimento nel quale interviene la Corte d’appello, viene individuato puntualmente il contenuto del mandato d’arresto europeo, viene, da un lato reintrodotto il principio della doppia punibilità – nel senso di stabilire, quale condizione per l’esecuzione del mandato da parte dell’Italia la circostanza che il fatto sia previsto come reato anche dalla legge nazionale -, dall’altro vengono stabilite una serie di ipotesi di consegna obbligatoria - vale a dire indipendentemente dalla doppia incriminazione - per fattispecie criminose ritenute di maggiore gravità; in tal senso il legislatore italiano, muovendosi nell’ambito delle facoltà ad esso concesse dal XII considerandum della decisione quadro[11] e dalla dichiarazione fatta dal Governo in sede di negoziato[12], sembra aver tenuto in considerazione le perplessità emerse nel corso dei lavori preparatori sul progetto di legge, circa la compatibilità della rinuncia al principio della doppia incriminabilità con il sistema costituzionale italiano e, più in particolare, con il principio di legalità. Vengono poi precisamente disciplinate tutte le fasi della procedura, prevedendosi, in particolare, un termine massimo per la decisione sulla richiesta di esecuzione. La legge delinea inoltre una serie di ipotesi di rifiuto della consegna quando il mandato di arresto sia stato emesso per perseguire penalmente un soggetto violando il principio di eguaglianza, se sussiste una causa di giustificazione per l’ordinamento italiano e in una serie di altri casi specificamente definiti. Vengono anche disciplinati il ricorso per cassazione e stabilito - conformemente alle previsioni della decisione quadro - il principio di specialità, in base al quale è posto il divieto di perseguire o restringere la libertà personale per fatti anteriori o diversi da quelli per cui è stata richiesta l’esecuzione del mandato. Al rispetto di tale principio sono, peraltro, introdotte specifiche eccezioni.
Per quanto attiene alla procedura attiva di consegna, vale a dire alla fase di emissionedel mandato di arresto europeo, vengono stabiliti i casi in cui tale competenza spetta al giudice e quelli in cui spetta al pubblico ministero presso quest’ultimo, i presupposti per l’emissione del mandato, il contenuto e i casi di perdita di efficacia dello stesso, nonché il principio di specialità e la computabilità del periodo di custodia cautelare sofferto all’estero. La legge si chiude dettando le disposizioni finali in tema di Obblighi internazionali, Norme applicabili e disposizioni transitorie.
In linea generale la cooperazione tra Stati si articola, a livello comunitario, in quattro soggetti autonomi e distinti tra loro: Europol, che coordina le polizie nazionali e facilita gli scambi di informazioni e notizie tra gli organi di polizia degli Stati membri, la rete giudiziaria europea che ha funzioni in ambito di omologazione e coordinamento delle norme, ed Eurojust che è un organismo con compiti di coordinamento e supporto alle autorità giudiziarie statali[13]. L’istituzione di Eurojust è stata decisa dal Consiglio europeo di Tampere del 1999 come unità di cooperazione giudiziaria permanente con il compito di rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata e di assicurare il coordinamento delle attività svolte dalle autorità nazionali competenti in materia penale. Successivamente, nel corso della Conferenza intergovernativa di Nizza del dicembre 2000, i Capi di Stato e di governo hanno deciso di modificare l'articolo 31 del Trattato UE inserendovi la menzione e la descrizione delle attività di Eurojust. Proprio a seguito della Conferenza di Nizza il consiglio dei Ministri della Giustizia e degli Affari interni dell'Unione europea ha adottato una decisione (14 dicembre 2000) con la quale ha dato vita all’unità provvisoria di cooperazione giudiziaria, c.d. Pro-Eurojust, destinata ad operare fino alla definitiva istituzione di Eurojust. Ciò è avvenuto il 28 febbraio 2002, quando il Consiglio GAI ha adottato la Decisione che istituisce Eurojust per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità (Dec. 28.2.2002, n. 2002/187/GAI). Eurojust rappresenta una novità molto importante nella cooperazione giudiziaria europea. Si tratta di un organismo, dotato di personalità giuridica e costituito da magistrati e funzionari di polizia appartenenti agli Stati membri che ha come obbiettivo la lotta alla criminalità organizzata transnazionale, e, più in particolare, quello di creare un fronte comune all’interno dell’Unione europea, ai fenomeni criminali che hanno una rilevanza di tipo extrastatale.
La nuova agenzia, dal punto di vista strutturale, è composta da 15 membri, uno per ogni Stato dell’Unione[14], eventualmente assistito da una o più persone. Sostanzialmente il nuovo organo può agire attraverso i componenti nazionali ovvero, a richiesta di questi, o in alcune ipotesi individuate di maggior rilievo, per il tramite del Collegio. L'ambito di competenza generale dell'Eurojust e' particolarmente ampio e riguarda: i reati per i quali e' competente l'Europol a norma dell'art. 2 della Convenzione del 26 luglio 1995 (ossia, traffico di stupefacenti; reati di terrorismo; tratta di esseri umani; organizzazioni clandestine di immigrazione; traffico di autoveicoli rubati, ecc.); specifiche forme di criminalita' (riciclaggio, frodi comunitarie, corruzione, criminalità informatica ed ambientale, partecipazione ad un'organizzazione criminale); altri reati connessi o collegati a quelli di cui ai punti 1. e 2. Nell’ambito delle proprie competenze Eurojust ha sostanzialmente funzioni di coordinamento e di impulso nelle indagini e azioni penali che vedano coinvolti almeno due stati membri o uno Stato membro e Stati terzi quando con questi siano stati conclusi accordi in tal senso da parte dell’organo di collegamento.
Il secondo dei provvedimenti attuativi di decisioni quadro, approvato dal Parlamento nel febbraio 2005, dopo un iter che ha impegnato le due Camere per poco più di un anno, la legge 14 marzo 2005, n. 41 (v. scheda Disciplina di attuazione di Eurojust) nasce dall’iniziativa legislativa del Governo che, nel settembre 2003, ha presentato il disegno di legge per conformare l’ordinamento italiano alla decisione quadro sulla istituzione di Eurojust. Tra i poteri del membro nazionale disciplinati dalla legge 41/2005, vanno ricordati quelli di richiedere alle autorità giudiziarie nazionali di avviare un’indagine o esercitare un’azione penale in relazione a determinati fatti, di istituire con esse una squadra investigativa comune e di partecipare alle attività di questa, di assistenza alle autorità medesime, su loro richiesta, al fine di assicurare un coordinamento ottimale delle indagini e delle azioni penali. Si tratta, quindi, di funzioni di supporto e di assistenza al coordinamento; mancano, invece, poteri istruttori di tipo avocativo. Per quanto attiene ai poteri del collegio si tratta, sostanzialmente, di poteri di richiesta e di scambio di informazioni scritte relative a procedimenti penali anche in deroga al segreto istruttorio di cui all’articolo 329 c.p.p. Alle richieste dovrà rispondere – a seconda della fase del procedimento in cui ci si trovi – il pubblico ministero o il G.I. P. Sarà poi compito del P.M. competente, per i reati di competenza di Eurojust, a darne informazione al membro nazionale. La nomina del membro nazionale avviene con decreto del Ministro della giustizia, salva la facoltà del CSM di esprimere un parere sulla rosa dei candidati. La durata dell’incarico è di quattro anni, con possibilità di proroga per altri due. Pertanto, dall’esposizione che precede, emerge che Eurojust non è una magistratura europea vera e propria (una sorta di giurisdizione sopranazionale), ma un organismo di coordinamento tra i magistrati degli stati membri, dotato di poteri paragiurisdizionali molto incisivi nei confronti delle autorità giudiziarie nazionali. Come evidenziato da più parti esso potrà costituire la prima tappa del percorso che conduce ad una procura europea che tuttavia, ancor più a monte, richiederebbe la creazione di un diritto penale e processual-penale europeo.
Nata dall’esigenza di dare attuazione all’accordo tra Italia e Svizzera del 10 settembre 1998, per rendere più agevole l’applicazione della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 (ratificata con legge 23 febbraio 1961, n. 215) nei rapporti bilaterali tra i due Paesi, la legge 5 ottobre 2001, n. 367[15], opera anche una serie di modifiche ed integrazioni al codice penale e processuale penale, con disposizioni destinate a produrre effetti non solo in relazione ai rapporti bilaterali italo-svizzeri ma, a regime, nei rapporti di mutua assistenza giudiziaria con tutte le autorità straniere (v. scheda Rogatorie internazionali). La materia trattata è in massima parte quella delle rogatorie internazionali, vale a dire dello strumento attraverso il quale un giudice chiede ad un altro giudice straniero di compiere atti processuali che esulano dalla sua giurisdizione. L’iter parlamentare del progetto di legge è stato piuttosto rapido impegnando le Camere per alcuni mesi: infatti il provvedimento presentato al Senato nel luglio 2001 – e approvato definitivamente da tale ramo del Parlamento nell’ottobre dello stesso anno -, riproduceva pressoché integralmente il contenuto di un disegno di legge presentato alla Camera nella precedente legislatura ed approvato dall’Assemblea di quest’ultima, ma il cui esame aveva dovuto arrestarsi a causa dello scioglimento delle Camere. Tuttavia sia nel corso della procedura d’esame parlamentare che dopo l’approvazione del provvedimento si sono sviluppati dibattiti relativi alla reale portata e significato delle disposizioni approvate. Sostanzialmente la legge, dopo aver dettato le norme di applicazione dell’Accordo, dispone una serie di modifiche al codice penale e di procedura penale in tema di rogatorie passive, o dall’estero, vale a dire richieste ai giudici italiani, e di rogatorie attive, vale a dire di rogatorie da esperirsi all’estero e richieste dai magistrati italiani ai loro colleghi stranieri. Sono poi poste alcune disposizioni transitorie e finali. Ci si soffermerà, in questa illustrazione sulle innovazioni più significative sulle quali si è svolto un articolato dibattito parlamentare.
Vanno ricordate, in primo luogo, le modifiche agli articoli 696 (Prevalenza delle Convenzioni e del diritto internazionale generale) e 729 (Utilizzabilità degli atti assunti per rogatoria) c.p.p. Le modifiche all’articolo 696 hanno introdotto nel corpo della disposizione un richiamo esplicito alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria di Strasburgo del 1959. In conseguenza di tale richiamo si è sviluppato un ampio dibattito originato dal quesito se gli atti richiesti per rogatoria debbano essere trasmessi in originale o in copie munite di certificato di conformità (come sembrerebbe stabilire l’articolo 3 della Convenzione), o se sia invece sufficiente una trasmissione in copia accompagnata dalla sola nota ufficiale di trasmissione promanante dall’autorità richiesta. Inoltre l’articolo 729 c.p.p., così come novellato, sanziona con l’inutilizzabilità gli atti acquisiti o trasmessi in violazione dell’articolo 696 e quindi della Convenzione. L’inutilizzabilità ha carattere assoluto poiché rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento ed sanabile solo mediante rinnovazione dell’atto da parte dell’Autorità richiesta, laddove ciò sia possibile. Peraltro, la prevista applicazione delle nuove disposizioni anche ai procedimenti in corso, comporta la necessità di ripetere le rogatorie già espletate non in regola con le predette formalità. Va rilevato, a tale proposito, che la questione di costituzionalità sollevata in proposito dal Tribunale di Roma (avente per oggetto gli articoli 727, comma 5 bis, e 729 c.p.p., nonché l’articolo 18 della legge 367/2001), è stata definita dalla Corte medesima con ordinanza di manifesta inammissibilità (ordinanza 315/2002)[16].
Va poi ricordata la legge 2 agosto 2002, n. 181[17](v. scheda Tribunale internazionale per il Ruanda), diretta a garantire la cooperazione giudiziaria dell’Italia con il Tribunale internazionale competente per le gravi violazioni del diritto umanitario commesse in Ruanda e negli Stati vicini, istituito in base alla risoluzione ONU n. 955 del novembre 1994, successivamente integrata dalla risoluzione n. 1165 del 1998, adeguando in tal modo la legislazione italiana alle prescrizioni delle citate risoluzioni e dello statuto del tribunale ivi annesso. La legge detta disposizioni relative ai procedimenti, al riconoscimento delle sentenze del tribunale internazionale, all’esecuzione della pena, alla cooperazione giudiziaria ed alle varie misure restrittive della libertà personale.
Va infine ricordata l’approvazione, sul finire della legislatura, della legge 16 marzo 2006, n. 146[18],avente per oggetto la Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001. Rinviando alla parte analitica per una trattazione più compiuta del provvedimento (v. scheda Criminalità organizzata transnazionale), in questa sede va sinteticamente ricordato che laConvenzione contro il crimine organizzato transnazionale ed i suoi Protocolli sono stati elaborati dalla Commissione ad hoc istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite: a seguito dell’emergere di nuove forme di cooperazione tra organizzazioni criminali a livello transnazionale, più evidente a partire dagli anni novanta, la comunità internazionale ha ritenuto infatti di doversi dotare di strumenti per combattere efficacemente questa nuova forma di criminalità. La legge 146/2006, oltre a fornire la definizione di reato transnazionale rilevante ai fini delle nuove disposizioni, e a nominare il Ministro della giustizia quale autorità centrale prevista dalla Convenzione, detta una serie di disposizioni di natura penale e processual-penale, introducendo anche una serie di modifiche a regime di disposizioni riguardanti specifici settori, come quelle concernenti il riordino della disciplina delle operazioni sotto copertura.
Vengono dettate anche norme in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
I provvedimenti normativi che, in tema di processo penale, sono stati approvati nel corso della XIV legislatura, pur non operando una radicale riforma dei principi ispiratori dei due sistemi, hanno affrontato aspetti specifici e peculiari, essendo diretti a soddisfare esigenze emerse nel funzionamento degli stessi e a completare e a rendere più funzionali innovazioni già introdotte in precedenza.
La legge 12 giugno 2003, n. 134[19] è diretta a potenziare, in funzione deflattiva del processo penale, l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti” di cui agli articoli 444 e ss. c.p.p., vale a dire del c.d. patteggiamento, ampliando (mediante una modifica all’articolo 444 citato) la possibilità di accedere a tale procedimento pre-dibattimentale di tipo premiale (v. scheda Riforma del patteggiamento). Da un lato, infatti, la legge eleva (da due a cinque anni, sola o congiunta con pena pecuniaria) il limite quantitativo di pena previsto quale condizione del patteggiamento, sia pure stabilendo alcune cause oggettive e soggettive di esclusione, sostanzialmente riferibili alle fattispecie criminose che possono essere considerate di maggior gravità. Dall’altro, quasi a bilanciamento di tale previsione il legislatore subordina (modificando l’articolo 445 c.p.p.) i benefici conseguenti alla scelta del patteggiamento (compresa l’estinzione del reato in presenza dei presupposti di cui all’articolo 445, comma 2, c.p.p.) alla circostanza che la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria. Anche le sentenze di patteggiamento vengono poi a assoggettate a revisione (art. 629 c.p.p.). Viene poi stabilita una specifica disciplina transitoria per l’applicabilità della nuova disciplina ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore.
La legge inoltre, mediante alcune modifiche agli articoli 53 e 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e l’abrogazione dell’articolo 60 della medesima legge, amplia la possibilità di accedere alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.
Collegata al provvedimento ora illustrato è la legge 2 agosto 2004, n. 205[20], che opera un intervento di coordinamento normativo, modificando l’articolo 188 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (D. Lgs. 28 luglio 1989, n. 271), ed innalzando da due a cinque anni il limite di pena che permette, nella fase dell’esecuzione, l’applicazione della più favorevole disciplina del reato continuato e del concorso di reati in caso di più sentenze di patteggiamento in più procedimenti distinti contro la stessa persona.
Ad esigenze relative al funzionamento del processo penale appare finalizzata la legge 27 febbraio 2002, n. 31[21](v. scheda Magistrati delle indagini preliminari), il cui contenuto va letto insieme alle modifiche disposte dal comma 27 dell’articolo 2 della legge di riforma dell’Ordinamento giudiziario 25 luglio 2005, n. 150[22].
Sostanzialmente, modificando l’articolo 57 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, che, nello scorsa legislatura, ha dettato una serie di modifiche processuali necessarie a seguito dell’entrata in vigore della riforma del giudice unico, viene ampliato (a dieci anni dall’entrata in vigore della legge 479/99) il termine di permanenza dei giudici per le indagini preliminari e dei giudici dell’udienza preliminare presso le sezioni delle medesime indagini. La norma precedentemente in vigore, infatti, avrebbe determinato la necessità di operare, in un breve lasso di tempo, un ricambio pressoché totale dei componenti delle sezioni dei GIP e GUP, con il rischio di privare le sezioni di magistrati che hanno avuto modo di accumulare una notevole esperienza nello svolgimento delle loro funzioni.
Allo scopo di porre rimedio a vari disagi relativi alle difficoltà di spostamento, per l’assenza di idonei collegamenti aerei e ferroviari, dei magistrati e degli altri soggetti eventualmente coinvolti nei procedimenti penali e civili riguardanti i magistrati del distretto di Corte d’appello di Cagliari e nei procedimenti di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, la legge 24 luglio 2003, n. 199[23], intervenendo sulla tabella A allegata alle norme di attuazione del codice di procedura penale, individua il distretto di Corte d’appello di Roma, al posto di quello di Palermo, come ufficio competente in relazione ai citati procedimenti penali e civili. Viene contestualmente dettata una disciplina transitoria che prevede la competenza della Corte d’appello di Roma solo per i procedimenti civili e penali iniziati dopo l’entrata in vigore del provvedimento (v. scheda Procedimenti riguardanti i magistrati).
La legge 19 aprile 2002, n. 72[24] interviene a colmare una lacuna dell’ordinamento suscettibile di determinare una limitazione del diritto di difesa ed una grave disparità di trattamento (v. scheda Disciplina transitoria dell’appello). L’articolo 593 del codice di procedura penale, concernente i casi di appello, è infatti stato oggetto, al comma 3, di due modifiche succedutesi in un lasso di tempo relativamente breve. Con la prima modifica, (disposta dall’articolo 18 della legge 468/99), veniva sancita l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a reati per i quali fosse stata applicata la sola pena pecuniaria e delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, sostanzialmente estendendo la previsione di inappellabilità che, nella precedente formulazione del citato comma 3, riguardava soltanto le contravvenzioni, anche ai delitti con le citate caratteristiche. L’ambito di appellabilità oggettivo delle sentenze è stato nuovamente ampliato dalla legge 26 marzo 2001, n. 128, che ha modificato il comma 3 dell’articolo 593 nel senso di prevedere l’appellabilità delle sentenze di condanna relative a delitti per i quali sia stata applicata la sola pena pecuniaria. Tale modifica appariva necessaria poiché la previsione in precedenza introdotta veniva ad escludere l’appellabilità anche di condanne per delitti quali, ad esempio, quelli di diffamazione a mezzo stampa o di lesioni colpose, che possono avere anche conseguenze in ambito civilistico o amministrativo, poiché l’accertamento di essi si accompagna, se vi è costituzione di parte civile, alla condanna dell’imputato al risarcimento del danno, e fa stato nel giudizio civile o amministrativo. Tuttavia poiché, secondo l’applicazione dei principi regolanti la successione di leggi nel tempo, la nuova disciplina poteva essere applicata soltanto dopo l’entrata in vigore della legge 128/2001 (vale a dire dopo il 4 maggio 2001), si sarebbe potuta determinare una grave disparità di trattamento sotto il profilo dell’esercizio del diritto di difesa, in quanto le condanne comminate in precedenza, per delitti puniti con la sola pena della multa, sarebbero rimaste inappellabili. Pertanto la legge 72/2002 dispone la conversione in appello del ricorso per cassazione presentato prima del 4 maggio 2001, subordinando il meccanismo transitorio ad una specifica manifestazione di volontà da esercitarsi secondo termini e modalità definiti.
Allo scopo di conformare l’ordinamento italiano ad alcune decisioni[25] della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché alle previsioni dell’articolo 18, lettera a) della legge 69/2005, di attuazione della decisione quadro sul mandato d’arresto europeo[26], il legislatore è intervenuto con il decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17[27] convertito dalla legge 22 aprile 2005, n. 60 (v. scheda Impugnazione delle sentenze contumaciali).La disciplina introdotta è diretta a modificare la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione della sentenza contumaciale od opposizione al decreto penale di condanna, di cui al primo e al secondo comma dell’articolo 175 c.p.p., rendendo più agevole per il contumace la proposizione della relativa richiesta, sia sotto il profilo temporale, sia, soprattutto, sotto quello delle condizioni cui essa è sottoposta: l’intervento consente, pertanto, “all’Italia di mantenere l’istituto del processo contumaciale e, al tempo stesso, di offrire maggiori garanzie alla comunità internazionale”.
Traendo spunto dall’ordinanza con cui le sezioni unite penali della Corte di cassazione (ordinanza 30 maggio-5 luglio 2002, n. 25693)sollevavano questione di legittimità costituzionale dell'articolo 45 del codice di procedura penale[28] in riferimento all’articolo 2, comma 1, n. 17, della legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 81/1987), nella parte in cui non prevedeva tra le cause di rimessione il “legittimo sospetto”, la legge 7 novembre 2002, n. 248[29], originata dalla presentazione presso il Senato di un disegno di legge (A.C. 1578) a firma del Senatore Cirami, introduce alcune rilevanti novità alla disciplina vigente in tema di rimessione del processo penale (artt. 45 e ss. c.p.p.), intervenendo sui presupposti e sugli effetti della richiesta, sulla relativa decisione e sulla disciplina transitoria (v. scheda Rimessione del processo penale); a tale proposito va ricordato che, in linea generale, mentre l’astensione e la ricusazione presuppongono situazioni di incompatibilità direttamente riferibili alla persona fisica del magistrato, diversamente la rimessione trova fondamento in situazioni di incompatibilità che coinvolgono direttamente l’organo giudicante considerato nella sua collegialità. L’iter parlamentare di approvazione del provvedimento è stato attraversato da dibattiti e perplessità soprattutto in merito al potenziale conflitto tra il principio di cui all’articolo 111, comma 2, della Costituzione (che, tra l’altro, delinea un modello di processo svolgentesi davanti ad un giudice terzo ed imparziale), di cui l’istituto della rimessione rappresenta un’attuazione, e quello di cui all’articolo 25, comma 1, della stessa Costituzione, in base al quale nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
La principale innovazione proposta riguarda senza dubbio l’articolo 45 c.p.p. che introduce in maniera esplicita il legittimo sospetto (o meglio “reintroduce”, visto che la legittima suspicione era già prevista dall’art. 55 del codice del 1930) tra le cause di rimessione del processo; più precisamente, con formula diversa rispetto all’originario contenuto della proposta di legge - prescrivente che, tra l’altro, la rimessione del processo potesse avvenire per legittimo sospetto - viene attualmente sancito che la rimessione del processo, in ogni stato e grado dello stesso, possa avvenire - quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto.
In tali casi la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la corte d’appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice designato ai sensi dell’articolo11 c.p.p. La presentazione della richiesta di rimessione comporta una sospensione discrezionale del processo, da parte del giudice procedente o della medesima Corte di cassazione; sono tuttavia stabilite alcune ipotesi di sospensione obbligatoria. In ogni caso la sospensione, che comporta la sospensione del corso della prescrizione e dei termini di durata massima della custodia cautelare, spiega i suoi effetti fino a quando non sia intervenuta l’ordinanza che rigetta o dichiara inammissibile la richiesta e non impedisce il compimento degli atti urgenti. La Corte di cassazione decide in camera di consiglio, con ordinanza, provvedendo anche, in caso di rigetto della richiesta o di inammissibilità della stessa, all’eventuale condanna al pagamento di un’ammenda. E’ poi espressamente stabilita l’applicazione della nuova disciplina ai processi in corso.
Approvata a seguito di un iter abbastanza lungo e complesso - iniziato nel luglio 2004 e concluso definitivamente nel gennaio 2006 -, comprensivo anche della fase di rinvio del provvedimento alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’articolo 74, comma 1, della Costituzione, la legge 20 febbraio 2006, n. 46[30], detta significative modifiche al codice di procedura penale (v. scheda Disciplina dell’inappellabilità).
Il nucleo significativo e qualificante del provvedimento è rappresentato dalla previsione, introdotta attraverso una modifica dell’articolo 593 c.p.p., di una limitazione dei casi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento alle sole ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, del codice di procedura penale, vale a dire nel caso di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado[31]. Su tale aspetto (oltre che in altre disposizioni) peraltro il provvedimento è stato modificato a seguito dei rilievi mossi dal Presidente della Repubblica[32] nel suo messaggio di rinvio alle Camere: nella stesura precedente, infatti, veniva stabilito che, salve alcune eccezioni, il pubblico ministero e l’imputato potessero appellare soltanto le sentenze di condanna. Attualmente, pertanto, il giudice, per ritenere ammissibile l’appello, dovrà in via preliminare disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; diversamente dovrà dichiarare l’inammissibilità del gravame[33]. D’altra parte, per temperare la limitazione dell’appellabilità delle sentenze di proscioglimento, il legislatore amplia i casi di ricorso riscrivendo le lettere d) ed e) dell’articolo 606 c.p.p., al fine di consentire verifiche più penetranti in punto di travisamento del fatto e, soprattutto, in relazione al travisamento della prova; anche su tale aspetto si è tenuto conto anche dei rilievi mossi dal Capo dello Stato. Viene invece radicalmente escluso l’appello del pubblico ministero e dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento pronunciate all’esito del giudizio abbreviato. Il legislatore ha inoltre statuito l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere: esse sono tutte ricorribili per cassazione, con il limite della non ricorribilità per cassazione da parte dell’imputato perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. Le ulteriori modifiche disposte dal provvedimento attengono alla definizione dei presupposti per la pronuncia della sentenza di condanna da parte del giudice, alla salvaguardia, mediante alcune modifiche all’articolo 576 c.p.p., delle aspettative risarcitorie della parte civile anche nel caso di proscioglimento dell’imputato (in accoglimento dei rilievi contenuti nel messaggio presidenziale), alla previsione di una specifica disciplina transitoria.
Va, infine, ricordata l’approvazione della legge 14 febbraio 2006, n. 56[34], che per rendere più agevole il ricorso alle intercettazioni nella ricerca del latitante attribuisce al presidente della corte d’assise - e non all’organo giudicante nella sua composizione collegiale - la competenza ad adottare i provvedimenti di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione nonchè di intercettazione di comunicazioni tra presenti (v. scheda Disciplina delle intercettazioni).
Nel corso della XIV legislatura la commissione giustizia ha affrontato e portato a termine l’esame di alcune leggi significative in tema di esecuzione della pena e di modifiche alla disciplina dell’Ordinamento penitenziario. Le esigenze al cui soddisfacimento appaiono indirizzate le misure approvate, sono quelle di fornire una risposta immediata al problema del drammatico sovraffollamento delle carceri, che da tempo affligge il sistema penitenziario italiano, rendendo sempre più precaria la coabitazione dei reclusi e spesso impraticabile il loro accesso ad un utile percorso rieducativo, e di definire, al contempo, circuiti penitenziari differenziati, con l’applicazione di regimi particolarmente rigorosi per certi criminali e meno severi per gli altri. Queste finalità, insieme a quella di facilitare, in qualche modo, l’accesso alle pena alternative o alla liberazione anticipata e condizionale – potenziando al contempo la capacità ricettiva del sistema penitenziario – sono tra quelle che il Ministro Roberto Castelli ha indicato come prioritarie nell’illustrazione del programma per la giustizia presso l’omonima commissione agli esordi della XIV legislatura.
Approvata nell’agosto 2003 a seguito di un iter piuttosto complesso, comprensivo di tre letture alla Camera (ove il provvedimento è stato definitivamente approvato in sede legislativa) e di due al Senato, la legge 1° agosto 2003, n. 207[35] disciplina la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena (v. scheda Sospensione dell’esecuzione della pena). Tale beneficio può essere concesso al condannato, con sentenza definitiva, a pena detentiva, che abbia espiato almeno metà della pena, con un residuo non superiore a due anni; la competenza per materia è del magistrato di sorveglianza. Occorre far riferimento - sulla base dei medesimi criteri stabiliti per le misure alternative - alla pena da espiare in concreto, con alcune esclusioni dal computo della stessa. Vengono stabilite alcune cause oggettive e soggettive di esclusione dall’ammissione al beneficio, riferite ai casi di maggiore pericolosità.
La concessione del beneficio è subordinata ad alcune condizioni e prescrizioni e può essere revocata dal tribunale di sorveglianza nel caso di mancata osservanza delle stesse o di commissione entro cinque anni di un delitto non colposo punito con una pena detentiva non inferiore a sei mesi. In caso contrario la pena è estinta.
L’intento dei presentatori delle proposte di legge è stato quello di delineare, muovendo dalla constatazione delle difficili condizioni in cui da tempo versano gli istituti penitenziari italiani, gravati in particolare da una insostenibile situazione di sovraffollamento, un meccanismo in grado di conseguire, nei fatti, lo stesso risultato della concessione di un indulto, perseguibile con maggiore difficoltà dato l’elevato quorum richiesto dall’articolo 79 della Costituzione per l’approvazione delle relative leggi. Sulla natura giuridica dell’istituto si sono poi succedute tesi diverse nel corso dell’iter parlamentare della legge. Alle ipotesi secondo cui non si tratterebbe di una misura alternativa alla detenzione ma di un mero beneficio clemenziale per effetto del quale viene sospesa l’esecuzione della pena detentiva senza essere sostituita con altra misura restrittiva della libertà personale, si sono contrapposte quelle che affermavano la vicinanza dell’istituto alle misure premiali, e la sua diversa natura rispetto all’indulto data anche la competenza del magistrato di sorveglianza all’applicazione della misura e il particolare meccanismo che conduce all’estinzione della pena.[36]
Le misure approvate nel settore dell’ordinamento penitenziario sono, almeno parzialmente, da collegare al soddisfacimento di esigenze già emerse da tempo e in parte concretatesi in provvedimenti adottati o proposte di legge esaminate ma non approvate nella XIII legislatura.
Con la legge 23 dicembre 2002, n. 279[37](v. scheda Trattamento penitenziario) recante modifica degli articoli 4 bis e 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario, il legislatore ha maturato la consapevolezza della necessità del superamento della disciplina delle proroghe del regime del “carcere duro” caratterizzato fin dal 1992 (anno della sua introduzione) dal principio della temporaneità. Con tale legge, pertanto, viene stabilizzato il regime di cui all’articolo 41-bis nell’ordinamento penitenziario, adeguando i contenuti della disciplina dell’istituto, assai scarna e basata per lo più su fonti secondarie, alle pronunce della Corte costituzionale, nel rispetto dei principi di civiltà giuridica e di garanzia dei diritti del cittadino.
Inoltre con la modifica dell’articolo 41-bis è, anche messa a regime la disciplina delle videoconferenze di cui alla legge n. 11 del 1998, riguardante la partecipazione a distanza al dibattimento penale.
Per allineare gli illeciti di maggiore allarme sociale alla disciplina di maggior rigore dell’ordinamento penitenziario, le previsioni in materia di benefici carcerari contenute nell’articolo 4-bis, così come quelle sul trattamento penitenziario speciale di cui allo stesso art. 41-bis, comma 2, sono estese dalla legge, in particolare, anche ai reati di terrorismo, di tratta delle persone e di riduzione in schiavitù. La nuova disciplina individua i concreti contenuti delle limitazioni imposte ex 41-bis, finora definite per via amministrativa nei decreti ministeriali, giurisdizionalizzando il procedimento applicativo dell’istituto e affermando espressamente la piena sindacabilità del provvedimento secondo le indicazioni più volte espresse dalla stessa Corte costituzionale.
Rendendo quindi la disciplina in esame maggiormente conforme ai dettati del giudice costituzionale e, al contempo, stabilizzandola nell’ordinamento, il legislatore è intervenuto in maniera incisiva a contrastare l’espansione del fenomeno della criminalità organizzata, contribuendo ad interrompere i collegamenti di pericolosi esponenti della criminalità organizzata con i propri referenti criminali, sia all'interno che all'esterno del carcere.
Riproducendo il contenuto di un’analoga proposta di legge (A.C. 2154) che esaminata da Camera e Senato nel corso della XIII legislatura, non ha potuto concludere il suo iter prima della conclusione della stessa, la legge 19 dicembre 2002, n. 277[38]nell’ottica di snellimento del procedimento in materia di liberazione anticipata, reca alcune sostanziali modifiche alla vigente normativa prevista dalla legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario (v. scheda Liberazione anticipata). L’innovazione più significativa disposta dal provvedimento riguarda l’attribuzione della competenza decisoria sulle richieste di riduzione della pena per la liberazione anticipata almagistrato di sorveglianza e non più al tribunale di sorveglianza. Viene poi consentita l’estensione della normativa in tema di liberazione anticipata all’affidamento in prova al servizio sociale, e ne viene modulata l’applicazione anche agli affidamenti in corso al momento dell’entrata in vigore della legge.
Adottata a seguito di ripetute censure mosse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla disciplina italiana sui controlli alla corrispondenza dei detenuti e internati (di cui all’articolo 18 della legge 354/75), sotto il profilo della violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione, nonché da parte della Corte costituzionale che ha ritenuto la disciplina medesima costituzionalmente carente sul versante della legittimazione del detenuto a far valere i propri diritti (riconducibili all’articolo 15 della Costituzione) davanti ad un giudice e nell’ambito di un procedimento avente i caratteri propri della giurisdizione, la legge 8 aprile 2004, n. 95[39](v. scheda Corrispondenza dei detenuti) introducendo l’articolo 18-ter nel corpo della citata legge 354 interviene su un duplice fronte:
§ da un lato, con la tipizzazione dei provvedimenti adottabili, definendo i limiti oggettivi e temporali degli stessi e l’individuazione dell’autorità competente;
§ dall’altro, con l’introduzione di precisi strumenti di tutela dei detenuti avverso i provvedimenti dell’autorità amministrativa penitenziaria e dell’autorità giudiziaria, in tal modo giurisdizionalizzando il procedimento volto alla limitazione della corrispondenza epistolare. Viene poi esonerata dai controlli la corrispondenza epistolare e telegrafica indirizzata a particolari soggetti e stabilita una disciplina transitoria.
La necessità di procedere ad una revisione organica della normativa in tema di processo civile, per conseguire una razionalizzazione ed un’accelerazione delle procedure, anche agevolando il ricorso a forme alternative di composizione delle liti nonché alla cooperazione di figure professionali esterne all’amministrazione giudiziaria, ha rappresentato uno dei punti fondamentali del programma del Ministro per la giustizia, ed ha costituito il presupposto per la costituzione di un’apposita commissione di studio per la riforma del processo civile. La Commissione, istituita presso l’ufficio legislativo del Ministero della giustizia nel novembre 2001, ha concluso la sua attività nel luglio 2002. Tuttavia il disegno di legge (A.C. 4578) che, recependo le conclusioni del lavoro svolto dalla Commissione di studio citata, delegava il Governo ad una riforma complessiva del codice di procedura civile, presentato alle Camere nel dicembre 2003, non è stato esaminato da queste ultime. Modifiche al processo civile sono state invece introdotte ad opera di provvedimenti diversi che saranno esaminati più specificamente nel prosieguo della trattazione e che, almeno in parte, hanno rappresentato l’attuazione di alcuni dei principi definiti dalla commissione sopra citata.
Accanto a tale importante revisione della normativa disciplinante il processo civile sono poi stati approvate alcune leggi riguardanti aspetti specifici e settoriali.
Come sopra ricordato, nel corso della XIV legislatura la materia del processo civile ha subito profonde e numerose modifiche ad opera di provvedimenti diversi, che, pur senza operare una radicale sostituzione della vigente disciplina in tema di processo di cognizione e di processo esecutivo, hanno apportato significative novelle ad istituti essenziali alla dinamica degli stessi. I provvedimenti si sono succeduti a scadenze ravvicinate, e sono intervenuti sul corpo delle norme codicistiche attraverso atti legislativi di diversa natura. Il legislatore, infatti, in tale ambito ha fatto ricorso sia allo strumento della decretazione d’urgenza che a quello della legge ordinaria e, su aspetti definiti, ha demandato al Governo l’emanazione di decreti legislativi.
Ne è derivato un sistema di norme piuttosto articolato che è opportuno esaminare in modo congiunto allo scopo di coglierne gli effetti complessivi sulla disciplina del processo civile (v. scheda Riforma del processo civile).
Vanno ricordate, in primo luogo, le disposizioni contenute nel decreto legge 14 marzo 2005, n. 35[40], convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. Nel contenuto di un provvedimento molto ampio, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, sono state introdotte norme che, hanno attuato alcune linee guida che potevano trarsi dai lavori della Commissione per la riforma del processo civile (cfr. supra). Le disposizioni sul processo civile sono contenute nell’articolo 2 del decreto legge 35/2005, che, nei commi da 3 a 4 bis, introduce, rispettivamente, novelle al codice di procedura civile, alle disposizioni per l’attuazione del medesimo, alla legge 1° dicembre 1970, n. 898, che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio, e alla legge 20 novembre 1982, n. 890, che disciplina la notificazione di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari.
Mentre di un primo gruppo di norme veniva sancita l’immediata entrata in vigore, di un secondo gruppo di norme il testo originario del decreto stabiliva l’entrata in vigore dopo un lasso di tempo di 120 giorni; su tale termine di efficacia sono intervenuti successivamente una serie di proroghe, disposte da diversi decreti legge, tra cui, da ultimo, dall’articolo 39-quater del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273[41], convertito nella legge 23 febbraio 2006, n. 51 che ne ha disposto l’entrata in vigore a partire dal 1° marzo 2006. A tale termine di efficacia sono state collegate anche le modifiche concernenti i medesimi aspetti che, in tema di processo di cognizione e di processo esecutivo sono state introdotte dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263[42] e dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52[43].
Va inoltre ricordato che l’articolo 1 della legge 80/2005, di conversione del D.L. 35/2005, conferisce, ai commi 2 e 3, e 4 una delega al Governo per modificare il codice di procedura civile, relativamente all’introduzione di una disciplina del processo di cassazione che ne valorizzi la funzione nomofilattica ed alla razionalizzazione della disciplina dell’arbitrato. La delega è stata esercitata con l’emanazione del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40[44]; le relative modifiche sono entrate in vigore il 2 marzo 2002.
Le modifiche introdotte dal decreto legge 35/2005 alla disciplina del processo di cognizione riguardano essenzialmente:
§ l’introduzione di nuove disposizioni in tema di comunicazioni (che potranno essere ricevute e trasmesse anche via fax e posta elettronica) e di modalità di inoltro delle notificazioni a mezzo di posta ordinaria (in particolare quelle relative al deposito presso un ufficio postale nel caso do rifiuto di ricezione da parte dei soggetti destinatari o di quelli abilitati che rifiutino di accettarlo);
§ la concentrazione in un’unica udienza, nell’ottica dell’abbreviazione della durata del processo attraverso una concentrazione delle fasi processuali, delle fasi che, prima delle modifiche introdotte dal decreto legge, venivano articolate nelle udienze di cui agli articoli 180, 183 e 184 c.p.c.;
§ l’ampliamento delle ipotesi di decadenza dai propri poteri delle parti che non li esercitino tempestivamente;
§ l’introduzione della facoltà (attraverso un’integrazione dell’atto di citazione mediante invito al convenuto/i a notificare al difensore dell’attore la comparsa di risposta ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5) di proseguire il processo ordinario attraverso il c.d. rito societario;
In tema di processo esecutivole modifiche introdotte attengono essenzialmente:
§ all’ampliamento del novero degli atti aventi efficacia esecutiva;
§ alla forma del pignoramento con l’introduzione del principio dell’obbligo di cooperazione del debitore nella procedura;
§ alla previsione di nuove forme di pubblicità degli avvisi esecutivi (anche attraverso l’inserimento in siti Internet);
§ all’ampliamento delle categorie di professionisti ai quali il giudice può delegare la gestione di fasi non contenziose della procedura esecutiva.
In tema di tutela cautelare l’innovazione di maggior rilievo attiene alla facoltatività dell’instaurazione del successivo giudizio di merito e alla conservazione dell’efficacia del provvedimento adottato nonostante l’omesso inizio di quest’ultimo - o anche, nel caso in cui sia stato iniziato, sia successivamente dichiarato estinto).
Infine, in tema di separazione personale e scioglimento del matrimonio, le innovazioni attengono all’individuazione della competenza per territorio del giudice, alla riduzione del termine per l’emanazione del provvedimento di comparizione, all’obbligatorietà della presenza del difensore.
Come sopra ricordato, con il decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006, emanato in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 80/2005, sono state dettate nuove norme in tema di giudizio di cassazione e di processo arbitrale.
In conformità alle indicazioni del legislatore delegante, finalizzate a valorizzare la “funzione nomofilattica” della Corte di cassazione (cfr. art. 65 del R.D. 12/1941), il provvedimento, oltre a ridefinire i casi di pronuncia a sezioni unite da parte della Corte di cassazione, statuisce un particolare rapporto tra pronuncia delle sezioni semplici e precedente delle sezioni unite, e prevede l’enunciazione del principio di diritto da parte di queste ultime, sia nel caso di accoglimento che di rigetto dell’impugnazione. Viene inoltre introdotto il sindacato diretto della Corte di cassazione sull’interpretazione e applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro e stabilita la non ricorribilità immediata in Cassazione delle sentenze pronunciate secondo equità dai giudici di pace (sentenze che divengono quindi appellabili).
Il medesimo decreto legislativo introduce poi importanti innovazioni in materia di arbitrato, conformemente alle indicazioni di delega relative ad una “razionalizzazione” dell’istituto.
Tra i principi più significativi della nuova disciplina della materia va ricordata l’introduzione della facoltà delle parti di prevedere espressamente la convenzione di arbitrato sia in materia contrattuale che non contrattuale, nonché di ricorrere, per la composizione del contenzioso, all’arbitrato irritale, specificamente disciplinato mediante l’introduzione di specifiche disposizioni nel corpo del codice di procedura civile; viene poi contestualmente rafforzata la volontà delle parti mediante la previsione dell’annullabilità del lodo contrattuale pronunziato in violazione della domande e delle regole stabilite dalle parti stesse.
Viene poi definita una disciplina specifica diretta ad assicurare l’indipendenza
e l’ imparzialità degli arbitri, la loro responsabilità, e l’istruzione probatoria.
Gli ulteriori provvedimenti che, in tema di processo civile, sono stati approvati nel corso della XIV legislatura, riguardano aspetti particolari e sono diretti al soddisfacimento di specifiche esigenze.
Il decreto legge 12 ottobre 2001, n. 370[45], convertito dalla legge 14 dicembre 2001, n. 432 (v. scheda Equa riparazione) è intervenuto sulla disposizione transitoria recata dall’articolo 6 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. Legge Pinto), la quale, a sua volta, anche a seguito delle numerose condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 6, par. 1 della relativa Convenzione, ha introdotto e disciplinato una specifica procedura da esperire innanzi alla Corte d’appello competente (che si pronuncia in camera di consiglio) relativamente alla domanda di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo. La legge 432/2001 ha prorogato fino al 18 aprile 2002 il termine previsto dall’articolo 6 della legge 89/2001, che ha previsto una disposizione transitoria per modulare l’accesso al nuovo meccanismo riparatorio
Il decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18[46], convertito dalla legge 7 aprile 2003, n. 63 (v. scheda Giudizio di equità)che - oltre ad arrotondare a millecento euro il limite di valore che segna la competenza secondo equità del giudice onorario - esclude dall’ambito della stessa i cd. contratti di massa; si tratta delle cause derivanti da rapporti giuridici relativi ai contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli e formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, di cui all’articolo 1342 del codice civile. La ratio del provvedimento è da ravvisare nella necessità di assicurare la pronuncia di decisioni giurisdizionali secondo diritto in settori soggetti a specifica vigilanza amministrativa per ragioni di pubblico interesse.
L’intensa attività legislativa che, in tema di contrasto al terrorismo, è stata svolta dalla Commissione giustizia nel corso della XIV legislatura, ha costituito una risposta alla crisi internazionale determinatasi in seguito ai gravissimi attentati dell’11 settembre 2001, essendo precipuamente indirizzata alla realizzazione di cooperazione internazionale per la prevenzione e repressione di un fenomeno che, travalicando i confini del singolo Stato, assume carattere transnazionale. I provvedimenti adottati (v. scheda Contrasto al terrorismo internazionale), pertanto, si sono collocati in un contesto in cui è stata la stessa comunità internazionale e l’Unione Europeaa sottolineare la necessità di adeguare gli ordinamenti dei singoli Stati all’esigenza di svolgere un’azione globale per combattere le nuove violente manifestazioni di attacco alle istituzioni democratiche. Per quanto attiene all’Unione Europea, in particolare, va ricordata l’adozione, da parte del Consiglio, della decisione quadro del 13 giugno 2002, n. 475, con la quale vengono fissati alcuni principi in tema di definizione dei reati terroristici, sanzioni e giurisdizione. Inoltre anche le decisioni quadro sul mandato d’arresto europeo (decisione quadro 2002/584/GAI attuata con la legge 22 aprile 2005, n. 69), e sull’istituzione di Eurojust (decisione quadro 2002/187/GAI attuata con la legge 14 marzo 2005, n. 41) – illustrate nel capitolo sulla cooperazione giudiziaria -, pur non riguardando specificamente i reati di terrorismo, rafforzano la cooperazione giudiziaria europea in tema di lotta alla criminalità e, di conseguenza, al terrorismo.
Per quanto riguarda lo Stato italiano, il provvedimento di maggiore impatto, con cui è stata inserita nel codice penale la fattispecie di terrorismo internazionale, è costituito dal decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374[47], convertito dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438, che ha introdotto nel nostro ordinamento norme di carattere penale e processual-penale dirette a consentire una più efficace prevenzione e repressione degli atti di terrorismo a carattere transnazionale. Si è trattato, infatti, di rimediare ad una carenza di una normativa penale volta a reprimere organizzazioni che, pur avendo sede nel territorio italiano, mirano a compiere atti di violenza a danno di altri Paesi. Mentre nel testo originario il decreto legge 374/2001 prevedeva l’introduzione di uno specifico articolo (270-ter) diretto a disciplinare in modo autonomo la fattispecie di terrorismo internazionale, in sede di conversione la legge 438/2001 ha riscritto totalmente la fattispecie di cui all’articolo 270-bis del codice penale inserendovi la finalità di terrorismo anche internazionale; il legislatore ha pertanto inserito tutte le fattispecie in un unico articolo, tipizzando due distinte forme associative: quella terroristica (anche internazionale) e quella eversiva. Ai sensi del terzo comma della disposizione citata, pertanto, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono posti in essere contro uno Stato estero, un’istituzione e un organismo internazionale. Il nucleo essenziale della fattispecie punita (abbia o meno essa carattere internazionale) è rappresentato, come già in precedenza, dall’esistenza di un’associazione, di un gruppo di persone collegate tra loro da una struttura, anche rudimentale, idonea ad attuare la continuità del programma criminoso avuto di mira dall’associazione[48]. All’interno di tale organizzazione sono poi state distinte le condotte di “rango superiore” (promotore, costituente, dirigente, organizzatore e finanziatore) punite con una sanzione più grave, da quelle di “rango inferiore” (partecipe) punite con una sanzione meno grave. Merita rilievo l’inserimento, tra le condotte punibili, della condotta di finanziamento, non contemplata nell’originario articolo 270 bis, precedente all’intervento del decreto legge 374/2001. Sono state introdotte, inoltre, specifiche misure in tema di intercettazioni, perquisizioni, attività della polizia sottocopertura e coordinamento delle indagini.
Finalizzato a determinare le sanzioni applicabili per le violazioni di normativa comunitaria (Regolamento n. 467/2001), il decreto legge 28 settembre 2001, n. 353[49], convertito dalla legge 27 novembre 2001, n. 415, adottato poco tempo primadell’emanazione del decreto legge 374/2001 appena descritto, stabilisce le sanzioni amministrative conseguenti al mancato rispetto dei divieti di trasferimento di beni, servizi o risorse finanziarie che comunque riguardino, direttamente o indirettamente, soggetti od organizzazioni legate al terrorismo.
Il decreto legge 12 ottobre 2001, n. 369[50], convertito dalla legge 14 dicembre 2001, n. 431 (anch’esso adottato prima dell’emanazione del D.L. 374/2001), ha previsto l’istituzione di un Comitato di sicurezza finanziaria presso il Ministero dell’economia e delle finanze – per il periodo di un anno prorogato al 15 ottobre 2003 con D.P.C.M. 29 novembre 2002, in ottemperanza agli obblighi internazionali assunti dall’Italia nella strategia di contrasto alle attività connesse al terrorismo internazionale.
Sono poi da ricordare due importanti Convenzioni in tema di contrasto del terrorismo internazionale ratificate dal nostro Paese: la legge 14 gennaio 2003, n. 7 ha ratificato la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo che prevede – a carico di persone giuridiche, società e associazioni – sanzioni pecuniarie e interdittive connesse alla condanna per delitti di terrorismo, e la legge 14 febbraio 2003, n. 34 che ha ratificato la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici per mezzo di esplosivo, strumento multilaterale elaborato in ambito ONU. La legge, in particolare, introduce nel codice penale italiano la nuova fattispecie criminosa (art. 280 bis) di Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (v. capitolo La lotta al terrorismo internazionale, nel dossier relativo alla Commissione esteri).
Va inoltre ricordata l’adozione nel luglio 2005, a seguito dei tragici attentati di Londra e Sharm el Sheikh, del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144[51], convertito dalla legge 31 luglio 2005, n. 155. Il provvedimento, che si propone quale obbiettivo prioritario la lotta al terrorismo internazionale, ha adottato diverse e specifiche misure di contrasto a tale fenomeno, quali l’estensione ad esso delle misure di lotta alla criminalità organizzata, il rilascio di un permesso di soggiorno in deroga alla normativa vigente agli stranieri che collaborano con la giustizia, il prolungamento del fermo di polizia giudiziaria e l’ampliamento dei casi di arresto obbligatorio nella flagranza di delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, l’introduzione di nuove fattispecie delittuose e di nuove procedure di identificazione dei potenziali responsabili, l’aggravamento della disciplina in tema di misure di prevenzione e intercettazione delle conversazioni telefoniche e telematiche, l’impiego di servizi di vigilanza privata in luoghi sensibili (v. capitolo Sicurezza pubblica: misure antiterrorismo, nel dossier relativo alla Commissione affari costituzionali).
Vanno menzionate, infine, alcune norme che, in materia contrasto al terrorismo internazionale sono state dettate dall’art. 1-ter del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272[52], convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 (v. capitolo Sicurezza pubblica: misure antiterrorismo, nel dossier relativo alla Commissione affari costituzionali).
Nel corso della XIV legislatura sono stati approvati alcuni provvedimenti diretti ad incidere in vario modo sull’ordinamento giuridico penale.
Nel complesso l’intento del legislatore è stato quello di adeguare le previsioni ed il complessivo trattamento sanzionatorio delle fattispecie sia alla reale offensività delle condotte realizzate che all’emergere di nuove forme di criminalità, nonché alla tutela e riaffermazione di importanti valori sentiti come bisognosi di protezione da parte della coscienza collettiva.
A queste finalità appaiono pertanto indirizzate le leggi approvate dalla Commissione giustizia, dirette ad inserire nuove fattispecie criminose, ad aggravare o modificare le sanzioni applicabili a quelle già esistenti, ed a modificare la disciplina di alcuni istituti di diritto penale.
Una piccola modifica è stata introdotta dalla legge 7 febbraio 2003, n. 22[53], al decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373, emanato in attuazione della direttiva 98/84/CE sulla tutela dei servizi ad accesso condizionato (v. scheda Tutela del diritto d’autore).
L’obiettivo perseguito dal legislatore è stato quello di coordinare il decreto legislativo con la normativa previgente in materia di tutela del diritto d’autore e, in particolare, di ripristinare il regime sanzionatorio penale, già contemplato dall’ordinamento italiano e di fatto abrogato dallo stesso decreto legislativo 373/2000, in tema di tutela dei servizi ad accesso condizionato.
In relazione alle modifiche alla disciplina del diritto d’autore sul versante civilistico (v. capitolo Il diritto d’autore, nel dossier relativo alla Commissione cultura, scienza e istruzione).
All’istituzione ed alla proroga, fino alla fine della XIV legislatura, della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti attengono, rispettivamente, la legge 15 maggio 2003, n. 107[54] e la legge 25 agosto 2004, n. 232[55](v. scheda Crimini nazifascisti).
La Commissione di inchiesta, composta di 15 deputati e di 15 senatori è stata istituita e prorogata nel suo funzionamento per svolgere un'indagine sulle anomale archiviazioni “provvisorie” e sull’occultamento dei 695 fascicoli contenenti denunzie di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15 mila vittime, fascicoli ritrovati nel 1994 a palazzo Cesi, sede della procura generale militare. Compito della Commissione era anche quello di indagare sul contenuto di tali fascicoli oltre che sulle cause dell’occultamento e del luogo del loro ritrovamento (a Palazzo Cesi anziché nell’archivio dei Tribunali di guerra soppressi) nonché del mancato perseguimento dei responsabili. Alla Commissione sono stati attribuiti gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria per lo svolgimento delle indagini e degli esami ed è stata stabilita l’inopponibilità alla stessa del segreto di Stato, d’ufficio e professionale.
Un'indagine conoscitiva avente il medesimo oggetto era peraltro stata svolta dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati al termine della XIII legislatura. La Commissione di inchiesta ha concluso i suoi lavori con una Relazione finale approvata l’8 febbraio 2006 (Rel. On.le Enzo Raisi, A.N.). E’ stata presentata anche una relazione di minoranza (Rel. On.le Carlo Carli, DS-U).
Approvata con il consenso di tutte le forze politiche rappresentate in Commissione, la legge 11 agosto 2003, n. 228[56] ha introdotto nuove disposizioni penali allo scopo di contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e, più in particolare, quella forma di riduzione in schiavitù derivante dal traffico di esseri umani (v. scheda Tratta di persone).
La legge ha ripreso in parte i contenuti di un testo unificato che nella XIII legislatura non aveva potuto concludere il suo iter per l’intervenuto scioglimento delle Camere. Dei progetti di legge in tale materia (tra i quali il disegno di legge del Governo) dei quali la commissione giustizia ha avviato l’esame agli esordi della XIV legislatura, è stata nominata relatrice l’On. Anna Finocchiaro (DS-U).
Oltre alla riformulazione delle fattispecie criminose attinenti alla schiavitù ed alla tratta di persone, all’aggravamento delle sanzioni edittali previste in relazione ad esse, ed alla previsione di una nuova ipotesi di associazione per delinquere diretta a commettere taluno dei delitti citati, la legge attribuisce alle direzioni distrettuali antimafia le funzioni di pubblico ministero nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, anche se commessi in forma associata, e include i delitti in questione fra quelli per i quali l'articolo 407 del codice di procedura penale prevede una durata massima delle indagini preliminari pari a due anni. Il provvedimento istituisce, infine, presso la Presidenza del consiglio dei ministri, il Fondo per le misure anti-tratta.
Dettando alcune modifiche a norme del codice penale e delle disposizioni di attuazione dello stesso, la legge 11 giugno 2004, n. 145[57](v. scheda Sospensione condizionale della pena) interviene sugli istituti della sospensione condizionale della pena e della riabilitazione del condannato, muovendosi nella prospettiva di una riduzione dei termini per l’applicazione dei due istituti ritenuti troppo onerosi ed in contrasto con l’esigenza di superare le difficoltà che un condannato incontra per un pieno e corretto reinserimento nell’ambiente sociale di provenienza. E’ stato quindi ridotto il periodo di sospensione della pena in caso di condanna per delitto ed è stato previsto un ulteriore sconto di pena in caso di specifici comportamenti riparatori, anteriori a condanne di lieve entità. E’ stato anche ridotto il termine necessario alla concessione della riabilitazione, e modificata la disposizione relativa alle cause di revoca di diritto della sentenza di riabilitazione.
Rispondendo all’esigenza sempre più diffusa di proteggere in modo più incisivo gli animali da offese sentite ormai come intollerabili dalla coscienza collettiva, la legge 20 luglio 2004, n. 189[58] introduce un nuovo titolo nel codice penale (IX bis) diretto a definire, stabilendo contestualmente le diverse sanzioni penali applicabili, alcuni delitti raggruppati nella categoria dei Delitti contro il sentimento per gli animali (v. scheda Maltrattamento degli animali). Prima di tale intervento normativo, infatti, il solo maltrattamento di animali era previsto dal legislatore come contravvenzione punibile con l’ammenda.
L’iter del progetto di legge (A.C. 432 e abb.) ha impegnato le Camere per circa due anni, ed ha comportato l’elaborazione di alcuni testi base da parte del relatore (On. Italico Perlini FI) per tener conto delle istanze avanzate dai diversi gruppi politici.
Le nuove disposizioni penali sanzionano l’uccisione o il maltrattamento di animali, posti in essere per crudeltà o senza necessità, l’organizzazione di spettacoli o combattimenti tra animali, l’abbandono degli stessi (qualificato come contravvenzione). Viene inoltre attribuita allo Stato e alle regioni la facoltà di integrare i programmi didattici delle scuole e degli istituti in tema di etologia comportamentale degli animali e del loro rispetto e disposta la destinazione delle entrate derivanti dall’applicazione delle sanzioni pecuniarie ad enti ed associazioni affidatari di animali oggetto di provvedimenti di sequestro o di confisca.
Va ricordato, poi, l’articolo unico della legge 4 ottobre 2004, n. 254[59],introdotto dal legislatore con la finalità di considerare le falsificazioni di valori bollati non in corso come reato inquadrato fra quelli contro la fede pubblica, alla stregua della falsificazione della moneta a corso legale (v. scheda Tutela commercio filatelico)
L’intervento normativo tutela, in generale, l’interesse generale dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità di francobolli emessi dallo Stato anche se fuori corso, in considerazione del notorio valore collezionistico e commerciale che tali oggetti acquistano nel tempo e della tutela di un mercato che coinvolge migliaia di operatori economici e milioni di collezionisti.
Approvata a seguito di un iter piuttosto lungo che ha impegnato il Parlamento per circa tre anni, la legge 5 dicembre 2005, n. 251[60] interviene, in primo luogo, sul regime delle circostanze del reato e sulla disciplina delle misure alternative alla detenzione (v. scheda Recidiva, usura e prescrizione). Il motivo ispiratore è quello dell'accentuazione del regime sanzionatorio e della limitazione dei benefici conseguenti ai predetti istituti nei casi di recidiva reiterata. Viene inoltre disposto un aggravamento delle pene applicabili ad alcuni reati gravi (Associazione di tipo mafioso, Assistenza agli associati, Usura).
Il nucleo qualificante del provvedimento è rappresentato, tuttavia, dalle norme in tema di prescrizione del reato, contenute nell’articolo 6 della legge. Su tale aspetto si sono manifestati diversi contrasti tra i rappresentanti delle varie forze politiche. Tra l’altro, a seguito del ritiro della propria sottoscrizione alla proposta di legge A.C. 2055 da parte dell’On.le Cirielli (AN) veniva nominato relatore del provvedimento l’On.Italico Perlini (FI). In tema di prescrizione, pertanto, viene modificato l’articolo 157 del codice penale in tema di tempo necessario a prescrivere, mediante la sostituzione del criterio delle classi di reato individuate per fasce di pena con quello delmassimo della pena edittale – dal cui computo vengono escluse le circostanze tranne alcune eccezioni - stabilita dalla legge per ogni singolo reato. Viene comunque stabilito un tempo minimo di prescrizione a seconda che il fatto sia qualificato come delitto o come contravvenzione. Per alcuni reati (espressamente definiti) richiedenti indagini più complesse i termini di prescrizione sono raddoppiati. Oltre a sancire l’imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell’ergastolo viene anche stabilita la rinunciabilità dell’istituto della prescrizione. Viene inoltre modificata la disciplina della sospensione e interruzione della prescrizione, anche negli effetti conseguenti a tali istituti.
La legge prevede inoltre una serie di interventi sulla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) diretti, ad inasprire le condizioni per la concessione di benefici penitenziari ai recidivi, e detta una specifica disciplina transitoria.
Approvata a conclusione di un iter piuttosto lungo ed articolato che ha impegnato il Parlamento per circa tre anni (dall’ottobre 2002 al dicembre 2005), la legge 9 gennaio 2006, n. 7[61](v. scheda Mutilazioni genitali femminili) è finalizzata a fornire una specifica risposta, preventiva e repressiva, al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili. Tale fenomeno, pur da sempre esistente, si è posto all’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare dei Paesi occidentali, in tempi abbastanza recenti, anche a causa della presenza nel nostro come in altri Paesi di consistenti comunità di emigranti provenienti in particolare dall’Africa, continente dove la “tradizione” della mutilazione delle bambine o delle donne in età prematrimoniale appare più radicata. La condanna a simile pratiche ha costituito il presupposto per l’adozione di alcune convenzioni internazionali e di atti e strumenti di competenza dell’Unione europea. L’importanza delle nuove misure legislative approvate risiede nell’attenzione specifica ad un fenomeno che precedentemente veniva inquadrato nella categoria delle lesioni gravi o gravissime (art. 583 c.p.) e nella predisposizione di apposite misure preventive nonché nella promozione della cooperazione internazionale su tale tema.
Per quanto attiene all’esame del provvedimento presso la Camera, va ricordato che nell’ottobre 2002 la commissione giustizia della Camera, in sede referente, aveva inizialmente avviato l’esame di alcune proposte di legge (C. 150, 3282 e 3884, relatrice On.le Carolina Lussana, LNFP). Successivamente, a seguito di richiesta da parte della XII Commissione, è stato assegnato alle commissioni riunite giustizia ed affari sociali (relatrice per la II Commissione Carolina Lussana, LNFP, per la XII Commissione Domenico Di Virgilio FI) l’esame delle sopracitate proposte, alle quali sono state abbinate le proposta C.3867 e 4204.
L’esame presso le commissioni riunite, iniziato nel dicembre 2003, si è quindi concluso nel maggio 2004. Trasmesso al Senato il provvedimento è stato definitivamente approvato dalla Camera nel dicembre 2005.
La legge individua nel Dipartimento per le pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri l’organo competente a svolgere la promozione ed il coordinamento delle attività di prevenzione e di repressione delle pratiche di mutilazione genitale femminile svolte dai diversi ministeri. Viene contemplata la predisposizione di programmi finalizzati alla realizzazione di campagne informative, iniziative di sensibilizzazione, di informazione, di aggiornamento, di formazione del personale sanitario, e viene istituito un apposito numero verde presso il Ministero dell’Interno.
Viene poi inserita nell’ambito del Titolo XII del Libro II del codice penale la nuova fattispecie criminosa di Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, per la quale è stabilita una specifica sanzione penale, e prevista contestualmente la pena accessoria dell’interdizione temporanea dalla professione, qualora la condanna per il citato delitto sia stata emessa nei confronti dell’esercente una professione sanitaria.
Viene anche disposta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa all’ente nella cui struttura è commesso il delitto.
Nata dall’esigenza di garantire maggiormente il cittadino costretto a reagire ad aggressioni, soprattutto a seguito di una serie di fatti di cronaca verificatisi in abitazioni private e in pubblici esercizi a scopo di furto, la legge 13 febbraio 2006, n. 59[62](v. scheda Riforma della legittima difesa),aggiungendo due nuovi commi all’articolo 52 del codice penale in tema di legittima difesa, è intervenuta a precisare i limiti della proporzionalità tra difesa ed offesa, sia pure soltanto con riguardo al delitto di violazione di domicilio. Pertanto, nei casi di violazione di domicilio, il rapporto di proporzione si presume se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità, b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
Conformemente ad una costante giurisprudenza relativa alla nozione di privata dimora viene poi espressamente specificata l’applicabilità della nuova disciplina anche nelle ipotesi in cui il fatto sia avvenuto all’interno di luoghi ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Nel corso dell’esame del provvedimento (relatore Guido Rossi LNFP) presso la commissione giustizia della Camera e in Assemblea sono state manifestate forti perplessità in relazione ad alcuni aspetti della nuova disciplina, da parte dei gruppi di opposizione e anche da alcuni esponenti della maggioranza.
Risponde ad un’esigenza di adeguamento al nuovo sistema di valori sancito dalla Costituzione l’approvazione della legge 24 febbraio 2006, n. 85[63]che, intervenendo a sostituire alcuni articoli compresi nel Titolo I (Dei delitti contro la personalità dello Stato) e nel Titolo IV (Dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti) del Libro II del codice penale, riformula alcune fattispecie criminose che rappresentano il portato storico di una concezione politico-ideologica da tempo superata ed incompatibile con i nuovi principi costituzionali (v. scheda Reati d’opinione). Tale esigenza adeguatrice, per quanto attiene ai delitti contro la personalità dello Stato, era peraltro già stata sottolineata nella Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita nel 1998 (presieduta dal Prof. Avv. Carlo Federico Grosso), che rilevava l’esigenza di modificare profondamente la tecnica di incriminazione e la tipologia dei delitti contro lo Stato previsti dal codice Rocco che utilizza modelli di anticipazione non controllata dell’intervento penale, configura reati sganciati dalla prospettiva della offesa degli interessi, colpisce indiscriminatamente opinioni ed associazioni (dissenzienti) senza adeguati ancoraggi a comprovate necessità di difesa sociale.
Peraltro con una serie di sentenze succedutesi a partire dagli anni ’60, la Corte costituzionale si pronunciava in merito ai confini tra la libertà di manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione e l’effettiva offensività di alcune delle fattispecie incriminatici citate.
L’iter del provvedimento è stato piuttosto rapido impegnandoli Parlamento per poco più di un anno. Nel corso dell’esame presso la commissione giustizia della Camera, nel quale si è registrato il consenso delle diverse forze politiche, si sono succeduti, nello svolgimento delle funzioni di relatore, l’On.le Giuliano Pisapia (RC), sulle proposte di legge A.C. 2342 ed abb., e l’On.le Carolina Lussana (LNFP) sulla proposta A.C. 5490 adottata in un secondo momento quale testo base.La ratio delle nuove disposizioni introdotte pertanto appare quella di operare una netta distinzione tra condotte che sono manifestazione di una opinione o di una convinzione politica e condotte che si concretizzano in atti violenti diretti ad imporre quella stessa opinione o convinzione: solo in quest’ultimo caso interviene la sanzione penale. Pertanto, accanto alla riformulazione della condotta accompagnata da un adeguamento della sanzione, il legislatore, in altri casi, ha sostituitola sanzione detentiva con quella pecuniaria, o ha trasformato l’illecito da penale ad amministrativo o ha abrogato la relativa fattispecie criminosa. Il provvedimento è inoltre intervenuto nella materia dei delitti contro la religione dello Stato ed i culti ammessi di cui al Titolo IV del libro II del codice penale, muovendosi in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale che parifica la tutela penale di tutte le confessioni religiose.
Sul tema del contrasto alla criminalità e della tutela della sicurezza dei cittadini, le misure esaminate ed approvate dalla commissione giustizia nel corso della XIV legislatura, ruotano essenzialmente intorno a tre gruppi di materie.
In primo luogo di fronte al verificarsi di nuovi e preoccupanti episodi di violenza in occasione di manifestazioni sportive, specialmente calcistiche, il legislatore è intervenuto con una serie di provvedimenti di urgenza, adottati nella forma del decreto legge, per introdurre nuove e più incisive misure preventive e repressive di contrasto del fenomeno.
E’ stata poi dedicata specifica attenzione al settore dell’incidentistica stradale, sia relativamente al profilo della prevenzione e del contrasto degli incidenti che comportino danni alle persone o alle cose, che relativamente a quello della più efficace e rigorosa sanzione delle fattispecie di omissione di soccorso.
Vanno infine ricordate le misure di varia natura volte a contrastare la diffusione delle droghe, mediante l’approvazione di modifiche ed integrazioni al testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope (DPR 9 ottobre 1990, n. 309), introdotte da alcuni articoli del decreto legge 30dicembre 2005, n. 272, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Come sopra ricordato il drammatico susseguirsi di episodi di violenza in occasione di competizioni sportive, specie in occasione di partite di calcio, fin dagli esordi della XIV legislatura, ha indotto il legislatore ad adottare, nella forma del decreto legge, una serie di misure dirette a contrastare in modo più rigoroso tali manifestazioni violente (v. scheda Violenza nelle manifestazioni sportive).
I provvedimenti adottati hanno inserito alcune modifiche alla legge 13 dicembre 1989, n. 401 che, a suo tempo, ha introdotto una prima disciplina legislativa per la repressione e la prevenzione dei fenomeni citati, impedendo l'accesso ai luoghi di svolgimento delle competizioni agonistiche di soggetti pericolosi per l'ordine pubblico, sanzionando pecuniariamente i comportamenti di turbativa delle manifestazioni sportive, vietando un nuovo accesso agli stadi di chi sia stato arrestato in flagranza per reati commessi durante o in occasione di manifestazioni sportive e successivamente rimesso in libertà.
Il decreto legge 20 agosto 2001, n. 336[64], convertito dalla legge 19 ottobre 2001, n. 377,è intervenuto essenzialmente allargando l’ambito dei possibili destinatari delle misure interdittive, inasprendo le prescrizioni stabilite dal questore, introducendo nuove e specifiche fattispecie di reato ed aumentando le sanzioni applicabili ad alcune fattispecie già codificate. Con il decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28[65], convertito dalla legge 24 aprile 2003, n. 88, sono state introdotte misure dirette a migliorare ulteriormente gli strumenti di prevenzione e repressione della violenza negli stadi. L’innovazione più significativa è senz’altro costituita dalla previsione del cd. arresto differito dei tifosi violenti, vale a dire dell’arresto fuori dei limiti ordinari della flagranza o della quasi flagranza. Il ricorso a tale forma di arresto è consentito, oltre che nei confronti degli autori delle violenze, anche nei confronti dei “lanciatori” di oggetti contundenti e comunque pericolosi ovvero di chi, nonostante il divieto del questore, acceda ai luoghi di svolgimento delle manifestazioni sportive o non rispetti l’obbligo di comparizione presso gli uffici di P.S. Tale misura tuttavia, anche a seguito dei numerosi dubbi di legittimità costituzionale, è stata resa transitoria dalla legge di conversione del decreto, che ne ha disposto l’applicabilità fino al 30 giugno 2005, data prorogata per altri due anni dall’articolo 6 del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115[66], convertito nella legge 18 agosto 2005, n. 168. Oltre all’introduzione di una nuova fattispecie contravvenzionale nonché di nuove tipologie di illecito amministrativo, il decreto contempla anche la facoltà del Prefetto di differire o vietare lo svolgimento di manifestazioni sportive, stabilendo altresì precise disposizioni in ordine all’organizzazione delle gare ed ai requisiti dell’impianto sportivo nonchè all’emissione di biglietti in numero congruo alla capienza dell’impianto. Infine va ricordata l’emanazione del decreto legge 17 agosto 2005, n. 162[67], convertito, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2005, n. 210 che, oltre a disporre l’inasprimento delle pene applicabili a determinate fattispecie e in determinate circostanze ha stabilito l’estensione, in condizioni di reciprocità, dell’applicabilità delle misure interdittive previste alle gare sportive che si svolgano all’estero, e la facoltà del giudice di imporre particolari prescrizioni in sede di sentenza di condanna.
L’incremento consistente della percentuale di incidenti stradali che ogni anno si verificano sulle strade italiane,specialmente in occasione di particolari festività o delle partenze estive, e l’aumento ormai costante delle vittime anche di giovane età coinvolte negli incidenti medesimi, sono all’origine dell’emanazione di due leggi che, sotto un diverso angolo visuale, affrontano il tema della prevenzione e repressione più efficace delle fattispecie di reato connesse o collegate al tema dell’incidentistica stradale.
Si tratta, in particolare, della legge 9 aprile 2003, n. 72[68]e della legge 21 febbraio 2006, n. 102[69].
Peraltro l’esame dei relativi progetti di legge (A.C. nn. 521, 866 e 2026) inizialmente avviato in modo congiunto (relatore On.le Perlini, FI), è poi proseguito con il disabbinamento della proposta di legge (A.C. 2026 ed abb.) relativa all’omissione di soccorso da quelle (A.C. 521 ed abb.) riguardanti le conseguenze derivanti da incidenti stradali, con conseguente successiva autonomia dei relativi iter .
Venendo ad illustrare sinteticamente il contenuto dei due provvedimenti, va ricordato che la legge 9 aprile 2003, n. 72, è diretta invece ad affrontare specificamente un problema di carattere sociale, quello dell’omissione di aiuto o soccorso a persone coinvolte in un sinistro stradale, che non trovava una sufficiente risposta sanzionatoria, nella normativa previgente (v. scheda Omissione di soccorso). Il provvedimento, da un lato, intervenendo sul codice penale, inasprisce la sanzione applicabile al reato di omissione di soccorso, dall’altro aggrava le sanzioni applicabili alle violazioni del codice della strada nella parte in cui impone determinati comportamenti in caso di incidente (art. 189 Dlgs 285/1992). Sul piano processuale la legge trasferisce dal giudice di pace al tribunale la competenza per il delitto di omissione di soccorso a seguito di sinistro stradale.
La più recente legge 21 febbraio 2006, n. 102 (v. scheda Tutela vittime della strada) inasprisce il quadro delle sanzioni penali ed amministrative applicabili alle fattispecie riconducibili agli incidenti stradali, ed introduce nuove disposizioni di carattere processuale, anche per assicurare un più celere svolgimento dei processi penali e civili in materia. Il provvedimento interviene sia su alcune disposizioni del codice della strada (Dlgs 285/1992) elevando le sanzioni amministrative accessorie inflitte dal giudice in seguito a condanna per violazione delle norme sulla circolazione stradale, che sul codice penale, elevandosia nel minimo che nel massimo le sanzioniedittali previsteper i reati di omicidio colposo e di lesioni personali colposegravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale (e di quelle sulla prevenzione degli incidenti sul lavoro). Sul piano processuale va ricordata l’estensione della disciplina del rito del lavoro alle cause civili di risarcimento di danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali, alcune modifiche al codice di procedura penale in tema di abbreviazione dei termini di durata delle indagini preliminari e di fissazione della data del giudizio. Vengono infine dettate disposizioni particolari in tema di risarcimento dei danni derivanti da incidenti stradali, con possibilità di liquidazione anticipata di somme agli aventi diritto in presenza di specifici presupposti e viene consentito al giudice, in sede di sentenza di condanna per delitti colposi commessi in violazione delle norme del codice della strada, di prevedere altresì particolari obblighi (lavoro di pubblica utilità) a carico del condannato.
Mediante l’inserimento, nel corso dell’esame parlamentare presso il Senato, di alcuni articoli nel testo del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272[70],convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, il legislatore, sul finire della XIV legislatura, ha introdotto una serie di modifiche di rilievo al Testo unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309/90) che ne hanno cambiato parzialmente l’impianto (v. scheda La novella al TU sulla droga) .
Una delle innovazioni più significative della nuova disciplina introdotta è costituita dalla scomparsa della differenziazione tra droghe leggere e pesanti, con la conseguente assimilazione, sotto il profilo sanzionatorio, delle fattispecie caratterizzate dall’utilizzo delle sostanze stupefacenti rientranti in tali categorie. A tali fattispecie sono anche assimilate quelle caratterizzate dall’utilizzo di medicinali contenenti sostanze stupefacenti con proprietà curative in assenza di prescrizione medica. L’esame del provvedimento è avvenuto presso le commissioni riunite giustizia ( relatore per la II commissione Gianfranco Anedda, AN) e affari sociali (relatore per la XII commissione Giulio Conti, AN) e forti perplessità sull’impostazione dello stesso sono state sollevate dai gruppi di opposizione (v. capitolo Dipendenza da stupefacenti e tabagismo nel dossier relativo alla Commissione affari sociali) .
Il provvedimento interviene a dettare nuovi criteri di identificazione dell’illecito penale ancorato, almeno in parte, ad un quantitativo minimo della sostanza stupefacente, la cui esatta determinazione viene rimessa ad un decreto ministeriale di competenza del Ministro della salute (D.M. 11 aprile 2006).
Vengono introdotte innovazioni anche per quanto attiene alle condotte integranti illeciti amministrativi, alle sanzioni applicabili a questi ultimi, al procedimento relativo alla applicazione delle sanzioni medesime. Sono previste anche particolari misure di sicurezza (sia pure atipiche perché non disposte dal giudice anche se convalidate da quest’ultimo), con funzione preventiva, nei confronti di chi tenga una condotte integrante un illecito amministrativo ai sensi dell’articolo 75 del D.P.R. 309/1990 e sia ritenuto pericoloso per la pubblica incolumità e sia stato già condannato per determinate categorie di reati.
Viene, infine, modificata anche la disciplina relativa ai benefici penitenziari concedibili ai tossicodipendenti ed alla procedura relativa all’applicazione degli stessi.
In tema di ordinamento civile i provvedimenti legislativi approvati sono stati meno numerosi di quelli incidenti in materia di diritto e procedura penale.
Si è trattato essenzialmente di misure finalizzate al perseguimento di obbiettivi specifici, in alcuni casi emersi già da tempo nell’ambito del settore, a volte a completamento di interventi riformatori già avviati nelle precedenti legislature.
La legge 6 novembre 2003, n. 304[71](v. scheda Tutela dagli abusi familiari), che consta di un solo articolo, modifica il dettato dell’articolo 342-bisdel codice civile in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari: tale articolo è stato inserito nell’ordinamento dalla legge 4 aprile 2001, n. 154(Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), approvata nel corso della XIII legislatura, che ha introdotto un sistema di tutela contro il fenomeno della violenza domestica basato sull’impiego di strumenti penalistici e civilistici. In sede penale, la legge 154/2001 ha introdotto la nuova misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.c.), mentre, in sede civile, sono stati introdotti nel codice civile gli articoli 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) e 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione) per ottenere la tutela della vittima anche quando sussista soltanto una accertata situazione di tensione e non necessariamente un reato. La legge, in particolare, consentiva l’attivazione degli strumenti di tutela civilistica soltanto qualora il fatto non costituisse reato o costituisse reato perseguibile a querela di parte.
Su questo punto pertanto è intervenuta la legge 304/2003, diretta a consentire l’attivazione degli strumenti civilistici di tutela anche in presenza di reato perseguibile di ufficio, apparendo irragionevole ogni esclusione di tutela in presenza delle forme più gravi di abuso. Sul provvedimento, approvato in sede legislativa dalla commissione giustizia, (relatrice On.le Erminia Mazzoni, UDC) tutti i gruppi hanno manifestato il proprio consenso.
La legge 9 gennaio 2004, n. 6[72] (v. scheda L’amministratore di sostegno), inserendo un nuovo capo nell’ambito del Titolo XII del Libro I del codice civile, prevede e disciplina l’istituto dell’amministrazione di sostegno che, in virtù della nuove disposizioni, verrebbe ad affiancarsi a quelli dell’interdizione e dell’inabilitazione. Anche sull’approvazione di tale provvedimento (relatrice On.le Erminia Mazzoni UDC), si è manifestato il consenso delle diverse forze politiche. Il provvedimento, peraltro, riproduce in gran parte il contenuto del testo unificato (A.S. 4298) che già nella XIII legislatura, approvato dalla Camera e esaminato in sede deliberante dalla Commissione giustizia del Senato, è giunto in stato di relazione all’esame dell’Assemblea che, tuttavia, non lo ha avviato.
Le ragioni che hanno condotto all’introduzione della nuova disciplina – sulla previsione della quale la stessa dottrina, da tempo, aveva manifestato una certa attenzione - sono ispirate dalla considerazione che vi sono tutta una serie di situazioni in cui il soggetto può essere incapace di provvedere a se stesso senza versare in stato di infermità mentale; finora, per chi si trovava in queste situazioni, la tutela che il codice civile riusciva a offrire, attraverso gli istituti dell’interdizione o dell’inabilitazione dell’infermo (artt. 414 e ss. c.c.) risultava scarsamente efficace. Queste procedure, inoltre, denotavano molti limiti. Oltre ai costi, l'utilità pratica risultava spesso penalizzata dai tempi molto lunghi per l'ottenimento del provvedimento di nomina e, soprattutto, dalla non "graduabilità" della privazione della capacità d'agire in dipendenza della più o meno grave infermità di mente del beneficiario.
Accanto agli istituti tradizionali, viene quindi prevista una figura che abbia funzione non tanto sostitutiva, ma di sostegno, e che intervenga non nella totalità degli atti che la persona assistita è chiamata a compiere e nemmeno in un ambito di categoria predefinito, ma solamente in quegli atti per i quali la situazione concreta suggerisce una presenza vicariante. Tale figura è stata pertanto individuata, nell’amministratore di sostegno, nominato da un giudice, in presenza di determinati requisiti accertati, con definizione dell’area di attività, con procedura semplificata, e con carattere di ordinaria gratuità.
La legge, pertanto, inserendo un nuovo Capo nel Titolo XII del libro I del codice civile (utilizzando il vuoto lasciato nel codice civile dalla legge sull’adozione del 1983, che ha abrogato gli articoli da 404 a 413), disciplina il nuovo istituto mediante l’inserimento di 10 nuovi articoli nel codice, regolanti i diversi aspetti del novo istituto dell’amministratore di sostegno, le situazioni che ne legittimano la nomina da parte del giudice tutelare e la relativa procedura, gli effetti della nomina, i doveri dell’amministratore di sostegno, le disposizioni applicabili. Viene disciplinato anche il regime degli atti compiuti dall’amministratore fuori o in eccesso dai poteri allo stesso conferiti nonché la revoca eventuale dell’incarico conferito. La legge introduce altresì alcune modifiche alla disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, alle disposizioni di attuazione del codice civile e ad alcuni articoli del codice di procedura civile in modo da rendere applicabili ai procedimenti relativi all’amministrazione di sostegno le disposizioni processuali riguardanti i procedimenti di interdizione e inabilitazione.
La legge 2 agosto 2004, n. 210[73] (v. scheda Tutela degli acquirenti di immobili) è diretta a rafforzare la tutela dei soggetti che si associano a cooperative edilizie al fine di acquistare la proprietà di immobili da costruire (o che, pur non essendo soci di cooperative abbiano assunto obbligazioni con le stesse finalizzate ad acquisire la proprietà o la titolarità di un diritto reale di godimento sull’immobile) e che incorrono nel rischio di perdere le somme versate, oltre che di non acquisire la titolarità del bene, a causa di eventi, quali il fallimento, che possono colpire l’imprenditore-costruttore. Pertanto la legge delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi, anche correttivi, per realizzare la tutela citata, fissando un insieme di principi e criteri direttivi che nel complesso definiscono un sistema di strumenti di tutela a favore del soggetto acquirente a partire dalla costituzione del rapporto con il costruttore e fino alla gestione della eventuale fase finale patologica del fallimento dell’imprenditore costruttore. Tra l’altro si ricorda l’obbligo del costruttore di stipulare una polizza fideiussoria a pena di nullità del contratto e la previsione dell’istituzione (avvenuta con decreto del ministro della giustizia del 2 febbraio 2006) di un Fondo di solidarietà a beneficio degli acquirenti. In attuazione della delega legislativa, di cui all’articolo 1, comma 1, della legge in commento, è stato adottato il decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122[74](v. scheda Tutela degli acquirenti di immobili)che, in conformità ai criteri dettati dalla legge delega, definisce in modo più specifico i diversi aspetti in cui si articola la tutela introdotta dalla legge 210/2004.
La legge 13 giugno 2005, n. 118[75] (v. scheda La nuova disciplina dell’impresa sociale)mediante il conferimento di una delega al Governo,ha inteso colmare una lacuna dell’ordinamento relativa alla disciplina di un tipo particolare di impresa, definita “sociale” e ricompresa nell’ambito dei cosiddetti enti non profit. Si tratta di una categoria rientrante nel c.d. terzo settore, che comprende soggetti con differenti connotazioni giuridiche, che svolgono la loro attività, anche imprenditoriale, ma comunque al di fuori della logica del profitto propria del mercato. L'elemento unificante appare rappresentato proprio dall'assenza di fine di lucro, cioè dalla mancata redistribuzione di utili tra gli associati. La finalità perseguita dal provvedimento è pertanto quella di superare, dettando una disciplina specificamente applicabile all’impresa sociale, la dicotomia, attualmente presente nelle norme codicistiche, tra enti del libro I, senza fini di lucro e destinati al perseguimento di finalità etiche e/o ideali ed enti del libro V, finalizzati invece alla produzione in funzione meramente lucrativa o di mutualità interna di beni e servizi.
In attuazione della delega legislativa è stato poi emanato il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155[76] .
La legge 8 luglio 2005, n. 137[77] (v. scheda Indegnità a succedere) è intervenuta sull’istituto dell’indegnità a succedere, prevedendo, mediante una modifica dell’articolo 463 del codice civile, una nuova ipotesi di indegnità e di esclusione dalla successione, nei confronti di chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti del de cuius, non sia stato reintegrato nella medesima alla data di apertura della successione medesima. Il provvedimento, sul quale si manifestato il consenso dei diversi gruppi politici, è stato approvato dalla commissione giustizia in sede legislativa.
La legge 14 febbraio 2006 n. 55[78] (v. scheda Patto di famiglia) ha introdotto nel codice civile una significativa disciplina derogatoria al generale divieto di patti successori (art. 458 c.c.) riguardante il settore della successione di impresa; si è ritenuto, infatti, che in tale ambito la rigidità del divieto dei patti successori dovesse cedere terreno al diritto all’esercizio dell’autonomia privata ma soprattutto alla esigenza di garantire dinamicità agli istituti collegati all’attività d’impresa. Peraltro anche la Comunicazione della Commissione europea n. 98/C93/02 del 28 marzo 1998relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese citava, tra le misure giuridiche che mirano ad agevolare la continuità dell’impresa, il ricorso ai patti d’impresa o agli accordi di famiglia; questi ultimi, soprattutto per le imprese familiari, possono essere utilizzati al fine di mantenere alcune regole gestionali da una generazione all’altra, ma continuano a costituire una alternativa relativamente debole rispetto ai patti di successione, ammessi nella maggior parte degli Stati membri. Dove tali patti successori sono ancora vietati - nel giudizio allora espresso dalla Commissione europea - “gli Stati membri dovrebbero considerare l’opportunità di introdurli, perché la loro proibizione complica inutilmente una sana gestione patrimoniale”.
All’imprenditore viene dunque consentito di disporre liberamente della propria azienda per il periodo successivo alla propria morte, purché in accordo con i componenti della propria famiglia e senza precludere il ricorso a strumenti di tutela da parte dei legittimari.
Oltre a novellare il citato articolo 458 del codice civile, nel senso di consentire una disciplina derogatoria al generale divieto dei patti successori mediante l’introduzione di una specifica disciplina relativa ai patti di famiglia, la legge ha introdotto, nel libro II, titolo IV, del codice un nuovo capo, il V-bis, dedicato ai patti citati, contenente sette nuovi articoli (da 768-bis a 768-octies).
Vengono disciplinati il contenuto e la forma di questa nuova categoria di contratti, le modalità di stipulazione, i rapporti con i terzi, le ipotesi di scioglimento e modifica, particolari modalità di definizione delle relative controversie.
Con l’emanazione, nel corso della XIV legislatura, del decreto legislativo30 giugno 2003, n. 196[79](v. scheda Il testo unico sulla privacy)viene completato il processo di definizione e messa a punto di un’organica normativa in tema di riservatezza, in linea con le prescrizioni dettate in materia dalla normativa comunitaria. Tale processo, nel corso della XIII legislatura, si è articolato nell’approvazione di alcune leggi fondamentali (legge 31 dicembre 1996, n. 675,Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, legge 31 dicembre 1996, n. 676, Delega al Governo in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, completate con l’emanazione della legge 6 ottobre 1998, n. 344 e della legge 24 marzo 2001, n. 127, recanti Differimento del termine per l'esercizio della delega prevista dalla L.31 dicembre 1996, n. 676, in materia di trattamento dei dati personali) e di una serie di decreti legislativi attuativi.
E’ in attuazione della delega conferita al Governo con l’articolo 1, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 127, relativa all’emanazione di un testo unico delle disposizioni sul trattamento dei dati personali, che è stato quindi emanato il citato decreto legislativo30 giugno 2003, n. 196.
Il testo unico, entrato in vigore il 1° gennaio 2004, è di matrice unicamente legislativa; sono pertanto state assorbite od eliminate le disposizioni di rango regolamentare non più necessarie ed è stato previsto come allegato al testo unico un disciplinare tecnico recante le misure minime di sicurezza; in allegato al testo unico vengono poi riprodotti gli esistenti codici di deontologia e buona condotta.
Il Codice, contenente 186articoli, è diviso in tre parti.
La prima parte del codice (artt. 1-45) reca le disposizioni generali, riguardanti i diritti e le libertà fondamentali, le garanzie di ordine generale e la disciplina della responsabilità.
La seconda parte del testo unico (artt. 46-140) include disposizioni particolari in ordine a specifici trattamenti effettuati da soggetti pubblici, al fine di recepire i principi in materia di protezione dei dati personali già applicabili a tali trattamenti per effetto della legge n. 675/1996 con integrazione ed adattamenti indispensabili.
La terza parte (artt. 141-186) contiene le disposizioni relative alle azioni di tutela dell’interessato e al sistema sanzionatorio, nonché le disposizioni modificative, abrogative, transitorie e finali.
In relazione alle disposizioni transitorie, occorre segnalare che a partire dall’entrata in vigore del Codice, si sono succeduti diversi interventi normativi volti a prorogare taluni termini di adeguamento alla nuova disciplina.
Alcuni provvedimenti esaminati ed approvati dalla II commissione nel corso della XIV legislatura sono intervenuti a legiferare in ambiti diversi, non riconducibili in modo univoco ad una specifica materia ma attinenti in linea più generale al settore processuale.
La legge 6 dicembre 2001, n. 437[80], intervenendo sull'articolo 23 della legge 29 marzo 2001, n. 134, di disciplina del gratuito patrocinio (nel senso di sopprimere il riferimento all'abrogazione dell'articolo unico della legge 2 aprile 1958, n. 319, Esonero da ogni spesa e tassa per i giudizi di lavoro), ripristina l'esenzione da qualsiasi onere o spesa, nel processo del lavoro, sia nella fase del giudizio che in quella esecutiva e fallimentare.
Il provvedimento, in particolare, è diretto a risolvere un dubbio interpretativo sorto a seguito dell’introduzione, ad opera dell’articolo 9 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Legge finanziaria 2000), del contributo unificato per le spese sugli atti giudiziari in sostituzione dell'imposta di bollo, della tassa di iscrizione a ruolo e dei diritti di cancelleria. La norma citata, infatti, pur conservando l’esenzione da tale contributo per i procedimenti già esenti da oneri e spese in virtù della normativa previgente, non riproduce esattamente il riferimento espresso di quest’ultima ad alcune imposte dalle quali i processi in materia di lavoro verrebbero ad essere esentati. L’intervento normativo citato è diretto quindi a risolvere tale dubbio interpretativo ripristinando specificamente l’esenzione suddetta.
La legge 437/2001, peraltro, intervenendo sul citato art. 23 della legge 134/2001, la cui disciplina è stata interamente abrogata a partire dal 1° luglio 2002 a seguito dell’entrata in vigore del TU spese di giustizia (DPR 115/2002) ha quindi prodotto i suoi effetti nel solo periodo transitorio intercorrente tra la vigenza di essa (2 gennaio 2002) ed il 1° luglio 2002.
Il decreto-legge 11 marzo 2002, n. 28[81](v. scheda Contributo unificato iscrizione a ruolo) introduce alcune modifiche alla disciplina del contributo unificato di iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali, istituito dall’articolo 9, comma 1, della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Finanziaria 2000), sulla base di determinati importi collegati, in misura forfettaria, al valore della controversia, in sostituzione di imposte, tasse e diritti di cancelleria relativi a ai procedimenti civili, penali e amministrativi, comprese le procedure concorsuali e di volontaria giurisdizione, nonché per i provvedimenti in materia tavolate.
Le modifiche introdotte attengono ad aspetti diversi, riconducibili essenzialmente ad un allargamento del novero dei procedimenti e degli atti esenti dal contributo, all’eliminazione della sanzione dell’irricevibilità della domanda per il mancato versamento dello stesso e della sanzione dell’improcedibilità per insufficiente pagamento nel caso di modifica della domanda che ne importi un aumento di valore, all’introduzione di una presunzione di valore della causa corrispondente allo scaglione massimo (930 euro) in caso di mancata dichiarazione del valore della causa, alla previsione e disciplina di un meccanismo di riscossione del contributo unificato in caso di mancato o insufficiente pagamento, alla previsione di disposizioni particolari per alcuni specifici procedimenti. Viene poi dettata una disciplina transitoria per i procedimenti già iscritti a ruolo prima del 1° marzo 2002. Va ricordato che attualmente la disciplina del contributo unificato è confluita nel testo unico spese di giustizia di cui alD.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che sarà trattato nel prosieguo, che ha riorganizzato e reso sistematica l’intera materia delle spese giudiziarie. Conseguentemente l’art. 9 della legge 488/1999 è stato abrogato.
Misure processuali e legali urgenti necessarie a seguito dall’incidente aereo del 18 aprile 2002 che, devastando in particolare gli uffici legali della Regione Lombardia, ha provocato la distruzione o l’irreversibile deterioramento della documentazione relativa ai giudizi di cui è parte la stessa Regione, sono state dettate dal decreto-legge 6 maggio 2002, n. 81[82](v. scheda Sospensione termini legali in Lombardia), convertito dalla legge 2 luglio 2002, n. 131.
Allo scopo di evitare alla regione pregiudizi conseguenti al mancato rispetto di termini relativi a procedimenti o giudizi la cui documentazione risultava distrutta o deteriorata, il provvedimento di urgenza è intervenuto a sospendere di diritto, fino al 31 ottobre 2002, i termini processuali dei giudizi civili amministrativi e tributari di cui era parte la Regione, la cui notifica fosse avvenuta prima del 18 aprile 2002, (nonché i termini di prescrizione, decadenza, legali e convenzionali in corso alla stessa data), ed a rinviare, a data successiva al 31 ottobre 2002, le udienze dei giudizi sopracitati. Alla medesima data sono stati differiti i termini relativi a procedimenti amministrativi e sono state stabilite altresì particolari esenzioni relative ad oneri tributari e diritti di copia.
Emanato ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Legge di semplificazione 1998), che prevede l’emanazione di regolamenti di delegificazione e semplificazione di numerose discipline, tra le quali l’intera materia delle spese di giustizia, il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115[83](v. schedaTesto unico spese di giustizia) è finalizzato ad operare un riordino di tutte le norme legislative e regolamentari vigenti in tale materia, razionalizzando la disciplina che si è stratificata nel corso degli ultimi centocinquanta anni, in conformità dei criteri e principi direttivi sanciti dal legislatore delegante. Si tratta di un testo unico non meramente compilativo, poiché la finalità del riordino può essere ottenuta anche attraverso l’introduzione di innovazioni normative purché necessarie ad armonizzare gli istituti relativi alle spese giudiziarie, e riguardante non soltanto le norme procedimentali ma anche quelle sostanziali. Conformemente, poi, alle indicazioni contenute nel comma 2 dell’articolo 7 della citata legge 50/1999, il testo unico contiene sia disposizioni primarie, contenute in un decreto legislativo, che disposizioni secondarie contenute in un apposito regolamento di delegificazione. Il provvedimento, pertanto, si articola in tre testi distinti contenenti, rispettivamente, l’insieme di tutte le disposizioni legislative e regolamentari (emanate con decreto del Presidente della Repubblica), le sole norme di rango legislativo (emanate con decreto legislativo), le sole norme di rango secondario (emanate con decreto del Presidente della Repubblica).
Concretamente esso individua tutte le norme da considerare vigenti nel settore delle spese di giustizia e quelle abrogate.
Il testo, composto da 302 articoli, si suddivide in 10 parti concernenti, rispettivamente, le disposizioni generali, le voci di spesa, il patrocinio a spese dello Stato, processi particolari, la materia dei registri, i titoli di pagamento, la materia della riscossione, disposizioni speciali per il processo amministrativo contabile e tributario, le norme transitorie e le disposizioni finali e le conseguenti abrogazioni. Esso è entrato in vigore il 1° luglio 2002.
Alcune modifiche di disposizioni contenute nel citato Testo unico di cui al D.P.R. 115/2002, più in particolare per quanto attiene alla materia del patrocinio a spese dello Stato, sono contenute nella legge 24 febbraio 2005, n. 25[84]. Le innovazioni introdotte attengono essenzialmente ad un ampliamento della facoltà di nomina del difensore da parte del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e ad una attenuazione dei requisiti richiesti per l’iscrizione negli elenchi dei patrocinanti.
Vengono trattati in questa sede, poiché coinvolgenti oggetti diversi rientranti nel vasto ambito dell’amministrazione della giustizia, alcuni decreti legge il cui contenuto appare idealmente scomponibile in parti distinte riguardanti, ciascuna, un aspetto specifico. Qui di seguito si procederà ad un’illustrazione sintetica degli stessi secondo l’ordine temporale di emanazione (v. scheda Amministrazione della giustizia).
In primo luogo va menzionato il decreto legge 11 settembre 2002, n. 201[85], convertito dalla legge 14 novembre 2002, n. 259, che vi ha apportato rilevanti modifiche: tra l’altro, nel corso del procedimento di conversione del decreto legge sono stati soppressi il Capo I (relativo all’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo) e il Capo IV (relativo alla presidenza del collegio delle sezioni semplici della Corte di cassazione).
Il Capo II del provvedimento contiene disposizioni dirette a semplificare e ad accelerare il procedimento concorsuale di nomina dei giudici di pace (attraverso alcune modifiche all’articolo 4 della legge 21 novembre 1991, n. 374), e detta alcune norme relative all’organizzazione del personale amministrativo della segreteria e dell'ufficio studi del Consiglio superiore della magistratura.
Il Capo IIIdetta disposizioni per ilpotenziamento delle strutture dell’Amministrazione penitenziaria; il Capo Vreca modifiche ai decreti-legge 6 maggio 2002, n. 83 (Misure urgenti in materia di sicurezza personale ed ulteriori misure per assicurare la funzionalità degli uffici dell’Amministrazione dell’interno) convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 2002, n. 133, e 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, concernenti, rispettivamente, la composizione dell’ Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale (UCIS) istituito presso il Ministero dell’interno, e l’elevazione del termine di durata massima delle indagini preliminari nei confronti dei soggetti indagati per alcuni reati commessi prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Il Capo citato reca altresì le disposizioni relative agli oneri finanziari recati dal provvedimento.
Il decreto-legge 11 novembre 2002, n. 251[86], convertito dalla legge 10 gennaio 2003, n. 1, si compone sostanzialmente di quattro Capi, ognuno dei quali attinente ad un oggetto diverso, poiché l’intero Capo I, relativo alla abolizione dei tribunali regionali e del tribunale superiore delle acque pubbliche, è stato soppressoin sede di conversione.
Al fine di garantire il necessario supporto tecnico all’attività del Governo in adempimento degli obblighi comunitari, il Capo II del decreto legge, intervenendo sull’articolo 19 del D.lgs. n. 300/1999 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), ha previsto, in occasione del semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea e fino al 30 giugno 2004, l’elevazione di 12 unità, (da 50 a 62) del numero dei magistrati fuori ruolo destinati al ministero della giustizia.
Il Capo III, intervenendo a colmare una lacuna dell’ordinamento, prevede (attraverso una modifica dell’articolo 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374) la corresponsione di un’indennità per alcuni provvedimenti specificamente definiti e rientranti nella competenza del giudice di pace penale; su tale aspetto, infatti, nulla era stabilito dal decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468) che ha attribuito al giudice onorario limitate competenze anche in campo penale.
Le disposizioni del Capo IV del decreto-legge hanno mirato a garantire il funzionamento della Giunta speciale per le espropriazioni presso la Corte d’appello di Napoli, la cui composizione è stata dichiarata illegittima da una pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 10 luglio-25 luglio 2002, n. 393), mentre quelle del Capo V contengono le norme relative agli oneri finanziari ed all’entrata in vigore del provvedimento.
Il decreto legge 24 dicembre 2003, n. 354[87], convertito dalla legge 26 febbraio 2004, n. 45, si compone di nove articoli, ciascuno dei quali relativo ad un oggetto diverso.
L’articolo 1 è diretto a modificare alcune norme contenute nel regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) e nella legge 1° agosto 1959, n. 704 (Indennità ai componenti dei Tribunali delle acque pubbliche), intervenendo sul funzionamento e sulla composizione dei Tribunali delle acque pubbliche nonché sull’indennità spettante ai suoi componenti: l’intervento normativo ha inteso consentire la ripresa dell’operatività dei Tribunali che, a seguito di alcune pronunce della Corte costituzionale, erano stati posti nell’impossibilità di funzionare. L’articolo 1-bis amplia (da 50 a 65 unità) la quota dei magistrati fuori dal ruolo organicodestinati al Ministero della giustizia. L’articolo 2 attiene alla riconferma nelle funzioni fino al 31 dicembre 2004 dei giudici onorari di tribunale e dei viceprocuratori onorari il cui mandato sarebbe dovuto scadere entro il 31 dicembre 2003. Gli articoli 3 e 4 intervengono sulle norme di cui all’articolo 132 e 181 del D.lgs 30 giugno 2003, n. 196(Codice in materia di protezione dei dati personali) in tema di acquisizione e conservazione dei dati di traffico telefonico per finalità di accertamento e repressione dei reati e di conservazione dei dati di traffico telefonico in possesso del fornitore di una rete pubblica di comunicazioni o di un servizio di comunicazione elettronica alla data del 31 dicembre 2003. Mentre l’’articolo 5 del decreto-legge è stato soppresso in sede di conversione, l’articolo 6 provvede ad autorizzare per il 2004 una spesa pari a 700.000 euro al fine di assicurare il funzionamento ed il potenziamento del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia: questa norma si è resa necessaria a seguito dell’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, del decreto legislativo di riassetto della composizione e del funzionamento del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. L’articolo 6-bis introduce una serie di posizioni vicarie nelle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative e nell’Avvocatura dello Stato; l’articolo 7 prevede disposizioni in tema di effetti delle procedure concorsuali sui contratti di leasing e, infine, gli articoli 8 e 9 attengono, rispettivamente, agli oneri finanziari recati dal decreto ed alla sua entrata in vigore.
Nel corso della XIV legislatura la commissione giustizia è stata chiamata ad esprimere parere su alcuni atti normativi del Governo, emanati nella forma del decreto legislativo, ed adottati in attuazione di norme comunitarie, soprattutto regolamentari.
La maggior parte di questi provvedimenti è intervenuta individuando e disciplinando l’applicazione di sanzioni amministrative conseguenti a violazioni di prescrizioni comunitarie in materia agricola. Qui di seguito si darà conto sinteticamente dei singoli provvedimenti secondo l’ordine temporale di emanazione degli stessi (v. scheda Disciplina sanzionatoria di attuazione).
Il Decreto Legislativo 10 dicembre 2002, n. 305[88], adottato in attuazione dell’articolo 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Legge comunitaria 2000), ha introdotto e disciplinato l’applicazione di sanzioni amministrative in occasione di violazioni al Regolamento (CEE) n. 4045/89 del Consiglio, del 21 dicembre 1989, relativo ai controlli, da parte degli Stati membri, delle operazioni che rientrano nel sistema di finanziamento del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), sezione garanzia. Il provvedimento interviene aggiungendo alcuni commi all’articolo 3 del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701 (Misure urgenti in materia di controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo), convertito con modificazioni dalla legge 23 dicembre 1986, n. 898, nonché stabilendo disposizioni relative al procedimento di applicazione delle sanzioni ed alla qualifica dei funzionari incaricati dei controlli.
Il Decreto legislativo 10 dicembre 2002, n. 306[89], adottato in attuazione della delega di cui all’articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), introduce e disciplina le sanzioni amministrative applicabili in occasione di violazioni al regolamento (CE) n. 1148/2001 della Commissione, del 12 giugno 2001, concernente i controlli di conformità alle norme di commercializzazione applicabili nel settore degli ortofrutticoli freschi, che ha abrogato il precedente regolamento in materia (Reg. CEE n. 2251/92). Il provvedimento, oltre a definire esattamente l’ambito di applicazione delle nuove disposizioni e l’importo delle sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alle violazioni, individua la competenza delle regioni e delle province autonome, nei rispettivi ambiti, all’accertamento delle violazioni amministrative e all’applicazione delle relative sanzioni fatte salve, ai fini degli accertamenti e delle procedure applicative, per quanto non previsto dal decreto legislativo, le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Il Decreto Legislativo 29 gennaio 2004, n. 58[90] in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 1 marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001), ha introdotto e disciplinato le sanzioni amministrative applicabili per le violazioni ai regolamenti comunitari e alla normativa nazionale in materia di identificazione e registrazione dei bovini, nonché di etichettatura delle relative carni e dei prodotti derivati. Il provvedimento si inquadra nel novero delle misure adottate, a livello comunitario e nazionale, per far fronte alla crisi del mercato delle carni a seguito della diffusione dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE), e alla necessità di ripristinare la fiducia dei consumatori nella qualità delle carni bovine consumate. Esso ha completato, peraltro, il quadro normativo in materia di passaporto sanitario ed etichette delle carni bovine che dal primo gennaio 2002 ha previsto, tra l'altro, l'indicazione non solo del Paese di nascita dell'animale ma anche del luogo di ingrasso e di macellazione.
Il Decreto Legislativo 24 giugno 2004, n. 180[91] in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 1 marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001), ha disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni del regolamento (CE) n. 2560/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 dicembre 2001, che ha introdotto una serie di obblighi a carico delle imprese che nell’ambito della propria attività eseguono pagamenti transfrontalieri in euro. Tali sanzioni sono direttamente ed esclusivamente applicate in capo alle imprese.
Con il Decreto Legislativo 19 novembre 2004, n. 297[92] vengono introdotte e disciplinate le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni al regolamento (CEE) n. 2081/92 del Consiglio, del 14 luglio 1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari, violazioni già depenalizzate dall’articolo 1 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, che ha trasformato in illeciti amministrativi le violazioni previste come reato da ogni disposizione in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande, nonché di tutela della denominazione di origine dei medesimi. Il provvedimento è suddiviso in cinque capi riguardanti, rispettivamente, le sanzioni applicabili, gli organismi di controllo ed i consorzi di tutela, le circostanze, i soggetti competenti ad accertare le violazioni, le norme finali e di coordinamento.
Il Decreto Legislativo 21 febbraio 2005, n. 36[93] adottato in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 3 febbraio 2003, n. 14 (legge comunitaria 2002), ha introdotto e disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni al Regolamento CE 1774/2002 del Parlamento e del Consiglio, del 22 maggio 2001, relativo alle norme sanitarie per i sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano. Il decreto legislativo in commento, oltre a corredare il citato regolamento comunitario di uno specifico apparato sanzionatorio, ha introdotto sanzioni amministrative pecuniarie in riferimento a disposizioni contenute in ulteriori fonti normative nazionali di rango secondario, riguardanti la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di alcune encefalopatie spongiformi trasmissibili all’uomo.
Il Decreto Legislativo 30 settembre 2005, n. 225[94], in attuazione della delega conferita al Governo dall’articolo 3 della legge 31 ottobre 2003, n. 306, (legge comunitaria per il 2003), ha introdotto nell’ordinamento e disciplinato sanzioni di tipo amministrativo per le violazioni al Regolamento (CE) 1019/2002 della Commissione, del 13 giugno 2002, relativo alle norme di commercializzazione dell’olio di oliva e successive modificazioni, nonché al decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 4 giugno 2004.
Il Decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 69[95], in attuazione della delega conferita al Governo dall’articolo 3, comma 1, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004), stabilisce le sanzioni amministrative conseguenti alla violazione del regolamento (CE) n. 261/2004 che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato (v. capitolo Tutela degli utenti nel trasporto aereo, nel dossier relativo alla Commissione trasporti).
Il Decreto legislativo recante Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 178/2002 che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare, non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, attuando la delega legislativa conferita al Governo dall’articolo 3 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (Legge comunitaria 2003), provvede ad introdurre una disciplina sanzionatoria di tipo amministrativo per la violazione delle disposizioni contenute nel Regolamento (CE) n. 178/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare.
Una menzione separata merita infine il Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231[96] che, attuando la direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, non si è limitato a stabilire le sanzioni amministrative applicabili a seguito della violazione di un regolamento comunitario, ma ha dettato una disciplina compiuta relativa a tale ambito. In attuazione della normativa comunitaria citata pertanto il provvedimento definisce l’ambito di applicazione delle norme introdotte, disciplina il saggio e la decorrenza degli interessi, la validità degli accordi conclusi, le azioni di tutela e le procedure di recupero crediti.
Nel corso della XIV legislatura la commissione giustizia, sul tema della disciplina di diritto civile in tema di famiglia e minori, ha approvato innovazioni significative alla normativa vigente, contenute nella legge 8 febbraio 2006, n. 54[97](v. scheda L’affidamento congiunto)diretta a soddisfare esigenze emerse già da tempo nella coscienza collettiva.
I lavori preparatori del provvedimento (relatore della proposta di legge, A.C. 66, On.le Maurizio Paniz, FI), tuttavia, hanno impegnato la sola commissione giustizia della Camera per circa quattro anni. La materia trattata, infatti, incidendo su relazioni all’interno della famiglia, ha comportato la ricerca di equilibri non sempre agevoli tra autonomia dei soggetti coinvolti e determinazioni legislative.
Il provvedimento, modificando ed inserendo alcune disposizioni nel codice civile, definisce una nuova disciplina dell’istituto dell’affidamento dei figli conseguente alla separazione personale dei genitori, allo scioglimento, all’annullamento, alla cessazione degli effetti civili, alla nullità del matrimonio; la disciplina si applica anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Il principio cardine della nuova normativa consiste nel privilegiare la soluzione dell’affidamento condiviso, che diviene la forma di affidamento prioritario dei figli minori di genitori separati, in modo che l’affidamento ad un solo genitore (attualmente prevalente) diventerebbe una soluzione soltanto residuale.
Infatti, nonostante tale istituto fosse già previsto dalla legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970 n. 898) il sistema previgente stabiliva, in via ordinaria, l'affidamento dei figli ad uno dei genitori in caso di separazione, secondo il prudente apprezzamento del presidente del tribunale o del giudice o secondo le intese raggiunte dai coniugi. Nella prassi, la stragrande maggioranza degli affidamenti ha individuato la madre come genitore affidatario del minore. In tal senso la situazione non teneva conto del principio della bigenitorialità; un principio affermatosi da tempo praticamente in tutti gli ordinamenti europei e stabilito anche, a livello internazionale, dalla Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con la legge 176 del 1991.
La finalità cui risulta ispirata la nuova normativa è quella di salvaguardare il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura istruzione ed educazione da entrambi. Vengono poi dettagliatamente disciplinati i diversi aspetti collegati a tale modalità di affidamento e i diversi modi di composizione innanzi al giudice delle possibili controversie in merito. Oltre all’opposizione all’affidamento condiviso viene attribuita ad entrambi i genitori la facoltà di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli; vengono altresì dettate specifiche disposizioni processuali.
All’assolvimento di esigenze transitorie, connesse con l’opportunità di assicurare la compatibilità di alcune innovazioni normative con la protezione di alcuni principi fondamentali, si ispirano alcune limitate modifiche alla disciplina processuale in tema di famiglia e minori disposte da una serie di decreti legge[98] e da ultimo prorogate fino al 30 giugno 2006 dall’articolo 8 del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115[99] convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168 (v. scheda Disposizioni processuali transitorie).
L’intervento del legislatore ha assolto a funzioni di coordinamento della disciplina vigente con il quadro normativo, modificato nel corso del 2001, in materia di adozione, di difesa d’ufficio e di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, al fine di evitare che dall’applicazione delle nuove disposizioni derivasse un aggravio delle spese processuali a carico dei soggetti economicamente più deboli e, quindi, una lesione del principio di effettività della difesa.
La legge 28 marzo 2001 n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori” nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), infatti, approvata nel corso della XIII legislatura, ha riformato in maniera consistente la disciplina dell’adozione, modificando tra l’altro le norme relative alla dichiarazione di adottabilità contenute nella legge 4 maggio 1983, n. 184, nonché l’articolo 336 del codice civile, che prevede adesso l’obbligo dell’assistenza legale del minore e dei genitori per una serie di procedimenti di natura civile. Nessuna specifica norma sulla nomina del difensore di ufficio in tali procedimenti veniva però stabilita dalla citata legge 149/2001, né dalla coeva legge 6 marzo 2001 n. 60 che è intervenuta a disciplinare la difesa d’ufficio nei procedimenti penali.
Mediante gli interventi normativi menzionati il legislatore ha pertanto consentito l’ultrattività delle disposizioni processuali contenute nel titolo II (Della adozione), Capo II (Della dichiarazione di adottabilità), della legge n. 184/1983 e nell’articolo 336 c.c., che a causa delle modifiche apportate dalla legge 149/2001 non potevano più trovare applicazione. La previsione di una disciplina transitoria ha trovato giustificazione nella mancanza di una specifica regolazione della difesa di ufficio nei procedimenti d’adozione, per i quali le nuove previsioni hanno reso obbligatoria l’assistenza legale.
Sul tema fortemente sentito dalla coscienza collettiva di introdurre misure più efficaci di contrasto ai reati commessi contro i minori è intervenuta la legge 6 febbraio 2006, n. 38[100] (v. scheda Misure contro la pedofilia).
Il provvedimento, diretto al perseguimento di finalità largamente condivise da tutte le forze politiche, è stata approvato in seconda lettura dalla commissione giustizia della Camera, in sede legislativa. Le funzioni di relatrice del progetto (A.C. 4599 ed abb.) sono state svolte dall’On.le Marcella Lucidi (DS-U).
La legge, anche in attuazione di quanto previsto dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile, è diretta ad adeguare il quadro legislativo vigente in materia di contrasto allo sfruttamento sessuale dei minori alla manifestazione di nuove forme ed espressioni del drammatico fenomeno della pedofilia anche a mezzo dell'utilizzo dei moderni strumenti telematici. Il quadro normativo previgente, infatti, pur profondamente innovato dalla legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), ha manifestato alcune carenze in riferimento alla manifestazione di nuove forme del drammatico fenomeno della pedofilia, soprattutto tramite l'utilizzo della rete Internet.
Oltre ad intervenire sulla definizione delle fattispecie criminose contemplate nel codice penale, la legge opera un complessivo aggravamento delle sanzioni amministrative e penali applicabili alle stesse, dettando anche alcune modifiche a norme processuali. Viene inoltre istituito e disciplinato il Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete Internet, costituito presso il Ministero dell’interno, al quale devono pervenire tutte le segnalazioni su siti pedopornografici e che opera in coordinamento con altri organi ed uffici istituzionali e finanziari. Il Centro ha compiti informativi nei confronti della Presidenza del Consiglio, utili alla predisposizione del Piano nazionale di contrasto e prevenzione della pedofilia.
Va fatta menzione, infine, dell’intensa attività che la Commissione parlamentare per l'infanzia ha svolto nel corso della XIV legislatura (v. capitoli giustizia minorile, adozione e affidamento, abuso e sfruttamento dei minori, nel dossier relativo alla Commissione infanzia).
La legge 3 ottobre 2001, n. 366[101], ha conferito al Governo delega legislativa per la riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative, la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, nonché per l’adozione di nuove norme sulla procedura per la definizione dei procedimenti in materia societaria, bancaria e dell’intermediazione finanziaria.
La delega relativa alla riforma della disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali è stata separatamente esercitata con il decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61[102] (v. scheda Disciplina degli illeciti societari), entrato in vigore il 16 aprile 2002.
Il provvedimento ha sostituito interamente il titolo XI del libro V del codice civile (articoli da 2621 a 2642), contenente le disposizioni penali in materia di società e di consorzi, intervenendo a modificare fattispecie di reato in esso comprese, introducendone di nuove e prevedendo espressamente cause di non punibilità, di estinzione del reato e circostanze attenuanti in casi particolari.
La riforma del diritto penale societario appare riconducibile ad alcuni princìpi ispiratori: una forte esigenza deflativa dell’intervento penale; l’abbandono del modello del “pericolo presunto” nella configurazione delle fattispecie penali; l’introduzione della responsabilità amministrativa delle società, punita con sanzione pecuniaria, in caso di reato commesso nell’interesse della società da esponenti di essa o da persone sottoposte alla loro vigilanza; l’estensione delle qualifiche soggettive attraverso la formalizzazione della figura dell’amministratore di fatto; l’introduzione, per molti reati, della procedibilità a querela della persona offesa del reato; la previsione, in alcune ipotesi, della possibilità di estinguere il reato mediante il risarcimento del danno prima del giudizio o mediante il ripristino dello status quo ante, nonché di una speciale circostanza attenuante per fatti di particolare tenuità.
Con particolare riferimento al reato di false comunicazioni sociali, le novità più significative introdotte attengono alla previsione di due distinte fattispecie di reato – qualificate l’una come delitto, l’altra come contravvenzione – a seconda che la condotta illecita abbia o meno cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori; alla qualificazione dell’elemento psicologico del reato come dolo specifico; alla previsione di particolari requisiti di idoneità della condotta; all’accoglimento della cosiddetta clausola di minima rilevanza, anche attraverso la previsione di soglie quantitative.
Gli articoli 2621 e 2622 del codice civile, relativi alle false comunicazioni sociali, hanno subìto modifiche ad opera dell’articolo 30 della legge 28 dicembre 2005, n. 262[103](v. scheda Disciplina degli illeciti societari). Per quanto attiene alla fattispecie di false comunicazioni sociali, oltre ad un lieve innalzamento dell’ammontare massimo della pena detentiva irrogabile, vengono stabilite sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive applicabili nei casi in cui la punibilità sia esclusa in forza della minima rilevanza e delle soglie quantitative. Per quanto attiene alla fattispecie di false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori, viene invece disposto un consistente aumento di pena (reclusione da due a sei anni) nell’ipotesi in cui il fatto, posto in essere da una società quotata in borsa, abbia cagionato un grave nocumento ai risparmiatori, sulla base di parametri appositamente definiti. Anche per tale ipotesi vengono stabilite sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive applicabili nei casi in cui la punibilità sia esclusa in forza della minima rilevanza e delle soglie quantitative. È stata inoltre elevata la misura delle sanzioni previste dalla legislazione speciale in materia di vigilanza bancaria, assicurativa e finanziaria e sono state introdotte alcune nuove fattispecie sanzionate penalmente o in via amministrativa.
Per la parte relativa alla riforma della disciplina delle società, la delega è stata attuata con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6[104], entrato in vigore il 1° gennaio 2004[105].
La legge di delega richiedeva la semplificazione della disciplina delle società di capitali, l’ampliamento degli ambiti dell’autonomia statutaria, la previsione di modelli societari adeguati alle esigenze delle imprese – distintamente per la società a responsabilità limitata e la società per azioni o in accomandita per azioni – e la disciplina dei gruppi di società.
In particolare, per le società a responsabilità limitata, si richiedeva un’ampia autonomia statutaria con libertà di forme organizzative, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi, l’individuazione dei limiti oltre i quali è obbligatorio un controllo legale dei conti, la determinazione di condizioni e limiti per l’emissione e il collocamento di titoli di debito presso operatori qualificati, con divieto di appello diretto al pubblico risparmio e di sollecitazione all’investimento in quote di capitale. Le nuove norme hanno quindi accentuato l’elemento personale nella disciplina dell’istituto, attribuito più estesi spazi all’autonomia contrattuale circa la scelta degli amministratori, il metodo di amministrazione, le competenze rispettive di questi e dei soci. È stata introdotta la possibilità di emettere titoli di debito, che possono essere tuttavia sottoscritti soltanto da investitori professionali, con garanzia di solvenza a carico dell’intermediario nel caso di trasferimento a investitori non professionali.
Per le società per azioni si prevedevano un modello di base unitario e regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività nei casi di ricorso al mercato del capitale di rischio. In quest’ipotesi il controllo sull’amministrazione andava distinto dal controllo contabile, affidato a un revisore esterno. Era contemplata la possibilità di costituzione della società da parte di un unico socio, con adeguate garanzie per i creditori. Si prescriveva l’aumento della misura minima del capitale, consentendo la costituzione di patrimoni dedicati ad uno specifico affare separati giuridicamente e contabilmente dal patrimonio della società; accanto alle azioni, era prevista la possibilità di emettere strumenti finanziari non partecipativi e partecipativi dotati di diversi diritti patrimoniali e amministrativi; si stabiliva l’attenuazione o la rimozione dei limiti quantitativi all’emissione di obbligazioni. In materia di amministrazione e controllo, oltre all’estensione del controllo contabile, si prevedevano, accanto al modello tradizionale, i nuovi modelli dualistico e monistico.
Le norme di attuazione hanno comportato un’estesa rielaborazione della disciplina. Fra le disposizioni più innovative si richiamano la possibilità di emettere strumenti finanziari (che possono essere destinati anche ai dipendenti) forniti di diritti patrimoniali ovvero anche amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale; l’estensione dell’autonomia statutaria nel configurare i differenti diritti conferiti alle categorie di azioni; la regolamentazione dei patti parasociali aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto o di un’influenza dominante ovvero la limitazione del trasferimento delle azioni (fuori dei casi già contemplati dalla legislazione speciale per le società quotate). Circa la struttura delle società, la riforma ha introdotto, accanto al modello tradizionale, caratterizzato da un consiglio di amministrazione e un collegio sindacale), due nuovi modelli: 1) dualistico, con un consiglio di gestione, nominato dal consiglio di sorveglianza, a sua volta eletto dall’assemblea; 2) monistico, con un consiglio di amministrazione avente al proprio interno un comitato per il controllo sulla gestione, composto in maggioranza da amministratori indipendenti non esecutivi. Il controllo contabile è stato attribuito di norma a un revisore ovvero (obbligatoriamente in caso di ricorso al mercato del capitale di rischio) a una società di revisione, che debbono verificare anche la corretta rilevazione delle scritture contabili. Innovazioni sono state apportate anche in materia di gestione, di responsabilità degli amministratori e di legittimazione alla denunzia al tribunale in caso di irregolarità. Si è intervenuti, infine, in materia di emissione di obbligazioni aumentando il limite e regolando la cessione a investitori non professionali.
Per le società cooperative (esclusi i consorzi agrari, le banche popolari, le banche di credito cooperativo e gli istituti della cooperazione bancaria in genere), in relazione alla funzione sociale e allo scopo mutualistico di esse, si richiedeva la definizione della cooperazione costituzionalmente riconosciuta in rapporto alle caratteristiche di mutualità prevalente, riservando a questa l’applicazione delle disposizioni fiscali di carattere agevolativo (mentre gli altri benefìci spettano indistintamente a tutte le cooperative). Nel caso di cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente, era prevista una disciplina speciale riferita alla diversa qualità dei soci e degli strumenti emessi; la semplificazione dei procedimenti di trasformazione in società lucrativa, fermo l’obbligo di devolvere il patrimonio ai fondi mutualistici; l’estensione del controllo giudiziario. Era contemplata l’introduzione del gruppo cooperativo. La riforma – pur conservando un inquadramento normativo unitario per tutte le cooperative – ha quindi individuato il carattere della cooperazione costituzionalmente riconosciuta nella prevalenza quantitativa dell’attività mutualistica con i soci, fermo restando il requisito della non lucratività. Gli interventi hanno interessato la posizione dei soci, i modelli di amministrazione, la disciplina delle riserve, le ipotesi di perdita della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente e di volontaria trasformazione in società lucrativa o consorzio, nonché di insolvenza. Infine, è stata regolata la vigilanza sulle cooperative, introducendosi, accanto alla vigilanza amministrativa che rimane preminente, la possibilità di controllo giudiziario mediante denunzia dei soci al tribunale.
La riforma della disciplina del bilancio – oltre al chiarimento delle regole sulla formazione e utilizzazione delle poste del patrimonio netto e alla regolazione del trattamento di varie operazioni finanziarie (fra cui strumenti derivati, pronti contro termine, locazione finanziaria) – ha avuto ad oggetto l’eliminazione delle interferenze prodotte dalla normativa fiscale sul reddito d’impresa; l’impiego dei princìpi contabili internazionali per il bilancio consolidato; la determinazione dei casi in cui fossero ammessi uno schema abbreviato di bilancio e un conto economico semplificato.
In materia di trasformazioni, fusioni e scissioni si prevedeva la semplificazione dei procedimenti, con favore verso la trasformazione delle società di persone in società di capitali; regole specifiche erano richieste per le fusioni eterogenee e per quelle tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra.
L’accelerazione e la semplificazione delle procedure di scioglimento e liquidazione si accompagnava – nella legge di delega – alla previsione di condizioni, limiti e modalità per la conservazione dell’eventuale valore dell’impresa. A quest’effetto, le norme delegate, oltre a precisare il momento in cui hanno effetto le cause di scioglimento, hanno previsto la possibilità di un limitato esercizio dell’impresa sociale durante la liquidazione e ammesso la revoca dello stato di liquidazione.
La disciplina dei gruppi prevedeva princìpi di trasparenza per l’esercizio dell’attività di direzione e di coordinamento. Ciò ha condotto all’inserimento di nuove norme sulla responsabilità della società o ente che esercita la direzione o il coordinamento (anche in base a contratto o clausole statutarie), nei riguardi dei soci o dei creditori della società sottopostavi, per i danni derivanti dalla complessiva attività condotta in violazione dei princìpi di corretta gestione. Sono stati altresì introdotti obblighi di pubblicità e motivazione delle decisioni e cause specifiche di recesso.
Sono stati altresì conformati al nuovo contesto normativo i testi unici delle leggi in materia bancaria e creditizia (TUB) e delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF): specifici adeguamenti hanno riguardato in particolare la disciplina delle banche cooperative[106].
La già citata legge 28 dicembre 2005, n. 262, ha apportato ulteriori modificazioni alla disciplina delle società. È stato esteso al collegio sindacale o corrispondente organo di controllo il potere di promuovere l’azione sociale di responsabilità ed è stato ridotto a un quarantesimo del capitale il quorum per l’esercizio di essa da parte dei soci. È stato precisato il computo del limite per le emissioni obbligazionarie (e si è estesa la garanzia di solvenza dell’intermediario anche a prodotti finanziari diversi, se destinati in origine ai soli investitori professionali).
Per quanto riguarda in particolare le società con azioni quotate in mercati regolamentati, la disciplina del TUF è stata modificata prescrivendo fra l’altro che nell’organo amministrativo siedano almeno un amministratore di minoranza e – nei collegi di maggiori dimensioni – almeno un membro indipendente, che l’organo di controllo sia presieduto dal membro eletto dalla minoranza, e che la CONSOB determini limiti al cumulo degli incarichi per i sindaci o i membri dei corrispondenti organi di controllo, i cui poteri, anche individuali, sono stati accresciuti. Con disposizione per altro criticata sia in sede politica, sia dagli operatori e dalla dottrina è stato imposto il voto segreto per le elezioni alle cariche sociali. È stata introdotta la facoltà di integrazione dell’ordine del giorno dell’assemblea su richiesta di una minoranza di soci, ed è stata prevista una nuova figura di dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari. Una specifica disciplina regolerà poi l’informazione in materia di attribuzione di azioni a esponenti aziendali, dipendenti o collaboratori. Si è adottata una rigida disciplina per le società nazionali in rapporto di controllo o di collegamento con società aventi sede in Stati esteri che non garantiscono la trasparenza societaria. Infine, in materia di revisione dei conti, è stata rideterminata la durata massima dell’incarico della società e del responsabile della revisione; sono state stabilite più rigide fattispecie d’incompatibilità e rafforzati i poteri di vigilanza e sanzionatorî della CONSOB.
Nuove norme di procedura per le controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria nonché in materia bancaria ecreditizia sono state introdotte con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5[107](v. schedaIl nuovo processo societario), entrato in vigore il 1° gennaio 2004[108].
Il provvedimento, senza incidere formalmente sul codice di procedura civile, delinea una particolare procedura applicabile alle controversie citate che, pur ispirata in linea di massima alla disciplina codicistica, si caratterizza per speditezza e semplicità di forme. La nuova disciplina appare pertanto ispirata ai princìpi della concentrazione del procedimento e della riduzione dei termini processuali, anche mediante l’affidamento della prima parte del giudizio ordinario alla libera iniziativa delle parti che la gestiscono direttamente, senza l’intervento del giudice, definendo le questioni sulle quali esso viene chiamato a decidere. La competenza per materia è quasi sempre del tribunale in composizione collegiale mentre la competenza monocratica è prevista in casi eccezionali.
La fase introduttiva del processo si svolge mediante scambi diretti di scritture difensive che, attraverso l’assegnazione di termini per la replica della controparte, precisano le rispettive posizioni di diritto e di fatto. L’atto introduttivo mantiene la forma della citazione ma non ìndica la data dell’udienza, fissata dal giudice, su istanza della parte, con un decreto indicante le questioni di rito e di merito rilevabili d’ufficio e una pronunzia sull’ammissibilità delle prove.
Viene altresì introdotto nel sistema un vero e proprio “processo contumaciale”, vengono semplificate alcune forme di notifica degli atti ed è creato un procedimento sommario, per il pagamento di somme di denaro o di consegna di cose, in esito al quale il giudice può emettere un’ordinanza di condanna immediatamente esecutiva. Sono previste anche la facoltà di ricorrere a un provvedimento cautelare “anticipatorio” senza l’obbligo d’instaurare poi il giudizio di merito, e la possibilità che il provvedimento di merito consegua a un procedimento non impostato a priori come “giudizio di merito”.
Importanti sono anche gli interventi sull’arbitrato societario, che mirano ad incrementare il ricorso a tale forma di tutela, e sulla risoluzione della lite in via conciliativa.
La materia delle procedure concorsuali (disciplinate dal regio decreto 16 marzo 1942, n. 267), che, nelle precedenti legislature, non aveva subìto interventi di riforma organica, è stata significativamente innovata nel corso della XIV legislatura.
Alcune disposizioni urgenti, in ordine all’istituto della revocatoria e alle procedure di concordato preventivo, sono state dettate dall’articolo 2, commi 1, 2 e 2 bis, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35[109], convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 (v. scheda La novella alla legge fallimentare).
Quanto agli aspetti attinenti alla revocatoria, sono precisati i presupposti per l’esercizio dell’azione ed è inserito un regime di esenzioni. In materia di concordato preventivo, la novella modifica il titolo III del regio decreto n. 267 del 1942, aggiungendo il nuovo istituto degli “accordi di ristrutturazione”. In forza di tale nuovo istituto, al debitore è consentito di depositare un accordo raggiunto con i creditori che rappresentino almeno il 60 per cento dei crediti, allegandovi una relazione che garantisca l’attuabilità e l’idoneità dell’accordo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L’accordo diviene efficace trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione nel registro delle imprese qualora né i creditori né alcun altro interessato vi si oppongano. Il provvedimento sostituisce inoltre i requisiti di meritevolezza per l’accesso al concordato. La relativa domanda di accesso dev’essere corredata da una serie di atti e indicazioni da parte del debitore. Viene inoltre modificato il ruolo del tribunale nella fase di ammissione al concordato preventivo, ed è stabilita una nuova disciplina per l’approvazione del concordato da parte dei creditori e per la relativa procedura.
Nella citata legge di conversione è stata altresì inserita una delegalegislativa per la riforma dell’intera materia delle procedure concorsuali. I princìpi e criteri direttivi per la modifica della disciplina del fallimento prevedono fra l’altro che sia valorizzato il ruolo del comitato dei creditori, siano specificate le competenze professionali dei curatori, s’intervenga sulla disciplina dell’azione revocatoria, sia privilegiata la continuazione dell’esercizio dell’impresa, venga modificata la disciplina del concordato fallimentare e introdotto il nuovo l’istituto dell’esdebitazione; prescrivono l’abrogazione dell’amministrazione controllata; in favore dei crediti di rivalsa verso il cessionario previsti dalle norme relative all’imposta sul valore aggiunto, se relativi alla cessione di beni mobili, è conferito il privilegio sulla generalità dei mobili del debitore con lo stesso grado del privilegio generale di cui agli articoli 2752 e 2753 del codice civile, cui tuttavia è posposto.
Sulla base della citata norma di delega è stato quindi emanato il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5[110] (v. scheda La novella alla legge fallimentare) i cui principali profili di novità riguardano: l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto del fallimento; l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie relative; la valorizzazione del ruolo e dei poteri del curatore fallimentare e del comitato dei creditori (a fronte del ridimensionamento di quelli del giudice delegato); la conservazione delle componenti positive dell’impresa (beni produttivi e livelli occupazionali); l’introduzione della disciplina dell’esdebitazione, cioè la liberazione del debitore dai debiti residui nei confronti dei creditori in taluni casi di buona condotta; la riduzione delle ipotesi di incapacità del fallito allo scopo di agevolarne il reinserimento sociale.
La riforma, coerentemente con la normativa comunitaria, realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti, e riconduce al concordato preventivo la disciplina della transazione in sede fiscale per insolvenza o assoggettamento a procedure concorsuali.
L’articolo 16, della legge 12 dicembre 2002, n. 273, Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza ha delegato il Governo - entro sei mesi dalla data della sua entrata in vigore - all’istituzione con uno o più decreti legislativi, di sezioni dei tribunali specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale.
Finalità dell’intervento legislativo è stata quella di assicurare, in conformità delle previsioni dell’art. 91 del regolamento CE n. 40/1994 del Consiglio, una rapida definizione delle controversie in materia di marchi nazionali e comunitari, brevetti, modelli di utilità, disegni e modelli e diritto d’autore nonché di fattispecie di concorrenza sleale che interferiscano con la tutela della proprietà industriale e intellettuale.
L'articolo 91 del regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario obbligava gli Stati membri a istituire nei rispettivi territori un numero per quanto possibile ridotto di "tribunali dei marchi comunitari", ovvero tribunali nazionali di prima e di seconda istanza competenti in materia di contraffazione e validità dei marchi comunitari. Ogni Stato membro doveva comunicare alla Commissione entro tre anni dall'entrata in vigore del regolamento un elenco di tali tribunali con l'indicazione della loro denominazione e competenza territoriale .
Più precisamente, ai sensi dell’articolo 92 del citato regolamento comunitario, i tribunali dei marchi comunitari hanno competenza esclusiva:
§ per tutte le azioni in materia di contraffazione e – qualora siano previste dalla legislazione nazionale – per le azioni relative alla minaccia di contraffazione di marchi comunitari;
§ per azioni di accertamento di non contraffazione qualora siano previste dalla legislazione nazionale;
§ per tutte le azioni intentate in seguito ai fatti di cui all’articolo 9, paragrafo 3, seconda frase, vale a dire in relazione alla possibilità di richiedere un equo indennizzo per fatti posteriori alla pubblicazione di una domanda di marchio comunitario che, dopo la pubblicazione della registrazione del marchio, sarebbero vietati in virtù di detto marchio;
• per domande riconvenzionali di decadenza o di annullamento del marchio comunitario.
I principi di delega hanno precisato (comma 1):
§ che la trattazione delle controversie sulle materie indicate venisse attribuita a sezioni specializzate a composizione collegiale da istituire presso i tribunali distrettuali e le relative corti d’appello di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia);
§ che, nelle materie in oggetto, le competenze attribuita dalla legge ai presidenti dei tribunali e delle corti d’appello indicate fossero trasferite ai presidenti delle rispettive sezioni specializzate;
§ che venisse attribuita alle sezioni specializzate la pertinente competenza territoriale (tale competenza, stante il numero delle sezioni, risulta necessariamente allargata rispetto a quella originaria dei rispettivi uffici giudiziari).
Viene, inoltre, stabilito che sia l’istituzione delle sezioni specializzate che l’indicato trasferimento di competenze non avrebbe dovuto comportare né oneri aggiuntivi per il bilancio dello stato né incrementi di dotazioni organiche.
L’articolo 16, stabilendo l’adozione dei decreti delegati su proposta del Ministro della giustizia, previo concerto dei Ministri delle attività produttive e dell’economia e delle finanze (comma 2), concede al Governo una sorta di “delega in bianco” per l’adozione di una disciplina transitoria volta ad impedire che un eccessivo accumulo di controversie presso le neonate sezioni specializzate possa pregiudicarne l’efficace avvio (comma 3).
L’ultimo comma dell’articolo 16 (comma 4), autorizzava il Governo ad adottare, entro due anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi della delega, un ulteriore decreto legislativo volto a ridefinire la dislocazione delle sezioni specializzate in conseguenza della rideterminazione delle circoscrizioni territoriali degli uffici giudiziari . Per l’esercizio della delega si rinvia all’osservanza delle modalità e dei principi e criteri direttivi indicati nei commi 1 e 2.
Con il decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168[111] è stata data attuazione alla delega contenuta nell’art. 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 che prevedeva, in particolare, l’istituzione - presso un limitato numero di tribunali e corrispondenti corti d’appello - di sezioni specializzate (di primo e secondo grado) in materia di proprietà industriale e intellettuale.
Il legislatore delegante ha perciò rinunciato all’istituzione di sezioni specializzate sia in tutti i tribunali che in tutti i tribunali distrettuali.
All’istituzione delle sezioni specializzateprovvede l’articolo 1, che precisa come ciò dovrà avvenire senza alcun onere finanziario nè aumenti di dotazioni organiche; i tribunali distrettuali e le relative corti d’appello interessate all’istituzione delle sezioni, in accordo a quanto previsto dalla delega, sono quelle di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia.
L’articolo 2del decreto provvede alla definizione della composizione delle sezioni, che decidono in composizione collegiale; i giudici destinati a ciascuna sezione non possono essere comunque in numero inferiore a 6 (uno in più, quindi, del numero minimo di 5 previsto per le sezioni di tribunale dall’art. 46, comma 5, dell’ordinamento giudiziario, R.D. 12 del 1941), mentre saranno, invece, tre i magistrati componenti il collegio giudicante (comma 1).
Nella previsione di un avvio dell’attività in cui le sezioni specializzate - anche per quanto previsto in sede di disciplina transitoria (cfr. art. 6) - potrebbero ricevere limitati carichi di lavoro, viene concessa ai capi degli uffici giudiziari la possibilità di utilizzare i giudici delle sezioni anche per la trattazione di altri procedimenti, sempre che ciò non comporti ritardi nella definizione delle controversie in materia di proprietà industriale e intellettuale.
La competenza per materia delle sezioni specializzate è definita dall’articolo 3del provvedimento che ricalca quanto indicato dal comma 1 dell’art. 16 della legge delega, integrandolo con la previsione della competenza sui marchi internazionali; la competenza riguarda così le controversie relative a marchi nazionali, internazionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità, disegni e modelli e diritto d’autore nonchè fattispecie di concorrenza sleale che interferiscano con la tutela della proprietà industriale e intellettuale.
Mentre con l’articolo 4 viene individuata la competenza territoriale delle sezioni specializzate istituite dall’articolo 1 del decreto nei dodici tribunali distrettuali e nelle corrispondenti corti d’appello, l’articolo 5 precisa che le competenze del presidente del tribunale e della corte d’appello, nelle materie relative alla proprietà industriale e intellettuale indicate dall’art. 3, sono esercitate dal presidente della rispettiva sezione specializzata di primo e secondo grado.
L’articolo 6provvede all’introduzione di una specifica disciplina transitoria che mira a garantire un efficiente avvio del funzionamento delle nuove sezioni, non appesantendone i carichi di lavoro con le cause pendenti; tale disciplina prevede:
• la competenza del giudice previgente sulle controversie nelle materie relative alla proprietà industriale e intellettuale già pendenti al 30 giugno 2003.
• la competenza delle sezioni specializzate sulle nuove cause iscritte a ruolo a partire dal 1° luglio 2003;
L’articolo 7è, infine, relativo all’entrata in vigoredel provvedimento.
In tema di professioni la II Commissione, nel corso della XIV legislatura, ha portato a termine l’esame di alcuni provvedimenti diretti prevalentemente a soddisfare esigenze specifiche dei settori coinvolti.
Infatti, la proposta di riforma del diritto delle professioni intellettuali elaborata dalla Commissione presieduta dall’On.le Avv. Michele Vietti, istituita presso l’ufficio legislativo del Ministero della giustizia nel novembre 2002, e che nel febbraio 2003 ha concluso i suoi lavori presentando il testo definitivo elaborato, non è stata successivamente trasmessa ed esaminata dal Parlamento, anche a causa dell’intervenuta approvazione da parte delle Camere della Riforma della parte II della Costituzione che, tra l’altro, nella nuova formulazione dell’articolo 117, riserva allo Stato la disciplina dell’Ordinamento delle professioni intellettuali (non soltanto, quindi, come attualmente previsto, la determinazione dei principi fondamentali).
Per quanto attiene ai provvedimenti di riforma esaminati ed approvati dalla II Commissione, si procederà pertanto ad una disamina degli stessi a seconda delle professioni di volta in volta interessate.
Per quanto attiene alla professione di avvocato va ricordata la legge 18 luglio 2003, n. 180 che, convertendo il decreto legge del 21 maggio 2003, n. 112[112](v. scheda Disciplina della professione di avvocato), ha dettato disposizioni incidenti sulla disciplina dello svolgimento degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense.
Scopo dell’intervento normativo è stato quello di adottare iniziative in grado di assicurare una maggiore omogeneità degli esiti nonché un maggior rigore complessivo della prova d’esame poiché, come rilevato anche dalla relazione di accompagnamento del provvedimento e come emerso nel corso dei lavori preparatori, il numero di candidati promossi risultava notevolmente elevato, e la provenienza di essi appariva del tutto disomogenea, posto che talune sedi funzionano da veri e propri catalizzatori di praticanti, con percentuali di candidati promossi straordinariamente elevate rispetto al numero degli ammessi a sostenere l’esame, mentre in altre sedi si sono registrate percentuali molto ridotte di promossi, con conseguente disparità di trattamento. Vengono pertanto dettate disposizioni riguardanti il certificato di compiuta pratica, la disciplina del meccanismo del sorteggio nell’abbinamento tra le commissioni esaminatrici, l’inserimento del diritto comunitario tra le materie oggetto di prova orale, la previsione di situazioni di incompatibilità per i componenti delle commissioni esaminatrici, e disposizioni particolari concernenti l’esame di abilitazione presso la Corte di appello di Trento. Nel corso dell’esame del provvedimento presso la commissione sono state acquisite informalmente anche le valutazioni delle categorie interessate: sono infatti state svolte audizioni informali dei rappresentanti del Consiglio nazionale forense, dell’Organismo unitario dell’avvocatura italiana, dell’associazione italiana giovani avvocati e dell’Associazione nazionale praticanti e avvocati.
Attiene invece all’introduzione dell’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato con l’esercizio di lavoro pubblico dipendente la legge 25 novembre 2003, n. 339[113](v. scheda Disciplina della professione di avvocato), che disciplina anche la facoltà di opzione concessa al dipendente pubblico part-time. In proposito va ricordato che una proposta di legge (A.C. 5943) presentata ed esaminata successivamente dalla commissione giustizia, ma non divenuta legge, prevedeva una diversa disciplina transitoria.
In tema di professione notarile va ricordata l’emanazione di tre decreti legislativi(v. scheda Disciplina della professione di notaio) - di cui due non ancora pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale - sulla base della delega di cui all’articolo 7 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’ano 2005) che ha conferito al Governo il potere di adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto e la codificazione delle disposizioni vigenti in materia di ordinamento del notariato e degli archivi notarili. I provvedimenti adottati concernono l’accesso alla professione di notaio, con nuove disposizioni concernenti il periodo di pratica prescritto, le modalità di svolgimento del concorso, i limiti di ammissibilità allo stesso e le modalità di valutazione complessiva dei candidati, la revisione dell’ordinamento disciplinare con profonde ed importanti modifiche concernenti la configurazione degli illeciti disciplinari, le sanzioni applicabili, gli organi che intervengono nel relativo procedimento, la disciplina di quest’ultimo e, infine, l’istituzione di una particolare copertura assicurativa per i danni causati dagli errori professionali dei notai, predisposta dal consiglio nazionale del notariato ed a carico del medesimo.
Per quanto riguarda la professione di commercialista, va ricordata l’emanazione della legge 24 febbraio 2005, n. 34[114], del decreto legislativo 28 giugno 2005, n. 139[115] e del decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 28[116](v. scheda Unificazione delle professioni contabili).
nserendosiin un progetto di armonizzazione normativa di tutte quelle professioni che hanno competenze identiche e simili, nell’ambito di un quadro legislativo e regolamentare in rapida evoluzione che, ponendosi nel solco del riferimento comunitario prende le mosse dalla recente riforma universitaria, la legge 34/2005 delega il Governo a realizzare l’unificazione degli Ordini professionali dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali (attualmente disciplinati rispettivamente dal D.P.R. n. 1067/1953 e dal D.P.R. 1068/1953), delle rispettive Casse di previdenza e assistenza, e ad attribuire, al nuovo ordine professionale, competenze sul registro dei revisori contabili (disciplinato dal Decreto legislativo n. 88/1992). Anche in relazione a tale provvedimento, nel corso dell’esame del disegno di legge (A.C. 3744) presso la commissione, si sono svolte audizioni informali dei rappresentanti del Consiglio universitario nazionale, dell’Associazione nazionale revisori contabili, dell’Unione nazionale giovani ragionieri commercialisti, dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti, della Libera associazione periti ed esperti e dell’Associazione giovani dottori commercialisti.
Con l’emanazione del decreto legislativo 139/2005, il Governo ha poi provveduto a disciplinare nel dettaglio gli aspetti relativi all’unificazione degli Ordini, mediante un atto normativo “onnicomprensivo”che riscrive per intero l’ordinamento professionale della categoria, assorbendo e disciplinando tutti gli ambiti e le materie già oggetto degli attuali ordinamenti professionali dei ragionieri e dei dottori commercialisti. Con il decreto legislativo 28/2006, è stata poi disciplinata l’attribuzione all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di competenze sul registro dei revisori contabili.
Infine, di portata più generale, in relazione alla vigente formulazione dell’articolo 117 della Costituzione che annovera le professioni tra le materie di legislazione concorrente, va ricordata l’emanazione del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30[117] (v. scheda Professioni: i principi fondamentali) che, adottato in attuazione della delega contenuta nell’articolo 1, della Legge n. 131 del 5 giugno 2003, recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n.3” (c.d. legge La Loggia), individua i principi fondamentali che si desumono dalle leggi vigenti in materia di professioni regolamentate, riproducendo parzialmente alcuni degli spunti desumibili dal progetto elaborato dalla Commissione Vietti, e stabilendo contestualmente l’esclusione di alcune materie dall’ambito di applicazione del decreto.
La legge 28 marzo 2002, n. 44[118] appare, certamente, come uno degli interventi più significativi della prima parte della XIV legislatura.
Infatti, la novella introdotta alla legge 24 marzo 1958, n. 195, Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura, ha inciso fortemente sulla composizione numerica del CSM e sul meccanismo elettorale della sua componente togata, pur lasciando pressoché inalterate le attribuzioni ed il funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura.
Le novità di maggior rilievo apportate dalla legge possono essere individuate nei seguenti punti:
§ modifica della composizione numerica del Consiglio superiore della magistratura i cui componenti elettivi passano da 30 a 24; in particolare i membri togati si riducono da 20 a 16 mentre quelli laici passano da 10 a 8;
§ modifica del meccanismo elettorale, che si avvale ora di collegi unici nazionali, per ciascuna categoria di magistrati eleggibili;
§ suddivisione dell'elettorato passivo in tre categorie: magistrati che esercitano funzioni di legittimità (2), magistrati di merito che esercitano funzioni giudicanti (10); magistrati di merito che esercitano funzioni requirenti (4);
§ possibilità di esprimere preferenza per uno solo dei candidati togati che si presentano in ciascuno dei tre collegi unici nazionali.
Le nuove disposizioni, entrate in vigore il 30 marzo 2002, hanno regolato le ultime elezioni del CSM, svoltesi il 30 giugno ed il 1° luglio dello stesso anno.
Il Consiglio superiore della magistratura è l'organo di governo autonomo della magistratura ordinaria cui competono, come previsto dalla Costituzione, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari da adottare nei confronti dei magistrati
L'articolo 104 della Costituzione nel delineare la struttura del CSM, che è presieduto dal Capo dello Stato, indica i soggetti che ne fanno parte senza precisazioni numeriche ma fissando una proporzione tra gli appartenenti alle singole categorie, e indicando quali componenti di diritto il primo presidente della Corte suprema di cassazione e il Procuratore generale presso la stessa Corte, oltre naturalmente al Presidente della Repubblica.
Il rapporto tra componenti eletti dai magistrati - cosiddetti togati - e componenti eletti dal Parlamento - cosiddetti laici - rispetto all'insieme, è così fissato in due terzi e un terzo.
La durata in carica dei membri elettivi del Consiglio è prevista direttamente dalla Costituzione, che la fissa in quattro anni ponendo il divieto di immediata rieleggibilità (art. 104 Cost.).
Il combinato disposto costituito dagli articoli 104 e 108 della Costituzione (che demanda alla sola legge l’introduzione di norme in materia di ordinamento giudiziario e su ogni magistratura) pone, quindi, in evidenza come sia demandata alla fonte normativa primaria la specificazione del sistema elettorale e la determinazione del numero complessivo dei componenti il Consiglio, rispetto cui deve operare la suddetta proporzione. La legge ordinaria, da ultimo, aveva fissato nel numero di venti i componenti togati elettivi e in numero di dieci i componenti laici elettivi.
L'attuale plenum del CSM è quindi composto da 27 membri:
§ il Capo dello Stato che lo presiede, il primo presidente della Corte di cassazione e il Procuratore generale della Corte di cassazione, componenti di diritto;
§ 8 componenti eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori universitari ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo 15 anni di esercizio della professione forense;
§ 16 componenti eletti dai magistrati.
Per quanto riguarda, nello specifico, l’articolato della legge, l’articolo 1 del provvedimento, modificando l’articolo 1 della legge 195/1958, riduce da 30 a 24 il numero totale dei componenti elettivi del CSM: è infatti ridotto da 20 a 16 il numero dei componenti magistrati e da 10 a 8 quello dei membri di nomina parlamentare.
La modifica introdotta all’art. 4 della stessa legge 195 dall’articolo 2 . riguarda la riduzione della composizione numerica della sezione disciplinare del Consiglio ed appare diretta conseguenza della riduzione del numero globale dei componenti del CSM.
§ il numero dei membri effettivi della sezione disciplinare è ridotto da 9 a 6; i membri effettivi saranno:
- il confermato vicepresidente del CSM (membro di diritto);
- un membro laico (anziché due) cui sono conservate le funzioni di presidente in sostituzione del vicepresidente del CSM;
- un giudice di cassazione (confermato) con esercizio effettivo delle funzioni di legittimità;
- 2 giudici presso uffici di merito e 1 magistrato del pubblico ministero che esercita presso uffici di merito (anziché 5 magistrati di merito);
§ il numero dei membri supplenti è ridotto da 6 a 4:
- un giudice di cassazione (confermato) con esercizio effettivo delle funzioni di legittimità;
- 1 giudice di merito (anziché 3), 1 magistrato del pubblico ministero presso uffici di merito;
- un membro laico (anziché 2).
L’abrogazione del quinto comma dell’art. 4 della legge 195 (lett. d) appare dettata in funzione di coordinamento con la riduzione da due ad uno dei membri laici effettivi.
Il successivo articolo 3 modifica, in conseguenza di quanto già disposto, l’art. 5 della legge 195 relativo al quorum per la validità delle deliberazioni prese dal Consiglio.
Il previgente art. 5 della legge 195/1958 stabiliva che per la validità delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura fosse necessaria la presenza di almeno quattordici magistrati e di almeno sette componenti eletti dal Parlamento.
Tali decisioni saranno valide in quanto adottate con la presenza di almeno 10 membri componenti del C.S.M., di cui 5 di nomina parlamentare.
L’articolo 4 della legge 44/2002 interviene in materia di deliberazioni della sezione disciplinare. Mentre le modifiche apportate al primo e secondo comma dell’art. 6 della legge 195 (lett. a e b dell’art. 5) hanno natura di coordinamento con la riduzione del numero dei componenti della sezione disciplinare, la disposizione aggiuntiva ha un effettivo valore aggiunto.
La nuova norma, oltre a sancire normativamente l’attuale prassidella validità delle delibere della sezione in quanto adottate a maggioranza (semplice) dei voti[119], prevede, in caso di parità di voti il prevalere della soluzione più favorevole al magistrato sottoposto a procedimento.
L’articolo 5 del provvedimento sostituisce l’art. 23 della legge 195 relativo alle modalità dell’elezione dei membri togati del C.S.M.
Ai sensi del previgente art. 23 della legge 195/1958, i venti componenti del CSM eletti dai magistrati erano scelti:
- 2 tra i magistrati di Cassazione con effettivo esercizio delle funzioni di legittimità;
- 18 tra i magistrati che esercitano funzioni di merito.
All'elezione partecipavano tutti i magistrati con voto personale, segreto e diretto, compresi gli uditori giudiziari cui erano state conferite le funzioni giurisdizionali ed abbiano già preso possesso dell'ufficio di destinazione.
Dall’art. 23 sono anzitutto espunte le disposizioni, ora incompatibili con la nuova disciplina, sulla composizione del C.S.M. nonché quelle sull’elettorato attivo e passivo, oggetto di globale disciplina al successivo art. 6 della legge. (nuovo art. 24 della legge 195).
Sono invece introdotte, modificate, le disposizioni relative al sistema di elezione dei componenti magistrati per collegi nazionali, prima contenute nell’art. 25, primo comma, della legge 195.
L’art. 25, primo comma, della legge 195/1958 prevedeva che le elezioni dei magistrati si effettuassero:
a) in un collegio nazionale per l'elezione di due magistrati della Corte di cassazione con effettivo esercizio delle funzioni di legittimità:
b) in quattro collegi territoriali costituiti a norma degli articoli 24-bis e 24-ter.
L’articolo 5 della legge prevede che i 16 magistrati componenti del C.S.M. sono eletti in tre distinti collegi unici nazionali:
§ il primo elegge 2 membri tra i magistrati che esercitano funzioni di legittimità presso la Corte di cassazione e la sua procura generale;
· il secondo elegge 4 membri tra i magistrati che esercitano funzioni di P.M. presso gli uffici di merito, presso la Direzione Nazionale Antimafia ovvero tra i magistrati di appello destinati (per esigenze di servizio) alla Procura generale presso la Corte di cassazione ex art. 115 dell’ordinamento giudiziario;
· il terzo elegge i rimanenti 10 membri tra i magistrati esercenti funzioni di giudice di merito e tra i magistrati di appello e di tribunale destinati (per esigenze di servizio) alla Corte di cassazione ex art. 115 dell’ordinamento giudiziario.
Come accennato, le disposizioni in materia di elettorato attivo e passivo prima contenute in norme diverse (art. 23, 23-bis e 24) sono ora riunite nell’art. 24 della legge 195/1958. L’articolo 6 del provvedimento, sostituendo il vigente articolo 24 della citata legge n. 195, prevede:
§ l’elettorato attivo in favore di tutti i magistrati e degli uditori con funzioni (al momento della convocazione delle elezioni, termine a quo ora non stabilito); va osservato come la disciplina previgente (art. 23, legge 195) escludeva dal voto gli uditori con funzioni giudiziarie che non avessero preso possesso dell'ufficio di destinazione; sono esclusi dal voto i magistrati sospesi dall’esercizio delle funzioni (per l’avvio dell’azione disciplinare o in quanto sottoposti a procedimentopenale, artt. 30 e 31 O.G.);
§ l’ineleggibilità al C.S.M. (da valutare al momento della convocazione delle elezioni):
- dei magistrati sospesi dalle funzioni ex artt. 30 e 31 O.G.;
- degli uditori giudiziari e dei magistrati di tribunale con meno di 3 anni di anzianità;
La restante disciplina conferma quella ulteriore attualmente vigente, con la previsione dell’ineleggibilità:
- dei magistrati puniti con sanzione più grave dell’ammonimento (esclusa la censura)[120] da meno di 10 anni ed incorsi in recidiva disciplinare;
- dei magistrati che siano stati addetti all'ufficio studi o alla segreteria del CSM da rinnovare;
- dei magistrati già membri del C.S.M. in scadenza.
Gli articoli 7 e 8 della legge 44/2002. sostituiscono gli artt. 25 e 26 della legge 195, ivi proponendo una nuova disciplina del meccanismo elettorale (prima contenuta negli artt. 26 e 27 della legge 195). Tali disposizioni, con la diminuzione del numero dei componenti del Consiglio, costituiscono il tema centrale della riforma introsotta.
In sostanza, le fasi procedurali previste dal nuovo meccanismo di elezione dei membri togati del C.S.M. passano attraverso i seguenti momenti (articolo 7):
§ convocazione delle elezioni entro 60 gg. dalla data di votazione;
§ nomina nei 5 gg. successivi da parte del CSM dei sei membri (tre effettivi e tre supplenti) dell’ufficio elettorale centrale presso la corte di cassazione;
§ presentazione a detto ufficio delle candidature entro 20 gg. dalla convocazione delle elezioni; i magistrati presentatori (minimo 25 e che non possono candidarsi) possono presentare una sola candidatura per ognuno dei tre collegi nazionali;
§ accertamento da parte dell’ufficio elettorale, nei 5 gg. successivi alla scadenza del termine indicato, della verifica delle condizioni di eleggibilità del magistrato (funzioni svolte, incompatibilità, presentazioni plurime, sottoscrizione dei presentatori, ecc) e successiva trasmissione delle candidature alla segreteria del CSM (possibile gravame in cassazione contro le esclusioni)[121];
§ pubblicazione immediata sul Notiziario del C.S.M. dell’elenco dei candidati per ognuno dei tre collegi nazionali e trasmissione dell’elenco a tutti gli uffici giudiziari (affissione dell’elenco 20 gg. prima della votazione);
§ costituzione entro gli stessi 20 gg presso il C.S.M. di una commissione centrale elettorale (5 magistrati effettivi e 2 supplenti) con funzioni di scrutinio delle schede e assegnazione dei seggi;
§ costituzione, a cura dei Consigli giudiziari, di un seggio elettorale (5 magistrati effettivi e 3 supplenti) presso ogni tribunale distrettuale.
Ulteriori disposizioni specificano il luogo di votazione delle diverse categorie di magistrati (tribunale di appartenenza territoriale, tribunale di Roma, corte di cassazione).
I nuovi articoli 26 e 27 della legge 195/1958, introdotti dagli articoli 8 e 9 della legge, disciplinano le operazioni di voto, lo scrutinio e l’assegnazione dei seggi.
Le relative fasi della procedura sono in sintesi le seguenti:
§ consegna ad ogni elettore di 3 schede, una per collegio nazionale;
§ espressione di un voto singolo su ciascuna scheda;
§ al termine delle votazioni (che debbono svolgersi in un tempo minimo di 18 ore), trasmissione alla commissione elettorale presso il C.S.M. delle schede, divise per collegio, da parte dei seggi elettorali distrettuali e dell’ufficio centrale presso la cassazione;
§ scrutinio, per collegio, da parte della commissione centrale elettorale del C.S.M., determinazione del totale dei voti validi e del totale delle preferenze ottenute da ogni candidato;
§ dichiarazione - numero pari ai seggi da assegnare - dell’elezione dei candidati che abbiano ottenuto più voti in ognuno dei 3 collegi unici nazionali (ovvero i 2 magistrati di cassazione più votati nel primo collegio; i 4 pubblici ministeri più votati nel secondo; i 10 giudici di merito più votati nel terzo).
In caso di elezioni suppletive per mancata assegnazione di tutti i seggi nei collegi (entro un mese), il C.S.M. potrà svolgere le sue funzioni con la presenza di 12 componenti (8 togati e 4 laici).
Mentre sulle contestazioni (articolo 10) sorte nel corso delle votazioni, decidono a maggioranza i seggi elettorali distrettuali e l’ufficio elettorale presso la cassazione, quelle sulla validità delle schede sono analogamente decise dalla commissione elettorale centrale presso il Consiglio superiore della magistratura.
Il previgente art. 28 della legge 195/1958 prevedeva che sulle contestazioni sorte durante le operazioni di voto decide a maggioranza l’ufficio elettorale.
L'ufficio competente allo scrutinio provvedeva a maggioranza circa le contestazioni sulla validità delle schede. Delle contestazioni e delle decisioni relative era dato atto nel verbale delle operazioni elettorali.
Il successivo articolo 11 della legge 44/2002 ridisciplina le ipotesi di sostituzione di componenti togati del C.S.M. con una nuova formulazione dell’art. 39 della legge 195.
La norma ricalca la disposizione previgente (adeguandola alla scomparsa delle liste contrapposte) stabilendo la sostituzione del membro cessato anticipatamente dalla carica con quello che lo segue per numero di preferenze nel collegio.
Una novità ulteriore è invece contenuta nel successivo periodo della disposizione che dispone, nell’impossibilità di sostituzione col metodo indicato, l’obbligo di indire entro un mese elezioni suppletive per l’assegnazione del seggio vacante (prima previste solo come ipotesi residuale ex art- 39, comma 4, legge 195/1958).
L’articolo 12 del provvedimento è norma di coordinamento con l’introduzione della nuova disciplina, poiché dispone le abrogazioni delle disposizioni incompatibili contenute nella legge 195/1958.
L’articolo 13 sostituisce il secondo comma dell’art. 30 delle disposizioni di attuazione e di coordinamento delle legge 195/1958 (DPR 916/1958)[122] relativo al collocamento fuori ruolo dei magistrati componenti elettivi del C.S.M.
Il previgente art. 30 del DPR 916/1958 stabiliva che i magistrati componenti del Consiglio superiore continuavano a esercitare le loro funzioni negli uffici giudiziari di appartenenza.
I componenti elettivi erano collocati fuori del ruolo organico della magistratura. Alla cessazione della carica il Consiglio superiore della magistratura disponeva il rientro in ruolo dei magistrati nell'ufficio di provenienza, eventualmente anche in soprannumero, ovvero in altro ufficio per il quale avessero espresso la disponibilità.
La norma introduce alcune limitazioni allo status giuridico e di servizio del magistrato membro cessato del Consiglio superiore:
In particolare è ora prevista l’impossibilità per tali magistrati:
§ di essere nominati a funzioni direttive o semidirettive diverse da quelle già ricoperte prima che siano trascorsi 2 anni dalla data di cessazione dall’incarico;
§ di essere nuovamente collocato fuori ruolo.
Viene precisato che tale disciplina non si applica ai membri togati che abbiano fatto parte del C.S.M. prima dell’entrata in vigore della legge 44/2002.
L’articolo 14 ha previsto l’adozione con regolamento esecutivo delle disposizioni attuative e di coordinamento della disciplina in esame (il regolamento è, poi, stato emanato con DPR 16 aprile 2002, n. 67).
Viene, inoltre, disciplinata l’ipotesi di elezioni successive alla vigenza della riforma in esame da tenersi prima della scadenza del termine di tre mesi (dallo scadere del precedente C.S.M.) previsto dall’art. 21 della legge 195/1958. In tal caso, quest’ultimo termine è prorogato di non oltre 60 giorni.
L’articolo 15 precisa che la disciplina introdotta dalla legge 44/2002 non si applica al CSM in carica al momento della sua entrata in vigore, stabilita dal successivo articolo 16.
La legge 25 luglio 2005, n. 150[123] di delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario prevede 14 deleghe al Governo e una serie di norme direttamente applicabili.
Il provvedimento, presentato dal Governo il 29 marzo 2002, era stato approvato in prima lettura dall’Assemblea del Senato il 21 gennaio 2004 e, con modificazioni, dall’Aula della Camera dei deputati il successivo 30 giugno.
Dopo essere stato nuovamente licenziato, con ulteriori modificazioni, dall’Aula del Senato nel corso della seduta del 10 novembre 2004, il disegno di legge delega veniva definitivamente approvato dall’Assemblea della Camera nel corso della seduta del 1° dicembre 2004.
Il successivo 16 dicembre, tuttavia, il provvedimento è stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione, ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione.
Accolti i rilevi presidenziali, la legge delega è stata definitivamente approvata il 20 luglio 2005.
Il messaggio del Capo dello Stato ha riguardato i seguenti profili del provvedimento:
§ il sistema dei concorsi delineato dal disegno di legge delega per il passaggio dalle funzioni giudicanti alle requirenti (e viceversa), per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, per l’accesso alle funzioni di appello e di legittimità: ad avviso del Presidente della Repubblica il suddetto sistema “sottopone sostanzialmente il CSM a un regime di vincolo che ne riduce notevolmente i poteri definiti nell’ (…) articolo 105 della Costituzione”: si tratta dei poteri relativi ad “assegnazioni e promozioni” che risulterebbero “sensibilmente ridimensionati” soprattutto “nell’ipotesi in cui i candidati siano stati esclusi nell’ambito delle predette procedure. Infatti, allorché manchino il favorevole giudizio conseguito presso la Scuola superiore o la positiva valutazione nel concorso da parte della commissione, il Consiglio non può neppure prendere in considerazione la posizione del candidato escluso”, dichiarato, cioè, non idoneo;
§ la previsione di cui all’art. 2 comma 29 lettera a) in virtù della quale “entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso”: ad avviso del Presidente la norma “configura un potere di indirizzo in capo al Ministro che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo ed indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato”;
§ egualmente in contrasto con i suddetti principi sarebbe la previsione di cui all’art. 2, comma 14 lettera c) che, affidando a strutture del Ministero della giustizia il monitoraggio dell’esito dei procedimenti giudiziali, esulerebbe dalla organizzazione e dal funzionamento dei servizi relativi alla giustizia che, ai sensi dell’articolo 110 Cost. “costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del ministro”;
§ la previsione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera m), in base alla quale il Ministro è “legittimato a ricorrere in sede di giustizia amministrativa contro le decisioni del CSM concernenti il conferimento di incarichi direttivi adottate in contrasto con il concerto e con il parere previsto al n. 3)”: tale previsione contrasta, secondo il Presidente, con l’art. 134 della Costituzione che attribuisce alla Corte costituzionale e non al giudice amministrativo il potere di giudicare sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Nel messaggio del Capo dello Stato viene citata la sentenza n. 380 del 2003 della Corte costituzionale ad avviso della quale “gli articoli 105 e 110 della Costituzione disegnano un sistema di precisa ripartizione delle autonome sfere di competenza del Consiglio superiore e del Ministro, tale che questi non ha un generale potere di sindacato intrinseco, né tanto meno di riesame, sul contenuto degli apprezzamenti e scelte discrezionali operate dal Consiglio superiore della magistratura rispetto a valutazioni attribuite alla definitiva deliberazione del Consiglio stesso. Ne consegue che in tema di conferimento o di proroga degli incarichi direttivi, il rapporto tra Consiglio e Ministro implica soltanto un vincolo di metodo” che “impedisce il ricorso agli ordinari mezzi di impugnazione. In caso contrario –prosegue il messaggio- il Ministro assumerebbe il ruolo di titolare di un interesse legittimo contrapposto a quello del Consiglio superiore, parificabile a quello del controinteressato che si dolga di essere stato escluso”.
La legge, entrata in vigore il 30 luglio 2005, contiene previsioni completamente innovative, nonché disposizioni di modifica della normativa vigente nelle rispettive materie.
Entro un anno dalla citata data di entrata in vigore della legge è stata fissata l’adozione di uno o più decreti legislativi diretti a (art. 1, comma 1):
§ modificare la disciplina per l'accesso in magistratura, nonché la disciplina della progressione economica e delle funzioni dei magistrati, e individuare le competenze dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari.
Per quanto concerne l’accesso, si prevede un unico concorso annuale sia per le funzioni giudicanti che requirenti; il candidato al momento della domanda indica la propria preferenza per una delle due funzioni.
E’ introdotta la separazione delle funzioni rendendo possibile il passaggio da giudice a PM e viceversa solo entro il 5° anno dall'ingresso in magistratura; successivamente la scelta fatta è irreversibile.
La progressione economica è di norma automatica, essendo legata all'anzianità di servizio; tuttavia può essere accelerata attraverso il superamento dei concorsi per la progressione in carriera, ovvero ritardata per coloro che, non avendo effettuato i predetti concorsi, non ottengano nemmeno l'idoneità da parte del CSM nelle verifiche obbligatorie al compimento del 13°, 20° e 28° anno dall'ingresso in magistratura.
In relazione alla progressione in carriera:
- si può restare ad esercitare funzioni di 1° grado per tutta la carriera, senza fare alcun concorso; in tal caso, si è obbligatoriamente sottoposti ad una valutazione periodica di professionalità da parte del CSM al compimento del 13°, 20° e 28° anno dall'ingresso in magistratura;
- le funzioni di 2° grado possono ottenersi, alternativamente, o dopo 8 anni dall'ingresso in magistratura, previo concorso per titoli ed esami, o dopo 13 anni previo concorso per soli titoli;
- le funzioni di legittimità possono ottenersi dopo 18 anni dall'ingresso in magistratura, previo concorso per titoli ed esami per coloro che non abbiano avuto le funzioni di appello; dopo 16 anni dall'ingresso in magistratura, sempre previo concorso per titoli, per coloro che hanno avuto le funzioni di appello a 13 anni; dopo 11 anni dall'ingresso in magistratura, previo concorso per titoli da coloro che hanno avuto le funzioni di appello da 8 anni;
- per ottenere, attraverso un concorso per titoli, le funzioni semidirettive o direttive di 1° e di 2° grado occorre avere superato il concorso per le funzioni di appello. In tal caso, dopo 3 anni di esercizio di funzioni di 2° grado si possono ottenere funzioni semidirettive di primo grado; dopo 5 anni si possono ottenere quelle direttive di 1° grado; dopo 6 anni si possono ottenere funzioni semidirettive di secondo grado; dopo 8 anni si possono ottenere le funzioni direttive di 1° grado elevato;
- per ottenere, attraverso un concorso per titoli, le funzioni direttive di 2° grado o quelle direttive e direttive superiori di legittimità occorre avere superato il concorso per le funzioni di legittimità; in tal caso, dopo 4 anni si possono ottenere quelle direttive di legittimità; dopo 5 anni si possono ottenere funzioni direttive di secondo grado;
- l'accesso alle funzioni direttive superiori di legittimità è riservato, previo concorso, a coloro che esercitano le funzioni direttive di legittimità.
§ istituire la Scuola superiore della magistratura, razionalizzare la normativa in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, nonché in tema di aggiornamento professionale e formazione dei magistrati;
Viene istituita la Scuola della magistratura, ente autonomo con il compito di curare il tirocinio dei magistrati appena assunti e di l'aggiornamento professionale dei magistrati nel corso della carriera.
Composta da rappresentanti della magistratura, del ceto accademico, di quello forense e di un rappresentante del Ministro della Giustizia, essa ha il compito di stabilire ed attuare i programmi didattici e di valutare i partecipanti ai corsi al termine della loro effettuazione, esprimendo un giudizio finale.
Tale giudizio deve essere obbligatoriamente positivo per consentire al magistrato di partecipare ai corsi per la progressione in carriera, mentre è comunque acquisito dal CSM per le valutazioni di competenza ad altri fini sul singolo magistrato.
§ disciplinare la composizione, le competenze e la durata in carica dei Consigli giudiziari, nonché istituire il Consiglio direttivo della Corte di cassazione
Si prevede l'istituzione di un Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, con il compito di effettuare valutazioni sui magistrati che esercitano funzioni di legittimità, nonché la riforma della composizione dei consigli giudiziari, con l'introduzione di 2 rappresentanti delle regioni distrettualmente competenti.
Si attua, infine, un decentramento dei Consigli sui base territoriale.
§ riorganizzare l'ufficio del pubblico ministero.
La riforma delle Procure prevede che sia solo il Procuratore capo ad essere titolare esclusivo dell'esercizio dell'azione penale: i procuratori aggiunti possono da lui essere delegati alla trattazione di uno o più affari specificamente identificati.
É il procuratore capo a rispondere dell'andamento del suo ufficio, e al contempo gli sono forniti strumenti attuativi di tale responsabilità: si prevede che egli possa operare attraverso l'identificazione di criteri per l'organizzazione della Procura, delegare singoli atti e determinare i criteri cui i pubblici ministeri dell'ufficio debbano attenersi per eseguire la delega conferita, con possibilità di revoca della stessa in caso di ingiustificata divergenza dai medesimi.
Parimenti, il procuratore capo deve vistare tutte le richieste di misure cautelari personali o reali, salve le ipotesi di arresto, fermo o sequestro.
Al procuratore capo spetta l'esclusiva competenza di tenere i rapporti con i mezzi di informazione.
§ modificare l'organico della Corte di cassazione e la disciplina relativa ai magistrati applicati presso la medesima;
Si prevede la riforma dei criteri che regolano la designazione di magistrati di merito allo svolgimento delle proprie funzioni presso l'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.
In particolare, viene soppressa la figura del magistrato di appello destinato alla Corte, che assume le funzioni di cassazione, e si potenzia l'Ufficio del Massimario attraverso l'incremento della dotazione organica di magistrati di tribunale destinati a tale funzione
§ individuare le fattispecie tipiche di illecito disciplinare dei magistrati, le relative sanzioni e la procedura per la loro applicazione, nonché modificare la disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento d'ufficio
Si prevede la tipizzazione delle fattispecie di illecito disciplinare del magistrato, attraverso l'identificazione delle condotte, sia nello svolgimento del servizio che al di fuori di esso, che possono determinare la responsabilità del magistrato.
Si attua, inoltre, una parametrazione della sanzione alla condotta, attraverso un meccanismo che garantisce la proporzione tra l'una e l'altra, così da determinare un verso e proprio codice disciplinare dei magistrati.
Si prevede la riforma del procedimento disciplinare, caratterizzata dalla obbligatorietà dell'esercizio dell'azione per il procuratore generale della Corte di Cassazione che esercita le funzioni di pubblico ministero nel relativo procedimento e nell'eventuale successivo processo (a fronte della facoltatività dell'analogo esercizio dell'azione per il Ministro della Giustizia), e dall'applicabilità al rito delle disposizioni del nuovo codice di procedura penale
§ prevedere forme di pubblicità degli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati di ogni ordine e grado
In particolare, il CSM, semestralmente dovrà rendere noto l’elenco degli incarichi autorizzati, informando della durata, dei compensi e degli incarichi pregressi dell’ultimo triennio, mediante pubblicità nei bollettini periodici del Consiglio; analoghe regole sono dettate per i magistrati amministrativi, militari, contabili e per gli avvocati dello Stato.
§ attuare su base regionale il decentramento del Ministero della giustizia (art. 2, comma 12).
Si prevede che alcune funzioni relative all'organizzazione dei servizi giudiziari del Ministero della Giustizia vengano decentrate sul territorio attraverso l'istituzione di direzioni generali con sede locale e competenza regionale o interregionale. É prevista, inoltre, l'istituzione del manager presso le Corti di appello di Roma, Milano, Napoli e Palermo, con funzioni di responsabilità nella gestione dei servizi non aventi carattere giurisdizionale.
§ prevedere la riforma dei criteri di composizione del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti (i membri elettivi permangono in carica per quattro anni e sono ineleggibili per i successivi otto anni) e dell’elezione dei magistrati componenti elettivi del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (ogni elettore potrà votare per un solo candidato titolare ed uno supplente) (art. 2, comma 17).
Mentre entro 90 giorni dall'emanazione dei decreti di cui all’art. 1, comma 1 della legge il Governo dovrà emanare le norme di coordinamento tra la riforma e la legislazione già vigente nella materia (art. 1, comma 3), dalla data di entrata in vigore della legge delega, lo stesso Governo è delegato ad adottare :
§ entro 6 mesi una disciplina transitoria per il conferimento degli uffici direttivi di legittimità e di merito (art. 2, comma 10).
Tale disciplina detta i criteri per il conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimità e di merito nelle more della entrata in vigore del complessivo sistema di progressione in carriera dettato dalla riforma.
Il sistema prevede che le funzioni direttive di legittimità non possano essere conferite a magistrati che al momento della pubblicazione della vacanza del posto abbiano già compiuto i 68 anni di età (cioè abbiano meno di due anni dal collocamento a riposo) e che, analogamente, non possano essere conferite funzioni direttive di merito a magistrati che abbiano compiuto alla stessa data i 66 anni di età (ovvero abbiano meno di quattro anni dal collocamento a riposo).
§ entro 2 anni gli eventuali decreti correttivi di quelli emanati ll'esercizio della delega (art. 1, comma 6);
§ entro 4 anni un testo unico dell’ordinamento giudiziario, contenente tutte le disposizioni di legge vigenti in materia (art. 2, comma 19);
§ entro 5 anni un testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento giudiziario (art. 2, comma 21).
Alla data di chiusura della XIV legislatura, 10 decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario di cui alla legge delega 150/2005 hanno esaurito il proprio iter parlamentare per il prescritto parere. Di questi, uno solo - alla citata data - non risulta ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica (si tratta del decreto relativo alla individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari, nonché decentramento su base regionale di talune competenze del ministero della giustizia).
Di seguito, viene data illustrazione della disciplina introdotta dai 10 decreti legislativi[124].
Il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera c) e 2, comma 3, della legge delega 150/2005, che prevedono l’emanazione di uno o più decreti legislativi per disciplinare la composizione, le competenze e la durata in carica dei consigli giudiziari, nonché per istituire il Consiglio direttivo della Corte di cassazione.
Il legislatore delegante ha inteso, in primo luogo, istituire il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, quale organo corrispondente ai consigli giudiziari presso le corti di appello, strutturato nel rispetto dei medesimi principi valevoli anche per la composizione ed il funzionamento dei consigli giudiziari. In secondo luogo, sul fronte di questi ultimi, il legislatore delegante ha inteso, da un canto, sotto il profilo strutturale, allargarne la composizione a componenti non togati e, sotto il profilo funzionale, ampliarne le attribuzioni, valorizzandone il ruolo, anche nella prospettiva di un relativo decentramento del sistema dell'autogoverno dei magistrati.
L'articolato, composto da 19 articoli, è suddiviso in tre titoli:
§ il primo dedicato alla istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione,
§ il secondo alla disciplina della composizione, competenze e durata in carica dei consigli giudiziari
§ il terzo contenente le disposizioni finali.
I primi due titoli sono poi, a loro volta, suddivisi in due capi: il primo dedicato ai profili strutturali, rispettivamente, del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari, il secondo alle funzioni dei due organi.
L'articolo 1 prevede, in primo luogo, l'istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, quale organo interno alla Corte, corrispondente ai consigli giudiziari presso le corti di appello.
L'articolo definisce inoltre la struttura dell'organo. Su tale fronte, accanto ai membri di diritto – il Primo Presidente della Corte di cassazione, che ne è il Presidente, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed il presidente del Consiglio nazionale forense – figurano, anch'essi come componenti effettivi, altri sette membri, dei quali cinque togati - uno che esercita funzioni direttive giudicanti di legittimità, uno che esercita funzioni direttive requirenti di legittimità, due che esercitano funzioni giudicanti di legittimità e uno che esercita funzioni requirenti di legittimità, eletti tutti dai magistrati in servizio presso la Corte di cassazione e la Procura generale presso la stessa Corte - e due laici - uno professore ordinario di università in materie giuridiche, nominato dal Consiglio universitario nazionale ed uno avvocato con almento venti anni di esercizio effettivo della professione ed iscritto da almeno cinque anni nell'albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, nominato dal Consiglio nazionale forense -.
L'articolo 2 individua i componenti supplenti del Consiglio direttivo.
L'articolo 3 individua nel Primo Presidente della Corte di cassazione, il Presidente dell'organo e definisce le modalità ed i tempi per l'elezione del vicepresidente e del segretario.
L'articolo 4 disciplina l'elezione dei componenti togati del Consiglio direttivo della Corte di cassazione. Come per i consigli giudiziari, il sistema è stato strutturato, conformemente a quanto previsto dalla delega, in termini analoghi a quello previsto per l'elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, con una connotazione, dunque, di stampo maggioritario, derivante dalla previsione per la quale ciascun elettore esprime il voto per un solo magistrato per ciascuna delle categorie di magistrati nell'ambito delle quali sono scelti i componenti togati, con la proclamazione della elezione dei candidati che hanno ottenuto, nell'ambito di ciascuna categoria, il maggior numero di voti.
L'articolo 5 disciplina la durata in carica del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, che il legislatore delegante ha ritenuto di fissare in quattro anni.
L'articolo 6 stabilisce le modalità di determinazione del gettone di presenza dei componenti non togati del Consiglio direttivo della Corte di cassazione.
L'articolo 7 individua le competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione che, conformemente alle indicazioni della delega, sono state definite in termini di analogia rispetto a quelle previste per i consigli giudiziari, tenendo però conto del limite, pure esso indicato dalla legge di delegazione, della necessaria compatibilità tra le competenze espressamente attribuite dal legislatore delegante ai consigli giudiziari e quelle da attribuire al Consiglio direttivo della Corte di cassazione. Tale compatibilità è stata, in effetti, ritenuta sussistente in relazione a tutte le funzioni dei consigli giudiziari, con la sola eccezione delle funzioni di questi ultimi riguardanti gli uffici dei giudici di pace. Nel definire le competenze del Consiglio direttivo – come pure, all'articolo 15, dei consigli giudiziari - si è, infine, tenuto conto, della facoltà, ad esso conferita nel contesto dei principi e criteri direttivi della delega relativa alla istituzione della Scuola superiore della magistratura, di formulare proposte al comitato direttivo della Scuola, in materia di programmazione della attività didattica della stessa.
L'articolo 8 definisce la composizione del Consiglio direttivo in relazione alle varie competenze ad esso attribuite, prevedendo, in conformità con la delega, che i componenti laici, professori universitari ed avvocati, che, data la loro estrazione professionale, potrebbero assumere la veste di parti davanti alla Corte, possano partecipare solo alle discussioni e deliberazioni relative all'esercizio delle competenze concernenti la formulazione del parere sulle tabelle della Corte e l'esercizio della vigilanza sugli uffici, essendo invece esclusi dalle discussioni e deliberazioni comportanti, in senso lato, valutazioni riguardanti i singoli magistrati. Il Consiglio direttivo, come i consigli giudiziari, opererà, dunque, secondo un assetto “a geometria variabile”.
L'articolo 9 definisce la nuova composizione dei consigli giudiziari, anch'essi aperti, come già anticipato, alla partecipazione di componenti non togati, esperti di diritto e componenti designati dalle regioni. Accanto, quindi, ai membri di diritto – presidente della corte di appello, che presiede il consiglio giudiziario, procuratore generale presso la corte di appello e presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto – figurano, anch'essi come componenti effettivi, altri cinque o sette membri togati - a seconda che nel distretto prestino servizio sino a trecentocinquanta magistrati o più di trecentocinquanta magistrati - - e quattro laici - uno professore di università in materie giuridiche, nominato dal Consiglio uversitario nazionale su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza delle università della regione, uno avvocato con almento quindici anni di esercizio effettivo della professione, nominato dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei consigli dell'ordine degli avvocatri del distretto, e due nominati dal consiglio regionale della regione ove ha sede il distretto o nella quale rientra la maggiore estensione del territorio su cui hanno competenza gli uffici del distretto – nonché un rappresentante eletto dai giudici di pace del distretto.
Mentre l'articolo 10 individua i componenti supplenti del consiglio giudiziario, l’articolo 11 individua, nel presidente della corte di appello, il presidente dell'organo e definisce le modalità ed i tempi per l'elezione del vicepresidente e del segretario.
L'articolo 12, disciplina l'elezione dei componenti togati del consiglio giudiziario, secondo un sistema già evidenziato in relazione alla elezione dei componenti togati del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e, quindi, delineato, conformemente a quanto previsto dalla delega, in termini analoghi a quello previsto per i componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Il sistema presenta, dunque, una connotazione di stampo maggioritario, derivante dalla previsione per la quale ciascun elettore esprime il voto per un solo magistrato per ciascuna delle categorie di magistrati nell'ambito delle quali i componenti togati sono scelti, con la proclamazione della elezione dei candidati che hanno ottenuto, nell'ambito di ciascuna categoria, il maggior numero di voti.
L'articolo 13 disciplina la durata in carica dei consigli giudiziari, che il legislatore delegante ha ritenuto di elevare da due a quattro anni.
L'articolo 14 stabilisce le modalità di determinazione del gettone di presenza dei componenti non togati dei consigli giudiziari.
L'articolo 15 definisce le competenze dei consigli giudiziari ai quali il legislatore delegante ha attribuito una pluralità di compiti, alcuni consultivi, rimodellati su quelli già esistenti, altri decisionali, nella logica del decentramento del sistema dell'autogoverno della magistratura. Ai consigli giudiziari è così attribuita la competenza: a) a formulare pareri sulle tabelle proposte dai capi degli uffici giudiziari; b) a svolgere un'ampia funzione consultiva sull'attività professionale dei magistrati; c) ad esercitare compiti di vigilanza, sia sul comportamento dei magistrati, che sull'andamento degli uffici giudiziari; d) a formulare proposte e pareri sull'organizzazione e il funzionamento degli uffici del giudice di pace del distretto; e) ad adottare una serie di atti in materia di stato giuridico ed economico dei magistrati; f) a formulare, infine, pareri, anche su richiesta del Consiglio superiore della magistratura, su materie attinenti ad ulteriori competenze ad essi attribuite. E precisato, al comma 2, che il consiglio giudiziario esercita le proprie competenze anche in relazione alle eventuali sezioni distaccate della corte di appello.
L'articolo 16 definisce la composizione dei consigli giudiziari in relazione alle varie competenze ad essi attribuite, delineando, come per il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, un modello operativo “a geometria variabile”.
L'articolo 17 prevede la copertura finanziaria degli oneri a carico del bilancio dello Stato derivanti dall'applicazione delle disposizioni recate dal decreto. Si precisa che al funzionamento del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari presso le corti di appello si provvede con le risorse umane e strumentali già operanti presso i rispettivi uffici.
L'articolo 18 elenca le disposizioni la cui abrogazione - ferma restando l'ulteriore opera di coordinamento delle disposizioni del decreto legislativo con le altre leggi dello Stato e di abrogazione delle disposizioni con esso incompatibili, che il legislatore delegato è chiamato a svolgere nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 3, della legge numero 150 del 2005 - si è ritenuto opportuno disporre sin dalla data di acquisto di efficacia del decreto, al fine di evitare dubbi ed incertezza interpretative. L'articolo 19 disciplina la decorrenza dell'efficacia delle disposizioni contenute nel decreto, conformemente a quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge delega.
Il decreto legislativo 16 gennaio 2006, n. 20 "Disciplina transitoria del conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimità, nonché di primo e secondo grado, a norma dell'articolo 2, comma 10, della legge 25 luglio 2005, n. 150”, attua la previsione relativa ad una disciplina transitoria relativa al conferimento degli incarichi direttivi, antecedente all'entrata in vigore delle disposizioni di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h), numero 17) e lettera i), numero 6), della medesima legge.
L'articolo 1 indica l'oggetto del provvedimento – che, in linea con quanto previsto dalla delega, si applica soltanto alla magistratura ordinaria - e precisa che il conferimento degli incarichi, in esso contemplato, ha luogo sulla base delle ordinarie vacanze di organico degli uffici. La norma indica, altresì, la limitazione temporale dell'efficacia delle disposizioni recate dal decreto le quali, conformemente al principio della legge di delega, cesseranno di avere efficacia al momento dell'entrata in vigore delle norme previste dall'articolo 2, comma 1, lettera h), numero 17 e lettera i), numero 6), della legge di delegazione.
L'articolo 2 prevede che gli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimità possono essere conferiti esclusivamente a magistrati che, al momento della data della vacanza del posto messo a concorso, assicurano una permanenza in servizio di almeno due anni rispetto alla data di ordinario collocamento a riposo.
L'articolo 3 prevede che gli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di primo e di secondo grado possono essere conferiti esclusivamente a magistrati che, al momento della data della vacanza del posto messo a concorso, assicurano una permanenza in servizio di almeno quattro anni rispetto alla data di ordinario collocamento a riposo.
L'articolo 4, in linea con le disposizioni di cui agli articoli 57 e 57-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004), come, rispettivamente, modificato ed inserito dall'articolo 1 del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66, convertito dalla legge 11 maggio 2004, n. 126 – disposizioni che sanciscono il diritto del pubblico dipendente, sospeso dal servizio o dalla funzione, o che abbia chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza, a seguito di processo penale conclusosi in maniera ampiamente liberatoria, di ottenere il prolungamento o il ripristino del rapporto d'impiego “anche oltre i limiti di età previsti dalla legge, comprese eventuali proroghe, per un periodo pari a quello della sospensione ingiustamente subita e del periodo di servizio non espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, cumulati tra loro” - prevede che, ai fini del conferimento degli uffici direttivi disciplinati dal presente decreto, nel computo degli anni di permanenza in servizio, alla data di ordinario collocamento a riposo si aggiunga un periodo pari a quello della sospensione ingiustamente subita e del servizio non espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, eventualmente cumulati tra loro.
L'articolo 5 prevede la copertura finanziaria del provvedimento e l’articolo 6 contiene la disposizione sull'entrata in vigore che, stante la loro oggettiva urgenza, è anticipata (rispetto all'ordinaria vacatio legis) al giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Esso contiene, inoltre, la norma di coordinamento che prevede la cessazione di efficacia della disposizione relativa al conferimento degli incarichi direttivi nelle more dell'attuazione della delega attuata con il presente decreto, contenuta nell'articolo 2, comma 45, della legge numero 150 del 2005.
Il decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 24 attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera e) e 2, comma 5, della legge delega 150/2005, laddove, in particolare, si prevede che vengano emanati uno o più decreti legislativi diretti a modificare l'organico della Corte di cassazione e la disciplina dei magistrati applicati presso la medesima.
Nel rivedere la pianta organica della Corte di cassazione il legislatore delegante ha inteso destinare all'esercizio delle funzioni di legittimità solo magistrati ai quali il Consiglio superiore abbia conferito tali specifiche funzioni,eliminando, dunque, la possibilità che esse siano attribuite a magistrati di merito con provvedimenti dei Capi della procura generale e della Corte stessa (come previsto dagli articoli 115 e 116 dell'ordinamento giudiziario vigente). In un'ottica di razionalizzazione dell'utilizzazione delle risorse professionali disponibili, nonché di valorizzazione del ruolo della Suprema Corte, il legislatore delegante ha previsto, in primo luogo, la soppressione di quindici posti, destinati ad essere coperti da magistrati di appello, previsti in organico presso la Corte di cassazione, nonché di tutti e ventidue i posti, pure destinati ad essere coperti da magistrati di appello, previsti in organico presso la Procura generale presso la Corte di cassazione e l'istituzione, in luogo dei posti soppressi, di altrettanti posti destinati a magistrati di cassazione, i quali presteranno servizio presso la Corte, o presso la Procura generale, nella stessa proporzione dei posti soppressi.
L'intento manifestato dal legislatore, nel complesso della delega, di consentire l'accesso alle funzioni di legittimità solo con le modalità previste nella delega medesima, ha poi indotto lo stesso legislatore delegante a prevedere la soppressione di ulteriori quindici posti destinati ai magistrati di appello, assegnando gli stessi a magistrati di tribunale.
Il legislatore delegante ha infine previsto che i trentasette magistrati con qualifica non inferiore a magistrato di tribunale facenti parte della pianta organica della Corte, siano destinati a prestare servizio presso gli uffici del massimario e del ruolo e che il servizio prestato per almeno otto anni presso tali uffici costituisca, a parità di graduatoria, titolo preferenziale nell'attribuzione delle funzioni giudicanti di legittimità.
L'articolo 1 prevede le modificazioni all'organico della Corte di cassazione ed alla disciplina relativa ai magistrati applicati presso la stessa alle quali si è fatto, in precedenza, riferimento.
L'articolo 2 prevede, come si è sopra anticipato, che il servizio prestato per almeno otto anni presso l'ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione costituisce, a parità di graduatoria, titolo preferenziale nell'attribuzione delle funzioni giudicanti di legittimità.
L'articolo 3 prevede la modifica dell'articolo 117 dell'Ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1041, n. 12, avente natura di coordinamento con la citata soppressione dei posti dei magistrati di appello presso la Cassazione.
L'articolo 4 abroga – come espressamente previsto dalla delega (articolo 2, comma 5, lettera e) – l'articolo 116 dell'Ordinamento giudiziario.
L'articolo 5 detta norme transitorie dirette ad evitare che la soppressione dei posti prevista dall'articolo 1 possa recare nocumento alla funzionalità della Corte di cassazione. A tal fine la procedura di copertura dei posti avviene indipendentemente da parte del Consiglio superiore della magistratura fin dal momento di pubblicazione del decreto, che dispiega i suoi effetti restanti dal novantesimo giorno successivo, conformemente a quanto previsto dall'articolo 1, comma, 2, della legge numero 150 del 2005 (art. 6).
L'articolo 7 prevede la copertura finanziaria del provvedimento.
Con il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 sono state attuate le previsioni dell’art. 1, comma 1, lett. b) della legge 150/2005, relative all’istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché a disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati.
Come si ricorderà, infatti, il legislatore delegante aveva previsto l'istituzione di una Scuola superiore della magistratura, quale struttura didattica stabile, dotata di autonomia contabile, giuridica, organizzativa e funzionale, preposta, tra l'altro, alla organizzazione ed alla gestione del tirocinio degli uditori giudiziari ed all'organizzazione dei corsi di aggiornamento professionale e di formazione dei magistrati, ivi compresi quelli previsti nell'ambito del meccanismo della loro progressione in carriera.
Il decreto legislativo si compone di 39 articoli, divisi in quattro titoli.
Il Titolo I contiene le disposizioni istitutive della Scuola superiore della magistratura ed è diviso in due Capi, il primo relativo alle norme concernenti le finalità e le funzioni della Scuola ed il secondo recante le norme in materia di organizzazione della stessa.
Nell'ambito di questo Titolo, l'articolo 1 istituisce la Scuola superiore della magistratura, ne indica la forma giuridica e le caratteristiche di struttura. Quanto alla localizzazione si è inteso, in primo luogo, utilizzare appieno la facoltà, conferita dalla legge delega, di decentrare la Scuola, istituendo tre sedi a competenza interregionale, una per i distretti ricompresi nelle regioni del nord, una per quelli ricompresi nelle regioni del centro ed una per quelli ricompresi nelle regioni del sud del Paese. Ciò anche nell'intento di rendere più agevole, e meno onerosa, la partecipazione ai corsi da parte dei magistrati. L'esigenza di reperire, negli ambiti interregionali individuati, tre sedi adeguate, ha poi consigliato di rimettere ad un successivo decreto ministeriale, che verrà adottato, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, in tempo utile perché la Scuola possa funzionare nei tempi previsti dal decreto legislativo, l'individuazione delle tre località sedi della Scuola.
L'articolo 2 enumera le finalità della Scuola, nell'ambito dei principi indicati nella legge di delega, inerenti il tirocinio e l'aggiornamento professionale dei magistrati, nonché le connesse finalità di studio e di interscambio con analoghe istituzioni straniere.
L'articolo 3 prevede l'autonomia statutaria e regolamentare dell'ente.
L'articolo 4 individua gli organi della Scuola, identificati nelle figure del comitato direttivo, del presidente e dei comitati di gestione.
Gli articoli da 5 a 10 si occupano della struttura del comitato direttivo. In particolare, l'articolo 5 prevede la composizione e le funzioni dell'organo, precisando che lo stesso, analogamente a quanto previsto per i comitati di gestione (art. 12, comma 2), si riunisce nelle sede individuata per i distretti ricompresi nelle regioni centrali; l'articolo 6 disciplina il procedimento per la sua costituzione ed enuclea le caratteristiche di durata dell'organo ed alcuni requisiti e prerogative dei suoi componenti, stabiliti, così come per i comitati di gestione (vedi l'art. 13), al fine di garantire, in capo a tutti i medesimi, un adeguato livello professionale, stante l'estrema delicatezza dei compiti assegnati; l'articolo 7 detta le regole di funzionamento, precisando il numero legale e la maggioranza richiesta per le delibere; l'articolo 8 stabilisce il principio di indipendenza dei componenti rispetto all'organo che li ha nominati; l'articolo 9 prevede la disciplina dell'incompatibilità della funzione di componente dell'organo. L'articolo 10 stabilisce le modalità di determinazione dell'indennità di funzione del presidente del comitato direttivo e del gettone di presenza dei componenti, tenuto conto della autorizzazione di spesa prevista dall'art. 2, comma 37, della legge numero 150 del 2005, relativa, specificamente, agli oneri connessi al funzionamento del comitato direttivo di cui al comma 2, lett. l), del medesimo art. 2.
L'articolo 11 stabilisce le funzioni e le prerogative del presidente della Scuola.
Gli articoli da 12 a 17 si occupano dei due comitati di gestione previsti in relazione alle articolazioni della Scuola, quella relativa al tirocinio e quella relativa all'aggiornamento ed alla formazione dei magistrati. In particolare, l'articolo 12 ne elenca le funzioni; l'articolo 13 disciplina il procedimento di nomina dei componenti nonché i requisiti per la nomina stessa; l'articolo 14 detta le regole sul funzionamento dell'organo; l'articolo 15 stabilisce il principio di indipendenza dei componenti rispetto all'organo che li ha nominati; l'articolo 16 prevede la disciplina dell'incompatibilità della funzione di componente dell'organo. L'articolo 17 stabilisce, infine, le modalità di determinazione del gettone di presenza dei componenti dei comitati di gestione. Nell'ipotesi in cui i componenti del comitato si rechino fuori dalla sede, è loro riconosciuto il rimborso delle spese di trasferta.
Il Titolo II (articoli da 18 a 22) reca le disposizioni in tema di tirocinio degli uditori giudiziari. In particolare, l'articolo 18 stabilisce la durata del tirocinio (24 mesi) e l'articolo 19 ne prevede l'articolazione in una sessione presso la Scuola ed una sessione presso gli uffici giudiziari. L'articolo 20 stabilisce il contenuto e le modalità di svolgimento della sessione presso la Scuola, prevedendo che essa consiste nella frequenza dei corsi di approfondimento teorico-pratico, approvati dal comitato di gestione nell'ambito dell'attività didattica deliberata dal comitato direttivo, riguardanti il diritto civile, il diritto penale, il diritto processuale civile, il diritto processuale penale ed il diritto amministrativo, con eventuale approfondimento anche di altre materie tra quelle comprese nella prova orale del concorso per l'accesso in magistratura o di materie ulteriori scelte dal comitato direttivo; i criteri per la nomina dei docenti; la designazione, nell'ambito degli stessi, dei tutori degli uditori giudiziari; la previsione della compilazione di una scheda valutativa al termine della sessione svolta da ciascun uditore, ad opera dei singoli docenti.
L'articolo 21 stabilisce il contenuto e le modalità di svolgimento della sessione presso gli uffici giudiziari, individuando un primo periodo di sette mesi di partecipazione dell'uditore all'attività giurisdizionale relativa alle controversie o ai reati rientranti nella competenza del tribunale in composizione collegiale, compresa la partecipazione alla camera di consiglio, in modo da garantire all'uditore la formazione di una equilibrata esperienza nei vari settori. Si è in tal modo ritenuto di attuare la previsione della legge di delegazione relativa ad un periodo di sette mesi “in un collegio giudicante”, sulla base della considerazione che la riduzione dell'attività collegiale, specie nel settore civile, avrebbe reso incongruo fare partecipare l'uditore alle sole camere di consiglio; ciò che vale, in minor misura, anche per il settore penale. Seguono un secondo periodo di tre mesi presso un ufficio requirente di primo grado ed un terzo di otto mesi presso un ufficio corrispondente a quello di prima destinazione dell'uditore. La sessione presso gli uffici giudiziari si svolgerà secondo un programma di tirocinio approvato dal relativo comitato di gestione in modo tale da garantire al magistrato una specifica preparazione nelle funzioni che sarà chiamato a svolgere nella sede di prima destinazione.
L'articolo 22 detta le regole relative alla valutazione finale della Scuola, che, come anticipato, si è ritenuto dover essere espressa dal comitato di gestione della sezione, il procedimento valutativo e le conseguenze connesse alla deliberazione finale negativa da parte del Consiglio superiore della magistratura.
Il Titolo III (articoli da 23 a 36) reca le disposizioni in tema di aggiornamento professionale e formazione dei magistrati. Nel suo ambito, il Capo I, costituito dal solo articolo 23, prevede la tipologia dei corsi, finalizzati a due obiettivi: l'aggiornamento professionale dei magistrati in servizio e la loro formazione finalizzata alla partecipazione ai concorsi per la progressione in carriera, ai concorsi per il passaggio di funzioni ed ai concorsi per le funzioni direttive.
Il Capo II (articoli da 24 a 26) concerne le disposizioni inerenti i corsi di formazione e di aggiornamento professionale dei magistrati, che prevedono l'obbligatorietà della frequenza almeno ogni cinque anni, la durata bisettimanale, le ipotesi del legittimo differimento della partecipazione, la connotazione sia teorica che pratica dei corsi, secondo il programma e le modalità previste dal piano approvato dal comitato di gestione e la disciplina della valutazione finale operata, per la Scuola, dal comitato di gestione, e comunicata al Consiglio superiore della magistratura, che ne terrà conto ai fini delle proprie determinazioni relative al magistrato.
Il Capo III (articoli da 27 a 28) disciplina il contenuto e le modalità procedimentali dei corsi finalizzati a consentire al magistrato di partecipare ai concorsi per la progressione in carriera, a quelli per il passaggio di funzioni ed a quelli per l'accesso alle funzioni direttive, precisando che i primi due devono prevedere una parte teorica ed una pratica e che quest'ultima dovrà prevedere lo studio e la discussione di casi giudiziari e la redazione di provvedimenti aventi ad oggetto questioni relative all'esercizio delle funzioni richieste dal magistrato, mentre gli ultimi devono avere ad oggetto lo studio delle problematiche specificamente relative all'esercizio delle funzioni del dirigente. La partecipazione a tali corsi costituisce un diritto per il magistrato.
Il Capo IV (articoli da 29 a 36) contiene la disciplina della valutazione periodica dei magistrati e stabilisce la tempistica dei corsi, la loro obbligatorietà, il contenuto del relativo giudizio valutativo da parte del Consiglio superiore della magistratura, le conseguenze connesse alla valutazione negativa e quelle relative alla connessione tra il positivo superamento della valutazione e la progressione economica.
Il Titolo IV reca le disposizioni finali relative: alla copertura finanziaria (art. 37); alle disposizioni la cui abrogazione - ferma restando l'ulteriore opera di coordinamento delle disposizioni del decreto legislativo con le altre leggi dello Stato e di abrogazione delle disposizioni con esso incompatibili, che il legislatore delegato è chiamato a svolgere nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 150 del 2005 - si è ritenuto opportuno disporre sin dalla data di acquisto di efficacia del decreto, al fine di evitare dubbi ed incertezza interpretative (art. 38); alla data di acquisto di efficacia delle disposizioni del decreto (art. 38).
Il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 35 attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera g) e 2, comma 8, della legge delega, laddove prevede, in particolare, che vengano emanati uno o più decreti legislativi diretti a prevedere forme di pubblicità degli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati di ogni ordine e grado.
I principi ed i criteri direttivi per l'attuazione della delega innanzi indicata sono contenuti nell'articolo 2, comma 8, lettere a), b) e c), della legge 150 del 2005.
In particolare, la lettera a) si riferisce alla pubblicità dei dati relativi agli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati ordinari, il cui svolgimento sia stato autorizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura.
La lettera b) fa invece riferimento alla pubblicità dei dati relativi agli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato od autorizzati, rispettivamente, dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dal Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, dal Consiglio della magistratura militare e dal Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato.
Per quanto attiene alle forme di pubblicità di cui alle lettere a) e b), la lettera c) indica i bollettini periodici dei rispettivi Consigli e del Ministero della giustizia; peraltro, in mancanza di un bollettino del Consiglio superiore della magistratura, nel decreto legislativo è previsto che la pubblicità degli incarichi dei magistrati ordinari debba avvenire mediante l'utilizzo del sito internet, strumento che risulta, per le caratteristiche di accessibilità e diffusione, il mezzo più idoneo a realizzare le esigenze tenute presenti dalla delega.
Il provvedimento consta di tre soli articoli.
L'articolo 1 si riferisce agli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati ordinari e, in coerenza con i principi e criteri direttivi, dispone, al comma 1, che il Consiglio Superiore della Magistratura, con cadenza semestrale, deve rendere noto, mediante inserimento in apposita sezione del proprio sito Internet, l'elenco degli incarichi extragiudiziari conferiti ai magistrati di ogni ordine e grado, il cui svolgimento sia stato autorizzato dal Consiglio stesso. Il comma 2 del medesimo articolo 1 prevede che, per ciascun incarico, l'elenco pubblicato indichi l'ente che lo ha conferito, l'eventuale compenso percepito, la natura, la durata ed il numero di quelli precedentemente svolti dal magistrato nell'ultimo triennio.
Per quanto riguarda le modalità di realizzazione della pubblicità dei dati relativi a tali incarichi extragiudiziari, è stato previsto che la stessa venga realizzata mediante l'inserimento dell'elenco in un'apposita sezione del sito Internet del Consiglio Superiore della Magistratura, atteso che il bollettino periodico previsto dalla lettera c) dell'articolo 2, comma 8 non è più utilizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura e nella delega non vi è, sul punto, la necessaria copertura finanziaria.
L'articolo 2 disciplina la pubblicità degli incarichi conferiti ai magistrati delle altre giurisdizioni e agli avvocati e procuratori dello Stato, ovvero autorizzati dai rispettivi organi di amministrazione. Il contenuto della pubblicità, la cadenza e le modalità sono sostanzialmente le medesime previste per gli incarichi conferiti ai magistrati ordinari, cambiando soltanto la menzione degli organi istituzionalmente competenti ad autorizzare gli incarichi. E' stato altresì previsto che il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato trasmetta i dati al Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale dà notizia dell'adempimento aanche al Ministro della giustizia.
L'articolo 3 disciplina la decorrenza dell'efficacia delle disposizioni contenute nel decreto, conformemente a quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge numero 150 del 2005.
Il decreto legislativo 7 febbraio 2006, n. 62, attuando la previsione contenuta nell'articolo 2, commi 17 e 18, della legge delega, modifica la disciplina concernente l'elezione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti e del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa.
Il legislatore delegante ha inteso, con l’intervento, rendere sostanzialmente omogenee le discipline di elezione dei due predetti organi di autogoverno della magistratura amministrativa e di quella contabile.
Infatti, i criteri stabiliti nel comma 17 prevedevano: a) la durata quadriennale dei relativi componenti elettivi; b) la non rieleggibilità degli stessi per gli otto anni successivi alla scadenza dell'incarico; c) l'introduzione, anche nell'elezione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, del criterio della preferenza unica, già vigente per l'organo di autogoverno della magistratura contabile, tanto per l'elezione dei componenti effettivi che di quelli supplenti.
In dettaglio, l'articolo 1 del decreto legislativo reca la disciplina sostanziale dell'intervento, attuando il comma 17 dell'articolo della legge n. 150/2005, mentre l'articolo 2 disciplina l'acquisto di efficacia del decreto medesimo.
L'articolo 1 reca due commi: con il primo si novella l'articolo 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati, mentre il secondo interviene sull'articolo 9 della legge 27 aprile 1982, n. 186, Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali.
Il comma 1 apporta due modifiche al citato art. 10: a) con la prima, si rende il tenore letterale del relativo comma 2, lettera c), conforme al suo significato normativo già vigente per effetto dell'articolo 6-bis, comma 3, del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 354 (Disposizioni urgenti per il funzionamento dei tribunali delle acque, nonché interventi per l'amministrazione della giustizia), convertito dalla legge 26 febbraio 2004, n. 45, che ha inserito nell'organico il posto di Presidente aggiunto della Corte dei conti, in luogo di un presidente di sezione (funzionalmente, quello più anziano) della Corte stessa; b) con la seconda, si aggiunge all'articolo 10 un comma (il 2-bis) volto a specificare che i componenti elettivi del Consiglio di presidenza della Corte dei conti durano in carica quattro anni e non sono nuovamente eleggibili per i successivi otto anni dalla scadenza dell'incarico.
Il comma 2 novella l'articolo 9, terzo comma, della legge 186/1982, introducendo, per l'elezione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il criterio della preferenza unica, già vigente per gli altri organi di autogoverno delle magistrature, specificando che ogni votante può esprimere preferenze per un solo componente titolare e per un solo componente supplente. Viene altresì ivi richiamato, coerentemente con il rilevato significato della delega, il comma 2-bis del citato art. 10 della legge n. 117/1988, e si stabilisce, quale corollario dell'introduzione della preferenza unica, che in caso di dimissioni o di cessazione dalla carica di un componente si proceda in ogni caso ad elezioni suppletive: conseguentemente, viene disposta l'abrogazione del comma 4 dell'articolo 7 della stessa legge 186/1982, che appunto recava la previsione di scorrimento in favore dei primi tra i non eletti.
Infine, l'articolo 2 disciplina, nel senso anzidetto, l'acquisto di efficacia da parte delle disposizioni del decreto legislativo, recando altresì la clausola della relativa obbligatorietà. E’ precisato che le disposizioni del decreto non hanno effetto sui consigli di presidenza in carica all'atto di acquisto di efficacia del decreto medesimo.
Il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera d) , e 2, comma 4, della legge 150/2005, dove, in particolare, si prevede che vengano emanati uno o più decreti legislativi diretti alla riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero.
In linea generale, il legislatore delegante ha inteso delineare per l'ufficio del pubblico ministero un assetto nel quale la titolarità del potere organizzativo dell'ufficio e dell'esercizio dell'azione penale sia riconosciuta in via esclusiva al procuratore della Repubblica, il quale, sotto la sua responsabilità, li esercita personalmente ovvero mediante delega ai magistrati dell'ufficio, assicurando il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale e delle norme sul giusto processo.
Alla luce di tali connotazioni generali della delega legislativa, che trovano compiuto svolgimento nei principi e criteri direttivi dettati dall'articolo 2, comma 4, della legge 150/2005, s'illustra, di seguito, l'articolato, precisando che, per ragioni sistematiche, si è inteso distinguere tra le attribuzioni del procuratore della Repubblica con riguardo al profilo organizzativo dell'ufficio al quale è preposto (articolo 1) e le attribuzioni concernenti l'esercizio dell'azione penale e tutte le attività ad esso strettamente correlate (articolo 2): ciò in quanto si tratta di attribuzioni di natura differente e soprattutto perché, come si dirà in seguito, non esiste esatta coincidenza tra le due regolamentazioni.
L'articolo 1, al comma 1, fissa la regola generale secondo la quale il procuratore della Repubblica è titolare e responsabile esclusivo delle funzioni attribuite dal codice di procedura penale e da altre disposizioni di legge all'ufficio del pubblico ministero, mentre il comma 2 indica una serie di parametri ai quali il procuratore deve attenersi nell'esercitare quelle attribuzioni (corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale e rispetto delle norme sul giusto processo) che trovano fondamento negli articoli 111 e 112 della Costituzione.
Il procuratore della Repubblica può designare, tra i procuratori aggiunti, il suo vicario, il quale, investito di attribuzioni di carattere fiduciario, esercita le medesime funzioni del procuratore per il caso in cui sia egli risulti assente o impedito ovvero quando l'incarico sia rimasto vacante (comma 3).
Il procuratore della Repubblica può delegare ad uno o più procuratori aggiunti ovvero ad uno o più magistrati addetti all'ufficio la cura di specifici settori di affari, individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell'ufficio che necessitano di uniforme indirizzo (comma 4). Con tale formula si è inteso fare riferimento non solo al coordinamento dei pool investigativi specialistici, ma anche a tutti quei settori di attività che, pur non facendo riferimento a procedimenti penali, debbano essere gestiti secondo criteri uniformi, quali il casellario giudiziale, l'esecuzione penale ed i correlativi rapporti con il tribunale di sorveglianza, il centro intercettazioni telefoniche con riguardo all'utilizzo uniforme delle risorse tecniche e finanziarie, gli affari civili, eccetera.
In conseguenza della titolarità esclusiva di tali attribuzioni in capo al procuratore della Repubblica, è previsto il potere di stabilire, in via generale ovvero con singoli atti, i criteri ai quali i procuratori aggiunti ed i magistrati dell'ufficio devono attenersi nell'esercizio della delega loro conferita (comma 5).
Il comma 6, da ultimo, costituisce l'esplicazione del potere di organizzazione del procuratore della Repubblica, sia con riguardo al funzionamento dell'ufficio, sia con riguardo ai criteri di assegnazione degli affari. Tali provvedimenti devono essere trasmessi al Consiglio superiore della magistratura (comma 7).
L'articolo 2 si occupa, come accennato in precedenza, della titolarità dell'azione penale, che è attribuita in via esclusiva al procuratore della Repubblica, il quale la esercita, sotto la sua responsabilità, nei casi e nei modi stabiliti dal codice di procedura penale, personalmente ovvero delegando uno o più magistrati addetti all'ufficio. La delega può riguardare non soltanto la trattazione di uno o più procedimenti, ma anche il compimento di singoli atti di essi. La norma fa espressamente salve le disposizioni di cui all'articolo 70-bis del regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, e successive modificazioni, riguardanti la direzione distrettuale antimafia.
Il comma 2 regola l'ipotesi in cui il procuratore della Repubblica abbia preposto un procuratore aggiunto o un magistrato dell'ufficio al coordinamento dell'attività di un gruppo o di una sezione per la trattazione di un settore di affari: in tal caso, il potere di delega al singolo magistrato per la trattazione dei procedimenti assegnati dal procuratore a quel gruppo è attribuito al preposto, che lo esercita nel rispetto dei criteri stabiliti dal procuratore della Repubblica, restando comunque ferma la facoltà di revoca da parte di quest'ultimo in caso di divergenze o di inosservanza dei criteri enunciati con la delega stessa.
Al comma 3 è stabilito che la delega per la trattazione di un procedimento può essere accompagnata dall'indicazione di criteri ai quali il delegato deve attenersi nell'esercizio della stessa. Se il delegato si discosta dai criteri definiti in via generale o con la delega, ovvero insorge tra il delegato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio della delega, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocarla. E' quindi stabilita la facoltà di presentare osservazioni scritte da parte del delegato entro dieci giorni; scaduto il termine, il procuratore della Repubblica trasmette immediatamente il provvedimento di revoca e le eventuali osservazioni al procuratore generale presso la Corte di cassazione (pertanto tale invio deve avvenire anche in assenza di osservazioni da parte del magistrato al quale sia stata revocata la delega). Sia il provvedimento di revoca della delega e sia le eventuali osservazioni del delegato sono entrambi inseriti nei rispettivi fascicoli personali.
L'articolo 3 si occupa delle attribuzioni del procuratore della Repubblica in tema di misure cautelari, per le quali la legge delega ha inteso imporre l'espresso assenso da parte del titolare dell'ufficio, prescindendo da eventuali disposizioni generali o specifiche (che pur rientrerebbero nel suo complessivo potere di dettare criteri per l'esercizio della delega conferita ai singoli magistrati dell'ufficio). Infatti è stabilito che il magistrato dell'ufficio il quale dispone il fermo di indiziato di delitto ovvero formula la richiesta di misure cautelari personali o reali, deve ottenere l'espresso assenso del procuratore della Repubblica o di altro magistrato delegato ai sensi dell'articolo 1, comma 4. E' fatta, però, salva l'ipotesi, per le sole richieste di misure cautelari reali, che il procuratore della Repubblica possa stabilire, con direttiva a carattere generale, che l'espresso assenso non sia necessario, avuto riguardo al valore del bene oggetto della richiesta ovvero alla rilevanza del fatto per il quale si procede. Tale specifica eccezione conferma, per converso, che un provvedimento generale di tal fatta non potrebbe riguardare le altre tipologie di provvedimenti cautelari; e l'utilizzo della locuzione “espresso assenso” intende sottolineare la necessità di un'espressione di volontà specifica per ciascuna richiesta cautelare.
Il comma 4 rappresenta un'eccezione alla regola generale, stabilendo che non sia necessario l'espresso assenso nel caso in cui le richieste di misure cautelari personali o reali siano conseguenti alla richiesta di convalida dell'arresto in flagranza o del fermo di indiziato ai sensi dell'articolo 390 del codice di procedura penale, ovvero alla richiesta di convalida del sequestro preventivo in caso d'urgenza ai sensi dell'articolo 321, comma 3-bis, del codice di procedura penale.
L'articolo 4 rappresenta un'ulteriore puntualizzazione del generale potere di organizzazione e di gestione conferito al procuratore della Repubblica con riguardo all'ufficio al quale è preposto. Infatti, per assicurare l'efficienza dell'attività dell'ufficio, il procuratore della Repubblica può determinare i criteri generali ai quali i magistrati addetti all'ufficio devono attenersi nell'esercizio delle deleghe loro conferite, con specifico richiamo all'impiego della polizia giudiziaria ed all'uso delle risorse tecnologiche assegnate all'ufficio. Per quanto poi concerne le risorse finanziarie delle quali l'ufficio può disporre, i criteri generali stabiliti dal procuratore della Repubblica devono, a loro volta, essere dettati in conformità alle disposizioni contenute nel decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli articoli 1, comma 1, lettera a) e 2, comma 1, lettera s), della legge delega 150/2005, in materia di cosiddetta “doppia dirigenza”.
Il comma 2 del medesimo articolo inserisce un'ulteriore specificazione nell'ambito dell'esercizio dell'azione penale, prevedendo che il procuratore della Repubblica possa definire i criteri generali da seguire per l'impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti, quali ad esempio, nei reati fallimentari, la previsione di soglie minime di valore per l'affidamento di incarichi di consulenza, ovvero, per taluni reati commessi a mezzo del telefono, l'utilizzo della documentazione del traffico telefonico piuttosto che il ricorso all'intercettazione telefonica.
L'articolo 5 regola invece i rapporti tra l'ufficio della procura della Repubblica e gli organi di informazione, stabilendo che spetta al solo procuratore della Repubblica tenere i contatti con i mass media per fornire la doverosa informazione circa vicende giudiziarie trattate dall'ufficio. Tale potere è delegabile ad altro magistrato dell'ufficio.
Il comma 2 precisa che le informazioni inerenti le attività della procura della Repubblica devono essere fornite senza riferimenti ai magistrati assegnatari del procedimento. Correlativamente, è fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio. Tale divieto è rafforzato dalla previsione dell'obbligo imposto al procuratore della Repubblica di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, ogni condotta dei magistrati del suo ufficio che sia in contrasto col divieto stesso.
L'articolo 6 delinea l'attività di vigilanza che il procuratore generale presso la corte di appello svolge sugli uffici di procura della Repubblica del distretto, ponendo, quali parametri di tale funzione, da un lato, il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, e dall'altro, il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti.
Nell'espletamento di tale attività di vigilanza il procuratore generale acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione che deve avere cadenza almeno annuale, ciò che significa che la stessa può anche essere trasmessa ad intervalli più brevi ove le circostanze rendano necessaria ovvero opportuna un'informativa più tempestiva.
L'articolo 7 elenca le disposizioni da abrogare sin dalla data di acquisto di efficacia del decreto, al fine di evitare dubbi ed incertezza interpretative; resta ferma l'ulteriore opera di coordinamento delle disposizioni del decreto legislativo con le altre leggi dello Stato e di abrogazione delle disposizioni incompatibili, previste dall’art. 1, comma 3, della legge delega
L'articolo 8 disciplina la decorrenza dell'efficacia delle disposizioni contenute nel decreto, conformemente a quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge delega.
Il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 dà attuazione alla delega contenuta nella legge 150/2005 (art. 1 comma 1, lett. f) relativa alla individuazione delle fattispecie tipiche di illecito disciplinare dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicazione, nonché alla modifica della disciplina in tema di incompatibilità, di dispensa dal servizio e di trasferimento d'ufficio, secondo i principi e criteri direttivi previsti dall'art. 2, commi 6 e 7.
Il decreto consta di 32 articoli divisi in quattro capi, rispettivamente dedicati alla normativa di diritto sostanziale sulla responsabilità disciplinare (capo I), al procedimento disciplinare (capo II), alle incompatibilità, alla dispensa dal servizio ed al trasferimento d'ufficio (capo III), alle disposizioni finali ed all'ambito di applicazione (capo V).
Il capo I è diviso in due sezioni; la prima sezione contiene le norme che indicano i doveri ai quali il magistrato dovrà conformare la propria condotta, e le norme che tipizzano i comportamenti illeciti; la secondo sezione contiene le norme che prevedono le sanzioni ed i criteri da seguire per l'applicazione delle medesime.
L'articolo 1 individua i doveri che il magistrato dovrà rispettare nell'esercizio delle proprie funzioni, ed i valori ai quali egli dovrà conformare la propria condotta anche al di fuori dell'esercizio delle funzioni. Nel primo comma, vengono quindi richiamati imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio, ma anche un più generale dovere di rispetto della dignità personale che rappresenta diretta emanazione di principi costituzionali, a partire dall'art. 2 della Costituzione. Nel secondo comma vengono vietati i comportamenti che, sebbene legittimi, compromettano la credibilità, il prestigio ed il decoro del magistrato e dell'istituzione giudiziaria. Il terzo comma esprime nel modo più evidente il principio di tipizzazione: la norma seleziona infatti, tra le violazioni dei doveri previsti in via generale dai primi due commi, solo quelle integranti le fattispecie illecite descritte negli articoli 2, 3 e 4.
L'articolo 2 elenca gli illeciti disciplinari commessi nell'esercizio delle funzioni; trattasi di fattispecie in gran parte già focalizzate dalla giurisprudenza del Consiglio superiore della magistratura e della Suprema corte di Cassazione, alle quali si accompagna, quale norma di chiusura prevista dall'ART. 2, comma 6, lett. a) della legge 25 luglio 2005 n. 150, la previsione di ogni altra violazione dei doveri di imparzialità, laboriosità, correttezza e diligenza. Apre l'elencazione l'ipotesi prevista dalla lett. a), che concretizza nel danno ingiusto o nell'indebito vantaggio ad una delle parti la rilevanza della violazione dei doveri previsti nell'art. 1; nelle fattispecie previste dalle lettere c), g), h), l), m), ff) ed gg) vengono in rilievo casi in cui il magistrato compie le attività tipiche della propria funzione violando le norme sostanziali o processuali che avrebbe dovuto osservare, dimostrando, tra l'altro, un'intollerabile negligenza e superficialità nell'effettuare analisi e valutazioni sul piano del fatto o del diritto.
Le ipotesi previste dalle lettere f), dd), ee) sanzionano l'omessa comunicazione agli organi competenti dei comportamenti disciplinarmente rilevanti commessi da altri magistrati, fungendo da stimolo in ordine all'accertamento dei fatti in esame.
La lett. d) prevede come illecito il comportamento che si concretizzi in comportamenti scorretti nei confronti di altri soggetti processuali, o con i quali il magistrato abbia modo di relazionarsi nel servizio.
Alcune ipotesi costituiscono macroscopiche violazioni dei doveri di diligenza (in particolare lett. n), p), q), r), t) e di laboriosità (in particolare lett. o), q), r). Degne di nota sono le fattispecie che inibiscono l'esternazione di notizie attinenti ai procedimenti trattati, diversificate in ragione delle modalità e dei contesti in cui si realizzano (lett. u), v), ed in particolare quella che consiste nel tenere relazione con gli organi di informazione al di fuori dei ristretti limiti ammessi dal decreto legge sull'ordinamento dell'ufficio del pubblico ministero (lett. z). I i criteri generali richiesti dalla lett. bb), imposti ad ogni magistrato e fermo restando il divieto di esternazione per i magistrati del pubblico ministero nei confronti della stampa, sono segnati dall'equilibrio e dal riserbo dell'esternazione; una distinta ipotesi di illecito disciplinare, finalizzata a scongiurare il rischio di un esercizio strumentale della funzione, è quella che vieta al magistrato di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio e di tessere una trama stabile di contatti personali o privilegiati (lett. aa). Il comma 2, riprendendo opportunamente l'impostazione di principio già introdotto nel nostro ordinamento dalla legge sulla responsabilità civile dei magistrati (l. 13 aprile 1988 n. 117), avverte che non può dare mai luogo a responsabilità disciplinare l'attività di interpretazione di norme di diritto.
L'articolo 3 elenca gli illeciti disciplinari commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni. Le fattispecie descritte contemplano svariati comportamenti, ognuno dei quali, però, lede in misura prevalente uno o alcuni dei doveri previsti dall'art. 1.
La prima fattispecie (lett. a) identifica una condotta logicamente incompatibile con il ruolo e la funzione sociale del magistrato, cioè l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri (dunque, una forma di “abuso”).
Le fattispecie di cui alle lett. b) ed e) assicurano in misura prevalente la credibilità personale del magistrato ed il prestigio dell'istituzione giudiziaria.
La fattispecie di cui alle lett. c) colpisce un comportamento impeditivo dell'esercizio, da parte del CSM, dei poteri di controllo ed autorizzazione in ordine allo svolgimento di attività extragiudiziali.
Le lettere f), h) ed i) inibiscono condotte che, seppur legittime qualora poste in essere dai cittadini, non possono essere consentite al magistrato in nome dei valori fondamentali che ispirano l'esercizio della funzione giudiziaria; dette previsioni si richiamano ad esigenze di ordine costituzionale, di cui costituisce chiara espressione il divieto di iscrizione a partiti politici (ART. 98 Cost.).
In attuazione del principio di delega previsto dall'art. 2 comma 6 lett. a), la lett. hh) considera illecito disciplinare ogni altro comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza. Trattasi, per quanto riguarda la necessità che il magistrato non solo sia imparziale, ma lo appaia anche, di una esigenza più volte sottolineata anche dalla giurisprudenza del Consiglio superiore della magistratura.
L'articolo 4 contempla come illecito disciplinare una serie di fatti, la cui rilevanza in termini di elementi costitutivi di reato è stata accertata in sede penale, ovvero implicitamente “accettata” con il c.d. “patteggiamento”; nel primo caso, la giustificazione del rilievo disciplinare è giustificata con la maggiore affidabilità dell'accertamento penale.
La distinzione delle ipotesi indicate sub a), b) e d) è fondata sulla gravità del reato manifestata dall'atteggiamento soggettivo del colpevole, nonché sulla prevalutazione legale del disvalore del fatto, espressa mediante il tipo di pena previsto. In attuazione del principio di delega contenuto nell'art. 2 comma 6 lett. a), è infine prevista la norma di chiusura che considera illecito disciplinare qualunque fatto di reato idoneo a compromettere la credibilità del magistrato, pur quando il reato sia estinto o l'azione penale sia inammissibile o improcedibile.
L'articolo 5 elenca le sanzioni, che devono ritenersi tassative, conseguenti alla violazione dei doveri specificati dagli articoli precedenti.
Di rilievo è il meccanismo previsto dal secondo comma per il caso di concorso di illeciti. La legge delega ha previsto che quando, per il concorso di più illeciti disciplinari, si dovrebbero irrogare più sanzioni meno gravi, si applichi altra sanzione di maggiore gravità, sola o congiunta con quella meno grave se compatibile.
In attuazione di tale direttiva si è previsto che, nell'ipotesi di illeciti disciplinari puniti con sanzioni disomogenee, si applichi quella prevista per l'infrazione più grave; nell'ipotesi in cui, invece, gli illeciti siano puniti con sanzioni omogenee, si applicherà quella immediatamente più grave. In entrambi i casi, potrà applicarsi anche la sanzione meno grave, se compatibile.
Gli articoli 6, 7, 8, 9, 10 e 11 definiscono le sanzioni applicabili, che sono l'ammonimento, la perdita dell'anzianità, la temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, la sospensione dalle funzioni (da 3 mesi a 2 anni), la rimozione. Le caratteristiche strutturali dell'ammonimento, della censura, della perdita dell'anzianità e della rimozione, restano sostanzialmente invariate rispetto al R. D. L.gs 31 maggio 1946 n. 511 (Guarentigie della magistratura), mentre è stata introdotta la sanzione dell' incapacità temporanea ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo. Sono dunque previste sanzioni conservative (ammonimento, censura, perdita dell'anzianità, temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, sospensione dalle funzioni) e sanzioni non conservative (rimozione).
Ammonimento e censura sono formalizzate nel dispositivo della decisione disciplinare; la rimozione, anch'essa pronunziata in esito al procedimento innanzi al Consiglio superiore della magistratura, viene attuata mediante decreto del Presidente della Repubblica.
La perdita dell'anzianità e la sospensione temporanea ad esercitare un incarico sono contenute entro limiti temporali minimi e massimi.
L’articolo 12 prevede quali sanzioni debbano essere comminate per le singole fattispecie di illecito, in attuazione dei principi posti dall'articolo. 2 comma 6 lett. h), i) ed l) della legge 150/2005.
Sono quindi previste sanzioni non inferiori alla censura, ognuna corrispondente, in ordine di crescente gravità, ad un insieme di illeciti disciplinari connotati da un analogo disvalore.
L'articolo 13 prevede il trasferimento d'ufficio e i provvedimenti cautelari.
Il primo comma prevede, nel caso in cui vengano irrogate sanzioni conservative diverse dall'ammonimento, il trasferimento del magistrato quando le peculiarità della sua condotta rendano inconciliabile con le esigenze del buon andamento dell'amministrazione della giustizia la permanenza nella sede o nell'ufficio. Il trasferimento è obbligatorio nel caso in cui è comminata la sanzione della sospensione dalle funzioni, ovvero quando l'illecito disciplinare abbia arrecato ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti.
Il secondo comma prevede la possibilità di trasferire il magistrato di sede, o di destinarlo ad altre funzioni, in via cautelare, ove ricorrano motivi di particolare urgenza, sempre chè sussistano gravi elementi di fondatezza dell'azione disciplinare.
Il Capo II ridelinea, in conformità con i principi e criteri direttivi della legge delega, la disciplina del procedimento per la applicazione delle sanzioni disciplinari ai magistrati.
L'articolo 14 disciplina la fase di avvio del procedimento disciplinare. La novità di maggior rilievo introdotta dalla legge di delegazione e recepita nel presente decreto è rappresentata, ferma restando la doppia titolarità dell'azione disciplinare in capo al Ministro della giustizia ed al Procuratore generale presso la Corte di cassazione (comma 1), dall'esercizio obbligatorio dell'azione da parte di quest'ultimo. Così, mentre il Ministro guardasigilli manterrà la “facoltà” di promuovere l'azione disciplinare, conformemente a quanto previsto dall'ART. 107, secondo comma, della Costituzione, mediante richiesta di indagini al procuratore generale (comma 2), l'esercizio dell'azione disciplinare da parte di quest'ultimo organo - che ne invia comunicazione al Consiglio superiore della magistratura ed al Ministro della giustizia che può chiederne l'estensione ad altri fatti - non sarà più connotato dal carattere della facoltatività, assegnatogli sinora dall' articolo 14, primo comma, n. 1), secondo periodo, della legge 24 marzo 1958, n. 195, ma da quello della obbligatorietà (comma 3). Risulta così sottolineata la distinzione tra la titolarità dell'azione disciplinare facente capo al Procuratore generale, organo non solo politicamente irresponsabile ma anche vincolato al canone dell'eguaglianza ed imparzialità, e la titolarità dell'azione facente invece capo al Ministro della giustizia, il cui esercizio può riposare anche su ragioni politiche delle quali, tuttavia, il Ministro deve rispondere politicamente davanti al Parlamento.
Il comma 4, primo periodo, dell' articolo 15 pone poi l'obbligo, a carico del Consiglio superiore della magistratura, dei consigli giudiziari e dei dirigenti degli uffici, di comunicare ai titolari dell'azione disciplinare i fatti rilevanti sotto tale profilo; analogo e strumentale obbligo di comunicazione dei fatti disciplinarmente rilevanti concernenti l'attività dei magistrati della sezione o del collegio è posto, dal secondo periodo del medesimo comma 4, in capo ai rispettivi presidenti. L'inosservanza dell'obbligo posto in capo a questi ultimi soggetti, nonché in capo al dirigente dell'ufficio, è sanzionata ai sensi dell' articolo 2, comma 1, lett. dd), del decreto.
L'articolo 15 regola i termini dell'azione disciplinare. Mentre resta fermo che l'azione disciplinare deve essere promossa entro un anno dall'apprendimento della notizia, “a seguito dell'espletamento di sommarie indagini preliminari, o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della giustizia” (comma 1, primo periodo), viene chiarito, nel secondo periodo del medesimo comma, quale sia il contenuto proprio di una denuncia circostanziata, in difetto del quale la denuncia medesima non potrà costituire notizia di rilievo disciplinare. Quanto agli ulteriori termini della sequenza, mentre resta pure fermo quello di un anno dall'inizio del procedimento – segnato dalla richiesta di indagini rivolta dal Ministro al Procuratore generale o dalla comunicazione di quest'ultimo al Consiglio superiore (comma 3) - per lo svolgimento delle indagini nel procedimento disciplinare, viene ridotto il lasso temporale entro il quale dovrà essere pronunciata la sentenza dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura: non più due, ma un solo anno dalla richiesta di fissazione dell'udienza di discussione orale o per la declaratoria di non luogo a procedere (comma 2). Il tutto, quindi, con un contenimento della durata complessiva del procedimento entro ragionevoli limiti temporali. Il comma 6 disciplina, infine, i termini per la pronuncia nel giudizio di rinvio conseguente all'annullamento della sentenza della Sezione disciplinare da parte della Corte di cassazione.
Il comma 4 detta la disciplina relativa alla comunicazione all'incolpato dell'inizio del procedimento, con l'indicazione del fatto addebitatogli,nonché delle ulteriori contestazioni nel corso delle indagini. E' prevista la facoltà per l'incolpato di farsi assistere, sin dalla fase istruttoria, da un difensore, avvocato o magistrato, anche in quiescenza. Il comma 5 detta la disciplina della nullità degli atti di indagine non preceduti dalla comunicazione all'incolpato o dall'avviso al difensore, se previsto. I commi 7 e 8 prevedono, rispettivamente, l' estinzione del procedimento disciplinare per l' inosservanza dei termini, sempre che l'imputato vi consenta, e la disciplina delle ipotesi di sospensione dei termini medesimi.
L'articolo 16 disciplina la fase istruttoria del procedimento disciplinare.
Viene, in primo luogo, eliminata la possibilità, per il Procuratore generale, di scegliere se procedere tramite istruzione formale, spettante ad uno dei componenti della Sezione disciplinare, o tramite istruzione sommaria, spettante al Procuratore generale o ad un magistrato del suo ufficio, attraverso la previsione che all' attività di indagine proceda sempre il pubblico ministero, cioè, appunto, il Procuratore generale o un suo sostituto (comma 1).
In secondo luogo, con il comma 2, viene eliminato il rinvio al previgente codice di rito penale e, quindi, l'ultrattività delle disposizioni del medesimo in materia istruttoria. Dalla data di efficacia del decreto legislativo verranno dunque osservate, in quanto compatibili, le norme del vigente codice di procedura penale del 1989, con l'espressa esclusione, peraltro, di quelle che comportano l'esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell'imputato, delle persone informate sui fatti, dei periti e degli interpreti, estranee alla natura del procedimento e dell'illecito disciplinari, fatta salva l'applicazione dell' articolo 133 c.p.p..
Il comma 3 mantiene il richiamo alle disposizioni penali sostanziali per ciò che attiene alle persone informate sui fatti, ai periti ed agli interpreti.
Il comma 4 introduce una ulteriore novità di rilievo, contemplata dalla legge di delegazione: la possibilità per il P:G., ove lo ritenga necessario “ai fini delle determinazioni sull'azione disciplinare”, di acquisire atti coperti da segreto investigativo, senza che lo stesso possa essergli opposto, fermo restando che, qualora il procuratore della Repubblica “comunichi, motivatamente, che dalla divulgazione degli atti coperti da segreto investigativo possa derivare grave pregiudizio alle indagini”, il Procuratore generale dovrà disporre con decreto che tali atti rimangano segreti per un periodo non superiore a dodici mesi, sospendendo il procedimento per uguale periodo.
Il comma 5 prevede, infine, la possibilità per il pubblico ministero di delegare il compimento di atti di indagine da compiere fuori dal proprio ufficio ad altro magistrato in servizio presso la procura generale della corte di appello nel cui distretto l'atto deve essere compiuto.
L'articolo 17 disciplina la fase relativa alla chiusura delle indagini.
Con riferimento a tale fase, particolarmente significativo è il rilievo attribuito dal legislatore delegante e, conseguentemente dal decreto, al ruolo del Ministro della giustizia.
In particolare, nel caso di richiesta di declaratoria di non luogo a procedere (di cui al comma 6), il Ministro della giustizia potrà opporvisi, nelle ipotesi in cui abbia promosso l'azione disciplinare o richiesto l'integrazione della contestazione, presentando memoria; in caso di accoglimento dell'opposizione - sulla quale pronuncia, in camera di consiglio, la sezione disciplinare - il Ministro della giustizia potrà chiedere al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell'udienza di discussione orale, formulando l'incolpazione (comma 7). Nell'ipotesi di richiesta di declaratoria di non luogo a procedere, e sempre che abbia promosso l'azione disciplinare o richiesto l'integrazione della contestazione, il Ministro della giustizia potrà, peraltro, anche optare per richiedere direttamente al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell'udienza di discussione orale, formulando l'incolpazione (comma 8).
Nel caso in cui invece il procuratore generale formuli l'incolpazione e richieda al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell'udienza di discussione orale (comma 2), ricevuta la relativa comunicazione, il Ministro della giustizia potrà, nei successivi 20 giorni, chiedere l'integrazione e, nel caso di azione disciplinare da lui promossa, la modificazione della contestazione, che il procuratore generale sarà tenuto a porre in essere (comma 3). La disposizione in esame prevede, ancora, che il Ministro della giustizia, nel caso in cui abbia promosso l'azione disciplinare, richiesto l'integrazione o la modificazione della contestazione, possa esercitare la facoltà di partecipare all'udienza orale, della cui data gli viene dato avviso, delegando un magistrato dell'Ispettorato del Ministero (comma 5). Analoga facoltà è prevista nelle ipotesi di cui ai commi 7 e 8.
L'articolo 18 detta le regole relative al dibattimento nel giudizio disciplinare.
Degna di nota risulta, in primo luogo, l'espressa previsione relativa alla pubblicità dell'udienza, fatte salve le ipotesi in cui è consentita l'eccezione a tale regola generale (comma 2). Il comma 3 disciplina la assunzione delle prove da parte della sezione disciplinare, mentre il comma 4, richiama, anche per il dibattimento, le norme del codice di procedura penale vigente, in quanto compatibili, facendo così cessare, anche con riferimento a tale fase, quella sorta di anomalia del sistema rappresentata dalla ultrattività del codice Rocco con riferimento ai soli procedimenti disciplinari. Come per la fase istruttoria è, peraltro, prevista l'espressa esclusione del richiamo delle disposizioni del codice di procedura penale che comportano l'esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell'imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti, fermo restando quanto previsto dall' articolo 133 c.p.p..
Il comma 5 mantiene, infine, il richiamo alle disposizioni penali sostanziali per ciò che attiene ai testimoni, ai periti ed agli interpreti.
L'articolo 19 disciplina lo svolgimento della discussione finale e le modalità della deliberazione da parte della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (comma 1), la forma di sentenza del provvedimento, la decisione ed il deposito dei motivi della sentenza (comma 2), la comunicazione dei provvedimenti adottati al Ministro della giustizia, con riferimento alle sole ipotesi in cui egli abbia promosso l'azione disciplinare ovvero richiesto l'integrazione o la modificazione della contestazione, con invio di copia integrale, anche ai fini della decorrenza dei termini per il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione (comma 3).
L'articolo 20 disciplina i rapporti tra il procedimento disciplinare ed il giudizio civile o penale, prevedendo, al comma 1, che l'azione civile di risarcimento del danno o l'azione penale relativa allo stesso fatto, non hanno effetto preclusivo dell'azione disciplinare, ferme restando, tuttavia, le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 15, comma 8 e, dunque, tra l'altro, la sospensione del corso dei termini del procedimento disciplinare in caso di esercizio della azione penale per il medesimo fatto, di cui alla lettera a), dell'articolo 15, comma 8, citato.
Al comma 2 sono poi dettate le regole relative alla efficacia delle sentenze penali irrevocabili di condanna, delle sentenze penali irrevocabili emesse ai sensi dell'art. 444 c.p.p. e delle sentenze penali irrevocabili di assoluzione nel giudizio disciplinare.
Gli articoli 21 e 22 disciplinano le ipotesi di sospensione cautelare obbligatoria e di sospensione cautelare facoltativa. In particolare, mentre la sospensione è facoltativa allorquando il magistrato è sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva, o quando al medesimo possono essere ascritti fatti rilevanti sotto il profilo disciplinare, che siano, per la loro gravità, incompatibili con l'esercizio delle funzioni, essa è invece obbligatoria nel caso in cui nei confronti del magistrato sottoposto a procedimento penale sia adottata una misura cautelare personale. Il provvedimento, che comporta la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio e la collocazione fuori del ruolo organico della magistratura, è adottato dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura su richiesta del Ministro della giustizia o del Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
Sono poi disciplinati, oltre al procedimento applicativo, le ipotesi di revoca delle misure, la corresponsione di un assegno alimentare durante la sospensione e gli effetti delle pronunce di proscioglimento o di non luogo a procedere adottate nel procedimento penale o di quelle, adottate nell'ambito del procedimento disciplinare, di non luogo a procedere o di assoluzione o condanna ad una sanzione diversa dalla rimozione o dalla sospensione dalle funzioni per un tempo pari o superiore alla durata della sospensione, in termini di riacquisto, da parte del magistrato, del diritto agli stipendi ed alle altre competenze non percepiti, detratte le somme già corrispostegli a titolo di assegno alimentare.
L'articolo 23 attua, al comma 1, il principio e criterio della legge di delegazione, che riconosce al magistrato sottoposto a procedimento penale e cautelarmente sospeso, nei confronti del quale sia stata poi pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento o sentenza di non luogo a procedere non più soggetta ad impugnazione, il “diritto ad essere reintegrato a tutti gli effetti nella situazione anteriore”. Tale diritto, secondo una interpretazione razionale tesa a consentire una effettiva elisione delle conseguenze dannose, in termini di impossibilità di avanzamento in carriera, subite, per effetto della sospensione, dal magistrato poi riconosciuto innocente, che mira, altresì, a coordinare la disciplina del decreto con i principi già accolti dall'ordinamento con le disposizioni di cui agli articoli 3, commi 57 e 57 bis, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria 2004) e 2, comma 3, del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66[125], convertito dalla legge 11 maggio 2004, n. 126,è stato inteso ancorando la suddetta “reintegrazione” al criterio, oggettivo, costituito dalla attribuzione al magistrato, nel limite dei posti vacanti, di funzioni di livello pari a quelle più elevate assegnate ai magistrati che lo seguivano nel ruolo al momento della sospensione cautelare, con l'eccezione delle funzioni direttive superiori giudicanti e requirenti di legittimità e delle funzioni direttive superiori apicali di legittimità, previa valutazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, delle attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate. Nelle ipotesi in cui non sia possibile l'assegnazione di funzioni più elevate rispetto a quelle svolte al momento della sospensione – non avendole ottenute i magistrati che seguivano nel ruolo il magistrato reintegrato o non essendo state le stesse conferite al medesimo dal Consiglio superiore della magistratura all'esito della valutazione attitudinale compiuta – il magistrato sarà assegnato, alla stregua di quanto previsto dal secondo periodo della lettera m) del comma 7 dell'articolo 2 citato, al posto precedentemente occupato, se vacante; in caso contrario egli avrà diritto di scelta fra quelli disponibili ed entro un anno potrà chiedere l'assegnazione ad ufficio analogo a quello originariamente ricoperto, con precedenza rispetto ad eventuali concorrenti.
L'articolo 24, in attuazione del principio di delega previsto dall'articolo 2, comma 7, lettera l) della legge n. 150/2005, introduce il nuovo regime della impugnazione contro i provvedimenti in materia di sospensione cautelare, obbligatoria e facoltativa, (di cui agli articoli 21 e 22) e contro le sentenze della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.
La norma, che nulla innova in materia di legittimazione attiva e quanto al tipo di impugnazione, atteso che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti innanzi indicati continua ad essere proposto dall'incolpato, dal Ministro della giustizia e dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione, stabilisce, in maniera innovativa, che il predetto ricorso debba essere effettuato nelle forme e nei limiti stabiliti (non più dal codice di procedura civile, ma) dal vigente codice di procedura penale, e che debba essere indirizzato (non più alle Sezioni Unite Civili, bensì) alle Sezioni Unite penali.
In tal modo, il giudice di legittimità non dovrà più valutare, con gli strumenti del processo civile, una decisione assunta sulla base di istituti affini al processo penale.Inoltre, al fine di abbreviare i tempi di durata del processo, viene espressamente previsto che la decisione del ricorso dev'essere adottata entro il termine massimo di sei mesi dalla proposizione del ricorso per cassazione.
Da sottolineare, infine, la disposizione secondo la quale, nei confronti dei provvedimenti in materia di sospensione, la proposizione del ricorso per cassazione non ha effetto sospensivo del provvedimento impugnato.
L'articolo 25, in attuazione del principio di delega previsto dall'articolo 2, comma 7, lettera n) della legge n. 150/2005, disciplina l'istituto della revisione, mezzo di impugnazione straordinario delle sentenze irrevocabili adottate dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il comma 1, dispone che la revisione è ammessa in ogni tempo, in caso di travisamento dei fatti rispetto a quanto accertato in sede penale, nel caso in cui emergano nuovi elementi di prova atti a dimostrare l'insussistenza dell'illecito disciplinare, in caso di sanzione disciplinare determinata da falsità o altro reato accertato con sentenza irrevocabile.
Il comma 2 indica le condizioni richieste a pena di inammissibilità della domanda di revisione.
I commi 3 e 6 trattano, rispettivamente, della legittimazione attiva del magistrato al quale è stata applicata la sanzione disciplinare o, in caso di morte dello stesso, dei suoi familiari, e quella del Ministro della giustizia del Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
Il comma 7 detta norme di carattere processuale, mentre il comma 8 ammette il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite penali contro la decisione che dichiara inammissibile l'istanza di revisione.
Infine, il comma 10, prevede che il magistrato assolto con decisione irrevocabile a seguito di giudizio di revisione abbia diritto alla ricostruzione integrale della carriera ed alla percezione delle spettanze economiche arretrate.
Il capo III reca Modifica alla disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento d'ufficio.
L'articolo 26 dà attuazione al criterio di delega contenuto nell'articolo 2, comma 6, lettera n), seconda parte, della legge n. 150/2005, il quale richiede la modifica del secondo comma dell'articolo 2 del regio decreto legislativo n. 511/1946 al fine di precisare che, salvo i casi in cui costituisca pena accessoria di una sanzione disciplinare o misura cautelare in pendenza di un procedimento disciplinare, il trasferimento d'ufficio ad altra sede o la destinazione ad altro ufficio del magistrato, possono essere disposti con procedimento amministrativo “solo per una causa incolpevole tale da impedire al magistrato di svolgere le sue funzioni, nella sede occupata, con piena indipendenza ed imparzialità”. In altri termini, la norma ha voluto collocare nell'ambito delle sanzioni accessorie dell'illecito disciplinare i casi in cui il magistrato, per sua colpa o per dolo, non possa più svolgere con piena indipendenza ed imparzialità le proprie funzioni nella sede occupata, mentre ha limitato la sfera di applicazione del procedimento amministrativo di trasferimento d'ufficio ai sensi del secondo comma dell'articolo 2 del R.Dlgs. 511/1946 alle sole ipotesi in cui la situazione di c.d. incompatibilità ambientale dipenda da causa indipendente da colpa del magistrato interessato.
Al fine di sottolineare tale distinzione, mentre la disciplina dei trasferimenti di ufficio disposti all'esito o come misura cautelare di un procedimento disciplinare sono disciplinati dall'articolo 13 del decreto, le modifiche apportate dalla norma in commento all'articolo 2, secondo comma, del regio decreto legislativo n. 511/1946 continuano a riguardare, in via esclusiva, i trasferimenti di ufficio disposti con procedimento amministrativo.
Il secondo comma dell'articolo 26 dà attuazione al criterio di delega contenuto nell'articolo 2, comma 6, lettera n), terza parte, della legge n. 150/2005 che, coerentemente con la novità introdotta con il primo comma dell'articolo in commento, richiede una disciplina transitoria in base alla quale i procedimenti amministrativi di trasferimento d'ufficio non ancora definiti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, per fatti astrattamente riconducibili agli illeciti disciplinari previsti dagli articoli 2, 3 e 4 dello decreto medesimo, dovranno essere “trasmessi al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione per le sue determinazioni in ordine all'azione disciplinare.”.
L'articolo 27 attua il principio di delega contenuto nell'articolo 2, comma 6, lettera o), della legge n. 150 del 2005 che richiede di inserire, attraverso la modifica dell'articolo 3 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946, una previsione che consenta ai magistrati dispensati dal servizio per infermità o sopravvenuta inettitudine di transitare nei ruoli della pubblica amministrazione, con funzioni amministrative. La norma precisa che il magistrato dispensato dal servizio potrà essere destinato, a domanda, e nel limite dei posti diponibili, presso il Ministero della giustizia. Le modalità ed i criteri di comparazione di tale destinazione saranno definiti con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica ed il Ministro dell'economia e delle finanze, tenuto conto del tipo e gravità dell'infermità o della sopravvenuta inettitudine. L'articolo precisa infine il trattamento economico del magistrato dispensato dal servizio e destinato allo svolgimento di funzioni amministrative.
L'articolo 28 dà attuazione al criterio di delega contenuto nell'articolo 2, comma 6, lettera q) della legge n. 150/2005, il quale, innovando rispetto all'attuale situazione, richiede di equiparare gli effetti della decadenza a quelli delle dimissioni. Esso, pertanto, equiparando gli effetti della decadenza a quelli della domanda con la quale il magistrato chiede di cessare di far parte dell'ordine giudiziario, estende a tutti i casi di decadenza, sia quelli previsti dall'articolo 11 del regio decreto n. 12/1941, che quelli previsti dall'articolo 127 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) il divieto di riammissione in magistratura del magistrato decaduto.
L'articolo 29 attua il criterio di delega contenuto nell'articolo 2, comma 6, lettera p) della legge n. 150/2005 e, con il sistema della novella, riformula gli articoli 18 e 19 del regio decreto n. 12/1941, disciplinando “in maniera più puntuale e rigorosa” le norme in materia di incompatibilità di sede per il magistrato.
Posto che la legge delega ha previsto l'introduzione, salvo eccezioni, di un criterio generale di incompatibilità “per il magistrato a svolgere l'attività presso il medesimo ufficio in cui parenti sino al secondo grado, affini in primo grado, il coniuge o il convivente esercitano la professione di magistrato o di avvocato o di ufficiale o agente di polizia giudiziaria”, il nucleo centrale delle modifiche apportate agli articoli 18 (in materia di incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense) e 19 (in tema di incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria) del regio decreto n. 12/1941 consistono nella puntuale individuazione delle deroghe al generale principio di incompatibilità innanzi indicato. A tal fine, la tecnica normativa utilizzata, è stata quella di indicare, in senso positivo, anche alla luce del contenuto delle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura, i casi in cui si verificano in concreto le ipotesi di incompatibilità di sede del magistrato.
Il Capo IV disciplina l'ambito di applicazione del decreto, le abrogazioni e la decorrenza di efficacia.
L'articolo 30, relativo all'ambito di applicazione, esclude che il decreto si applichi alle magistrature amministrativa e contabile.
L'articolo 31 elenca le disposizioni la cui abrogazione - ferma restando l'ulteriore opera di coordinamento delle disposizioni del decreto legislativo con le altre leggi dello Stato e di abrogazione delle disposizioni con esso incompatibili, che il legislatore delegato è chiamato a svolgere nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 3, della legge delega - si è ritenuto opportuno disporre sin dalla data di acquisto di efficacia del decreto, al fine di evitare dubbi ed incertezza interpretative.
L'articolo 32 disciplina la decorrenza dell'efficacia delle disposizioni contenute nel decreto, conformemente a quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, della legge 150/2005.
Il decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera a) e 2, comma 1, lettere da a) ad r), della legge 15/2005, laddove si prevede che sia modificata la disciplina per l’accesso in magistratura, nonché la disciplina della progressione economica e delle funzioni dei magistrati.
Il provvedimento stabilisce nuove modalità di accesso e tirocinio, di avanzamento, di passaggio da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa, di assegnazione di posti di funzione di primo e secondo grado e di legittimità, nonché una nuova disciplina per i concorsi e le relative commissioni, per il conferimento degli incarichi direttivi, per il ricollocamento in ruolo, per la progressione economica.
Il decreto, di particolare complessità, è suddiviso in dodici capi che dettano nuove regole in materia di ammissione in magistratura e tirocinio (Capo I), di individuazione delle varie funzioni dei magistrati (Capo II), di avanzamento in tali funzioni (Capo III), di passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa (Capo IV), di assegnazione dei posti nelle funzioni di primo grado (Capo V), di secondo grado (Capo VI) e di legittimità (Capo VII), di disciplina dei concorsi e delle relative commissioni (Capo VIII), di conferimento degli incarichi direttivi (Capo IX), di ricollocamento in ruolo dei magistrati fuori ruolo (Capo X), di progressione economica dei magistrati (Capo XI), oltre alle disposizioni finali e relative all’ambito applicativo (Capo XII).
Le fondamentali innovazioni e le opzioni compiute in sede di attuazione dei criteri e principi della delega verranno illustrate in relazione ai singoli capi.
Il capo I consta di nove articoli e disciplina il concorso per uditore giudiziario, ed in particolare i requisiti per l’ammissione al concorso, la fase iniziale della presentazione della domanda, la composizione e le funzioni della commissione di concorso, lo svolgimento delle prove, i lavori della commissione; infine, il capo I prevede la nomina degli uditori e, mediante rinvio al decreto legislativo sulla Scuola superiore della magistratura, la destinazione degli uditori al tirocinio.
L’articolo 1 disciplina il concorso per uditore giudiziario (comma 1) prevedendo la cadenza annuale del bando; i commi 2, 3, 4 e 5 prevedono le materie su cui vertono le prove scritte ed orali, i punteggi attribuiti all’esito delle prove, conservando le previsioni già contenute nell’ordinamento giudiziario.
In funzione del successivo svolgimento delle funzioni e della attribuzione della sede, il comma 6 prevede che il candidato indichi nella domanda di partecipazione al concorso, a pena d’inammissibilità, se intende accedere alla funzione giudicante ovvero a quella requirente.
Viene ora previsto (comma 7) un colloquio d’ idoneità psico-attitudinale all’esercizio della professione di magistrato, che dovrà tener conto delle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione predetta.
In relazione ai requisiti per l'ammissione al concorso (articolo 2), il comma 1 prevede i requisiti per l'ammissione al concorso, richiedendo, oltre alla laurea in giurisprudenza, il possesso di specifici titoli ovvero lo svolgimento di determinate esperienze professionali che implicano un approfondimento delle conoscenze nelle materie giuridiche.
Il comma 2 mantiene alcune condizioni già previste dal R.D. 12/1941 relative alla cittadinanza, all’esercizio dei diritti civili ed agli altri requisiti previsti dalle leggi vigenti, mentre il comma 3 mantiene le previsioni vigenti relative all’innalzamento del limite di età per la partecipazione al concorso. Il comma 4 mantiene l’esclusione dal concorso di coloro che il Consiglio superiore della magistratura non reputi di condotta incensurabile.
In relazione all’indizione del concorso ed allo svolgimento della prova scritta, l’articolo 3 prevede la cadenza (annuale) dei concorsi, il periodo in cui devono tenersi le prove, le fasi salienti della procedura concorsuale. E’ previsto che il concorso si tenga in Roma (comma 1), con la possibilità di tenere le prove scritte, in considerazione del presumibile numero delle domande, anche in altre sedi (comma 3), assicurando in tal caso il collegamento a distanza delle commissioni esaminatrici. Il comma 4 specifica la composizione del comitato di vigilanza che esercita le funzioni della commissione presso le sedi diverse da Roma.
L’articolo 4 contempla termini e modalità della presentazione della domanda di partecipazione al concorso, ricalcando sostanzialmente il tenore della norma già contenuta nell’ordinamento giudiziario.
L’articolo 5 prevede la composizione della commissione di concorso, gli adempimenti fondamentali della fase di insediamento, le regole di funzionamento. La commissione è composta da membri nominati dal Ministro della giustizia, previa delibera del Consiglio superiore della magistratura, tra magistrati e professori universitari, in numero determinato in relazione al presumibile numero dei candidati e in funzione del rispetto dei termini previsto per l’espletamento della procedura.
E’ previsto che i componenti magistrati siano in numero variabile da un minimo di dodici a un massimo di sedici, e che i professori universitari, scelti tra quelli di prima fascia nelle materie oggetto di esame, siano in numero variabile da un minimo di quattro a un massimo di otto; il numero dei componenti professori universitari è tendenzialmente proporzionato a quello dei componenti magistrati. Il professore universitario incaricato del colloquio psico-attitudinale è scelto tra i docenti di una delle classi di laurea in scienze e tecniche psicologiche.
In linea di principio, è previsto l'esonero totale dall'esercizio delle funzioni giudiziarie o giurisdizionali dei componenti le commissioni, a meno che non sia possibile raggiungere il numero sufficiente di componenti; in questo caso è possibile l’esonero parziale.
Per utilizzare conoscenze preziose e per ovviare a possibili difficoltà nel reperimento dei componenti la commissione (il decreto esclude la nomina di chi ha fatto parte della commissione in uno degli ultimi tre concorsi precedentemente banditi) è previsto che il presidente della commissione e gli altri componenti appartenenti alla magistratura possano essere nominati anche tra i magistrati a riposo da non più di cinque anni i quali, all'atto della nomina, non hanno superato i settantacinque anni di età e che esercitavano le funzioni richieste per la nomina all'atto della cessazione dal servizio.
Insediatisi tutti i componenti, la commissione, nonché ciascuna delle sottocommissioni, ove costituite, svolgono la loro attività con la presenza di almeno nove di essi, numero nel quale dev’essere ricompreso il presidente ed almeno un professore universitario.
I lavori della commissione (articolo 6) sono disciplinati in modo da rispettare il lasso temporale previsto dalla legge delega (art. 2, comma 1, lett. d) n.1); a tal fine, sono previsti meccanismi acceleratori che vanno dalla convocazione di sedute supplementari (comma 4) sino alla revoca dei membri da parte Consiglio superiore della magistratura (commi 6 e 8). Il comma 3 prevede che i lavori della commissione siano articolati in ragione di un numero minimo di dieci sedute a settimana, delle quali cinque antimeridiane e cinque pomeridiane, salvo assoluta impossibilità della commissione stessa, mentre il comma 5 raccorda alle finalità anzidette i periodi di congedo ordinario fruibili dai componenti della commissione.
L’articolo 7 riproduce le previgenti disposizioni in ordine ai limiti di ammissibilità ed alle esclusioni dai successivi concorsi. Anche nel nuovo ordinamento, deve ritenersi che l’esclusione dai concorsi successivi si riconnetta alla dichiarazione della terza inidoneità, con la conseguente ammissibilità ai concorsi successivi quando la terza dichiarazione di inidoneità intervenga dopo l’ammissione al concorso successivo.
L’articolo 8 disciplina la nomina ad uditore giudiziario, individuando i criteri per l’ individuazione del posto in graduatoria e l’ attribuzione della sede.
In sintesi, la sequenza prevista dai commi 1 e 2 è la seguente: in primo luogo viene stilata la graduatoria secondo il punteggio riportato dai candidati; quindi viene emesso il decreto ministeriale di nomina; successivamente, le sedi vengono assegnate accordando rilevanza di titolo preferenziale all’indicazione della funzione -requirente o giudicante- indicata nella domanda di partecipazione, come previsto dalla legge di delega sub art. 2, comma 1, lett. a) n. 4). Solo in caso di parità di punti, applicato il predetto titolo preferenziale, si applicano le disposizioni generali vigenti sui titoli di preferenza per le ammissioni ai pubblici impieghi. Il comma 3 prevede un termine di decadenza per la presentazione dei documenti comprovanti il possesso dei titoli di preferenza.
L’articolo 9 (Tirocinio degli uditori e ammissibilità all’esame per l’esercizio della professione di avvocato) coordina il periodo di tirocinio con le previsioni contenute nel decreto legislativo che prevede l’istituzione e l’attività della scuola superiore della magistratura.
Viene mantenuta la previsione secondo cui il periodo di uditorato è valido, come pratica forense, agli effetti dell’ammissibilità all’esame per l’esercizio della professione di avvocato.
Il capo II (Funzioni dei magistrati) consta di due articoli ed individua le funzioni dei magistrati, ricomponendole in un quadro organico.
Gli articoli 10 e 11 individuano le funzioni dei magistrati, distinguendole, secondo le indicazioni della legge delega, in funzioni di merito e in funzioni di legittimità, giudicanti e requirenti.
Sono previste funzioni requirenti e giudicanti, funzioni direttive e semidirettive (giudicanti e requirenti) sia di primo che di secondo grado, funzioni di legittimità, funzioni direttive di legittimità (giudicanti e requirenti), queste ultime distinte in direttive, direttive superiori e direttive apicali.
Nell’ambito delle funzioni direttive di primo grado (giudicanti o requirenti) sono distinte funzioni direttive di grado elevato, corrispondenti a quelle di presidente di tribunale e di presidente della sezione per le indagini preliminari dei tribunali di cui all’articolo 1 del D.L. 25 settembre 1989, n. 327 (Norme sulla dirigenza delle sezioni delle indagini preliminari e delle preture circondariali), convertito dalla legge 24 novembre 1989, n. 380, di presidente dei tribunali di sorveglianza di cui alla tabella A allegata alla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), e di procuratore della Repubblica presso i predetti tribunali.
Il capo III consta di un articolo che disciplina la progressione nelle funzioni
L’articolo 12 prevede la progressione nelle funzioni, innovando radicalmente la normativa previgente.
Va evidenziato, in primo luogo, il principio secondo cui, sino al compimento dell’ottavo anno dalla nomina a uditore giudiziario, i magistrati debbono svolgere effettivamente funzioni requirenti o giudicanti di primo grado (comma 2); unica eccezione prevista, per evidenti esigenze di ordine costituzionale, è quella in favore dei magistrati posti in aspettativa per mandato parlamentare o collocati fuori ruolo organico in quanto componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura.
La progressione nelle funzioni si effettua mediante concorso per titoli ed esami o mediante concorso per titoli (comma 1). Le funzioni di secondo grado possono essere attribuite, alternativamente, dopo otto anni di esercizio effettivo delle funzioni di primo grado previo superamento di concorso per titoli ed esami, scritti e orali, ovvero dopo tredici anni dall’ingresso in magistratura previo concorso per soli titoli (comma 3).
Le funzioni di legittimità sono attribuite, dopo tre anni di esercizio delle funzioni di secondo grado, previo superamento di concorso per titoli, ovvero, dopo diciotto anni dall’ingresso in magistratura, previo concorso per titoli ed esami, scritti e orali (comma 4). Al concorso per titoli ed esami, scritti e orali, per l’attribuzione delle funzioni di legittimità possono partecipare anche i magistrati che non hanno svolto diciotto anni di servizio e che hanno esercitato per tre anni le funzioni di secondo grado (comma 5).
Le funzioni semidirettive o direttive sono invece attribuite previo concorso per soli titoli (comma 6).
Il capo IV consta di quattro articoli che disciplinano il passaggio di funzioni.
Gli articoli 13, 14 e 15 disciplinano il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, imponendo, in attuazione della legge delega, una scelta netta e definitiva circa le funzioni –requirenti o giudicanti- che il magistrato dovrà svolgere (art. 13, comma 1).
In particolare, è previsto che entro il terzo anno di esercizio delle funzioni assunte subito dopo l’espletamento del periodo di tirocinio, i magistrati possono presentare domanda per partecipare a concorsi per titoli, banditi dal Consiglio superiore della magistratura, per l’assegnazione di posti vacanti nella diversa funzione. Per ottenere il passaggio di funzioni i magistrati devono frequentare l’ apposito corso di formazione presso la Scuola superiore della magistratura, il cui giudizio finale è valutato ai fini del passaggio.
Per evitare gli inconvenienti derivanti dalle prime applicazioni della disciplina, è previsto che se al momento della domanda il concorso non è stato bandito, la domanda venga presentata con riserva di integrare i titoli, e che la domanda dispieghi effetto per la partecipazione al primo bando di concorso ad essa successivo.
L’art 15 prevede che il CSM individui annualmente e, comunque, con priorità assoluta, i posti vacanti nelle funzioni giudicanti e requirenti di primo grado al fine di consentire il passaggio di funzione (comma 1). Il mutamento delle funzioni da giudicanti a requirenti, e viceversa, deve avvenire per posti disponibili in uffici giudiziari aventi sede in diversi distretti, con esclusione di quelli previsti dall’articolo 11 del codice di procedura penale (art. 15, comma 3).
L’articolo 16 detta la disciplina transitoria per i concorsi per il passaggio di funzioni banditi in data anteriore all’effettiva entrata in funzione della Scuola superiore, escludendo in tal caso la necessitò della partecipazione ai corsi di formazione presso la medesima (comma 1). I commi 2 e 3 recano la disciplina transitoria per coloro che vogliano cambiare funzioni.
Il comma 4 reca la disciplina del passaggio di funzioni relativamente ai magistrati fuori ruolo al momento dell’acquisto di efficacia della nuova normativa.
Il capo V consta di tre articoli relativi all’assegnazione dei posti nelle funzioni di primo grado.
Gli articoli 17 e 18 contemplano il meccanismo mediante il quale assicurare la copertura dei posti vacanti nelle funzioni di primo grado.
In primo luogo, è previsto che l’individuazione e l’assegnazione delle sedi vacanti sia effettuata Consiglio superiore della magistratura, tenuto conto della necessità di assicurare il passaggio tra le funzioni (art. 17, commi 1 e 2 e art. 18, commi 1 e 2).
Il Consiglio superiore della magistratura provvede poi sulle domande di tramutamento, previo parere del Consiglio giudiziario (art. 17, comma 2 e art. 18, comma 2). La parte residua dei posti individuati vengono messi a concorso per l’accesso in magistratura (art. 17 comma 3, art. 18 comma 3).
Per evitare i molti inconvenienti legati ad una lunga permanenza del magistrato nella stessa sede e nelle stesse funzioni, è previsto (articolo 19)un limite al periodo di permanenza presso lo stesso ufficio giudiziario svolgendo le medesime funzioni o, comunque, il medesimo incarico nell’ambito delle stesse funzioni (10 anni). La norma riprende ed eleva a principio generale quello già previsto in relazione alla funzione di giudice per le indagini preliminari.
In applicazione del principio di buon andamento la norma attribuisce peraltro al Consiglio superiore della magistratura il potere di prorogare di 2 anni il termine di permanenza in relazione a comprovate esigenze di funzionamento dell’ufficio, contemplando specificamente la necessità di concludere processi di particolare complessità nei quali il magistrato sia impegnato alla scadenza del termine (comma 1).
Il Capo VI consta di tre articoli che disciplinano l’assegnazione dei posti nelle funzioni di secondo grado.
Gli articoli 20 e 21 regolano, con disposizioni speculari attuative delle previsioni di cui all’art. 2, comma 1, lettera l), numeri 3) e 4), della legge delega l’assegnazione dei posti nelle funzioni giudicanti (art. 20) e l’assegnazione dei posti nelle funzioni requirenti di secondo grado (art. 21).
Le norme prevedono l’assegnazione dei posti vacanti nelle funzioni di secondo grado, residuati dopo le determinazioni del CSM sulle domande di tramutamento presentate dai magistrati che già esercitano le funzioni di secondo grado.
Il CSM assegna pertanto i posti di secondo grado per il 30 per cento ai magistrati che hanno conseguito l’idoneità nel concorso per titoli ed esami, scritti ed orali, cui è possibile partecipare già dopo otto anni dall’ingresso in magistratura (art. 12, comma 3) e, per il 70 per cento, ai magistrati che hanno conseguito l’idoneità nel concorso per soli titoli cui è possibile accedere dopo tredici anni dall’ingresso in magistratura (art. 12, comma 3), ferma la possibilità che i posti non coperti in uno dei due concorsi siano assegnati ai magistrati dichiarati idonei nell’altro, e tenuto altresì conto del giudizio finale formulato al termine degli appositi corsi di formazione alle funzioni di secondo grado presso la Scuola superiore della magistratura. L’assegnazione dei posti da parte del Consiglio superiore della magistratura presuppone, quindi, il superamento di un concorso. E’, infatti, solo nell’ambito dei candidati risultati idonei in uno dei due concorsi, che il Consiglio superiore della magistratura, tenuto conto del parere dei consigli giudiziari e degli ulteriori elementi di valutazione rilevanti ai fine del conferimento delle funzioni giudicanti o requirenti di secondo grado, assegnerà i posti vacanti nelle funzioni di secondo grado, giudicanti o requirenti. E’ così attuata una delle previsioni più innovative della legge di delegazione: l’introduzione di un sistema di progressione in carriera legato, da un canto, al superamento di un concorso, dall’altro, all’ effettiva copertura del posto per le funzioni superiori. Va peraltro specificato che è il Consiglio superiore della magistratura a formare la graduatoria, tenendo presente, come già detto, anche elementi ulteriori rispetto al superamento del concorso.
Gli artt. 20 e 21 dettano poi, conformemente ai principi e criteri di cui ai numeri 3.6), 3.7) e 3.8), nonché 4.6), 4.7) e 4.8), della lettera l) del comma 1, dell’articolo 2, della legge di delegazione, le corrispondenti disposizioni in materia di legittimazione dei magistrati che hanno assunto funzioni di secondo grado a presentare domanda di tramutamento (artt. 20, comma 3 e 21, comma 3), di conferimento della precedenza assoluta alle domande di tramutamento, presentate dopo tre anni, dei magistrati che hanno assunto le funzioni di secondo grado in una sede indicata come disagiata (artt. 20, comma 4, e 21, comma 4), di rilevanza della valutazione della laboriosità nella valutazione delle suddette domande di tramutamento (artt. 20, comma 5 e 21, comma 5). Quest’ultima valutazione di laboriosità risponde all’esigenza di riscontrare nell’operato del magistrato la concreta soddisfazione di quelle particolari esigenze che caratterizzano le c.d. sedi disagiate, e che meritano la preferenza assoluta nel successivo tramutamento.
L’articolo 22 detta disposizioni sul regime transitorio. Il comma 1 esclude la necessità di frequentare gli appositi corsi presso la scuola superiore ai fini della assegnazione dei posti vacanti residuati nella funzione giudicante di secondo grado e dei posti vacanti residuati nella funzione requirente di secondo grado, messi a concorso in data anteriore all’effettivo funzionamento della Scuola medesima. I commi 2 e 3 attuano le previsioni di cui all’art. 2 comma 9 lett. d), e) ed f) della delega.
Il Capo VII è composta di tre articoli che disciplinano l’assegnazione dei posti nelle funzioni di legittimità.
Gli articoli 23 e 24 attuano la direttiva di cui all’art. 2, comma 1, lettera l), numeri 7) e 9), della legge numero 150/2005, disciplinando l’assegnazione dei posti nelle funzioni giudicanti (art. 23) e l’assegnazione dei posti nelle funzioni requirenti di legittimità (art. 24).
I due articoli prevedono l’assegnazione dei posti vacanti nelle funzioni di legittimità, residuati dopo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura sulle domande di assegnazione alle funzioni di legittimità di provenienza presentate da magistrati che esercitano funzioni direttive o semidirettive o sulla loro assegnazione conseguente alla scadenza temporale dell’incarico rivestito.
Sui posti residui il Consiglio superiore assegna i posti vacanti, per il 30 per cento, ai magistrati che hanno conseguito l’idoneità nel concorso per titoli ed esami, scritti ed orali, cui è possibile partecipare dopo diciotto anni dall’ingresso in magistratura o, pur senza aver svolto diciotto anni di servizio, dopo tre anni di esercizio delle funzioni di secondo grado (art. 12, commi 4 e 5) e, per il 70 per cento, ai magistrati che hanno conseguito l’idoneità nel concorso per soli titoli cui è possibile accedere dopo tre anni di esercizio delle funzioni di secondo grado (art. 12, comma 4), ferma la possibilità che i posti non coperti in uno dei due concorsi siano assegnati ai magistrati dichiarati idonei nell’altro, e tenuto altresì conto del giudizio finale formulato al termine degli appositi corsi di formazione alle funzioni di legittimità presso la Scuola superiore della magistratura. L’assegnazione dei posti da parte del CSM presuppone, quindi, il superamento di un concorso. E’, infatti, anche in questo caso, solo nell’ambito dei candidati risultati idonei in uno dei due concorsi, che il Consiglio superiore, tenuto conto del parere dei consigli giudiziari e degli ulteriori elementi di valutazione rilevanti ai fine del conferimento delle funzioni giudicanti o requirenti di legittimità, assegnerà i posti vacanti nelle funzioni di legittimità, giudicanti o requirenti. Anzi, la progressione in carriera che si concreta nell’accesso all’organo di vertice della magistratura prevede, da un canto, un meccanismo concorsuale e, dall’altro, il condizionamento della progressione all’effettiva copertura del posto.
L’articolo 25 attua la disciplina transitoria quanto all’assegnazione delle funzioni di legittimità, attuando le previsioni di cui all’art. 2 comma 9 lett e) ed f) della delega.
Il Capo VIII (Concorsi e Commissioni) consta di tre articoli che disciplinano i concorsi per il passaggio di funzioni e per la progressione in carriera, la commissione incaricata di effettuare la valutazione ai fini del passaggio di funzioni e per la progressione in carriera.
L’articolo 26 (Concorsi per titoli e concorsi per titoli ed esami) dà attuazione (commi da 1 a 7), ai principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lettera l), n. 11), della legge delega. Il comma 1 si apre con l’affermazione del principio guida per la valutazione ovvero il riscontro della professionalità del magistrato (comma 1). Segue, al comma 2, l’indicazione degli elementi di cui si dovrà tener conto, in via prevalente, ai fini della valutazione dei titoli, nonché degli elementi ulteriori, la cui individuazione era lasciata aperta dalla legge di delega, dai quali la professionalità del magistrato potrà essere desunta; ulteriori elementi che sono stati individuati nelle pubblicazioni di studi e ricerche scientificamente apprezzabili su argomenti di carattere giuridico, nonché nei titoli di studio od ulteriori titoli attestanti qualificanti esperienze tecnico-professionali. Si è inteso con ciò dare rilievo, oltre che all’ attività svolta dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, anche ad attività di carattere scientifico, o ad esperienze di natura tecnico-professionale idonee ad evidenziarne la professionalità. Per garantire una equa e corretta valutazione di professionalità, il comma 3 prevede l’utilizzazione di ogni mezzo idoneo a mantenere l’anonimato dell’estensore del provvedimento e dell’autore delle pubblicazioni.
I commi da 4 a 7, recano la disciplina dei concorsi per titoli ed esami, chiarendo che in tali concorsi si procede alla valutazione dei titoli soli in caso di esito positivo della prova di esame (comma 4, primo periodo); il comma 4 prevede anche che la valutazione dei titoli deve incidere nella misura del 50 per cento sulla votazione finale in base alla quale verrà redatto l’ordine di graduatoria; il comma 5 prevede che restano ferme le disposizioni vigenti ai fini della valutazione dei titoli per la assegnazione delle funzioni di sostituto procuratore presso la Direzionale nazionale antimafia.
L’art. 26 prevede poi che gli esami, per la parte scritta, consistano nella risoluzione di uno o più casi pratici, aventi carattere di complessità ed implicanti la soluzione di rilevanti questioni probatorie, istruttorie e cautelari relative alle funzioni richieste e, per la parte orale, nella discussione del o dei casi pratici oggetto della prova scritta (commi 6 e 7). Nel costruire la prova scritta come prova eminentemente “pratica”, si è inteso connotare l’esame in termini di prova di capacità professionale del magistrato nel concreto esercizio delle funzioni, piuttosto che in relazione ad un esercizio meramente teorico e dottrinale.
Il comma 8 prevede, infine, in attuazione dei principi e criteri di cui all’art. 2, comma 1, lettera f), numero 6) della delega, l’innalzamento dei limiti di età per la partecipazione ai concorsi per i magistrati disciplinarmente sanzionati con una sanzione superiore all’ammonimento.
L’articolo 27 stabilisce, in conformità con il principio e criterio direttivo di cui al numero 12) della lettera l), del comma 1 dell’art. 2 della legge numero 150 del 2005, la validità settennale dei corsi di formazione alle funzioni di secondo grado e di legittimità tenuti presso la Scuola superiore della magistratura.
L’articolo 28 disciplina, ai commi da 1 a 4, in conformità con i principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lettera l), numeri 5), 6), 8) e 10), la composizione delle commissioni di concorso, nominate dal CSM, in relazione ai concorsi previsti ai fini della progressione in carriera e, in particolare, ai fini dell’ assegnazione delle funzioni giudicanti di secondo grado (comma 1), delle funzioni requirenti di secondo grado (comma 2), delle funzioni giudicanti di legittimità (comma 3) e delle funzioni requirenti di legittimità (comma 4). I commi 5 e 6 danno attuazione ai principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lettera p), numeri 1) e 2), prevedendo il regime della durata e della proroga delle commissioni in considerazione (comma 5) e dettando i limiti alla possibilità di riconfermare i componenti delle stesse (comma 6).
Il Capo IX consta di 21 articoli che disciplinano l’attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Gli articoli da 29 a 34 sono relativi alla individuazione ed attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi di merito.
Mentre l’articolo 29, reca la disposizione relativa alla individuazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, quanto alle sedi, dei posti vacanti negli incarichi direttivi e semidirettivi, giudicanti e requirenti, di merito, gli articoli da 30 a 34, recano, in attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lettera h), numeri 7), 8), 9), 10), 11), 12), 13), 14), 15) e 16), della legge di delegazione, la disciplina relativa alla attribuzione di tali incarichi, dettando, in particolare, le regole relative alla legittimazione alla partecipazione ai concorsi per titoli per il conferimento degli stessi.
L’articolo 35 precisa che il conferimento degli incarichi direttivi di merito, oltre a presupporre la frequentazione dell’apposito corso di formazione alle funzioni direttive presso la Scuola superiore della magistratura ed il conseguimento di una valutazione positiva nel relativo concorso per titoli, potrà aver luogo solo rispetto a magistrati che, al momento della data della vacanza del posto messo a concorso, possano garantire ancora quattro anni di servizio prima della data di ordinario collocamento a riposo, fissata, dall’articolo 5 della legge sulle guarentigie (regio decreto legislativo 511/1946), richiamato dall’articolo 35, a settanta anni. Tale disciplina è prevista in attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), numero 17, della legge delega, che avevano prescritto, anche al fine di evitare avvicendamenti continui negli incarichi direttivi, tale limiti di periodo minimo di servizio residuo.
Il comma 2 prevede la disciplina transitoria dando attuazione alla delega di cui all’art. 2 comma 9 lett b) quanto alla frequentazione del corso presso la Scuola.
L’articolo 36, in linea con le disposizioni di cui agli articoli 57 e 57 bis della legge 24 dicembre 2003 (Finanziaria 2004), e 2, comma 3, del DL 16 marzo 2004, n. 66 (legge 11 maggio 2004, n. 126) – disposizioni che sanciscono il diritto del pubblico dipendente, sospeso dal servizio o dalla funzione, o che abbia chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza, a seguito di processo penale conclusosi in maniera ampiamente liberatoria, di ottenere il assegnazione o il ripristino del rapporto di impiego “anche oltre i limiti di età previsti dalla legge, comprese eventuali proroghe, per un periodo pari a quello della sospensione ingiustamente subita e del periodo di servizio non espletato per l’anticipato collocamento in quiescenza, cumulati tra loro” – prevede che, ai fini del conferimento degli uffici direttivi di merito, nel computo degli anni di permanenza in servizio, alla data di ordinario collocamento a riposo si aggiunga un periodo pari a quello della sospensione ingiustamente subita e del servizio non prestato per l’anticipato collocamento in quiescenza, cumulati tra loro.
L’articolo 37 costituisce attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), numero 18), della legge delega, prevedendo, al comma 1, la legittimazione dei magistrati che hanno superato il concorso per il conferimento delle funzioni di legittimità a partecipare ai concorsi per gli incarichi semidirettivi di primo e di secondo grado e per gli incarichi direttivi di primo grado e di primo grado elevato e, al comma 2, che l’esercizio delle funzioni di legittimità costituisce, a parità di graduatoria, titolo preferenziale per il conferimento degli incarichi direttivi di primo grado elevato.
L’articolo 38 reca la disposizione relativa alla individuazione, da parte del CSM, dei posti vacanti negli incarichi direttivi e direttivi superiori di legittimità; gli articoli 39 e 40 prevedono, in attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 2, comma 1, lettera i), numeri 1), 2), 3), 4) e 5), della legge di delegazione, la disciplina relativa alla attribuzione di tali incarichi, oltre che di quello direttivo superiore apicale di legittimità, dettando, in particolare, le regole relative alla legittimazione alla partecipazione ai concorsi per titoli per il conferimento degli stessi.
L’articolo 41, comma 1, precisa che il conferimento degli incarichi direttivi di legittimità, oltre a presupporre la frequentazione dell’apposito corso di formazione alle funzioni direttive presso la Scuola superiore della magistratura ed il conseguimento di una valutazione positiva nel relativo concorso per titoli, potrà aver luogo solo rispetto a magistrati che, al momento della pubblicazione del posto messo a concorso, possano garantire ancora due anni di servizio prima della data di pensionamento, fissata, dall’articolo 5 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, richiamato dall’articolo 41, a settanta anni. Tale disciplina, prevista in attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera i), numero 6), della legge delega, ricalca quella relativa al conferimento degli incarichi direttivi di merito, di cui all’articolo 35, salvo che per il meno restrittivo limite di età per il conferimento dell’incarico (due, anziché quattro anni prima della data di ordinario collocamento a riposo). Il comma 2 del medesimo articolo precisa, invece, che gli incarichi direttivi superiori e l’incarico direttivo superiore apicale di legittimità sono conferiti ai magistrati valutati positivamente nei relativi concorsi per titoli, senza le restrizioni di età previste per gli incarichi direttivi d legittimità.
Il comma 3 prevede la disciplina transitoria dando attuazione alla delega di cui all’art. 2 comma 9 lett b) quanto alla frequentazione del corso presso la Scuola.
L’articolo 42, ricalca, con riferimento al conferimento degli incarichi direttivi di legittimità, la previsione formulata all’articolo 36 del decreto legislativo.
L’articolo 43 disciplina i concorsi per gli incarichi direttivi. L’incarico viene conferito previo superamento di un concorso finalizzato alla verifica circa l’idoneità del magistrato a svolgere le funzioni direttive. Tale valutazione è compiuta dalla commissione di concorso prevista dall’art. 47, che valuta i titoli in riferimento alla loro specifica rilevanza ai fini della verifica delle attitudini allo svolgimento di funzioni direttive (comma 1); trattandosi di un giudizio complesso che involge molteplici aspetti della professionalità del magistrato, è previsto che la commissione valuti anche la laboriosità del magistrato e la sua capacità organizzativa. La completezza e la globalità della valutazione si riflette anche nella successiva valutazione del Consiglio superiore della magistratura, che forma la graduatoria acquisiti ulteriori elementi di valutazione ed il parere motivato dei consigli giudiziari, o del consiglio direttivo presso la Corte di cassazione, nei concorsi per le funzioni direttive di legittimità (comma 2).
Il pregresso esercizio di funzioni semidirettive o direttive costituisce titolo preferenziale, in quanto elemento presuntivo di attitudine allo svolgimento delle funzioni direttive richieste (comma 5).
Il CSM propone quindi al Ministro della giustizia, secondo le modalità del concerto di cui all’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195, le nomine nell’ambito dei candidati dichiarati idonei dalla commissione di concorso (comma 2). Il Ministro della giustizia, fuori dai casi di ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato in relazione a quanto previsto dall’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195, e successive modificazioni, può ricorrere, esclusivamente al giudice amministrativo(TAR), contro le delibere concernenti il conferimento o la proroga di incarichi direttivi (comma 3).
Il meccanismo previsto dall’articolo 44 per l’attribuzione degli incarichi semidirettivi ricalca parzialmente lo schema illustrato a proposito del conferimento degli incarichi direttivi; anche in questo caso, il concorso determina una dichiarazione d’idoneità allo svolgimento delle funzioni semidirettive da parte della commissione di cui all’art. 47, con una valutazione orientata specificamente alla verifica delle attitudini allo svolgimento delle funzioni semidirettive. La valutazione della laboriosità del magistrato e della sua capacità organizzativa è invece richiesta in via prevalente rispetto alla valutazione dei titoli (comma 1), questi ultimi individuati e valutati nello stesso modo previsto per il conferimento delle funzioni direttive (ai sensi dell’art. 26, commi da 1 a 5).
Anche per l’attribuzione degli incarichi semidirettivi è previsto quale titolo preferenziale, in quanto elemento presuntivo di attitudine allo svolgimento delle funzioni semidirettive, il pregresso esercizio di funzioni direttive o semidirettive (comma 4). Al fine di realizzare la migliore valutazione possibile, per le funzioni semidirettive giudicanti in sezioni specializzate, il comma 6 impone di tenere adeguatamente conto della pregressa esperienza maturata dal magistrato nello specifico settore oggetto dei procedimenti trattati dalla sezione di tribunale o di corte di appello la cui presidenza è messa a concorso (comma 6).
Il CSM, acquisiti ulteriori elementi di valutazione ed il parere motivato dei consigli giudiziari, assegna quindi l’incarico semidirettivo nell’ambito dei candidati dichiarati idonei dalla commissione di concorso, tenuto conto del giudizio d’ idoneità espresso dalla commissione (comma 2).
L’articolo 45 sancisce il principio fondamentale della temporaneità dell’incarico direttivo (4 anni), contemplando la possibilità di una sola proroga di 2 anni, subordinata ad una valutazione positiva da parte del CSM (comma 1).
Per non disperdere il patrimonio di esperienza e di capacità ormai acquisito, il comma 2 prevede che, alla scadenza dell’incarico, il magistrato, nel rispetto di un sostanziale mutamento del nuovo ambito di competenza territoriale, potrà concorrere per altri posti direttivi di uguale grado in sedi poste fuori dal circondario di provenienza e per incarichi direttivi di grado superiore per sedi poste fuori dal proprio distretto, con esclusione di quello competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale.
Nel caso in cui il magistrato non ambisca a svolgere ancora funzioni direttive, oppure nel caso che la relativa domanda sia stata rigettata, egli è assegnato alle funzioni non direttive da ultimo esercitate nella sede di originaria provenienza, se vacante, ovvero in altra sede, senza maggiori oneri per il bilancio dello Stato (comma 4).
L’art. 45 detta, poi, disposizioni transitorie prevedendo che i magistrati che, alla data di acquisto di efficacia del primo dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a) ricoprono gli incarichi semidirettivi requirenti di cui al comma 1, mantengono le loro funzioni per un periodo massimo di quattro anni. Decorso tale periodo senza che i predetti magistrati abbiano ottenuto l’assegnazione ad altro incarico o ad altre funzioni, essi ne decadono restando assegnati con funzioni non direttive nello stesso ufficio, eventualmente anche in soprannumero, da riassorbire alle successive vacanze, senza variazione dell’organico complessivo della magistratura. Il comma 5 prevede che i magistrati i quali alla data di entrata in vigore della nuova normativa ricoprano incarichi direttivi, giudicanti o requirenti, mantengono le loro funzioni per un periodo massimo di quattro anni. Decorso tale periodo senza che i predetti magistrati abbiano ottenuto l’assegnazione ad altro incarico o ad altre funzioni, essi ne decadono restando assegnati con funzioni non direttive nello stesso ufficio, eventualmente anche in soprannumero, da riassorbire alle successive vacanze, senza variazione dell’organico complessivo della magistratura.
L’articolo 46 disciplina la temporaneità degli incarichi semidirettivi in modo analogo a quanto previsto per gli incarichi direttivi, con poche varianti legate alla diversa rilevanza dell’incarico. In tal senso vanno evidenziati la diversa durata dell’incarico (6 anni anziché 4) e l’assenza di proroga.
L’articolo 47 prevede la composizione delle commissioni di concorso per l’assegnazione dei posti relativi alle funzioni direttive e semidirettive, giudicanti e requirenti.
L’articolo 48 riguarda il concorso per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia; la norma precisa, mediante rinvio ad altre disposizioni del decreto, che al concorso si applicano: il concorso e la dichiarazione d’ idoneità da parte della commissione esaminatrice di cui all’articolo 47, il concerto del Ministero della giustizia ed i poteri attribuiti al Ministro dall’art. 43, la temporaneità dell’incarico (4 anni prorogabili a 6, di cui all’art. 45), la assegnazione alle funzioni da ultimo esercitate.
Il comma 2 prevede che alla scadenza dell’incarico di Procuratore nazionale antimafia, il magistrato possa concorrere per il conferimento di altri incarichi direttivi requirenti ubicati in distretto diverso da quello previsto ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale.
L’articolo 49 reca un regime transitorio per il conferimento degli incarichi semidirettivi di 1° e 2° grado e direttivi di 1° grado e 1° grado elevato, degli incarichi direttivi di 2° grado, e degli incarichi direttivi e direttivi superiori di legittimità, attuando il regime transitorio previsto dall’art. 2 comma 9 lett. f) ultima parte.
Il capo X (Magistrati fuori ruolo) consta di un solo articolo che disciplina il ricollocamento in ruolo dei magistrati (articolo 50).
Il primo comma prevede che il periodo trascorso dal magistrato fuori dal ruolo organico della magistratura è equiparato all’esercizio delle ultime funzioni giurisdizionali svolte. Il ricollocamento deve avvenire nella medesima sede, se vacante, o in altra sede, e nelle medesime funzioni. Nel caso di cessato esercizio di una funzione elettiva extragiudiziaria, salvo che il magistrato svolgesse le sue funzioni presso la Corte di cassazione o la Procura generale presso la Corte di cassazione o la Direzione nazionale antimafia, il ricollocamento in ruolo deve avvenire in una sede diversa vacante, appartenente ad un distretto sito in una regione diversa da quella in cui è ubicato il distretto presso cui è posta la sede di provenienza nonché in una regione diversa da quella in cui, in tutto o in parte, è ubicato il territorio della circoscrizione nella quale il magistrato è stato eletto.
Il secondo comma porta a dieci anni il termine massimo di collocamento fuori ruolo, non computandosi in detto periodo massimo quello trascorso fuori ruolo antecedentemente all’entrata in vigore del decreto.
Il terzo comma esclude, in ogni caso, che i magistrati collocati fuori dal ruolo organico in quanto componenti elettivi del CSM ovvero per mandato parlamentare possano partecipare ai concorsi previsti dal decreto.
comma 5 e 6 prevedono il regime transitorio per il ricollocamento in ruolo dei magistrati.
Il capo XI prevede la progressione economica dei magistrati, elencando sette classi stipendiali e differenziandone i singoli presupposti.
L’articolo 51 prevede che la progressione economica dei magistrati si articola automaticamente secondo sette classi crescenti di anzianità, salva la possibilità di conseguire la superiore classe stipendiale a seguito del superamento del concorso, fermo restando il miglior trattamento economico eventualmente conseguito dal magistrato.
L’ultimo capo del D.Lgs 160/2006, il capo XII, costa di quattro articoli che riguardano le disposizioni finali, l’ambito di applicazione del decreto, la copertura finanziaria, le abrogazioni e l’entrata in vigore.
L’articolo 52 precisa che la disciplina introdotta dal decreto si applica alla sola magistratura ordinaria.
Mentre l’articolo 53 è la norma di copertura finanziaria, l’articolo 54 prevede una serie di abrogazioni rese necessarie dall’entrata in vigore del decreto; in particolare, vengono abrogate una serie di norme del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12, sull’ordinamento giudiziario ormai incompatibili con la nuova disciplina, nonché le leggi 25 luglio 1966 n. 570 (Disposizioni sulla nomina a magistrato di Corte di appello) e 20 dicembre 1973 n. 831 (Modifiche dell'ordinamento giudiziario per la nomina a magistrato di Cassazione e per il conferimento degli uffici direttivi superiori).
L’articolo 55 è disposizione transitoria che detta il regime intertemporale relativamente alla disciplina dei limiti di permanenza nell’incarico presso lo stesso ufficio.
L’articolo 56 indica la decorrenza della efficacia delle disposizioni del decreto legislativo, individuandolo nel novantesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
In ordine temporale, l’ultima disciplina attuativa della riforma dell’ordinamento giudiziario è quella riguardante l’individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari, nonché decentramento su base regionale di talune competenze del Ministero della giustizia
Il relativo decreto legislativo, pur approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri il 10 febbraio 2006, alla data di chiusura della XIV legislatura, non risulta ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica.
Esso attua la previsione contenuta negli articoli 1, comma 1, lettera a) e 2, comma 1, lettere s) e t), nonché nell'articolo 2, comma 12, della legge delega.
Il legislatore delegante ha inteso, in primo luogo, riconoscere il ruolo del dirigente amministrativo nell'ambito degli uffici giudiziari, definendone puntualmente i compiti. Ciò sulla scorta della ormai generalmente acquisita consapevolezza di come solo il riconoscimento e la valorizzazione di tale ruolo e professionalità, con la motivazione e responsabilizzazione del dirigente amministrativo che ne conseguono, e di quello rispettivamente spettante al magistrato capo dell'ufficio giudiziario, ed una fattiva sinergia e collaborazione tra tali due diverse componenti degli uffici giudiziari, possono costituire il tramite per il buon funzionamento e l'efficienza degli uffici giudiziari. La legge di delegazione ha, dunque, riconosciuto, in capo ai dirigenti amministrativi, la gestione delle risorse di personale amministrativo, in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell'ufficio e con il programma delle attività da svolgere nel corso dell'anno predisposto dallo stesso dirigente amministrativo unitamente al magistrato capo dell'ufficio giudiziario, nonché quella delle risorse finanziarie e strumentali assegnategli per lo svolgimento del suo mandato, riservando al magistrato capo dell'ufficio la titolarità e la rappresentanza dell'ufficio nel suo complesso, oltre alla organizzazione dell'attività giudiziaria e, comunque, alle funzioni di “amministrazione dei giudici”. Particolare attenzione il legislatore delegante ha poi inteso riservare alla amministrazione delle risorse umane, finanziarie e strumentali relative ai servizi tecnico-amministrativi degli uffici giudiziari compresi nei quattro grandi distretti di Roma, Milano, Napoli e Palermo, prevedendo la costituzione, presso le relative corti di appello, dell'ufficio del direttore tecnico, al cui dirigente è attribuita l'organizzazione tecnica e la gestione dei servizi non aventi carattere giurisdizionale nell'ambito dei suddetti uffici giudiziari.
In secondo luogo, il legislatore delegante ha previsto il decentramento organico del Ministero della giustizia, trasferendo talune potestà decisionali in materia di organizzazione giudiziaria ad organi periferici, le direzioni generali regionali o interregionali dell'organizzazione giudiziaria, il cui ambito di attribuzioni, sotto il profilo territoriale, è individuato, appunto, su base regionale.
L’articolato del decreto è suddiviso in tre capi: il primo, che comprende gli artticoli da 1 a 5, dedicato alla individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari, il secondo, che comprende gli articoli da 6 a 10, dedicato al decentramento del Ministero della giustizia ed il terzo contenente le disposizioni finali.
L'articolo 1, nel contesto dello sforzo di ricercare una ripartizione di competenze e poteri, tra il magistrato capo dell'ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo, appropriata e coerente con i rispettivi ruoli, definisce l'ambito di quelli riservati alla dirigenza magistratuale. Confermemente a quanto previsto dalla legge di delegazione - per ragioni, deve ritenersi, sia giuridico costituzionali, che di logica organizzativa - la disposizione si preoccupa, in primo luogo, di salvaguardare l'unitarietà dell'ufficio giudiziario, prevedendo l'unitarietà della relativa titolarità, attribuita al magistrato capo dell'ufficio. Essa riserva poi, al medesimo magistrato capo dell'ufficio, la competenza in ordine ai compiti di “amministrazione della giuridizione” e di “amministrazione dei giudici”, conferendo, in via esclusiva, allo stesso, la competenza ad adottare i provvedimenti “necessari per l'organizzazione dell'attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico”.
Gli articoli 2 e 3 del provvedimento segnano il momento della valorizzazione del ruolo del dirigente amministrativo, al quale sono attribuiti i poteri di gestione delle strutture amministrative, intese come insieme di uomini e mezzi, di supporto all'esercizio della giuridizione. Tale attribuzione di poteri, oltre che rispondere ad una esigenza di motivazione e responsabilizzazione del dirigente amministrativo degli uffici giudiziari - esigenza oggi mortificata dall'attuale intreccio di competenze, in materia, tra magistrato capo dell'ufficio giudiziario e dirigente amministrativo e dal ruolo anche gestionale esercitato dal primo, in una posizione di sovraordinazione – muove, inoltre, dal presupposto, da ritenere ormai pressochè generalmente acquisito e condiviso, di come la gestione delle strutture amministrative richieda conoscenze, quelle proprie della scienza ed esperienza dell'organizzazione, ed un orientamento, quello del conseguimento di un obiettivo e di un risultato, che, tradizionalmente, non rientrano nel bagaglio professionale proprio del magistrato, la cui conoscenza ed attività sono, essenzialmente, orientate, alla conoscenza delle regole ed alla garanzia della loro osservanza. L'articolo 2 attribuisce quindi al dirigente amministrativo, in primo luogo, la responsabilità della gestione del personale amministrativo con funzioni di supporto degli uffici giudiziari, gestione che andrà, peraltro, attuata in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell'ufficio, oltre che con il programma annuale delle attività da svolgere nel corso dell'anno predisposto dallo stesso dirigente amministrativo unitamente al magistrato capo dell'ufficio giudiziario ai sensi dell'articolo 4. In attuazione di una espressa previsione della legge di delegazione, al dirigente amministrativo è stata attribuita anche la competenza ad adottare direttamente i provvedimenti disciplinari previsti dall'articolo 55, comma 4, terzo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), segnatamente, il rimprovero verbale e la censura.
L'articolo 3, attribuisce poi al dirigente amministrativo la gestione delle risorse finanziarie e strumentali assegnategli per l'espletamento del suo mandato. L'assegnazione di tali risorse è effettuata ad opera del direttore regionale o interregionale territorialmente competente, organo istituito dall'articolo 8, o ad opera dell'amministrazione centrale - a seconda che tali risorse siano strumentali rispetto ad ambiti di competenza decentrata o ad ambiti di competenza rimasta in capo agli organi dell'amministrazione centrale - e secondo i criteri indicati dal Ministro, ai sensi degli articoli 4, comma 1, lettera c), 14, comma 1, lettera b) e 16, comma 1, lettera b), del citato D.Lgs 165/2001, che disciplinano le competenze dell'organo politico di vertice e della dirigenza in materia di assegnazione delle risorse. Il provvedimento di assegnazione delle risorse definisce i limiti entro i quali è il dirigente amministrativo è comptente ad adottare impegni verso l'esterno con oneri di spesa.
L'articolo 4, introduce il programma delle attività annuali, nuovo strumento di organizzazione degli uffici, prodotto della collaborazione tra il magistrato capo dell'ufficio ed il dirigente amministrativo, a mezzo del quale gli stessi annualmente definiscono, tenendo conto delle risorse disponibili ed indicando le priorità, il piano delle attività da svolgere nel corso dell'anno. L'adozione del programma dovrà avvenire, annualmente, entro trenta giorni dalle determinazioni adottate, a seguito della direttiva generale del Ministro della giustizia per l'attività amministrativa e la gestione, di cui all'articolo 14 del D.Lgs 165/2001, dal direttore regionale o interregionale dell'organizzazione giudiziaria, dal direttore preposto agli uffici istituiti, ai sensi dell'articolo 5, presso le Corti di appello di Roma, Milano, Napoli e Palermo, o dagli organi della amministrazione centrale, per quanto di rispettiva competenza. Il comma 2 dell'articolo 4 disegna, infine, la sequenza procedimentale volta ad attivare i poteri di intervento del Ministro della giustizia per il caso di mancata predisposizione o esecuzione del programma o di mancata adozione di modifiche dello stesso divenute indispensabili per la funzionalità dell'ufficio giudiziario. In tali casi, qualora il magistrato capo dell'ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo non provvedano nel termine perentorio fissato dal Ministro, è previsto un intervento sostitutivo di quest'ultimo il quale incarica degli adempimenti urgenti il presidente della corte di appello del distretto di appartenenza dell'ufficio giudiziario inerte ed il dirigente amministrativo del relativo ufficio, mentre provvede direttamente nel caso di inerzia delle corti di appello o della Corte di cassazione.
L'articolo 5, attua la previsione dell'articolo 2, comma 1, lettera t), della legge delega, prevedendo l'istituzione, presso le Corti di appello di Roma, Milano, Napoli e Palermo, dell'ufficio del direttore tecnico, organo di livello dirigenziale generale, costituito, presso tali grandi corti di appello, per l'organizzazione tecnica e la gestione dei servizi non aventi carattere giurisdizionale. Nel definire, al comma 3, conformemente ai principi e criteri indicati dalla delega, i compiti demandati all'ufficio, la disposizione riprende quanto poi espressamente chiarito all'articolo 8, comma 3, in ordine alla relazione tra l'ufficio stesso e le, anch'esse neoistituite direzioni generali regionali e interregionali dell'organizzazione giudiziaria, richiamando i poteri di programmazione ed indirizzo spettanti al direttore generale preposto alle suddette direzioni generali regionali o interregionali nei confronti della attività dell'ufficio dei direttore tecnico - nei limiti, beninteso, delle competentenze devolute alle direzioni generali regionali e interregionali da lui dirette -.
Conformemente alla delega, la disposizione definisce poi, al comma 4, la dotazione di personale dell'ufficio del direttore tecnico e chiarisce, al comma 5, che le strutture dell'ufficio sono rperite mediante lo strumento della locazione finanziaria.
L'articolo 6, che apre il capo II intitolato al decentramento del Ministero della giustizia, prevede l'istituzione dei nuovi organi periferici del Ministero, le direzioni regionali e interregionali dell'organizzazione giudiziaria, chiamati ad esercitare, localmente, le attribuzioni trasferite dall'amministrazione centrale. La specifica individuazione di tali direzioni, della circoscrizione regionale o interregionale che ne segna l'ambito di competenza per territorio, dei distretti di corte di appello in essa ricompresi e delle sedi, è prevista nella tabella allegata al decreto. Al fine assicurare il migliore adeguamento della azione aministrativa delle direzioni generali alle necessità degli uffici giudiziari del territorio, le direzioni interregionali sono state limitate a sole quattro, mediante accorpamento delle regioni Piemonte e Valle d'Aosta, Umbria e Marche, Abruzzo e Molise e Calabria e Basilicata. Complessivamente risultano pertanto istituite sedici direzioni generali regionali o interregionali. In relazione alla esigenza di assicurare economicità di gestione o più elevati livelli di efficienza del servizio od alla esigenza di adeguamento delle circoscrizioni alle modificazioni territoriali dei distretti, è possibile procedere alla istituzione, soppressione o modifica delle direzioni generali regionali o interregionali con lo strumento del regolamento di organizzazione, che ha natura di regolamento autorizzato, di cui agli articoli 17, comma 4-bis, della legge 23 agosto 1988, n. 400[126], e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300[127].
L'articolo 7, individua l'ambito della sfera di attribuzioni delle direzioni generali regionali o interregionali dell'organizzazione giudiziaria, devolvendo alle stesse, in conformità con la delega, le grandi aree funzionali del personale e della formazione, dei sistemi informativi automatizzati, delle risorse materiali, dei beni e dei servizi e delle statistiche (comma 1). Tali aree si connotano come trasversali alla organizzazione per dipartimenti del Ministero della giustizia oggetto del decentramento, interessando sia, in misura preponderante, il Dipartimento per gli affari di giustizia, sia il Dipartimento per la giustizia minorile, sia, infine, il Dipartimento per gli affari di giustizia sia pur, essenzialmente, per ciò che concerne le funzioni dello stesso relative al servizio dei casellari giudiziali. A tale ultimo proposito, si è ritenuto di esplicitare, nella previsione di cui al comma 2, la competenza delle direzioni regionali o interregionali per le funzioni relative al servizio dei casellari giudiziali, competenza che, nel testo della legge di delegazione, sembrava ricavarsi, piuttosto, per implicito, dalla riserva alla amministrazione statale del servizio del casellario giudiziale centrale. Esigenze di immediatezza nella ricostruzione del quadro complessivo delle attribuzioni dei nuovi organi periferici e delle attribuzioni che, pur se relative alle aree funzionali sopra indicate, rimangono, conformemente alle previsioni della delega, in capo all'organizzazione burocratica centrale, hanno indotto a ricompredere anche l'indicazione di queste ultime nel contesto del medesimo articolo 7, al comma 3. La devoluzione alle direzioni generali regionali o interregionali delle grandi aree funzionali del personale e della formazione, dei sistemi informativi automatizzati, delle risorse materiali, dei beni e dei servizi e delle statistiche, comporterà, come è evidente, oltre che la necessità di una puntuale definizione delle funzioni e dei compiti, inerenti tali aree, attribuiti alle direzioni generali medesime e di quelle che, viceversa, resteranno in capo agli organi dell'amministrazione centrale, un intervento di profonda revisione dell'attuale organizzazione del Ministero della giustizia contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 2001, n. 55. Lo strumento del regolamento di organizzazione, emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 4-bis, della citata legge 400/1988 e dell'articolo 4 del decreto legislativo 300/1999, è stato dunque individuato, al comma 4, come quello idoneo, nell'attuale sistema delle fonti, ad attuare tale inevitabile intervento di revisione dell'organizzazione ministeriale. Da tale intervento non potranno derivare ulteriori oneri a carico del bilancio dello Stato.
L'articolo 8 del provvedimento, oltre a richiamare, a proposito del direttore generale regionale o interregionale dell'organizzazione giudiziaria, la disposizione di cui all'articolo 18 decreto legislativo 300/1999, relativo ai soggetti che possono rivestire incarichi dirigenziali nell'ambito del Ministero della giustizia, individua, al comma 2, nel suddetto direttore generale, il responsabile dell'intera attività della direzione regionale o interregionale, chiamandolo, altresì, ad attuare i programmi definiti, sulla base delle direttive generali emanate dal Ministro della giustizia, dal capo del Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, dal capo del Dipartimento per la giustizia minorile e dal capo del Dipartimento per gli affari di giustizia, nell'esercizio dei poteri di indirizzo e coordinamento, ad essi rispettivamente spettanti in relazione all'area funzionale nella quale è ricompresa la funzione od il compito devoluto alla direzione generale regionale o interregionale, che l'articolo 7, comma 3, lettera a), in ossequio alle previsioni della delega, riserva alla amministrazione centrale. Come visto all'articolo 5, l'articolo 8 chiarisce poi, al comma 3, il rapporto tra l'ufficio del direttore tecnico costituito presso le quattro corti di appello di Roma, Milano, Napoli e Palermo e le direzioni generali regionali e interregionali dell'organizzazione giudiziaria, al cui direttore spettano poteri di programmazione ed indirizzo nei confronti della attività dell'ufficio dei direttore tecnico, nei limiti, beninteso, delle competentenze devolute alle direzioni generali regionali e interregionali da lui dirette. Il comma 4 dell'articolo in esame prevede, infine, la presentazione, da parte del direttore generale regionale o interregionale, con cadenza annuale, ai capi dei Dipartimenti sopra indicati, di una relazione riguardante l'andamento dei servizi, specificandone il contenuto.
L'articolo 9 detta le disposizioni in materia di modifica dell'organico dell'Amminstrazione giudiziaria conseguenti all'istituzione delle direzioni generali regionali o interregionali dell'organizzazione giudiziaria.
L'articolo 10 disciplina l'allocazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie destinate alle direzioni generali regionali ed interregionali, allocazione alla quale provvedono, per quanto di rispettiva competenza, il capo del Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile ed il capo del Dipartimento per gli affari di giustizia. La norma disciplina inoltre, al comma 2, i poteri di gestione delle risorse finanziarie destinate alla direzione generale regionale o interregionale, la assegnazione delle risorse umane e materiali destinate agli uffici giudiziari, la definizione dei limiti, per gli uffici giudiziari, concernenti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno e che comportano oneri di spesa, nonché, al comma 3, la trasmissione, da parte dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari della cirocscrizione, al direttore generale regionale o interregionale competente, dell'elenco delle spese sostenute nel semestre per il controllo sulla regolare attuazione dei programmi.
L'articolo 11 detta la disciplina transitoria in ordine agli immobili utilizzabili da parte delle direzioni generali regionali e interregionali sino alla data di acquisizione della sede definitiva.
L'articolo 12 prevede la copertura finanziaria del provvedimento e l’articolo 13 disciplina la decorrenza dell'efficacia delle disposizioni contenute nel decreto stesso.
La legge 14 maggio 2002, n. 94[128] modifica il comma 5 dell'articolo 110 dell'ordinamento giudiziario (RD 30 gennaio 1941, n. 12).
La novella è diretta a consentire ai magistrati applicati al di fuori del distretto di appartenenza la proroga nell’esercizio delle funzioni, alla scadenza del periodo di applicazione, limitatamente ai dibattimenti in corso sui procedimenti per uno dei gravi reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale (ovvero i delitti di associazione di tipo mafioso, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o di tabacchi lavorati esteri).
Infatti, ai sensi dell’articolo 110, comma 5, del RD n. 12/1941, l’istituto dell’applicazione del magistrato - in base al quale un magistrato in servizio può essere destinato allo svolgimento di funzioni presso i tribunali ordinari, i tribunali per i minorenni e di sorveglianza e le corti di appello del medesimo o di altro distretto, quando le esigenze di servizio in tali uffici siano imprescindibili e prevalenti - può protrarsi per un anno e può essere prorogata, in caso di necessità dell’ufficio, soltanto per un periodo non superiore ad un anno[129]. Tuttavia, l’ultimo periodo del comma in esame consente il prolungamento dell’applicazione per un ulteriore anno in casi valutati dal CSM di eccezionale rilevanza e limitatamente allo svolgimento dei procedimenti per i reati di cui all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p. Tale disposizione, portando ad un massimo di tre annila durata complessiva dell’applicazione, è volta ad impedire che l’attività dibattimentale relativa ai predetti processi di criminalità organizzata, svolta in presenza di un magistrato, sia caducata, allo spirare del termine dell’applicazione, con il conseguente obbligo alla rinnovazione degli atti processuali.
La finalità della legge 94/2002 è stata, quindi, quella di impedire che la scadenza dei termini massimi di proroga (tre anni) potesse pregiudicare l’ultimazione dei procedimenti in corso aventi ad oggetto i reati di criminalità organizzata, vanificando la complessa attività dibattimentale già svolta e i costi umani e finanziari sostenuti.
Conseguentemente, aggiungendo un periodo al comma 5 dell’art. 110 dell’ordinamento giudiziario, la legge proroga l’esercizio delle funzioni dei magistrati applicati al di fuori del distretto di appartenenza oltre i limiti previsti e fino alla conclusione dei dibattimenti in corso (articolo 1).
I successivi articoli 2 e 3 della legge riguardano la copertura finanziaria e l’entrata in vigore.
Con il decreto-legge 7 settembre 2004, n. 234, recante Disposizioni urgenti in materia di accesso al concorso per uditore giudiziario,convertito dalla legge 5 novembre 2004, n. 262,il Governo si è fatto carico di risolvere talune questioni, anche di contenzioso, sopravvenute dopo il bando di due dei tre concorsi previsti dalla legge 13 febbraio 2001, n. 48[130], per il completamento degli organici della magistratura ordinaria.
Il provvedimento - ampliando l’ambito dei soggetti esonerati - modifica la disciplina della prova preselettiva informatica del concorso per uditore giudiziario, temporaneamente applicabile (in virtù del disposto dell’articolo 22 della legge13 febbraio 2001, n. 48) ai concorsi banditi.
I citati due bandi di concorso, emessi in rapida sequenza, erano stati oggetto di numerosissime impugnazioni da parte di giudici onorari, avvocati, dottorandi e dottorati, specializzati in corsi universitari.
Tutti hanno rilevato la disparità di trattamento rispetto alle categorie di soggetti esonerati, ovvero magistrati militari, amministrativi o contabili, procuratori ed avvocati dello stato, idonei in uno degli ultimi tre concorsi espletati, diplomati o diplomandi presso le scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali.
In data 28 maggio 2004 il Tar Lazio ha accolto parte delle richieste ed emesso alcune ordinanze cautelari, ritenendo fondata la questione pregiudiziale sollevata dai candidati "avvocati".
Il giudice amministrativo ha ritenuto che “la mancata previsione dell'esonero dalla prova preliminare per i candidati in possesso del titolo di avvocato sembra presentare profili di arbitrarietà ed irragionevolezza tali da giustificare la sottoposizione della relativa questione alla Corte Costituzionale, previa concessione della tutela cautelare, apparendo altresì grave il pregiudizio derivante dalla necessità di dedicarsi, in concomitanza con lo svolgimento della professione, alla particolare preparazione mnemonica occorrente per una prova preliminare all'esame vero e proprio sulle materie del concorso”; la questione è approdata, in seguito al Consiglio di Stato che, con ordinanza 6292/2004, ha condiviso la decisione adottata dal giudice di prime cure, in ordine al sospetto di incostituzionalità riguardante la mancata previsione dell’esonero dalla prova preliminare per i candidati in possesso del titolo di avvocato, soprattutto in considerazione del fatto che “il conseguimento del diploma di specializzazione è, a sua volta, (anche) titolo per accedere alla prova di abilitazione dell’esame di avvocato”.
Differente la sorte dei candidati in possesso di titoli di studio post-universitari (diplomi di specializzazione rilasciati in base alla normativa previgente, dottorato di ricerca) diversi dal diploma di specializzazione per le professioni legali; in relazione a tali candidati, è stato ritenuto, infatti, che non appare né arbitraria né irragionevole la mancata previsione dell'esonero, in quanto giustificata dalla circostanza che la scuola di specializzazione per le professioni legali -a differenza degli altri titoli di studio- è istituzionalmente preordinata ad offrire al laureato una formazione post-universitaria finalizzata allo svolgimento delle funzioni di magistrato e delle professioni di avvocato o notaio. Analoga la decisione assunta con riguardo ai magistrati onorari, in relazione alla quale il Tar Lazio non ha rilevato alcuna discriminazione rispetto ai magistrati professionali e gli avvocati e procuratori dello Stato. La diversità di trattamento rispetto a questi ultimi è da ravvisarsi nel fatto che essi sono vincitori di un concorso avente caratteristiche analoghe a quelle previste per il concorso per l’ingresso in magistratura ordinaria.
Il decreto ha previsto, in particolare, l’esonero dalla prova preselettiva - oltre che deimagistrati militari, amministrativi e contabili, dei procuratori e avvocati dello Stato, di coloro che abbiano conseguito l’idoneità in uno degli ultimi tre concorsi espletati e che abbiano conseguito il diploma di specializzazione per le professioni legali (in base al testo previgente dell’articolo 123-bis dell’ordinamento giudiziario) - anche di coloro che, avendo conseguito la laurea in giurisprudenza dopo un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni:
§ abbiano conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense;
§ svolgano da almeno 4 anni le funzioni di magistrato onorario senza demerito e senza essere stati revocati o sanzionati in via disciplinare;
§ abbiano conseguito il dottorato di ricerca in materie giuridiche;
§ abbiano conseguito, al termine di un corso di studi di durata non inferiore a due anni, il diploma di specializzazione in una disciplina giuridica al termine di un corso di studi della durata minima di 2 anni presso le scuole di specializzazione di cui al DPR 162/1982.
Al fine di consentire l’emanazione di provvedimenti che, ad integrazione di quelli con i quali sono stati banditi gli ultimi due concorsi, garantiscano la partecipazione dei soggetti ora esonerati proroga di un anno (da 3 a 4 anni) il termine per la emanazione dei bandi previsto all’articolo 18 della legge n. 48/2001 (già portato a 2 e poi 3 anni da precedenti provvedimenti legislativi).
L’articolo 2 ha disposto circa la disciplina transitoria, stabilendo l’applicazione della nuova disciplina anche ai concorsi per uditore giudiziario già banditi alla data dell’entrata in vigore del decreto-legge, nonché la riapertura dei termini di partecipazione ai concorsi con decreto del Ministro della giustizia.
La legge 21 febbraio 2006, n. 98[131] - riprendendo il contenuto di un identico disegno di legge esaminato nella scorsa legislatura[132] - interviene in materia di geografia giudiziaria mirando alla costituzione nella città di Luino di una sezione distaccata del tribunale di Varese.
Il testo iniziale del provvedimento prevedeva, in realtà, di affiancare quella di Luino alla già esistente sezione distaccata di Gavirate; nel corso dell’esame al Senato, sulla base dei dati sui carichi di lavoro di Gavirate forniti dal Governo, è stata valutata negativamente l’istituzione di due distinte sezioni distaccate.
Sulla base di considerazioni di natura logistica e di efficienza amministrativa, si è ritenuto, quindi, preferibile rinunciare alla sezione distaccata di Gavirate a favore dell'istituzione di una nuova sezione distaccata a Luino.
Va, inoltre, ricordato che Luino, fino al 2 giugno 1999, data di entrata in vigore del D.Lgs 51/1998[133], istitutivo del giudice unico di primo grado, costituiva sede di sezione distaccata della pretura di Varese.
La mancata trasformazione nel 1998 della soppressa pretura in sezione distaccata e l’accorpamento dell’ex mandamento di Luino alla sezione distaccata di Gavirate, ha comportato seri problemi per i cittadini-utenti del servizio giustizia della zona. In particolare viene sottolineata la particolare orografia del territorio, con ben 4 comunità montane, l’assenza di adeguati collegamenti viari e ferroviari con Gavirate e la conseguente difficoltà dei cittadini di Luino nel raggiungere la sezione distaccata.
A sostegno della creazione del nuovo ufficio giudiziario sono state valutate le caratteristiche e problematiche particolari del bacino d’utenza di Luino, città a vocazione turistica, del tutto peculiari e completamente diverse rispetto a quelle del territorio della sezione di Gavirate; la collocazione geografica della città, con sei valichi confinanti con la Svizzera; l’esistenza di una importante linea ferroviaria internazionale.
Ad ulteriore avallo della legge c’è stato, inoltre, il rilevante impegno finanziario occorso per la realizzazione del nuovo palazzo di giustizia e l’esistenza a Luino, anche per la vicinanza con la Svizzera, di caserme dei carabinieri e della guardia di finanza; è, infine, stata sottolineata l’adesione alla richiesta di 11 comuni, di cui 9 attualmente compresi nel territorio della sezione distaccata di Gavirate (con un bacino di utenza totale di 64.000 abitanti).
L’articolo 1 del provvedimento, intervenendo sulle tabelle “A” e “B” del decreto legislativo 51/1998, istituisce, quindi, a Luino una sezione distaccata del tribunale di Varese, sopprimendo - nel contempo - la sezione di Gavirate.
Si ricorda che nella citata tabella “A” sono elencate, per corte d’appello, le sedi dei tribunali e le loro sezioni distaccate, con l’individuazione dei rispettivi bacini territoriali mediante l’elencazione dei comuni facenti parti dei tribunali e delle sezioni; nella tabella “B” sono invece soltanto elencate, sempre per corte d’appello, le sezioni distaccate di ogni tribunale.
Poiché l’ambito territoriale della nuova sezione distaccata di Luino è solo in parte coincidente con quello della soppressa sezione di Gavirate, la tabella “A” viene modificata in conseguenza della necessaria ridistribuzione territoriale all’interno del circondario tra il Tribunale di Varese e la nuova sezione distaccata di Luino.
L’articolo 2 reca una disposizione transitoria che mira all’attribuzione della competenza sulle cause pendenti nel circondario della soppressa sezione di Gavirate; la norma stabilisce la titolarità dell’ufficio giudiziario “ora” competente per territorio (Varese o Luino) e quindi la necessità di una eventuale nuova riassunzione davanti ad esso.
L’articolo 3 precisa, infine, come dalle disposizioni del provvedimento non debbano derivare nuovi o maggiori oneri finanziari a carico dello Stato.
La legge 22 aprile 2005, n. 69[134]ha dato attuazione alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo. Con l’entrata in vigore della legge, la decisione quadro risulta attuata in tutti gli Stati dell’Unione europea.
Va ricordato che la trasposizione della nuova disciplina nel diritto interno sarebbe dovuta avvenire entro il 31 dicembre 2003; il provvedimento ha avuto, però, un iter parlamentare di particolare lunghezza e complessità, anche in relazione ai numerosi problemi di compatibilità delle disposizioni della decisione quadro col nostro quadro costituzionale, da più parti sollevati.
La necessità del provvedimento trova giustificazione nella esigenza di superare ed eliminare la lunga e complessa procedura di estradizione, ritenuta ormai inadeguata in relazione alla esistenza di uno spazio senza frontiere, caratterizzato da un alto livello di fiducia e di cooperazione reciproca tra gli Stati dell’Unione.
L’approvazione da parte del Consiglio della UEdelladecisione quadro 2002/584/GAI[135] si inquadra nell’ambito delle iniziative dirette alla creazione di uno «spazio giudiziario di libertà, sicurezza e giustizia» (c.d. terzo pilastro), così come delineato prima dal Trattato sull'Unione europea e più recentemente dalla Costituzione europea ecostituisce una delle prime applicazioni del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarieda parte degli Stati membri, affermato nella Convenzione di Bruxellesdel 29 maggio 2000 sull’assistenza giudiziaria in materia penale.
La necessità del provvedimento trova giustificazione nella esigenza di superare edeliminare la complessa e lunga procedura di estradizione, ritenuta ormai inadeguata in relazione alla esistenza di uno spazio senza frontiere, caratterizzato da un alto livello di fiducia e di cooperazione reciproca tra gli Stati dell’Unione.
Nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere dell'ottobre 1999 si invitavano gli Stati membri a fare del principio del reciproco riconoscimento il fondamento di un vero spazio giudiziario europeo, affermando espressamente - per la prima volta - che «la procedura formale di estradizione deve essere abolita tra gli Stati membri, per quanto riguarda le persone che si sottraggono allagiustizia dopo essere state condannate definitivamente, ed essere sostituita dal semplice trasferimento di tali persone in conformità con l'art. 6 del Trattato».
In questo ambito si iscrive la decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo, nella cui premessa (considerando n. 5) si afferma che “un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate, al fine dell'esecuzione delle sentenze di condanna in materia penale o per sottoporle all'azione penale, consente di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina attuale in materia di estradizione”.
Secondo tale modello, la cooperazione giudiziaria nell'ambito dei paesi aderenti all'Unione si deve fondare sulla libera circolazione, in un clima di reciproca fiducia, dei provvedimenti emanati dall'autorità giudiziaria competente in conformità alla propria legislazione, costituenti titoli idonei a produrre effetti anche nel territorio di Stati diversi da quello nel quale sono stati adottati. In applicazione di tale principio, eliminata la fase politico-amministrativa che caratterizzava la disciplina sull'estradizione, l'esecuzione del mandato di arresto avviene attraverso contatti diretti tra le autorità giudiziarie nazionali, individuate sulla base degli ordinamenti statali. Il mandato di arresto europeo costituisce (considerando 6) la prima concretizzazione nel settore del diritto penale del principio di riconoscimento reciproco alla base della cooperazione giudiziaria in ambito UE.
Non vi è più motivo di distinguere tra la richiesta di detenzione provvisoria e la richiesta di estradizione, come previsto sotto il regime della Convenzione di estradizione del 1957, in quanto oltre alle caratteristiche classiche di un mandato di arresto (ricerca, cattura, detenzione provvisoria), il mandato europeo vale come richiesta di consegna alla autorità dello Stato che ha emesso il provvedimento. Tali previsioni consentono di snellire la procedura di esecuzione del mandato e di ridurre i tempi di attuazione della richiesta.
Il mandato d’arresto europeo mira così a sostituirsi al sistema attuale di estradizione, imponendo ad ogni autorità giudiziaria nazionale (autorità giudiziaria dell’esecuzione) di riconoscere, dopo controlli minimi, la domanda di consegna di una persona, formulata dall’autorità giudiziaria di un altro Stato membro (autorità giudiziaria emittente).
La citata attuale normativa in materia di estradizione è espressamente sostituita, secondo quanto previsto dall’art. 31 della decisione, dalle disposizioni della decisione stessa a far data dal 1° gennaio 2004, fermo restando la possibilità di conclusione di accordi bilaterali o multilaterali che snelliscano ulteriormente la procedura.
Per quel che riguarda, nello specifico, i principali profili della decisione quadro, va anzitutto detto che il provvedimento fissa i principi generali secondo cui uno Stato membro esegue sul proprio territorio un mandato europeo di arresto emesso da una autorità giudiziaria di un altro Stato
Il mandato d’arresto europeo viene definito come una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista dell’arresto o della consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata ai fini dell’esercizio di un’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privativa della libertà.
Il campo di applicazione del mandato d’arresto europeo è delimitato dall’art. 2 che ne prevede l’emissione:
§ a seguito di condanna definitiva a pena detentiva o misura di sicurezza non inferiore a 4 mesi;
§ per reati puniti nello Stato membro emittente con una pena detentiva o una misura di sicurezza non inferiore a 12 mesi.
La decisione quadro prevede un elenco di 32 reati (partecipazione ad organizzazioni criminali, terrorismo, tratta di esseri umani, sfruttamento sessuale di minori e pornografia infantile, traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi, corruzione, frode agli interessi finanziari delle comunità europee, riciclaggio, crimini contro l'ambiente, falsificazione di monete, criminalità informatica, dirottamento aereo, ecc.) per i quali non è necessario il requisito della cd. doppia incriminazione, ossia la garanzia per il soggetto passivo che il fatto sia previsto come reato tanto nello Stato richiedente, quanto nel paese dell'esecuzione. Condizione ulteriore per la consegna in base al mandato d’arresto europeo è, comunque, che nello Stato membro emittente il massimo della pena e della misura di sicurezza detentiva previste per tali reati sia pari o superiore a 3 anni.
Per reati diversi da quelli elencati è, invece, necessario ai fini della consegna il rispetto del requisito della doppia incriminazione.
In relazione al contenuto, nel mandato d’arresto europeo devono necessariamente essere presenti una serie di informazioni relative, in particolare, all’identità della persona, all’autorità giudiziaria emittente, alla natura e alle circostanze del reato, all’esistenza di una sentenza esecutiva, di un mandato d’arresto o altro analogo provvedimento, alla pena prevista o a quella già inflitta.
La procedura per l'applicazione del mandato opera essenzialmente tra le rispettive autorità giudiziarie nazionali; proprio tale aspetto costituisce una delle novità di maggior rilievo, risultando pressoché eliminata la fase politica e amministrativa che caratterizza l’attuale procedura di estradizione.
Gli Stati membri designano le autorità giudiziarie nazionali competenti all’emissione e all’esecuzione dei mandati d’arresto europei, potendo inoltre individuare autorità centrali incaricate di fornire assistenza alle citate magistrature emittenti o dell’esecuzione, ovvero affidando direttamente alle stesse autorità centrali la trasmissione e la ricezione dei mandati d’arresto europei e la corrispondenza ad essi relativa.
Dopo l’emissione del mandato si possono delineare, sotto il profilo procedurale, quattro fasi fondamentali previste dalla decisione quadro.
La prima fase consiste nella trasmissione del mandato di arresto dall'autorità giudiziaria dello Stato richiedente direttamente a quella dello Stato dell'esecuzione (art. 9) . In questa fase la ricerca della persona destinataria del provvedimento di cattura può avvenire attraverso il sistema informatico SIS oppure con la collaborazione dell'Europol.
Dopo l’arresto, si apre la seconda fase inerente alla delibazione, da parte dell'autorità giudiziaria che ha eseguito l'arresto, relativa al mantenimento dello stato di detenzione, secondo le norme del diritto interno (art. 12). L'arrestato può anche essere rimesso in libertà, purché l'autorità giudiziaria adotti misure idonee ad evitarne la fuga.
Dalla decisione quadro emerge, quindi, l’assenza di un preventivo vaglio da parte dell’autorità giudiziaria investita della richiesta di arresto (come previsto nell’ordinamento italiano): la decisione sull’esistenza dei presupposti dell’arresto, infatti, appartiene ad una fase successiva.
Nel caso in cui il soggetto acconsenta alla propria consegna allo Stato richiedente, la procedura è semplificata; se invece manca il consenso, si apre una ulteriore fase della procedura, in cui l’autorità giudiziaria, ascoltato il ricercato, deve assumere una decisione definitiva sull’esecuzione del mandato d’arresto europeo ovvero sulla consegna dell’arrestato all’autorità richiedente, potendo peraltro richiedere a quest’ultima informazioni supplementari.
Nell’ambito della procedura sono previste alcune garanzie per la persona destinataria del mandato di cattura: oltre alla citata informazione sulla possibilità di acconsentire alla consegna, in particolare, richiamando i diritti fondamentali della persona e le norme sul giusto processo, la decisione quadro prevede il diritto di essere informato del contenuto del mandato di arresto, di essere assistito da un difensore e da un interprete e di essere ascoltato dall’autorità giudiziaria.
Entro 60 giorni dalla data dell’arresto, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve assumere la decisione definitiva sulla consegna(nella procedura semplificata, il termine è invece di 10 giorni dalla comunicazione del consenso dell’interessato alla consegna), salvo possibilità di proroga motivata di ulteriori 30 giorni (art. 17).
L’ultima fase è quella della consegna dell’arrestato: notificata immediatamente la decisione, l’arrestato è, infatti, consegnato in data concordata tra le rispettive autorità giudiziarie; in ogni caso, salvo causa di forza maggiore o differimento per gravi motivi umanitari, il termine di consegna non può superare i 10 giorni dalla citata decisione definitiva di eseguire il mandato d’arresto europeo.
Dietro assunzione di alcune informazioni (esistenza del mandato, identità della persona, natura, qualificazione e circostanze del reato), viene previsto l’obbligo per gli Stati membri di permettere il transito sul proprio territorio di una persona oggetto di consegna.
In alcuni casi, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve rifiutare di eseguire il mandato e di consegnare la persona ricercata; ciò avviene:
§ se nei confronti di tale soggetto è stata già emessa una sentenza passata in giudicato per lo stesso reato in uno Stato membro dell’Unione diverso da quello emittente (principio del ne bis in idem);
§ se il reato per cui si procede è stato oggetto di amnistia nello Stato dell’esecuzione;
§ se, in base alla normativa vigente nello Stato dell’esecuzione il ricercato non è penalmente responsabile in regione dell’età.
In presenza di ulteriori specifiche condizioni (azione penale prescritta, sentenza definitiva per lo stesso reato emessa da un Paese terzo, ecc.), l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non deve, ma può rifiutare di dar corso al mandato d’arresto europeo.
La decisione quadro prevede, inoltre, la possibilità di confiscare e consegnare all’autorità giudiziaria emittente prove o beni acquistati dall’arrestato a seguito del reato.
A garanzia della persona consegnata viene sancito il rispetto del principio di specialità, in base al quale è posto il divieto di perseguire o restringere la libertà personale per fatti anteriori o diversi da quelli per cui è stata richiesta l’esecuzione del mandato. In relazione al rispetto di tale principio sono, peraltro, introdotte specifiche eccezioni.
Di seguito, viene data illustrazione del contenuto della legge di attuazione[136], formata da 40 articoli, distinti in tre titoli
Il titolo I, contiene le disposizioni di principio.
Il titolo II, contenente le norme di recepimento interno, è suddiviso in quattro capi: il capo I, intitolato “Procedura passiva di consegna”; il capo II, intitolato “Procedura attiva di consegna”; il capo III, intitolato “Misure reali”; il capo IV, intitolato “Spese”, si compone di un unico articolo (37).
Il titolo III contiene le disposizioni transitorie e finali
Alle disposizioni di legge, inoltre, deve essere aggiunta la dichiarazione presentata dall’Italia al momento della entrata in vigore della decisione quadro e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. In base a essa l’Italia continuerà ad applicare le convenzioni in materia di estradizione nella esecuzione dei mandati di arresto europeo emessi in altri Stati per reati commessi anteriormente alla entrata in vigore della decisione quadro (7 agosto 2002).
La complessità della normativa italiana appare in linea con quella delle legislazioni degli altri Stati membri e della stessa decisione quadro, testo normativo molto più complesso dei singoli strumenti giuridici in materia di estradizione, che viene a sostituire.
Come accennato, il titolo I della legge è dedicato alle disposizioni di principio e comprende tre articoli.
Nell’articolo 1 il mandato di arresto europeo viene definito come una “decisione giudiziaria” emessa da uno Stato membro (di “emissione”) in vista dell’arresto e della consegna di una persona da parte di un altro Stato membro (“di esecuzione”). La norma specifica che l’attuazione della decisione quadro nell’ordinamento interno avviene nei limiti in cui le relative disposizioni «non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e del giusto processo». Risulta invertita, in questo modo, la gerarchia delle fonti normative, tradizionalmente incentrata sulla regola di prevalenza del diritto comunitario, seppur nel rispetto dei “controlimiti” che la Corte costituzionale ha individuato (dalla storica sentenza 16-27 dicembre 1965, n. 98) nei casi di violazione dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» o dei «diritti inalienabili della persona umana».
A parte la sentenza irrevocabile di condanna, Il comma 3 indica un presupposto generale per la esecuzione in Italia dei mandati di arresto europei emessi a fini cautelari, richiedendo che il provvedimento sul quale è basato il mandato:a) deve essere «motivato»; b) «sottoscritto da un giudice».
Va rilevato come entrambi i requisiti non sono contemplati dalla decisione quadro; l’articolo 8, par. 1, lett. c), fa riferimento soltanto alla necessaria indicazione, nel mandato di arresto, dell’esistenza di una sentenza esecutiva, di un mandato di cattura o di “qualsiasi” altra decisione giudiziaria esecutiva che abbia la stessa forza e rientri nella “tipologia” di una decisione giudiziaria.
L’articolo 2 della legge indica le garanzie di ordine costituzionale che debbono essere osservate nell’esecuzione del mandato d’arresto europeo. La norma rinvia a un insieme di diritti fondamentali, principi e regole in materia di giusto processo, libertà personale, diritto di difesa, principio di eguaglianza, responsabilità penale e qualità della sanzione penale, contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Costituzione italiana, e la cui concreta verifica può rendere necessaria una richiesta di “idonee garanzie” allo Stato membro di emissione (comma 2). E’, poi, previsto iI rifiuto di consegna dell’imputato o del condannato in caso di grave e persistente violazione, da parte dello Stato richiedente, dei diritti fondamentali garantiti nella Cedu.
L’articolo 3, comma 1 della legge, stabilisce che l’ampliamento nella decisione quadro delle fattispecie di reato che danno luogo a consegna in base al mandato sottratte alla verifica della “doppia incriminazione” deve essere sottoposto a riserva d’esame parlamentare. Questo istituto, già noto in altri ordinamenti, è anche disciplinato in termini generali dall’articolo 4 della legge 11/2005 (Partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), che ha previsto l’apposizione della riserva da parte del Governo, in sede di Consiglio dei ministri dell’Ue, sui progetti di atti comunitari e dell’Ue e sulle loro modificazioni. In assenza di coordinamento con l’articolo 4 della citata legge 11/2005, la riserva parlamentare in relazione alle modifiche dell’articolo 2, par. 2, della decisione quadro seguirà l’iter delineato dall’articolo 3 della legge 69/2005. Sarà il presidente del Consiglio dei ministri, in concreto, a trasmettere al Parlamento il progetto di modifica.
L’articolo 4, comma 1, individua nel ministro della Giustizia l’autorità centrale preposta all’assistenza delle autorità giudiziarie competenti, stabilendo che spettano ad esso anche le attività amministrative di trasmissione e ricezione dei mandati d’arresto europei e della corrispondenza ufficiale ad essi relativa. Ciò comporta che nella fase passiva della procedura il ministro della Giustizia riceve il mandato di arresto europeo emesso in un altro Stato membro, unitamente alla documentazione, e lo trasmette senza indugio alla Corte d’appello territorialmente competente per la decisione. Nella fase attiva, il ministro riceve dalle autorità giudiziarie italiane il mandato di arresto europeo e lo trasmette alla autorità straniera competente per la esecuzione. In entrambi i casi il ministro della Giustizia cura le traduzioni necessarie.
Si ricorda come la decisione quadro preveda solo come eventuale l’interposizione tra le autorità giudiziarie di un’autorità centrale con compiti amministrativi (art. 7); in particolare, tale opzione dovrebbe attuarsi quando ”l’organizzazione del sistema giudiziario interno dello Stato lo rende necessario” (articolo 7, par. 2). Tra i Paesi che hanno scelto il ricorso all’Autorità centrale – oltre all’Italia - si segnalano la Germania, la Gran Bretagna e la Danimarca.
L’ultimo comma dell’articolo 4 della legge, infine, consente solo in condizioni di reciprocità, e nei limiti previsti da accordi internazionali, la corrispondenza diretta tra le autorità giudiziarie con obbligo di immediata informativa al ministro della ricezione o dell’emissione del mandato d’arresto europeo.
Dopo le disposizioni di principio, la legge 69/2005 prevede, nella sua parte di maggior rilievo (titolo II), le norme di recepimento interno della decisione quadro.
Il capo I (artt. 5-27) disciplina la procedura passiva di consegna ovvero l’esecuzione, in Italia, del mandato di arresto europeo emesso in un altro Stato membro.
Dal punto di vista procedimentale - vale a dire della successione di atti preordinata alla consegna della persona ricercata - si può distinguere una fase “passiva” e una fase “attiva”.
Per «procedura passiva di consegna», quindi, si intende la fase in cui una autorità giudiziaria italiana deve adottare la decisione sulla esecuzione del mandato di arresto europeo e la conseguente consegna della persona ricercata ovvero rifiutare o sospendere la esecuzione stessa, previa valutazione della sussistenza dei motivi di rifiuto o rinvio previsti dalla legge.
Nell’introdurre la disciplina dell’esecuzione, l’articolo 5 della legge stabilisce che la consegna di un imputato o condannato all’estero non può essere concessa senza la decisione favorevole della corte di appello.
La disposizione è del tutto equivalente a quella contenuta nell’articolo 701, comma 1, c.p.p., in materia di estradizione, da cui viene mutuata anche la rubrica (“Garanzia giurisdizionale”). Analoghi sono i criteri per la determinazione della corte d’appello territorialmente competente: si tratta, nell’ordine, del luogo di residenza, dimora o domicilio dell’imputato o condannato, nel momento in cui il mandato di arresto europeo è ricevuto dall’autorità giudiziaria italiana. Quando la competenza non può essere determinata in base a tali criteri è competente la corte di appello di Roma.
Un’ulteriore deroga è prevista nei casi, statisticamente frequenti, in cui la persona ricercata viene arrestata sul territorio italiano per effetto di una richiesta di arresto introdotta nel SIS (Sistema informativo Schengen), ai sensi dell’articolo 95 della relativa convenzione (Caas, Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, ratificata dall’Italia con legge 388/93); in questi casi è competente la corte d’appello nel cui distretto si è verificato l’arresto da parte della polizia giudiziaria.
La legge, in definitiva, ha opportunamente attribuito la decisione sulla esecuzione del mandato di arresto europeo agli uffici giudiziari già competenti nella fase giurisdizionale del procedimento di estradizione, per garantire sia i requisiti di alta specializzazione, sono propri di questa materia, sia il rispetto dei brevissimi termini che caratterizzano la nuova procedura di consegna.
L’articolo 6 contiene una serie di disposizioni relative al contenuto del mandato di arresto europeo, agli atti che debbono esservi allegati, alle richieste di integrazione, al cosiddetto “regime linguistico”. La norma, al comma 1, indica gli elementi del mandato di arresto europeo, che consistono nell’indicazione dell’identità e cittadinanza del ricercato; dei dati relativi alla autorità giudiziaria emittente (lett. b); dell’esistenza della sentenza esecutiva, del provvedimento cautelare o di ogni altra decisione esecutiva adottata da un giudice che abbia la stessa forza e che rientri nell’ambito applicativo degli articoli 7 e 8 della legge (condotta prevista come reato anche in Italia ovvero illeciti per cui è prevista la consegna obbligatoria) (lett. c); della natura del reato e nella sua qualificazione giuridica (lett. d); delle circostanze della commissione del reato (tempo, luogo e il grado di partecipazione del ricercato) (lett. e); della pena inflitta, nel caso in cui vi sia già una sentenza, ovvero, negli altri casi, della pena edittale minima e massima (lett. f); delle altre conseguenze del reato (lett. g).
Se il mandato di arresto europeo non contiene alcune di queste informazioni - quelle di cui alle lettere a), c), d), e) f) - o se esse non sono ritenute sufficienti ai fini della decisione, la corte d’appello richiede informazioni integrative alla autorità di emissione, direttamente o tramite il ministro della Giustizia (articoli 6, comma 2, e 16).
Queste disposizioni corrispondono a quelle contenute nella decisione quadro (articolo 8, par. 1). La seconda parte dell’articolo 6 (commi 3 e 4) prevede che la consegna della persona è consentita, ove ne ricorrono i presupposti, solo se al mandato di arresto europeo è allegata copia del provvedimento restrittivo della libertà personale o della sentenza di condanna a pena detentiva; e che debbono essere altresì allegati il testo delle disposizioni di legge applicabili, con indicazione del tipo e della durata della pena; i dati segnaletici e ogni altra possibile informazione idonea a determinare l’identità e la nazionalità della persona della quale è domandata la consegna; una relazione sui fatti addebitati alla persona, che contenga tra l’altro l’indicazione delle fonti di prova.
Queste prescrizioni - che corrispondono soltanto in parte alla rubrica dell’articolo 6 (“Contenuto del mandato d’arresto europeo nella procedura passiva di consegna”) - non sono conformi alla decisione quadro, che prevede la indicazione, e non anche la allegazione, del provvedimento in base al quale è stato emesso il mandato di arresto europeo (articolo 8, par.1, lett. c) e campo b) dell’allegato) e non menziona, tra gli elementi del mandato di arresto, la relazione sui fatti addebitati alla persona.
Nella prospettiva del legislatore italiano la allegazione della decisione giudiziaria è invece necessaria ai fini del controllo circa la sussistenza della motivazione del provvedimento cautelare, che la corte d’appello deve compiere nei casi in cui il mandato di arresto europeo è stato emesso «ai fini dell’esercizio di un’azione penale» e che può dar luogo allo specifico motivo di rifiuto previsto nell’articolo 18 lett. t).
Per quanto concerne la relazione sui fatti addebitati alla persona, va rilevato che essa riguarda soltanto i casi di mandato di arresto europeo emesso per la esecuzione dei provvedimenti giudiziari non definitivi, atteso che la espressione «fatti addebitati» è incompatibile con i provvedimenti di condanna definitivi. Anche così circoscritta, però, la disposizione appare di dubbia compatibilità con la decisione quadro, specialmente se si considera che la mancata trasmissione della “relazione sui fatti” da parte della autorità straniera dà luogo al rifiuto della esecuzione del mandato di arresto europeo (articolo 6, comma 6).
L’articolo 6 della legge, in conformità al principio generale dell’articolo 8, par. 2, della decisione quadro, stabilisce che il mandato di arresto europeo debba essere trasmesso alla corte d’appello tradotto in lingua italiana (comma 7). La regola, però, non riguarda gli atti giudiziari che lo Stato di emissione deve allegare al mandato, la cui traduzione dovrà essere curata dall’autorità centrale prima di trasmetterli alla Corte d’appello.
L’articolo 8 delimita il campo di applicazione obbligatoria del mandato di arresto europeo, che prescinde dalla necessità di doppia punibilità (nel Paese emittente il mandato ed in quello ricevente) enucleando un elenco di 32 reati (per i quali la pena sia, nel Paese emittente, pari o superiore a 3 anni): tra essi, si segnalano la partecipazione ad un’associazione criminale, il terrorismo, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento sessuale e la pornografia minorile, lo stupro, numerose fattispecie di traffico illecito (droga, armi, materiali nucleari e radioattivi, organi e tessuti umani, veicoli rubati, sostanze ormonali), la corruzione, frode (anche a danno delle comunità europee) il riciclaggio, l’omicidio volontario, reati ambientali, il razzismo e la xenofobia.
Gli articoli 9, 10, 11 e 12 della legge prevedono due diverse modalità di avvio del procedimento di esecuzione del mandato di arresto europeo dinanzi alla corte d’appello competente. Nel primo caso, il ricercato è ancora in libertà in Italia; nel secondo è già in stato di arresto ad opera della polizia, allertata da una segnalazione immessa nel SIS (Sistema informativo Schenghen). In entrambi i casi il procedimento si articola in due fasi: la prima dinanzi al presidente della corte, la seconda dinanzi all’organo collegiale.
Nella prima delle ipotesi citate, il ministro della Giustizia riceve il mandato d’arresto europeo dall’autorità straniera, in qualità di autorità centrale. Questa ipotesi presuppone che sia nota la localizzazione del ricercato sul territorio italiano e corrisponde a quanto previsto nell’articolo 9, par.1, della decisione quadro.
Ricevuto il mandato di arresto europeo, il procedimento si snoda attraverso le seguenti fasi (articolo 9):
§ trasmissione (senza ritardo) del mandato da parte del ministro al presidente della corte di appello territorialmente competente, che ne dà immediata comunicazione al procuratore generale. In questa fase il presidente della corte può stabilire contatti diretti con l’autorità giudiziaria straniera che ha emesso il mandato di arresto europeo (per esempio, se insorgano difficoltà relative alla ricezione o alla autenticità dei documenti trasmessi). Se invece risulta manifestamente competente un’altra corte d’appello, il presidente trasmette a quest’ultima il mandato d’arresto senza indugio.
§ il presidente riunisce la corte che, sentito il procuratore generale, in mancanza di cause ostative alla consegna, applica con ordinanza motivata la misura coercitiva, se ritenuta necessaria, valutata la possibilità di fuga.
Per il resto, la norma contiene un rinvio all’articolo 719 e al titolo I del libro IV del Cpp, in materia di misure cautelari personali, fatta eccezione per gli articoli 273, commi 1 e 1-bis, 274, comma 1, lettere a) e c), e 280 (comma 5).
L’articolo 10 prevede che, entro cinque giorni dall’esecuzione della misura coercitiva, il presidente della corte di appello deve sentire la persona sottoposta alla misura cautelare, informandola del contenuto del mandato d’arresto europeo, della facoltà di acconsentire alla propria consegna all’autorità giudiziaria richiedente e di rinunciare al beneficio di specialità (e quindi di poter essere sottoposta ad altro procedimento penale, condannata o privata della libertà personale per reati anteriori alla consegna diversi da quello per il quale questa è stata disposta). Della data fissata per queste attività è dato avviso al difensore almeno 24 ore prima. Copia dei provvedimenti emessi dalla corte d’appello e relativi alle misure cautelari dev’essere comunicata e notificata, dopo la loro esecuzione, al procuratore generale, alla persona interessata e al suo difensore, i quali possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge (articolo 719 del Cpp, cui fa rinvio il comma 7 dell’articolo 9 della legge).
Nel secondo caso, l’atto di impulso del procedimento è rappresentato non dalla ricezione del mandato di arresto europeo da parte del ministro della Giustizia, ma dall’arresto della persona ricercata ad opera della polizia giudiziaria, sulla base di una richiesta di arresto immessa nel sistema informativo Schengen ai sensi dell’articolo 95 della relativa convenzione. Questa ipotesi, in cui l’arresto del ricercato precede la ricezione del mandato di arresto europeo da parte della autorità italiana, è prevista nell’articolo 11 della legge e nell’articolo 9, par. 3, della decisione quadro. Essa ha grande importanza pratica ricorrendo nei casi, statisticamente frequenti, in cui l’autorità dello Stato estero non può trasmettere il mandato d’arresto direttamente allo Stato di rifugio in quanto è ignota la localizzazione del ricercato. Anche nell’estradizione accade che l’arresto sia eseguito prima dell’emissione di una formale domanda di consegna: questa situazione ricorre quando uno Stato emette un mandato di cattura internazionale a fini estradizionali, in base alle convenzioni vigenti (ad esempio, articolo 16 della convenzione europea di estradizione del 1957), ed è espressamente prevista nell’articolo 715 Cpp.
Nella nuova procedura di consegna, però, l’arresto di iniziativa della polizia giudiziaria può avvenire soltanto sulla base di una specifica segnalazione nel sistema informativo Schengen (il cosiddetto Sis), quindi limitatamente all’area dei cosiddetti “Paesi Schengen” e non anche sulla base delle richieste di cattura internazionale immesse attraverso il canale Interpol.
Verificatosi l’arresto:
§ la polizia giudiziaria deve darne immediata informazione al ministro della Giustizia e deve trasmettere il verbale al presidente della corte d’appello entro ventiquattro ore dall’arresto (articoli 11 e 12). Il primo adempimento è funzionale alla immediata comunicazione dell’avvenuto arresto allo Stato estero, per la trasmissione del mandato di arresto europeo e della relativa documentazione, che dovranno pervenire alla corte d’appello nei dieci giorni successivi alla convalida dell’arresto. Il secondo adempimento è funzionale alla “messa a disposizione” dell’arrestato e alla convalida dell’arresto (articolo 13);
§ entro 48 ore dalla ricezione del verbale di arresto, il presidente della corte di appello (o un magistrato della corte da lui delegato) deve informare il procuratore generale e sentire la persona arrestata. Questa attività è finalizzata ad una prima verifica giurisdizionale della legittimità dell’arresto, ma anche alla ricezione della eventuale dichiarazione di consenso alla consegna (articolo 14, comma 1);
§ se risulta evidente che l’arresto è stato eseguito per errore di persona o comunque al di fuori dei casi previsti dalla legge, in questa fase il presidente della corte di appello dispone, con decreto motivato, la immediata liberazione della persona; viceversa, convalida l’arresto con ordinanza. La ordinanza di convalida perde efficacia se nel termine di dieci giorni non perviene alla corte d’appello il mandato d’arresto europeo emesso nell’altro Stato membro (articolo 13, comma 3).
Nei casi in cui la persona arrestata è ristretta in località diversa da quella in cui l’arresto è stato eseguito, il presidente della corte di appello può delegare il presidente del tribunale territorialmente competente per l’interrogatorio di identificazione, ferma restando la sua competenza in ordine alla convalida dell’arresto.
L’inizio del procedimento davanti alla corte d’appello per la decisione relativa alla esecuzione del mandato di arresto europeo è disciplinato dall’articolo 10, comma 4, della legge. Entro venti giorni dalla esecuzione della misura coercitiva il presidente riunisce la corte d’appello, per la decisione sulla esecuzione del mandato di arresto europeo. Nello stesso termine, è disposto il deposito del mandato di arresto e della documentazione allegata. Il decreto di fissazione dell’udienza deve essere comunicato al procuratore generale e notificato alla persona e al suo difensore almeno otto giorni prima dell’udienza.
Salvi i casi di procedura consensuale, la corte d’appello decide con sentenza sulla esecuzione del mandato di arresto europeo entro sessanta giorni dalla esecuzione della misura cautelare (articolo 17, comma 2). Nel caso in cui il termine non possa essere rispettato, per cause di forza maggiore, il presidente della corte deve informarne il ministro della Giustizia, che ne dà comunicazione allo Stato di emissione, anche tramite il membro nazionale di Eurojust. La causa di forza maggiore, in particolare, può ricorrere quando la corte d’appello non abbia ritenuto sufficienti la documentazione e le informazioni trasmesse dallo Stato di emissione richiedendo informazioni integrative o supplementari (articolo 16, comma 1).
Ai fini della decisione sulla consegna della persona, la corte d’appello dovrà valutare preliminarmente se sussistano le condizioni ostative tassativamente indicate dalla legge. Al di fuori di tale ipotesi, la corte dispone con sentenza la consegna della persona ricercata: in ogni caso, quando il mandato di arresto europeo è stato emesso per finalità esecutive, vale a dire in base a una decisione giudiziaria definitiva di condanna; soltanto se sussistono sufficienti indizi di colpevolezza negli altri casi (articolo 17, comma 4).
Se la decisione della corte è contraria alla consegna, la sentenza dispone la revoca immediata delle misure cautelari applicate (articolo 17, comma 5).
Nell’ambito della procedura passiva di consegna, una significativa variazione procedimentale può essere determinata dal consenso alla consegna che la persona può prestare a seguito del suo arresto. Il consenso alla consegna può essere manifestato in tutte le fasi del procedimento, anche mediante dichiarazione al direttore della casa di reclusione (che deve immediatamente trasmetterla al presidente della corte di appello, anche a mezzo telefax) o con dichiarazione resa nel corso dell’udienza davanti alla corte e fino alla conclusione della discussione. In questi casi, come per l’estradizione consensuale, ha luogo una procedura semplificata (articolo 13 della decisione quadro).
La semplificazione riguarda sia la forma del provvedimento decisorio sia i termini: l’articolo 14 della legge prevede che, a seguito del consenso alla consegna, la corte di appello decide sulla esecuzione del mandato di arresto europeo con ordinanza emessa senza ritardo e, comunque, non oltre dieci giorni (termine mutuato dall’articolo 17, par. 2, della decisione quadro), dopo avere sentito il procuratore generale, il difensore e, se comparsa, la persona richiesta. L’ordinanza è ricorribile per cassazione, in quanto l’articolo 22 della legge ammette il ricorso contro tutti i provvedimenti che decidono sulla consegna della persona interessata, ma il ricorso non sospende l’esecuzione della decisione di consegna, atteso che l’articolo 22 fa dipendere l’effetto sospensivo soltanto dalla impugnazione della sentenza.
La dichiarazione di consenso è espressamente dichiarata irrevocabile dall’articolo 14 comma 3 della legge, secondo un principio enunciato in termini generali nell’articolo 205-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.
La disciplina dei motivi di rifiuto della esecuzione del mandato di arresto europeo (rifiuto alla consegna) riveste una fondamentale importanza e dimostra i limiti entro i quali la legislazione italiana ha recepito il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nel quadro della nuova procedura di consegna. L’articolo 18 della legge elenca venti motivi di rifiuto obbligatorio della consegna. Ulteriori motivi sono previsti nell’articolo 6, comma 6 (quando l’autorità straniera non dà corso alla trasmissione degli atti e documenti richiesti); articolo 7, comma 1 (mancanza della doppia punibilità); articolo 8, comma 3 (consegna del cittadino italiano in relazione a un fatto non previsto come reato dalla legge italiana, quando ricorre ignoranza incolpevole sulla norma penale dello Stato di emissione).
Soltanto una parte dei motivi di non esecuzione del mandato di arresto europeo previsti nella legge corrispondono a quelli elencati negli articoli 3 e 4 della decisione quadro (motivi di non esecuzione obbligatoria e facoltativa) ; altri sono ricavati dal preambolo della decisione; altri, infine, non trovano corrispondenza nelle disposizioni della decisione quadro.
In quest’ultima tipologia rientrano sicuramente i motivi di rifiuto previsti nell’articolo 8 comma 3, e nell’articolo 18 lettera b) (se il diritto è stato leso con il consenso di chi, secondo la legge italiana, può validamente disporne); lettera c) (se per la legge italiana il fatto costituisce esercizio di un diritto, adempimento di un dovere ovvero è stato determinato da caso fortuito o forza maggiore); lettera d) (se il fatto è manifestazione della libertà di associazione, della libertà di stampa o di altri mezzi di comunicazione); lettera e) (se la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva).
Nell’ambito dei motivi di rifiuto della esecuzione del mandato di arresto europeo va inquadrata la disciplina della doppia incriminabilità, che è uno degli aspetti nevralgici del nuovo sistema di consegna post-estradizionale ed è contenuta negli articoli 7, 8 e 40, comma 3, della legge.
Il sistema si basa – come accennato - su una “lista positiva” di reati per i quali, in deroga al criterio generale enunciato nell’articolo 7, comma 1, la legge prevede la consegna obbligatoria della persona, anche in carenza di doppia incriminazione, a condizione che si tratti di reati puniti con pena detentiva non inferiore a tre anni. La corte d’appello, in concreto, dovrà accertare la definizione dei reati per i quali è stato emesso il mandato di arresto europeo, secondo la legge penale dello Stato di emissione e quindi verificare se essa corrisponda o meno alle condotte elencate nell’articolo 8 comma 1. Con una inedita norma transitoria, inoltre, è stato previsto che le disposizioni dell’articolo 8 relative alla consegna obbligatoria si applicano unicamente ai fatti commessi dopo la data di entrata in vigore della legge (articolo 40, comma 3). In questo modo, l’autorità giudiziaria italiana dovrà rifiutare la consegna della persona per carenza di doppia incriminazione in tutti i casi, statisticamente frequenti, nei quali il mandato d’arresto europeo sia stato emesso per reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge italiana.
L’articolo 19 prevede tre casi in cui la corte d’appello deve subordinare l’esecuzione del mandato di arresto europeo ad alcune condizioni. Si tratta di disposizioni conformi a quelle contenute nell’articolo 5 della decisione quadro.
Il primo caso è quello in cui il mandato di arresto, emesso per ragioni attinenti alla esecuzione della pena, si basa su un provvedimento di condanna pronunciato in absentia, quando l’imputato non è stato personalmente citato a comparire né altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza. Si tratta di una condizione che corrisponde a quella del processo contumaciale italiano, recentemente riformato con decreto legge 21 febbraio 2005, numero 17. La corte d’appello, in questo caso, subordina la esecuzione del mandato di arresto europeo alla condizione che l’autorità giudiziaria di emissione fornisca sufficienti assicurazioni in ordine alla possibilità di richiedere un nuovo processo.
Il secondo caso è quello in cui il mandato di arresto europeo è stato emesso per la esecuzione di una pena detentiva a vita, nel quale la corte d’appello subordina l’esecuzione del mandato di arresto europeo alla circostanza che l’ordinamento giuridico dello Stato di emissione preveda una revisione della pena comminata, su richiesta del condannato o comunque entro venti anni, oppure la possibilità di applicare misure di clemenza.
Il terzo caso è quello in cui il mandato di arresto europeo è stato emesso, per finalità processuali, nei confronti di un cittadino italiano o di persona residente nello Stato italiano. La corte d’appello, in questo caso, subordina l’esecuzione del mandato alla condizione che la persona sia trasferita nello Stato per scontare in Italia la pena detentiva eventualmente comminata.
L’articolo 20 dispone sui criteri di precedenza nell’esecuzione in caso di concorso di più mandati di arresto europeo nei confronti di una stessa persona, prevedendo l’eventuale consulenza di Eurojust, Analogamente, il concorso di un mandato UE con una richiesta di estradizione proveniente da Stato terzo imporrà analoga scelta alla corte d’appello competente.
Mentre l’articolo 21 stabilisce come perentori i termini per la decisione della corte d’appello (pena la rimessione immediata in libertà del ricercato), l’articolo 22 prevede la ricorribilità per cassazione della sentenza emessa; il ricorso ne sospende l’esecuzione. La cassazione decide entro 15 gg. dalla ricezione degli atti.
Dalla decisione della corte d’appello (ordinanza o sentenza), il ricercato è consegnato allo Stato richiedente entro 10 giorni (articolo 23). Tale termine, che presuppone un accordo tra le autorità interessate, volto a individuare in concreto una data per la consegna, può essere posticipato in alcuni casi:
§ se la consegna nel rispetto del termine è impedita da cause di forza maggiore. Le autorità giudiziarie dovranno allora fissare una nuova data e la consegna dovrà avvenire entro 10 giorni dal nuovo termine fissato.
§ se la consegna nel rispetto del termine può provocare un concreto pericolo per la vita o la salute del ricercato (motivi umanitari) . La Corte d’appello può in questo caso differire la consegna per il tempo strettamente necessario a far venir meno il pericolo; dovrà quindi concordare una nuova data di consegna con l’autorità giudiziaria emittente e la consegna dovrà avvenire entro 10 giorni dal nuovo termine fissato.
La corte d’appello trasmette all’autorità giudiziaria richiedente le informazioni che permettano la deduzione del periodo trascorso in stato di custodia in Italia dalla durata complessiva della detenzione inflitta o per la determinazione massima della custodia cautelare.
Ai sensi dell’articolo 24 la consegna, oltre che rinviata, può anche essere temporanea, nelle seguenti ipotesi:
§ consegna rinviata: si ha quando il ricercato è sottoposto a procedimento penale in Italia ovvero quando nei suoi confronti è eseguibile nel nostro Paese una pena detentiva per reato diverso da quello cui si riferisce il mandato d’arresto europeo;
§ consegna temporanea: nell’indicato caso di rinvio, la corte di appello può decidere per la consegna a titolo temporaneo, sentita l’autorità italiana competente per il procedimento penale pendente nel nostro Paese, concordando le condizioni con l’autorità giudiziaria emittente.
L’articolo 25 disciplina le condizioni cui è subordinata la consegna del ricercato. Non si dà, infatti luogo a consegna nei seguenti casi (comma 1):
§ consegna del ricercato (da parte dello Stato ricevente) ad altro Stato membro in esecuzione di altro mandato emesso per un reato anteriore alla consegna medesima;
§ estradizione del ricercato in altro Stato terzo, senza l’assenso alla estradizione successiva
Sulla richiesta di consenso da parte dell’autorità giudiziaria straniera a che la persona consegnata dall’Italia in esecuzione di un mandato di arresto europeo sia ulteriormente consegnata ad altro Stato membro, la Corte d’appello che ha trattato il caso, previa verifica che la richiesta dello Stato estero contenga tutte le informazioni tipiche del mandato d’arresto e che il reato per il quale si intende procedere è contemplato nella decisione quadro, decide entro 30 gg.
La condizione di cui al comma 1 dell’art. 25 relativa alla consegna ad altro Stato membro non si applica quando ricorrano le seguenti circostanze:
§ il soggetto ricercato, pur potendo, non ha lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato trascorsi 45 giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendolo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno;
§ il soggetto ricercato ha espressamente consentito ad essere consegnato ad un altro Stato membro, oltre a rinunciare al principio di specialità;
§ il soggetto ricercato non beneficia del principio di specialità in quanto: a) dopo la consegna all’autorità giudiziaria emittente, è stato liberato e trascorsi 45 giorni non ha lasciato il territorio dello Stato - ovvero l’ha lasciato ma vi ha fatto volontariamente ritorno; b) dopo la consegna, ha rinunciato al principio di specialità e la Corte d’appello ha verbalizzato la rinuncia (comma 3).
L’articolo 26 sancisce il citato principio di specialità, in base al quale la consegna del ricercato è sottoposta alla condizione che lo stesso non venga – nello Stato emittente - processato, né privato della libertà personale per fatti anteriori o diversi da quelli per cui è stata richiesta l’esecuzione del mandato.
In relazione al rispetto di tale principio sono, peraltro – come accennato - introdotte specifiche eccezioni.
L’articolo 27 disciplina un’altra ipotesi particolare, quella del transito sul territorio italiano, nell’ambito di un procedimento di consegna, di una persona ricercata con mandato di arresto europeo (art. 25 della decisione quadro).
Il transito deve essere autorizzato dal Ministro della giustizia, che può rifiutare la richiesta quando manchino informazioni essenziali sul mandato di arresto, sulla persona che ne è oggetto o sul reato del quale è accusata, ovvero quando il ricercato è un cittadino italiano o residente in Italia e il transito prelude alla esecuzione di una misura privativa della libertà. In questa seconda ipotesi, l’autorizzazione al transito può essere sottoposta alla condizione che – dopo essere stata ascoltata – la persona sia rinviata in Italia per scontare la misura eventualmente pronunciata nei suoi confronti dallo Stato che ha emesso il mandato.
Il Capo II disciplina la procedura attiva di consegna.
L’articolo 28 della legge, in conformità al disposto di cui al par. 1 dell’articolo 6 della decisione quadro, che attribuisce alle legislazioni dei singoli Stati membri la facoltà di individuare l’autorità giudiziaria competente all’emissione del mandato d’arresto europeo, introduce una opportuna suddivisione di competenze stabilendo che il mandato d’arresto è emesso:
§ dal giudice che ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari (si tratta dell’ipotesi di mandato emesso per finalità processuali);
§ dal PM presso il giudice dell’esecuzione che ha emesso, ex articoli 656 e seguenti del c.p.p., l’ordine di esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza a carattere detentivo ordinata con la sentenza (si tratta, in questo caso, dell’ipotesi di mandato d’arresto emesso per finalità di esecuzione della pena).
Viene in tal modo riaffermato il principio secondo cui il mandato d’arresto europeo rappresenta solo lo strumento per garantire la esecuzione extraterritoriale di un provvedimento giudiziario la cui legittimità è subordinata al necessario rispetto delle regole interne che ne disciplinano l’emissione.
Nel primo caso le condizioni di emissione del provvedimento - attraverso l’implicito richiamo ai parametri generali di cui all’articolo 280 c.p.p. - richiedono necessariamente la sussistenza di un limite edittale di pena di gran lunga superiore rispetto a quello minimo fissato dall’articolo 2, par. 1, della decisione quadro; nel secondo caso, invece, accanto alla previsione di un limite minimo di pena più elevato rispetto a quello consentito nella citata disposizione della decisione quadro, l’emissione del mandato è possibile sempre che non ricorra una condizione di sospensione dell’ordine di esecuzione.
In entrambi i casi, peraltro, l’autorità giudiziaria trasmette il mandato d’arresto al ministro della giustizia, che provvede alla sua traduzione nella lingua ufficiale dello Stato di esecuzione ed alla successiva trasmissione all’autorità straniera competente.
Della emissione del mandato è altresì prevista l’immediata comunicazione al servizio per la cooperazione internazionale di polizia presso il ministero dell’Interno: in assenza di una esplicita previsione normativa al riguardo, deve ritenersi che l’adempimento sia rimesso alla competenza dell’ufficio II della direzione generale della giustizia penale presso il ministero della giustizia, che con quell’organo già dialoga ai fini della diffusione internazionale delle ricerche a scopo estradizionale.
L’articolo 28, dunque, produce una evidente asimmetria nell’articolazione della competenza giurisdizionale tra la fase attiva e quella passiva della procedura di consegna attraverso la previsione di un significativo elemento di novità nel quadro dei rapporti giurisdizionali con le autorità straniere: per la prima volta, infatti, la competenza non è radicata a livello distrettuale presso le procure generali delle corti d’appello, ma viene attribuita al giudice titolare del potere cautelare secondo le regole generali, implicitamente richiamate, di cui agli articoli 279 e 91 disp. att. c.p.p.
Il contenuto del mandato d’arresto deve necessariamente presentare il complesso delle informazioni espressamente indicate nell’articolo 30 della legge, che a sua volta riproduce la disposizione di cui all’articolo 8, par. 1, della decisione quadro: al riguardo, pur non essendo stato formalmente adottato il modello tipico di eurordinanza allegato alla decisione quadro, nulla vieta alle nostre autorità giudiziarie di farvi ricorso utilizzandolo in concreto nella prassi applicativa, anche per soddisfare evidenti criteri di uniformità degli atti nelle relazioni con le autorità giudiziarie degli altri Paesi.
Ai fini dell’emissione del mandato d’arresto europeo è necessario che la “localizzazione” del ricercato nel territorio di uno Stato membro sia nota alla competente autorità giudiziaria, che, in caso contrario, dispone, ex articolo 29 comma 2 ella legge, l’inserimento di una specifica segnalazione nel S.I.S (sistema informativo Schengen), conformemente alle disposizioni di cui all’articolo 95 della convenzione del 19 giugno 1990, di applicazione degli accordi di Schengen del 14 giugno 1985 (espressamente richiamati nell’articolo 9, par. 3, della decisione quadro). L’articolo 29 comma 2 della legge, infatti, stabilisce in tal caso - conformemente alla analoga previsione della decisione quadro - la regola della equiparazione tra il mandato d’arresto europeo e la segnalazione nel Sis (un criterio, questo, seguito del resto nelle legislazioni di attuazione di tutti gli altri Paesi europei).
Pur non essendo espressamente richiamate nel corpus della legge di attuazione, deve ritenersi comunque possibile per l’autorità giudiziaria emittente avvalersi delle facoltà previste dalle disposizioni di cui ai paragrafi 3 e 5 dell’articolo 10 della decisione quadro, ossia:
§ fare ricorso ai servizi dell’Interpol per comunicare il mandato d’arresto, quando, e i relativi casi saranno tutt’altro che infrequenti, non è possibile ricorrere al Sis (cui non aderiscono tutti i Paesi membri dell’Ue);
§ avviare contatti diretti con le autorità giudiziarie interessate o, se del caso, con l’intervento delle rispettive autorità centrali, per risolvere qualsiasi difficoltà relativa alla trasmissione o all’autenticità di un documento necessario per l’esecuzione del mandato d’arresto.
In linea con la previsione contenuta nel secondo inciso del par. 2 dell’articolo 20 della decisione quadro, l’articolo 29, comma 3, della legge di attuazione stabilisce che sia proprio l’autorità giudiziaria emittente a dover provvedere all’inoltro della richiesta di revoca del privilegio o di esclusione dell’immunità di cui la persona ricercata eventualmente benefici, allorquando tali situazioni soggettive siano riconosciute da uno Stato diverso da quello di esecuzione, ovvero da un organismo internazionale.
L’articolo 31 della legge, inoltre, stabilisce il principio della non autonomia del mandato rispetto al provvedimento interno, prevedendo che il mandato d’arresto europeo, emesso dal giudice che ha applicato l’ordinanza cautelare, perde efficacia quando il provvedimento restrittivo della libertà personale viene revocato, annullato, o diviene inefficace (sulla base dei principi e delle ordinarie regole processuali fissate dagli articoli 272 e seguenti c.p.p.). In tal caso, deve darsi immediata comunicazione allo Stato membro al quale il provvedimento era stato inviato per l’esecuzione. A tal fine, il procuratore generale presso la Corte d’appello ne deve dare immediata comunicazione al ministro della Giustizia che, a sua volta, provvede a informarne lo Stato membro di esecuzione. Nella citata disposizione di legge, peraltro, non vi è alcuna norma di coordinamento che preveda la comunicazione al procuratore generale della revoca o della sopravvenuta inefficacia del titolo cautelare, con la conseguenza che il procuratore generale potrebbe non esserne tempestivamente informato.
L’articolo 32 stabilisce, anche dal lato attivo della procedura di consegna, la rilevanza del principio di specialità con un rinvio alle stesse eccezioni previste dall’articolo 26 relativamente alla procedura passiva di consegna.
Particolarmente rilevante, infine, la disposizione contenuta nell’articolo 33 della legge, che dà attuazione nel nostro ordinamento al principio generale della deducibilità del periodo di custodia cautelare scontato all’estero, contemplato nel par. 1 dell’articolo 26 della decisione quadro.
Il principio di computabilità della custodia cautelare sofferta all’estero opera non solo ai fini della determinazione della pena detentiva (in virtù del richiamo all’articolo 657 Cpp), ma anche ai fini del computo dei termini di durata complessiva delle misure cautelari e della possibilità della loro sospensione (ex articoli 303, comma 4, e 304 Cpp, anch’essi richiamati nel testo normativo).
A seguito di una pronuncia della Corte costituzionale (n. 253/2004), peraltro, deve ritenersi che la custodia cautelare dell’estradando all’estero rilevi anche ai fini del computo dei termini di fase, essendo stato ritenuto costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 Cost., l’articolo 722 Cpp (disposizione che rinvia proprio all’articolo 303, comma 4, Cpp), nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare sofferta all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall’articolo 303, commi 1, 2, e 3, Cpp.
Muovendo dal presupposto dell’equivalenza tra detenzione cautelare all’estero in attesa di estradizione e custodia cautelare in Italia, infatti, la Corte costituzionale ha ritenuto che evidenti motivi di razionalità e coerenza interna al sistema impongono di applicare alla custodia cautelare all’estero la medesima disciplina prevista per la durata dei termini custodiali in Italia.
La stessa decisione quadro, del resto, autorizza con l’ampia formulazione del disposto di cui al par. 1 dell’articolo 26 («il periodo complessivo di custodia che risulta dall’esecuzione di un mandato d’arresto europeo…») una lettura ampia della nozione di deducibilità, idonea a ricomprendere anche il computo dei termini di fase, superando in tal modo le incongruenze del precedente sistema estradizionale che non sempre garantiva la possibilità di dedurre dal totale della pena il periodo trascorso in stato di custodia dovuta all’estradizione: a tal fine, dovranno trasmettersi allo Stato emittente tutte le informazioni inerenti al computo esatto della durata del periodo di carcerazione scontato a titolo di esecuzione del mandato d’arresto europeo (ex articolo 26, par. 2, della decisione quadro).
Nel capo III del titolo II è contenuta la disciplina delle misure reali accessorie alla richiesta di consegna, sia per la procedura attiva che per quella passiva. Gli articoli 34 e 35 della legge di attuazione concentrano la relativa competenza, sia in fase attiva che passiva, su base distrettuale, attribuendola rispettivamente al procuratore generale presso la corte d’appello e alla stessa corte d’appello. Si tratta di una scelta che ripropone sostanzialmente l’originaria impostazione codicistica, muovendosi in una direzione inversa rispetto alla suddivisione della competenza operata negli articoli 5 e 28, in fase di esecuzione e di emissione del mandato d’arresto, laddove radica il potere di richiesta di consegna dei beni oggetto del provvedimento di sequestro o di confisca, eventualmente emesso dal giudice competente, in capo al procuratore generale presso la corte d’appello, che dovrà inoltrare direttamente la richiesta all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, trasmettendo copia del provvedimento di sequestro unitamente al mandato d’arresto europeo emesso ai sensi dell’articolo 28. Al riguardo, tuttavia, non v’è nella legge alcuna disposizione di coordinamento che preveda la comunicazione al procuratore generale del mandato d’arresto europeo e del provvedimento di sequestro o di confisca eventualmente emesso dal giudice competente ex articolo 28. In ordine alle richieste provenienti da Stati membri dell’Unione europea, l’articolo 35 si limita a riprodurre sostanzialmente il contenuto della disciplina di cui all’articolo 29 della decisione quadro, salvo dettare con maggiore precisione la fondamentale distinzione tra beni la cui consegna necessita ai soli fini della prova e beni suscettibili di confisca: in tal caso, infatti, il presidente della Corte d’appello invita l’autorità giudiziaria richiedente a trasmettere tale precisazione, ove non risulti contenuta nella richiesta. Si prevede, al riguardo, che la Corte d’appello provveda con decreto motivato, dopo avere sentito il procuratore generale, applicando - in quanto compatibili - le disposizioni di cui agli articoli 253 e seguenti c.p.p. (esplicitamente richiamate nell’articolo 35, comma 3).
Ove la consegna sia richiesta a fini probatori, la stessa è subordinata alla condizione che i beni siano restituiti una volta soddisfatte le esigenze processuali. Allorquando, invece, la consegna dei beni è richiesta ai fini della confisca, la corte d’appello ne dispone il sequestro facendo salvi gli eventuali diritti sugli stessi maturati in capo a terzi o allo Stato italiano, e comunque subordinando la consegna alla condizione risolutiva che siffatti diritti, acquisiti ai sensi del comma 9 dell’articolo 35, non risultino conosciuti successivamente. In entrambi i casi sono applicabili, in forza dell’espresso richiamo contenuto nel comma 8 dell’articolo 35, le disposizioni dell’articolo 719 c.p.p., che consente, al procuratore generale presso la Corte d’appello, all’interessato e al suo difensore, l’impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure cautelari con ricorso per cassazione per violazione di legge.
Ne consegue:
§ che il vincolo reale sui beni può essere apposto, in entrambe le evenienze su considerate, soltanto se ricorrono le condizioni specificamente previste dalla legge italiana;
§ che in relazione a entrambe le tipologie di consegna considerate dal legislatore, a fini probatori ovvero a fini di confisca, è possibile esperire una via di ricorso interna alle condizioni ed entro i limiti previsti dall’articolo 719 c.p.p..
Va ricordato, infine, che la consegna delle cose sequestrate all’autorità giudiziaria richiedente avviene «secondo le modalità e le intese con la stessa intervenute tramite il ministro della Giustizia» e che nel caso in cui i beni richiesti in sequestro siano già oggetto di un sequestro disposto dall’autorità giudiziaria italiana, nell’ambito di un procedimento penale o civile in corso, la consegna può essere disposta solo per fini probatori e previo nulla osta da parte dell’autorità procedente (ex articolo 36, commi 1 e 2).
In reIazione alla misure transitorie e finali, il legislatore ha opportunamente inserito una disposizione (articolo 38, comma 1) a garanzia degli obblighi internazionali già assunti dal nostro Stato nell’ipotesi in cui il ricercato sia stato estradato da uno Stato terzo e sia tutelato dalla regola della specialità sulla base delle relative norme pattizie: in tal caso, il ministro dovrà richiedere, ai fini della consegna allo Stato membro, l’assenso allo Stato terzo dal quale il ricercato è stato estradato.
Mentre l’articolo 39 specifica, per quanto non previsto dalla legge, l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale e delle leggi complementari, in quanto compatibili, l’articolo 40, comma 3, della legge contiene la disposizione transitoria, già citata, in base alla quale il nuovo regime della doppia incriminazione - prefigurato nell’articolo 2, par. 2, della decisione quadro e introdotto nell’ordinamento italiano con l’articolo 8 della legge - può essere applicato ai soli fatti commessi dopo la data di entrata in vigore della stessa legge. La previsione, da una parte, è estranea all’articolo 32 della decisione quadro, e, dall’altra, non appare conforme alla dichiarazione unilaterale effettuata dall’Italia, che esclude l’applicazione della nuova procedura di consegna soltanto per i reati commessi anteriormente al 7 agosto 2002.
Parimenti difforme dalle previsioni di cui all’articolo 32 della decisione quadro appare la disposizione di cui all’articolo 40, comma 1, della legge, che prevede l’applicabilità della nuova normativa alle richieste di esecuzione dei mandati d’arresto europei emessi e ricevuti dopo la data della sua entrata in vigore, laddove il dato testuale offerto dalla su citata disposizione della decisione quadro stabilisce espressamente che le richieste ricevute a partire dal primo gennaio 2004 debbono considerarsi soggette al nuovo regime di consegna, fatta salva la rilevanza delle dichiarazioni a tale riguardo eventualmente effettuate dagli Stati membri (che nel caso dell’Italia consentiva di applicare la previgente disciplina estradizionale alle sole richieste di esecuzione relative a reati commessi prima della data del 7 agosto 2002). Ne discende, contrariamente al contenuto e alle finalità della decisione quadro, che nel caso in cui uno Stato membro abbia richiesto al nostro Paese l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo prima della data di entrata in vigore della legge per fatti commessi successivamente alla data-limite del 7 agosto 2002, dovranno comunque continuare ad applicarsi le previgenti regole in materia di estradizione.
La legge 14 marzo 2005, n. 41[137]è diretta a dar seguito alla decisione quadro 2002/187/GAI del Consiglio che istituisce Eurojust, al fine di assicurarne l'efficacia nell'ordinamento interno e di conformare alla stessa la legislazione nazionale.
L'articolo 1 definisce la finalità e l'oggetto dell'intervento normativo, diretto a dare attuazione alla decisione del 28 febbraio 2002 dell'Unione europea che istituisce l'Eurojust.
In conformità alle disposizioni degli articoli 2 - che prevede che il magistrato dello Stato membro destinato a far parte dell'unità Eurojust sia distaccato in conformità dell'ordinamento giuridico dello Stato medesimo - e 4 - che prevede che i membri nazionali siano soggetti all'ordinamento interno dello Stato membro per quanto riguarda il loro statuto -, l'articolo 2 della legge disciplina la nomina del membro nazionale e i poteri del ministro della giustizia in tale ambito.
Quanto ai requisiti per la nomina, che viene disposta con decreto del ministro della giustizia - comma 1 -, viene richiesto che il membro nazionale:
§ rivesta la qualità di giudice o magistrato del pubblico ministero[138], tanto nel caso in cui sia nell'esercizio di funzioni giudiziarie che in quello in cui sia già collocato fuori ruolo;
§ abbia almeno venti annidi anzianità di servizio;
In ogni caso, il magistrato nominato che si trovi al momento della nomina nell'esercizio di funzioni giudiziarie è collocato fuori ruolo.
Il comma 2 disciplina il procedimento di nomina, prevedendo che il Ministro della giustizia definisca e sottoponga al Consiglio superiore della magistratura una rosa di candidati, nell'ambito della quale provvederà ad effettuare la nomina, e sulla quale acquisirà le valutazioni autonomamente formulate dal Consiglio medesimo.
A tale scopo Il Ministro richiederà al Consiglio anche il collocamento fuori ruolo del magistrato designato o, nel caso in cui venga nominato un magistrato già in tale posizione, comunicherà al Consiglio medesimo la propria designazione.
Il Ministro della giustizia può anche, per il tramite del Capo del Dipartimento per gli affari di giustizia, indirizzare al membro nazionale direttive per l'esercizio delle sue funzioni.
In proposito, la relazione illustrativa all’iniziale d.d.l. rilevava come tale potere di direttiva del Ministro trovasse fondamento, oltre che nel suo generale potere di emanazione di direttive per lo svolgimento di un'attività di natura eminentemente amministrativa, anche, principalmente nella responsabilità politica che consegue allo svolgimento di attività nell'ambito di organismi soprannazionali che costituiscono sempre espressione di rapporti tra Stati.
L’articolo 3 stabilisce i requisiti e la procedura per la nomina (eventuale) degli assistenti del rappresentante nazionale in Eurojust, non disciplinata dalla decisione quadro.
La norma, prevedendo tale possibilità, precisa che il numero degli assistenti può arrivare fino a tre, sempre che ne sussista la necessità e vi sia l’accordo del Collegio dei membri nazionali; è stabilito, inoltre, che uno di questi assistenti potrà sostituire, ricorrendone la necessità, il predetto rappresentante nazionale.
Tuttavia, poichè la norma stabilisce che gli assistenti, oltre che tra magistrati (con qualifica minima di magistrato di tribunale) possono essere nominati anche tra dirigenti dell’amministrazione della giustiziaprecisa chel’assistente che sostituisce il membro nazionale dovrà necessariamente rivestire la qualifica di “giudice o magistrato del pubblico ministero”.
Conformemente alle disposizioni dell'articolo 9, comma 1 della decisione, che demanda agli Stati membri d'origine la durata del mandato del membro nazionale in modo tale da permettere il buon funzionamento dell'Eurojust, l'articolo 4 fissa in quattro anni, prorogabile per non più di due anni la durata di tale mandato per il membro nazionale e per i suoi assistenti.
E' stato ritenuto, infatti, che tale durata sia quella capace di consentire al membro nazionale e ai suoi assistenti quelle continuità di azione e maturazione di competenza ed esperienza nel ruolo, che costituiscono le condizioni per il conseguimento dell'obbiettivo ultimo, fissato dalla decisione, di permettere il buon funzionamento dell'Eurojust.
Quanto al trattamento economico spettante al membro nazionale o agli assistenti, in conformità anche con quanto previsto al punto 4) del preambolo della decisione, esso è comprensivo di quello complessivo corrisposto dallo Stato d'origine e di una indennità comprensiva di ogni altro trattamento all'estero, corrispondente a quella percepita dal primo consigliere (per i magistrati) e dal primo segretario di delegazione (per i dirigenti amministrativi).
L'articolo 5 della legge definisce i poteri esercitati dal membro nazionale di Eurojust, finalizzandoli agli obiettivi di impulso e miglioramento del coordinamento delle indagini ed azioni penali relative ai reati ed alle forme di criminalità di competenza dell'Eurojust (art. 4 della decisione) e di miglioramento della cooperazione tra le autorità nazionali competenti degli Stati membri dell'Unione europea e di assistenza delle stesse.
Per la definizione di tali poteri l'articolo 5 rinvia alle disposizioni dell'articolo 6 della decisione del Consiglio.
Peraltro, a fini di chiarezza, tali poteri sono esplicitamente menzionati al comma 2 dell'articolo 5, sostanzialmente riproducendo le disposizioni della decisione; viene aggiunta, tuttavia, la previsione della funzione di partecipazione, con funzioni di assistenza, alle attività di una squadra investigativa comune costituita conformemente ai pertinenti strumenti di cooperazione, in armonia con quanto disposto dall'articolo 13 della Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell'Unione europea del 29 maggio 2000[139].
Tali poteri sono, quindi, i seguenti:
§ chiedere alle autorità giudiziarie competenti di valutare se:
- avviare un'indagine o esercitare un'azione penale in ordine a fatti determinati;
- accettare che una di esse sia più indicata per avviare un'indagine o azione penale in ordine a fatti determinati[140] ;
- porre in essere un coordinamento con le autorità competenti di altri Stati membri interessati;
- istituire una squadra investigativa comune con le autorità competenti di altri Stati membri interessati, conformemente ai pertinenti strumenti di cooperazione;
§ assicurare l'informazione reciproca tra le autorità giudiziarie competenti degli Stati membri interessati in ordine alle indagini e alle azioni penali di cui l'Eurojust ha conoscenza;
§ assistere, su loro richiesta, le autorità nazionali competenti e quelle degli altri Stati membri per assicurare un coordinamento ottimale delle indagini e delle azioni penali, anche mediante l'organizzazione di riunioni tra le suddette autorità;
§ prestare assistenza per migliorare la cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri;
§ collaborare e consultarsi con la rete giudiziaria europea, anche utilizzando e contribuendo ad arricchire la sua base di dati documentali;
§ ricevere dalle autorità giudiziarie, attraverso i corrispondenti nazionali o direttamente nei casi di urgenza, e trasmettere alle autorità competenti degli altri Stati membri, richieste di assistenza giudiziaria, quando queste riguardano indagini o azioni penali relative alle forme di criminalità e ai reati di competenza dell'Eurojust di cui all'articolo 4, paragrafo 1, della decisione e richiedono, per essere eseguite in modo coordinato, l'assistenza dell'Eurojust;
§ prestare sostegno, con l'accordo del collegio di cui all'articolo 10 della decisione e su richiesta dell'autorità giudiziaria competente, anche nel caso in cui le indagini e le azioni penali interessino unicamente lo Stato italiano e un Paese terzo, se con tale Paese è stato concluso un accordo che instaura una cooperazione ai sensi dell'articolo 27, paragrafo 3, della decisione o se tale sostegno riveste un interesse essenziale, o nel caso in cui le indagini e le azioni penali interessino unicamente lo Stato italiano e la Comunità;
§ partecipare, con funzioni di assistenza, alle attività di una squadra investigativa comune costituita conformemente ai pertinenti strumenti di cooperazione
L'articolo 6 definisce le prerogative del collegio dell'Eurojust, operando un rinvio alle disposizioni dell'articolo 7 della decisione.
L'articolo 7 della decisione quadro, nel definire i poteri collegiali, riproduce in buona parte le disposizioni del precedente articolo 6, riguardante i poteri spettanti al membro nazionale, contemplando, in aggiunta a questi ultimi, compiti di assistenza all'Europol e di sostegno logistico più generale.
L'articolo 7 disciplina i poteri di accesso alle informazioni giudiziarie riconosciuti al membro nazionale, finalizzati al conseguimento degli obiettivi stabiliti dall'articolo 3 della decisione.
Tali poteri, in particolare, riguardano:
§ la richiesta e lo scambio con l'autorità giudiziaria competente - anche in deroga al principio dell'obbligo del segreto di cui all'articolo 329 del codice di procedura penale - di informazioni scritte in ordine a procedimenti penali e al contenuto di atti degli stessi. Tale potere viene ricollegato, come evidenziato nella relazione illustrativa al provvedimento, alle disposizioni dell'articolo 3 della decisione che, al paragrafo 1, prevede che le autorità competenti degli Stati membri possano scambiare con l'Eurojust qualsiasi informazione necessaria allo svolgimento delle funzioni di quest'ultima, conformemente all'articolo 5.
§ l'accesso alle informazioni contenute nel casellario giudiziale, nel casellario dei carichi pendenti, nell'anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e in quella dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato ai sensi degli articoli 21 e 30 del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, nei registri delle notizie di reato, negli altri istituiti presso gli uffici giudiziari ed in ogni altro pubblico registro. Tale facoltà trova corrispondenza nelle previsioni di cui all'articolo 9, paragrafo 4 della decisione, che dispone che per conseguire gli obbiettivi dell'Eurojust il membro nazionale abbia accesso alle informazioni contenute nel casellario giudiziale nazionale o in qualsiasi altro registro del proprio Stato membro come previsto dall'ordinamento interno del suo Stato per un magistrato del pubblico ministero, un giudice o un funzionario di polizia con pari prerogative.
I passaggi successivi alle richieste di informazioni appartenenti alle due categorie sopra descritte vengono così disciplinati:
- la richiesta viene trasmessa all'autorità giudiziaria competente;
- nella fase delle indagini preliminari provvede il pubblico ministero che, qualora ravvisi motivi ostativi al suo accoglimento, trasmette la stessa, unitamente al proprio parer al G.I.P., il quale provvederà con decreto motivato;
- nelle fasi successive provvedono, con decreto motivato, rispettivamente il G.U.P. o il giudice individuato ai sensi dell'articolo 91 delle norme di attuazione del c.p.p. (giudice competente in ordine alle misure cautelari), acquisito il parere del pubblico ministero;
- il decreto che accoglie o rigetta la richiesta è impugnabile davanti ala Corte di cassazione nel termine di venti giorni dalla sua comunicazione, dal pubblico ministero e dal membro nazionale di Eurojust; il ricorso produce effetti sospensivi del solo decreto di accoglimento.
§ la richiesta all'autorità che ha la competenza centrale per la sezione nazionale del Sistema di informazione Schengen (attualmente la divisione SIRENE, istituita presso la Direzione centrale di polizia criminale del Ministero dell'interno) di comunicargli i dati contenuti nel S.I.S. Sistema informativo Schengen.
Il sistema SiS non è il solo sistema di scambio di informazioni all'interno della comunità di Schengen, un ulteriore sistema è il Sirene, abbreviazione per Supplement d' Information Requis a l'Entree Nationale.
Il Sirene dovrebbe completare gli scambi bilaterali e multilaterali cosi come dovrebbe trasmettere informazioni più dettagliate riguardanti persone ed oggetti, che sono contenute nel database del SiS.
Grazie al sistema-Sirene qualsiasi agente di polizia di un paese può richiedere informazioni supplementari su di una persona contenuta nell'archivio SiS. Il sistema Sirene offre l'enorme vantaggio di informazioni anche non così ristrette e standardizzate come invece vengono salvate nell'archivio SiS. E naturalmente questo sistema ê più efficiente rispetto al tradizionale sistema dell'INTERPOL.
L’articolo 7 prevede, infine, un obbligo di informativa del procuratore della repubblica al membro nazionale dell'Eurojust quando il primo proceda ad indagini per forme di criminalità o reati che coinvolgano almeno due Stati membri dell'Unione europea o uno Stato terzo se con quest'ultimo è stato concluso un accordo di collaborazione ai sensi dell'articolo 27, comma 3 della decisione.
L'articolo 8 disciplina la procedura da seguire per la nomina del magistrato da inserire nell'elenco dei giudici che possono far parte dell'autorità di controllo comune indipendente, istituita dall'articolo 23 della decisione, con il compito di assicurare che il trattamento dei dati personali venga effettuato nel rispetto della decisione medesima.
Viene richiamata la procedura di cui all'articolo 2 del provvedimento e viene precisato che la nomina debba riguardare un giudice, scelto tra i magistrati ordinari e che non sia già membro dell'Eurojust. In questo caso, tuttavia, la nomina non comporterà la collocazione fuori dal ruolo organico della magistratura; la durata dell'incarico è di due anni prorogabili per non più di una volta.
L'articolo 9 disciplina la designazione dei corrispondenti nazionali, di cui all'articolo 12 della decisione.
Va ricordato che l'articolo 12 da ultimo citato consente la designazione di uno o più corrispondenti nazionali da parte degli Stati membri - che ha la massima priorità in materia di terrorismo - , che operano nello Stato membro che li ha designati e le cui relazioni con le autorità competenti degli Stati membri sono disciplinate dal diritto nazionale. Allorché lo Stato membro designa un corrispondente nazionale questo può essere punto di contatto della rete giudiziaria europea; tuttavia le relazioni tra membro nazionale e corrispondente nazionale non escludono relazioni dirette tra il primo e le autorità competenti.
Pertanto, conformemente alle previsioni del citato articolo 12, che demanda al diritto nazionale la disciplina delle relazioni tra i corrispondenti nazionali e le autorità competenti degli Stati membri -, sono designati quali corrispondenti nazionali dell'Eurojust:
§ l'Ufficio II della Direzione generale della giustizia penale del Dipartimento per gli affari della giustizia del Ministero della giustizia;
§ La Direzione nazionale antimafia;
§ Le procure generali della repubblica presso le corti di appello.
L'articolo 10, in attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 26, paragrafo 4 della decisione, stabilisce che il membro nazionale Eurojust sia considerato autorità nazionale competente per le esigenze dei regolamenti (CE) n. 1073/99 del Parlamento europeo e del Consiglio ed (Euratom) n. 1074/99 del Consiglio del 25 maggio 1999, relativi alle indagini svolte dall'Ufficio per la lotta antifrode (OLAF).
L'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) è stato istituito nel 1999[141] nell'ambito delle nuove competenze in materia di tutela degli interessi finanziari dell'Unione Europea.
La lotta contro le frodi comunitarie s'inserisce nel quadro della "Cooperazione di Polizia e giudiziaria in materia penale" del titolo VI del Trattato UE, ma, contemporaneamente, il perseguimento dei reati che colpiscono gli interessi finanziari europei costituisce anche una materia a sé stante, specifica e determinata, perché ad essere aggredite sono le risorse economiche europee, e dunque si colpiscono direttamente anche gli Stati Membri e i suoi contribuenti. L'OLAF ha poteri di inchiesta amministrativa su tutto il territorio dell'Unione Europea ed i risultati delle sue indagini possono essere ammessi come prove nei procedimenti penali degli Stati Membri. Il dato è significativo perché per la prima volta un organo sovranazionale ha la possibilità di raccogliere elementi di prova ai quali l'ordinamento comunitario assicura poi una effettiva utilizzabilità nei singoli Stati.
Gli articoli 11 e 12 dispongono, rispettivamente, sulla copertura finanziaria del provvedimento e la sua entrata in vigore.
La legge 5 ottobre 2001, n. 367[142] presenta un duplice contenuto: da una parte, detta norme per l’esecuzione del trattato di assistenza giudiziaria in materia penale con la Svizzera del 10 settembre 1998 (articoli da 1 a 8), dall’altra apporta, più in generale, modifiche al codice penale e di procedura penale in materia di rogatorie internazionali (articoli 9 e seguenti) destinate a produrre effetti non solo in relazione ai rapporti bilaterali italo-svizzeri ma, a regime, nei rapporti di mutua assistenza giudiziaria con tutte le autorità straniere.
L’articolo 1 prevede l’autorizzazione a ratificare l’Accordo tra Italia e Svizzera, prevedendo che sia data piena ed intera esecuzione all’Accordo stesso, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di autorizzazione alla ratifica (il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale). La disposizione rinvia, in proposito, all’articolo XXXII dell’Accordo, che prevede la reciproca notifica tra i due Stati dell’avvenuto espletamento delle procedure, fissando l’entrata in vigore dell’Accordo il primo giorno del secondo mese successivo alla data di ricezione della seconda notifica.
L’Accordo, firmato a Roma il 10 settembre 1998, intende completare e rendere più agevole l’applicazione della Convenzione europea di assistenza giuridica in materia penale del 20 aprile 1959 (ratificata con legge 23 febbraio 1961, n. 215) nei rapporti bilaterali tra Italia e Svizzera.
L’Accordo da un lato ha esteso alla Svizzera le disposizioni innovative introdotte dagli Accordi di Schengen ed ha anticipato le modifiche che in sede multilaterale sono ancora in via di negoziazione, e, dall’altro, ha sensibilmente contenuto la portata delle riserve che detto Stato aveva apposto alla Convenzione del 1959, stabilendo meccanismi di cooperazione tra i due Paesi più rapidi e snelli ed eliminando molti inconvenienti verificatisi per le rogatorie richieste dalle autorità giudiziarie italiane; esso risponde quindi ad una logica di semplificazione e di snellimento delle procedure e si pone quindi come strumento innovativo e anticipatore di una futura revisione della Convenzione europea del 1959.
Rispetto alla Convezione europea, l’Accordo in esame ne amplia il campo di applicazione estendendo le ipotesi di assistenza giudiziaria anche ai procedimenti penali che sono di competenza di un’autorità amministrativa, purché sia prevista, nel corso della procedura, la possibilità di investire un’autorità giudiziaria competente in materia penale (articolo II, par. 1). Segue poi un elenco di casi specifici in cui le Parti sono tenute a prestarsi assistenza giudiziaria (par. 2): notifica di atti relativi all’esecuzione di una pena, al recupero di una pena pecuniaria o al pagamento di spese processuali; procedure relative alla sospensione condizionale, all’esecuzione di una pena, al rinvio del suo inizio o alla sua interruzione, nonché alla liberazione condizionale; procedimenti di grazia; procedimenti relativi agli obblighi di riparazione per detenzione subita ingiustamente.
Di particolare rilevanza, in questo contesto, è il par. 3 del medesimo articolo II, in base al quale l’assistenza giudiziaria deve essere concessa anche nei casi di truffa fiscale. A tale proposito va segnalato che la Svizzera, non avendo ratificato il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione del 1959 (ratificato invece dall’Italia con legge 24 luglio 1985, n. 436), non ha l’obbligo di prestare assistenza nei casi di infrazioni fiscali che, del resto, rientrano, ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, tra le ipotesi in cui le Parti possono rifiutarsi di cooperare.
In linea con altri accordi internazionali vigenti per l’Italia, l’articolo III limita i casi di rifiuto dell’assistenza alle ipotesi di assoluzione definitiva nel merito o di condanna nello Stato richiesto per un reato corrispondente, a condizione che sia in corso di esecuzione o sia già stata eseguita la sanzione penale pronunciata.
Le informazioni ottenute grazie all’assistenza prestata dallo Stato richiesto non possono essere utilizzate, nello Stato richiedente, ai fini di indagine o quali mezzo di prova in procedure relative a reati per i quali l’assistenza è esclusa. Tale divieto si riferisce a fatti che per lo Stato richiesto hanno natura politica, militare o fiscale, esclusi i casi di truffa fiscale. Anche l’eventuale trasmissione delle informazioni ricevute ad uno Stato terzo è subordinata alla preventiva autorizzazione dello Stato richiesto (articolo IV).
Per quanto attiene alle modalità di esecuzione delle rogatorie, viene modificata la regola di cui all’art. 3 della Convenzione affinché lo Stato richiedente possa ricevere assistenza in tempi ragionevoli e utilizzare nei procedimenti nazionali le prove raccolte all’estero (articolo V). È inoltre previsto che si possa dare esecuzione a una rogatoria per mezzo di collegamento audiovisivo (articolo VI). Parimenti risulta ampliata, rispetto alla Convenzione europea, la possibilità di partecipazione di persone e autorità dello Stato richiedente all’esecuzione della rogatoria in territorio estero (articolo IX).
Un’altra novità introdotta dall’Accordo consiste nella notifica diretta di atti giudiziari per via postale alle persone che si trovano sul territorio dell’altro Stato (articolo XII).
Gli articoli XIV e XV disciplinano, rispettivamente, la consegna temporanea di persone detenute allo Stato richiesto e allo Stato richiedente. In quest’ultimo caso le medesime disposizioni si applicano anche alla consegna prevista all’art. 19, par. 2, della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 prima che sia stata adottata una decisione in merito all’estradizione.
Sempre nell’ottica di rendere più rapide e più snelle le procedure, è stabilita in via generale, la trasmissione diretta delle rogatorie e dei relativi atti di esecuzione, eliminando così il passaggio intermedio delle autorità centrali (articolo XVII). Tuttavia è di competenza degli organismi centrali la trattazione di rogatorie in caso di pratiche penali complesse o di particolare importanza per fatti di criminalità organizzata, corruzione o altri gravi reati (articolo XVIII).
In alternativa alla rogatoria è prevista la possibilità, per fatti oggetto di procedimenti penali in entrambi gli Stati, che le autorità giudiziarie interessate operino congiuntamente nell’ambito di gruppi d’indagine comuni (articolo XXI).
L’Accordo in esame provvede inoltre a definire, diversamente dalla Convenzione europea, gli effetti dell’accettazione di una denuncia diretta a far instaurare nell’altro Stato un procedimento penale (articolo XXVI).
Le autorità giudiziarie delle Parti si impegnano a trasmettersi, previa richiesta, copia autenticata dei provvedimenti penali adottati contro i loro cittadini (articolo XXVII). È ammessa inoltre la comunicazione spontanea di informazioni relative a fatti penali (articolo XXVIII).
Le disposizioni finali contenute negli articoli dal XXIX al XXXIII riguardano:
§ l’estinzione dell’Accordo conseguentemente alla denuncia della Convenzione europea da parte di uno dei due Stati;
§ la soluzione arbitrale di controversie relative all’interpretazione e all’applicazione sia della Convenzione che dell’Accordo;
§ l’entrata in vigore dell’Accordo e la facoltà, riconosciuta a ciascuna delle due Parti, di denunciarlo in qualsiasi momento con notifica inviata all’altra Parte per via diplomatica.
Gli articoli da 2 a 8 della legge contengono una serie di disposizioni finalizzate a garantire la concreta attuazione dell’Accordo all’interno dell’ordinamento.
In particolare, la legge n. 367 (art. 2) definisce sul piano interno il reato di truffa in materia fiscale, ai fini dell'attuazione del paragrafo 3 dell'articolo II dell'accordo, che stabilisce che l'assistenza giudiziaria è “concessa anche qualora il procedimento riguardi fatti che costituiscono truffa in materia fiscale così come definita dal diritto dello Stato richiesto”. La fattispecie consiste nella condotta di chi, con artifici o raggiri, inducendo in errore l'autorità amministrativa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto, con danno all'ente pubblico defraudandolo di un tributo la cui entità comporta un reato fiscale.
Il successivo articolo stabilisce invece che, nei casi previsti dall’articolo III, paragrafo 2 dell’Accordo (che disciplina le ipotesi di limitazione al rifiuto di assistenza giudiziaria), il Ministro della giustizia non dà corso alle rogatorie richieste dall’autorità giudiziaria, in assenza di idonee garanzie di reciprocità (art. 3).
Quando le informazioni ricevute ai sensi dell’articolo IV dell’Accordo[143] possono essere utilizzate in procedimenti diversi da quello per il quale sono state richieste la legge n. 367 del 2001 prevede che il magistrato che procede ne dia immediata comunicazione all’autorità che le ha fornite, conformandosi alle sue eventuali determinazioni. Vengono poi richiamate le disposizioni dell’articolo 729 del codice di procedura penale, concernente l’utilizzabilità degli atti assunti per rogatoria (art. 4).
L’articolo 5 affida al Ministro della giustizia il compito di provvedere sulla possibile consegna, ai fini di un eventuale sequestro o della riconsegna alla persona offesa, dei beni provenienti da reato indicati all’articolo VIII dell’Accordo (ai sensi del quale a tali beni è assimilabile anche il prodotto della loro alienazione), sentita l’autorità giudiziaria procedente e previo provvedimento di cessazione delle misure cautelari cui eventualmente siano sottoposti. E’ altresì previsto che, nei casi di beni sottoposti a specifica disciplina amministrativa, il Ministro senta previamente l’eventuale amministrazione competente in ordine alla natura del bene oggetto della richiesta di sequestro.
In relazione agli atti di indagine compiuti unitamente all’autorità Svizzera (articolo XXI dell’Accordo), ma anche, più in generale, agli atti compiuti congiuntamente con l'autorità straniera, la legge (art. 6) prevede che essi abbiano efficacia processuale soltanto se compiuti con l’osservanza delle norme del codice di procedura penale. Stabilisce inoltre che nel caso di inosservanza di tali norme gli atti compiuti siano soggetti alle sanzioni processuali previste dal codice di procedura penale[144].
L’articolo 7 subordina la presentazione, da parte del Ministro della giustizia, della denuncia di perseguimento (ai sensi dell’articolo 21 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria), relativa ad un imputato che sia cittadino svizzero o risieda stabilmente in tale Stato, ai seguenti adempimenti: a) parere del pubblico ministero competente per il procedimento; b) considerazione degli interessi delle parti offese. Tali disposizioni si applicano anche nel caso in cui l’imputato sia cittadino italiano o risieda stabilmente in Italia.
L’articolo 8, infine, prevede:
- che il giudice possa sospendere con ordinanza, anche a richiesta di parte, sentito il pubblico ministero, il procedimento penale pendente in Italia, nel caso di accettazione, da parte dello Stato estero richiesto, del procedimento a seguito della denuncia (comma 1); viene tuttavia fatto salvo il previo compimento di atti urgenti e di cui non sia possibile la ripetizione;
- un controllo semestrale – o anche prima quando ne venga ravvisata l’esigenza - da parte del giudice italiano sullo stato del procedimento penale instaurato all'estero (comma 2);
- la revoca di tale sospensione (con ordinanza), qualora si debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (comma 3).
Quando si verifichi una delle condizioni previste dal paragrafo 2 dell'articolo XXVI dell'Accordo, il comma 4 stabilisce che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere.
Il Capo II della legge n. 367 del 2001 - articoli da 9 a 17 – apporta modifiche ed integrazioni al codice penale e processuale penale, in tema di rogatorie internazionali.
Come noto, nell’ambito dell’attività di collaborazione giudiziaria tra Stati in materia penale, la rogatoria internazionale è una delle principali forme di assistenza tra le diverse autorità giudiziarie (pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari o del dibattimento).
Le rogatorie, regolate dalle norme di diritto internazionale ed in via suppletiva dalle norme codicistiche (artt. 723-729 c.p.p.) consistono in richieste che vengono rivolte da uno Stato all’altro allo scopo di effettuare comunicazioni o notificazioni ovvero al fine di far acquisire documentazione probatoria. Come per l’estradizione, le rogatorie si distinguono in attive (rivolte all’estero) o passive (richieste in Italia).
Per le rogatorie dall’estero o passive, cioè richieste ai giudici italiani, è contemplato un doppio sindacato: un sindacato politico, rimesso al Ministro della giustizia (art. 723 c.p.p.) che ha quindi un potere di veto della rogatoria potendo decretare di non dar corso alla richiesta estera per motivi attinenti alla sicurezza e ad altri essenziali interessi nazionali ovvero quando lo Stato richiedente non dia garanzie di reciprocità nonché negli ulteriori specifici casi di indole giuridica enunciati dal citato art. 723; un sindacato giudiziario, di competenza della Corte d’appello (art. 724 c.p.p.) competente per territorio, che deve procedere agli atti richiesti.
Il procedimento in sede giurisdizionale inizia con la trasmissione degli atti al procuratore generale da parte del Ministro e si chiude con una ordinanza inoppugnabile della corte d’appello.
Per le rogatorie all’estero o attive, cioè provenienti dai giudici italiani è prevista la trasmissione all’autorità straniera per il tramite del Ministro della giustizia che provvede, di regola, all’inoltro servendosi dei canali diplomatici; anche in tal caso, ostano al benestare alla richiesta da parte del Ministro motivi di sicurezza o altri interessi fondamentali dello Stato (art. 727 c.p.p.). Il Ministro comunica all’autorità giudiziaria richiedente la data della ricezione della richiesta e l’avvenuto inoltro della rogatoria ovvero il decreto con cui dispone che per i citati motivi non si dia corso alla richiesta.
L’articolo 9, che modifica l’art. 696 del codice di rito, è diretto ad esplicitare il riferimento, ai fini della disciplina delle estradizioni e delle rogatorie internazionali, alle norme della Convenzione europea di assistenza giudiziaria del 1959 ed alle altre norme delle Convenzioni internazionali in vigore per lo Stato, oltre che alle norme di diritto internazionale generale.
Il successivo articolo 10 modifica l’art. 724 c.p.p., in tema di rogatoria dall’estero, prevedendo che quando la domanda di assistenza giudiziaria concerne più atti che devono essere eseguiti in più distretti di Corte d'appello, la stessa sia trasmessa direttamente, dall'autorità straniera o tramite il ministro della Giustizia, alla Corte di cassazione che determina la Corte d'appello competente, tenuto conto degli atti da svolgere e della loro tipologia. Inoltre, la legge prevede che siano trasmesse al procuratore nazionale antimafia copie delle rogatorie dell'autorità straniera che riguardano i reati di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, vale a dire ai delitti di cui agli artt. 416 bis (Associazione di tipo mafioso) e 630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione) del codice penale, nonché ai delitti di cui all’articolo 74 del testo unico approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope).
La legge n. 367 (articolo 11) introduce quindi due nuovi articoli nel codice di procedura penale:
§ con l’articolo 726-bis si integra la disciplina in materia di notificazioni all’interessato rendendole possibili anche a mezzo posta; nel caso in cui la notificazione a mezzo posta non venga utilizzata, anche la richiesta dell’autorità giudiziaria straniera di notificazione all’imputato residente o dimorante nel territorio dello Stato è trasmessa al procuratore della Repubblica del luogo in cui deve essere eseguita, che provvede per la notificazione a norma degli articoli 156, 157 e 158, che disciplinano, rispettivamente, le notificazioni all’imputato detenuto, la prima notificazione all’imputato non detenuto, e la prima notificazione all’imputato in servizio militare;
§ con l’articolo 726-ter si individua nel giudice per le indagini preliminari del luogo di esecuzione degli atti richiesti (su richiesta del procuratore della repubblica) l’autorità giudiziaria italiana competente a provvedere sulle rogatorie provenienti da autorità amministrative straniere, con ciò introducendo una semplificazione rispetto alla procedura rogatoriale generale che prevede il procedimento in sede giurisdizionale presso la corte d’appello. Va segnalato che l’art. II dell’Accordo prevede appunto la competenza di autorità amministrative anche sull’accertamento di fatti aventi rilevanza penale, in quanto previsto dalle leggi nazionali vigenti.
L’articolo 12 della legge interviene invece in materia di rogatoria all’estero da parte di autorità giudiziarie italiane aggiungendo due commi, il 5-bis ed il 5-ter all’art.727 c.p.p.(Trasmissione di rogatorie ad autorità straniere):
§ con il comma 5-bis viene stabilito che l'autorità giudiziaria, quando formula la domanda di assistenza giudiziaria, può specificare le modalità di esecuzione in base all'ordinamento dello Stato indicando gli elementi necessari per l'utilizzazione processuale degli atti richiesti (questa eventualità deve essere prevista dagli accordi internazionali);
§ con il comma 5-ter si prevede che copia delle rogatorie formulate dai magistrati del pubblico ministero nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis del c.p.p. (cfr. supra), sia trasmessa senza ritardo al procuratore nazionale antimafia.
L’articolo 13 della legge è diretto a modificare l’articolo 729 c.p.p., disciplinante l’utilizzabilità degli atti assunti per rogatoria. In sintesi il legislatore prevede che:
§ i documenti o i mezzi di prova acquisiti o trasmessi, a seguito di rogatoria all'estero, in violazione delle norme internazionali in materia sono inutilizzabili;
§ se lo Stato estero dà esecuzione alla rogatoria con modalità diverse da quelle indicate dall'autorità giudiziaria, gli atti compiuti dall'autorità straniera sono inutilizzabili;
§ non possono essere utilizzate le dichiarazioni da chiunque rese aventi a oggetto il contenuto degli atti per come sopra inutilizzabili.
L’articolo 14 interviene invece in materia di trasmissione delle sentenze penali straniere ai fini del riconoscimento in Italia: quando il procuratore generale è informato dall'autorità straniera dell'esistenza di una sentenza di condanna emanata all'estero ne richiede la trasmissione alla stessa, con rogatoria, ai fini del riconoscimento.
In merito si ricorda infatti che nell’attuale assetto internazionale non esiste alcun principio generale di rilevanza delle sentenze penali in ordinamenti giuridici diversi da quello di pronuncia delle sentenze stesse. La rilevanza giuridica fuori dai confini nazionale è quindi rimessa alla normativa dei singoli Stati interessati, ciascuno dei quali disciplina unicamente il versante interno di tale problematica non potendo unilateralmente regolarla su quello esterno. Tuttavia, sono ormai numerose le convenzioni internazionali in materia e la disciplina codicistica nazionale, di natura suppletiva, prevede meccanismi interni di carattere giurisdizionale attraverso i quali la sentenza penale straniera produce effetti in Italia e, viceversa, le nostre sentenze ricevono esecuzione all’estero.
Gli articoli 15 e 16 della legge n. 367 del 2001 intervengono sulle norme di attuazione del codice di procedura penale (DPR 28 luglio 1989, n. 271). In particolare:
§ è aggiunto l’art. 204-bis in base al quale è stabilito, a fini di monitoraggio, che quando un accordo internazionale preveda l’inoltro diretto della rogatoria estera alle diverse autorità giudiziarie italiane competenti (Procuratore generale presso la corte d’appello, procuratore della Repubblica), di cui agli articoli 724, 726 e 726-ter del c.p.p. queste, ovvero l’autorità giudiziaria che la invia direttamente all’autorità straniera, ne trasmettono senza ritardo copia al Ministero della giustizia;
§ è aggiunto l’articolo 205-bis, con il quale viene sancita l’irrevocabilità del consenso prestato dall’interessato all’espletamento di determinati atti procedurali di cooperazione giudiziaria tra Stati – nei casi in cui il codice o accordi internazionali richiedano il consenso dell’interessato – salvo che l’interessato ignorasse circostanze di fatto rilevanti ai fini della sua decisione ovvero esse si siano successivamente modificate;
§ è aggiunto l’articolo 205-ter in base al quale la partecipazione all'udienza dell'imputato detenuto all'estero, che non può essere trasferito in Italia, avviene attraverso il collegamento audiovisivo, se previsto da accordi internazionali.
L’articolo 17 interviene invece sul codice penale, inserendovi l’articolo 384-bis, diretto a superare i problemi di competenza relativi alla perseguibilità dei reati connessi allo svolgimento di videoconferenze all’estero nell’ambito di rogatorie richieste da autorità giudiziarie italiane. Viene infatti precisato che gli eventuali delitti di cui agli articoli 366 (Rifiuto di uffici legalmente dovuti), 367 (Simulazione di reato), 368 (Calunnia), 369 (Autocalunnia), 371-bis (False informazioni al PM), 372 (Falsa testimonianza) e 373 (Falsa perizia o interpretazione), rese in collegamento audiovisivo durante una rogatoria estera “si considerano commessi nel territorio dello Stato italiano e sono puniti secondo la legge italiana”.
Quanto alle disposizioni transitorie e finali della legge n. 367/2001 si rileva che (art. 18):
§ la legge si applica ai procedimenti in corso che versano nella fase delle indagini preliminari ovvero ai procedimenti nei quali è in corso o deve aver luogo l’udienza preliminare;
§ per gli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento l'eventuale causa di nullità o di inutilizzabilità, in ogni stato e grado del giudizio, deve essere rilevata dal giudice o eccepita entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore della legge (9 ottobre 2001);
§ nel caso di procedimenti in corso, quando l'autorità giudiziaria ritenga di rinnovare gli atti assunti mediante rogatoria dichiarati inutilizzabili o nulli, i termini di custodia cautelare possono essere sospesi con ordinanza appellabile. Nel caso di processi per i reati di cui all'articolo 407 del codice di procedura penale, i termini di custodia cautelare sono invece sospesi per il tempo necessario alla rinnovazione degli atti. In entrambi i casi il termine di prescrizione resta sospeso per il tempo necessario alla rinnovazione degli atti.
La legge 2 agosto 2002, n. 181[145] è diretta a garantire la cooperazione giudiziaria dell’Italia con il Tribunale internazionale competente per le gravi violazioni del diritto umanitario commesse in Ruanda e negli Stati vicini, adeguando la legislazione italiana alle prescrizioni delle risoluzioni ONU n. 955/1994 e n. 1165/1998, e dello statuto del tribunale ivi annesso.
Il Tribunale internazionale incaricato di perseguire i responsabili delle gravi violazioni del diritto umanitario e degli atti di genocidio commessi nel territorio del Ruanda e i cittadini ruandesi responsabili di tali atti o violazioni commessi negli Stati limitrofi tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994 è stato istituito, a seguito della richiesta del Governo del Ruanda, sulla base della risoluzione n. 955, adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite l’8 novembre 1994, a norma del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, concernente le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale e le misure che il Consiglio può adottare in tali casi. Il provvedimento è stato successivamente integrato dalla risoluzione n. 1165 del 30 aprile 1998 limitatamente alle disposizioni concernenti la composizione del Tribunale. L'organizzazione e le competenze del Tribunale sono disciplinate dalle norme dello Statuto annesso alla risoluzione n. 955 del 1994.
Il provvedimento, che si compone di 17 articoli, ricalca sostanzialmente le norme in materia di cooperazione con il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia dettate dal D.L. 544 del 1993[146], convertito con modificazioni dalla legge n. 120/1994. In particolare, dopo aver definito alcuni termini, che nel provvedimento sono riportati sinteticamente come “risoluzione”, “Tribunale internazionale” e “statuto” (art. 1), la legge afferma espressamente l'obbligo per l'Italia di cooperare con il Tribunale internazionale ed individua nel Ministro della giustizia l’autorità competente a ricevere le richieste di collaborazione e a dare ad esse seguito (art. 2).
La disposizione dello Statuto, che stabilisce la prevalenza della giurisdizione del Tribunale internazionale sui tribunali nazionali in ordine al perseguimento delle violazioni del diritto umanitario commesse nel territorio del Ruanda e negli Stati vicini nel corso del 1994, viene applicata nel nostro ordinamento prevedendo che, quando il Tribunale internazionale richiede la remissione alla propria competenza del procedimento pendente dinanzi al giudice italiano, questi, con sentenza dichiarativa, disponga di non potersi procedere ulteriormente (art. 3) per l'esistenza della giurisdizione prioritaria del Tribunale internazionale. Devono però sussistere le seguenti condizioni:
§ il Tribunale internazionale deve procedere per il medesimo fatto;
§ il fatto deve rientrare nella giurisdizione territoriale e temporale del Tribunale internazionale, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto.
Il procedimento relativo alla richiesta di trasferimento del procedimento dinanzi al Tribunale internazionale si svolge in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p.; ad eccezione di quanto previsto dal comma 8 di tale articolo però, il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza emessa dall'autorità giudiziaria sospende l'esecuzione di tale provvedimento.
Se l'autorità giudiziaria accoglie la richiesta di trasferimento del procedimento, gli atti vengono trasmessi al Ministro della giustizia per l'inoltro al Tribunale internazionale, fermo restando che da tale momento la prescrizione del reato rimane sospesa per non più di tre anni per poi riprendere il suo corso alla riapertura del procedimento.
Infatti, laddove il Tribunale internazionale non addivenga ad una sentenza definitiva (es. il procuratore presso il Tribunale non formula l'atto di accusa; il giudice del Tribunale non conferma l'atto di accusa; il Tribunale dichiara la propria incompetenza), si avrà la riapertura del procedimento nazionale (art. 4). Viceversa, della legge riafferma il principio generale del ne bis in idem e dunque il divieto di nuovo giudizio per il medesimo fatto in caso di persona giudicata con sentenza definitiva dal tribunale internazionale (art. 5).
Per evitare il contemporaneo esercizio dell'azione penale da parte delle autorità giudiziarie italiane e l'inizio del procedimento da parte del Tribunale internazionale, la legge n. 181/2002 stabilisce che le prime debbano comunicare a quest’ultimo le iscrizioni nel registro delle notizie di reato relativamente a questioni per le quali è presumibile la giurisdizione concorrente di tale organo, nonché eventuale ulteriore documentazione richiesta dal Tribunale stesso ai fini della valutazione di una successiva richiesta di trasferimento del procedimento (art. 6).
Nel caso in cui il Tribunale internazionale abbia indicato lo Stato italiano come luogo di espiazione della pena, il Ministro della giustizia richiede il riconoscimento della sentenza del Tribunale e, a tale scopo, trasmette la richiesta al procuratore generale presso la corte d'appello di Roma la quale è competente a deliberare il riconoscimento con sentenza emessa in camera di consiglio. La sentenza determina la durata della pena, che non può superare trenta anni di reclusione (art. 7). Il riconoscimento non interviene se:
§ la sentenza non è divenuta irrevocabile;
§ se il fatto non è previsto come reato dalla legge italiana;
§ per rispetto del principio ne bis in idem, quando vi sia già una sentenza irrevocabile in Italia per lo stesso fatto e contro la medesima persona;
§ se la sentenza contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
L'esecuzione della pena in Italia avrà luogo con le modalità previste dalla legge nazionale, fatta salva la supervisione del Tribunale internazionale (art. 8); in caso di domanda di grazia, la relativa decisione non compete però al Presidente della Repubblica, bensì al Tribunale internazionale, cui il Ministro della giustizia invierà la proposta e i relativi atti (art. 9).
Per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria, la legge (art. 10) attribuisce al Ministro della giustizia la competenza a dar corso alle richieste di assistenza formulate dal Tribunale internazionale; competente a provvedere alla loro esecuzione è invece il procuratore generale della corte d'appello di Roma, cui il Ministro trasmette le richieste. Se le richieste riguardano attività di indagine o di acquisizione delle prove l'esecuzione della richiesta viene effettuata dalla corte d'appello; se si tratta di citazioni e di notificazioni competente è il tribunale del luogo in cui esse devono essere eseguite. Per il compimento degli atti si applicano le norme del codice di procedura penale, salvo che il tribunale chieda l'osservanza di forme particolari, compatibili con i principi dell'ordinamento giuridico italiano. Il Tribunale può partecipare all'acquisizione delle prove.
Per le ipotesi di consegna di imputati al Tribunale la legge individua (art. 11) un’apposita procedura: riproponendo alcuni dei limiti sostanziali posti dalla disciplina dell’estradizione, la legge esclude la consegna dell’imputato se il fatto per il quale si richiede la consegna non è previsto come reato dalla legge italiana o se non è compreso nella giurisdizione temporale e territoriale del Tribunale internazionale; se per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata già pronunciata nello Stato sentenza irrevocabile di condanna; se il Tribunale internazionale non abbia emesso un provvedimento restrittivo della libertà personale; se manca il requisito dell’identità fisica tra la persona richiesta e quella di cui si richiede la consegna. Circa la procedura, il provvedimento in commento prevede che il procuratore generale della corte d'appello, ricevuti gli atti, presenti la requisitoria alla corte d'appello, che decide senza ritardo in camera di consiglio. La consegna è disposta con decreto del Ministro della giustizia dopo che siano decorsi inutilmente i termini per la impugnazione in Cassazione della sentenza della corte di appello o sia avvenuto il deposito della sentenza della Cassazione ovvero del verbale di identificazione della persona contenente espressa menzione del consenso della persona alla consegna (v. infra).
L’applicazione della custodia cautelare in carcere o di altra misura specifica richiesta dal Tribunale internazionale è disposta con ordinanza della corte d'appello (art. 12). La corte può disporre una misura meno grave solo se il procuratore non ha richiesto esclusivamente l'adozione di una specifica misura. Ai fini della consegna il presidente della corte d’appello provvede all’identificazione della persona e all’acquisizione del suo eventuale consenso alla consegna, la cui verbalizzazione è trasmessa al procuratore generale per l’ulteriore inoltro al Ministro della giustizia. È prevista la revoca della misura quando la corte d’appello abbia pronunciato sentenza contraria alla consegna ovvero siano decorsi inutilmente i termini per la pronuncia della corte di appello o per l’emanazione del decreto del Ministro della giustizia o per la presa in consegna da pare del Tribunale internazionale. Peraltro, la legge (art. 13) consente l'applicazione provvisoria della misura cautelare prima che la richiesta di consegna sia pervenuta nei casi in cui il Tribunale internazionale abbia dichiarato l’avvenuta applicazione di un provvedimento restrittivo e l’intenzione di presentare richiesta di consegna fornendo i necessari elementi di conoscenza dei fatti e della persona.
Se il Tribunale internazionale ha formulato richiesta di applicazione di una misura cautelare coercitiva si può ricorrere all’arresto da parte della polizia giudiziaria, con il relativo sequestro del corpo del reato e la immediata comunicazione al Ministro della giustizia, ma solo nei casi di urgenza e se ricorrono le condizioni per l’applicazione della misura stessa. Non oltre quarantotto ore dopo l’arresto, l’arrestato è posto a disposizione del presidente della corte d’appello competente per la eventuale convalida e per l’applicazione, con ordinanza, della misura cautelare coercitiva. Di ciò è data immediata comunicazione al Tribunale internazionale; se tale organo, nei successivi venti giorni, non trasmette la richiesta di consegna, la misura è revocata (art. 14).
Infine, la legge valorizza il ruolo delle organizzazioni non governative dettando disposizioni dirette a favorire la collaborazione delle ONG nazionali e internazionali con il Tribunale internazionale (art. 15) e apporta al testo del D.L. 544 del 1993, recante disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, le modifiche necessarie ad omogeneizzarne il testo rispetto alla disciplina della cooperazione giudiziaria con il tribunale internazionale per il Ruanda (art. 16).
La legge 16 marzo 2006, n. 146 ha per oggetto la Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.
A seguito dell’emergere di nuove forme di cooperazione tra organizzazioni criminali a livello transnazionale, più evidente a partire dagli anni novanta, la comunità internazionale ha ritenuto di doversi dotare di strumenti per combattere efficacemente questa nuova forma di criminalità. La globalizzazione economica e l’enorme sviluppo delle tecnologie, specialmente nel settore delle comunicazioni, hanno creato grandi opportunità di progresso, ma anche il crimine organizzato se ne è avvantaggiato: la partecipazione di oltre 100 Stati membri ai negoziati per la stesura della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale e dei suoi Protocolli è il segno che esso è riconosciuto come problema collettivo, che richiede un’ampia collaborazione perché sia sconfitto. Più di recente, anche il documento finale adottato dal World Summit 2005, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU (New York, 15 settembre 2005) ha espresso grave preoccupazione per il crimine transnazionale e, in particolare, per il traffico di esseri umani, il commercio di sostanze stupefacenti, di piccole armi e di armamenti leggeri: nello stesso documento viene dunque rinnovato l’invito a tutti gli Stati ad aderire alle Convenzioni internazionali di lotta al crimine organizzato e alla corruzione, e a conformare ad esse le rispettive legislazioni nazionali.
La Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale ed i suoi Protocolli sono stati elaborati dalla Commissione ad hoc istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, per giungere alla loro stesura, ha lavorato dal gennaio 1999 all’ottobre 2000. La Convenzione e i primi due Protocolli riguardanti, rispettivamente, la tratta di persone, specialmente donne e bambini, e il traffico illecito di migranti via terra, via aria e via mare, sono stati adottati il 15 novembre 2000 nel corso del Meeting del Millennio dell’Assemblea generale dell’ONU (con risoluzione A/RES/55/25), e sono stati aperti alla firma nella Conferenza di Palermo dal 12 al 15 dicembre 2000. Il terzo Protocollo, relativo alla fabbricazione e al traffico illecito di armi da fuoco, è stato adottato dall’Assemblea generale il 31 maggio 2001 (con risoluzione 55/255). Sia la Convenzione che i Protocolli sono in vigore: la prima dal 29 settembre 2003; il Protocollo contro la tratta delle persone dal 25 dicembre 2003; il Protocollo contro il traffico illecito dei migranti dal 28 gennaio 2004; il Protocollo sulle armi da fuoco dal 3 luglio 2005.
In particolare, i principali profili di novità contenuti nel provvedimento riguardano:
§ l’estensione delle ipotesi di responsabilità amministrativa delle società per i reati di associazione a delinquere, riciclaggio, traffico di migranti, reato di intralcio alla giustizia;
§ la nozione uniforme di reato transnazionale;
§ le operazioni sottocopertura, ammesse ad ampio raggio per l’acquisizione di elementi di prova sui delitti terrorismo, riciclaggio, riduzione in schiavitù, immigrazione clandestina, delitti concernenti armi e munizioni;
§ l’estensione delle ipotesi di confisca obbligatoria nei casi di reati transnazionali per un valore corrispondente al prodotto, profitto o prezzo del reato;
§ l’attribuzione al Procuratore distrettuale antimafia di specifiche competenze in materia di crimini transnazionali.
Per qual che concerne, in misura più puntuale il contenuto della legge, dopo gli articoli 1 e 2 - relativi, rispettivamente all’autorizzazione al Presidente della Repubblica alla ratifica della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale ed al relativo l’ordine di esecuzione a decorrere dalla data della rispettiva entrata in vigore - le successive disposizioni della legge modificano l’ordinamento interno, oltre che per dare attuazione alla Convenzione e ai Protocolli ONU, anche per riordinare taluni istituti già oggetto di disciplina nel campo della lotta al crimine organizzato e al terrorismo. L’Italia è, infatti, già dotata di un consistente apparato normativo finalizzato alla prevenzione e al contrasto del crimine organizzato, integrato di recente da una disciplina volta a contrastare il fenomeno in ordine ai reati di immigrazione clandestina. Gli interventi operati dalla legge sarebbero, dunque, preordinati a completare la legislazione nazionale e a consentire “una coerente esecuzione della Convenzione e dei Protocolli”.
L’articolo 3 fornisce la definizione di reato transnazionale ai fini della legge. E’ così definito il delitto punibile con la reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni: commesso in più di uno Stato; commesso in uno Stato ma con una sua parte sostanziale preparata, diretta o controllata in altro Stato; commesso in uno Stato da parte di un gruppo criminale operante in più Stati; commesso in uno Stato ma producente effetti sostanziali in altro Stato.
L’articolo 4 inquadra una circostanza aggravante applicabile ai reati “gravi” ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della Convenzione.
In particolare, si stabilisce che la implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato costituisce circostanza aggravante (che determina l’aumento della pena da un terzo alla metà) nella commissione di reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Per quanto concerne le fattispecie di reato cui è da riferire la circostanza aggravante in oggetto, il richiamo al “coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato” riguarda specifiche figure di reato associativo, già previste dal nostro ordinamento agli articoli 416 e 416-bis del codice penale, rispettivamente associazione per delinquere ed associazione di tipo mafioso, ma anche agli articoli 270-bis e 270-ter (introdotti dall’articolo 2 del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438) sulle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e sulla assistenza agli associati. Si tratta di fattispecie per le quali il legislatore italiano, in ragione della speciale gravità, ha comunque previsto pene non inferiori nel massimo a quattro anni di reclusione.
L’articolo 4 disponendo, inoltre, l’applicazione del comma 2 dell’articolo 7 del DL 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (in materia di provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), stabilisce che le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale (ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante.
L’articolo 5 della legge 146/2006 individua nel Ministro della giustizia l’autorità centrale di cui all’articolo 18, paragrafo 13, della Convenzione, rinviando ad un D.P.C.M., da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore, per l’individuazione delle autorità di riferimento per gli ulteriori versanti di attività previsti dalla Convenzione e dai Protocolli. La Convenzione individua, infatti, una pluralità di ulteriori autorità, istituite a livello nazionale, cui spetta lo svolgimento di attività rilevanti ai fini della sua attuazione.
L’articolo 6 introduce specifici obblighi informativi del Governo nei confronti del Parlamento. È stabilito, così, l’obbligo per il Ministro della giustizia di informare ogni anno le Camere sullo stato di attuazione delle previsioni recate dalla Convenzione sulla collaborazione tra Stati Parte in materia di estradizione e di assistenza giudiziaria.
Non risulta che la Convenzione e i Protocolli rechino disposizioni in ordine a tali obblighi. La previsione contenuta all’articolo 6 è spiegabile nel quadro del sistema costituzionale italiano e dunque alle luce dei principi di diritto interno ai quali la Convenzione e i Protocolli fanno ripetuti rinvii. Allo stato attuale, tra gli obblighi informativi del Governo italiano al Parlamento non figura nulla di specifico per quanto riguarda l’estradizione e l’assistenza giudiziaria; esistono invece obblighi informativi in ordine alle materie trattate in generale dalla Convenzione e dai Protocolli.
L’articolo 7 della legge, sul trasferimento dei procedimenti penali, operando un rinvio all’articolo 21 della Convenzione delle Nazioni Unite, dispone che esso avvenga esclusivamente nelle forme e nei limiti degli Accordi internazionali che sono ratificati previa autorizzazione data con legge del Parlamento.
L’articolo 21 della Convenzione prevede che ciascuno Stato valuta la possibilità di trasferire ad un altro i procedimenti relativi al perseguimento di reati compresi nella Convenzione nei casi in cui tale trasferimento è ritenuto nell’interesse della corretta amministrazione della giustizia, in particolare nei casi in cui sono coinvolte più giurisdizioni, al fine di concentrare l’accusa
La norma dettata dalla Convenzione attiene al tema della competenza territoriale del giudice penale ed incide sulla disciplina nazionale della riunione dei processi.
L’articolo 7 prospetta la eventualità di una nuova disciplina derogatoria sulla competenza territoriale del giudice italiano anche per quanto concerne i reati commessi in tutto o in parte all’estero - che potrebbe essere introdotta con intervento normativo di rango primario in occasione della ratifica degli Accordi internazionali di tipo bilaterale, prospettati dall’articolo. D’altra parte, l’articolo 21 della Convenzione affida un simile intervento ad una valutazione di opportunità da parte di ciascuno Stato anche in relazione alla presenza, all’interno degli ordinamenti nazionali, di un compiuto sistema di regole in tale settore.
L’art. 7 dispone, inoltre, un ulteriore obbligo informativo a carico del Ministro della giustizia nei confronti delle Camere con cadenza annuale sullo stato di attuazione dell’articolo 21 della Convenzione in merito al quadro complessivo degli Accordi di trasferimento raggiunti con gli altri Stati Parte, al numero dei procedimenti penali effettivamente trasferiti e ad eventuali problemi applicativi. Come già osservato, nulla è previsto dalla Convenzione in ordine ad eventuali oneri informativi a carico degli Esecutivi degli Stati Parte.
L’articolo 8 della legge prevede ancora un obbligo di informazione annuale al Parlamento – stavolta da parte del Ministro dell’interno - in ordine allo stato di attuazione dell’articolo 27 della Convenzione, sulla cooperazione di polizia, con specifico riferimento alle azioni intraprese sulla base di tale disposizione ed al quadro delle intese o accordi conclusi ai sensi del paragrafo 2 del medesimo articolo 27.
L’articolo 27 della Convenzione promuove la stretta collaborazione di polizia tra gli Stati Parte per il rafforzamento dell’azione delle strutture preposte al contrasto dei reati disciplinati dalla Convenzione stessa e segnala le misure da adottare a tal proposito. Queste concernono una pluralità di strumenti operativi e informativi alquanto articolati, la cui adozione avviene nel pieno coinvolgimento di autorità, istituzioni e servizi competenti. Il paragrafo 2 dell’articolo 27 rinvia alla valutazione di opportunità da parte dei singoli Stati in ordine alla conclusione di intese o accordi bilaterali o multilaterali utili a conferire efficacia alla cooperazione.
L’articolo 9 della legge 146 disciplina le cd. cosiddette operazioni sotto copertura, già previste dal nostro ordinamento e disciplinate da diversi strumenti normativi tra cui, tra gli ultimi, l’articolo 4 del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374, (Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale), convertito dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438.
Le “operazioni sotto copertura” consistono in attività di tipo investigativo affidate in via esclusiva ad ufficiali di polizia giudiziaria infiltrati sotto falsa identità negli ambienti malavitosi al fine di reperire prove e accertare responsabilità.
Ai fini della attuazione della Convenzione, l’articolo è da porre in diretta connessione con l’articolo 20 della stessa, relativa alle “tecniche speciali di investigazione”.
L’art. 20 della Convenzione, a fini di contrasto della criminalità organizzata, individua, in particolare, lo strumento della consegna controllata, la sorveglianza elettronica e le operazioni sotto copertura, promuovendo il raggiungimento di accordi per l’impiego di tali tecniche nella cooperazione internazionale. La norma prevede che in mancanza di accordi le tecniche possano essere impiegate con decisioni assunte caso per caso; sulla consegna controllata a livello internazionale, si dispone che la decisione in ordine a tale misura possa includere la intercettazione della merce.
L’articolo 9 si propone di introdurre una disciplina unitaria delle operazioni sotto copertura provvedendo pertanto alla abrogazione espressa delle norme attualmente vigenti in tale materia. Peraltro, la relazione illustrativa che accompagnava il disegno di legge segnalava che la finalità della norma è quella di estendere lo strumento alle indagini per i reati di riduzione in schiavitù e tratta delle persone, nonché per i reati di immigrazione clandestina.
La norma introdotta nell’ordinamento appare, nei suoi undici commi, particolarmente complessa ed articolata; fermo restando quando dettato dall’articolo 51 c.p. in materia di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, l’art. 9 stabilisce, intanto, una causa di non punibilità per specifici soggetti in relazione allo svolgimento di operazioni sotto copertura nel quadro della azione di contrasto al crimine organizzato, nelle sue diverse specificazioni, ed al terrorismo.
La lettera a) del comma 1 fa riferimento agli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia.
La disposizione individua specifici requisiti per l’applicazione della causa di non punibilità.
In particolare, tali soggetti non sono punibili quando – anche per interposta persona – e nei limiti delle proprie competenze, nel corso di specifiche operazioni di polizia ed al solo fine di acquisire elementi di prova per una serie di delitti (riciclaggio, art. 648-bis c.p.; impiego di denaro, beni o utilizzo di provenienza illecita, art. 648-ter c.p); delitti contro la personalità individuale, artt. 600-604 c.p.; delitti concernenti armi, munizioni ed esplosivi, delitti previsti dal T.U. 309/1990 sugli stupefacenti; specifici reati di immigrazione clandestina, art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del T.U. 286/1998; sfruttamento della prostituzione, art. 3, L. 75/1958, n.75) danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego.
La lettera b) del comma 1 fa riferimento, come beneficiari della causa di non punibilità, agli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della impegnato nel contrasto al finanziamento del terrorismo sulla base dei presupposti già menzionati ma in ordine ai delitti commessi per finalità di terrorismo.
Il comma 2 stabilisce che, in tali casi, gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità e indicazioni di copertura anche per entrare in contatto con soggetti e siti telematici utili ai fini delle indagini dandone informazione al pubblico ministero entro 48 ore.
L’esecuzione delle operazioni sotto copertura è disposta – in relazione all’appartenenza del personale di polizia giudiziaria - dagli organi di vertice, di livello almeno provinciale, d’intesa con gli uffici nazionali (Direzione centrale per i servizi antidroga o Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere). Di tali attività deve comunque essere data preventiva informazione al PM, che – in caso di operazione in corso . deve ricevere informazione senza ritardo in ordine alle sue modalità di svolgimento, ai soggetti coinvolti e ai risultati (comma 4).
In analogia a quanto disposto dal comma 6 dell’articolo 4 del decreto-legge 374/2001, sono estese le cause di non punibilità agli eventuali ausiliari, di cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi. Si opera un rinvio ad un decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati, per la definizione delle modalità di utilizzo di eventuali beni mobili e immobili, documenti di copertura, attivazione di siti nonché di svolgimento di determinate attività funzionali alle operazioni e per la definizione delle forme e modalità di coordinamento anche internazionale tra i diversi organismi investigativi (comma 5).
Sempre l’art. 9 autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria e le autorità doganali - limitatamente ai delitti previsti dal DPR n. 309 del 1990 (Testo unico tossicodipendenza), ai reati sopraelencati, nonché ai reati di estorsione (art. 629 c.p.) e usura (art. 644 c.p.) - ad omettere o ritardare atti di competenza al fine di ottenere elementi probatori o per individuare o catturare i responsabili, dandone immediato avviso al pubblico ministero, anche oralmente, e provvedendo a trasmettere un motivato rapporto entro le successive quarantotto ore (comma 6).
Analoga disposizione è prevista dal comma 7 relativamente alla possibilità per il pubblico ministero, con decreto motivato, di ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo, dell’ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. Nei casi di urgenza tale iniziativa può esser disposta oralmente salva la emissione del decreto entro le successive 48 ore. Il pubblico ministero si avvale della polizia giudiziaria per lo svolgimento di attività di controllo degli sviluppi dell’attività criminosa. Il PM è tenuto a comunicare tali provvedimenti al giudice del luogo in cui l’operazione deve concludersi dove si prevede che le cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere delitti siano in transito in entrata o uscita dal territorio dello Stato.
Le comunicazioni e i provvedimenti adottati per lo svolgimento delle attività di copertura devono essere trasmesse al procuratore generale presso la corte d’appello o al procuratore nazionale antimafia per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, c.p.p. (comma 8).
Il comma 9 prevede la possibilità che l’autorità giudiziaria affidi materiali e beni sequestrati in custodia giudiziale con facoltà d’uso agli organi di polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per lo svolgimento delle attività di contrasto al crimine organizzato o al terrorismo. Il comma 10 individua una nuovo illecito penale consistente nella divulgazione indebita dell’identità personale di polizia giudiziaria che agisce in operazioni sottocopertura; il reato è punito con la reclusione da due a sei anni.
Infine, il comma 11 reca una serie di abrogazioni di disposizioni vigenti riguardanti lo svolgimento di operazioni sotto copertura, disposizioni ormai incompatibili con la nuova disciplina introdotta.
L’articolo 10 della legge 146 introduce una serie di disposizioni che disciplinano la responsabilità amministrativa degli enti (v. D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231) in relazione alla commissione di una serie specifica di delitti ovvero alla utilizzazione dell’ente allo scopo di consentire o agevolare la commissione dei reati . Le sanzioni previste sono quelle amministrative pecuniarie “per quote” nonché quelle interdittive di cui al citato D.Lgs 231.
Il comma 2prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria da 400 a 1.000 quote qualora l’ente sia coinvolto nella commissione dei seguenti reati associativi: associazione per delinquere semplice (art. 416 c.p.) e di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 DPR 309/1990) o di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater DPR 43/1973).
Il comma 3 dispone poi che, nel caso di condanna per uno dei delitti citati, si applicano all’ente, oltre alla sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, del D.Lgs. 231 del 2001, per una durata minima di un anno (l'interdizione dall'esercizio dell'attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Il comma 4 dell’art. 10, riproducendo il contenuto dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 231, inquadra una circostanza aggravante da cui deriva l’applicazione dell’interdizione definizione dall’esercizio dell’attività. Tale circostanza consiste nell’utilizzo in via stabile dell’ente o di una sua unità organizzativa allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati.
Il comma 5 stabilisce le sanzioni da applicarsi alle persone giuridiche in caso di riciclaggio commesso da loro esponenti; la norma prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria all’ente nella misura da 200 a 800 quote in relazione ai reati di: riciclaggio ex articolo 648-bis c.p.; impiego di denaro, beni o utili di provenienza illecita ex articolo 648-ter c.p..
Anche in tal caso, alla condanna consegue l’applicazione delle citate sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, dello stesso decreto legislativo 231/2001, fissandone la durata massima in due anni (comma 6).
E’, poi, previsto dal comma 7, che l‘ente coinvolto nel traffico di migranti (per i reati di immigrazione clandestina di cui all’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico 286/1998) sia soggetto ad una sanzione pecuniaria da 200 a 1.000 quote oltre che alle indicate sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, del D.lgs 231/2001, anche in tal caso di durata massima biennale (comma 8).
L’intervento operato persegue le finalità specifiche del Protocollo Addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, annesso alla Convenzione e adottato dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.
Infine, il comma 9 dell’art 10 dispone l’applicazione di una sanzione pecuniaria fino a 500 quote all’ente in relazione ai reati di intralcio alla giustizia (articoli 377, Intralcio alla giustizia[147], 377-bis, Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e 378, Favoreggiamento personale, del codice penale). La norma attua le previsioni dell’art. 23 della Convenzione (Penalizzazione dell’intralcio alla giustizia)
Va ricordato come il reato di intralcio alla giustizia (introdotto dall’art. 14 della legge) non era esplicitamente previsto dal nostro codice penale.
L’articolo 11 della legge contempla ipotesi speciali di confisca obbligatoria e di confisca per equivalente; la norma è volta ad attuare l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite, in materia di confisca e sequestro.
Per i reati transnazionali di cui all’art. 3 della legge, quando, non sia possibile confiscare le cose costituenti prodotto, profitto o prezzo del reato (confisca penale), il giudice ordina la confisca delle somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo (confisca per equivalente). Nel caso di usura viene comunque disposta la confisca (obbligatoria) di un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.
In tali casi il giudice con sentenza di condanna determina le somme di denaro o individua i beni o le utilità assoggettati a confisca di valore corrispondente al prodotto, al profitto o al prezzo del reato.
L’articolo 12 della legge 146/2006 attua anch’esso l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di confisca e sequestro, con particolare riferimento al paragrafo 2 con cui si invitano gli Stati Parte ad adottare le misure necessarie per consentire la identificazione, la localizzazione, il congelamento o il sequestro di qualsiasi elemento ai fini di una eventuale confisca. Inoltre, il paragrafo 6 dell’articolo 12 dispone che ogni Stato Parte conferisca autorità ai suoi tribunali o altre autorità competenti per ordinare che documenti bancari, finanziari o commerciali siano prodotti o sequestrati, senza al riguardo potere opporre il segreto bancario.
La norma prevede - in relazione ai reati transnazionali di cui all’art. 3 della legge - la possibilità del pubblico ministero di svolgere attività integrativa di indagine finalizzata all’individuazione dei beni oggetto di confisca obbligatoria o per equivalente ai sensi dell’art. 11 della legge e dell’articolo 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, (legge 7 agosto 1992, n. 356), che prevede ipotesi speciali di confisca antimafia (beni di cui il condannato non sa giustificare la provenienza). La norma è volta ad offrire alla magistratura inquirente uno strumento di indagine che può essere utilizzato dopo il rinvio a giudizio. Allo stato attuale infatti, superata la fase delle indagini preliminari, le indagini sui patrimoni di origine criminale sono particolarmentedifficoltose, limitando l’articolo 430 c.p.p. tali indagini alle attività che non prevedano la partecipazione dell’imputato o del difensore.
L’articolo 13 della legge, in relazione ai reati di cui all’art. 3 della legge, estende le competenze del procuratore distrettuale antimafia, ora compreso tra i soggetti (ad oggi il procuratore della Repubblica o il questore) cui spetta lo svolgimento di rilevanti attività di indagine e prevenzione nel quadro delle finalità perseguite dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia).. Tali competenze trovano riscontro negli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis, 3-quater e 10-quater della citata legge 575.
Va osservato che l’intervento non trova riscontri nel quadro delle norme recate dalla Convenzione e dai Protocolli addizionali
E’, quindi, consentito anche al procuratore distrettuale antimafia:
§ lo svolgimento di indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio dei soggetti nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno, nonché, avvalendosi della guardia di finanza o della polizia giudiziaria, ad indagini sull'attività economica facente capo agli stessi soggetti allo scopo anche di individuare le fonti di reddito (comma 1, articolo 2-bis).
§ richiedere al presidente del tribunale il sequestro anticipato - prima della fissazione dell'udienza - quando vi sia concreto pericolo che i beni di cui si prevede debba essere disposta la confisca vengano dispersi, sottratti od alienati (comma 4, articolo 2-bis).
§ richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti di ogni tipo informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini (comma 6).
§ fare richiesta, nei casi di particolare urgenza, affinché sia disposto il sequestro dei beni della persona nei cui confronti è iniziato il procedimento quanto risulta che il loro valore sia sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando vi è motivo di ritenere che essi siano il frutto di attività illecite (comma 2 ,articolo 2-ter).
§ richiedere i provvedimenti previsti dall’articolo 2-ter anche dopo l'applicazione della misura di prevenzione, ma prima della sua cessazione (comma 6, articolo 2-ter).
§ proporre al tribunale l’inizio o la prosecuzione del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione anche in caso di assenza, residenza o dimora all'estero della persona (comma 7, articolo 2-ter);
§ proporre al tribunale, dopo la confisca della cauzione per violazione da parte del soggetto degli obblighi di prevenzione, il rinnovo della cauzione anche per somma superiore a quella originaria (comma 7, articolo 3-bis);
§ proporre al tribunale, qualora vi siano sufficienti indizi in ordine ad attività economiche svolte nell’ambito della fattispecie ex 416-bis c.p. e non vi siano i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione, di disporre ulteriori indagini e verifiche su tali attività economiche nonché di disporre l'obbligo, nei confronti di chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza (comma 1, art. 3-quater);
§ richiedere al tribunale il sequestro dei beni di cui sia stata disposta la sospensione temporanea dell’amministrazione quando vi sia concreto pericolo che essi siano sottratti, dispersi alienati (comma 5, art. 3-quater);
§ l) richiedere al tribunale, quando ne ricorrano le condizioni ed anche dopo l’applicazione della misura di prevenzione, che i divieti e le decadenze quinquennali da licenze, concessioni, iscrizione ad albi, finanziamenti, ecc. operino anche nei confronti dei conviventi dei soggetti sottoposti alla misura nonché di imprese, associazioni, società di cui la persona soggetta alla misura sia amministratore o sia comunque in grado di determinarne scelte ed indirizzi (comma 2, articolo 10-quater).
Le modiche disposte dall’articolo 14 della legge all’articolo 377 c.p. sono da porre in relazione con quanto disposto all’articolo 10, comma 9, in materia di responsabilità degli enti.
Peraltro, come già osservato in quella sede, tale disposizione è da considerare attuativa di quanto disposto dalla Convenzione della Nazioni Unite all’articolo 23, relativo alla penalizzazione dell’intralcio alla giustizia.
L’intervento è volto non soltanto alla modifica della rubrica dell’articolo 377 - prima denominata “Subornazione” ed ora “Intralcio alla giustizia” - così da renderla conforme al dettato della Convenzione, ma anche ad estendere la nuova fattispecie di reato al di là di quanto revisto al primo comma dell’articolo 377 c.p.p.
L’integrazione di due ulteriori commi all’art. 377 configura come intralcio alla giustizia (terzo comma ) la condotta di chi usi violenza o minaccia al fine di indurre la vittima ai reati di cui agli articoli 371-bis (False dichiarazioni al pubblico ministero), 371-ter (False dichiarazioni al difensore) 372 (Falsa testimonianza) e 373 (Falsa perizia o interpretazione). In tali casi l’autore della condotta, nel caso in qui il fine non sia conseguito, soggiace alle pene stabilite per tali reati, diminuite nella misura non eccedente un terzo.
Si prevede, poi, (quarto comma) un aumento delle pene sancite dai commi 1 e 3 dell’articolo 377 quando ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’articolo 339 c.p.
L’art. 14 dispone, infine, una modifica all’articolo 7 della citata legge 575/1965, recante disposizioni contro la mafia, che inserisce il descritto reato di cui all’art. 377, terzo comma, c.p., nel novero dei delitti per cui le pene sono aumentate da un terzo alla metà, quando il fatto sia commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione,.
L’articolo 15 della legge interviene sulla disciplina in materia di armi da fuoco di cui al TULPS (Testo unico di pubblica sicurezza) di cui al R.D. 18 giugno 1931 n. 773.
E’ modificato, infatti, il comma 2 dell’articolo 35 del TULPS, al fine di prevedere che il registro delle operazioni giornaliere tenuto dal fabbricante, dal commerciante di armi e da chi esercita l'industria della riparazione delle armi recante le generalità delle persone con cui le operazioni stesse sono compiute deve essere conservato per 10 anni anziché 5, come in precedenza previsto.
Tale registro deve essere esibito a richiesta degli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza e deve essere conservato anche dopo la cessazione dell'attività.
E, inoltre. disposta una modifica dell’articolo 11 della legge 18 aprile 1975, n. 110 “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”, relativamente alla immatricolazione delle armi comuni da sparo. La modifica concerne la previsione, nel caso di importazione dell’arma da Paese esterno all’Unione Europea, della indicazione del luogo di produzione e della sigla della Repubblica italiana o di altro Paese tra i dati che devono essere impressi in modo indelebile ed a cura del produttore sulle armi comuni da sparo prodotte nello Stato.
L’intervento operato con l’articolo 15 appare volto ad integrare la legislazione italiana rispetto a quanto richiesto dal Protocollo contro la fabbricazione ed il traffico illecito di armi da fuoco e di loro parti, allegato alla Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale con particolare riferimento all’articolo 7 del Protocollo, che richiede la conservazione delle informazioni relative alle armi da fuoco per almeno dieci anni, e all’articolo 8 sui requisiti di marcatura delle armi da fuoco.
L’articolo 16 riguarda, infine, l’entrata in vigore della legge.
La legge 12 giugno 2003, n. 134[148] ha riformato la disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti introducendo modifiche agli artt. 444, 445 e 629 del codice di procedura penale.
Il procedimento speciale denominato applicazione della pena su richiesta delle parti presuppone un accordo sulla entità della pena da irrogare ed implicitamente anche sull’affermazione di colpevolezza. La richiesta di patteggiamento può essere formulata nel corso delle indagini preliminari (art. 447) ovvero nel corso dell’udienza preliminare fino a che non siano state presentate le conclusioni (art. 446, comma 1). A tal proposito va ricordato che la riforma introdotta dalla legge n. 479 del 1999 ha previsto che la presentazione delle conclusioni in udienza preliminare sia il momento ultimo in cui può essere chiesto il patteggiamento, escludendo la possibilità di poter proporre la richiesta per la prima volta in dibattimento, con scarsa efficacia deflattiva dei ruoli di udienza.
Nell’ipotesi in cui invece sia stato attivato il giudizio direttissimo, l’istanza può essere avanzata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento; in caso di emissione del decreto di giudizio immediato, entro 7 giorni dalla notifica dello stesso; in caso di decreto penale, con l’opposizione.
Se il patteggiamento interviene nella fase delle indagini preliminari o della udienza preliminare comporta rinuncia al dibattimento; se sopravviene in limine litis in dibattimento (a seguito di giudizio immediato o direttissimo) vale a mutare l’oggetto di questo, dovendosi limitare, il giudice, a valutare le questioni prospettategli dalle parti (qualificazione giuridica, circostanze e comparazione, entità della pena), senza necessità di un positivo accertamento della responsabilità del giudicabile, salva la generale ipotesi dell’obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. Pertanto il risparmio di attività processuale è variabile a seconda del momento in cui si verifica l’accordo sulla reità e sulla pena da applicare.
La deflazione processuale conseguente al patteggiamento rende meritevole l’imputato di uno sconto di pena in misura variabile: diminuzione fino al limite di un terzo.
Condizioni per addivenire al patteggiamento sono:
§ l’accordo dell’imputato e del P.M. sulla pena da applicare (proposta di una delle parti, consenso dell’altra;
§ quantità di pena pattuita non eccedente i due anni (portati ora a cinque dalla legge 134) di pena detentiva (compresa la diminuente del rito, art. 444, comma 1) ;
§ provvedimento di accoglimento della richiesta da parte del giudice.
Il giudice, tuttavia, può decidere solo sull’accoglimento od il rigetto della richiesta: egli può ratificare o meno l’accordo ma non può modificarlo, né integrarlo, né basarsi su atti diversi da quelli già acquisiti nel fascicolo del p.m.
Per valutare l’accoglibilità del patteggiamento il giudice deve quindi fare una duplice valutazione:
§ di correttezza della qualificazione giuridica del fatto-reato contestato, della valutazione delle circostanze e loro comparazione, della congruità della pena patteggiata;
§ l’assenza di cause di non punibilità che imporrebbero l’immediato proscioglimento dell’imputato (nonostante la richiesta di patteggiamento) ai sensi dell’articolo 129 c.p.p.
Tenuto conto dell’essenzialità dell’accordo per la praticabilità del patteggiamento il p.m. è tenuto a motivare il suo dissenso (art. 446, c. 6) in modo da non precludere all’imputato la possibilità di beneficiare dello sconto di pena previsto per tale rito. Pertanto, se l’iniziale rifiuto di consenso frapposto dal p.m. vale, sul piano procedurale, ad impedire la celebrazione del rito speciale in questione, tuttavia, l’ingiustificata posizione negativa di consenso da parte dello stesso non può impedire, nel merito, l’accoglimento della richiesta di patteggiamento da parte del giudice dibattimentale. In tal caso, all’esito del dibattimento, il giudice, o anche quello dell’impugnazione, se ritiene che il diniego di consenso del p.m. sia stato ingiustificato, può egualmente concedere la riduzione di pena (art. 448, comma 1).
La sentenza di applicazione della pena (artt. 444, comma 2 e 448) non ha natura giuridica di sentenza di condanna, in quanto non contiene un’affermazione esplicita della responsabilità penale dell’imputato in ordine al fatto reato contestatogli. Per espressa previsione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 445, la sentenza patteggiata è però equiparata a quella di condanna (in tal senso, anche la prevalente giurisprudenza); la questione assume rilievo in quanto a tale sentenza conseguono importanti effetti in tema di revoca di sospensione condizionale, indulto, dichiarazione di abitualità del reato, ecc.
Il patteggiamento comporta per l’imputato rilevanti benefici (art. 445 c.p.p.), oltre lo sconto di pena, consistenti:
§ nell’esclusione del pagamento delle spese processuali;
§ nell’esclusione dell’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca, nei casi previsti dall’articolo 240, comma 2 del codice penale;
§ nell’esclusione degli effetti pregiudizievoli nei connessi giudizi civili ed amministrativi.
Altri aspetti premiali sono rappresentati dalla previsione di estinzione del reato e di ogni altro effetto penale (ad es. per la recidiva) dopo il decorso di un certo intervallo di tempo dalla pronuncia della sentenza sul patteggiamento (cinque anni se la sentenza concerne un delitto, due se concerne una contravvenzione se in tale spatium temporis l’imputato non commetta un reato della stessa indole).
Con la sentenza il giudice può concedere la sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.) se non sussistono condizioni ostative alla concedibilità del beneficio (inesistenza di ostacoli giuridici ed esattezza nel merito della prognosi di futura astensione da reiterazioni criminose).
Va ricordato, inoltre, che le parti possono inserire, nel quadro del loro accordo, la concessione della sospensione della pena, sempre che il giudice la riterrà effettuabile. La previsione della sospensione può essere apposta come condizione essenziale, dirimente dell’accordo, sicché se il giudice riterrà inaccoglibile tale punto dell’accordo verrà meno la stessa efficacia del patteggiamento (art. 445, c. 3).
La sentenza di patteggiamento è inappellabile (l’appello per il p.m. è ammesso solo nel caso in cui la sentenza sia stata emessa nonostante il suo dissenso) e ricorribile in Cassazione (art. 448, comma 2).
La novità più rilevante della riforma (definita del “patteggiamento allargato”), consiste nell’aumento del limite di pena previsto quale condizione del patteggiamento: si è, infatti,elevato da due a cinque anni anni il limite quantitativo di pena detentiva che – sola o congiunta a pena pecuniaria - può essere oggetto di accordo tra le parti.
In base al nuovo comma 1 dell’art. 444 c.p.p., pertanto, “l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.
La riforma ha, altresì, previsto una serie di cause di esclusione, di natura oggettiva e soggettiva, la cui presenza - nel caso di pena detentiva superiore a due anni - preclude l’accesso al patteggiamento.
Tra le prime (cause oggettive) sono compresi delitti di particolare allarme sociale come l’ associazione mafiosa, il sequestro di persona a scopo di rapina a o estorsione;l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti; l’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri;il terrorismo.
Le cause di esclusione soggettive sono relative alla particolare situazione giuridica dei soggetti che impedisce il patteggiamento: si tratta di delinquenti abituali, professionali e per tendenza nonché di recidivi, quando la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
La legge 134, confermata l’inefficacia della sentenza ex art. 444 nei giudizi civili e amministrativi, ha, inoltre, limitato alcuni benefici previsti dall’art. 445 c.p.p. alle sole ipotesi di sentenza di patteggiamento con pena irrogata non superiore ai due anni: si tratta dell’esonero dal pagamento delle spese processuali; della inapplicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca, nei casi previsti dall’art. 240 c.p.; della estinzione del reato in caso di mancata commissione di delitto (entro 5 anni) o contravvenzione (entro 2 anni) della stessa indole.
Altro aspetto rilevante della riforma, che ha previsto la possibile revisione anche delle sentenze ex art. 444 (art. 629 c.p.p.) è costituito dalle modifiche alla disciplina delle c.d. sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.
Di tali sanzioni, previste dall’art. 53 della legge 689/81, è ora possibile l’applicazione in termini più favorevoli al condannato, risultando, dalla legge 134/2003, raddoppiati i limiti di pena ivi previsti: Infatti:
§ la pena detentiva entro il limite di due anni può essere sostituita con la pena della semidetenzione (il precedente limite era di un anno);
§ pena detentiva entro il limite di un anno à può essere sostituita con la libertà controllata (il precedente limite era di sei mesi);
§ -pena detentiva entro il limite di sei mesi à può essere sostituita con la pena pecuniaria della specie corrispondente (il precedente limite era di tre mesi).
La sanzione sostituiva della pena pecuniaria è determinata in misura compresa tra € 38,73 ed € 387,30 per ogni giorno di detenzione sostituita e il pagamento potrà essere rateizzato da tre a trenta mesi con ciascuna rata non inferiore ad € 15.
Con la riforma, è novellato, inoltre, l’art. 59 della stessa legge 689/1981, sostanzialmente ampliando la possibilità per i recidivi di usufruire della sostituzione della pena detentiva. Analogo effetto estensivo comporta l’abrogazione dell’art. 60 della stessa legge 689 che prevedeva una specifica serie di delitti per la cui condanna non era possibile l’applicazione delle pene sostitutive.
La legge 134/2003 ha, infine, previsto una specifica disciplina transitoria per l’applicabilità della nuova disciplina ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore.
Successivamente, il legislatore - per finalità di coordinamento con la descritta riforma del patteggiamento - è intervenuto con la legge 2 agosto 2004, n. 205[149] a novellare l’articolo 188 delle norme di attuazione al codice di procedura penale.
Il citato articolo 188, collocato tra le disposizioni relative all’esecuzione, prevede l'ipotesi in cui contro una stessa persona siano state pronunciate, in procedimenti distinti, più sentenze, patteggiate ai sensi dell’art. 444 del codice processuale penale.
In tal caso, nella sua formulazione anteriore alla novella del 2004, il giudice dell’esecuzione applicava la disciplina del concorso formale o del reato continuato in presenza di due condizioni:
§ richiesta del condannato e del pubblico ministero;
§ entità della sanzione sostitutiva o della pena concordata non superiore a due anni.
Mentre, in realtà, la prima delle due condizioni sarebbe potuta anche mancare (il giudice, se ritiene ingiustificato il disaccordo del pubblico ministero, può comunque accogliere la richiesta), la seconda - pena da scontare contenuta entro il limite biennale – doveva comunque sussistere
Tale limite, ancora fissato in due anni in correlazione con il testo originario dell'articolo 444, non era, ovviamente, più coerente con l’innalzamento a cinque anni del limite della pena detentiva entro il quale è ammesso il patteggiamento stesso, oggetto principale della riforma introdotta con la legge 134/2003.
La disciplina che ne era derivata determinava una ingiusta disparità di trattamento fra soggetti in identica situazione giuridica: imputati che, nel giudizio di merito, nel caso della commissione di più reati, potevano patteggiare la pena nel limite dei cinque anni, previa applicazione della disciplina del reato continuato; e condannati che nel giudizio di esecuzione, in analoga posizione giuridica, restavano invece legati al limite biennale.
Tale discrasia normativa, oggetto anche di un ricorso alla Corte costituzionale è stata così alla base dell’intervento di coordinamento normativo oggetto della legge 205/2004.
Il provvedimento adegua, quindi, in modo corrispondente il contenuto del citato articolo 188 portando da due a cinque anni il limite di pena detentiva che permette, in fase esecutiva, l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato; è mantenuto, peraltro, fermo il limite dei due anni nei più gravi casi di cui al nuovo comma 1-bis dell’art. 444 del codice di procedura penale.
L’articolo unico della legge 27 febbraio 2002, n. 31[150]modifica l’art. 57, comma 3, della legge 16 dicembre 1999, n. 479[151] (c.d. Legge Carotti).
La legge n. 479 del 1999, approvata nel corso della XIII legislatura, ha introdotto modifiche all’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), principalmente al fine di coordinare l’ordinamento del personale magistratuale con le nuove disposizioni in materia processuale previste dalla stessa legge.
In particolare, l’articolo 57 (integrando l’art. 7-bis O.G. con i commi da 2-bis a 2-quinquies) introduce tre distinti divieti, derogabili soltanto se ricorrono “imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio”:
§ vieta di destinare a svolgere funzioni monocratiche magistrati che non abbiano “esercitato la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni”;
§ vieta di destinare a svolgere funzioni di giudice per le indagini preliminari (GIP) e giudice dell’udienza preliminare (GUP) magistrati che non abbiano svolto per almeno due anni funzioni di “giudice del dibattimento” e comunque che svolgano da meno di tre anni “funzioni giurisdizionali”;
§ vieta di lasciare svolgere tali ultime funzioni a magistrati che le abbiano esercitate per più di sei anni “consecutivi”, tranne nel caso in cui, alla scadenza del termine, abbiano in corso il compimento di un atto del quale sono stati richiesti; in questa ipotesi l'esercizio delle funzioni è prorogato, solo per il procedimento, sino al compimento dell'attività medesima.
Il comma 3 dell’art. 57 della legge n. 479 detta, infine, una norma transitoria prevedendo la sostituzione – entro 36 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, e quindi entro il 3 gennaio 2003 - dei giudici che al momento dell’entrata in vigore della legge medesima abbiano maturato il termine di 6 anni di esercizio delle funzioni di GIP o GUP, o comunque lo maturino entro due anni. Per tutti gli altri il termine di 6 anni va computato dalla data di entrata in vigore della legge.
Dall’applicazione della norma transitoria prevista nella c.d. legge Carotti sarebbe derivato, in un breve lasso di tempo, un ricambio pressoché totale dei componenti delle sezioni dei GIP e GUP, circostanza che inevitabilmente avrebbe privato tali sezioni di magistrati con notevole esperienza nelle funzioni.
Da qui, l’intervento dell’articolo unico della legge 31/2003 che sostituisce il comma 3 dell’articolo 57 della legge n. 479/99 disponendo che per i GIP e per i GUP i sei anni decorrono dal 2 gennaio 2000 (data di entrata in vigore della legge n. 479 del 1999).
La legge 24 luglio 2003, n. 199[152] ha inteso porre rimedio ai gravi disagi derivanti dalla individuazione – ai sensi dell’art. 11 c.p.p. - della Corte d’appello di Palermo come ufficio giudiziario competente in relazione ai procedimenti penali e civili riguardanti i magistrati del distretto di Corte d’appello di Cagliari e ai procedimenti di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo tenuto in Sardegna.
Con la legge 2 dicembre 1998, n. 420, Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati, il legislatore era intervenuto nell’intento di individuare – per i procedimenti riguardanti i magistrati - una sede processuale che garantisse il massimo grado di neutralità, così da assicurare al giudizio un elevato quoziente di affidabilità. La legge n. 420 del 1998 modificando l’art. 11 del codice di procedura penale ha stabilito che il giudice competente sia quello che ha sede nel distretto di corte d’appello determinato dalla legge, allegando, poi, alle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura la seguente tabella A, che individua competenze circolari tra i vari capoluoghi dei distretti di corte d’appello.
Tabella A |
|
Dal distretto di |
Al distretto di |
Roma |
Perugia |
Perugina |
Firenze |
Firenze |
Genova |
Genova |
Torino |
Torino |
Milano |
Milano |
Brescia |
Brescia |
Venezia |
Venezia |
Trento |
Trento |
Trieste |
Trieste |
Bologna |
Bologna |
Ancona |
Ancona |
L’Aquila |
L’Aquila |
Campobasso |
Campobasso |
Bari |
Bari |
Lecce |
Lecce |
Potenza |
Potenza |
Catanzaro |
Cagliari |
Caltanissetta |
Caltanissetta |
Catania |
Catania |
Messina |
Messina |
Reggio Calabria |
Reggio Calabria |
Catanzaro |
Catanzaro |
Salerno |
Salerno |
Napoli |
Napoli |
Roma |
Pertanto, nel caso in cui un magistrato sia imputato, persona offesa, o danneggiato dal reato, ed il procedimento appartenga ad un ufficio giudiziario del distretto in cui il magistrato esercita o esercitava le sue funzioni al momento del fatto, la competenza sarà determinata secondo le indicazioni automatiche fissate dalla tabella, che opererà anche nel caso in cui in questo distretto il magistrato sia venuto a svolgere le sue funzioni, nel senso che la nuova competenza scatterà automaticamente verso una successiva corte d’appello (art. 11, comma 2, c.p.p.). Per ciascuno dei 26 distretti viene così individuato un distretto competente senza alcuna reciprocità; gli abbinamenti mostrano una sola "sovrapposizione": il distretto di Catanzaro ha una doppia competenza, sui magistrati di Potenza e su quelli di Reggio Calabria. Non ha invece alcuna competenza il distretto di Cagliari.
L’intervento legislativo del 1998 è stato occasione per estendere il criterio delle competenze circolari ad ulteriori procedimenti:
§ ai procedimenti riguardanti i magistrati della Direzione nazionale antimafia (art. 11-bis c.p.p.);
§ ai giudizi di risarcimento del danno contro lo Stato per l’esercizio delle funzioni giudiziarie (di cui alla legge n. 117 del 1988);
§ alle cause civili in cui sono parti magistrati. (nuovo art. 30-bis c.p.c. “Foro per le cause in cui sono parti i magistrati”.
Successivamente, in base alle previsioni dell’articolo 11 c.p.p., è individuato anche il giudice competente sulle domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo di cui alla legge n. 89/2001 (cd. legge Pinto)[153].
Un discorso a parte va fatto per il processo penale militare ove, con riferimento alla posizione del giudice nell’Esercito, nella Marina, nell’Aeronautica o nella Guardia di finanza si prevede, in sequenza, la competenza della Corte militare d’appello che, partendo da Roma, tocca prima Napoli, poi Verona per poi tornare a Roma (art. 261-bis, codice penale militare di pace).
Le gravi difficoltà, sia di natura logistica che finanziaria, cui andavano incontro magistrati, parti, testimoni, residenti in Sardegna derivanti dai problematici collegamenti aerei con Palermo che impedivano trasferte di una sola giornata - hanno suggerito di introdurre con legge una modifica alla tabella “A” allegata alle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale; tale modifica ha previsto l’individuazione del distretto di Corte d’appello di Roma, al posto di quello di Palermo, come l’ufficio competente in relazione ai citati procedimenti penali e civili (articolo 1).
Il provvedimento interviene, inoltre, anche sulla disciplina transitoria prevedendo la competenza della Corte d’appello di Roma solo per i procedimenti civili e penali iniziati dopo l’entrata in vigore della legge (articolo 2).
La legge 19 aprile 2002, n. 72[154] è diretta ad introdurre una disciplina transitoria finalizzata ad assicurare parità di trattamento nell'esercizio del diritto di difesa, a seguito delle modifiche introdotte all’articolo 593, comma 3, del codice di procedura penale dall’articolo 13 della legge 26 marzo 2001, n. 128[155].
In origine, l’articolo 18 della legge 24 novembre 1999, n. 468[156], intervenendo sull’articolo 593 del codice di procedura penale, ne sostituiva il comma 3, nel i prevedendo l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a reati per i quali è stata applicata la sola pena pecuniaria e delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. La novità principale era rappresentata dall’estensione dell’inappellabilità in relazione alla categoria dei delitti punibili con pena pecuniaria od alternativa: l’espressione contravvenzioni veniva infatti sostituita dall’espressione reati e il riferimento alla pena dell’ammenda, che in base all’articolo 17 del codice penale è applicabile di regola alle contravvenzioni, veniva sostituito da quello alla pena pecuniaria, più ampio e relativo anche ai delitti.
Tale modifica dell’articolo 593, comma 3, ha però determinato una serie di critiche poiché portava ad escludere l’appellabilità anche di condanne per delitti, quali, ad esempio, quelli di diffamazione a mezzo stampa o di lesioni colpose, le cui conseguenze possono esulare dall’ambito meramente penalistico e riversarsi su quello civilistico o amministrativo, in quanto il loro accertamento si accompagna, se vi è costituzione di parte civile, alla condanna dell’imputato al risarcimento del danno e fa stato nel giudizio civile o amministrativo.
Conseguentemente, con l’articolo 13 della legge 26 marzo 2001, n. 128 il legislatore è ancora intervenuto sull’articolo 593, comma 3, limitando nuovamente l’inappellabilità alle sentenze di condanna per le quali sia stata applicata la sola pena dell’ammenda e alle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa, tornando quindi alla disciplina in vigore prima della modifica introdotta dalla legge n. 468 del 1999.
Tale nuova disciplina, tuttavia, ha determinato un vuoto normativo di natura transitoria in quanto, secondo i principi che regolano la successione nel tempo delle leggi processuali (tempus regit actum), la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena della multa, era esercitabile soltanto dopo l’entrata in vigore della legge n. 128 del 2001 (4 maggio 2001), lasciando prive di tale grado di giudizio le condanne comminate nel periodo di vigenza dell’articolo 18 della legge n. 468 del 1999.
Pertanto, l'articolo unicodella legge 19 aprile 2002 n. 72 prevede la conversione in appello, ai sensi dell’articolo 580 del codice di procedura penale, su richiesta di parte, del ricorso per cassazione presentato, prima del 4 maggio 2001, contro una sentenza di condanna per delitto per il quale è stata applicata la sola pena della multa o contro sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a delitti puniti con la sola pena della multa o con pena alternativa.
La richiesta di conversione va presentata, anche a mezzo telefax, almeno cinque giorni prima della data della prima udienza, successiva all'entrata in vigore della legge 72/2002 (9 maggio 2002), per la quale vi sia stata regolare notifica a tutte le parti. Chiaramente, la disposizione in esame non trova applicazione nei casi in cui la Corte di cassazione abbia già emanato la sua decisione.
Infine, viene precisato che, nei termini per la presentazione dei motivi aggiunti (ai sensi dell’articolo 585, comma 4, c.p.p.), possono essere presentati nuovi motivi di merito.
Il D.L. 21 febbraio 2005, n. 17[157], convertito dalla legge 22 aprile 2005, n. 60, ha introdotto significative modifiche all’ordinamento processuale penale in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti penali di condanna.
Con sentenze del 18 maggio e del 10 novembre 2004 la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, aveva infatti ritenuto inidoneo il sistema di garanzie in favore del contumace vigente in Italia.
L’intervento di riforma si è reso necessario per la necessità e l'urgenza di armonizzare l’ordinamento giuridico interno al nuovo sistema di consegna tra gli Stati dell’Unione Europea.
Anche la legge 69/2005, di adeguamento dell’ordinamento italiano alla decisione quadro sul mandato di cattura europeo (v. scheda Mandato di arresto europeo), prevede che l’autorita` giudiziaria italiana rifiuta la esecuzione del mandato di cattura europeo emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, pronunciate in absentia, nei casi in cui il condannato non sia stato citato personalmente, ne´ altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza, se l’autorita` giudiziaria emittente non fornisce assicurazioni sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato d’arresto europeo la possibilita` di richiedere un nuovo processo nello Stato membro di emissione e di essere presenti al giudizio.
La novella legislativa consente al nostro Paese sia di mantenere l'istituto del processo contumaciale sia di offrire maggiori garanzie alla comunità internazionale.
L’articolo 1 provvede, dunque, a modificare la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione della sentenza contumaciale od opposizione al decreto penale di condanna, di cui all’articolo 175 c.p.p., rendendo più agevole per il contumace la proposizione della relativa richiesta, sia sotto il profilo temporale, sia, soprattutto, sotto quello delle condizioni cui essa è sottoposta
La restituzione nel termine, così come disciplinata dal codice di procedura penale, si atteggia a rimedio di natura eccezionale in rapporto a situazioni in cui un impedimento abbia determinato l’estinzione di un potere, essendo decorso il termine perentorio stabilito per il suo esercizio. Alla base dell’istituto deve rinvenirsi l’interesse, di natura pubblicistica, a fare in modo che le parti possano esercitare effettivamente i diritti loro attribuiti dalla legge. Pertanto la restituzione nel termine va distinta dagli ordinari mezzi di impugnazione che aggrediscono, invece, la statuizione contenuta in un provvedimento del giudice.
Il codice ha previsto l’istituto in commento con riguardo sia al potere di impugnazione dell’imputato giudicato in contumacia, il quale non abbia avuto conoscenza del procedimento, sia all’opposizione al decreto penale, sia, infine, all’eventuale impugnazione a seguito di incidente di esecuzione. A parte tale ultima ipotesi, regolata separatamente all’articolo 670 c.p.p., le altre due trovano la loro disciplina all’articolo 175 c.p.p.
I soggetti titolari del diritto ad ottenere la restituzione sono individuati non solo nelle parti, ma anche nei difensori, in quanto le attività da essi svolte appaiono costruite funzionalmente all’esercizio dei poteri spettanti al soggetto sulla cui sfera ricadono i relativi effetti.
Il nuovo comma 2 dell’art. 175 c.p.p. stabilisce che se è stata pronunciata sentenza (o decreto penale) di condanna in contumacia, l’imputato è restituito, a sua domanda, nei termini d’impugnazione (o opposizione)
Per quanto concerne le condizioni cui la richiesta di restituzione nel termine è sottoposta, non è più posto a carico dell’istante l’onere della prova relativa alla incolpevole mancata conoscenza del provvedimento di condanna, in assenza della quale prova la restituzione non poteva essere concessa; disponeva, infatti, l’originario testo del secondo comma dell’articolo 175: “può essere chiesta la restituzione nel termine per proporre impugnazione od opposizione anche dall’imputato che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che (…) il fatto non sia dovuto a sua colpa”.
Perché la richiesta di restituzione sia accolta è ora, invece, sufficiente che risulti che l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento e non abbia rinunciato volontariamente a comparire, ovvero a proporre impugnazione od opposizione.
Per quanto concerne il termine di decadenza entro cui il condannato in contumacia può effettuare la richiesta di restituzione nel termine per impugnare il provvedimento di condanna, occorre osservare che esso è aumentato da 10 a 30 giorni (nuovo comma 2-bis), che decorrono dal momento in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento, ovvero, in caso di estradizione all’estero, dalla consegna del condannato.
Resta fermo, invece, il termine di 10 giorni per la presentazione della richiesta di cui al primo comma dell’articolo 175, in cui si disciplinano le ipotesi di restituzione nel termine discendenti da caso fortuito o forza maggiore.
L’articolo 2 della legge 60/2005 modifica, inoltre, l’articolo 157 del codice di procedura penale per rendere più celeri e sicure le notificazioni all'imputato non detenuto che abbia un difensore di fiducia ma non abbia dichiarato o eletto domicilio ex art. 161.
In questi casi le notificazioni sono eseguite presso i difensori, che però, possono, comunque, dichiarare immediatamente all’autorità procedente la loro indisponibilità ad accettare la notificazione.
L’articolo unico della legge 7 novembre 2002, n. 248[158] (c.d. Legge Cirami) interviene su quattro articoli del codice di procedura penale (artt. 45, 47-49) riguardanti la disciplina della rimessione del processo.
L’istituto della rimessione del processo ha carattere eccezionale e, con l’astensione e la ricusazione, costituisce uno degli strumenti attraverso cui l’ordinamento processuale penale mira ad assicurare l’imparzialità e l’indipendenza del giudice e l’inviolabilità dei diritti della difesa. Come è noto, mentre l’astensione e la ricusazione presuppongono situazioni di incompatibilità direttamente riferibili alla persona fisica del magistrato (anche quando interessi una pluralità di essi o addirittura tutti i giudici facente parte dell’organo collegiale), al contrario, la rimessione trova fondamento in situazioni di incompatibilità che coinvolgono direttamente l’organo giudicante considerato nella sua collegialità. In particolare, la translatio judicii, che si giustifica con l’accertata inidoneità (per cause di natura “ambientale”) di un intero ufficio giudiziario ad esercitare le proprie funzioni giudicanti in un determinato processo, comporta l’attribuzione della cognizione del processo ad un giudice diverso da quello territorialmente competente ex art. 8 c.p.p .
Le novellate norme codicistiche introducono alcune rilevanti novità, intervenendo sui presupposti della richiesta di rimessione, sulle relative modalità e vicende procedurali, provvedendo poi in materia di diritto intertemporale, con la previsione dell’applicabilità della nuova normativa ai processi in corso.
Quanto ai presupposti della rimessione, sostituendo l’articolo 45 c.p.p., il comma 1 dell’articolo unico della legge prevede che la Corte di cassazione possa rimettere il processo ad altro giudice in ogni stato e grado del processo di merito, in presenza di gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo, e non altrimenti eliminabili che comportino una delle tre seguenti conseguenze:
§ il pregiudizio per la libera determinazione delle persone che partecipano al processo;
§ il pregiudizio per la sicurezza o l’incolumità pubblica;
§ il verificarsi di motividi legittimo sospetto.
La relativa richiesta alla Suprema Corte deve essere motivata e può essere presentata da:
§ il procuratore generale presso la Corte d'appello;
§ il pubblico ministero presso il giudice che procede;
§ l'imputato.
La Cassazione rimette il processo ad altro giudice secondo la disciplina relativa ai procedimenti riguardanti i magistrati (articolo 11 del codice di procedura penale).
Quanto agli effetti della richiesta di rimessione, l’articolo 47 c.p.p., come sostituito dall’articolo 1, comma 2, della legge n. 248/2002, prevede anzitutto la sospensione del processo.
Tale sospensione è:
§ obbligatoria: il giudice deve sempre sospendere il processo quando il processo stesso giunge alla fase delle conclusioni e dunque prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione; il decreto che dispone il giudizio o la sentenza non possono comunque essere pronunciati quando la richiesta di rimessione ha superato il primo vaglio di ammissibilità essendo stata assegnata alle sezioni Unite o a sezione diversa da quella prevista dall'articolo 610 c.p.p. (v. infra)[159];
§ facoltativa: in tutti gli altri casi il giudice può disporre la sospensione del processo, con un’ordinanza, fino a che non interviene l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta. La Corte di cassazione può sempre disporre con ordinanza la sospensione;
§ esclusa: quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di altra già rigettata o dichiarata inammissibile.
Laddove sia disposta la sospensione del processo, questa ha effetto fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che rigetta o dichiara inammissibile la richiesta.
La sospensione del processo comporta che anche il corso della prescrizione rimane sospeso (ai sensi dell’art. 159 c.p.) e se la richiesta è stata proposta dall'imputato sono inoltre sospesi i termini di durata massima della custodia cautelare (di cui all’art. 303, comma 1, c.p.p.).
Per ridurre l'interesse a una strumentalizzazione a fini dilatori dell'istituto della rimessione, la legge in commento stabilisce che la prescrizione e i termini di custodia cautelare riprendono il loro corso quando la Cassazione rigetta la richiesta o, una volta accolta, il giorno in cui il processo davanti al giudice designato dalla Corte perviene al medesimo stato in cui si trovava al momento della sospensione. Ai sensi del comma 3 dell’art. 47 c.p.p. la sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti.
La legge n. 248 del 2002 (articolo 1, comma 3) sostituisce inoltre l’articolo 48 c.p.p., relativo alla decisione sulla richiesta di rimessione. Dal punto di vista procedurale, anzitutto, la disposizione prevede un filtro preliminare operato dal Presidente della Corte di cassazione, il quale, se ravvisa una causa d'inammissibilità della richiesta, assegna la richiesta stessa all'apposita sezione prevista dall'articolo 610 c.p.p. (cioè alla sezione alla quale il Presidente assegna i ricorsi dei quali rilevi una causa di inammissibilità).
In tutti gli altri casi, l’assegnazione della richiesta di rimessione alle sezioni Unite o a sezione diversa da quella di cui all’art. 610, co. 1, c.p.p. deve quindi essere comunicata immediatamente al giudice che procede. In questi casi l’assoluta tempestività della comunicazione è giustificata dal fatto che solo la devoluzione alla sezione diversa da quella di cui al citato articolo 610, comma 1, appare destinata a produrre l'obbligatorio effetto sospensivo disciplinato dall'articolo 47 c.p.p. (v. sopra).
Quanto alla decisione in senso stretto, questa viene assunta dalla Cassazione in camera di consiglio, dopo aver assunto le opportune informazioni.
In caso di accoglimento della richiesta, la relativa ordinanza dovrà essere comunicata senza ritardo al giudice procedente e a quello designato. Il giudice procedente dovrà:
§ trasmettere gli atti del processo al giudice designato;
§ disporre che l'ordinanza della Cassazione sia comunicata per estratto al pubblico ministero;
§ disporre che l’ordinanza della Cassazione sia notificata alle parti.
Nel nuovo processo, che si aprirà a seguito dell’accoglimento dell’istanza di rimessione, il giudice designato procederà alla rinnovazione degli atti compiuti nel precedente processo, prima dell’accoglimento dell’istanza di rimessione, soltanto quando vi sia la richiesta in tal senso di una delle parti e non si tratti di atti dei quali sia divenuta impossibile la ripetizione.
Nella disciplina previgente, invece, era il giudice designato dalla Corte di cassazione a stabilire in che misura gli atti pregressi rispetto all'accoglimento dell'istanza conservassero efficacia; la nuova disciplina, al contrario, valorizza il principio di immediatezza del dibattimento ipotizzando una validità generale di quegli atti, salvo a imporre al nuovo giudice la loro rinnovazione quando ne sia richiesto da una delle parti e non si tratti di atti la cui ripetizione è divenuta impossibile ovvero rientranti tra quelli di cui all'articolo 190-bis del codice di procedura penale.
In caso di rigetto della richiesta presentata dall’imputato, questi, tramite ordinanza, potrà essere condannato pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro.
L’articolo 1, comma 4, della c.d. legge Cirami sostituisce l’articolo 49 c.p.p., relativo ad una nuova richiesta di rimessione e dispone che:
§ in caso di accoglimento della richiesta di rimessione, l’imputato e il pubblico ministero possono comunque proporre una nuova istanza volta alla revoca del primo provvedimento o alla designazione di un nuovo giudice;
§ in caso di rigetto della richiesta di rimessione ovvero di dichiarazione d’inammissibilità della stessa (per manifesta infondatezza o per motivi diversi), sarà sempre possibile proporre nuovamente l’istanza, purché fondata su elementi nuovi.
Infine, il comma 5 dell’articolo unico della legge n. 248 disciplina il regime transitorio stabilendo che la legge si applica anche ai processi in corso alla data della sua entrata in vigore (8 novembre 2002) e che le richieste di rimessione già presentate alla medesima data conservano efficacia.
La legge 20 febbraio 2006, n. 46[160](cd. legge Pecorella), relativa alla materia dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, interviene sulla disciplina del codice di rito, dettando contestualmente alcune disposizioni complementari.
Le modifiche proposte – secondo i proponenti il provvedimento – hanno trovato giustificazione nell’attuazione dell'articolo 2 del protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98), che sancisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale; più in particolare, la previsione dell'appellabilità delle sentenze di proscioglimento avrebbe impedito il rispetto del principio citato qualora in sede di gravame il soggetto precedentemente prosciolto fosse stato condannato.
Data l'impossibilità di prevedere un ulteriore grado di giudizio, anche per l'esigenza di assicurare il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo di cui all'articolo 111 della Costituzione, l'unica strada percorribile per assicurare il rispetto del principio sancito dalla Convenzione è apparsa al legislatore quella di rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento.
Il provvedimento, approvato una prima volta dal Parlamento il 12 gennaio 2006 - e rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica il successivo 20 gennaio per una nuova deliberazione, ai sensi dell’articolo 74, primo comma, della Costituzione - è stato definitivamente approvato il 14 febbraio 2006.
Il messaggio del Capo dello Stato ha evidenziato i seguenti motivi del rinvio:
L’articolo 7, che interviene sull’articolo 606 c.p.p., modifica la lett. d), che circoscrive il motivo della mancata assunzione di una prova decisiva all’ipotesi in cui la stessa fosse ammissibile – eliminando contestualmente il riferimento ai presupposti di cui all’articolo 495 comma 2 c.p.p. -, e la lettera e), riformulata nel senso di contemplare, oltre alla mancanza e alla manifesta illogicità della motivazione, anche la contraddittorietà di quest’ultima, ognuna di esse in alternativa all’altra, e sopprimendo la condizione che tali vizi debbano risultare dal testo del provvedimento impugnato.
Le modificazione apportate, pertanto, sopprimendo, alla lettera d) il riferimento della richiesta della parte ai sensi dell’articolo 495, comma 2, ed alla lettera e) la condizione che tali vizi debbano risultare dal testo del provvedimento impugnato, da un lato sopprimono la condizione che la mancata assunzione di una prova decisiva sia rilevante come motivo di ricorso soltanto se addotta come controprova rispetto a fatti posti a carico o a discarico del pubblico ministero o dall’imputato, dall’altro – con la modifica alla lettera e - fanno venir meno la condizione che la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione debbano emergere esclusivamente dal provvedimento impugnato.
In tal senso pertanto si genera un’evidente mutazione delle funzioni della Corte di cassazione, da giudice di legittimità a giudice di merito in palese contrasto con quanto stabilito dal settimo comma dell’articolo 111 della Costituzione.
Tale mutazione sarebbe ancor più gravida di conseguenze qualora i due motivi venissero dedotti congiuntamente.
Peraltro una Corte suprema che eserciti funzioni di merito perde la sua principale connotazione di ”organo supremo della giustizia” che ai sensi dell’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, rischiando di compromettere il bene costituzionale dell’efficienza del processo e il canone fondamentale della razionalità delle norme processuali (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 353 del 1996).
In tal modo verrebbe ad essere vulnerato anche il precetto costituzionale di buon andamento dell’amministrazione di cui all’articolo 97 Cost., applicabile, seconda la giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche agli organi dell’amministrazione della giustizia (cfr. sentenze della Corte Costituzionale n. 86 del 1982e n. 18 del 1989).
L’articolo 9 e l’articolo 4 del testo rinviato aggravano ulteriormente la situazione sopra descritta.
Il primo, dopo aver previsto l’applicabilità della legge ai procedimenti in corso, stabilisce che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della legge contro una sentenza di proscioglimento si converta in ricorso per cassazione; il secondo trasferisce dalla Corte di appello alla Corte di cassazione l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere.
Nel suo complesso tale sistema determina una violazione del principio della ragionevole durata del processo sancito dal secondo comma dell’articolo 111 della Costituzione.
Viene infatti rilevato che la funzione compensativa attribuita all’ampliamento delle ipotesi del ricorso per cassazione ha un effetto inflativo superiore di gran lunga a quello deflattivo derivante dalla soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento.
Peraltro, la soppressione citata viene giudicata altresì, a causa della disorganicità della riforma, come una violazione del principio della parità delle parti di cui al secondo comma dell’articolo 111 della Costituzione. Del resto, è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile che vede compromessa la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale.
Vengono infine segnalate alcune incongruenze e contraddittorietà del testo.
Da un lato, mentre il pubblico ministero totalmente soccombente non può proporre appello, ciò gli è consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale – avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta -.
Dall’altro, sancito il principio dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, rimangono alcune contraddizioni nell’ambito del sistema: l’articolo 577 c.p.p. prevede l’impugnazione delle sentenze di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione, senza specificare se essa riguardi anche l’appello.
L’articolo 597, comma 1, continua ad individuare i poteri del giudice nel caso di appello di una sentenza di proscioglimento.
L’articolo 36 del Dlgs 274/2000, sulla competenza penale del giudice di pace, consente l’appello del p.m. contro alcuni tipi di sentenze di proscioglimento (reati puniti con pena alternativa).
L’articolo 1 della legge sostituisce l’art. 593 c.p.p. che disciplina i casi di appello.
Viene previsto che, salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680, il pubblico ministero e l’imputato possano appellare soltanto le sentenze di condanna. Le sentenze di proscioglimento possono essere appellate dal pubblico ministero e dall'imputato soltanto nelle ipotesi di cui all'articolo 603, comma 2 (nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado) se la nuova prova è decisiva
Se il giudice, in via preliminare, non dispone la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale dichiara con ordinanza l'inammissibilità dell'appello. Entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento le parti possono proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado.
Viene inoltre confermata la previsione dell’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stabilita la sola pena dell’ammenda.
A tale proposito va ricordato che l’art. 593 c.p.p. stabiliva che, salvo quanto previsto negli artt. 443, 448 co. 2 e 469, il pubblico ministero e l’imputato potessero appellare sia le sentenze di condanna che quelle di proscioglimento, in relazione a queste ultime, l’imputato non poteva appellare contro i proscioglimenti “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto”.
Come accennato, anche il previgente art 593 prevedeva l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali era stata applicata la sola pena dell’ammenda; analoga inappellabilità riguardava le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.
L’articolo 2, sopprimendo al primo comma dell’articolo 443 c.p.p (Limiti all’appello) le parole “quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula” sancisce esplicitamente l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dell’imputato e del pubblico ministero.
L’articolo 3 inserisce un comma 1-bis dopo il co. 1 dell’art. 405 c.p.p. (Inizio dell’azione penale. Forme e termini), prevedendo che il Pubblico Ministero, al termine delle indagini, formuli richiesta di archiviazione nell’ipotesi di pronuncia da parte della Corte di cassazione sull’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza quale presupposto per l’applicazione di misure cautelari (art. 273 c.p.p.) e successivamente non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.
L’articolo 4 sostituisce l’art. 428 c.p.c. in tema di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, prevedendo che contro quest’ultima possano ricorrere per cassazione (e non più in appello) il procuratore della Repubblica, il procuratore generale, l’imputato – salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso –. La persona offesa dal reato può proporre ricorso per cassazione nei soli casi di nullità di cui all’art. 419, co. 7, c.p.p[161]., a meno che non si sia costituita parte civile: in tale ultimo caso il ricorso per cassazione potrà essere proposto ai sensi dell’articolo 606 c.p.p. (casi di ricorso).
L’articolo 5 sostituisce il co. 1 dell’art. 533 c.p.p., relativo alla condanna dell’imputato, prevedendo che il giudice pronunci sentenza di condanna nel caso in cui l’imputato risulti colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza.
L’articolo 6 della legge novella l’art. 576 c.p.p. (Impugnazione della parte civile e del querelante) “liberando” la parte civile dall’obbligo di impugnazione “con il mezzo previsto per il pubblico ministero”.
L’articolo 7 sostituisce l’art. 580 c.p.p., limitando i casi della conversione in appello del ricorso per cassazione, alle ipotesi di connessione di procedimenti ai sensi dell’art. 12 c.p.p..
L’articolo 8 apporta alcune modifiche all’art. 606 c.p.p concernente i casi di ricorso per cassazione. Vengono in particolare modificate la lett. d), che circoscrive il motivo della mancata assunzione di una prova decisiva all’ipotesi in cui la stessa fosse ammissibile – eliminando contestualmente il riferimento ai presupposti di cui all’articolo 495 comma 2 c.p.p. -, e la lettera e), riformulata nel senso di contemplare, oltre alla mancanza e alla manifesta illogicità della motivazione, anche la contraddittorietà di quest’ultima, ognuna di esse in alternativa all’altra, e sopprimendo la condizione che tali vizi debbano risultare dal testo del provvedimento impugnato.
L’articolo 9, abroga l’art. 577 del codice processuale penale. L’intervento appare conseguenza dell’introdotto principio dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento; l’articolo 577 c.p.p. prevedeva, infatti, l’impugnazione, da parte della parte civile, sia delle sentenze di condanna che di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione, senza specificare se essa riguardasse anche l’appello.
L’articolo 10 introduce, infine, una disciplina transitoria della nuova normativa che ne prevede l’applicabilità ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore. Ne consegue la previsione dell’inammissibilità dell’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima di tale data, dichiarata con ordinanza non impugnabile.
Escluso l’appello, tuttavia, entro 45 giorni dalla notifica dell’ordinanza di inammissibilità, si può ricorrere per cassazione contro le sentenze di primo grado; tale ricorso è ammesso anche se è annullata (su punti diversi dalla pena o dalla misura di sicurezza inflitta) una sentenza di condanna emessa da corte d’appello o di assise di appello di riforma di una sentenza di assoluzione.
L’articolo unico della legge 14 febbraio 2006, n. 56[162]aggiunge un comma 3-ter all’articolo 295 c.p.p. (Verbale di vane ricerche), allo scopo di rendere più facilmente praticabile il ricorso allo strumento delle intercettazioni nella ricerca del latitante, con specifico riferimento ai procedimenti di competenza della corte d’assise, come individuati dall’articolo 5 c.p.p.
Ai sensi dell’articolo 5 c.p.p. la corte di assise è competente:
§ per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni, esclusi i delitti di tentato omicidio, di rapina e di estorsione, comunque aggravati, e i delitti previsti dall’articolo 630 primo comma del codice penale (Sequestro di persona a scopo di estorsione) e dal decreto del presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossico-dipendenza);
§ per i delitti consumati previsti dagli articoli 579 (Omicidio del consenziente), 580 (Istigazione o aiuto al suicidio), 584 (Omicidio preterintenzionale);
§ per ogni delitto doloso se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, escluse le ipotesi previste dagli articoli 586 (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), 588 (Rissa) e 593 (Omissione di soccorso) del codice penale;
§ per i delitti previsti dalle leggi di attuazione della XII disposizione finale della Costituzione (riorganizzazione del partito fascista), dalla legge 9 ottobre 1967 n. 962 (delitto di genocidio) e nel titolo I del libro II del codice penale (delitti contro la personalità dello Stato), sempre che per tali delitti sia stabilita la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dieci anni.
La norma introdotta attribuisce al presidente della corte d’assise, e non all’organo giudicante nella sua composizione collegiale, la competenza ad adottare i provvedimenti, indicati nei commi 3 e 3-bis dell’articolo 295, di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione e di intercettazione di comunicazioni tra presenti.
Tale scelta si giustifica con la considerazione che l’organo nella sua composizione collegiale può non essere sempre costituito o in sessione, e trae spunto dalla soluzione adottata nell’articolo 467 del codice che attribuisce al presidente del tribunale e della corte d’assise la competenza a provvedere all’assunzione delle prove non rinviabili.
In ogni caso spetta comunque all’organo collegiale la competenza a dichiarare lo stato di latitanza di cui all’articolo 295 secondo comma.
La disposizione introdotta, pur facendo specifico riferimento alla sola ipotesi del giudizio di primo grado – menzionando solo il presidente della corte d’assise – è destinata a trovare applicazione anche nel giudizio davanti alla corte d’assise d’appello per effetto della disposizione di carattere generale contenuta nell’articolo 598 c.p.p. circa l’applicabilità in appello delle disposizioni relative al giudizio di primo grado.
La legge 1° Agosto 2003, n. 207[163] introduce nell’ordinamento un nuovo istituto volto, nella sostanza, a permettere la sospensione dell’esecuzione della parte finale della pena detentiva nel limite massimo di due anni (anche se residuo di maggior pena) in favore dei condannati che abbiano scontato almeno la metà della pena detentiva medesima.
L’art. 1, con la previsione che la sospensione possa essere applicata una sola volta, stabilisce però un’ampia serie di esclusioni dal beneficio di natura oggettiva e soggettiva.
Sono esclusi dallo sconto di pena - oltre che gli illeciti di particolare gravità di cui all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354[164] sull’ordinamento penitenziario - anche i reati di cui al libro II, titolo XII, capo III, sezione I (Delitti contro la personalità individuale) nonché quelli previsti dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale.
Osservato che le condanne per alcuni dei delitti contro la personalità individuale (art. 600, “Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù”; art. 601 “Tratta di persone”; art. 602 “Acquisto e alienazione di schiavi”) già compresi nell’elencazione dell’art. 4-bis della legge 354/1975, comportavano comunque l’esclusione dal beneficio, nuovi reati compresi nel divieto di ammissione alla sospensione condizionata della pena sono, quindi, la prostituzione minorile (art. 600-bis), la pornografia minorile (art. 600-ter), la detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater) e il cd. turismo sessuale (art. 600-quinques).
Gli ulteriori illeciti di cui agli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies (rispettivamente: violenza sessuale, atti sessuali con minorenne (pedofilia) e violenza sessuale di gruppo) erano in precedenza preclusivi dell’applicazione del beneficio in riferimento alle sole fattispecie associative.
I delitti di cui all’articolo 4-bis della legge 354/1975 sono delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis del codice penale, o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste; delitti di cui agli articoli 600 (riduzione in schiavitù), 601 (tratta e commercio di schiavi), 602 (alienazione e acquisto di schiavi) e 630 (sequestro di persona) del codice penale; associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del testo unico doganale, DPR 23 gennaio 1973, n. 43) ovvero al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309); delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale; omicidio (art. 575 c.p.); fattispecie aggravate di rapina ed estorsione (art. 628, terzo comma e 629, secondo comma, c.p.); contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-ter, DPR 43/1973); associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla commissione dei seguenti delitti: riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi (artt. 600-602, c.p.), prostituzione minorile (art. 600-bis, c.p.), pornografia minorile (art. 600-ter, c.p.) e detenzione di materiale pornografico minorile (600-quater, c.p.), turismo sessuale (art. 600-quinquies, c.p.), violenza sessuale (art.609-bis, c.p.), atti sessuali con minorenne (art. 609-quater, c.p.), corruzione di minorenne (art. 609-quinquies, c.p.) e violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies, c.p.); produzione e traffico illecito di quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope (artt. 73 e 80, comma 2, DPR 309 del 1990); reati connessi all’agevolazione all’immigrazione clandestina: procurato ingresso ed ipotesi aggravate dalle finalità di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento sessuale e di minori da destinare ad attività illecite (artt. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, TU 286/1998).
Ulteriori esclusioni dal beneficio, riguardano (oltre coloro che vi abbiano rinunciato) i delinquenti abituale, professionali o “per tendenza”; i sottoposti al regime di sorveglianza particolare da parte dell’amministrazione penitenziaria ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354[165] (salvo che il tribunale di sorveglianza abbia accolto il reclamo sulla misura ex art. 14-ter della medesima legge); i soggetti già ammessi alle misure alternative alla detenzione.
In relazione al procedimento per l’applicazione del beneficio, l’articolo 2 della legge prevede che la sospensione della pena sia disposta, su istanza dell’interessato o del suo difensore, dal magistrato di sorveglianza e che nel caso di mancato provvedimento, l’interessato o il suo difensore possono proporre reclamo al tribunale di sorveglianza; del beneficio è informata anche la competente autorità di polizia per l’adempimento degli obblighi di vigilanza sulle prescrizioni di cui all’art. 4 (v. ultra).
Si prevede, inoltre, che la sospensione dell’esecuzione della pena possa essere revocata con ordinanza del tribunale di sorveglianza a seguito di violazione degli obblighi previsti dalla stessa legge o quando il condannato commette, entro cinque anni, un delitto non colposo per il quale riporti una condanna a pena detentiva non inferiore a sei mesi.
L’utile decorso del termine quinquennale comporta l’estinzione della pena.
A seguito, invece, della revoca spetta al tribunale di sorveglianza determinare la residua pena detentiva da scontare, tenuto conto del comportamento durante il godimento del beneficio nonché della gravità del comportamento che ha dato luogo alla revoca.
L’art. 3, stabilisce l’impossibilità di concessione della sospensione condizionata della pena agli stranieri detenuti che si trovino nelle situazioni giuridiche che giustifichino l’espulsione amministrativa di cui all’art. 13, comma 2, del TU 286/1998.
L’art. 13, comma 2, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero prevede che il prefetto disponga l'espulsione quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell'articolo 10; b) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo; c) e stato sottoposto a misure di prevenzione in quanto appartenente alle seguenti categorie: soggetti che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica o è indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.
La conseguenza è che gli immigrati clandestini (circa un terzo del totale dei detenuti) sono quindi esclusi dall’applicazione della sospensione condizionata della pena.
L’articolo 4 prevede, poi, una serie di prescrizioni (eventualmente modificabili, su richiesta, dal magistrato di sorveglianza) che il condannato deve rispettare durante il periodo di sospensione dell’esecuzione: presentazione agli uffici di P.S. in giorni e orari stabiliti; non allontanamento dal comune di dimora abituale o di svolgimento del lavoro. Con il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena è sempre disposto il divieto di espatrio.
L’articolo 5 stabilisce che il beneficio della sospensione dell’esecuzione della pena introdotto dall’art. 1 si considera misura alternativa alla detenzione ai fini dello svolgimento, nelle cooperative sociali, di attività lavorative finalizzate all'inserimento di persone svantaggiate[166].
Obblighi annuali di relazione al Parlamento sull’attuazione della legge in esame sono poi previsti dall’articolo 6, mentre l’articolo 7 limita nel tempo l’ambito applicativo del provvedimento di clemenza ai detenuti già condannati ovvero ai condannati in attesa di esecuzione di pena alla data di entrata in vigore della legge.
La principale finalità della legge 23 dicembre 2002, n. 279[167] è derivata dalla necessità del superamento del regime del trattamento penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, dell’ordinamento penitenziario, caratterizzato fin dal 1992 (anno della sua introduzione) dal principio della temporaneità e dalla conseguente disciplina delle proroghe.
Il regime del cd. “carcere duro” ha storicamente avuto come scopo la necessità di interrompere i collegamenti di pericolosi esponenti delle criminalità organizzata con i propri referenti criminali, sia all'interno che all'esterno del carcere.
Il comma 2 dell'art. 41-bis, aggiunto dall’art. 19 del D.L. 8 giugno 1992, n. 306[168] (c.d. decreto “Scotti-Martelli”) prevede che per i detenuti per delitti di criminalità organizzata e altri gravi delitti il Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell'interno, possa sospendere l'applicazione delle ordinarie regole di trattamento in presenza di requisiti che la norma lascia sostanzialmente indeterminati: erano, infatti, sufficienti gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. La disposizione, secondo quanto disposto dall'art. 29 del citato D.L. n. 306/1992 aveva durata temporanea: tre anni (scadenza: 8 agosto 1995). Tale termine è stato prorogato prima al 31 dicembre 1999 dall’art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36; successivamente l’art. 1 della legge 26 novembre 1999, n. 446 aveva previsto la perdita di efficacia della norma alla data del 31 dicembre 2000[169] agganciandone la vigenza a quella della disciplina delle videoconferenze nel processo penale introdotta dalla legge 11/1998. Da ultimo, analogamente, l’art. 12 del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341 “Disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia” convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, aveva ulteriormente disposto il termine di efficacia del 41-bis alla data del 31 dicembre 2002.
La sospensione delle regole di trattamento non riguarda l'istituto carcerario nel suo complesso o nella sua parzialità, ma specificamente una categoria di detenuti: i detenuti, sia definitivi che in attesa di giudizio o in stato di custodia cautelare, per i reati indicati specificamente dalla norma, che fa riferimento all'art. 4-bis, comma 1, O.P.
I presupposti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2 sono quindi di natura soggettiva (facendo riferimento al titolo del reato commesso dal detenuto) e oggettiva (la sussistenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica). Tale secondo requisito è stato mantenuto dal legislatore sostanzialmente indeterminato e rimesso alla valutazione dell'amministrazione.
Nella prassi, i decreti attuativi della misura hanno individuato i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica in fenomeni di pericolosità esterna al carcere, il più ricorrente dei quali è quello della permanenza dei collegamenti del detenuto con i gruppi criminali operanti all'esterno. Tra gli altri motivi si ricordano:
- l'azione diffusa e aggressiva della criminalità organizzata;
- i “gravi episodi di strage avvenuti nelle città di Roma, Firenze, Milano e Palermo nel corso del 1993”;
- le “emergenze di numerosi procedimenti penali”;
- la recrudescenza di sequestri di persona a scopo di estorsione, gli ingenti traffici di stupefacenti ed altri gravi reati;
- la necessità di non allentare la pressione sulla mafia e organizzazioni similari per evitare “azioni di rilancio criminale” e l'inquinamento e il turbamento delle indagini antimafia;
- il pericolo per gli istituti penitenziari derivante dalla crescita della popolazione detenuta per delitti di mafia e altri delitti ex art. 4-bis Ord. Pen;
- la necessità di impedire che i capi delle organizzazioni continuino a svolgere tale ruolo direzionale dall'interno del carcere;
- l'esigenza di adottare tali misure anche nei confronti di chi ha fatto parte dei “gruppi di fuoco” e che possono veicolare all'esterno le disposizioni impartite dai capi.
Il provvedimento, che stabilizza il regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario traduce in legge principi su cui si fonda la giurisprudenza costituzionale in materia; prevede l'applicabilità degli articoli 4-bis e 41-bis ad ulteriori delitti rispetto a quelli originariamente previsti; prevede l'attuazione dei principi del giusto processo in relazione al procedimento giurisdizionale di reclamo contro il decreto applicativo delle misure di cui all'articolo 41-bis e la piena sindacabilità di tale provvedimento; è, infine, reso stabile nel processo penale anche il sistema delle videoconferenze. Il testo dell’art. 4-bis è riformulato in considerazione dei rilievi di incostituzionalità che hanno colpito la norma (sentt. 357 del 1994 e 68 del 1995) mentre quello del 41-bis, comma 2 è riscritto in conformità dell’interpretazione restrittiva che di esso ha fornito la stessa Corte costituzionale.
Per quanto concerne lo specifico contenuto della legge, l'articolo 1 modifica l'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario, che ha per oggetto delle limitazioni alla concessione di alcuni benefici previsti dall'ordinamento stesso.
Rispetto alla normativa previgente, si prevede il requisito della collaborazione come precondizione di concessione dei benefici penitenziari anche per i reati di terrorismo (nazionale o internazionale) o di eversione, commessi con atti di violenza, nonché per i reati di riduzione in schiavitù e tratta di persone. Gli altri reati per i quali si può applicare la norma in esame continuano ad essere i delitti di associazione mafiosa, quelli commessi avvalendosi dell'intimidazione mafiosa o per agevolare l'attività delle citate associazioni, il sequestro di persona nonché l'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ovvero al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Vi è poi un adeguamento del contenuto della norma alle pronunce della Corte costituzionale. Pertanto, i benefici penitenziari risultano ora concedibili, anche in presenza dell'impossibilità di fornire un'utile collaborazione agli inquirenti, purché ciò sia determinato dalla limitata partecipazione al fatto criminoso o da altre ragioni che risultino con sentenza definitiva di accertamento integrale dei fatti e delle responsabilità. In questi casi è necessaria l'assenza di elementi che facciano ritenere l'attualità del collegamento con la criminalità organizzata terroristica o eversiva. Rimangono le ipotesi relative alla collaborazione oggettivamente irrilevante in presenza di specifiche attenuanti.
Un'ulteriore modifica interessa l'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis che introduce una diversa elencazione dei reati, i cui autori, anche non collaborando con la giustizia, possono accedere ai benefici penitenziari, sempre in assenza di elementi che facciano ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva. Agli illeciti già individuati dalla disposizione previgente, ne sono aggiunti ulteriori in materia di immigrazione clandestina, mentre è espunto il riferimento all'articolo 609-quinquies del codice penale, relativo alla corruzione di minorenne.
L'articolo 2 ha per oggetto le modifiche all'articolo 41-bis, anche se la novità più importanti relativa a tale disposizione è contenuta nell'articolo 3 della legge, che stabilizza nell’ordinamento la vigenza dell'articolo 41-bis.
L'articolo 2 adegua la disciplina del 41-bis alle determinazioni della Corte costituzionale. La norma interviene sui presupposti del decreto applicativo del 41-bis, comma 2; sulla sua natura, sulle modalità di adozione e sulla durata (comma 2-bis); sulla possibile revocabilità (comma 2-ter); sul concreto contenuto della sospensione delle ordinarie regole trattamentali (articolo 2-quater); sul regime delle impugnazioni (2-quinquies e 2-sexies).
Per quanto riguarda i presupposti applicativi delle misure di trattamento speciale, occorre sottolineare in primo luogo che, a differenza della normativa vigente, l'articolo 41-bis, comma 2, può essere applicato anche ai detenuti per i reati di terrorismo (nazionale o internazionale) o di eversione, di tratta e di riduzione in schiavitù, per i quali è pertanto applicabile l'articolo 41-bis.
Dalla nuova formulazione del comma 2 dell’art. 41-bis si evince che la sospensione del trattamento «ordinario» potrà riguardare solo le restrizioni necessarie alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica e quelle idonee ad impedire i collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza.
In ordine alle modalità di adozione, è confermata la natura amministrativa del provvedimento, ribadendo la titolarità del ministro della giustizia, per quanto si preveda che il decreto debba essere motivato. Per evitare che la natura di organo politico di vertice dell'amministrazione, quale è quella del ministro, si rifletta negativamente sulle competenze ad esso attribuite in materia di trattamento penitenziario, si prevede che, nelle more dell'adozione, debba essere sentito l'ufficio del pubblico ministero competente per le indagini preliminari o del giudice procedente e che vada acquisita ogni altra informazione presso la DNA, la DIA e altri organi di polizia.
I decreti applicativi dell'articolo 41-bis, comma 2, hanno una durata minima di un anno e massima di due anni e sono prorogabili per periodi successivi di un anno. Una novità importante mira ora a garantire il detenuto da proroghe inutilmente afflittive e vessatorie: infatti, è introdotto in capo all'amministrazione - nella proroga del decreto - l'obbligo di verifica della permanenza nel soggetto della capacità di mantenere i collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva. Sempre in questa ottica, è stabilito che il decreto deve essere revocato, anche d'ufficio, dal ministro della giustizia ove, prima della scadenza, vengano meno le condizioni che hanno determinato l'adozione o la proroga. La revoca può essere chiesta dall'interessato o dal suo difensore e decorsi trenta giorni dall'istanza si intende non accolta. Il provvedimento che non accoglie l'istanza è impugnabile davanti al tribunale di sorveglianza ed, eventualmente, in Cassazione.
Sono poi dettate delle norme sul regime delle impugnazioni, che si richiamano al procedimento attualmente vigente, relativo alla sindacabilità dei provvedimenti applicativi del regime di sorveglianza particolare di cui all'articolo 14-ter dell'ordinamento penitenziario, sia pure con una maggiore attenzione ai principi del nuovo articolo 111 della Costituzione.
La procedura prevede ora termini certi e rapidi per ottenere una decisione dal tribunale di sorveglianza sull'eventuale reclamo proposto. Entro 10 giorni dalla comunicazione del decreto applicativo dell'articolo 41-bis, l'interessato o il suo difensore possono proporre reclamo davanti al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto penitenziario; il successivo eventuale trasferimento del detenuto o internato non sposta la competenza; inoltre, viene precisato che il decreto ha efficacia immediata: quindi, la proposizione del reclamo non sospende l'efficacia. È importante sottolineare che, nei successivi 10 giorni dal ricevimento del reclamo, il tribunale verifica, oltre la sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento, anche la congruità del contenuto rispetto alle esigenze di cui al comma 2. La decisione è presa con ordinanza, resa in camera di consiglio con le modalità procedurali previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. Attualmente, il reclamante non ha diritto di partecipazione all'udienza. Negli ulteriori successivi dieci giorni dalla comunicazione dell'ordinanza del tribunale di sorveglianza sia l'interessato che il suo difensore, che il pubblico ministero, possono proporre ricorso per Cassazione per violazione di legge; il ricorso non produce effetti sospensivi sull'esecuzione del provvedimento.
Sempre all'articolo 2 sono espressamente previste le misure applicabili, fino ad allora invece indeterminate, in quanto individuate dai decreti ministeriali.
La nuova disciplina individua quindi i concreti contenuti delle limitazioni imposte ex 41-bis, giurisdizionalizzando il procedimento applicativo dell’istituto e affermando espressamente la piena sindacabilità del provvedimento secondo le indicazioni più volte espresse dalla stessa Consulta.
Le misure applicabili sono le seguenti (art. 41-bis, comma 2-quater):
a) misure di alta sicurezza interna ed esterna idonee a prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, contrasti o interazioni con membri di altre organizzazioni;
b) limitazione dei colloqui con familiari o conviventi ad un massimo di due al mese, in condizioni di massima sicurezza; possibilità di audire o registrare i colloqui stessi (dietro autorizzazione dell'autorità giudiziaria); divieto di colloquio con terze persone (in casi eccezionali, il direttore del carcere o l'autorità giudiziaria possono autorizzare tali colloqui, rispettivamente, per il detenuto definitivo e per l'imputato, fino alla sentenza di primo grado); possibile autorizzazione da parte delle stesse autorità, decorso un anno dall'applicazione del 41-bis, di un solo colloquio telefonico, registrato, di dieci minuti ogni mese; sono ovviamente esclusi da tale regime i colloqui con i difensori;
c) limitazione del peculio, di beni ed oggetti ricevibili dall'esterno (pacchi o altro);
d) esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati;
e) sottoposizione al visto di censura sulla corrispondenza (con provvedimento dell'autorità giudiziaria), esclusa quella inviata ad autorità nazionali od europee (come la Corte di giustizia delle Comunità europee o la Commissione europea dei diritti dell'uomo) competenti in materia di giustizia individuate dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria;
f) limitazione della permanenza all'aperto, che non potrà svolgersi in gruppi di più di cinque persone e superare le quattro ore al giorno.
L’articolo 3 della legge è quello di maggior rilievo, inserendo stabilmente nell'ordinamento – con l’abrogazione delle disposizioni che ne disponevano la temporaneità - l'istituto dell’art. 41-bis, comma 2, nonchè la disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza (legge 11/1998).
L'articolo 4 introduce una disciplina transitoria in favore dei detenuti e internati per tratta di persone e riduzione in schiavitù (articoli 600, 601 e 602 del codice penale), per terrorismo, anche internazionale, o eversione. A tali soggetti non è applicata la nuova, più penalizzante, disciplina sui benefici penitenziari di cui all'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario introdotta dall'articolo 1 della legge 279, purché al momento della data di entrata in vigore del provvedimento (24 dicembre 2002) siano già in regime di misura alternativa alla detenzione, ovvero fruiscano di permessi premio o siano assegnati al lavoro esterno, e, avendo già rivolto la relativa istanza, abbiano raggiunto un livello rieducativo adeguato al beneficio richiesto.
L'applicazione della citata disciplina transitoria è, in ogni caso, condizionata al negativo accertamento della sussistenza dell'attualità del collegamento con la criminalità organizzata.
Sempre in tema di disciplina transitoria, il comma 2 dell'articolo 4 stabilisce che i decreti applicativi del 41-bis emessi dal ministro della giustizia prima della data di vigenza del provvedimento in esame conservino efficacia fino alla scadenza in essi prevista, anche se successiva alla data citata.
L'articolo 5 della legge prevede, infine, che ogni tre anni, il Presidente del Consiglio dei ministri presenti al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione della legge 279/2002. Si tratta chiaramente di una disposizione che mira a rendere più trasparente le funzioni che il ministro della giustizia è chiamato ad esercitare nell'applicazione dell'articolo 41-bis.
La legge 19 dicembre 2002, n. 277[170], nell’ottica di snellimento del procedimento di concessione di tale beneficio, reca alcune sostanziali modifiche alla normativa prevista dalla legge n. 354/1975 sull'ordinamento penitenziario[171] .
L’istituto della liberazione anticipata è contemplato dall'art. 54 della leggesull'Ordinamento Penitenziario che stabilisce che "al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione può essere concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena inflitta", valutando a tale scopo, anche il periodo trascorso in custodia cautelare o detenzione domiciliare (primo comma).
Il principale problema applicativo della norma ha riguardato il criterio temporale di valutazione della partecipazione del soggetto alla rieducazione ai fini della concessione del beneficio; si trattava, cioè, di stabilire se potesse essere fatta una valutazione globale del comportamento del detenuto o se tale valutazione fosse frazionabile semestre per semestre potendo in quest'ultimo caso applicare la riduzione di pena solo nei semestri valutati positivamente.La legge n. 663/86 (cd. legge Gozzini) ha risolto tali dubbi interpretativi accogliendo tale ultima concezione "frazionata", che, dopo alcune iniziali decisioni di segno opposto (Cass. pen., sent. 3301/1986 e sent. 308/1989) è stata costantemente accolta nella più recente giurisprudenza della Corte di cassazione.
Pur dovendosi, di regola, valutare separatamente ciascun semestre di detenzione, tale principio non impedisce però al giudice di considerare come ostativi alla concessione del beneficio gravi fatti, pur verificatisi in semestri diversi da quello preso in considerazione, che appaiano oggettivamente indicativi della mancata proficua partecipazione del condannato all'opera di rieducazione per tutto il periodo preso in esame (Cass. pen., sent. 2308/1992, conf. sentenze 51/1995, 5010/1995, 3297/1996, 3017/1997).
Allo stesso modo, fermo restando la regola della valutazione frazionata, non può escludersi che il comportamento tenuto dal condannato in stato di libertà possa estendersi in negativo anche al periodo precedente trascorso in carcere: quando, ad esempio, il condannato commetta ulteriori reati durante il periodo di libertà tra una detenzione e l’altra "la sua ricaduta nel reato è indubbiamente un elemento rivelatore che anche nel periodo precedente, trascorso in stato di detenzione, mancava del tutto la sua volontà di partecipare all'opera di rieducazione" (Cass. pen., sent. 1517/1996, conf. 2785/1995, 1740/2000).
La prima e la più rilevante delle modifiche introdotte dal provvedimento riguarda l’attribuzione della competenza decisoria sulle richieste di riduzione della pena per la liberazione anticipata al magistrato di sorveglianza e non più al tribunale di sorveglianza. A tal fine è sostituito il comma 8 dell’art. 69 della legge n. 354 del 1975, relativo alle funzioni del magistrato di sorveglianza, integrato con le nuove attribuzioni in materia di liberazione anticipata (art. 1).
Il tribunale di sorveglianza, infatti, per organico inadeguato ed ingenti carichi di lavoro, così come accade per le altre misure di favore per i detenuti, raramente riesce a dare una tempestiva risposta alla richiesta di liberazione anticipata. Tale situazione, soprattutto nel caso di pene detentive brevi, finisce per vanificare completamente le finalità del beneficio, dal momento che, spesso, nelle more della procedura di concessione, il condannato viene rimesso in libertà per avvenuta espiazione della pena.
La legge introduce, a fini deflattivi, sostanziali modifiche al sistema procedimentale per la concessione del beneficio, all’uopo aggiungendo l'articolo 69-bis alla legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario (art. 1).
Sull'istanza di concessione della liberazione anticipata il magistrato di sorveglianza provvede inaudita altera parte con ordinanza adottata in camera di consiglio. Tale provvedimento sarà pronunciato trascorsi 15 giorni dalla richiesta di parere al PM, anche laddove il parere non sia stato emesso.
Avverso l'ordinanza - comunicata o notificata alle parti, alle persone interessate e ai difensori - è esperibile entro 10 giorni reclamo da proporsi al Tribunale di sorveglianza competente per territorio. Quest'ultimo decide nelle forme previste dal procedimento di sorveglianza (art. 678 c.p.p.) e, per tutelare l'imparzialità dell'autorità decidente, è disposto che il magistrato di sorveglianza non faccia parte del collegio che decide sul reclamo avverso il provvedimento da lui emesso (ex art. 30-bis, comma 5, O.P.) e che - quando non sia possibile comporre la sezione di sorveglianza con i magistrati di sorveglianza del distretto, si proceda all'integrazione con un magistrato di cassazione, di appello o di tribunale (ex art. 30-bis, comma 6, O.P.).
Infine, quando nei procedimenti per l’affidamento al servizio sociale, la semilibertà, la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale (ex art. 70 O.P.) è presentata istanza di liberazione condizionale, il tribunale di sorveglianza può trasmettere l'istanza stessa al magistrato di sorveglianza.
La legge 277 dispone, inoltre, sui procedimento in corso stabilendo che le istanze per la liberazione anticipata pendenti presso il Tribunale di sorveglianza siano di competenza del magistrato di sorveglianza.
L'articolo 2 della legge, per finalità di coordinamento normativo adegua il contenuto dell’art. 70 O.P., in relazione alla competenza sulle domande di riduzione della pena per liberazione anticipata (attribuita al magistrato di sorveglianza) nonché per la revoca dei benefici (conservate al tribunale di sorveglianza).
La seconda importante novità della legge 277/2002 è contenuta nell’articolo 3 che, aggiungendo all’art. 47 O.P. il comma 12-bis, prevede la possibilità di cumulare gli abbuoni di pena per liberazione anticipata con l’affidamento in prova al servizio sociale. Tale accumulo è possibile qualora il soggetto affidato al servizio sociale abbia dato prova di un effettivo reinserimento.
Infine (art. 4), è introdotta una disposizione transitoria che rende possibile applicare il cumulo dei benefici sopradescritti anche agli affidamenti in corso alla data di vigenza della legge; essendo l’affidamento possibile per pene fino a tre anni, il computo degli sconti di pena va fatto con riferimento ai semestri successivi al 31 dicembre 1999 ed è anche applicabile agli affidamenti in svolgimento a tale ultima data.
La legge 8 aprile 2004, n. 95[172] modifica notevolmente la scarna disciplina dei controlli sulla corrispondenza epistolare e telegrafica dei detenuti contenuta nella legge 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario.
In particolare, con l'introduzione dell'articolo 18-ter nell’ordinamentopenitenziario, vengono fissati precisi limiti (soggettivi e di contenuto) alle diverse forme di controllo sulla corrispondenza.
L’ulteriore, rilevante novità è l’introduzione della possibilità, per il detenuto, di appellarsi contro le misure restrittive della libertà di corrispondenza decise dalle autorità competenti.
Il provvedimento interviene su un duplice fronte:
§ da un lato, con la tipizzazione dei provvedimenti adottabili, definendo i limiti oggettivi e temporali degli stessi e l’individuazione dell’autorità competente.
§ dall’altro, con l’introduzione di precisi strumenti di tutela dei detenuti avverso i provvedimenti dell’autorità amministrativa penitenziaria e dell’autorità giudiziaria, in tal modo giurisdizionalizzando il procedimento volto alla limitazione della corrispondenza epistolare
L’articolo 1 della legge 95/2004 introduce nella legge 354/1975 il citato articolo 18-ter che disciplina le limitazioni e i controlli della corrispondenza.
Le motivazioni alla base di questi ultimi possono essere esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati così come ragioni di sicurezza e di ordine dell’istituto carcerario.
La norma individua le seguenti diverse tipologie di contenuto del provvedimento (decreto motivato) dell’autorità giudiziaria:
§ limitazione nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa;
§ visto di controllo della corrispondenza;
§ controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza (mero controllo formale che non si estende alla lettura della missiva) (art. 18-ter, comma 1); in tal caso, l'apertura deve avvenire alla presenza del detenuto o dell'internato.
In relazione ai limiti temporali dei provvedimenti, l’art. 18-ter, comma 1, prevede una validità massima semestrale, eventualmente prorogabile per periodi non superiori a tre mesi.
Si osserva come dalla formulazione della norma, che prevede possibili proroghe plurime (…per periodi non superiori a tre mesi), non sia affatto contemplato un limite temporale massimo di efficacia della misura.
L’art. 18-ter, comma 2 prevede l’esonero dai controlli sulla corrispondenza epistolare e telegrafica quando essa sia indirizzata:
§ ai difensori, agli investigatori privati autorizzati incaricati delle indagini difensive, ai consulenti tecnici e ai loro ausiliari (soggetti di cui all’art. 103, comma 5, c.p.p.);
§ all'autorità giudiziaria ed alle altre autorità di cui all’art. 35 OP (direttore dell'istituto, ispettori, direttore generale del D.A.P., Ministro della giustizia, magistrato di sorveglianza, autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto, presidente della Giunta regionale, Capo dello Stato);
§ ai membri del Parlamento, alle Rappresentanze diplomatiche o consolari dello Stato di cui i detenuti interessati sono cittadini; agli organismi internazionali amministrativi e giudiziari di cui è parte l’Italia preposti alla tutela dei diritti dell’uomo.
La competenza all’adozione dei provvedimenti di controllo spetta (articolo 14-ter, comma 3):
§ al magistrato di sorveglianza, rispetto ai condannati ed internati in espiazione di pena ovvero agli imputati già giudicati in primo grado;
§ al giudice procedente (monocratico, o in caso contrario il presidente del tribunale o della corte d’assise) rispetto ad imputati prima della pronuncia di primo grado.
La stessa autorità giudiziaria può, in ogni caso, delegare i controlli della corrispondenza ai direttori delle carceri e a funzionari del DAP (possibilità già prevista dal comma 9 dell’art. 18 O.P.)
Qualora, in seguito al visto di controllo, l'autorità giudiziaria competente ritenga che la corrispondenza o la stampa non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario, ne dispone il trattenimento, informandone immediatamente il detenuto (comma 5).
Di notevole rilievo appare la disposizione di cui al comma 6, che - per superare profili di contrasto costituzionale (C. cost., sentenza n. 26/1999) e sovranazionale (sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo) - introduce la possibilità di reclamo del decreto che dispone i controlli epistolari.
Tale riesame seguirà diversa procedura in ragione dell’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento di controllo:
§ se il controllo è disposto dal magistrato di sorveglianza, il giudice del riesame sarà il tribunale di sorveglianza e la relativa procedura sarà analoga a quella del reclamo contro il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14-ter OP.
Le fasi procedurali saranno, quindi, le seguenti:
§ la richiesta di riesame è proposta dal detenuto davanti al tribunale di sorveglianza territorialmente competente nel termine di 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo. La richiesta non sospende l'esecuzione del provvedimento.
§ il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore e del pubblico ministero e il detenuto e l'amministrazione penitenziaria possono presentare memorie.
§ il tribunale di sorveglianza provvede con ordinanza in camera di consiglio entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta di riesame.
§ La decisione, in forza dell’applicabilità al tribunale di sorveglianza delle previsioni contenute nell’art. 71-ter OP, è anch’essa ricorribile per cassazione per violazione di legge (entro 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento).
§ se il controllo epistolare è disposto dall’autorità giudiziaria durante un procedimento penale, il riesame avverrà davanti al tribunale in composizione collegiale nel cui circondario ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento e, per motivi di incompatibilità, non potrà far parte del collegio il giudice che abbia emesso il decreto di controllo epistolare; per la fase di gravame davanti al tribunale collegiale è richiamata la procedura davanti al giudice dell’esecuzione di cui all’art. 666 del codice di rito penale
Le fasi procedurali del reclamo davanti al giudice collegiale saranno, quindi, le seguenti:
§ la richiesta di riesame è proposta davanti al tribunale collegiale territorialmente competente che può respingerla come inammissibile; il relativo provvedimento è ricorribile per cassazione;
§ il procedimento si svolge in camera di consiglio con le garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa: è prevista la partecipazione del difensore e del pubblico ministero e il detenuto e l'amministrazione penitenziaria possono presentare memorie fino a 5 gg prima dell’udienza; l’interessato che ne fa richiesta è sentito personalmente;
§ il tribunale, dopo l’assunzione della documentazione e delle informazioni necessarie, decide con ordinanza, comunicata e notificata in camera di consiglio. Sul provvedimento è ammesso il ricorso per cassazione.
L’articolo 2 della legge interviene sulla disciplina transitoria prevedendo la possibilità di reclamo avverso i decreti di controllo della corrispondenza (davanti al magistrato di sorveglianza ovvero davanti al tribunale collegiale), anche ai provvedimenti in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del provvedimento. Il termine per la richiesta di riesame è fissato in 20 giorni dalla vigenza della nuova disciplina.
Il successivo articolo 3 sostituisce il comma 2 dell’art. 14-quater OP (relativo ai reclami sui provvedimenti che dispongono il regime di sorveglianza particolare) rinviando, per quel che concerne la corrispondenza dei detenuti, alla nuova disciplina introdotta dall’articolo 18-ter. I commi 2 e 3 dell’art. 3. appaiono disposizioni di stretto coordinamento con l’introduzione dal nuovo art. 18-ter; è, così, abrogata la disciplina sulle limitazioni della corrispondenza contenuta nell’art. 18 (commi 7 e 9) dell’ordinamento penitenziario, divenute incompatibili, è eliminata dal comma 8 dello stesso art. 18 ogni riferimento al visto di corrispondenza ed è modificato l’art. 34, comma 2-ter, c.p.p. in modo da escludere che l’assunzione di provvedimenti limitativi della corrispondenza possa determinare l’incompatibilità del giudice per le eventuali fasi successive del giudizio.
Con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35[173](cd. decreto-competività) convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80, il legislatore ha introdotto una novella al codice di rito civile di particolare ampiezza e profondità, mirata, in particolare, ad una sostanziale riduzione dei tempi del processo.
Mentre una parte minore della riforma sarebbe dovuta entrare immediatamente in vigore, la vigenza della sua parte più consistente, introdotta in sede di conversione del decreto nella citata legge 80, era stata fissata al 15 settembre 2005 dal comma 3-quater dell’articolo 2, aggiunto anch’esso dalla legge di conversione. Tale termine di vigenza è stato via via posticipato, prima al 15 novembre 2005 dall’art. 8 del DL 30 giugno 2005, n. 115[174] (che ha anche previsto al comma 3-quinquies un regime transitorio per i processi pendenti) e poi al 1° gennaio 2006 dalla sua legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168.
Tra l’altro, la legge 80/2005 conteneva due distinte deleghe al Governo: la prima in tema di procedure concorsuali; la seconda per la modifica del codice processuale civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato. Entrambe le deleghe sono state attuate, rispettivamente, con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5,Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80 e con il D.Lgs 2 febbraio 2006, n. 40,Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80.
Infine, il DL 30 dicembre 2005, n. 271 Proroga di termini in materia di efficacia di nuove disposizioni che modificano il processo civile aveva differito al 1° marzo 2006 l'entrata in vigore della complessiva novella del codice di rito; il provvedimento non è stato poi convertito, ma le norme di differimento dell'entrata in vigore della novella ivi contenute sono state, infine, trasferite nell’art. 39-quater della legge 23 febbraio 2006 n. 51, di conversione del distinto DL. 30 dicembre 2005, n. 273, c.d. milleproroghe.
In base al regime transitorio previsto dall'articolo 2 comma 3-quinquies del D.L. 35/2005 (come da ultimo modificato dal DL 273/2005), un primo gruppo di norme relative al processo ordinario di cognizione ed ai procedimenti in materia di separazioni e divorzio si applica soltanto ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore, 1 marzo 2006, mentre (ai sensi dell'articolo 2, comma 3-sexies, introdotto dalla legge 263/2005 e da ultimo modificato dal D.L. 273/2005), le norme relative al processo di esecuzione, si applicano anche alle procedure esecutive pendenti alla stessa data di entrata in vigore.
In tale ambito, si sono poi inseriti due provvedimenti di iniziativa parlamentare; il primo, la citata legge 28 dicembre 2005 n. 263[175] – per risolvere alcune criticità evidenziate – novella la miniriforma del codice processuale civile introdotta dalla legge 80/2005, apportando ulteriori novità al codice di rito, alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 642/1907, al codice civile e ad altre disposizioni.
Con il secondo provvedimento, legge 24 febbraio 2006, n. 52 "Riforma delle esecuzioni mobiliari" sono introdotte ex novo modifiche in materia esecutiva oltre a novelle di disposizioni già modificate dalla citata legge 80/2005.
L’intera novella è entrata in vigore il 1 marzo 2006 in virtù della legge di conversione n. 51/2006 del citato decreto milleproroghe nonchè dell'art. 22 della legge n. 52/2006.
Il 2 marzo sono entrate, invece, in vigore le nuove norme in materia di Cassazione e arbitrato previste dal decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006.
In considerazione della vastità e complessità dell’intervento riformatore relativo al processo di cognizione ed alle procedure esecutive, nonchè della relativa difficoltà nel darne conto articolo per articolo, nelle pagine che seguono si cercherà di illustrare i principali profili di novità introdotti dagli indicati interventi legislativi. Più approfondita analisi sarà, invece, riservata alla nuova disciplina del processo di cassazione e dell’arbitrato.
Si segnala, infine, che l’attuazione della delega in materia di procedure concorsuali sarà, invece, illustrata nella parte del dossier dedicata al “Diritto commerciale e delle società” (v. capitoloLa riforma delle procedure concorsuali).
Le nuove norme sul giudizio di cognizione ordinario, in vigore dal 1° marzo 2006, mirano nella sostanza ad una riduzione delle fasi processuali attraverso una più razionale gestione delle udienze da parte del giudice; in particolare, a quest’ultimo è ora conferito un più ampio potere di sancire la decadenza delle parti qualora formulino istanze difensive e istruttorie tardive.
Le principali novità sembrano essere le seguenti:
§ si è concentrata, nella fase introduttiva, l’area delle domande e delle eccezioni, adottando un più rigido regime delle preclusioni, con cui si impone al convenuto al momento della costituzione in cancelleria, 20 giorni prima dell’udienza, di indicare già nella comparsa di risposta (con la domanda riconvenzionale e la eventuale chiamata di terzi) le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, manifestando così integralmente la propria linea difensiva e semplificando la scansione processuale delle udienze (art. 167); l’art. 180 previgente, invece, prevedeva che il giudice, nell’udienza di prima comparizione fissasse la proposizione delle eccezioni nello stesso termine di 20 gg. anteriore alla prima udienza di trattazione. Per compensare i maggiori oneri imposti al convenuto, il nuovo art. 163-bis eleva da 60 a 90 giorni il termine minimo di comparizione che l’attore deve assegnare nell’atto di citazione (il termine passa da 120 a 150 per le notificazioni all’estero);
§ si è prevista la possibilità di proseguire il procedimento secondo la disciplina del più celere rito societario. Infatti, ai sensi del novellato art. 70-ter disp. att. c.p.c., l’attore può invitare, con la citazione, a notificare al suo difensore la comparsa di risposta ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, ovvero secondo le modalità del rito societario; se tutte le parti convenute consentono, il procedimento prosegue con tale disciplina;
§ le novità più rilevanti della novella sono forse quelle concentrate nella fase di trattazione, nel riformulato articolo 183, ora composto da ben dieci commi. In particolare, la trattazione orale è ora concentrata nella sola prima udienza di comparizione (l’art. 183 è ora denominato “Prima comparizione delle parti e trattazione della causa”), con conseguente fine dello sdoppiamento udienza di comparizione-prima udienza di trattazione; l’udienza di comparizione personale avrà luogo solo in caso di richiesta congiunta. All’udienza di cui all’art. 183, invece, in caso di formazione regolare del contraddittorio, si procederà subito alla trattazione orale della causa, evitando i successivi rinvii. Solo se deve pronunciarsi sulla regolarità del contraddittorio, il giudice istruttore fissa una seconda udienza di trattazione. Al fine di individuare precisamente l’oggetto della decisione e su questa base, definire il thema probandum, è poi fissato un triplo termine perentorio (per un totale di 80 gg.): ai confermati termini di 30 gg. per il deposito di memorie, nonchè di ulteriori 30 gg. per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali, è aggiunto, ora, un termine di ulteriori 20 gg. per le sole indicazioni di prova contraria. Salva l’ipotesi di rimessione al collegio quando la causa sia ritenuta matura per la decisione, il giudice può immediatamente provvedere sulle richieste istruttorie (che potranno essere ammessi anche con ordinanza fuori udienza) ma resta l’obbligo di fissare una udienza apposita per l’assunzione dei mezzi di prova (art. 184). Il nuovo art. 183, rende, inoltre, facoltativi i due istituti dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione tra le parti, che il previgente art. 183, primo comma, prevedeva come obbligatori. L’interrogatorio e la conciliazione sono, invece, resi obbligatori in caso di fissazione di udienza di comparizione personale su richiesta congiunta delle parti (art. 185);
§ è modificata la disciplina delle comunicazioni e notificazioni processuali secondo due principi ispiratori: a) una riduzione dei poteri dell’ufficiale giudiziario; b) l’adeguamento alle nuove tecnologie di comunicazione. In relazione al primo profilo, l’art. 250 – (come già previsto nel processo penale, art. 468) ora consente che l’intimazione ai testimoni a comparire in udienza sia fatta anche dal difensore attraverso l'invio di copia dell'atto mediante lettera raccomandata A/R o a mezzo di telefax o posta elettronica. Nel disporre l’accompagnamento coattivo del teste in udienza, sono state, tra l’altro, elevate da 100 a 1.000 euro le pene pecuniarie a carico di quest’ultimo (art. 255) in caso di mancata presentazione senza giustificato motivo; parimenti è stato elevato il termine entro cui va fatta l’intimazione al testimone, che passa da 3 a 7 giorni prima dell'udienza in cui sono chiamati a comparire (art. 103, disp. att. c.p.c.). In relazione all’utilizzo delle nuove tecnologie, oltre al citato art. 250, sono in rilevo tutte le disposizioni che permettono le comunicazioni e notificazioni, oltre che per via postale, anche attraverso i moderni mezzi citati, nel rispetto della normativa regolamentare vigente. Novità si registrano anche per la disciplina generale delle notificazioni: è, ad esempio, uniformato il “tempo delle notificazioni” di cui all’art. 147, adesso individuato durante tutto l’anno tra le ore 7 e le ore 21; è precisato, anche in relazione alla giurisprudenza costituzionale (art. 149), il momento di perfezionamento della notifica, ovvero il momento della consegna all’ufficiale giudiziario per il notificante, quello in cui ha la conoscenza legale dell’atto, per il destinatario; è modificato – per gli stessi motivi di adeguamento costituzionale - il procedimento di notifica in caso di temporanea assenza del destinatario o inidoneità, assenza, mancanza o rifiuto di persone abilitate a ricevere il piego (la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890 “ Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari” è, in tal senso modificata). La notificazione si considera, comunque, eseguita decorsi 10 gg. dalla data di spedizione della raccomandata o da quella di ritiro del piego, se anteriore;
§ Altra rilevante novità ha riguardato l’art. 145 con la procedimentalizzazione della disciplina della notificazione alle persone giuridiche, alle società non aventi personalità giuridica, alle associazioni non riconosciute e ai comitati (l’intervento ha inteso anche risolvere difformità nelle pronunce giurisprudenzali); in particolare, la notifica può ora avvenire mediante consegna dell’atto al portiere dello stabile in cui ha sede l’ente;
§ novità sono introdotte anche agli articoli 186-bis, ter e quater, in relazione ai provvedimenti anticipatori o interinali ovvero i provvedimenti pronunciati, prima della sentenza, sullo stesso oggetto, anche parziale, della domanda;
§ In particolare, le modifiche più rilevanti riguardano gli articoli 186-ter e 186-quater. L’art. 186-ter (Istanza di ingiunzione) è novellato nel senso di prevedere che il creditore possa chiedere al giudice istruttore anche fuori dall’udienza la pronuncia di ordinanza di pagamento o di consegna (provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti). L’art. 186-quater (Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione) prevede, invece, che il giudice disponga con ordinanza, su istanza della parte che ha proposto condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, il pagamento, la consegna o il rilascio “nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova”. La novella capovolge il principio cui era basata l’ordinanza: essa acquista, infatti, efficacia di sentenza in caso di acquiscienza della parte soccombente sull'oggetto dell'istanza ovvero se la parte intimata non manifesta entro 30 giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza;
§ È modificata la disciplina della chiamata del terzo in causa (art. 269). In caso di regolare citazione e costituzione del terzo chiamato nel processo, restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma i termini eventuali a difesa di cui al sesto comma dell’art. 183 (concessi ulteriormente dal giudice per presentare memorie, per la sola precisazione e modificazione delle domande, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime, per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali, per l’indicazione di prova contraria) sono fissati soltanto nell’udienza di comparizione del terzo. La novella risponde all’esigenza di assicurare il contraddittorio, che l’ingresso del terzo in causa suggerisce di riaprire;
§ La riforma interviene anche in materia di costituzione del contumace, anche se, in tal caso, le novità non sono di grande rilevanza.. Ai sensi del novellato art. 293, la parte che è stata dichiarata contumace può costituirsi in ogni momento del procedimento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni. E’ eliminato, quindi, il riferimento alla rimessione al collegio ex art. 189 come termine ultimo per la costituzione del contumace, anche in considerazione dell’espansione del ruolo del giudice monocratico;
§ Risulta modificata anche la disciplina del computo dei termini processuali di cui all’art. 155 che ora prevede che sia prorogato al primo giorno seguente non festivo anche il termine per il compimento degli atti processuali svolti fuori dell'udienza che scadono nella giornata del sabato, giornata peraltro, ad ogni effetto, considerata lavorativa;
§ In tema di compensazione parziale o integrale delle spese di lite, è stato modificato l’art. 92, che ora specifica che, in caso di soccombenza reciproca o per altri giusti motivi, la compensazione da parte del giudice può avvenire soltanto indicandone esplicitamente i motivi nella sentenza.
Le nuove disposizioni sul processo esecutivo riscrivono, in particolare, la disciplina del pignoramento, e si ispirano nella sostanza ad un rafforzamento della tutela del credito.
Le principali innovazioni sono le seguenti:
§ è stato, anzitutto, integrato l’elenco di cui all’art. 474, relativo ai validi titoli esecutivi: sono aggiunte, infatti, le scritture private autenticate, idonee a legittimare l’esecuzione per i soli crediti di denaro; le scritture debbono però essere trascritte integralmente nel precetto;
§ in tema di pubblicità di avvisi di atti esecutivi, il nuovo art. 490 stabilisce che in caso di espropriazione di beni mobili registrati, per un valore superiore a 25.000 euro, e di beni immobili, lo stesso avviso, unitamente a copia dell'ordinanza del giudice e della relazione di stima redatta ai sensi dell'articolo 173-bis delle disposizioni di attuazione al c.p.c., sia inserito in appositi siti Internet almeno quarantacinque giorni prima del termine per la presentazione delle offerte o della data dell'incanto;
§ è riformulato ed integrato, nella parte generale sull’esecuzione forzata, l’art. 492, relativo alla forma del pignoramento, primo atto dell’esecuzione, che ora manifesta, in particolare: l’obbligo di cooperazione del debitore nella procedura (sanzionato penalmente); un maggior rilievo del ruolo dell’ufficiale giudiziario.
Il debitore (che nel pignoramento risultava sostanzialmente passivo) deve ora agevolare ogni rapporto con lui durante l’esecuzione: anzitutto, indicando un luogo nel circondario del giudice dell’esecuzione dove ricevere gli atti del processo (in mancanza, gli atti saranno notificati presso la cancelleria del giudice) e, soprattutto, mettendo a disposizione per intero il proprio patrimonio e rivelando le modalità di miglior soddisfazione dei crediti. Infatti, quando all’ufficiale giudiziario procedente i beni appaiono insufficienti e risulti evidente la lunghezza della liquidazione, al debitore è infatti richiesto di indicare beni ulteriormente pignorabili ed il luogo dove si trovano, nonché le generalità degli eventuali terzi debitori. Lo stesso ufficiale giudiziario, in caso di ulteriore insufficienza dei beni a soddisfare il credito, se richiesto dal creditore e senza autorizzazione del giudice, può svolgere indagini sul patrimonio del debitore, rivolgersi all’anagrafe tributaria o ad altre banche dati pubbliche nonché, in caso di necessità, chiedere l’assistenza della forza pubblica. Altra novità di rilievo, sempre nell’ottica di individuazione di ulteriori beni, consiste nella possibilità di accesso (previa domanda del creditore e dietro apposita indicazione sul loro luogo di custodia da parte del debitore-imprenditore) alle scritture contabili dell’impresa per un esame da parte di un professionista (commercialista, notaio, avvocato) appositamente nominato; quest’ultimo trasmette relazione con i risultati della verifica all’ufficiale giudiziario e al creditore istante; essendo previsto l’accesso alle scritture contabili del debitore imprenditore commerciale, per coordinamento, è, poi, abrogato il n. 4) dell’art. 514 c.p.c. che considera assolutamente impignorabili gli strumenti, gli oggetti e i libri indispensabili per l'esercizio della professione, dell'arte o del mestiere del debitore;
§ viene uniformato l’istituto dell’intervento dei creditori nella procedura esecutiva. E’ completamente riformulato a tal fine l’articolo 499, intervento cui si aggiunge, per coordinamento, l’abrogazione di disposizioni di settore come quelle di cui all’art. 525, comma 1 ed all’art. 563, relativi, rispettivamente, all’esecuzione mobiliare ed a quella immobiliare. La novella appare coerente con le previsioni dell’art. 527, ora abrogato, in ordine all’estensione dell’intervento di altri creditori nel pignoramento;
§ In generale, possono intervenire nell’esecuzione i soli creditori muniti di titolo esecutivo; a tale regola sono però, introdotte due eccezioni: a) è ammesso l’intervento dei creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri; b) erano titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all'articolo 2214 del codice civile. La norma precisa che il ricorso per l’intervento deve essere depositato prima che sia tenuta l'udienza in cui è disposta la vendita o l'assegnazione del beni (mobili o immobili). Per i creditori privi di titolo esecutivo, l’art. 499 prevede un procedimento che mira a far riconoscere al debitore l’esistenza del debito, consentendo cosi’ al creditore sine titulo di partecipare, alla distribuzione del ricavato dalla vendita;
§ Con l'ordinanza con cui è disposta la vendita o l'assegnazione il giudice fissa, entro 60 giorni, udienza di comparizione davanti a sé del debitore e dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo, disponendone la notifica a cura di una delle parti. All’udienza il debitore può riconoscere, anche parzialmente, il debito o può negare del tutto o in parte l’esistenza del credito alla base dell’intervento; al riconoscimento del debito consegue il diritto del creditore all’inserimento nel progetto di graduazione e, in caso di capienza delle somme, nel progetto di distribuzione. Se il credito è disconosciuto, il creditore può chiedere l’accantonamento della quota in suo favore, facendone istanza e dimostrando di aver proposto nei 30 gg. successivi l’azione necessaria per munirsi del titolo. In ogni caso, ai sensi dell’art. 510, il periodo dell’accantonamento non può superare i 3 anni;
§ il legislatore allarga l’istituto della delega delle espropriazioni forzate: sia in senso soggettivo - consentendole oltre che ai notai, anche ad avvocati e commercialisti - che in senso oggettivo, risultando, infatti, delegabile anche la vendita senza incanto. Il giudice dell’esecuzione, però, dispone ora di un più puntuale controllo sulle attività dei professionisti determinando il termine, pur prorogabile, entro il quale le operazioni delegate debbono essere svolte, pena la possibile revoca della delega;
§ nell’espropriazione mobiliare, la maggior responsabilizzazione dell’ufficiale giudiziario si accompagna ed un ruolo di maggior rilievo attribuito al creditore;
Nella procedura di pignoramento, l‘ufficiale giudiziario deve, anzitutto, scegliere le cose che siano di più facile e pronta realizzazione (art. 517); la stima va poi riferita al presumibile valore di realizzo: il valore così determinato deve essere pari al credito indicato nel precetto aumentato della metà.
E’ prevista non più la semplice assistenza bensì una possibile partecipazione del creditore al pignoramento (art. 165 disp. att. c.p.c.): se richiesto nell’istanza di pignoramento, l’ufficiale giudiziario deve comunicare con preavviso al creditore il giorno e l’ora dell’accesso per farlo partecipare alle operazioni , eventualmente, con il suo legale e l’assistenza di un esperto stimatore. L’art. 518 (Forma del pignoramento) prevede ora che il verbale di pignoramento sia integrato da una rappresentazione fotografica o ripresa audiovisiva dello stato dei beni oggetto dell’esecuzione; nel verbale, non va fatto più riferimento al valore del bene bensì al loro presumibile valore di realizzo (che può non coincidere col valore in sé); l’assistenza di un esperto stimatore, di cui può sempre avvalersi l’ufficiale giudiziario, può essere chiesta anche dal creditore; diventa, poi, possibile il differimento (massimo 30 gg.), ad opera dell’ufficiale giudiziario, del termine per l’individuazione definitiva dei beni da pignorare, sulla base dei valori indicati dallo stimatore; si prevede, inoltre, la trasmissione, su richiesta del debitore e del creditore, del processo verbale dell’esecuzione per via postale ordinaria, telefax o posta elettronica; su istanza del creditore è ora possibile che il giudici ordini una integrazione del pignoramento quando ritenga che il valore dei beni pignorati sia inferiore a quello presumibile di realizzo indicato dall’ufficiale giudiziario nel processo verbale. Per la vendita con incanto, se l’incanto va deserto, si prevede la riduzione di un quinto del prezzo anziché la vendita senza prezzo minimo (art. 538);
§ va segnalata, inoltre, la modifica della disciplina generale della custodia dei beni pignorati (sia mobili che immobili), ora indirizzata verso soggetto diverso dal debitore, costituendo così uno degli snodi della novella In generale, quando lo richiede il creditore, la custodia deve essere affidata a persona diversa dal debitore (artt. 520 e 559). Sono comunque previste ipotesi di sostituzione necessaria, su istanza di parte, del debitore nominato custode: quando l’immobile non è occupato dal debitore o quando questi non osservi gli “obblighi su di lui incombenti” (art. 559); dopo il deposito o la pronuncia dell’ordinanza di vendita o della delega delle operazioni di vendita (sia nell’esecuzione di mobili che di immobili) (artt. 521 e 559). L’intervento è, nella sostanza, ispirato ad un nuovo e più attivo ruolo del custode, che ora è preferibilmente un custode giudiziario, cui è affidato, oltre che l’amministrazione del bene e la sua conservazione ed amministrazione, il compito di permettere l’effettiva immissione del bene sul mercato: il custode potrà ordinare al debitore di liberare l'immobile anche prima della vendita forzata; permettere agli interessati di visionarlo prima della vendita, curare nell'interesse dell'acquirente il rilascio dell'immobile stesso, fornire informazioni sull’immobile e chiarimenti sui meccanismi di vendita giudiziaria, presenziare all’udienza di vendita fornendo chiarimenti e gli ultimi aggiornamenti sullo stato dell’immobile, provvedere, sulla base dell’ordine da parte del giudice, a liberare l’edificio occupato sine titulo dal debitore o da un terzo;
§ nell’esecuzione immobiliare, la nuova disciplina intende introdurre a pieno titolo le vendite giudiziarie nel circuito del normale mercato immobiliare, così sottraendo i beni alle speculazioni che ne hanno finora sancito l’aggiudicazione per valori spesso lontanissimi da quelli effettivi di mercato. Vanno segnalate, in particolare, le norme introdotte in materia di pubblicità e vendita del bene: la perizia dell’esperto deve contenere specifiche ulteriori informazioni utili all’acquirente, oltre quelle minime (art. 173-bis disp. att. c.p.c.), necessarie alla valutazione; gli annunci delle vendite vanno pubblicati almeno 45 gg. prima dell’udienza; negli annunci va pubblicato il nome e il numero telefonico del custode; la perizia e l’ordinanza di vendita sono pubblicati su appositi siti Internet, gli acquirenti potranno effettuare le offerte anche con strumenti telematici e potranno accedere al credito bancario per effettuare l'acquisto. La novella regola in maniera più rigida la vendita con incanto, certificando una sostanziale preferenza per la vendita senza incanto (artt. 570 e ss.), che diventa la modalità ordinaria di vendita degli immobili; quest’ultima, oltre che dare maggiore efficienza e speditezza alle operazioni di vendita, è ritenuta più trasparente ed idonea ad evitare eventuali turbative d’asta, anche in considerazione dell’irrevocabilità dell’offerta e della definitività dell’aggiudicazione.La ordinaria procedura prevede la contestuale fissazione di una prima udienza per vendita senza incanto ed, in caso negativo, una successiva con incanto); il giudice o il delegato in caso di doppio esito negativo possono: o fissare un nuovo incanto oppure disporre una nuova doppia sequenza di udienze (senza e con incanto) diminuendo il prezzo del bene del 25%.; negli incanti, le offerte in busta chiusa devono presentare solo data di udienza e nome del depositante (la cauzione è limitata al 10% del prezzo offerto); le offerte in aumento dopo l’incanto non sono più di 1/6 ma di un 1/5 (art. 584); il nuovo offerente presenta un cauzione doppia di quella usuale, che viene persa in caso di mancata partecipazione alla successiva gara; il versamento del prezzo può avvenire con l'erogazione a seguito di con tratto di finanziamento che preveda il versamento diretto delle somme erogate in favore della procedura e la garanzia ipotecaria di primo grado sull’immobile oggetto di vendita;
§ Per quel che riguarda le opposizioni (del debitore e del terzo), prima dell’inizio dell’esecuzione, in caso di opposizione al precetto davanti al giudice competente, questi sospende ora l'efficacia esecutiva del titolo solo su istanza di parte e concorrendo gravi motivi (art. 615). Il nuovo art. 617 aumenta da 5 a 20 giorni (dalla notificazione del titolo esecutivo o del precetto) il termine utile per proporre le opposizioni relative ai vizi degli atti esecutivi ovvero alla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto;
§ Per quanto concerne la sospensione del processo esecutivo a seguito di opposizione, è ora previsto che la trattazione dell’impugnazione avvenga con rito camerale e che - in virtù del richiamo all’art. 669-terdecies - sia il collegio a conoscere del reclamo contro la sospensione decisa dal giudice dell’ esecuzione, collegio di cui, a garanzia della terzietà, non potrà far parte lo stesso giudice dell’esecuzione. Degna di segnalazione è, infine, l’opzione del legislatore per una inedita forza estintiva del pignoramento (dichiarato con ordinanza non impugnabile) che viene ad assumere la sospensione non reclamata dal creditore ovvero confermata in sede di reclamo (art. 624); tale scelta appare coerente con la nuova impostazione assunta dalla fase cautelare, resa ora più stabile e meno strumentale alla fase di merito. Dopo la previsione dell’anticipazione del termine ultimo per l’istanza di conversione del pignoramento alla data dell’udienza in cui è disposta la vendita, anche il nuovo art. 624-bis mira alla riduzione dei tempi della procedura:l’introdotta istanza di sospensione della procedura fino a 24 mesi, su accordo unanime dei creditori, non è infatti ammissibile nei 20 gg. precedenti il termine per il deposito delle offerte di acquisto (art. 624-bis); analoghi termini-sbarramento sono disposti per le istanza di sospensione delle espropriazioni mobiliari;
§ nuove regole sono disposte (come accennato) per i procedimenti d'urgenza e cautelari. Tali procedimenti non saranno più necessariamente composti dalla duplice fase preventiva della cautela e da quella successiva del merito, che diviene meramente facoltativa. Per motivi di economia procedurale ed allo scopo di rendere impossibile trascinare il corso della controversie solo a fini dilatori, viene introdotto il principio generale secondo cui i provvedimenti d'urgenza previsti dall'art. 700 c.p.c. e gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito non necessitano, al fine del perdurare della loro efficacia, della successiva fase di merito, cui sopravvivono in caso di estinzione (art. 669-octies); la norma citata raddoppia, in compenso, il termine di 30 gg. per l’inizio della eventuale causa di merito. L’art. 669-decies, poi, amplia, a causa di merito in corso, la possibilità di reclamabilità dei provvedimenti cautelari emessi anche anteriormente, prevedendone la revoca o la modifica da parte del giudice quando siano allegati fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare stesso.
Le modifiche al codice di procedura civile ed alla legge 898/19970 sul divorzio, mirano essenzialmente alla riduzione dei tempi del procedimento.
Si segnala che ulteriori modifiche al codice in materia di separazione sono state introdotte dalla cd. legge sull’affido condiviso (L. 8 febbraio 2006, n. 54); di queste ultime, si tratterà nella parte del dossier dedicata a “Famiglia e infanzia”.
La legge 80/2005 in particolare:
§ integra la disciplina della competenza territoriale del giudice della separazione, prevedendo anche l’ipotesi di residenza all’estero o irreperibilità del coniuge convenuto;
§ prevede termini certi per la fissazione dell’udienza di comparizione (novanta giorni dal deposito del ricorso);
§ integra il contenuto del ricorso (esistenza figli legittimi, legittimati o adottati);
§ rende necessaria la presenza del difensore in sede di comparizione personale delle parti davanti al presidente del tribunale;
§ dimezza i termini intercorrenti tra l’ordinanza di fissazione dell’udienza di comparizione e la data di quest’ultima (il termine è ora di 45 gg.);
§ prevede l’assegnazione di un termine per il deposito in cancelleria di memorie integrative e per la costituzione in giudizio del convenuto e la proposizione di eccezioni;
§ prevede che l’udienza di comparizione e la trattazione davanti al giudice istruttore avvenga nelle forme stabilite per il processo di cognizione dai novellati artt. 183 e 184 c.p.c.
Come in precedenza accennato, con l’emanazione del D.Lgs 2 febbraio 2006, n. 40[176], " il Governo ha dato attuazione alla duplice delega contenuta nella legge 14 maggio 2005, n. 80. (art, 1, commi 2 e 3).
Il provvedimento prevede una sostanziale modifica delle regole del codice processuale civile, orientata da un lato, al recupero ed alla valorizzazione, nel processo in cassazione, della funzione di nomofilachia tradizionalmente esercitata dalla Suprema Corte (sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 3, lett. a) della legge 80) e dall'altro, al riordino in senso razionalizzatore della disciplina dell'arbitrato (sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 3, lett. b) della stessa legge 80), in cui è ora dato maggior rilievo alla volontà delle parti.
Il decreto si compone di III Capi e di 29 articoli.
Il Capo I (artt. 1-19), modifica la disciplina del processo di cassazione, il Capo II (artt. 20-25) è dedicato alla riforma dell’istituto dell’arbitrato, il Capo III (artt. 26-29) contiene le disposizioni finali.
In attuazione della delega ricevuta con la legge 80/2005 il Governo ha, quindi, orientato la riforma del processo di cassazione sul recupero della cd. funzione nomofilattica della Suprema Corte.
Per dare una definizione di “funzione nomofilattica” gli interpreti fanno solitamente riferimento all’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941 n. 12), che attribuisce alla Corte di cassazione il compito di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale. Tale disposizione sembra evidenziare la duplicità dei compiti attribuiti alla Cassazione, che da un lato garantisce l’attuazione della legge nel caso concreto (giurisdizione in senso stretto), e dall’altro tende a fornire indirizzi interpretativi tendenzialmente uniformi per finalità di unità dell’ordinamento (uniformazione della giurisprudenza). Parte della dottrina preferisce parlare di nomofilachia con riferimento specifico alla prima funzione (che si sostanzia nella garanzia dell’esatta osservanza del diritto da parte dei giudici di primo e secondo grado nei casi concreti da loro esaminati, tramite il meccanismo delle impugnazioni) più che alla funzione di uniformazione della giurisprudenza, mentre altra parte della dottrina preferisce riferire il concetto di nomofilachia più alla seconda attività che non alla prima.
Nell’ambito delle modifiche apportate, di particolare rilievo, appare l’introduzione, seppur limitatamente ai rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite della Corte di cassazione, e con alcuni temperamenti, del principio, sviluppatosi negli ordinamenti di Common Law, dello stare decisis: si stabilisce, infatti, che le sezioni semplici siano vincolate al precedente delle sezioni unite e che, ove non intendano aderirvi, debbano reinvestire le sezioni unite con ordinanza motivata. Non meno importante appare, certamente, l’obbligo di enunciazione esplicita del principio di diritto sia in caso di accoglimento che di rigetto del ricorso e in riferimento a tutti i motivi della decisione; sempre in relazione al potenziamento del ruolo nomofilattico della corte, si segnala la previsione concernente l’estensione del sindacato diretto sulla interpretazione ed applicazione dei contratti collettivi nazionali nonché l’attribuzione in via esclusiva alle sezioni unite della competenza a pronunciarsi sulle questioni di giurisdizione di cui all’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione (impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti). Il legislatore ha considerato poi che il recupero e la valorizzazione della funzione di nomofilachia della Corte, non potesse non passare anche attraverso una razionalizzazione della sua attività e delle ipotesi di intervento della stessa attualmente contemplate dall'ordinamento. Tali ipotesi sono state, quindi, ridotte, con riferimento, in particolare, ai casi di intervento attualmente previsti su questioni di scarsa rilevanza.
Proprio in relazione a tale ultimo aspetto, il capo I del D.Lgs 40/2006 ha quindi previsto:
- con la novella dell’art. 339, l'appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità sia pur solo per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie o dei principi regolatori della materia (articolo 1) - sentenze oggi invece direttamente ricorribili, per gli stessi motivi, per cassazione;
- con la modifica dell’art. 23 della legge 689 del 1981, cd. legge di depenalizzazione[177], l'appellabilità, anziché la ricorribilità per cassazione, delle sentenze rese dal tribunale o dal giudice di pace all'esito dei giudizi di opposizione alle ordinanze ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative (articolo 26)
Naturalmente, i entrambi i casi, il ripristino dell’appellabilità non esclude la successiva ricorribilità per cassazione, nelle forme ordinarie, della sentenza emessa in grado di appello.
L’articolo 2 sostituisce l’art. 360 c.p.c., concernente le sentenze impugnabili con ricorso per cassazione ed i motivi di ricorso.
Le modifiche introdotte concernono:
§ l’ampliamento dei motivi di impugnazione agli errori di diritto commessi in sede di applicazione o interpretazione delle clausole negoziali dei contratti o accordi collettivi di lavoro. In analogia con le disposizioni vigenti nel settore del pubblico impiego, il sindacato della Corte di cassazione viene quindi ampliato ricomprendendo le questioni di diritto che concernono i contratti collettivi del settore privato;
§ la precisazione dei limiti del vizio di motivazione impugnabile in cassazione, vizio deducibile solo in ordine a fatti controversi e decisivi, in modo da circoscrivere l’impugnazione a punti che sono stati oggetto di discussione e contrapposizione tra le parti e dalla cui diversa considerazione (o dalla cui considerazione omessa dal giudice di merito) discenderebbe con certezza una decisione diversa;
§ ricorso immediato in cassazione consentita soltanto per le sentenze che definiscano almeno parzialmente il giudizio, rinviando l’impugnazione delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, alla contestuale impugnazione della sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio;
§ un ampio ricorso per cassazione anche avverso le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge.
L’articolo 3 sostituisce il primo comma dell’articolo 361 c.p.c. (Riserva facoltativa di ricorso contro sentenze non definitive) in senso corrispondente al principio declinato alla lett. c), prevedendo che il ricorso per cassazione avverso le sentenze di condanna generica e quelle che decidono alcune delle domande senza definire il giudizio, può essere differito qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso e comunque non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa.
L’articolo 4, in attuazione del principio di delega diretto ad ampliare il ruolo del giudice preposto all’interpretazione delle leggi, sostituisce l’articolo 363 c.p.c. e dà una nuova configurazione all’istituto del ricorso nell’interesse della legge, ampliandone i casi e introducendo una specifica procedura.
Il previgente articolo 363 c.p.c. prevedeva che, quando le parti non avevano proposto ricorso nei termini di legge o vi avevano rinunciato, il procuratore generale presso la Corte di cassazione potesse proporre ricorso per chiedere che la sentenza fosse cassata nell’interesse della legge. In tal caso, le parti non potevano giovarsi della cassazione della sentenza.
Le modifiche proposte riguardano:
§ l’estensione dell’istituto di cui all’articolo 363 anche alle ipotesi in cui il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile;
§ la finalizzazione del ricorso presentato dal procuratore generale all’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge - al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi – da parte della Corte di cassazione. Tale principio può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso presentato dalle parti è dichiarato inammissibile, sempre che la Corte ritenga che la questione decisa sia di interesse generale;
§ la definizione del contenuto della richiesta del Procuratore generale nonché dei poteri del primo presidente al quale la stessa è rivolta: più in particolare, viene stabilito che la richiesta del procuratore generale contenga una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza e sia rivolta al primo presidente il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene la questione di particolare importanza (comma 3 art. 363);
§ la previsione che la pronuncia della Corte non abbia effetto sul provvedimento del giudice di merito (che sostituisce la dizione originaria secondo la quale le parti non possono giovarsi della cassazione della sentenza).
Gli articoli 5 e 6, intervenendo, rispettivamente, sull’articolo 366 c.p.c. (Contenuto del ricorso) e introducendo nel codice un nuovo articolo 366 bis (Formulazione dei motivi), attuano quella previsione della legge delega (articolo 1, comma 2, lettera a) della legge 80/2005) relativa all’obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un quesito di diritto.
La previsione relativa alla necessaria esposizione di tale elemento è stata inserita nel nuovo articolo 366 bis, introdotto dall’articolo 6, a cui fa rinvio,a sua volta, l’articolo 366, comma 1, n. 4), nel testo novellato dall’articolo 5.
In particolare, il citato nuovo articolo 366 bis al comma 1, precisa che ciascuno dei motivi di ricorso di cui all’articolo 360, comma 1, numeri 1), 2),3) e 4) deve concludersi,a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto sottoposto alla Corte che consenta alla stessa di enunciare un corrispondente principio di diritto.
Il comma 2 del nuovo articolo 366 bis, con riferimento al motivo di ricorso di cui all’articolo 360, primo comma, n. 5, non implicante un errore di diritto nel giudizio di merito, stabilisce che l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero la ragione per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
L’articolo 5, come sopra ricordato, è diretto a sostituire l’articolo 366 c.p.c. che disciplina il contenuto del ricorso in cassazione.
Il previgente articolo 366 c.p.c. prevedeva che lo stesso dovesse contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti; 2) l’indicazione della sentenza o decisione impugnata; 3) l’esposizione sommaria dei fatti della causa; 4) i motivi per i quali richiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano; 5) l’indicazione della procura, se conferita con atto separato, e, nel caso di ammissione al gratuito patrocinio, del relativo decreto.
Se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.
Nel caso previsto dall’articolo 360, secondo comma, l’accordo delle parti deve risultare mediante visto apposto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, oppure mediante atto separato da unirsi al ricorso stesso.
Le modifiche disposte dall’articolo in esame riguardano:
§ il collegamento dell’indicazione dei motivi di cui all’articolo 366, n. 4, c.p.c. alle disposizioni del nuovo articolo 366 bis;
§ l’introduzione di un nuovo n. 6) del comma 1) prescrivente la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda;
§ la previsione, mediante un intervento sul comma 3 dell’articolo 366, che l’accordo delle parti in ordine alla proposizione del ricorso per cassazione c.d. omisso medio possa essere “anche anteriore alla sentenza impugnata”, con ciò superando l’attuale orientamento interpretativo della Corte nel senso della necessità che tale accordo possa essere validamente stipulato solo dopo la pronuncia in primo grado;
§ l’introduzione di un nuovo quarto comma, avente lo scopo di consentire, anche nel corso del giudizio di cassazione, la possibilità che le notificazioni tra difensori, nelle ipotesi di cui agli articoli 372 (Produzione di altri documenti) e 390 c.p.c. (Rinuncia) e le comunicazioni tra ufficio di cancelleria e difensori, avvengano in forme semplificate (telefax e posta elettronica), quando il difensore dichiari nel ricorso di volerle così ricevere, indicando il relativo numero di fax o indirizzo mail.
L’articolo 7 sostituisce il numero 4) del secondo comma dell’articolo 369 (Deposito del ricorso).
La modifica introdotta – diretta a prevedere il deposito oltre che degli atti e dei documenti, anche dei contratti ed accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda -, si coordina con quanto disposto dall’articolo 2 in ordine all’ampliamento del motivo di impugnazione di cui al primo comma, n. 3, dell’articolo 360 c.p.c., concernente l’errore di diritto nel giudizio di merito, anche ai contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro.
L’articolo 8 interviene sull’articolo 374 c.p.c. (Pronuncia a sezioni unite).
Va ricordato che l’articolo 374 c.p.c., concernente i casi in cui la Corte pronuncia a sezioni unite, stabiliva che ciò si verificasse nei casi previsti nel n. 1 dell’articolo 360 (motivi attinenti alla giurisdizione) e nell’articolo 362 – pronunce su decisioni in grado di appello o in unico grado di un giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso, nonché conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali, o tra questi e i giudici ordinari e conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario -.
Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.
In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice.
Conformemente alle previsioni della legge di delegazione, la modifica disposta all’articolo 374 elimina il rigido automatismo secondo il quale sui ricorsi attinenti la giurisdizione decidono sempre le Sezioni unite: la norma ora prevede che, tranne - che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti - il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici qualora sulla questione di giurisdizione proposta si siano già pronunciate le Sezioni unite. Tale previsione, oltre a valorizzare l’effetto delle precedenti pronunce delle Sezioni unite, risponde anche all’intento di operare una riduzione del carico di lavoro di queste ultime.
Tale obiettivo perseguito ha comportato anche una modifica della disposizione di cui all’articolo 142 delle Disposizioni per l’attuazione del c.p.c. (art. 19 del decreto legislativo).
Di particolare rilievo, inoltre, è la previsione che il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite vincola la sezione semplice e che se questa ritiene di non condividere il principio, rimette alle sezioni unite, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.
Tale previsione mira a recepire una delle direttive fondamentali contenute nella legge delega, quella relativa alla necessità di assicurare la funzione nomofilattica nell’ambito della stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, evitando contestualmente che su uno stesso tema e nello stesso periodo temporale si registri, da parte delle sezioni semplici della Corte e talvolta dei diversi collegi di una stessa sezione, una pluralità di orientamenti diversi e confliggenti.
L’articolo 9 detta alcune modifiche all’articolo 375 c.p.c., concernente i casi in cui la Corte pronuncia in camera di consiglio.
L’articolo 375 previgente stabiliva che la Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronunciasse con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere: 1) dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto; 2) ordinare l’integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell’impugnazione a norma dell’articolo 332; 3) dichiarare l’estinzione del processo per avvenuta rinuncia a norma dell’articolo 390; 4) pronunciare in ordine all’estinzione del processo in ogni altro caso; 5) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia sentenza in camera di consiglio quando il ricorso principale e quello incidentale eventualmente proposto sono manifestamente fondati e vanno, pertanto, accolti entrambi, o quando riconosce di dover pronunciare il rigetto di entrambi per mancanza dei motivi previsti nell’articolo 360 o per manifesta infondatezza degli stessi, nonché quando un ricorso va accolto per essere manifestamente fondato e l’altro va rigettato per mancanza dei motivi previsti nell’articolo 360 o per manifesta infondatezza degli stessi.
La Corte, se non ritiene che ricorrano le ipotesi di cui al primo e secondo comma, rinvia la causa alla pubblica udienza.
Le conclusioni del pubblico ministero, almeno venti giorni prima dell’adunanza della Corte in camera di consiglio, sono notificate agli avvocati delle parti, che hanno facoltà di presentare memorie entro il termine di cui all’articolo 378 e di essere sentiti, se compaiono, nei casi previsto al primo comma, numeri 1), 4) e 5), limitatamente al regolamento di giurisdizione, e al secondo comma.
Sostanzialmente viene stabilito che, quando la Corte provvede in camera di consiglio, decide sempre con ordinanza.
L’art. 9 modifica i numeri 2), 3), 4) e 5) del primo comma dell’art. 375 ovvero le specifiche ipotesi di pronuncia camerale. Al n. 2) si è soltanto provveduto ad includere l’esplicito riferimento all’ipotesi della rinnovazione dell’impugnazione; il n. 3) considera ora ogni caso di estinzione del processo diverso dalla rinuncia (sulla quale dispone il nuovo testo dell’articolo 391); il nuovo numero 5) assorbe ora le ipotesi di cui al secondo comma (relative all’accoglimento o al rigetto del ricorso principale e dell’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza, e alla dichiarazione di inammissibilità per mancanza dei motivi di cui all’articolo 360) integrate con il “difetto dei requisiti di cui all’articolo 366-bis”, introdotto dall’art. 6 del decreto legislativo.
Conseguentemente, vengono abrogati il secondo, terzo e quarto comma.
L’articolo 10 inserisce un nuovo art. 380-bis che detta una specifica disciplina relativa al procedimento per la decisione in camera di consiglio.
L’articolo 11 introduce un nuovo art. 380-ter relativo alla disciplina del procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza. La nuova disposizione recita, al primo comma, che nei casi in cui la Corte pronuncia sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione ai sensi del nuovo articolo 375, prima comma, numero 4), il presidente, se non provvede ai sensi dell’articolo 380, primo comma - vale a dire, se non ritiene di nominare il relatore affinché esamini il ricorso in vista dell’applicazione dello stesso art. 375 c.p.c. - richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte. Il secondo comma della nuova norma dispone che le conclusioni ed il decreto del presidente che fissa l’adunanza sono notificati, almeno 20 giorni prima, agli avvocati delle parti, che hanno facoltà di presentare memorie non oltre 5 giorni prima e di chiedere di essere sentiti, se compaiono, limitatamente al regolamento di giurisdizione. Il terzo comma stabilisce che non si applica la disposizione del sesto comma dell’articolo 380, ovvero la possibilità per la Corte di rinviare la causa alla pubblica udienza.
L’articolo 12 del decreto legislativo 40/2006 riformula l’articolo 384 c.p.c. (Enunciazione del principio di diritto e decisione della causa nel merito). La norma attua la delega nella parte in cui rileva la necessità di pronunciare il principio di diritto non solo in caso di accoglimento del ricorso e successiva cassazione con rinvio, ma in tutti i casi di accoglimento e di rigetto dell’impugnazione e con riferimento a tutti i motivi della decisione.
In base al nuovo art. 384
§ la Corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso proposto a norma dell’articolo 360, primo comma, numero 3, e in ogni caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza (comma 1).
§ la Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e, comunque, a quanto statuito dalla Corte (comma 2), ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (comma 3).
§ se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte assegna con ordinanza alle parti un termine per il deposito di osservazioni (comma 4).
§ non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto; in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione (comma 5).
L’articolo 13 integra le previsioni dell’articolo 385 c.p.c., in materia di provvedimenti sulle spese, al fine di stabilire che quando la Corte pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 375 c.p.c. - quindi anche nel caso di pronuncia in camera di consiglio - anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave. La modifica apportata all’articolo 385 c.p.c. – non prevista specificamente nella delega - è volta ad applicare ed attuare in concreto il principio della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., a bilanciamento delle più ampie possibilità di accesso alla giurisdizione della Suprema Corte.
L’articolo 14 sostituisce integralmente il contenuto dell’articolo 388 c.p.c., relativo alla trasmissione di copia del dispositivo al giudice di merito, prevedendo che non più il solo dispositivo bensì copia (integrale) della sentenza, anche per via telematica, sia trasmessa dal cancelliere della Corte a quello del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, affinché ne sia presa nota in margine all’originale di quest’ultima.
L’articolo 15 interviene sui primi tre commi dell’articolo 391 c.p.c. in materia di pronuncia sulla rinuncia.
La rinuncia costituisce una delle cause di estinzione del processo e consiste in una dichiarazione esplicita della parte che ha proposto la domanda di volere rinunciare agli atti, vale a dire alla domanda e agli atti successivi (art. 306 c.p.c.). Poiché ai fini dell’estinzione del processo occorre l’accordo di tutte le parti, la norma prevede la necessità che la rinuncia sia accettata da tutte le parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione. Tale accettazione non ha effetto se contiene riserve o condizioni.
Il primo comma della nuova disposizione dispone che sulla rinuncia la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto, anziché la Corte stessa con ordinanza in camera di consiglio, come invece attualmente stabilito dal primo comma dell’articolo 391 c.p.c.. Finalità della nuova norma è quella di ridurre l’attività processuale svolta dalla Corte in relazione a pronunce sostanzialmente automatiche, quale quella relative alla rinuncia. Di conseguenza, il secondo comma viene modificato al fine di prevedere che il decreto (e non più l’ordinanza) e la sentenza che provvede sulla rinuncia possono - e non debbono - condannare il rinunciante alle spese. In tal modo la condanna alle spese, con sentenza o decreto, è resa facoltativa evitando un automatismo che allo stato attuale può essere scongiurato soltanto con la adesione delle altre parti alla rinuncia e che costituisce un fattore di remora per chi intenda rinunciare al ricorso. Infine, il terzo comma del nuovo articolo 391 c.p.c. dispone che il decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell’udienza nel termine di 10 giorni dalla comunicazione.
L’articolo 16 modifica i primi due commi dell’articolo 391-bis c.p.c. (Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di cassazione) ed introduce due nuovi commi.
Per ragioni di coordinamento con le modifiche apportate all’articolo 375 c.p.c., primo comma la lettera a) dell’articolo 16 interviene sul dettato del primo comma dell’articolo 391-bis c.p.c. estendendo anche all’ordinanza, pronunciata ai sensi del nuovo articolo 375, primo comma, numeri 4) e 5), la possibilità, riconosciuta alla parte interessata tramite ricorso, di richiedere la correzione o la revocazione della sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’articolo 287 c.p.c. ovvero da errore di fatto ai sensi dell’articolo 395, numero 4), c.p.c.. La lettera b) dell’articolo 16, riscrivendo il secondo comma dell’articolo 391-bis, in base al quale la Corte pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375 c.p.c. sul ricorso volto ad ottenere la correzione o la revocazione, dispone che la Corte decide sul ricorso in camera di consiglio nell’osservanza delle disposizioni di cui al nuovo articolo 380-bis c.p.c. sul procedimento in camera di consiglio. Infine, la lettera c) dell’articolo 16 inserisce un nuovo comma all’art. 391-bis per prevedere che sul ricorso per correzione dell’errore materiale la Corte pronuncia con ordinanza mentre sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza.
In attuazione dell’ultimo criterio di delega, contenuto nell’articolo 1, comma 2, lettera a) della legge n. 80 del 2005, in base al quale le modifiche al codice di procedura civile devono “prevedere la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo contro le sentenze di merito della Corte di cassazione, disciplinandone la competenza”, l’articolo 17 inserisce, dopo l’articolo 391-bis c.p.c. un nuovo articolo 391-ter che estende anche alla sentenza di merito della Corte la possibilità dell’impugnazione per revocazione per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’articolo 395 e per opposizione di terzo. I relativi ricorsi si propongono alla stessa Corte e debbono contenere gli elementi, rispettivamente, degli articoli 398, commi 2 e 3, e 405, comma 2. Inoltre, è previsto che quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, la Corte decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione ovvero dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.
Anche l’articolo 18 introduce nel codice una nuova disposizione, l’articolo 420-bis sull’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi in linea con il principio di delega riguardante l’estensione del sindacato diretto della Corte sull’interpretazione e sull’applicazione dei contratti collettivi nazionali di diritto comune, che ha determinato la modifica dell’articolo 360, primo comma, numero 3) del codice. La nuova norma prevede, al primo comma, che, quando per la definizione di una controversia di cui all’articolo 409 c.p.c. (Controversie individuali in materia di lavoro) è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o di un accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a 90 giorni. Il secondo comma stabilisce che la sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro 60 giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza.
L’articolo 19 del decreto legislativo reca talune modifiche alle Disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile e disposizioni transitorie. In particolare, un comma aggiuntivo all’articolo 133. (Riserva di ricorso. Estinzione del processo) dispone che l’articolo 129, terzo comma, disp. att. (ovvero gli effetti dell’estinzione del processo di primo grado sulla sentenza di merito contro cui fu fatta riserva di appello) si applica altresì se il processo si estingue dopo la pronuncia delle sentenze previste dall’articolo 360, terzo comma, del codice di procedura civile. E’ poi aggiunto un nuovo articolo 134-bis (Residenza o sede delle parti) in base al quale, all’atto del deposito di ricorso, controricorso o memoria, i difensori dichiarano il luogo di residenza o la sede della parte. La novità è da porre in relazione con il recentissimo orientamento delle Sezioni unite della Corte in ordine agli adempimenti delle cancellerie nelle ipotesi di morte dell’unico difensore domiciliatario. Viene, inoltre, abrogato l’articolo 138 alla luce della disciplina dettata sul procedimento in camera di consiglio dal nuovo articolo 380 c.p.c.. L’art. 19 innova, infine, il dettato dell’articolo 142 (Ricorso di competenza delle sezioni unite e delle sezioni semplici) in considerazione delle novità introdotte dal decreto legislativo all’articolo 374 c.p.c. sulla pronuncia a Sezioni unite (articolo 8), volte a razionalizzare e ridurre il carico di lavoro delle stesse Sezioni unite in relazione ai ricorsi per motivi di giurisdizione. L’art. 142 prevedeva che, se nel ricorso sono contenuti motivi di competenza delle sezioni semplici insieme con motivi di competenza delle sezioni unite, queste ultime, se non ritengono opportuno decidere l’intero ricorso, dopo aver deciso i motivi di propria competenza, rimettono, con ordinanza, alla sezione semplice la causa per la decisione, con separata sentenza, degli ulteriori motivi. La novità è rappresentata dalla possibilità, affidata alla valutazione delle Sezioni unite, di pronunciare con unica sentenza sull’intero ricorso, con conseguente vantaggio sia in relazione all’interesse delle parti e della collettività, protetto dalla Costituzione, ad una durata ragionevole del processo. La norma prevede, inoltre, che le sezioni unite possono disporre in tal senso anche nel caso di rimessione ai sensi dell’articolo 374, terzo comma, vale a dire qualora la sezione semplice rimetta alle sezioni unite la decisione sul ricorso non ritenendo condivisibile il principio di diritto enunciato da queste ultime.
In ragione di esigenze di carattere sistematico connesse al dettato dell’articolo 18, viene disposto l’inserimento tra le disposizioni d’attuazione del codice relative alle controversie di lavoro, di previdenza e assistenza, di un nuovo articolo 146-bis in materia di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi. La nuova norma stabilisce, nei casi di cui all’articolo 420-bis in quanto compatibile, l’applicazione dell’articolo 64, commi 4, 6, 7 e 8 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validita' ed interpretazione dei contratti collettivi, che disciplinano rispettivamente la riassunzione del processo (comma 4), la eventuale sospensione di altri processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte e' chiamata a pronunciarsi (comma 6), il carattere vincolante della pronuncia della Corte sulle clausole di un accordo o contratto collettivo nazionale per la definizione di altri processi (comma 7) e la condanna alle spese e il risarcimento dei danni nei casi di responsabilità aggravata (comma 8).
L’articolo 19 riformula, poi, l’articolo 151, in materia di riunione di procedimenti, disponendo che la riunione, ai sensi dell’articolo 274 del codice, dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza e a controversie dinnanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione deve essere sempre disposta dal giudice, tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. La relazione illustrativa del provvedimento presentato al Parlamento per il parere sottolineava che la disposizione in questione era finalizzata ad estendere alle controversie davanti al giudice di pace la previsione che impone oggi al giudice, nelle controversie in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza, la riunione dei procedimenti aventi carattere seriale o comunque connessi anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la decisione. L’obiettivo ulteriore è quello di ridurre il numero dei ricorsi alla Corte di cassazione valorizzandone la funzione nomofilattica.
E’, infine, aggiunto alle disposizioni di attuazione l’articolo 144-quater che dispone che, entro il termine di 90 giorni dal deposito della decisione della cassazione, sia restituito al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata il fascicolo d’ufficio e i documenti prodotto dalle parti.
Il Capo II del D.Lgs. 40/2006, sulla base della delega prevista dall’art. 1, commi 2 e 3, lett. b) della citata legge 80/2005,mira a riformare in senso razionalizzatore la disciplina dell'arbitratocontenuta nel codice processuale civile. La novella è, nella sostanza, ispirata ad un rafforzamento dell’autonomia negoziale con una rilevante estensione dei poteri dispositivi delle parti in causa.
Gli articoli 20-25 del decreto legislativo riformano quindi la disciplina dell’arbitrato contenuta nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile (rimane, comunque, ferma la normativa sul riconoscimento dei lodi stranieri).
L’articolo 20 interviene sul capo I del titolo VIII, rubricato ex novo “Della convenzione d’arbitrato”.
Con tale definizione sono ora contemplati, oltre il compromesso e la clausola compromissoria, anche altri accordi di natura negoziale che prevedono il ricorso ad arbitri.
Rispetto alla disciplina vigente, si evidenzia, anzitutto, come il nuovo art. 806 (Controversie arbitrabili) – nel rispetto di uno dei principali criteri di delega - individui il presupposto del ricorso agli arbitri nel carattere disponibile dei diritti oggetto di controversia; conseguentemente, per dirimere la controversia gli arbitri potranno anche affrontare questioni relative a diritti indisponibili, purché le stesse non rappresentino l’oggetto del contendere e non debbano essere decise con efficacia di giudicato (v. art. 819-bis). E’, inoltre ivi collocata la previsione, prima nell’art. 808, della possibilità di ricorso agli arbitri nelle controversie di lavoro, ancorata alla relativa esplicita previsione in accordi o contratti collettivi.
Quanto alla forma del compromesso, viene ribadita (art. 807) la necessità della forma scritta, che si intende rispettata anche attraverso l’utilizzo del fax o della posta elettronica.
Mentre la disciplina della clausola compromissoria (art. 808)- a parte la segnalata collocazione all’art. 806 del previgente secondo comma, relativo alle controversie di lavoro - resta sostanzialmente invariata, l’art. 808-bis, Convenzione di arbitrato in materia non contrattuale rappresenta una novità all’interno della disciplina dell’arbitrato: viene infatti espressamente previsto che, in relazione a rapporti non contrattuali determinati (e quindi a rapporti che non traggono origine dall’autonomia negoziale delle parti bensì, ad esempio, direttamente dalla legge), le parti possano decidere in via convenzionale di devolvere le eventuali future controversie ad arbitri.
Il successivo art. 808-ter inserisce nel codice di rito la previsione – attualmente mancante - dell’arbitrato irrituale: attraverso un’espressa volontà manifestata per iscritto le parti potranno pattuire che l’arbitrato definisca la controversia con efficacia negoziale e dunque senza che il lodo arbitrale acquisisca gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (cfr. art. 824-bis). Conseguentemente, il lodo non sarà impugnabile, bensì annullabile dal giudice competente con le procedure previste per far valere l’invalidità dei contratti, in presenza dei vizi indicati dall’art. 808-ter, comma 2.
Gli ultimi due articoli di questo capo mirano a consentire il più ampio ricorso alle procedure arbitrali, prevedendo:
§ che, nel dubbio, la convenzione di arbitrato debba essere interpretata nel senso di devolvere agli arbitri tutte le controversie che derivano dal rapporto (art. 808-quater);
§ che, anche in assenza di pronuncia sul merito della controversia da parte degli arbitri, l’efficacia della convenzione non venga meno (art. 808-quinquies).
L’articolo 21 del decreto riscrive il successivo Capo II del Titolo VIII, dedicato agli arbitrinell’ottica, in accordo con le previsioni di delega, di una miglior puntualizzazione della disciplina della loro indipendenza, imparzialità e responsabilità.
Le disposizioni relative al numero degli arbitri (art. 809), alla loro nomina (art. 810) e sostituzione (art. 811) restano sostanzialmente invariate, con la sola aggiunta di una valutazione da parte del presidente del tribunale in ordine all’esistenza della convenzione d’arbitrato ed alla esclusione di un arbitrato estero (art. 810, co. 3).
Rispetto al dettato precedente, l’articolo 812 è formulato in negativo (Incapacità di essere arbitro) ed è centrato sulla piena capacità legale d’agire di cui deve disporre l’arbitro; la norma elimina, poi, ogni inopportuno riferimento alla cittadinanza.
Nei successivi tre articoli dedicati all’accettazione degli arbitri (art. 813), alla decadenza (art. 813-bis) e alla responsabilità (art. 813-ter) si evidenziano le seguenti novità:
§ l’accettazione può risultare non solo dalla sottoscrizione del compromesso, ma anche dalla sottoscrizione del verbale della prima riunione (art. 813, co. 1);
§ gli arbitri non sono pubblici ufficiali né incaricati di pubblico servizio (art. 813 co. 2);
§ analogamente a quanto previsto per la responsabilità del giudice dalla legge n. 117 del 1988[178], l’arbitro risponde dei danni cagionati alle parti solo in caso di dolo o colpa grave (art. 813-ter, co. 1 e 2);
§ l’azione di responsabilità può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale soltanto se l’arbitro è stato dichiarato decaduto o ha rinunciato all’incarico, altrimenti deve essere proposta dopo l’accoglimento dell’impugnazione (art. 813-ter, co. 3 e 4);
§ in caso di responsabilità dell’arbitro il corrispettivo e il rimborso spese non sono dovuti o sono soggetti a riduzione; se la responsabilità dipende da colpa grave – e non da dolo - il risarcimento non può superare il triplo del compenso spettante all’arbitro (art. 813-ter, co. 5 e 6).
La disposizione sui diritti degli arbitri (art. 814) resta sostanzialmente invariata mentre sono esplicitati i motivi che possono portare ad una ricusazione dell’arbitro prima individuati mercè il rinvio all’art. 51 del codice di rito. L’articolo 815, infatti, non si limita a ricondurre le ipotesi di ricusazione alla disciplina sull’astensione del giudice (art. 51 c.p.c.), ma delinea le diverse ipotesi alla luce della posizione peculiare dell’arbitro. In particolare, rispetto a quanto già previsto dall’art. 51, si evidenzia che l’arbitro può essere ricusato:
§ quando non ha le qualifiche richieste dalle parti (art. 815, co. 1, n. 1);
§ quando oltre egli stesso, anche un ente, associazione o società di cui sia amministratore, abbia interesse nella causa;
§ quando è legato (anche indirettamente, cioè attraverso partecipazioni societarie) ad una delle parti da rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza (n. 5).
Ai sensi del comma 2, la parte che ha nominato - o contribuito a nominare - l’arbitro non può ricusarlo se non per motivi conosciuti dopo la nomina; gli ultimi due commi specificano che l’istanza di ricusazione non sospende l’arbitrato e che il presidente del tribunale si pronuncia con ordinanza potendo condannare la parte che ha presentato un’istanza manifestamente infondata al pagamento di una somma non superiore al triplo del massimo del compenso spettante all’arbitro.
L’articolo 22 sostituisce il capo III del titolo VIII dedicato al procedimento arbitrale (artt. da 816 a 819-ter), in cui sono introdotti ex-novo sei articoli (da 816-bis a 818-septies).
La norma novella anzitutto l’art. 816, prima relativo allo “svolgimento del procedimento” ed ora alla sola sede dell’arbitrato; la disposizione non attua un punto preciso della delega bensì risponde a quelle esigenze di razionalizzazione e rispetto dell’autonoma delle parti cui è ispirata l’intera riforma. Il nuovo testo non ripropone, infatti, la previsione in base alla quale gli arbitri, in caso di inerzia delle parti, devono determinate la sede dell’arbitrato nella loro prima riunione. Ciò in effetti poteva provocare, in caso di omissione di tale formalità da parte degli arbitri, la nullità dei risultati ottenuti dal procedimento nel frattempo proseguito.
Inoltre, viene individuata la sede della convenzione d’arbitrato come sede dell’arbitrato stesso quando quest’ultima non risulti stabilita né dalle parti né dagli arbitri; se però la sede della convenzione risulti all’estero, l’arbitrato ha sede a Roma.
Ulteriore innovazione riguarda, infine, la possibilità per gli arbitri di compiere atti del procedimento anche fuori della sede dell’arbitrato nonché in territorio estero.
La prima delle sei disposizioni aggiunte al codice (art. 816-bis) relativa allo svolgimento del procedimento, è considerata uno dei punti focali della riforma. Ispirata a principi di celerità ed efficienza, la norma conferma l’autonomia delle parti nella scelta delle forme procedimentali (gli arbitri si regolano autonomamente solo in carenza di disposizioni in merito); anche in considerazione dei casi sempre più ricorrenti di rapporti negoziali transnazionali, deve essere specificata la lingua da usare nell’arbitrato.
Rilevante novità è, inoltre, costituita dalla esplicitazione che il procedimento arbitrale non può, in ogni caso, in assenza di disposizioni concordate, prescindere dal principio del contraddittorio di cui all’art. 111 Cost.
Si ricorda che l’art. 816, comma 3, prevedeva che fossero in tal caso gli stessi arbitri a regolare la procedura “nel modo che ritengono più opportuno”.
Va osservato come l’introduzione esplicita del rispetto del principio del contraddittorio nel giudizio arbitrale sia collegata a quella (art. 829, comma 1, n. 9, c.p.c.) che ora prevede la violazione di tale principio come autonomo motivo di impugnazione del lodo per nullità.
Altra novità contenuta nella disciplina procedimentale di cui all’art. 816-bis è quella che prevede la possibile rappresentanza delle parti in giudizio a mezzo di difensori, la cui procura - se non espressamente limitata - ricomprende ogni atto del procedimento.
Sono, infatti, conferiti, da un lato, al presidente del collegio arbitrale poteri autorizzatori per lo svolgimento del giudizio; dall’altro, agli arbitri è assegnata competenza decisoria per le questioni insorte durante il giudizio stesso, in assenza di decisione con lodo non definitivo.Tale norma ha attuato il principio di delega in base al quale gli arbitri possano conoscere in via incidentale delle questioni pregiudiziali non arbitrabili.
L’art. 816-ter contiene disposizioni sull’istruzione probatoria in parte riproduttive di norme già contenute nei vigenti art. 816, comma 5 (come la possibile delega ad uno degli arbitri degli atti istruttori) e 819-ter (sull’assunzione delle testimonianze da parte degli arbitri).
Il quid novum dell’art. 816-ter riguarda la previsione del comma 3 che stabilisce che gli arbitri, in caso un testimone si rifiuti di deporre, possono chiedere al presidente del tribunale competente per territorio di ordinarne la comparizione davanti a loro; la norma costituisce attuazione del principio di delega che ha stabilito che la disciplina dell'istruzione probatoria prevedesse adeguate forme di assistenza in giudizio.
Oltre alla possibile assistenza agli arbitri da parte di consulenti tecnici altra novità è costituita dal possibile ricorso alla P.A. per l’acquisizione di informazioni e documentazione necessaria al giudizio..
L’art. 816-quater introduce una apposita disciplina degli arbitrati con pluralità di parti volta a garantire, secondo le previsioni della delega che, nella nomina degli arbitri, sia rispettata la volontà originaria o successiva delle parti nonché relativa alla successione nel diritto controverso ed alla partecipazione dei terzi al processo arbitrale, nel rispetto dei princìpi fondamentali dell'istituto.
La norma ammette esplicitamente tale tipo di arbitrato, quando più di due parti siano vincolati in tal senso dalla relativa convenzione; tale giudizio è soggetto a specifiche condizioni di ammissibilità, relative alla nomina degli arbitri, volte a garantire l’accordo delle parti o piene condizioni di parità nella nomina. In assenza di tali presupposti, il giudizio arbitrale è improcedibile e quello avanzato contro più di due parti si scinde in tanti giudizi quanti sono le parti.
Il successivo art. 816-quinquies disciplina l’intervento (volontario o su chiamata) del terzo nel giudizio arbitrale, sottoponendolo alla condizione dell’accordo di questi, delle parti e del consenso degli arbitri.
La norma ammette che, per sostenere le ragioni di una delle parti in giudizio, il terzo possa volontariamente intervenire nel procedimento arbitrale, quando vi abbia un interesse proprio (art, 105, comma 2, c.p.c.). In caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso è, inoltre, ammesso l’intervento in giudizio del successore (volontario o su chiamata); in tal caso, se le parti sono d’accordo, l’alienante o il successore a titolo universale può essere estromesso dal giudizio (art. 111 c.p.c.).
Con l’art. 816-sexies è disciplinata ex novo l’ipotesi di una parte che venga meno per morte o altra causa ovvero perda la piena capacità di agire. In tal caso, gli arbitri dovranno assumere le misure più idonee alla prosecuzione del giudizio, garantendo il contraddittorio.
Mentre l’art. 816-septies permette agli arbitri di richiedere alle parti l’anticipazione delle spese prevedibili, l’art. 817 disciplina le ipotesi di eccezione di incompetenza. Mentre il previgente testo dell’art. 817 prevedeva l’impossibilità di impugnazione del lodo per la parte che non abbia eccepito in giudizio l’esorbitare dai limiti del compromesso (o della clausola compromissoria) delle conclusioni altrui, la nuova versione della norma disciplina le ipotesi di contestazione di vizi della convenzione di arbitrato o della regolare costituzione degli arbitri, affidando la relativa decisione agli stessi arbitri. E’ poi fissato nella prima difesa successiva, in ragione del “principio di lealtà processuale” il termine utile per la contestazione dell’incompetenza arbitrale (escluse le ipotesi di controversie non arbitrabili).
Un nuovo art. 817-bis prevede, poi, le ipotesi – in precedenza non disciplinate - di compensazione, affidando agli stessi arbitri la competenza a decidere sulla relativa eccezione (sempre nei limiti quantitativi della domanda) anche quando il credito in eccedenza rivendicato non sia compreso nella convenzione arbitrale.
Nessuna novità, invece, riguardo alla confermata impossibilità, per gli arbitri, di assumere provvedimenti di natura cautelare; è, comunque, fatta, salva diversa disposizione di legge (art. 818).
Va osservato come, al contrario, con la riforma introdotta con il D.Lgs 5/2003 relativo al nuovo processo societario, (art. 35, co. 5), siano stati assegnati poteri cautelari nell’arbitrato (anche non rituale) di controversie societarie.
Per quanto riguarda le decisioni sulle questioni pregiudiziali di merito insorte durante il giudizio (anche su materie non arbitrabili), il provvedimento – nel rispetto di uno dei principi di delega - affida la competenza agli stessi arbitri; le relative decisioni sono prive di autorità di giudicato (art. 819). E’ invece stabilita la sospensione obbligatoria del procedimento quando la decisione sulla pregiudiziale debba assumere per legge valore di giudicato autonomo.
Con il successivo art. 819-bis sono disciplinate le ipotesi di sospensione del giudizio arbitrale; oltre a quella appena citata di cui all’art. 819, si ha riguardo: al caso di sospensione in attesa della sentenza penale irrevocabile (art. 75 c.p.p.); alla sospensione per questione pregiudiziale da decidere, per legge, con sentenza con autorità di giudicato; alla sospensione per rimessione da parte degli arbitri davanti alla Consulta di una questione di legittimità costituzionale. La norma disciplina, infine, specificatamente le modalità di prosecuzione ovvero di eventuale estinzione del procedimento di arbitrato.
L’ultima disposizione in materia procedimentale (art. 819-ter) relativa ai rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, conferma, anzitutto, le previsioni dell’attuale art. 819-bis, ovvero che la connessione con una causa davanti ad un giudice non preclude la competenza degli arbitri sulla controversia; la norma aggiunge che tale competenza non è esclusa neanche dalla pendenza della stessa controversia davanti al giudice ordinario. Oltre a prevedere la possibile impugnazione della sentenza del giudice che decide sulla propria competenza in relazione ad una convenzione d’arbitrato, viene precisata l’inapplicabilità, nei rapporti tra arbitrato e processo di cognizione, della disciplina del codice di rito (artt. 44, 45, 48, 50, 295) relativa alla sospensione del processo. E’, infine, disposto, per evitare azioni pretestuose, che non può proporsi domanda giudiziale aventi ad oggetto l’invalidità e l’efficacia della convenzione d’arbitrato.
Il decreto legislativo sostituisce, con l’art. 23, il capo IV del titolo VIII, relativo al lodo arbitrale (artt. 820-826). La legge delega ha previsto sul punto, anzitutto, la razionalizzazione della disciplina dei termini di pronuncia, anche con riferimento alle ipotesi di proroga degli stessi.
In tal senso, l’art. 820, pur confermando l’autonomia delle parti nella fissazione di un termine per la decisione, in mancanza di disposizione sul punto, eleva da 180 a 240 giorni dall’accettazione della nomina, il termine per la pronuncia del lodo da parte degli arbitri.
Sono, inoltre, previste ipotesi di proroga dei suddetti termini di pronuncia collegate comunque alla volontà concorde delle parti, di una di esse o degli arbitri (negli ultimi due casi, prima non contemplati, la competenza decisoria è del presidente del tribunale) nonché ipotesi di proroga già previste (assunzione di mezzi di prova e pronuncia di lodo non definitivo) e di nuova introduzione (caso di consulenza tecnica d’ufficio, di lodo parziale, di sostituzione di arbitro unico o di modifica della composizione del collegio arbitrale). Rimane confermato in tali casi che il termine per la decisione può essere prorogato al massimo di 180 gg. e per non più di una volta.
Per ragioni di economia procedurale, è confermata la disciplina vigente di cui all’art. 821 che sancisce la validità e non impugnabilità per nullità del lodo pronunciato oltre i termini stabiliti in assenza di una tempestiva eccezione in tal senso ad opera della parte prima della deliberazione (art. 821).
Mentre rimane invariata la previsione dell’art. 822 relativa alla deliberazione del lodo secondo diritto (quella secondo equità deve essere autorizzata dalle parti) l’art. 823 (Deliberazione e requisiti del lodo) mira all’attuazione del principio di delega volto a semplificare e razionalizzare le modalità di pronuncia del lodo.
Confermate le modalità del voto sul lodo a maggioranza (semplice) nonché sulla forma scritta, è espunta invece dalla norma la necessità per gli arbitri di deliberare riuniti in conferenza personale, considerata un inutile appesantimento della procedura.
In relazione ai requisiti formali del lodo, elementi “nuovi” rispetto a quanto già previsto dal vigente art. 823 sono, in particolare, l’indicazione del nome degli arbitri e delle conclusioni delle parti; l’indicazione della convenzione di arbitrato appare, ovviamente, conseguente alla sua formale introduzione nell’ordinamento (nuova rubrica del capo I).
Mentre ll contenuto dell’art. 824 conferma quello del comma 1 del previgente art. 825 (sulla redazione e comunicazione-consegna alle parti di distinti originali del lodo), l’art. 824-bis del provvedimento, in attuazione di specifico principio di delega sulla efficacia del lodo, anche non omologato, abbia gli effetti di una sentenza pronunciata dal giudice, a far data dal momento delle sua ultima sottoscrizione.
Per quel che concerne il deposito del lodo, la disciplina dell’art. 825 rimane sostanzialmente immutata, risultando confermata la procedura ad iniziativa di parte per l’exequatur da parte del tribunale.
Novità sono, invece, introdotte in materia di reclamo:
§ sarà reclamabile il decreto del tribunale che concede (e non solo nega) l’esecutorietà del lodo;
§ giudice del ricorso diventa la corte d’appello, anziché il tribunale in composizione collegiale;
Come già per le decisioni del tribunale collegiale ai sensi del vigente art. 825, comma 5, l’ordinanza camerale (con cui la corte d’appello decide sul ricorso) non è ulteriormente reclamabile, in accordo con i principi generali di cui all’art. 739, ultimo comma, c.p.c.
In relazione alla correzione del lodo, l’art. 826 specifica maggiormente la relativa disciplina, prevedendo alcune innovazioni. E’, anzitutto, introdotto un termine di un anno (dalla comunicazione) decorso il quale non sono proponibili agli arbitri domande di correzione.
Per ragioni di economia della procedura si consente, inoltre:
§ la correzione di errore materiale che abbia determinato una divergenza tra i diversi originali del lodo anche in relazione alla sottoscrizione degli arbitri;
§ l’integrazione del testo del lodo in riferimento ai nomi degli arbitri, alla sede dell’arbitrato, all’indicazione delle parti nonché della convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti.
Altra novità riguarda il ricorso al tribunale in caso di inerzia degli arbitri sulla domanda di correzione.
Per quanto concerne, infine, la competenza, rimane confermata la titolarità degli arbitri alla correzione fino al momento del deposito del lodo e, di converso, quella del tribunale, una volta depositato il lodo.
L’art. 24 novella il capo V del titolo VIII (artt.827-831) relativo alla disciplina delle impugnazioni.
Mentre gli artt. 827 e 828, relativi rispettivamente, ai motivi di gravame (nullità, revocazione ed opposizione di terzi) nonché all’individuazione del giudice dell’impugnazione per nullità ed ai relativi termini, rimangono sostanzialmente identici, l’art. 829 (casi di nullità) mira al recepimento del principio di delega stabilito dalla legge 80/2005. La delega, nell’ottica di assicurare la piena autonomia delle parti, ha infatti previsto di “subordinare la controllabilità del lodo ai sensi del secondo comma dell'articolo 829 del codice di procedura civile alla esplicita previsione delle parti, salvo diversa previsione di legge e salvo il contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico”.
Confermata dall’art. 828 la competenza della Corte d'Appello, il nuovo testo dell’art. 829, ricalca sostanzialmente i casi che ammettono l’impugnazione per nullità (una novità è la possibilità di impugnare se il lodo conclude il procedimento senza aver pronunciato nel merito della controversia, quando questa doveva essere invece deciso dagli arbitri). In particolare, in attuazione del citato principio di delega, è ora ammessa l’impugnazione per nullità del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia soltanto se espressamente disposta dalle parti e dalla legge; fanno eccezione a tale regola, e quindi è sempre ammessa l’impugnazione, nelle controversie di lavoro (nelle quali si può impugnare anche per violazione di contratti e accordi collettivi) e in quelle in cui la violazione delle citate regole riguarda la decisione di questioni pregiudiziali relative a materie non arbitrabili. L’impugnazione della decisione per contrarietà a disposizioni di ordine pubblico è, però, sempre ammessa.
In ragione del principio di lealtà processuale, il nuovo art. 829 stabilisce l’impossibilità di impugnare il lodo: per la parte che vi abbia dato causa; per chi vi abbia rinunciato; per chi non abbia eccepito con tempestività la violazione di una norma del procedimento.
Per qual che riguarda la decisione della corte d’appello sull’impugnazione il legislatore delegato ha più specificamente disciplinato le ipotesi in cui la corte d’appello può decidere direttamente il merito della controversia oggetto del lodo in caso di accoglimento dell’impugnazione per nullità (art. 830). La disciplina in questione ha cercato di mediare tra le opposte esigenze di economia procedurale (privilegiando la potestà decisoria della corte d’appello), da una parte, e di rispetto dell’autonomia delle parti, dall’altra (in relazione alla salvaguardia delle attribuzioni degli arbitri, cui la controversia è, comunque, stata liberamente deferita).
Mentre, in precedenza, le sole cause che potevano essere decise nel merito erano quelle ritenute, in generale, dalla corte d’appello “mature” in tal senso (salvo supplemento d’istruttoria), il nuovo art. 830 individua specifiche ipotesi, tra quelle di cui all’art. 829, che autorizzano il giudice dell’impugnazione ad una decisione nel merito, pur facendo salvo il diverso accordo tra le parti (sia in sede di convenzione d’arbitrato che in momento successivo).
Le disposizioni relative agli ulteriori due mezzi di impugnazione, revocazione e opposizione di terzo (art. 831), sono invece sostanzialmente riproposte nella formulazione previgente.
L’art. 25 del provvedimento sostituisce, infine, il capo VI, in precedenza dedicato all’arbitrato internazionale (abrogato, in conformità alla norma di delega, dall’art. 28 del decreto)ora denominato ”Arbitrato secondo regolamenti precostituiti, dettando - col nuovo art. 832 - la disciplina del rinvio a regolamenti arbitrali.
La norma precisa infatti che se in sede convenzionale si rinvia ad un regolamento precostituito e questo contrasta con la convenzione d’arbitrato, è quest’ultima a prevalere sul regolamento.
Per garantire l’imparzialità degli arbitri, si aggiunge poi l’impossibilità per istituzioni a carattere associativo ed enti che rappresentino categorie professionali di nominare arbitri in controversie con terzi in cui sia parte un proprio associato; a maggior garanzia si prevede che il regolamento arbitrale possa introdurre ultra legem nuovi casi di sostituzione e ricusazione.
E’, infine, regolato il caso di rifiuto di amministrare l’arbitrato da parte dell’istituzione arbitrale designata, prevedendo comunque l’efficacia della convenzione ed il ricorso alla disciplina arbitrale ordinaria.
Il successivo capo III del provvedimento (Norme finali) abroga l’intera disciplina dell’arbitrato internazionale dettando, in particolare, una normativa transitoria per la disciplina dei procedimenti pendenti.
Come già accennato (vedi articolo 1), l’art. 26 abroga l’art. 23, ultimo comma, della legge 689 del 1981[179], cd. legge di depenalizzazione, norma che sanciva l’inappellabilità delle sentenza del giudice di pace o del tribunale pronunciate nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione di pagamento emessa dall’autorità amministrativa.
L’art. 27 contiene la disciplina transitoria per all’applicabilità ai giudizi in corso della nuova normativa introdotta dal decreto legislativo.
Per quel che riguarda i due profili di maggior rilievo:
§ si prevede l’applicazione della nuova disciplina del processo di cassazione ai ricorsi sulle sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati dopo il 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del decreto;
§ per quanto concerne, invece, il “nuovo” arbitrato, l’applicabilità della riforma varia in ragione: della data di stipula della convenzione di arbitrato (in riferimento alle norme relative, art. 20) e della data della domanda di arbitrato (per le restanti disposizioni sugli arbitri, il lodo, il procedimento, le impugnazioni e l’arbitrato amministrato).
L’art. 28 dispone l’abrogazione delle disposizioni dell’attuale capo VI, relativo al citato arbitrato internazionale, di cui la legge delega 80/2005 ha previsto la soppressione.
L’art. 29 riguarda, infine, la copertura finanziaria dell’intervento, per l’attuazione del quale non sono previsti oneri a carico del bilancio dello Stato.
Il decreto-legge 12 ottobre 2001, n. 370[180], convertito dalla legge legge 14 dicembre 2001, n. 432, interviene sulla disposizione transitoria contenuta nell’articolo 6 della legge 24 marzo 2001, n. 89, Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile, prorogando di sei mesi il termine per la presentazione alla corte d’appello del ricorso di cui all’articolo 3 della medesima legge.
Va ricordato che la legge n. 89 del 2001 è intervenuta per dare seguito agli impegni assunti con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848) che, all’articolo 6, par. 1, prevede che ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole. Tale “termine ragionevole”, come dimostrano le condanne dello Stato italiano da parte degli organismi comunitari di protezione dei diritti umani, risulta sistematicamente violato nel nostro Paese, specie nel settore civile.
Più in particolare, Il Capo II della legge n. 89 disciplina propriamente l’equa riparazione introducendo (art. 2) la previsione espressa del diritto ad un’equa riparazione per chiunque abbia subito un danno patrimoniale e non patrimoniale per effetto della violazione del diritto ad ottenere una decisione giudiziaria nel “termine ragionevole” previsto dall’articolo 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il procedimento per far valere il diritto all’equa riparazione è disciplinato dal successivo articolo 3 della legge. L’interessato dovrà proporre la domanda di equa riparazione alla Corte d’appello competente a giudicare sulla responsabilità dei magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito o comunque è ancora pendente il procedimento (per evitare che sulla domanda si pronuncino i giudici della stessa sede in cui si è verificata la violazione dei tempi ragionevoli).
Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della corte di appello, sottoscritto da un difensore munito di procura speciale; la controparte è il Ministero della giustizia per i procedimenti del giudice ordinario, il Ministero della difesa per i procedimenti del giudice militare, il Ministro delle finanze per i procedimenti del giudice tributario. Per altri procedimenti la controparte è il Presidente del Consiglio dei ministri;
La procedura da seguire è quella dei procedimenti in camera di consiglio. Le parti possono chiedere l’acquisizione (disposta dalla corte) degli atti e dei documenti del procedimento che si assume aver violato il principio del tempo ragionevole ed hanno diritto, unitamente ai loro difensori di essere sentite in camera di consiglio se compaiono. Possono essere depositate memorie e prodotti documenti fino a 5 giorni prima della data in cui è fissata la camera di consiglio ovvero sino al termine che a tale scopo è fissato dalla corte a seguito di istanza delle parti. Allo scopo di evitare una decisione troppo lenta anche in tale sede, la corte d’appello ha 4 mesi di tempo, dal deposito del ricorso, per pronunciarsi con un decreto impugnabile per Cassazione ma immediatamente esecutivo.
Viene stabilito (art. 3, comma 6) che l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avvenga – nei limiti delle risorse disponibili – a partire dal 1 gennaio 2002. L’articolo 4 prevede che Il decreto di accoglimento della domanda sia comunicato anche al Procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità contabile, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.
Come sopra ricordato, l’articolo 6 della legge 89 del 2001 stabiliva una disposizione transitoria diretta a modulare l’accesso al nuovo meccanismo riparatorio. Si prevedeva che entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge medesima i ricorrenti che avessero già adito la Corte europea dei diritti dell’uomo sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione, potessero instaurare la nuova procedura di cui all’articolo 3, purché non fosse ancora intervenuta una decisione sulla ricevibilità da parte della predetta Corte europea.
Su tale aspetto, in particolare, è però intervenuta la sentenza 29 agosto- 6 settembre 2002 della Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha ritenuto inammissibile un ricorso presentato per violazione dell’articolo 6, par. 1 della Convenzione in quanto, in base all’articolo 35 della Convenzione medesima “la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne”, rappresentate, in questo caso, dalla possibilità di adire previamente la Corte d’appello italiana sulla base della citata legge n. 89 del 2001.
Pertanto, data l’interpretazione della Corte di Strasburgo, in prossimità della scadenza della fase transitoria (18 ottobre 2001) è stato emanato (e poi convertito senza modificazioni) il decreto legge 370/2001, diretto a prorogare di ulteriori sei mesi, fino al 18 aprile 2002, la disciplina transitoria di cui all’articolo 6 della legge n. 89 del 2001, per evitare che la dichiarazione di irricevibilità di numerosi ricorsi da parte della Corte di Strasburgo privasse di tutela coloro che già lamentavano una violazione del termine ragionevole del processo.
Il decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18[181], convertito dalla legge 7 aprile 2003, n. 63,ha introdotto modifiche all’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile.
L’intervento normativo ha tratto origine dalla constatazione del notevole incremento dei carichi di lavoro degli uffici dei giudici di pace soprattutto a seguito dei numerosi ricorsi proposti dagli utenti in materia assicurativa; tali ricorsi, stante la loro modestia economica, in base alle vigenti norme procedurali erano per la gran parte decise dai giudici onorari secondo criteri di equità.
Nel sistema processuale italiano, regola generale è che il giudice- nel pronunciare sulla causa - debba seguire le norme del diritto; ciò significa il relativo obbligo di applicare una norma scritta, facente parte del diritto positivo vigente.
Una peculiarità del sistema appare, invece, la possibilità del giudice di seguire una regola di giudizio diversa, così derogando al principio di legalità, ovvero la possibilità di definire il giudizio secondo equità ; ciò sarà possibile quando:
§ la stessa legge gli attribuisce tale potere (art. 113, primo comma);
§ le parti gliene fanno concorde richiesta e il merito della causa riguarda diritti disponibili (art. 114 c.p.c.).
Rientrano nel primo caso la valutazione equitativa del danno (art. 1226 c.c.); della misura della provvigione e del maggior compenso a favore del commissionario nello “star del credere” (artt. 1733 e 1736 c.c.); della provvigione a favore dell’agente per la parte ineseguita del contratto d’agenzia (art. 1748 c.c.) ecc.
Nel secondo caso, ovviamente di maggior ambito, per diritti disponibili devono intendersi i diritti patrimoniali, in altre parole quelli che tutelano interessi economici.
In considerazione della modestia economica della questione, l'art. 113, secondo comma, c.p.c. prevedeva che “il giudice di pace decide secondo equità la causa il cui valore non superiore a 1032,91 euro”.
Così come quelle emesse dal giudice ordinario ex art. 114, le sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace sono inappellabili, fermo restando, secondo i principi costituzionali (art. 111), la loro ricorribilità in Cassazione (art. 339 c.p.c.).
La legge 63/2003 ha inteso, invece, escludere del tutto il parametro equitativo per le decisioni del giudice di pace nelle controversie derivanti da contratti di massa, allo scopo di evitare che il soggettivo apprezzamento sulla base dell’equità da parte dei singoli giudici di pace potesse comportare pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali.
L’esigenza dell’intervento d’urgenza da parte del Governo risiedeva poi, oltre che nella sottrazione di tali decisioni alle regole generali sull’appello (con conseguente impossibilità di valutazione “piena” ed in contraddittorio della decisione del giudice), anche nel fatto che esse incidevano su settori, come quello delle assicurazioni, soggetti specificamente a vigilanza amministrativa per ragioni di pubblico interesse.
In base a tali considerazioni, con la novella dell’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile (articolo 1), il legislatore - oltre ad arrotondare a 1100 euro il limite di valore - ha introdotto un limite di materia in relazione alle cause derivanti da rapporti giuridici relativi ai contratti conclusi mediante moduli e formulari di cui all’art. 1342 del codice civile; tali cause, pur rimanendo nella competenza del giudice di pace (entro i limiti di valore previsti dall’art. 7 c.p.c.), possono essere decise soltanto “secondo diritto”.
Si segnala, inoltre, che anche la Commissione ministeriale incaricata della riforma del codice di procedura civile (cd. Commissione Vaccarella) ha affrontato il problema della riforma del giudizio di equità. La Commissione, infatti, all’art. 13 della proposta di articolato, dopo aver rilevato che “l’attuale regime della pronuncia di equità è insoddisfacente” apparendo troppo spesso l’espressione “di equità” una sorta di formula magica per coprire l’arbitrio di giudizio, ha previsto, che il giudice debba esplicitare in ogni pronuncia secondo equità le peculiarità del caso che inducono a discostarsi dal diritto e che, ove egli dichiari di applicare il diritto anche perché conforme ad equità, la decisione sia ad ogni effetto considerata di diritto. L’art. 13 citato prevede, poi, che il giudizio secondo equità sia previsto soltanto per concorde volontà delle parti, con conseguente soppressione delle sentenze di equità ex lege e la generalizzazione del rimedio dell’appello.
Il provvedimento ha, inoltre, introdotto una norma transitoria secondo la quale la nuova disciplina si applica ai soli giudizi instaurati con citazione notificata dal 10 febbraio 2003 (articolo 2).
Il decreto-legge 28 settembre 2001, n. 353[182], convertito dalla legge 27 novembre 2001, n. 415, ha definito le sanzioni applicabili in caso di violazione di alcune disposizioni contenute nel regolamento (CE) n. 467/2001 del 6 marzo 2001.Il regolamento ha vietato l’esportazione di talune merci e servizi in Afghanistan, ha inasprito il divieto dei voli e il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie nei confronti dei talibani dell’Afghanistan.
La normativa comunitaria citata è stata emanata sulla base di una posizione comune adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 26 febbraio 2001 (2001/154/PESC) per imporre le misure restrittive previste dalla risoluzione1333 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a seguito della mancata consegna da parte dei Talibani di Osama bin Laden. Va infatti ricordato che con le risoluzioni nn.1333 del 19 dicembre 2000 e 1267 del 15 ottobre1999 (alla quale rinvia la citata risoluzione n. 1333), il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha stabilito alcune misure da adottare in relazione alla situazione in Afghanistan. Le misure – che obbligano tutti gli Stati membri a prevedere sanzioni nei confronti della fazione afghana dei talibani sintanto che proteggeranno il terrorista di nazionalità saudita Osama bin Laden – consistono nel divieto di decollo e atterraggio sul territorio degli Stati membri di vettori detenuti, noleggiati o operati dai Talibani (salvo eccezioni da autorizzare su base individuale dal Comitato Onu per le sanzioni) e nel congelamento dei capitali e di altre risorse finanziarie posseduti o controllati, direttamente o indirettamente, dai Talibani presso banche ed altre istituzioni finanziarie presenti sul territorio degli Stati membri.
Tali misure venivano adottate a fronte del persistente appoggio della fazione talibana all’organizzazione terroristica Al-Qaeda, capeggiata da Osama bin Laden, coinvolta in una serie di gravissimi attentati tra i quali il primo attacco alle Torri gemelle di New York risalente al 1993.
Analiticamente, l’articolo 1 del provvedimento stabilisce la nullità degli atti compiuti in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2, 4, 5 e 8 del Regolamento n. 467/2001[183], concernenti, rispettivamente, il congelamento dei capitali e di altre risorse finanziarie appartenenti a soggetti designati dal comitato per le sanzioni contro i talibani, il divieto di vendita della sostanza chimica denominata “anidride acetica”, il divieto di fornitura di consulenza tecnica, assistenza e formazione pertinenti alle attività militari del personale armato sotto il controllo dei talibani, il divieto di partecipazione ad attività collegate che abbiano per effetto di promuovere le operazioni di cui agli articoli 2, 4, 5 e 6 o l’attività degli uffici che rappresentano gli interessi dei talibani.
Inoltre, il decreto prevede delle sanzioni amministrative pecuniarie non inferiori alla metà del valore dell'operazione e non superiori al doppio del valore stesso, nei confronti di coloro che (in violazione dell’art. 2 del Regolamento):
§ non procedano al congelamento di tutti i capitali e le altre risorse finanziarie appartenenti a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo designati da un apposito comitato per le sanzioni contro i talibani;
§ mettano direttamente, o indirettamente, a disposizione dei talibani fondi o altre risorse finanziarie.
Si applicano invece le sanzioni previste dal codice penale:
a) per la violazione dell’art. 4 del Regolamento e dunque per il commercio al nemico nei confronti di coloro i quali non ottemperano rispettivamente al divieto di vendita, fornitura, esportazione o spedizione diretta o indiretta della sostanza chimica denominata anidride acetica a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo controllato dai talibani, nonché a qualsiasi persona, entità od organismo ai fini di qualsiasi attività svolta nell'Afghanistan controllato dai talibani o gestita a partire da esso (reclusione da 2 a 10 anni e multa pari al quintuplo del valore della merce e, in ogni caso, non inferiore a 1.032 euro);
b) per la violazione dell’art. 5 del Regolamento e dunque per il favoreggiamento bellico nei casi di concessione, vendita, fornitura e cessione, diretta o indiretta, di consulenza tecnica, assistenza o formazione pertinenti alle attività militari del personale armato sotto il controllo dei talibani a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo stabiliti nell'Afghanistan controllato dai talibani, nonché a qualsiasi persona, entità od organismo ai fini di qualsiasi attività svolta nell'Afghanistan controllato dai talibani o a partire da esso (reclusione non inferiore a 10 anni).
Sono invece puniti con una sanzione amministrativa non inferiore a 200mila euro e non a superiore a 2 milioni di euro le violazioni:
§ del divieto a qualsiasi aeromobile decollato da uno dei punti d'entrata o zone di atterraggio dell'Afghanistan controllato dai talibani designati dal comitato per le sanzioni contro i talibani ed elencati nell'allegato IV del regolamento comunitario o diretto a uno di tali punti o zone a prescindere dal Paese di appartenenza, di decollare dal territorio della Comunità, atterrarvi o sorvolarlo;
§ dell’obbligo di chiusura di tutti gli uffici che rappresentano gli interessi dei talibani e tutti gli uffici, succursali e filiali della compagni aerea afgana.
§ Al di fuori di concorso nelle violazioni suddette, la violazione delle disposizioni di cui all’articolo 8 del regolamento è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a 100.000 euro e non superiore a 1.000.000 di euro. In ogni caso, con la sentenza di condanna per i reati previsti è ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
L’articolo 2 del provvedimento stabilisce che i soggetti indicati all’articolo 3 del regolamento siano tenuti a comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze e al Ministero per le attività produttive l’entità dei capitali e delle altre risorse finanziarie oggetto di congelamento, entro 45 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge ovvero dalla formazione degli stessi se successiva. Spetterà poi al Ministero dell’economia trasmettere al Parlamento copia delle comunicazioni pervenute.
La violazione degli obblighi di comunicazione, al di fuori delle ipotesi di concorso nelle altre violazioni previste dal decreto-legge, è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a un terzo e non superiore alla metà dell’importo della sanzione di cui al comma 2 dell’articolo 1 (vale a dire della sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore alla metà del valore dell’operazione e non superiore al doppio del valore medesimo).
L’articolo 3 stabilisce che il procedimento per l'accertamento delle violazioni e l'irrogazione delle sanzioni è quello previsto per gli illeciti valutari dal testo unico delle leggi valutarie (D.P.R. 31 marzo 1988, n.148). Eccezione a tale procedura è rappresentata dall'inapplicabilità dell'oblazione che normalmente viene accordata al trasgressore in presenza di illeciti valutari.
L’articolo 4, stabilisce che le disposizioni del decreto-legge cessino di avere efficacia dalla data in cui sono sospese o revocate le misure stabilite dal regolamento.
Infine, l’articolo 4-bis dispone che l'esportazione di prodotti e tecnologie non compresi nell'elenco di cui all'allegato I al medesimo regolamento possa essere subordinata al rilascio di autorizzazione su richiesta specifica del Ministero degli affari esteri o del Ministero della difesa o del Ministero dell'interno.
Il successivo decreto legge 18 ottobre 2001 n. 374[184], convertito dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438, ha introdotto nell’ordinamento giuridico nazionale norme di carattere penale e processuale dirette a consentire una più efficace prevenzione e repressione degli atti di terrorismo a carattere transnazionale che, travalicando i confini del singolo Stato, non risultavano agevolmente perseguibili sul piano penale interno. In sintesi, dopo aver ridenominato il reato di cui all’art. 270-bis c.p. (Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico), il provvedimento introduce specifiche misure in tema di intercettazioni, perquisizioni, attività della polizia sottocopertura e coordinamento delle indagini.
Nel dettaglio, l’articolo 1 del decreto legge ha sostituito l’art. 270-bis del codice penale, configurando un nuovo delitto rubricato come “Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico” che presenta le seguenti caratteristiche (comma 1):
§ la condotta consiste nella promozione, costituzione, organizzazione, direzione o finanziamento di associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;
§ la pena è la reclusione da 7 a 15 anni;
§ nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.
La partecipazione alle suddette associazioni (art. 270-bis, comma 2) è invece sanzionata con la reclusione da 5 a 10 anni.
L’articolo 270-bis specifica quindi che ai fini della legge penale la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale (comma 3).
Inoltre, l’art. 1 del decreto legge inserisce nel codice penale l’articolo 270-ter, rubricato “Assistenza agli associati”; il delitto si caratterizza:
§ per la condotta che consiste nel dare o fornire, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, rifugio, vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano ad associazioni sovversive e con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico;
§ per la pena della reclusione fino a 4 anni. La pena è aumentata se l’assistenza è prestata continuativamente mentre non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto.
Ulteriori modifiche alla disciplina penale apportate dall’articolo 1 del provvedimento in commento riguardano:
§ l’art. 7, comma 1, n. 1) c.p. all’interno del quale si è specificato che la legge penale italiana si applica ai delitti contro la personalità dello Stato italiano commessi dal cittadino o dallo straniero in territorio estero;
§ l’art. 1 della legge 110/1975 che ora, accanto agli aggressivi chimici, annovera tra le armi da guerra anche gli aggressivi biologici e quelli nucleari;
Gli articoli 3, 5 e 6 del decreto legge disciplinano le intercettazioni nel caso di reati caratterizzati dalla “finalità di terrorismo anche internazionale”. Comune alle tre disposizioni è la possibilità di ricorrere, per l’accertamento delle fattispecie di terrorismo allo strumento delle intercettazioni senza l’osservanza dei rigorosi parametri previsti dal codice di rito per la legittima limitazione del diritto alla riservatezza.
In particolare, il decreto legge stabilisce:
§ l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152[185], ai procedimenti per i delitti di cui agli articoli 270-ter del codice penale (v. sopra), e per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), n. 4 del c.p.p. (delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni o nel massimo a 10 anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, co. 3, e 306, co. 2, c.p.).
Si ricorda che l’articolo 13 del D.L. n. 152/1991 ha introdotto una deroga alla disciplina di cui all’articolo 267 del codice di procedura penale (concernente i presupposti e le forme del provvedimento di intercettazione di conversazioni o comunicazioni), stabilendo sostanzialmente un allargamento delle possibilità di ricorso alle intercettazioni telefoniche, per indagini relative a delitti di criminalità organizzata o di minaccia con il mezzo del telefono. In tal caso, infatti, l’autorizzazione può essere concessa quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini e sussistono sufficienti indizi di reato. La relativa durata è di 40 giorni, prorogabile per periodi di successivi 20 giorni.
§ l’estensione ai delitti con finalità di terrorismo internazionale delle misure che, in tema di perquisizione di edifici, sono stabilite dall’articolo 25-bis del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306[186].
L’articolo 25-bis del decreto-legge citato stabilisce che, fermo quanto stabilito dall’articolo 27, comma 2, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere a perquisizioni locali di interi edifici o blocchi di edifici dove abbiano fondato motivo di ritenere che si trovino armi, munizioni o esplosivi ovvero che sia rifugiato un latitante o un evaso in relazione a taluno dei delitti indicati nell’articolo 51, comma 3-bis del c.p.p. Delle operazioni di perquisizione di cui al comma 1 è data notizia immediatamente, e comunque entro dodici ore, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo in cui le operazioni sono effettuate il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.
§ l’estensione alle indagini antiterrorismo (nazionale e internazionale) della normativa speciale in materia di intercettazioni preventive, attualmente prevista per il contrasto alla criminalità mafiosa. Attraverso la sostituzione dell’art. 226 delle norme di attuazione del codice di rito, il provvedimento in commento prevede che il procuratore della Repubblica, qualora vi siano elementi investigativi che giustifichino l'attività di prevenzione e lo ritenga necessario, possa autorizzare l'intercettazione per la durata massima di 40 giorni, prorogabile per periodi successivi di 20 giorni ove permangano i presupposti di legge. L'autorizzazione alla prosecuzione delle operazioni viene data dal PM con decreto motivato nel quale devono essere chiaramente indicati i motivi che rendono necessaria la prosecuzione delle operazioni. Delle intercettazioni viene redatto un verbale sintetico che, entro cinque giorni, deve essere depositato con i supporti utilizzati (nastri, floppy-disk o altro) presso il Procuratore che ha autorizzato le intercettazioni che, una volta verificatane la regolarità, ne dispone l’immediata distruzione. E’ quindi possibile effettuare il “tracciamento” delle comunicazioni telefoniche e telematiche e acquisire, con la più ampia latitudine possibile ogni altro dato e informazione utile in possesso degli operatori delle comunicazioni;
§ la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni per chiunque divulghi a persone non autorizzate o pubblichi, anche solo parzialmente, il contenuto delle intercettazioni di cui all'articolo 226 delle norme di attuazione del codice di procedura penale;
§ l’estensione alle indagini antiterrorismo l’applicazione della normativa (art. 295, co. 3-bis, c.p.p.) che consente l’intercettazione preventiva di comunicazioni tra presenti allo scopo di favorire le ricerche di terroristi in stato di latitanza.
L'articolo 4 del decreto legge (nel testo coordinato con la legge di conversione), utilizzando strumenti già previsti dall'ordinamento in materia di lotta alla mafia, al riciclaggio e al crimine organizzato, estende alle attività antiterrorismo le norme che autorizzano l’autorità giudiziaria a coordinare operazioni di polizia “sotto copertura”, con l’utilizzo cioè di agenti provocatori, e a ritardare l’emissione di ordini di cattura, di arresto o di sequestro.
In particolare, il provvedimento introduce una causa di non punibilità per gli ufficiali di polizia giudiziaria che nel corso di operazioni di polizia antiterrorismo - previamente autorizzate, e al solo fine di acquisire elementi di prova - anche indirettamente acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o altrimenti ostacolano l'individuazione della provenienza o ne consentono l'impiego. Nel corso delle stesse operazioni gli ufficiali di polizia giudiziaria possono agire sotto copertura anche per entrare in contatto con soggetti e siti telematici utili ai fini delle indagini, dovendo però, al più presto e comunque entro 48 ore, informare dell'attività stessa il pubblico ministero.
Inoltre, per garantire l'incolumità degli agenti sotto copertura, la legge di conversione ha configurato il delitto di indebita rivelazione o divulgazione dell'identità dei medesimi, punito con la reclusione da due a sei anni.
Anche gli articoli 7 e 8 del provvedimento legislativo estendono ai delitti di terrorismo normative dettate in origine per la criminalità mafiosa. In particolare:
§ intervenendo sull’art. 18, co. 1, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152 “Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico” (cd. legge Reale) si prevede l’applicabilità delle misure di prevenzione e di controllo patrimoniale introdotte dalla legge 565/1965[187] per la criminalità mafiosa anche ai soggetti che pongano in essere delitti di terrorismo nazionale e internazionale (art. 7);
§ intervenendo sulle norme vigenti in tema di partecipazione al dibattimento a distanza (artt. 146-bis e 147-bis, disp. att. c.p.p.), si estende il ricorso a tale strumento anche in relazione agli imputati in stato di detenzione e ai “pentiti” per delitti di terrorismo (art. 8).
L’articolo 9 detta disposizioni in materia di notificazioni e di comunicazione del domicilio del difensore. In particolare,
§ apporta modifiche agli articoli 148 e 149 del codice di procedura penale dirette a limitare l’impiego della polizia giudiziaria nelle attività di notificazione degli atti ai soli casi in cui le notifiche stesse siano disposte nell’ambito di procedimenti con detenuti;
§ prevede la possibilità sia per il giudice che per il PM, di eseguire le notifiche ai difensori ricorrendo a “mezzi tecnici idonei” (art. 148, co. 2-bis, c.p.p.);
§ prevede la facoltà, riservata esclusivamente al tribunale del riesame, di ricorrere per gli stessi adempimenti al personale di polizia giudiziaria delle sezioni esistenti presso le procure, purché ricorra il presupposto dell'urgenza (art. 148, co. 2-ter, c.p.p.);
§ abroga l'articolo 65 della disposizioni di attuazione del codice di rito, che imponeva al difensore che non fosse iscritto nell'albo del circondario dove ha sede l'ufficio giudiziario procedente di comunicare il proprio domicilio e che imponeva ai medesimi, nel corso delle indagini preliminari, di eleggere domicilio nello stesso circondario, pena la possibilità per l'autorità giudiziaria di procedere alla notifica degli avvisi agli stessi diretti presso il presidente del Consiglio del locale ordine forense;
§ modifica l'articolo 677 c.p.p., imponendo al condannato non detenuto di effettuare la dichiarazione o l'elezione del domicilio in occasione della presentazione di un'istanza di competenza della magistratura di sorveglianza a pena di inammissibilità della medesima.
L’articolo 10-bis del decreto legge (introdotto dalla legge di conversione) interviene invece sulle disposizioni processuali e, pur precisando che le nuove disposizioni saranno applicabili esclusivamente ai procedimenti iniziati successivamente all'entrata in vigore della legge:
§ inserisce nell'art. 51 c.p.p. il comma 3-quater che attribuisce, quando si tratti di procedimenti per i delitti - consumati o tentati - con finalità di terrorismo, all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente le funzioni di PM nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado;
§ modifica l'art. 328 c.p.p. disponendo che anche le funzioni del GIP nei procedimenti aventi a oggetto i medesimi reati vengano svolte da un giudice del tribunale del capoluogo di distretto nel cui ambito ha sede quello competente per il giudizio.
Va ricordato, infine, che il recente decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272[188] (cd. decreto Olimpiadi) convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, prevede all’art. 1-ter misure di varia natura finalizzate al contrasto del terrorismo internazionale.
Il comma 1 dell’articolo apporta alcune modifiche al recente D.L. 144/2005[189], recante per l’appunto Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale (v. capitolo Sicurezza pubblica: misure antiterrorismo,nel dossier relativo alla Commissione affari costituzionali).
La prima modifica riguarda la correzione di un errore materiale contenuto nell’art. 10, co. 3, del decreto-legge 144 (quest’ultima norma integra il contenuto dell’art. 495, quarto comma, del codice penale, ma il riferimento deve correttamente intendersi effettuato al terzo comma dello stesso art. 495) che estende anche alla persona indagata che dichiari false generalità alla magistratura e alla polizia giudiziaria la pena prevista in casi analoghi per l’imputato[190].
Viene, poi, aggiunto al codice penale l’art. 497-ter (Possesso di segni distintivi contraffatti) che estende le pene previste per il reato di possesso e fabbricazione di falsi documenti di identificazionevalidi per l’espatrio di cui all’art. 497-bis (reclusione da 1 a 4 anni, aggravata da un terzo alla metà in caso di materiale fabbricazione o formazione del documento falso, ovvero di detenzione fuori dai casi di uso personale):
§ a chiunque illecitamente detiene segni distintivi, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai Corpi di polizia, ovvero oggetti o documenti che ne simulano la funzione;
§ a chiunque illecitamente fabbrica o comunque forma gli oggetti e i documenti indicati nella lettera precedente, ovvero illecitamente ne fa uso.
E’ modificato, inoltre, l’art. 14, co. 3, del D.L. 144/2005, il quale, a sua volta, ha aggiunto un co. 1-bis all'art. 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante Disposizioni contro la mafia.
La modifica concerne la possibilità di imporre a persone sottoposte alla misura della sorveglianza speciale (e non soltanto proposte per tale misura) il divieto di detenere apparati radio, ricetrasmittenti, giubbotti antiproiettile, auto blindate e simili.
Il comma 2 dell’articolo 1-ter del decreto-legge reca una modifica al primo comma dell’art. 498 c.p. (che punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria, tra gli altri, “chiunque abusivamente porta in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio o impiego pubblico”), volta a coordinarne il disposto con quanto previsto dall’art. 497-ter, introdotto dal precedente comma 1.
Il comma 3 modifica in più punti l’art. 28 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 773/1931[191]), che punisce la raccolta e la detenzione, senza licenza ministeriale, di armi da guerra, munizioni, uniformi militari e simili.
Le modifiche proposte:
§ ampliano la portata del divieto e ne estendono l’oggetto, fino a farvi ricomprendere “gli strumenti di autodifesa specificamente destinati all’armamento dei Corpi armati o di polizia”, nonché le tessere di riconoscimento e gli altri contrassegni di identificazione degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria;
§ inaspriscono la sanzione prevista, trasformando la relativa fattispecie da contravvenzione in delitto.
II comma 5 dell’articolo 1-ter differisce l’efficacia delle disposizioni di cui al comma 3, testé illustrate al quindicesimo giorno successivo alla data di pubblicazione della legge di conversione del decreto-legge; nei successivi 60 giorni dovrà essere richiesta la licenza ministeriale, qualora non prevista dalle disposizioni previgenti.
II comma 4 dell’articolo 1-ter interviene sull’art. 5-bis, co. 4, del D.L. 83/2002[192], norma che prevede la possibilità, per esigenze eccezionali e temporanee, di conferire la qualifica di agente di pubblica sicurezza[193] a conducenti di veicoli in uso ad “alte personalità che rivestono incarichi istituzionali di governo nazionali e dell’Unione europea nonché ad altre personalità, da individuare con decreto del Ministero dell'interno”. Tale previsione è motivata con l’esigenza di tutelare più efficacemente la sicurezza personale di tali soggetti (co. 1). Il comma 4 dell’articolo, oggetto della novella, concerne l’uso da parte dei conducenti in questione di segnali distintivi e strumenti di segnalazione e di allarme.
II comma 6 dell’articolo 1-ter differisce l’efficacia delle disposizioni di cui al comma 4, testé illustrate, al quindicesimo giorno successivo alla data di pubblicazione della legge di conversione del decreto-legge.
Si ricorda, inoltre la ratifica da parte dell’Italia di due importanti Convenzioni in tema di contrasto del terrorismo internazionale.
La legge 14 gennaio 2003, n. 7 ha ratificato la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo che prevede – a carico di persone giuridiche, società e associazioni – sanzioni pecuniarie e interdittive connesse alla condanna per delitti di terrorismo.
La legge 14 febbraio 2003, n. 34 ha, invece, ratificato la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici per mezzo di esplosivo, strumento multilaterale elaborato in ambito ONU. La legge, in particolare, introduce nel codice penale italiano la nuova fattispecie criminosa (art. 280 bis) di Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (v. capitolo La lotta al terrorismo internazionale, nel dossier relativo alla Commissione esteri).
L’articolo unico di cui si compone la legge 7 febbraio 2003, n. 22[194] ha novellato una disposizione (art. 6, comma 1) contenuta nel D.Lgs 15 novembre 2000, n. 373, emanato in attuazione della direttiva 98/84/CE sulla tutela dei servizi ad accesso condizionato.
L’obiettivo perseguito dal legislatore italiano è stato quello di coordinare il decreto legislativo con la normativa previgente in materia di tutela del diritto d’autore e, in particolare, di ripristinare il regime sanzionatorio penale, già contemplato dall’ordinamento italiano e di fatto abrogato dallo stesso decreto legislativo 373/2000.
In effetti, l’ordinamento italiano, e segnatamente la legge 22 aprile 1941, n. 633 (legge quadro sul diritto d’autore), come modificata dalla legge 248/2000, già contemplava un regime sanzionatorio di tipo penale in relazione ad attività illecite del tipo elencato all’articolo 4 del d.lgs. 373/2000: l’articolo 171-bis della legge 633/1941 aveva inquadrato quale fattispecie penale, punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con multa da 2.582 a 15.493 euro la condotta di chi duplica per trarne profitto, importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi per elaboratore o rispettivamente utilizza in vario modo banche dati prive del bollino SIAE; l’articolo 171-octies aveva previsto quale ulteriore fattispecie penale, punita - esclusi i casi di “rilevante gravità” - con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa da 2.582 a 25.822 euro la condotta consistente nella produzione, vendita, importazione, promozione, installazione, utilizzo fraudolento di apparecchiature volte alla decodifica di trasmissioni audiovisive (in forma analogica o digitale, effettuate via etere, via cavo o via satellite) cosiddette “ad accesso condizionato” ovvero quelle che il distributore riserva in visione a gruppi limitati di persone, anche indipendentemente dal pagamento di un canone.
L’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 373/2000 era intervenuto sulla materia delle sanzioni ( già disciplinata dai citati articoli 171-bis e 171-octies) previste a carico di chiunque ponga in essere una delle attività illecite, di cui all'articolo 4 dello stesso decreto legislativo (la fabbricazione, l'importazione, la distribuzione, la vendita, il noleggio ovvero il possesso a fini commerciali di dispositivi illeciti, come definiti all’articolo 1, comma 1, lettera g), nonché la loro installazione, manutenzione o sostituzione a fini commerciali, diffusione con ogni mezzo di comunicazioni commerciali per promuovere la distribuzione e l'uso). La norma si era limitata a prevedere sanzioni di tipo amministrativo, omettendo ogni riferimento alla normativa previgente riguardante le sanzioni penali, nonostante la direttiva comunitaria, che lo stesso decreto legislativo ha attuato, avesse fatto salve le eventuali sanzioni ulteriori previste dagli ordinamenti interni degli Stati membri.
In virtù della disciplina della successione delle leggi nel tempo, tale omissione ha determinato, di fatto, l’abrogazione della previgente normativa, contenuta nei citati articoli 171-bis e 171-octies, in quanto la sostituzione di una sanzione, ancorché di natura diversa, senza alcun riferimento a quella precedentemente prevista, ne determina l’abrogazione di fatto. Tale abrogazione è stata peraltro ascrivibile ad assenza di coordinamento in occasione della stesura del decreto legislativo n. 373/2000 ed è su tale aspetto che il legislatore è intervenuto.
L’articolo unico della legge 22/2003 ha, quindi, aggiunto un periodo finale al comma 1 dell’articolo 6 del D.Lgs 373/2000 per disporre l’applicazione, oltre che delle sanzioni amministrative, delle sanzioni penali e delle altre misure accessorie previste per le attività illecite di cui agli articoli 171-bis e 171-octies della legge 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d’autore, intendendo così porre rimedio a tale situazione e completare il coordinamento sistematico della materia.
Il Parlamento ha istituito, con la legge 15 maggio 2003, n. 107[195], una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, con ciò recependo l’auspicio formulato dalla Commissione giustizia della Camera nel documento conclusivo del 6 marzo 2001[196]
L'indagine della Commissione ha tratto origine da due distinti fatti.
Anzitutto, il ritrovamento nell'estate del 1994 di una serie di fascicoli (695) contenenti denunce e atti di indagine di organi di polizia italiani e di Commissioni di inchiesta anglo-americane sui crimini nazifascisti commessi nel corso della seconda guerra mondiale. L'elemento particolare del ritrovamento di questi materiali - anziché nell'archivio degli atti dei Tribunali di guerra soppressi e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato - a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, in un armadio, con le porte sigillate e rivolto verso la parete, situato in uno stanzino, chiuso da un cancello di ferro[197]ha indotto a presumere che tali documenti fossero stati occultati, piuttosto che archiviati.
In secondo luogo, la relazione conclusiva del Consiglio della magistratura militare chiamato a svolgere una propria indagine conoscitiva già il 7 maggio 1996, per stabilire «le dimensioni, le cause e le modalità della «provvisoria archiviazione» e del trattenimento nell'ambito della Procura Generale Militare presso il Tribunale Supremo Militare di procedimenti per crimini di guerra» (cfr. Relazione conclusiva del 23 marzo 1999[198]).
Tale relazione - in base a quanto affermato dalla Commissione Giustizia nel documento conclusivo del 6 marzo 2001 - suscita gravi dubbi «circa una presunta volontà politica diretta ad occultare i fascicoli sulle stragi nazi-fasciste» e induce quindi la Commissione stessa ad indagare, «non tanto per verificare se… possano emergere nomi e responsabilità degli autori dei crimini, ma soprattutto per comprendere quali siano stati - se vi siano stati - i condizionamenti subiti dalla magistratura militare e se sarebbe stato quindi possibile, a tempo debito, perseguire i colpevoli».
A seguito di alcune audizioni, la Commissione giustizia concludeva l'indagine sottolineando anzitutto «la responsabilità della magistratura militare ed, in particolare, dei Procuratori generali militari che si sono succeduti dal 1945 al 1974» che anziché trasmettere i fascicoli alle procure militari competenti per territorio, hanno preferito accentrarli presso un organo (la Procura generale militare presso il Tribunale supremo militare) che non aveva competenza né responsabilità di indagine e di esercizio dell'azione penale e quindi che «l'inerzia in ordine all'accertamento dei crimini nazifascisti sia stata determinata dalla "ragion di Stato", le cui radici in massima parte devono essere rintracciate nelle linee di politiche internazionali che hanno guidato i Paesi del blocco occidentale durante la "guerra fredda"».
Conseguentemente, la stessa Commissione ha proposto di approfondire il tema nella XIV legislatura attraverso un'inchiesta parlamentare.
L’art. 1 della legge ha individuato dettagliatamente le questioni oggetto di accertamento. In particolare la Commissione, formata da 15 deputati e 15 senatori, nominati dai Presidenti di Camera e Senato in proporzione al numero di componenti dei gruppi parlamentari. ha avuto il compito di indagare:
§ le cause delle archiviazioni "provvisorie", il contenuto dei fascicoli e le ragioni per cui essi sono stati ritrovati a Palazzo Cesi, anziché nell'archivio degli atti dei tribunali di guerra soppressi e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato;
§ le cause che avrebbero portato all'occultamento dei fascicoli e le eventuali responsabilità;
§ le cause della eventuale mancata individuazione o del mancato perseguimento dei responsabili di atti e di comportamenti contrari al diritto nazionale e internazionale.
Per quanto riguarda la scelta del presidente della Commissione, di due vicepresidenti e due segretari, la proposta ne ha stabilito l'elezione da parte della Commissione stessa tra i propri membri (art. 2).
Prima dell'inizio dell'attività di inchiesta, l’articolo 4 ha previsto l’approvazione di un regolamento interno di disciplina del proprio funzionamento (articolo 4).
La legge107/2003 prevedeva, inoltre, che per l'espletamento delle proprie funzioni la Commissione fruisse di personale, locali e strumenti operativi messi a disposizione dai Presidenti delle Camere e che potesse soprattutto avvalersi di collaborazioni specializzate.
Le spese di funzionamento della Commissione sono state poste in parti uguali a carico dei bilanci delle due Camere (articolo 6).
La Commissione – come previsto dall’art. 82 della Costituzione, ha operato con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria (art. 3). Conseguentemente, la Commissione aveva il potere di acquisire copia di atti e documenti relativi a procedimenti in corso presso l’autorità giudiziaria e altri organi inquirenti.
La legge ha stabilito che alla Commissione, limitatamente all'oggetto dell'indagine di sua competenza, non potesse essere opposto il segreto di Stato, d'ufficio e professionale. Tuttavia i documenti trasmessi dal Governo sotto il vincolo del segreto potevano essere declassificati solo previo accordo tra il Governo e la Commissione. Per quanto riguarda tale aspetto, si ricorda che l’art. 12 della legge n. 801 del 1977[199] dispone, al comma 1, che sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti e le attività la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità dello Stato; il comma 2 prevede che il segreto non possa essere eccepito in ordine a fatti eversivi dell’ordine costituzionale.
In materia di pubblicità dei lavori, la legge ha poi stabilito che fosse la Commissione a deliberare, di volta in volta, quali sedute possano essere considerate pubbliche e quali documenti possano essere divulgati (art. 5).
Pertanto, al di fuori della pubblicità autorizzata dalla Commissione stessa, si prevedeva - per i membri della Commissione, per il personale addetto e per ogni altro soggetto che concorra a compiere atti di inchiesta o ne abbia comunque conoscenza - il vincolo del segreto (art. 3).
L’attività istruttoria compiuta dalla Commissione è stata sostanzialmente e prevalentemente costituita dallo svolgimento delle audizioni di soggetti direttamente ed indirettamente coinvolti nella vicenda, nonché dall’acquisizione di documentazione presso vari enti ed organismi, sia in Italia che all’estero.
Il termine per il completamento dei lavori è stato fissato dalla legge in un anno dalla sua costituzione (18 maggio 2003), termine entro il quale la Commissione doveva presentare alle Camere la relazione finale sull'attività svolta e sui risultati dell'inchiesta (art. 2).
A causa del prolungarsi dei lavori della Commissione, tale termine è stato prorogato fino al termine della XIV legislatura dall’articolo unico della legge 25 agosto 2004, n. 232[200].
La relazione finale della Commissione d’inchiesta è stata trasmessa alle Presidenza delle Camere in data 9 febbraio 2006.
La legge 11 agosto 2003, n. 228, Misure contro la tratta di persone, è diretta ad introdurre nuove disposizioni penali e a modificare quelle già esistenti allo scopo di contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e, più in particolare, di quella forma di riduzione in schiavitù derivante dal traffico di esseri umani. Si tratta di una nuova schiavitù riguardante esseri umani – soprattutto donne e bambini – provenienti dai paesi poveri del mondo che, spinti nel nostro Paese dalla speranza di una diversa prospettiva di vita, sono costretti alla prostituzione, al lavoro forzato e all’accattonaggio
Il nucleo principale della legge consiste nella modifica degli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, concernenti rispettivamente i reati di "riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù", "tratta di persone" e l'"acquisto e alienazione di schiavi", per i quali vengono sensibilmente aumentate le pene, arrivando fino ad un massimo di venti anni.
L’articolo 1, sostituendo l’articolo 600 del codice penale, definisce e disciplina, punendolo con la reclusione da otto a venti anni, il reato di Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù.
L’articolo 600 del codice penale (Riduzione in schiavitù) puniva con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque riduca una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù.
Il nuovo articolo 600 si riferisce, a tale proposito:
§ all’esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà;
§ alla riduzione o al mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa costringendola:
§ a prestazioni lavorative o sessuali;
§ all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento;
Per definire poi in maniera più tassativa la nuova fattispecie incriminatrice, viene precisato che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione possono configurarsi in presenza di una condotta particolarmente connotata.
In particolare si richiede che la condotta sia attuata mediante:
§ violenza, minaccia, inganno;
§ abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità;
§ mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
Viene poi previsto un aggravante di pena, da un terzo alla metà, se soggetto passivo del reato è un minore di anni diciotto o se i fatti sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.
L'articolo 2, sostituendo l'articolo 601 c.p., definisce, punendola con la reclusione da otto a venti anni, la fattispecie criminosa di Tratta di persone.
Il previgente articolo 601, intitolato Tratta e commercio di schiavi stabiliva che chiunque commettesse tratta o comunque commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù era punito con la reclusione da cinque a venti anni.
Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di minori degli anni diciotto al fine di indurli alla prostituzione è punito con la reclusione da sei a venti anni.
La condotta qualificante la nuova figura di reato consiste nell’indurre qualcuno mediante inganno o nel costringerlo mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità
§ a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato;
§ a trasferirsi al suo interno.
Il reato reprime il fenomeno di tratta sia quando ne risultino vittima soggetti già ridotti in schiavitù o in servitù, sia quando esso riguardi soggetti che vengono trafficati allo scopo di essere ridotti in tali situazioni.
Analogamente a quanto previsto per il reati di riduzione in schiavitù o servitù è prevista l’aggravante nel caso di reati commessi in danno di minori di anni diciotto o diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.
L’articolo 3 è diretto a sostituire l’articolo 602 del codice penale, che prevede e disciplina la fattispecie di Acquisto e alienazione di schiavi.
Nella sua formulazione previgente l’articolo 602 c.p. – Alienazione e acquisto di schiavi - prevedeva che chiunque, fuori dei casi indicati dall’articolo precedente, alienava o cedeva una persona in stato di schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù, o se ne impossessava o ne faceva acquisto o la manteneva nello stato di schiavitù, o nella condizione predetta, era punito con la reclusione da tre a dodici anni.
La norma ha carattere residuale poiché disciplina le ipotesi che non sono già ricadenti nella fattispecie di tratta di persone (art. 601).
L’elemento oggettivo del reato in tali casi consiste, fuori dai casi di cui all’articolo 601, nell’acquisto, nell’alienazione o nella cessione di una persona che si trovi in condizione di schiavitù o servitù ai sensi dell’articolo 600 c.p. La pena stabilita è quella della reclusione da otto a venti anni.
Analogamente alle previsioni dei due articoli precedenti viene prevista l’ipotesi aggravata nei tre casi sopra citati.
L'articolo 4 aggiungendo un nuovo comma all’articolo 416 (Associazione per delinquere) stabilisce che nel caso in cui l’associazione sia diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi di cui al comma 1 – promotori costitutori o organizzatori dell’associazione – e da quattro a nove anni nei casi di cui al comma 2 – partecipazione all’associazione.
Oltre alle sanzioni penali, la legge 228/2003 prevede anche sanzioni amministrative nei confronti di persone giuridiche, allorché i soggetti che le rappresentano o che nelle stesse ricoprano le particolari cariche previste dalla legge, commettano alcuno dei reati contro la personalità individuale previsti agli artt. 600-604 del codice penale (riduzione in schiavitù, tratta di persone, alienazione e acquisto di schiavi, prostituzione e pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, turismo sessuale (articolo 5). Si tratta delle sanzioni pecuniarie “per quote” previste dal D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della L. 29 settembre 2000, n. 300) dettate da un apposito art. 25-quinquies; la norma prevede, nei casi più gravi, l’interdizione temporanea per un anno (se non addirittura definitiva) dall’attività istituzionale dell’ente.
Le modifiche sostanziali previste dalla legge sono accompagnate da interventi sulla disciplina processuale (articolo 6).
Per quanto concerne gli interventi sul codice di procedura penale si segnala:
§ la soppressione, per i reati anzidetti, della competenza della Corte d'assise a favore del tribunale in composizione collegiale (art. 6, co. 1, lett. a);
§ l’attribuzione alle direzioni distrettuali antimafia delle funzioni di pubblico ministero nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, anche se commessi in forma associata (art. 6, co. 1, lett. b);
§ l’inclusione dei delitti in questione fra quelli per i quali l'articolo 407 del codice di procedura penale prevede una durata massima delle indagini preliminari pari a due anni (art. 6, co. 1, lett. c);
Ulteriori interventi sono operati su leggi speciali di contrasto alla criminalità mafiosa (articolo 7). In particolare, la norma estende alle nuove fattispecie di reato la circostanza aggravante a effetto speciale (aumento da un terzo alla metà) del «fatto (...) commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione» e le misure di prevenzione e confisca previste dalla normativa antimafia (modifiche degli artt. 7 della legge 575/1965 e 14 della legge 55/1990);
La novella all’art. 12-sexies D.L. 8 giugno 1992, n. 306 “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” (L. 356/1992) aggiunge, invece, anche i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 ed il relativo reato associativo tra quelli per cui è sempre disposta la confisca del denaro, beni ed altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza.
L’articolo 8 della legge modifica, poi, l’art. 10 del DL 419/1991 (L. 172/1992) “Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive” estendendo ai delitti contro la personalità individuale (artt. 600-602) e quelli in materia di prostituzione le disposizioni in materia di ritardato arresto o sequestro contemplate per estorsione, usura e riciclaggio.
La legge 228/2003 estende anche a tali delitti la disciplina derogatoria di quella ordinaria (art. 267 c.p.p.) sulle intercettazioni in tema di lotta alla criminalità organizzata[201]: conseguentemente, l'autorizzazione a disporre le operazioni deve essere data anche quando l'intercettazione è semplicemente “necessaria per lo svolgimento delle indagini”; in relazione a un delitto in ordine ai quali sussistano “sufficienti indizi”; la durata delle operazioni può raggiungere i quaranta giorni e quella delle eventuali proroghe i venti giorni (articolo 9);
L’articolo 10 della legge estende ai procedimenti per i delitti contro la personalità individuale e in materia di prostituzione le disposizioni sulle attività sotto copertura previste dalla normativa anti-terrorismo[202]; è comunque fatta salva la specialità delle disposizioni della legge 269/1998[203] (art. 14) che prevedono le attività sottocopertura da parte del personale di polizia giudiziaria specializzato nelle attività di contrasto ai reati sessuali nei confronti dei minori.
La legge 228/2003, con l'articolo 11 estende anche ai collaboratori di giustizia in relazione ai delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico e turismo sessuale (articoli da 600-bis a 600-quinquies) la disciplina per l’applicazione delle speciali misure di protezione (art. 9, D.L. 8/1991, L. 82/1991).
La legge 228 tocca anche il settore dell'esecuzione penale disponendo – integrando il contenuto dell’art. 16-nonies del citato D.L. 8/1991 - che i benefici penitenziari possano essere concessi anche ai condannati per uno dei citati delitti contro la personalità individuale che abbiano tenuto condotte collaborative con la giustizia aventi carattere di intrinseca attendibilità, novità e completezza.
Dal punto di vista della prevenzione dei reati e dell’assistenza alle vittime degli stessi, la legge prevede:
§ l'istituzione, presso la Presidenza del consiglio dei ministri, del Fondo per le misure anti-tratta. Si tratta di un Fondo destinato al finanziamento di programmi di assistenza e integrazione sociale in favore delle vittime dei reati nonché delle altre finalità di protezione sociale di cui all’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), finanziato con le somme stanziate dall'articolo 18 del citato decreto legislativo 286/98[204], con i proventi della confisca ordinata a seguito di sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, anche in forma associata, nonché con quelli della confisca ordinata nelle ipotesi particolari di cui all’articolo 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) (articolo 12);
§ l’istituzione di uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.) e di tratta di persone (art. 601), allo scopo di assicurare, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria, salva comunque l’applicabilità delle disposizioni di carattere umanitario di cui all’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione, qualora la vittima del reato sia una persona straniera (articolo 13);
§ la previsione di speciali politiche di cooperazione nei confronti dei Paesi interessati dai reati, da attuarsi da parte del ministero degli Esteri, organizzando “incontri internazionali e campagne di informazione anche all'interno dei Paesi di prevalente provenienza delle vittime del traffico di persone” (articolo 14).
L’articolo 15 della legge introduce una lunga serie di norme di coordinamento
In primo luogo, attraverso modifiche al primo, al secondo e al quarto comma dell’articolo 600-sexies, la disciplina in materia di circostanze aggravanti e attenuanti e di pene accessorie per i delitti di prostituzione minorile (art. 600-bis), pornografia minorile (art. 600-ter) e iniziative turistiche volte allo sfruttamento di prostituzione minorile (art. 600-quinquies), viene estesa alle nuove fattispecie di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p.
Aggiungendo inoltre un comma al citato articolo 600-sexies viene applicata a tutti i delitti sopra citati la regola diretta ad escludere dal giudizio di equivalenza o prevalenza delle circostanze, le circostanze attenuanti diverse da quella di cui all’articolo 98 c.p. (Minore degli anni diciotto), concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo citato: in tali casi le eventuali diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle aggravanti citate.
Si incide poi sul tema delle pene accessorie, mediante la riformulazione dell’articolo 600-septies; sostanzialmente viene estesa a tutti i delitti previsti nella sezione I, Capo II, titolo XII del libro II del codice penale, la confisca di cui all’articolo 240 che viene consentita non solo nel caso di condanna ma anche in quello di applicazione delle pena su richiesta delle parti. Viene poi previsto che nel caso in cui non sia possibile la confisca di beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, si può procedere alla confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto. Anche le restanti misure di cui al 600 septies vengono estese a tutti i delitti sopracitati.
Intervenendo sull’articolo 609-decies, comma 1, c.p. viene esteso ai delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602, se commessi in danno di minorenni, l’obbligo di comunicazione al Tribunale per i minorenni da parte del procuratore della repubblica. Altre modifiche di coordinamento sono poi disposte agli articoli 392, comma 1-bis c.p.p. e 398, comma 5-bis in tema di incidente probatorio, 472, comma 3-bis, in tema di modalità di celebrazione del dibattimento e 498, comma 4-ter, in tema di esame del minore vittima del reato.
L’articolo 16 detta disposizioni transitorie sulla base delle quali:
§ viene limitata ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge l’applicabilità della disposizione di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a) del provvedimento che sottrae alla competenza della corte di assise - per affidarla a quella dei tribunali in composizione collegiale - la cognizione dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p.;
§ viene sancita l’inapplicabilità ai procedimenti per i quali vi sia stata l’iscrizione nel registro delle notizie di reato precedentemente alla data di entrata in vigore della legge della lettera b) del medesimo articolo che, intervenendo sull’articolo 51, comma 3-bis c.p.p., attribuisce alle Direzioni distrettuali antimafia le funzioni di pubblico ministero nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli stessi articoli.
§ viene stabilita l’inapplicabilità ai procedimenti di prevenzione già pendenti delle disposizioni di cui al comma 2 dell’articolo 7 che consente l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale a chi abbia commesso i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p., quando l’autore debba ritenersi abitualmente dedito a traffici delittuosi, ovvero debba ritenersi delinquente professionale;
La legge 11 giugno 2004, n. 145[205]interviene in materia di sospensione condizionale della pena e di riabilitazione del condannato, muovendosi nella prospettiva di una riduzione dei termini per l'applicazione dei due istituti ritenuti troppo onerosi ed in contrasto con il principio del favor rei.
Gli articoli 1 e 2 attengono, rispettivamente, alla modifica degli articoli 163 e 165 del codice penale, in materia di sospensione condizionale della pena.
La sospensione condizionale della pena, in base alla sistematica dal codice penale, costituisce una delle cause generali di estinzione del reato. L’istituto risponde all’esigenza di estendere l’individualizzazione dell’illecito penale non soltanto al momento della decisione giudiziale sul fatto lesivo ma anche a quello propriamente punitivo e di esecuzione della pena.
In relazione a illeciti di non particolare gravità, il legislatore - rinunciando alla esecuzione immediata della pena - ricollega in tal modo effetti estintivi del reato ad una messa alla prova del buon comportamento del reo successivo alla condanna.
L’articolo 163 c.p. prevede infatti che, nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all'arresto per un massimo di due anni (o a pena pecuniaria equivalente, dopo ragguaglio)[206] il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena venga sospesa per cinque anni se la condanna è per delitto e per due anni se la condanna è per contravvenzione (primo comma).
Termini più favorevoli sono previsti (secondo e terzo comma) per i minorenni (in relazione a condanne fino a tre anni), per i condannati di età compresa tra i diciotto e i ventuno anni nonchè per gli ultrasettantenni (per condanne fino a due anni e mezzo).
Se durante il periodo di sospensione il condannato non commette un reato (delitto o contravvenzione che sia) della stessa indole, adempiendo agli obblighi impostigli (v. ultra, art. 165), il reato si estingue e l’esecuzione della pena non ha luogo (articolo 166 c.p.).
L’articolo 1 della legge 145 ha modificato i primi tre commi dell’art. 163 c.p.
E’ stato aggiunta, dopo, il primo comma la previsione che in caso di sentenza di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni, quando la pena nel complesso, dopo il ragguaglio di cui all’art. 135, sia superiore a due anni, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena detentiva rimanga sospesa; analoga previsione è stata introdotta al secondo comma nel caso di condanna di minore di 18 anni a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a tre anni, quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia superiore a tre anni, infine, al terzo comma dell’art. 163 è stata introdotta dalla legge la possibilità di sospensione della pena detentiva in caso di condanna di maggiorenne infraventunenne ovvero di persona maggiore di 70 anni a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni e sei mesi, quando la pena nel complesso, sempre dopo ragguaglio, sia superiore a due anni e sei mesi.
La novità consiste, in definitiva - mantenendo i precedenti limiti edittali - nella possibilità di sospendere la pena senza tener conto, nel calcolo dei limiti massimi per la concessione del beneficio, delle pene pecuniarie il cui calcolo ai fini del ragguaglio (un giorno di pena detentiva equivale a 38 euro), era spesso di ostacolo alla concessione stessa.
L’articolo 1 della legge 145 aggiunge, infine, allo stesso art. 163 un quarto comma che introduce un’ipotesi di sospensione condizionale “speciale”: il beneficio può essere concesso per un anno quando la pena inflitta non sia anch’essa superiore ad un anno e sia stato riparato interamente il danno (col risarcimento o le restituzioni) prima della pronuncia di primo grado, ed a patto che il colpevole si sia efficacemente adoperato per evitare o attenuare le conseguenze della sua azione illecita.
L’articolo 2 integra il contenuto dell’art. 165 del codice penale, relativo agli obblighi del condannato cui può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena
Con la finalità di caratterizzare il beneficio in senso positivo, in modo da far “meritare” al reo la sospensione condizionale, l’art. 165 c.p. prevede che il giudice possa subordinarne la concessione all’adempimento di specifici obblighi da parte del condannato. Tale obblighi possono consistere nelle restituzioni, nel pagamento del “quantum” liquidato a titolo di risarcimento del danno (o della provvisionale al momento determinata) ovvero nella pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno stesso; la sentenza può, inoltre, condizionare l’applicazione del beneficio “all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato” secondo le modalità stabilite nella sentenza stessa. Mentre al momento della concessione del beneficio per la prima volta, (art. 165 c.p.) tali obblighi possono essere discrezionalmente imposti dal giudice, in caso di sospensione concessa a chi ne ha già usufruito, l’adempimento di uno degli obblighi di cui all’art. 165 è obbligatorio, salvo che ciò sia impossibile.
Va osservato, in relazione al risarcimento del danno, che il ristoro economico non coincide con il risarcimento integrale di quanto sofferto dalla parte lesa ma solo al pagamento della somma liquidata a tale titolo in sede giudiziale.
Nella prassi, tuttavia, - pur essendo prevista la discrezionalità del giudice nell’applicazione dell’art. 166 -, la concessione del beneficio è pressochè automatica in presenza dei requisiti (positivi e negativi) di cui agli artt. 163 e 164.
L’art. 2 ha aggiunto agli obblighi dell’art. 165 la possibilità, se il condannato non si oppone, di subordinare la concessione del beneficio allo svolgimento di lavoro non retribuito a favore della collettività per un periodo di tempo comunque non superiore a quello della pena sospesa.
Il cd. lavoro di pubblica utilità è un istituto previsto dal D.Lgs 274/2000 relativo ai giudizi penali davanti al giudice di pace; in tale ambito si tratta, però, di una pena sostitutiva mentre nel caso di cui all’art. 165 c.p. sarebbe alternativo alla pena stessa.
Con la ulteriore modifica al secondo comma dell’art. 165 (consistente nella soppressione delle parole: “ salvo che ciò sia impossibile”) si è inteso chiarire che la concessione della condizionale a persona che ne ha già usufruito è sempre subordinata all’adempimento degli obblighi indicati. La novella va letta in relazione alle previsioni dell’art. 164 c.p., ultimo comma, c.p. in virtù del quale veniva abitualmente concessa, dopo la prima, un seconda sospensione condizionale della pena quando il cumulo di pena delle due condanne non superasse i limiti di legge; tale concessione però, nell’interpretazione della giurisprudenza, era data automaticamente senza venir mai subordinata all’osservanza degli obblighi di cui all’art. 165. Quindi, in presenza di impossibilità delle restituzioni, del risarcimento del danno ovvero dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, il giudice dovrà chiedere al condannato la non opposizione al lavoro di pubblica utilità; in caso di risposta negativa, la seconda sospensione condizionale non potrà essere disposta e la pena dovrà essere eseguita.
L’articolo 2, infine, introduce un nuovo terzo comma all’art. 165, che precisa che le indicate previsioni del secondo comma non si applicano quando la condizionale venga concessa ai sensi del quarto comma dell’art. 163 (condizionale di un anno in caso di: pena non superiore ad analogo periodo, riparazione del danno prima della sentenza di primo grado; colpevole che si sia efficacemente adoperato per evitare o attenuare le conseguenze dell’illecito).
La norma sembra debba interpretarsi in relazione a quanto stabilito al comma precedente ovvero nel senso dell’inapplicabilità del secondo comma dell’art. 165 quando la prima sospensione condizionale della pena sia stata concessa ai sensi dell’art. 163, quarto comma.
L’articolo 3 della legge novella l’art. 179 c.p. relativo alle “Condizioni per la riabilitazione” accorciando, in particolare, i termini che la norma prevede debba decorrere (dall’esecuzione o estinzione della pena) ai fini della riabilitazione del condannato che abbia dato prove costanti ed effettive di buona condotta.
La riabilitazione è un istituto che il codice penale prevede per finalità di reinserimento sociale del condannato. Gli effetti della riabilitazione, infatti, consistono nella eliminazione delle conseguenze penali del commesso reato che, minorando la capacità giuridica del condannato, sono di ostacolo ad un suo pieno reingresso sociale ed allo svolgimento di una normale attività nel consorzio civile.
La riabilitazione, in particolare, estingue le pene accessorie ed ogni effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti (articolo 178 c.p.). Quanto agli effetti penali, la riabilitazione impedisce la declaratoria di recidiva, consente di beneficiare dell’amnistia, dell’indulto, ecc. La riserva contenuta nell’art. 178 (…salvo che la legge disponga altrimenti) si riferisce, invece, ai benefici della sospensione condizionale della pena, del perdono giudiziale e della non iscrizione della condanna nel certificato penale che, malgrado la riabilitazione, restano preclusi al condannato.
Le condizioni per la riabilitazione individuate dall’art. 179 c.p. sono: il decorso del termine; la buona condotta; la non sottoposizione a misure di sicurezza (esclusa l’espulsione dello straniero e la confisca); l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, fatta salva la dimostrazione dell’impossibilità personale.
In particolare, la riabilitazione in base al previgente art. 179 era concessa trascorsi 5 anni dal giorno in cui la pena principale fosse stata eseguita o si fosse in altro modo estinta ed il condannato avesse dato prove effettive e costanti di buona condotta.
Il termine era, invece, di 10 anni per recidivi (nei casi “aggravati” previsti dai capoversi dell'articolo 99 c.p.)[207] o delinquenti abituali, professionali o per tendenza e decorre dal giorno di revoca dell'ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro.
In presenza delle condizioni, la riabilitazione costituisce un vero e proprio diritto del condannato, intangibile da parte del tribunale di sorveglianza.
Mentre rimane inalterato (10 anni) il termine fissato per la riabilitazione dei delinquenti abituali, professionali e per tendenza, le novità sono le seguenti:
§ riduzione da 5 ad “almeno 3 anni” del termine ordinario;
§ riduzione da 10 ad almeno 8 anni” il termine per la riabilitazione dei recidivi.
Si passa, quindi, da un termine di durata fissa, rispetto al quale nulla era la discrezionalità applicativa del tribunale di sorveglianza, ad un termine diverso, fisso soltanto nel minimo e che il tribunale può anche differire in via discrezionale, sulla base di sue valutazioni (natura del reato, personalità del reo, ecc.)
La novella aggiunge, poi, un quarto ed un quinto comma all’art. 179 c.p. con i quali sono ugualmente accorciati i termini per ottenere la riabilitazione dei condannati che abbiano usufruito della sospensione condizionale della pena.
In base alla normativa previgente, chi aveva usufruito della sospensione condizionale della pena non poteva ottenere la riabilitazione prima di 10 anni dalla sentenza di condanna. Il termine utile per la riabilitazione (5 anni) iniziava, infatti, il suo decorso dalla estinzione del reato, che il condannato con la condizionale otteneva decorsi 5 anni dalla sentenza stessa.
In particolare:
§ in caso di condizionale concessa ai sensi dell’art. 163, commi 1, 2 e 3, il termine decorre dallo stesso momento da cui decorre il termine di sospensione della pena (quarto comma);
§ se la condizionale è quella “speciale” concessa ai sensi dell’art. 163, comma 4, la riabilitazione può essere accordata allo scadere del termine annuale di cui allo stesso comma 4, purchè siano presenti le condizioni di cui all’art. 179, comma 4 (buona condotta, non sottoposizione a misure di sicurezza - esclusa l’espulsione dello straniero e la confisca)[208].
L’articolo 4 della legge ha, poi, modificato l’art. 180 c.p., estendendo l’ambito operativo del tribunale di sorveglianza per la revoca della sentenza di riabilitazione da parte.
La norma vede, infatti, aumentati, da 5 a 7 anni (dalla sentenza di riabilitazione) i termini entro quali la revoca opera di diritto in caso di recidiva nel reato (non colposo) della persona riabilitata; è, di converso, ridotto da 3 a 2 anni il limite di reclusione minimo che, sempre ai fini della revoca di diritto, deve essere inflitto al recidivo.
La legge 145/2004, aggiunge, infine, un art. 18-bis alle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale (articolo 5).
La nuova disposizione prevede, in caso di svolgimento di lavoro di pubblica utilità ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, l’ordinaria osservanza delle norme procedurali davanti al giudice di pace in sede penale; il rinvio è alle disposizioni dettate dall’art. 44, 54, commi 2, 3, 4 e 6, e 59 del D.Lgs. 274/2000[209]
Le norme citate regoleranno, quindi, rispettivamente, la eventimodifica delle modalità di esecuzione del lavoro di pubblica utilità (art. 44); le modalità esecutive del lavoro (tempo complessivo minimo e massimo, luogo di esecuzione, orario giornaliero, determinazione delle modalità stesse con decreto del ministro della giustizia, d’intesa con la Conferenza unificata Stato-citta e autonomie locali) (art. 54); Controllo sull'osservanza dell'obbligo del lavoro di pubblica utilità (art. 59).
L’articolo 6 disciplina l’entrata in vigore della legge.
La legge20 luglio 2004, n. 189[210]ha introdotto nel sistema penale italiano una disciplina organica finalizzata alla tutela degli animali dalle diverse forme di maltrattamento, con specifica attenzione al fenomeno dell’impiego degli animali in combattimenti clandestini.
In precedenza, il principale strumento di tutela in questo settore era costituito dall'articolo 727 del codice penale - come modificato dalla legge 22 novembre 1993, n. 473,(Nuove norme contro il maltrattamento degli animali) e dalla legge 20 luglio 2004, n. 189,(Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate) -che inquadrava la fattispecie di reato di maltrattamento di animali. La norma disponeva una contravvenzione a carico di chiunque “incrudelisse verso animali o senza necessità li sottoponesse a strazio o sevizie o a comportamenti e fatiche insopportabili per le loro caratteristiche, ovvero li adoperasse in giochi, spettacoli o lavori insostenibili per la loro natura, valutata secondo le loro caratteristiche anche etologiche, o li detenesse in condizioni incompatibili con la loro natura o abbandonasse animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività”. La sanzione consisteva nell'ammenda da 2 a 10 milioni di lire ed era aumentata, fra l'altro, se il fatto causava la morte dell'animale o era comunque commesso con mezzi particolarmente dolorosi, fra i quali il comma 2 richiamava la mattazione o lo spettacolo di animali. L'art. 727 c.p. prevedeva poi una diversa contravvenzione per chiunque organizzasse o partecipasse a spettacoli o manifestazioni che comportassero strazio o sevizie per gli animali. Anche in questo caso l'ammenda andava dai 2 ai 10 milioni di lire. Infine, la norma del codice penale disponeva che qualora i fatti siano commessi in relazione all'esercizio di scommesse clandestine, la pena è aumentata della metà e la condanna comporta la sospensione della licenza di attività commerciale, di trasporto o di allevamento per almeno dodici mesi.
Già il TULPS (R.D. 18 giugno 1931, n.773) aveva disposto all'articolo 70 (Pubblici spettacoli) che "sono vietati gli spettacoli o trattenimenti pubblici che possono turbare l'ordine pubblico o che sono contrari alla morale o al buon costume o che comportino strazio o sevizie di animali." Il regolamento attuativo (R.D. 6 maggio 1940, n. 635) specificava all'art. 129 che "tra i trattenimenti vietati a termine dell'art. 70 della legge sono: le corse con uso di pungolo acuminato, i combattimenti tra animali, le corride, il lancio delle anitre in acqua, l'uso di animali vivi per alberi di cuccagna o per bersaglio fisso e simili". Successivamente però il d. lgs. 13 luglio 1994, n. 480 ha abrogato gli articoli 70 e 129 sopra riportati.
La legge 20 luglio 2004, n. 189, consta di 9 articoli.
L'articolo 1, al comma 1, inserisce, dopo il Titolo IX del Libro II del codice penale, il Titolo IX - bis, intitolato Dei delitti contro il sentimento per gli animali, composto da cinque nuovi articoli, (artt. 544-bis - 544-sexies).
Il nuovo articolo 544-bis c.p.(Uccisione di animali) punisce con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi chiunque per crudeltà o senza necessità cagiona la morte di un animale.
L'articolo 544-ter c.p. (Maltrattamento di animali) punisce con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro, chiunque per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale o lo sottopone a sevizie, o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche. La stessa pena è comminata a chi somministri agli animali sostanze stupefacenti o vietate o li sottoponga a trattamenti che provochino danno alla salute degli stessi. Si prevede infine un aumento della metà della pena qualora dai fatti di cui al comma 1 derivi la morte dell'animale.
L'articolo 544-quater c.p. (Spettacoli o manifestazioni vietati) punisce con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie, o strazio per gli animali. E' poi previsto un aumento della pena (da un terzo alla metà) se i fatti sopra descritti sono commessi in relazione all'esercizio di scommesse clandestine, o al fine di trarne profitto per sé o per altri o se ne deriva la morte dell'animale.
L'articolo 544-quinquies c.p. (Divieto di combattimenti tra animali) punisce con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50.000 a 160.000 euro chiunque promuove, organizza o dirige combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l'integrità fisica. Viene previsto un aumento di pena (da un terzo alla metà) nel caso in cui:
- le attività siano compiute in concorso con minorenni o da persone armate;
- se esse sono promosse utilizzando videoriproduzioni o materiale di qualsiasi tipo contenente scene o immagini dei combattimenti o delle competizioni;
- se il colpevole cura la ripresa o la registrazione in qualsiasi forma dei combattimenti o delle competizioni.
Viene poi prevista quale fattispecie autonoma di reato, fuori dei casi di concorso in quello sopra descritto, punita con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro, il fatto di chi, allevando o addestrando animali, li destini sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi, ai combattimenti sopra descritti. La stessa pena si applica ai proprietari e detentori degli animali impiegati in tali combattimenti e competizioni, sempre che siano consenzienti.
Infine, un'ulteriore fattispecie di reato, punita con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro, è quella del soggetto che, anche se non presente sul luogo del reato, fuori dei casi di concorso nel medesimo, organizza o effettua scommesse sui combattimenti e sulle competizioni.
L'articolo 544-sexies c.p. (Confisca e pene accessorie) stabilisce che, in caso di condanna o applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'articolo 444 c.p.p., per i delitti di cui agli articoli 544-ter, 544-quater e 544-quinquies è sempre ordinata la confisca dell'animale salvo che appartenga a persona estranea al reato. Viene poi disposta la sospensione da tre mesi a tre anni dell'attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o ex art. 444 c.p.p. è pronunciata nei confronti di chi svolge tali attività. In caso di recidiva è disposta l'interdizione dall'esercizio delle attività medesime.
Il comma 2 dell'articolo 1 della legge, interviene, a fini di coordinamento, sull'articolo 638 c.p. (Uccisione o danneggiamento di animali altrui) prevedendo che le disposizioni in questo contemplate si applichino salvo che il fatto costituisca più grave reato. Va ricordato che l'articolo 638 c.p. prevede che chiunque senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fini a 309 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno.
Il comma 3 del medesimo articolo 1 ha sostituito l'articolo 727 c.p., che prima disciplinava come contravvenzione i casi di maltrattamento di animali, per contemplare la nuova fattispecie di delitto di abbandono di animali, per cui è disposto l’arresto fino a un anno o l'ammenda da 1.000 a 10.000 euro per chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini alla cattività. La stessa pena viene applicata a chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura, o comunque produttive di gravi sofferenze.
L'articolo 2 della legge prescrive il divieto di utilizzo di pelli e pellicce di cane e gatto. Tale divieto concerne la produzione o il confezionamento di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e articoli di pelletteria costituiti od ottenuti, in tutto o in parte, dalle pelli e dalle pellicce dei medesimi, nonché il commercializzare o introdurre le pelli o pellicce dei medesimi in territorio nazionale. La pena stabilita è quella dell'arresto da tre mesi ad un anno o dell'ammenda da 5.000 a 100.euro (si tratta, pertanto, di un reato contravvenzionale). Alla condanna consegue in ogni caso la confisca e la distruzione del materiale sopra descritto.
L'articolo 3 modifica le disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale, approvate con R.D. 28 maggio 1931, n. 601, con l’inserimento di due nuove disposizioni.
Si tratta del nuovo articolo 19-ter, riguardante le leggi speciali in materia di animali, che stabilisce che le disposizioni del nuovo titolo IX bis del libro II del codice penale non si applichino ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché delle altre leggi speciali in materia di animali. Non si applicano inoltre alle manifestazioni storiche, culturali autorizzate dalla regione competente.
L'articolo 19-quater prevede che gli animali sequestrati o confiscati siano affidati ad associazioni o enti che ne facciano richiesta, individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell'interno - entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge in esame.
L'articolo 4 contiene norme di coordinamento. In primo luogo, modificando il comma 8 dell'articolo 4 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 116 (Attuazione della direttiva n. 86/609/CEE in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici), le violazioni del divieto di effettuare tutti gli esperimenti sotto anestesia generale o locale vengono punite con la reclusione da tre mesi ad un anno o con la multa da 3.000 a 15.00 euro (oltre che con la sanzione amministrativa), vale a dire con le sanzioni previste dal nuovo articolo 544 ter per il delitto di maltrattamento di animali, piuttosto che ai sensi dell'articolo 727 del c.p. Quest'ultimo, infatti, sostituito dal comma 3 dell'articolo 1, è diretto a sanzionare soltanto la fattispecie di abbandono di animali.
Viene poi abrogato, sempre a fini di coordinamento, il comma 5 dell'articolo 5 della legge 14 agosto 1991, n. 281 (Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo), che eleva nel minimo l'ammenda comminata per la contravvenzione di cui al primo comma dell'articolo 727 del codice penale, per una serie di violazioni concernenti gli animali.
Vengono infine apportate alcune modificazioni alla legge 12 giugno 1913, n. 611 (Provvedimenti per la protezione degli animali): è abrogato l'articolo 1 della legge citata, che proibisce gli atti crudeli su animali, l'impiego di animali che per vecchiezza, ferite o malattie non siano più idonei a lavorare, il loro abbandono, i giuochi che importino strazio di animali, le sevizie nel trasporto del bestiame, l'accecamento degli uccelli ed in genere le inutili torture per lo sfruttamento industriale di ogni specie animale. Modifiche di coordinamento sono poi dettate agli articoli 2 e 8 della legge medesima.
L’articolo 5 prevede che lo Stato e le regioni possono promuovere d’intesa attività formative senza che ciò comporti maggiori oneri a carico dello Stato mediante l’integrazione dei programmi didattici delle scuole e istituti di ogni ordine e grado in materia di etologia e rispetto degli animali, anche mediante prove pratiche.
L’articolo 6 contiene previsioni volte ad assicurare il rispetto della legge attraverso il coordinamento delle attività dei corpi preposti alla vigilanza, o degli enti locali. In particolare, le modalità di coordinamento delle attività della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di finanza, del Corpo forestale dello Stato e dei Corpi di polizia municipale e provinciale saranno individuate, entro tre mesi dall’approvazione della legge, con decreto del Ministro dell’interno, sentiti il Ministro delle politiche agricole e forestali e il Ministro della Salute (comma 1). L’attività di vigilanza, da cui non devono derivare nuovi o maggiori oneri per lo Stato e gli enti locali, sul rispetto della legge è inoltre affidata, con riguardo agli animali di affezione alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute, alle quali, nei limiti dei decreti prefettizi di nomina, sono riconosciute funzioni di polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 55 e 57 c.p.p. (comma 2). Pertanto, ai sensi dell’articolo 55 c.p.p., le guardie giurate dovranno, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale
L’articolo 7 riconosce finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla legge alle associazioni o enti, di cui all’art. 19-quater, disp. att. c.p., e quindi alle associazioni o enti individuati con decreto del ministero della salute, ai quali possono essere affidati gli animali sequestrati o confiscati. Da tale riconoscimento deriva la possibile applicazione dell’articolo 91 c.p.p. e quindi operarne l’equiparazione con la persona offesa.
L’articolo 8 della legge destina alla realizzazione delle finalità della legge le entrate derivanti dall’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste. In particolare, il comma 1 prevede che tali somme transitino nel bilancio dello Stato per essere riassegnate al Ministero della Salute per essere poi destinate alle associazioni o agli enti ex art. 19 dips.att.c.p.. entro il 25 novembre di ogni anno il Ministro della salute definisce il programma degli interventi per l’attuazione della legge e per la ripartizione delle somme.
Infine, l’articolo 9 riguarda l’entrata in vigore della legge.
L’articolo unico della legge 4 ottobre 2004, n. 254[211]mira alla repressione dellafalsificazione di francobolli non in corso.
Tale intervento normativo è finalizzato a tutelare l’interesse generale dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità di francobolli emessi dallo Stato anche se fuori corso, in considerazione del notorio valore collezionistico e commerciale che tali oggetti acquistano nel tempo e della tutela di un mercato che coinvolge migliaia di operatori economici e milioni di collezionisti.
E’ opportuno ricordare che la realizzazione di francobolli falsi fuori corso, italiani o stranieri, era considerata, fino all’entrata in vigore della legge, attività lecita e quindi non perseguibile penalmente.
Infatti, la tutela apprestata alla “fede pubblica” dall’art. 459 del codice penale attiene soltanto alle ipotesi di contraffazione, alterazione, introduzione nello Stato, acquisto, detenzione e messa in circolazione dei valori di bollo - tra i quali, rientrano, a norma del secondo comma, i francobolli - attualmente in corso; la tutela apprestata riguarda, quindi, l’autenticità di francobolli in uso, di valore certamente irrilevante rispetto a quelli fuori corso legale, più ricercati dai collezionisti. La norma intende, quindi, principalmente tutelare l’interesse fiscale dello Stato a produrre e a mettere in circolazione in regime di monopolio determinati oggetti tramite i quali incassa un tributo (marche da bollo, francobolli, eccetera”).
In base alla normativa previgente, pertanto, eventuali falsità commessi su francobolli fuori corso legale potevano eventualmente costituire (in presenza degli elementi che integrano il reato) una diversa figura di illecito penale (truffa, frode in commercio), ma non falso in valori bollati.
Finalità della legge è proprio quella di considerare le falsificazioni di valori bollati non in corso come reato inquadrato fra quelli contro la fede pubblica, alla stregua della falsificazione di moneta a corso legale.
A tale scopo, la legge 254/2004 non modifica direttamente il disposto dell’art. 459 c.p. - - bensì, integra il contenuto dell’art. 33[212] del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (TU delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni) che equipara, agli effetti degli artt. 459 e segg. c.p., i francobolli di Stato esteri a quelli nazionali.
E’ aggiunto, infatti, un comma aggiuntivo (il terzo) al citato art. 33 che estende ai francobolli non in corso, ma che hanno avuto corso legale, emessi sia dallo Stato italiano che da Stati esteri la stessa tutela penale apprestata dagli artt. 459, 460 e 461 c.p., con riduzione di un terzo delle pene previste.
L’art. 459 c.p. prevede che le condotte illecite di contraffazione, alterazione, introduzione nello Stato, acquisto, detenzione e messa in circolazione dei valori di bollo siano punite ai sensi degli artt. 435, 455 e 457 del codice penale[213], ma le pene richiamate sono ridotte di un terzo.
L’art. 460 c.p. stabilisce che chiunque contraffà la carta filigranata che si adopera per la fabbricazione delle carte di pubblico credito o dei valori di bollo, ovvero acquista, detiene o aliena tale carta contraffatta, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 309 a 1.032 euro
L’art. 461 c.p. prevede che chiunque fabbrica, acquista, detiene o aliena filigrane, programmi informatici o strumenti destinati esclusivamente alla contraffazione o alterazione di monete di valori di bollo o di carta filigranata è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 103 a 516 euro. La stessa pena si applica se le condotte indicate hanno ad oggetto ologrammi o altri componenti della moneta destinati ad assicurare la protezione contro la contraffazione o l'alterazione.
Va, peraltro, rilevato come l’art. 459 opera già una riduzione di un terzo delle pene previste dagli artt. 453, 455 e 457 nel caso in cui i reati di falsificazione si riferiscano a valori di bollo. Conseguentemente, secondo le previsioni della legge 254 (che stabiliscono la riduzione di un terzo delle pene previste), nel caso di francobolli fuori corso le pene irrogabili verrebbero ridotte di due terzi.
La legge 5 dicembre 2005, n. 251[214] (cd. ex Cirielli) ha introdotto rilevanti modifiche alle vigenti disposizioni penali e, soprattutto per la radicale revisione del sistema di calcolo della prescrizione dei reati, appare destinata ad incidere profondamente sul sistema penale nel suo complesso.
La legge, che ha avuto un iter travagliato ed è stata fonte di aperta e netta contrapposizione tra le forze politiche, consta di 10 articoli.
L’articolo 1 della legge 251/2005 interviene in tre distinti ambiti:
§ riscrive l’articolo 62-bis del codice penale in materia di attenuanti generiche confermando la disposizione attualmente in vigore[215] (comma 1) pur escludendone l’applicazione (comma 2) nei casi di reiterazione della recidiva a fronte di delitti particolarmente gravi (di cui all’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p.), puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni;
§ inasprisce le pene previste dall’articolo 416-bis del codice penale relativo al delitto di associazione di tipo mafioso; in particolare, la pena per gli aderenti all’associazione è la reclusione da 5 a 10 anni, quella per i promotori, i dirigenti e gli organizzatori la reclusione da 7 a 12 anni mentre in caso di associazione armata gli aderenti sono ora soggetti alla pena della reclusione da 4 a 10 anni e i promotori, i dirigenti e gli organizzatori alla reclusione da 10 a 24 anni;
§ inasprisce la pena prevista dall’art. 418 del codice penale relativo al delitto di assistenza agli associati, trasformando la reclusione fino a 2 anni in reclusione da 2 a 4 anni.
L’articolo 2 novella il primo comma dell’art. 644c.p., introducendo un aumento di pena, sia detentiva che pecuniaria, per il reato di usura; mentre il previgente articolo 644 c.p. sanzionava la suddetta fattispecie delittuosa con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 3.098 a euro 15.493, l’articolo 2 prevede una pena detentiva da due a dieci anni ed una pena pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro.
L’articolo 3 modifica il quarto comma dell’articolo 69 del codice penale in tema di concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti, prevedendo che il giudice non possa procedere ad un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti in caso di recidiva reiterata (art. 99, co. 4, c.p.), di determinazione al reato di persona non imputabile, non punibile (art. 111 c.p.), minore degli anni 18 o in stato di infermità o di deficienza psichica (art. 112, co. 1, n. 4).
L’articolo 4 riscrive l’articolo 99 del codice penale in tema di recidiva riconducendo l’istituto esclusivamente ai delitti non colposi (in luogo degli attuali reati) ed elevando da 1/6 a 1/3 l’aumento della pena che può essere inflitta per il nuovo delitto non colposo (comma 1). La disposizione prevede inoltre che, in circostanze particolari (delitto della stessa indole del precedente, delitto commesso entro 5 anni dalla condanna precedente, delitto commesso durante o dopo l’esecuzione della pena precedente ovvero quando il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena) la pena possa essere aumentata fino alla metà (comma 2) ovvero debba essere aumentata della metà se tali circostanze concorrono (comma 3). La recidiva reiterata dà normalmente luogo ad un aumento di pena della metà che diviene aumento di 2/3 in presenza delle circostanze indicate al comma 2 (comma 4). Ciò nonostante, la disposizione precisa che in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto (comma 4). Si prevede, inoltre, l’obbligatorietà dell’aumento di pena nella recidiva di delitti particolarmente gravi (di cui all’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p.), e che, in presenza delle circostanze di cui al comma 2, non possa essere inferiore ad 1/3 della pena da infliggere per il nuovo delitto.
L’articolo 5 interviene sull’articolo 81 del codice penale in materia di concorso formale e reato continuato prevedendo che in caso di recidiva reiterata l’aumento della pena non possa essere inferiore a 1/3 della pena stabilità per il reato più grave. Analogo aumento di pena va inflitto ai sensi dell’introdotto comma 2-bis dell’art. 671, in caso di più sentenze pronunciate in distinti provvedimenti contro la stessa persona che risulti recidivo reiterato
L’articolo 6, che costituisce il “cuore” del provvedimento, modifica una serie di disposizioni del codice penale, tutte relative all’istituto della prescrizione del reato.
In particolare:
§ riscrive l’articolo 157 del codice penale relativo al tempo necessario a prescrivere sostituendo il criterio precedente - delle classi di reato individuate per fasce di pena - con il criterio che equipara il tempo necessario a prescrivere al massimo della pena edittale stabilita dalla legge per ogni singolo reato, e precisando che comunque, in caso di delitto, il tempo necessario a prescrivere non può essere inferiore a 6 anni mentre in caso di contravvenzione non può essere inferiore a 4 anni. Al fine dell’applicazione del primo comma e quindi dell’individuazione del massimo della pena edittale, si stabilisce che non si debba tener conto né delle aggravanti né delle attenuanti, salvo che delle circostanze aggravanti ad effetto speciale (che comportano cioè un aumento della pena superiore ad un terzo, cfr art. 63 c.p., terzo comma) e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria. Analogamente, non si tiene conto della disciplina del concorso di circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 c.p. Se il reato è punito congiuntamente o alternativamente con pena pecuniaria si dovrà tener conto della sola pena detentiva, mentre in caso di pene di natura diversa il termine di prescrizione è fissato in tre anni.
Per i delitti colposi di danno (art. 449 c.p.), l‘omicidio colposo plurimo o commesso in violazione di norme del codice della strada (art. 589 c.p.) nonché per i reati di associazione mafiosa e di terrorismo, che di norma richiedono indagini molto più complesse, i termini di prescrizione, calcolati ai sensi del nuovo articolo 157 c.p., sono raddoppiati;
Gli ultimi due commi del nuovo articolo 157 prevedono, rispettivamente, che l’istituto della prescrizione sia sempre rinunciabile dall’imputato e che i reati puniti con la pena dell’ergastolo, sia direttamente sia nelle ipotesi in cui tale pena derivi dalla applicazione di una circostanza aggravante, sono in ogni caso imprescrittibili[216];
§ elimina ogni riferimento al reato continuato dall’articolo 158 c.p. relativo alla decorrenza del termine della prescrizione;
§ riscrive l’articolo 159 del codice penale in tema di sospensione del corso della prescrizione. Rispetto alla formulazione previgente, il testo prevede una sospensione anche in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori nonché nell’ipotesi di richiesta dell’imputato o del suo difensore: la norma sembrerebbe costituire ulteriore applicazione del principio enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 275 del 1990, con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’articolo 157 del codice penale, nella parte in cui non consentiva la rinunciabilità della prescrizione. Si è, inoltre, posto un limite alla durata della sospensione derivante da impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo che l’udienza non possa essere differita oltre il sessantesimo giorno[217] successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo, in caso contrario (di non fissazione, cioè, dell’udienza) al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni[218];
§ modifica l’articolo 160 del codice penale, in tema di interruzione del corso della prescrizione ribadendo che l’interruzione non può portare ad un prolungamento dei termini stabiliti dall’art. 157 oltre i termini fissati dall’art. 161, co. 2 – fatta eccezione per i gravi reati di associazione mafiosa e terrorismo di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. (v. infra);
§ riscrive il secondo comma dell’articolo 161 del codice penale in cui si individua un limite (variabile a seconda della tipologia di reato) all’aumento del tempo complessivamente necessario a prescrivere derivante da una interruzione o da una sospensione:
§ viene eliminato il riferimento all’istituto della sospensione;
§ si stabilisce che tale limite non si applichi nei casi di reati di associazione mafiosa e di terrorismo.
L’interruzione della prescrizione non può, comunque, comportare l’aumento di più di 1/4 del tempo necessario a prescrivere ovvero di più della metà in caso di recidiva aggravata dalle circostanze di cui all’art. 99, co. 2, di più di 2/3 in caso di recidiva reiterata, di più del doppio nei casi di delinquente abituale, professionale (artt. 102, 103 e 105 c.p.).
L’articolo 7 prevede una serie di interventi sulla legge 26 luglio 1975, n. 354, c.d. ordinamento penitenziario volti, in generale, ad inasprire le condizioni per la concessione di benefici penitenziari ai recidivi. In particolare, si stabilisce:
§ che la concessione di permessi premio ai detenuti incorsi in recidiva reiterata (art. 99, co. 4, c.p.) sia subordinata all’espiazione di determinate percentuali di pena (nuovo art. 30-quater O.P.);
§ che per i detenuti che hanno compiuto i settanta anni la pena della reclusione possa essere espiata in detenzione domiciliare. Restano esclusi da questa previsione i condannati con l’aggravante per recidiva, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza nonché i condannati per alcuni delitti particolarmente gravi (es. riduzione in schiavitù, reati connessi alla prostituzione minorile, reati sessuali, associazione mafiosa e reati connessi) (art. 47-ter O.P., co. 01);
§ che i condannati incorsi nella recidiva reiterata possano usufruire più limitatamente della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1 (donna incinta, genitore con prole di età inferiore a 10 anni, gravi condizioni di salute, ultrasessantenne parzialmente inabile, infraventunenne per particolari ragioni si salute, studio o famiglia); la reclusione, anche se residuo di pena maggiore, non può, infatti, superare i 3 anni anziché i 4 come nei casi ordinari (art. 47-ter, co 1.1);
§ con i condannati per alcuni delitti particolarmente gravi (di cui all’art- 4-bis OP), anche i condannati con recidiva reiterata sono ora esclusi dalla detenzione domiciliare concedibile, nei casi ordinari, in presenza di pena detentiva non superiore a 2 anni (anche se residuo di maggior pena) ed in assenza dei presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47-ter, co. 1-bis);
§ che il condannato incorso più volte nella recidiva possa accedere alla semilibertà soltanto dopo l’espiazione di 2/3 della pena , ovvero di 3/4 in caso di delitti particolarmente gravi (art. 50-bis O.P.); il limite per i casi ordinari è, invece, rispettivamente della metà e di 2/3 della pena (art. 50-bis)
§ che i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario non possano essere concessi a tutti coloro che siano stati riconosciuti colpevoli di evasione (la previgente previsione limitava il divieto ai soli condannati per uno dei gravi delitti di cui all’art. 4-bis, co. 1, OP); che alcuni benefici penitenziari non possano essere concessi più di una volta al condannato plurirecidivo (art. 58-quater).
L’articolo 8 della legge 251/2005 aveva introdotto nel TU sulla tossicodipendenza (DPR 309/1990) l’articolo 94-bis che prevedeva che, in caso di recidiva reiterata, il condannato potesse accedere ai benefici previsti dal testo unico una sola volta e solo se la pena detentiva inflitta o ancora da scontare non superasse i tre anni
Tale disposizione è, però, stata abrogata dall’articolo 4 del DL 30 dicembre 2005, n. 272, Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonche' la funzionalita' dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.
L’articolo 9, intervenendo sul comma 9 dell’art. 656, esclude che la sospensione dell’esecuzione della pena possa essere disposta nei confronti di chi sia incorso più volte nella recidiva.
L’articolo 10 dispone circa l’entrata in vigore della legge precisando che, salvo il favor rei, le nuove norme di cui all’articolo 6 riguardanti la prescrizione e il tempo necessario a prescrivere, non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano piu' lunghi di quelli previgenti.
Se, per effetto della nuova disciplina i termini di prescrizioni risultano invece più brevi, essi si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge (8 dicembre 2005) , ad esclusione dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche' dei processi gia' pendenti in grado di appello.
La legge 9 gennaio 2006, n. 7[219]detta le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile, quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine (art. 1).
Mentre, in base alla disciplina previgente, tali pratiche erano penalmente perseguibili nel nostro Paese, solo indirettamente, come lesioni personali (di solito gravi o gravissime) ai sensi degli articoli 582 e 583 del codice penale, la legge 7/2006 (art. 6) introduce nel codice penale un’autonoma fattispecie di reato (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, art. 583-bis) che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (clitoridectomia, escissione, infibulazione ed altre analoghe pratiche). Quando la mutilazione sia di natura diversa dalle precedenti e sia volta a menomare le funzioni sessuali della donna, la pena è la reclusione da 3 a 7 anni; una specifica aggravante (pena è aumentata di un terzo) è prevista quando le pratiche siano commesse a danno di un minore ovvero il fatto sia commesso a fini di lucro.
L’art. 583-bis – previa richiesta del ministro della giustizia - stabilisce la punibilità delle mutilazioni genitali femminili, anche se l’illecito è commesso all’estero da cittadino italiano (o da straniero residente in Italia) o in danno di cittadino italiano (o di straniero residente in Italia).
Pesanti pene accessorie sono previste dalla legge (nuovo art. 583 ter c.p.) nei confronti dei medici condannati per mutilazioni genitali, cui è inflitta l’interdizione dall’esercizio della professione per un periodo da 3 a 10 anni; della sentenza di condanna è data, inoltre, comunicazione all’Ordine dei medici chirurgi e degli odontoiatri.
L’art. 8 della legge introduce un nuovo art. 25-quater nel D.Lgs 231/2001[220] che sancisce l’irrogazione di specifiche sanzioni pecuniarie a carico degli enti nella cui struttura è commesso il delitto di cui all’art. 583-bis (da 300 a 700 quote); sono, inoltre previste sanzioni accessorie come l'interdizione dall'esercizio dell'attivita';la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli gia' concessi;il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Se, invece, l’ente (o una sua unità organizzativa) è utilizzato stabilmente o in prevalenza per la commissione o l’agevolazione delle pratiche illecite di mutilazione, l’ente stesso è interdetto definitivamente dall’esercizio dell’attività istituzionale.
Sono, inoltre, previste dalla legge campagne informative e di sensibilizzazione delle popolazioni in cui tali pratiche sono più diffuse nonchè una più adeguata formazione del personale sanitario.
Le campagne informative (art. 3) - per le quali sono stanziati 2 milioni di euro all’anno, a partire dal 2005 - sono rivolte agli immigrati al momento della concessione del visto e del loro ingresso in Italia informandoli dell’illeceità penale delle pratiche di mutilazione genitale; mirano a coinvolgere in iniziative di sensibilizzazione organizzazioni no-profit, strutture sanitarie e comunità di immigrati per sviluppare l’integrazione socioculturale; vogliono promuovere un aggiornamento degli insegnanti delle scuole dell’obbligo, anche avvalendosi di mediatori culturali, per diffondere la conoscenza dei diritti delle donne e delle bambine immigrate; mirano a monitorare presso le strutture sanitarie e i servizi sociali i casi pregressi già noti e rilevati localmente. Tale attività informativa è rivolta anche ai Paesi di provenienza degli immigrati nei quali si prevede, in accordo con i Governi locali, nell’ambito di programmi di coperazione internazionale, progetti di formazione e informazione volti a scoraggiare le mutilazioni ed a creare centri antiviolenza che possano assistere le giovani donne che intendano sottrarsi a tali pratiche (art. 7)
Per la formazione del nostro personale sanitario alla prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine vittime di tali pratiche, è prevista entro 3 mesi dall’entrata in vigore della legge, l’emazione di specifiche linee-guida da parte del Ministro della salute (art. 4).
Negli stessi tempi, e’, inoltre, prevista l’istituzione di un numero verde volto sia a ricevere segnalazioni che a fornire informazioni e assistenza ai soggetti coinvolti nella pratica delle utilazioni genitali femminili (art. 5).
La legge 13 febbraio 2006, n. 59[221]– una dei più controversi provvedimenti approvati nella XIV legislatura - mira ad estendere la portata applicativa dell’istituto della legittima difesa di cui all’art. 52 del codice penale.
Secondo la valutazione del legislatore, l’esigenza di intervento è nata dalla constatazione che la previgente disciplina non fosse in grado di garantire una tutela giuridica piena dei cittadini che si trovano in una situazione di pericolo imminente o nell'impossibilità di scongiurarlo attraverso il tempestivo intervento delle Forze dell'ordine. Si è inteso rimediare con la riforma a quella che è stata ritenuta una poco soddisfacente applicazione giurisprudenziale dell’art. 52 e, quindi, a risolvere la questione più controversa che pone l’istituto della legittima difesa ovvero, le modalità con cui si possono difendere alcuni beni e i limiti entro i quali tali beni possono essere tutelati.
Il previgente articolo 52 del codice penale attribuisce alla legittima difesa, così tutelando l’interesse di chi sia stato ingiustamente aggredito, la funzione di scriminante: le scriminanti (o cause di giustificazione) sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo impone o lo consente. In via generale può affermarsi che le scriminanti postulano un conflitto di interessi, il cui bilanciamento si risolve con la prevalenza dell’interesse attuabile mediante l’adempimento del dovere o l’esercizio del diritto, di valore superiore, ovvero, come nel caso specifico della legittima difesa, ingiustamente aggredito.
Il fatto scriminato è lecito sotto il profilo penale ed extrapenale (si pensi ad eventuali pretese di risarcimento del danno avanzate in sede civile), cioè per l’intero ordinamento giuridico, stante l’unitarietà dello stesso; perciò non giuridicamente sanzionabile e non impedibile (ad esempio mediante la legittima difesa).
Sotto il profilo sostanziale le scriminanti escludono l’offesa costituendo dei limiti alla tutela del bene giuridico. In presenza di esse manca l’offesa per la ragione, ad avviso della dottrina dominante, che il bene non è più tutelato dalla norma: vi sarà un’offesa materiale ma non un’offesa in senso giuridico perché, appunto, giustificata.
Le scriminanti vanno nettamente distinte tanto dalle cause di esclusione della colpevolezza, quanto dalle cause di esclusione della pena: in relazione a queste ultime in particolare, può affermarsi che mentre le cause di giustificazione ineriscono allo stesso fatto umano qualificandolo come lecito ab origine, le cause di esclusione della pena possono qualificarsi come situazioni esterne al fatto umano che non escludono il reato, ma in presenza delle quali il legislatore penale, ritiene che non si debba applicare, per ragioni di mera opportunità, alcuna sanzione.
Altrettanto netta è la distinzione con le cause di estinzione del reato che sopravvengono quando già la fattispecie delittuosa è perfezionata in tutti i suoi elementi, positivi e negativi.
Comuni sono definite le scriminanti previste dalla parte generale del codice per tutti i reati con esse compatibili, speciali, invece, quelle previste nella parte speciale o in leggi speciali per determinati reati.
Tra le scriminanti comuni particolare rilievo assume la legittima difesa, disciplinata all’articolo 52 del codice. Tale istituto è da sempre riconosciuto in tutti gli ordinamenti, non potendo il diritto ad un tempo tutelare un bene ed imporre al titolare il dovere di accettarne la distruzione: la scriminante si fonda, secondo la tesi dell’autotutela privata, sulla delega di funzioni di polizia da parte dello Stato, impossibilitato ad una difesa pubblica tempestiva e, secondo la tesi della lotta contro l’illecito, sulla non cedibilità del diritto di fronte ai fatti illeciti.
L’istituto in della legittima difesa, secondo la formulazione dell’art. 52 c.p. anteriore alla novella, si incentra su due poli: l’aggressione ingiusta e la reazione legittima.
Perché vi sia aggressione ingiusta occorrono i seguenti requisiti:
§ soggetto attivo dell’aggressione deve essere l’uomo , dovendo essa provenire dalla condotta umana o da animali o cose appartenenti all’uomo e, perciò, soggetti alla sua vigilanza;
§ tipi di aggressione: - prescindendo il codice dalla “violenza”, richiesta, invece, dal precedente e parlando genericamente di “offesa” – possono essere non solo una azione anche non violenta, ma altresì una omissione, contro la quale è pure ammessa la legittima difesa;
§ oggetto dell’aggressione deve essere un diritto, da intendersi in senso lato, comprensivo oltre che dei veri e propri diritti soggettivi, anche di qualunque situazione giuridica soggettiva attiva come, ad esempio, gli interessi legittimi. Oggetto dell’aggressione possono poi essere tutti i diritti personali e patrimoniali , in quanto la legittima difesa è ammessa non solo a favore dei primi, essendo stato l’ambito di applicazione della scriminante in esame notevolmente ampliato dal codice del ’30;
§ soggetto passivo dell’aggressione può essere, oltre al soggetto che si difende, anche un terzo: accanto alla difesa dei diritti propri è prevista la difesa dei diritti altrui, il c.d. “soccorso difensivo”;
§ il pericolo deve essere attuale, cioè la probabilità presente della lesione o di una maggiore lesione: attuale si considera sia il pericolo incombente, scaturente cioè da una situazione che, se non interrotta, sfocerebbe subito nella lesione del diritto, sia il pericolo perdurante, che si ha quando la lesione è in corso e possono pertanto essere evitati gli ulteriori sviluppi, ovvero quando la lesione non si è ancora consolidata, non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno;
§ l’offesa minacciata deve essere ingiusta, ovvero ingiustificata e non jure, arrecata, cioè, al di fuori di qualsiasi norma che la imponga o la autorizzi (quindi anche l’offesa ingiustificata proveniente da incapaci di intendere e di volere, quella proveniente da soggetti immuni, quella subita dal provocatore, nella ipotesi in cui la provocazione sia esaurita, etc); superato appare, invece, un orientamento più restrittivo in forza del quale si considerava ingiusta soltanto l’offesa antigiuridica, ovvero quella contra jus.
La reazione si considera legittima quando, oltre a cadere sull’aggressore, presenta i seguenti requisiti:
§ la necessità di difendersi: si ha quando il soggetto è nella alternativa tra reagire o subire, ovvero quando non può sottrarsi al pericolo senza offendere l’aggressore. Va determinata in rapporto alle circostanze concrete di luogo, di persona e attinenti al tipo di aggressione e, a rigore, non sussiste quando il soggetto ha una alternativa, potendo evitare l’offesa attraverso un’altra possibilità materiale, quale, ad esempio, la fuga. Tuttavia la stessa fuga, anche se materialmente possibile, può pregiudicare altri beni del soggetto, (quali la dignità personale o la salute), di terzi, pubblici;
§ la inevitabilità altrimenti del pericolo, ovvero la impossibilità del soggetto di difendersi con una offesa meno grave di quella arrecata: non basta che il soggetto si trovi nella necessità di difendersi, ma occorre che egli non possa evitare il pericolo se non attraverso quel fatto offensivo;
§ la proporzione tra difesa e offesa: si ha quando il male inflitto all’aggressore è inferiore, eguale o tollerabilmente superiore al male da questi minacciato: non basta che il soggetto si trovi nella necessità di difendersi e nella impossibilità di farlo se non con l’offesa arrecata, ma occorre che questa non sia sproporzionata al male che si vuole evitare.
La necessità, l’inevitabilità e la proporzione vanno valutate nella reale situazione concreta, attraverso un giudizio ex ante che deve avere, secondo la giurisprudenza, natura non meccanica-quantitativa, ma relativistica e qualitativa, sia perché un “di più” di reazione può rassicurare sulla efficacia della difesa, sia perché chi si difende non sempre è in grado di valutare il reale pericolo e gli effetti della propria reazione.
Tra le più rilevanti pronunce della Corte di cassazione in materia si segnalano: la sentenza delle Sezioni Unite n. 1 del 1953 in cui si afferma che, nel caso in cui il pericolo sia già in corso di attuazione ma non esaurito, è configurabile la legittimità della difesa, diretta ad evitare che il pericolo stesso si concreti in una offesa maggiore; la sentenza delle Sezioni Unite n. 7154 del 1972 in cui si chiarisce che la legittima difesa putativa è configurabile solo quando l’opinione soggettiva circa la sussistenza del pericolo, pur essendo erronea, sia tale da giustificare e spiegare l’errore dell’agente; la sentenza della I sezione n. 9695 del 1999 in cui si afferma che non è giustificabile una reazione quando l’azione lesiva sia ormai esaurita e che non può ritenersi legittimo l’uso di mezzi che non siano gli unici nella circostanza disponibili, perché non sostituibili con altri ugualmente idonei ad assicurare la tutela del diritto aggredito e meno lesivi per l’aggressore. Nella medesima sentenza n. 9695 si sostiene, poi, che il necessario requisito della proporzione fra offesa e difesa verrebbe meno, nel conflitto tra beni eterogenei, quando la consistenza dell’interesse leso (la vita o l’incolumità della persona) sia enormemente più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionalmente e penalmente protetti, di quella dell’interesse difeso (il patrimonio) ed il male inflitto all’aggredito (morte o lesione personale) abbia una intensità di gran lunga superiore a quella del male minacciato (sottrazione della cosa); la sentenza della I sezione n. 45407 del 2004 che, nel ribadire quanto affermato nella sentenza n. 9695 circa la proporzione fra offesa e difesa, stabilisce che ricorre l’ipotesi di eccesso colposo nella legittima difesa quando la giusta proporzione tra offesa e difesa venga meno per colpa, intesa come errore inescusabile, per precipitazione, imprudenza o imperizia nel calcolare il pericolo e i mezzi di salvezza. Si fuoriesce, sempre secondo la Corte, dall’eccesso colposo tutte le volte in cui i limiti imposti dalla necessità di difesa vengano superati in conseguenza della scelta deliberata di una condotta reattiva, la quale comporta il superamento, cosciente e volontario, dei suddetti limiti, trasfigurandosi in uno strumento di aggressione (nella fattispecie la Corte ha ritenuto che l’impiego di un fucile puntato in direzione del capo della vittima eccedesse i limiti della necessità di difendere il proprio bestiame da un tentativo di furto, e non potesse quindi attribuirsi ad un errore scusabile, bensì ad una condotta difensiva sproporzionata).
Si ricorda, infine, che il progetto di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione Nordio[222], quanto alla scriminante della difesa legittima, disciplinata all’articolo 30, disponeva:
§ è’ scriminato il fatto commesso da chi è stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa, tenuto conto di beni in conflitto, dei mezzi a disposizione della vittima e delle modalità concrete dell’aggressione.
§ non è scriminato il fatto di chi ha preordinato a scopo offensivo la situazione da cui deriva la necessità di difesa.”
La legge 59/2006 è diretta, mediante l’aggiunta di due nuovi commi all’articolo 52 del codice penale, a precisare i limiti del rapporto di proporzione tra difesa ed offesa, sia pure soltanto con riguardo al delitto di violazione di domicilio. Come precedentemente illustrato, infatti, la legittima difesa è consentita soltanto entro i limiti della proporzione rispetto alla offesa: ciò significa che la neutralizzazione dell’offesa è consentita solamente quando essa non comporta un sacrificio di un bene più rilevante (o di gran lunga più rilevante) di quello in pericolo.
Secondo la legge 59/2006, nei casi di violazione di domicilio il rapporto di proporzione si presume[223] nel caso una persona - legittimamente presente in uno dei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale (abitazione o altro luogo di privata dimora) o in altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale[224] - usi un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità, b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La necessità della sussistenza di tali requisiti (assenza di desistenza e pericolo d’aggressione), serve ad escludere situazioni che potrebbero suscitare reazioni allarmate per un eccesso di legittima difesa e, dall’altro, costituiscono indicazioni che non sono quelle ovvie di un pericolo incombente e forte per la propria incolumità individuale.
Il primo requisito avrebbe lo scopo di evitare che possano essere considerate come legittima difesa quelle reazioni dell’aggredito dirette a punire o a vendicarsi dell’aggressore in fuga (magari sparandogli mentre si sta allontanando), mentre il secondo elemento, quello del pericolo di aggressione, non può farsi coincidere con l’aggressione attuale, perché altrimenti la norma sarebbe quasi inutile; sembra, invece, si indichi una situazione nella quale non è esclusa la possibilità dell’aggressione ed è quindi giustificata la reazione.
Se è vero che il nuovo art. 52, rispetto al passato, incoraggia in misura maggiore reazioni armate all’intrusione nel domicilio, non vi è la certezza che in caso di effettiva reazione violenta, queste potranno automaticamente elidere conseguenze penali a carico della vittima della violazione di domicilio. Questo perché sarà comunque il magistrato a dover valutare la presenza degli elementi comunque necessari ad attivare la scriminante ovvero l’assenza della desistenza da parte del ladro o presunto tale ed il pericolo d’aggressione.
Va, infine, ricordato come nel corso dell'esame parlamentare abbia suscitato forti discussioni la disposizione che considera proporzionata anche la reazione diretta a difendere, con armi o altri mezzi idonei legittimamente posseduti, non solo la persona, ma anche beni propri o altrui; ciò, nonostante la legittima difesa, al contrario dello stato di necessità, sia una causa di giustificazione che tutela anche i beni patrimoniali.
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La legge 24 febbraio 2006, n. 85[225]interviene a modificare la disciplina penalistica dei cd. reati di opinione e associativi.
La filosofia alla base dell’intervento del legislatore è stata quella di mitigare il rigore della legge in presenza di condotte riconducibili alla libertà di manifestazione del pensiero, di opinione, di associazione e di iniziativa o di associazione politica; ciò, anche in considerazione del fatto che si tratta, in generale, di delitti, per lo più introdotti nel periodo fascista, chiaramente finalizzati alla repressione degli oppositori allo stato dittatoriale.
La legge 85/2005 prevede tre tipi di intervento su tali fattispecie penali:
§ in alcuni casi, si è proceduto ad una riformulazione della condotta, accompagnata da un adeguamento della sanzione penale alla reale gravità della medesima;
§ in altri casi, si è provveduto alla sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria;
§ in altri casi ancora, si è preferita l’abrogazione diretta delle fattispecie criminose.
L'articolo 1 della legge è diretto a modificare l'articolo 241 del codice penale, che punisce gli attentati contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità dello Stato.
La condotta illecita consiste in fatti diretti a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, a menomare l'indipendenza dello Stato, a disciogliere l'unità dello Stato. Il previgente art. 241 c.p. puniva il reato con l’ergastolo.
Rispetto alla precedente formulazione dell’art. 241, si precisa che la condotta, per essere penalmente rilevante, deve concretarsi in atti violenti. Inoltre, la pena dell'ergastolo viene trasformata in quella della reclusione non inferiore a dieci anni. Al fine di evitare lacune nella tutela penale, si è poi nserita la clausola secondo cui l'articolo 241 trova applicazione solo nel caso in cui il fatto non costituisca più grave reato.
E, infine, aggiunta una aggravante specifica consistente nella commissione dell’illecito con violazione dei doveri inerenti l’esercizio di pubbliche funzioni.
L'articolo 2 riformula la fattispecie di associazione sovversiva, di cui all'articolo 270 del codice penale.
La formulazione previgente dell’art. 270 prevedeva che chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni predette, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento.
Le novità del testo consistono nella eliminazione dell’anacronistico riferimento alla finalità delle associazioni di “stabilire violentemente una dittatura di una classe sociale sulle altre ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale” e nella diminuzione da 12 a 10 anni del limite massimo della pena edittale della reclusione.
All'articolo 3 è stata modificata la fattispecie del reato di attentato contro la Costituzione dello Stato di cui all’art. 283 del codice penale.
L’art. 283 c.p., nella precedente formulazione, stabiliva che chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato o la forma di Governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale è punito con la reclusione non inferiore a 12 anni.
Anche qui, come per l’art. 241, si è circoscritto l’ambito dell’illiceità penale alle sole condotte violente, fissando, peraltro, la pena edittale, notevolmente ridotta, solo nel minimo (reclusione non inferiore a 5 anni).
L'articolo 4 riformula l’art. 289 del codice penale, relativo al delitto di attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali.
La condotta illecita, punita dal previgente art. 289 con la reclusione non inferiore a dieci anni, è costituita da un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: al presidente della Repubblica o al Governo, l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge; alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali, l'esercizio delle loro.
Il fatto diretto soltanto a turbare l'esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni suddette era sanzionato con la reclusione da uno a cinque anni.
Anche in tale ipotesi, la legge limita la condotta penalmente rilevante alla violenza della condotta, abbassando notevolmente la sanzione prevista per l’illecito, ora stabilita nella reclusione da 1 a 5 anni. Scompare il riferimento all’illecito compiuto mediante turbativa.
L’articolo 5 riscrive l'articolo 292 del codice penale, in materia di vilipendio o danneggiamento alla bandiera od altro emblema dello Stato.
Rispetto al previgente art. 292, che puniva il vilipendio della bandiera nazionale o di un altro emblema dello Stato con la reclusione da uno a tre anni, viene precisato che la condotta è penalmente rilevante se il vilipendio è compiuto con espressioni ingiuriose oppure se questo si estrinsechi in condotte violente, quali la distruzione, la dispersione, il deterioramento e l’imbrattamento della bandiera nazionale; in queste ultime ipotesi, ai fini della punibilità, è necessaria - con il dolo - anche la pubblicità della condotta.
Una novità rilevante è poi la scelta che riserva la pena detentiva (reclusione fino a 2 anni) alle sole ipotesi di condotta violenta e di punire, invece, con quella pecuniaria (multa da 1.000 a 5.000 euro) le espressioni ingiuriose; all’aggravante del fatto commesso durante una cerimonia pubblica consegue l’aumento dell’entità della multa (da 5.000 a 10.000 euro). In tali ultime ipotesi, è, quindi, apparso eccessiva la privazione della libertà personale.
Viene espunta dall’art. 292 la possibile estensione della punibilità a chi vilipende i colori nazionali raffigurati su cosa diversa da una bandiera.
L'articolo 6 trasforma in contravvenzione, punita con l'ammenda (da 100 a 1.000 euro), il reato di offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero (art. 299 c.p.). L’art. 299 previgente puniva, invece, tale illecito con la reclusione da sei mesi a tre anni
Anche in questo caso si precisano le modalità della condotta illecita, punendo l’offesa alla bandiera estera che si manifesti attraverso espressioni ingiuriose.
L’articolo 7 della legge 85/20006, di modifica dell’art. 403 c.p. (ora rubricato “Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone”) appare una delle disposizioni di maggior rilievo dell’intero provvedimento.
Infatti, la previgente norma prevedeva: “Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la reclusione fino a due anni”. La reclusione da uno a tre anni era poi la pena per chi avesse offeso la religione dello Stato, mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico.Ne derivava, quindi, non tanto (nonostante l’espressione letterale) l’esistenza di una religione di Stato, ovvero la cattolica, quanto un trattamento di favore dal punto di vista sanzionatorio rispetto alle altre confessioni religiose ammesse nello Stato, peraltro testimoniato dall’attenuante di pena prevista dall’art. 406 c.p. (abrogato dall’art. 10 della legge) che prevedeva, tra la punibilità dei reati contro gli altri culti ammessi nello Stato, anche il vilipendio dei ministri di culto di altre religioni. In primo luogo, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte costituzionale relativa all'articolo 8 della Costituzione[226], con il nuovo art. 403 si sancisce che la fattispecie è diretta a tutelare non la religione dello Stato (per il nostro ordinamento quella cattolica non è più tale), ma ogni confessione religiosa.
In secondo luogo, si è optato per la pena pecuniaria anziché detentiva; mentre il previgente art. 403 sanzionava il reato con la reclusione fino a 2 anni, la nuova norma prevede la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro; la fattispecie aggravata del reato, ovvero l’offesa alla religione tramite vilipendio ad un ministro di culto, prima punita con la reclusione da 1 a 3 anni, è ora sanzionata con la multa da 2.000 a 6.000 euro.
L’articolo 8 riformula l’art. 404 del codice penale, ora rubricato: offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose e prima riferito alla sola religione dello Stato.
La nuova norma è modellata dal punto di vista sanzionatorio sull’art. 292, relativo al vilipendio della bandiera nazionale. Anche in tal caso, infatti, si riserva la pena detentiva (reclusione fino a 2 anni) alle sole ipotesi di condotta violenta (pubblica e intenzionale distruzione, dispersione, imbrattamento di cose oggetto di culto o destinate al culto) e si puniscono, invece, con la pena pecuniaria (multa da 1.000 a 5.000 euro) le espressioni ingiuriose riferite a cose che formino oggetto di culto.
Mentre l’art. 292 considerava come aggravante la commissione dell’illecito durante una pubblica ricorrenza o una cerimonia ufficiale, l’art. 404 considera la pubblicità della condotta ed il fatto commesso durante funzioni religiose elemento costitutivo del reato.
Gli articoli 9 e 10 della legge hanno natura di coordinamento normativo con le novelle introdotte agli articoli 403 e 404 del codice penale che sanciscono l’uguaglianza per lo Stato di tutte le confessioni religiose..
L’articolo 9 modifica, così, sia la rubrica che il primo comma dell’art. 405 c.p., ora relativo al turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa, espungendo il riferimento alla sola religione cattolica.
Il previgente art. 405 c.p. puniva con la reclusione fino a due anni chiunque avesse impedito o turbato l'esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l'assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico.
L’articolo 10 oltre ad abrogare il non più attuale art. 406 c.p. relativo ai delitti contro i culti (diversi da quello cattolico) ammessi nello Stato, adegua alle novità normative la rubrica del capo I, titolo IV, del libro secondo del codice penale, ora denominata “Dei delitti contro le confessioni religiose”.
L’abrogato art. 406 prevedeva che chiunque commettesse uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404 e 405 contro un culto ammesso nello Stato fosse punito ai termini dei predetti articoli, ma la pena fosse diminuita.
L'articolo 11 della legge, nei suoi tre commi, prevede la trasformazione della pena detentiva in pena pecuniaria per una serie di delitti, riguardo ai quali si è ritenuto opportuno non modificare la condotta, ma solamente la sanzione, anche in tali casi non ritenendosi giustificata la privazione della libertà personale.
Si tratta in particolare, dei delitti:
§ di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate (articolo 290 del codice penale). Alla reclusione da 6 mesi a 3 anni è sostituita la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro;
§ di vilipendio alla nazione italiana (articolo 291 del codice penale); Alla reclusione da 1 a 3 anni è sostituita la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro;
§ di oltraggio a Corpo politico, amministrativo o giudiziario (articolo 342 del codice penale). Alla reclusione fino a 3 anni per il reato base (primo comma) è sostituita la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro; alla reclusione da 1 a 4 anni nell’ipotesi aggravata (attribuzione du un fatto determinato) è sostituita la pena della multa da 2.000 a 6.000 euro.
In questi casi, il bene giuridico protetto dalla normativa vigente è parso comunque meritevole di tutela penale nonostante che le condotte non siano violente, estrinsecandosi in una forma di manifestazione del pensiero. Al contrario di altre ipotesi oggetto della legge, il bilanciamento di interessi ha portato a considerare prevalenti i beni giuridici di rilevanza costituzionale protetti dalla norma penale vigente rispetto al diritto di manifestazione del pensiero. Ciò che si è corretta è stata la valutazione dell'entità di quanto un interesse debba essere ritenuto prevalente sull'altro; tale scarto non è stato ritenuto tale da giustificare la privazione della libertà personale dell'autore del reato.
L'articolo 12 della legge 85/2006 abroga alcuni articoli del codice penale, le cui condotte non sono più considerate illecite bensì tutte riconducibili ad espressioni di manifestazione del pensiero.
Non costituiscono, pertanto, più reato le condotte di attività antinazionale del cittadino all'estero (articolo 269 c.p.), propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale (articolo 272 c.p.) e di lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica (articolo 279 c.p.). Inoltre sono state abrogate le aggravanti relative alle ipotesi in cui il fatto (offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica, vilipendio della bandiera e delle forze armate) sia commesso dal militare in congedo (articolo 292-bis c.p.) o dal cittadino in territorio estero (articolo 293 c.p.).
L’articolo 13 modifica l’art. 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, come modificato nel 1993 dalla cd. legge Mancino.
L’art. 3 previgente puniva con la reclusione da 1 a 4 anni la diffusione in qualunque modo di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico nonché l’incitamento alla discriminazione o all’odio o alla commissione di atti di violenza o di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Il nuovo art. 3 della legge 654 riduce notevolmente le sanzioni previste per l’illecito, ora anche di natura pecuniaria. Infatti, chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi è ora punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro.
Un’ulteriore modifica terminologica sostituisce il verbo “incitare” con quello “istigare”, con ciò definendo in modo più puntuale e meno generico la condotta punibile in sede penale.
Con l’articolo 14 è modificato l’art. 2 del codice penale recante disposizioni in materia di successioni di leggi penali nel tempo.
Dopo il secondo comma, è aggiunta una disposizione che stabilisce che se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, secondo le norme sul ragguaglio (art. 135 c.p.).
L‘ultimo articolo della legge prevede l’applicazione degli artt. 101 e 102 del D.Lgs. 507/1999[227], in quanto compatibili, alle depenalizzate violazioni in materia di reati d’opinione (articolo 15).
Si tratta in sostanza della procedura da seguire in caso di procedimenti (per illeciti depenalizzati) già definiti con sentenza irrevocabile ovvero in caso di procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge.
Ne deriva che se i procedimenti penali per le violazioni depenalizzate dalla legge 85/2006 sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice dell'esecuzione provvede senza formalità con ordinanza comunicata al PM e notificata all’interessato.
Se, invece, si è nella fase delle indagini preliminari e l'azione penale non è stata ancora esercitata, il pubblico ministero richiede l'archiviazione a norma del codice di procedura penale; la richiesta ed il decreto del giudice che la accoglie possono avere ad oggetto anche elenchi cumulativi di procedimenti.
Se l'azione penale è invece già stata esercitata, il giudice, ove l'imputato o il pubblico ministero non si oppongano, pronuncia, in camera di consiglio, sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Il drammatico susseguirsidi episodi di violenza, individuale e collettiva, consumati in occasione dello svolgimento di manifestazioni sportive, ha messo in evidenza, nel recente passato, l’insufficienza degli strumenti di prevenzione e repressione apprestati dall’ordinamento.
Il decreto-legge 20 agosto 2001, n. 336[228]convertito dalla legge 19 ottobre 2001, n. 377, è intervenuto su diversi piani - preventivo, repressivo, procedurale - sulla disciplina contenuta nella legge 13 dicembre 1989, n. 401, Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di competizioni agonistiche, legge–quadro sulla violenza negli stadi.
Gli articoli 6, 7 e 8 della legge 401/1989 hanno introdotto una prima disciplina legislativa per la repressione e la prevenzione dei fenomeni di violenza nelle manifestazioni sportive. Le norme citate hanno avuto lo scopo di combattere il fenomeno in tre distinti momenti temporali e secondo tre modalità:
§ impedire l'accesso ai luoghi di svolgimento delle competizioni agonistiche di soggetti pericolosi per l'ordine pubblico (art. 6);
§ sanzionare pecuniariamente i comportamenti di turbativa delle manifestazioni sportive (art.7);
§ vietare un nuovo accesso agli stadi di chi sia stato arrestato in flagranza per reati commessi durante o in occasione di manifestazioni sportive e successivamente rimesso in libertà (art. 8).
Le principali novità introdotte hanno riguardato:
§ l’ulteriore allargamento del novero dei destinatari delle misure interdittive (divieto di accesso agli stadi e zone limitrofe); in particolare, è stato esteso il divieto di accesso agli stadi alle persone denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi 5 anni: per violazione del divieto di usare caschi protettivi o altri mezzi atti a rendere difficile il riconoscimento (art. 5 della legge 152/1975[229]); per l’accesso ai luoghi delle manifestazioni con emblemi o simboli razzisti (art. 2, comma 2, del D.L. 122/1993[230]); per aver lanciato corpi contundenti, razzi o altri artifizi pirotecnici o comunque oggetti idonei ad offendere la persona o, ancora, per aver superato le recinzioni o aver invaso il campo di gioco, quando il fatto possa recare pericolo a terzi (nuovi illeciti penali previsti dall’art. 6-bis della legge n. 401/1989, inserito dallo stesso decreto-legge 336/2001);
§ l’inasprimento delle prescrizioni imposte dal questore: l’ordine emesso dal questore nei confronti dei soggetti cui è stato vietato l’accesso ai luoghi di svolgimento delle manifestazioni sportive[231] può ora stabilire la loro comparizione presso gli uffici di polizia una o più volte negli orari indicati. Quindi una eventuale comparizione plurima nelle 24 ore e non più limitata all’orario in cui si giocano le partite o le altre gare sportive;
§ l’introduzione di una norma di garanzia per i soggetti intimati che stabilisce, in sede di notifica del provvedimento, l’obbligo di avvisare l’interessato della sua facoltà di presentare memorie difensive al G.I.P. La previsione è riconducibile a quanto stabilito dalla sentenza n. 144/1997 della Corte costituzionale[232];
§ l’aumento (da uno a tre anni) della durata massima del divieto di accesso agli stadi e degli obblighi di comparizione;
§ la possibile applicazione da parte del giudice, in sede udienza di convalida dell’arresto, delle ulteriori misure coercitive previste dagli articoli 282 (Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria) e 283 (Divieto e obbligo di dimora) del codice di procedura penale, anche al di fuori dei limiti di cui all’articolo 280 del medesimo codice;
§ l’introduzione nell’ordinamento di due nuovi reati che puniscono:
- il lancio di corpi contundenti o altri oggetti (compresi gli artifizi pirotecnici) in modo da creare un pericolo per le persone, nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, ovvero in quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alla manifestazioni medesime (reclusione da sei mesi a tre anni);
- lo scavalcamento (di una recinzione o separazione dell’impianto) nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, e l’invasione del terreno di gioco, nel corso delle manifestazioni medesime, se dal fatto derivi pericolo per le persone (arresto fino a sei mesi o ammenda da trecentomila a due milioni di lire);
§ Il ricorso ordinario al giudizio direttissimo per il perseguimento dei reati e delle contravvenzioni oggetto del provvedimento, salvo il caso in cui siano necessarie speciali indagini;
§ l’applicabilità della disciplina della legge 401/1989 anche in relazione ai fatti commessi durante le trasferte verso i luoghi di svolgimento delle manifestazioni sportive;
§ l’incremento di pena per i reati di porto d'armi abusivo o di oggetti pericolosi durante le manifestazione sportive, ottenuto modificando l’art. 4 della cd. legge Reale 152/1975 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico).
Il perpetuarsi di gravi episodi di violenza, in particolare, durante lo svolgimento di partite dei diversi campionati di calcio ha indotto poi il Governo ad intervenire sulla disciplina anti-teppismo con un nuovo provvedimento d’urgenza, il decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, convertito dalla legge 24 aprile 2003, n. 88.
Il decreto introduce modifiche alla legge quadro 401/1989 volte a migliorare ulteriormente gli strumenti di prevenzione e repressione della violenza negli stadi; il provvedimento, in particolare, prevede il cd. arresto differito dei tifosi violenti, individuato come il mezzo normativamente più idoneo per contrastare un fenomeno in continua espansione. Tal istituto – anche a seguito dei numerosi dubbi di legittimità costituzionale - è però stato reso transitorio in sede di conversione del decreto-legge: la sua applicabilità (come quella dell’applicazione di misure coercitive al di fuori dei limiti edittali, v. ultra) è così stata inizialmente limitata al 30 giugno 2005.
Il provvedimento aggiunge un nuovo comma 1-bis (art. 1) all’art. 8 della legge 401/1989.
L’articolo 8 della legge 401/1989 stabilisce che nei casi di arresto in flagranza o di arresto eseguito per un reato commesso durante o in occasione di manifestazioni sportive ovvero per violazione delle misure interdittive disposte dal questore, i provvedimenti di remissione in libertà conseguenti a convalida di fermo e arresto o di concessione della sospensione condizionale della pena a seguito di giudizio direttissimo potessero contenere prescrizioni in ordine al divieto di accedere ai luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive (comma 1).
Il comma 1-bis prevedeva, nel caso di reati commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, nell'ipotesi in cui già non si applichino gli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale (ovvero nei casi di arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza) e per quelli di cui all'articolo 6-bis, comma 1, della legge (lancio di materiale pericoloso) l’applicazione degli articoli 381 (sull’arresto facoltativo in flagranza) e 384 (sul fermo) del codice di procedura penale.
Le disposizioni del comma 1-bis si applicano anche per il contravventore incorso nella violazione delle misure interdittive disposte dal questore, di cui all'articolo 6, comma 1 (comma 1-ter).
Il nuovo comma 1-bis dell’art. 8 della legge 401/1989 consente l’arresto - oltre che, degli autori delle violenze a persone o cose - anche di coloro che lancino materiale pericoloso nei luoghi di svolgimento delle gare sportive (art. 6-bis, comma 1) ovvero che violino le misure interdittive disposte dal questore (divieto di accesso agli stadi e zone limitrofe, art. 6, comma 1; obbligo di comparizione e di firma presso gli uffici di polizia, art. 6, comma 2).
Come accennato, la principale novità del decreto consiste, però, nel possibile utilizzo, da parte della polizia giudiziaria, ai sensi del nuovo comma 1-ter dell’art. 8 della legge 401, dello strumento dell’arresto in flagranza differita degli autori degli illeciti di cui al sopradescritto comma 1-bis. Tale possibilità di arresto, fuori dei limiti ordinari della flagranza o della cd. quasi flagranza, è riconosciuta, quindi, oltre che nei confronti degli autori delle violenze, anche nei confronti dei “lanciatori” di oggetti contundenti e comunque pericolosi ovvero di chi nonostante il divieto del questore acceda ai luoghi di svolgimento delle manifestazioni sportive o non rispetti l’obbligo di comparizione presso gli uffici di P.S.
Oltre alla citata limitazione temporale al 30 giugno 2005 (l’efficacia della misura è stata, successivamente, differita di 2 anni dal D.L. 115/2005, v. ultra) l’arresto in flagranza differita risponde ad ulteriori limiti.
Le forze dell’ordine possono, infatti, procedere all’arresto degli autori dei reati indicati anche al di fuori degli stadi in presenza di specifiche condizioni (nuovo comma 1-ter):
§ non debbono essere trascorse più di 36 ore dall’avvenuto illecito
§ deve risultare impossibile procedere all’arresto immediato per motivi di sicurezza o incolumità pubblica;
In relazione a tale aspetto, la stessa relazione di accompagnamento al decreto-legge faceva presente come l’arresto differito rispondesse anche ad esigenze di garanzia del cittadino: Infatti, “si deve tener conto dell’estrema complessità del contesto ambientale in cui è chiamata ad operare la polizia giudiziaria” e che a volte un provvedimento restrittivo immediato può essere “potenzialmente idoneo a provocare reazioni che potrebbero coinvolgere - anche con conseguenze gravi - persone estranee ai fatti violenti”.
§ la prova del commesso reato deve emergere inequivocabilmente da documentazione video-fotografica o da altri elementi oggettivi.
Il comma 1-quater mira al coordinamento del contenuto del nuovo art. 8 della legge 401/1989 con le disposizioni del codice di rito penale relative all’arresto.
Lo scopo è quello di evitare che una persona arrestata in base alle previsioni del decreto-legge possa poi riacquistare la libertà a causa dell’impossibilità di disporre misure coercitive (in tal caso, reclusione e arresti domiciliari) per tali reati, in quanto aventi limiti edittali di pena insufficienti.
A tal fine si prevede la possibilità di svincolare l’applicazione delle misure coercitive dai limiti di pena indicati dagli articoli 274 (Esigenze cautelari), comma 1, lett. c) e 280 (Condizioni di applicabilità delle misure coercitive) del codice processuale penale (limite non inferiore nel massimo a quattro anni per la custodia cautelare in carcere e superiore nel massimo a tre anni per gli arresti domiciliari). Anche tale disposizione, come accennato, ha visto limitare la sua applicabilità alla data del 30 giugno 2005.
Per esigenze di coordinamento normativo con le nuove disposizioni introdotte dal provvedimento, sono soppressi il secondo e il terzo periodo del comma 6 dell’articolo 6 della legge 401/89.
L’art. 6, comma 6 della legge 401/1989 prevedeva (secondo e terzo periodo) che nei confronti delle persone che avessero contravvenuto alle misure interdittive disposte dal questore fosse consentito l'arresto nei casi di flagranza. Nell'udienza di convalida dell'arresto, il giudice, in presenza dei presupposti, disponeva l'applicazione delle misure coercitive previste dagli articoli 282 (Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria) e 283 (Divieto e obbligo di dimora) del codice di procedura penale, anche al di fuori dei limiti di applicabilità di cui al citato articolo 280 del medesimo codice.
In sede di conversione del decreto-legge è stato poi aggiunta una disposizione che aggiunge un art. 6-ter alla citata legge quadro 401/1989 e che ha introdotto una nuova fattispecie contravvenzionale.
La norma punisce con l’arresto da 3 a 18 mesi e l’ammenda da 150 a 500 euro chiunque venga trovato in possesso di artifizi pirotecnici (razzi, bengala, petardi, fumogeni, ecc,) nei luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive.
Oltre alla limitazione al 30 giugno 2005 dell’efficacia dei commi 1-ter e 1-quater dell’art. 8 della legge 401 (art. 1-bis del D.L.), il decreto prevede poi:
1) il differimento o divieto di manifestazioni sportive da parte del Prefetto “per urgenti e gravi necessità pubbliche connesse allo svolgimento delle manifestazioni sportive” (nuovo art. 7-bis, legge 401/1989, art. 1-ter del D.L.))
2) l’introduzione di precise disposizioni in ordine all’organizzazione delle gare ed ai requisiti dell’impianto sportivononchè all’emissione di biglietti in numero congruo alla capienza dell’impianto (art. 1-quater del D.L.)
Vengono ora previsti:
a) la numerazione dei titoli di accesso agli impianti sportivi con capienza superiore a diecimila unità;
b) l'ingresso agli impianti mediante varchi dotati di metal detector per la rilevazione di strumenti di offesa nonché di apposite apparecchiature per la verifica elettronica della regolarità del titolo di accesso;
c) la presenza negli impianti di strumenti per la rilevazione televisiva delle aree riservate al pubblico all'interno dell'impianto e nelle sue immediate vicinanze;
d) l'istallazione nell'impianto «di mezzi di separazione che impediscano che i sostenitori delle due squadre vengano in contatto tra loro o possano invadere il campo».
Mentre l’obbligo di rilevazioni televisive era previsto a decorrere dal 1° agosto 2004, le disposizioni relative alla numerazione dei biglietti, ai metal detectors e alla separazione delle tifoserie si sarebbero dovute applicare decorsi due anni dalla data di entrata in vigore del decreto (e cioè a partire dal 25 febbraio 2005).
In realtà, tali termini non sono stati rispettati per il ritardo della disciplina di attuazione la cui emanazione era prevista con decreti del ministero dell’interno (sentito il ministro per i Beni e le attività culturali, il ministro per l'Innovazione e il Garante per la protezione dei dati personali) rispettivamente entro 6 mesi (per l'attuazione delle disposizioni di cui alle lettere a), b) e d) e 4 mesi (per le disposizioni sub c), decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (25 aprile 2003).
Le previsioni dell’art. 1-quater del D.L 28/2003 sono poi state attuate con l’emanazione di tre decreti del Ministro dell’interno (DM 6 giugno 2005):
§ il primo reca modifiche e integrazioni al D.M. 18 marzo 1996, relativo alle norme di sicurezza per la costruzione e l'esercizio degli impianti sportivi ;in particolare si prevedono sistemi di separazione tra tifoserie e tra zona spettatori e zona attività sportiva, aree di sicurezza, varchi, vie di esodo, sicurezza antincendio, norme per la gestione dell’ordine pubblico all’interno dell’impianto, ecc.;
§ il secondo detta le modalità per l'emissione, distribuzione e vendita dei titoli di accesso agli impianti sportivi di capienza superiore alle diecimila unità, in occasione di partite di calcio; in particolare i biglietti, tutti numerati, dovranno recare le generalità dell’utilizzatore, l’indicazione della partita per cui è valido il biglietto ed il periodo di validità, l’indicazione del posto assegnato e del numero di varco d’accesso agli spalti da utilizzare nonchè altre specifiche diciture, tra cui quelle anticontraffazione; le società non potranno vendere biglietti oltre le ore 19 del giorno precedente la partita.
§ il terzo decreto delinea le modalità per l'installazione di sistemi di videosorveglianza negli impianti sportivi di capienza superiore alle diecimila unità, in occasione di partite di calcio; in particolare, è stabilito che le riprese dovranno garantire una completa visuale sia all’interno che all’esterno dell’impianto, sono fissate le fasce orarie delle registrazioni, i tempi di custodia, i limiti di accessibilità alle immagini nonché, nel rispetto della disciplina della privacy, gli obblighi di informazione sulla videosorveglianza.
Il quadro delle nuove disposizioni sull'organizzazione delle manifestazioni sportive si completa e rafforza con la previsione (art. 1-quinquies del D.L.) di una pluralità di illeciti amministrativi, sia in relazione alla violazione delle predette disposizioni, specificamente rappresentate da manifestazioni calcistiche, sia relativi a ulteriori comportamenti giudicati dal legislatore quali fonti di pericolo per l'ordinato svolgimento delle manifestazioni stesse.
Appartengono alla prima tipologia di sanzioni:
§ la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.582 a 10.329 euro, per la mancata numerazione dei titoli di accesso;
§ la sanzione da 5.164 a 25.822 euro, per la mancata istallazione di metal detector ovvero di apparecchi di verifica elettronica dei titoli di accesso;
§ la sanzione da 10.329 a 51.645 euro per la mancata istallazione di impianti di registrazione televisiva ovvero di mezzi di separazione tra opposte tifoserie;
§ la revoca delle concessioni per l'utilizzo degli impianti sportivi, quale sanzione accessoria nel caso di violazione di taluna delle disposizioni già citate.
Viene, inoltre, opportunamente precisato che, nel caso delle predette violazioni, gli impianti non adeguati «comunque non possono essere utilizzati per ospitare incontri di calcio organizzati dalla Federazione italiana gioco calcio».
Sembrerebbe, dunque, possibile affermare che l'adempimento delle prescrizioni ora introdotte, entro il termine prescritto, costituisca requisito per l'utilizzabilità dell'impianto per partite di calcio ufficiali, e ciò indipendentemente dalla constatazione (o meno) della violazione.
Ulteriori sanzioni amministrative appartengono alla seconda tipologia sopra individuata, la prima di esse a carico del soggetto organizzatore, le altre due interessanti anche i semplici spettatori:
§ la sanzione pecuniaria da 10.000 a 150.000 euro, per l'emissione di titoli di accesso o per l'ingresso di spettatori in numero superiore a quello dei posti dell'impianto o di un suo settore;
§ la sanzione pecuniaria da 103 a 516 euro, nei confronti di «chiunque occupa indebitamente percorsi di smistamento o altre aree di impianti sportivi», ovvero nei confronti di chi «accede indebitamente all'interno di un impianto sportivo».
E’ successivamente intervenuto sulla disciplina antiviolenza negli stadi il decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalita' di settori della pubblica amministrazione, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168, che (art. 6, comma 1) - modificando l’art. 1-bis del D.L. 28/2003 (L. 88/2003) – ha, come accennato, disposto la proroga di due anni (dal 30 giugno 2005 al 30 giugno 2007) dell’efficacia delle disposizioni dell’art. 8 della legge 401/1989; a seguito della novella introdotta col D.L. 28/2003, tali disposizioni consentono l’arresto in flagranza differita degli autori di violenze commesse durante le manifestazioni sportive nonché la possibilità di svincolare dal rispetto dei limiti ordinari l’applicazione delle misure coercitive nei loro confronti.
Il DL 17 agosto 2005, n. 162, Ulteriori misure per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2005, n. 210 ha, in seguito, previsto:
§ l’inasprimento delle pene per il lancio di oggetti o per l’invasione di campo quando ne derivi un danno alle persone, oppure quando la manifestazione sportiva venga sospesa per vandalismi;
§ l’estensione, in condizioni di reciprocità, dell’applicabilità delle citate misure interdittive alle gare sportive che si svolgano all’estero;
§ la prescrizione da parte dello stesso giudice, in sede di sentenza di condanna, del divieto di accesso allo stadio e della comparizione obbligatoria del tifoso violento negli uffici di polizia.
Il decreto ha, più in generale, inteso infine coordinare la disciplina sopradescritta con quella introdotta dai tre decreti emanati dal ministero dell’interno il 6 giugno 2005 nonché con le direttive impartite dalle federazioni internazionali sulla sospensione, interruzione e cancellazione delle gare.
Da ultimo, è intervenuto l’articolo 39-ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, cd. proroga termini (convertito dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) che ha previsto il differimento alla prossima stagione calcistica (2006-2007) dell’adozione delle misure di sicurezza per gli impianti sportivi previsti dal citato D.M. interno 6 giugno 2005.
Il D.M. prevedeva che le nuove disposizioni in materia di sicurezza entrassero in vigore, a regime, a partire dalla data di inizio della stagione calcistica 2005-2006; tale termine era, quindi, in ogni caso, già abbondantemente decorso.
La legge 21 febbraio 2006, n. 102[233], allo scopo di contrastare più efficacemente il fenomeno dell’aumento delle vittime degli incidenti stradali, è diretto ad inasprire il quadro delle sanzioni applicabili alle fattispecie riconducibili agli incidenti citati, nonché ad introdurre nuove disposizioni per assicurare un più celere svolgimento dei processi penali e civili in materia e per allargare l’ambito di applicazione del risarcimento alle vittime degli incidenti medesimi.
L’articolo 1 novella, anzitutto, il comma 2 dell’art. 222 del D.lgs 30 aprile 1992, n. 285, Nuovo codice della strada, elevando le sanzioni amministrative accessorie inflitte dal giudice in seguito a condanna per violazione delle norme sulla circolazione stradale.
L’art. 222 citato prevede, infatti, che se da una di tali violazioni derivino danni alle persone, il giudice applica con la sentenza di condanna le sanzioni amministrative pecuniarie previste, nonche' le sanzioni amministrative accessorie della sospensione o della revoca della patente.
Il nuovo comma 2 del citato art. 222, quando dal fatto derivi una lesione personale colposa grave o gravissima, aumenta fino a 2 anni, stabilendolo solo nel massimo, il periodo di sospensione della patente, prima fissato da un minimo di 1 ad un massimo di 6 mesi. Analogamente, nel caso di omicidio colposo la sospensione – prima stabilita tra 2 mesi ed un anno -. e' ora elevata, nel solo limite massimo, fino a 4 anni.
In tale ultima ipotesi (sospensione di 4 anni della patente per omicidio colposo) un comma aggiuntivo (2-bis) stabilisce ora che la condanna a seguito di patteggiamento (art. 444 c.p.p.) comporta una diminuzione della sospensione fino ad un massimo di 1/3.
Con l’articolo 2 della legge – di modifica degli artt. 589 e 590 del codice penale - vengono elevate sia nel minimo che nel massimo le sanzioni edittali previste per i reati di omicidio colposo (art. 589) e di lesioni personali colpose gravi e gravissime (art. 590) commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale (e di quelle sulla prevenzione degli incidenti sul lavoro):
§ la pena della reclusione per l’omicidio colposo è elevata nel minimo, passando dal previgente limite (da 1 a 5 anni) a quello attuale da 2 a 5 anni;
§ la pena per il reato di lesioni personali colpose gravi, prima fissata nella reclusione da 2 a 6 mesi e nella multa da 247 a 619 euro, è ora aumentata nella reclusione da 3 mesi ad 1 anno o la multa da 500 a 2.000 euro;
§ la pena per le lesioni personali colpose gravissime è, invece, stabilita nella sola reclusione, fissata tra un minimo di 1 ed un massimo di 3 anni. I previgenti limiti di pena consistevano nella reclusione da 6 mesi a 2 anni o nella multa da 619 a 1.239 euro.
Una disposizione di natura processuale è prevista dall’articolo 3 della legge 102. E’, infatti, stabilita nelle cause di risarcimento per morte e lesioni conseguenti a sinistri stradali, l’adozione della più celere disciplina del rito del lavoro.
L’articolo 4 introduce una serie di commi aggiuntivi ad articoli del codice processuale penale volti all’abbreviazione di termini di durata delle indagini preliminari e fissazione della data del giudizio:
§ il comma 2-ter dell’art. 406 c.p.p. mira a ridurre la durata delle indagini preliminari per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale; la norma prevede che la eventuale proroga di 6 mesi per giusta causa possa essere chiesta una sola volta;
§ il comma 2-bis dell’art. 416 c.p.p. introduce un termine di 30 gg. dalla chiusura delle indagini per il deposito della richiesta di rinvio a giudizio per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale;
§ il comma 3-bis dell’art. 429 c.p.p. fissa, in relazione a procedimenti per omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, un termine massimo di 60 gg tra la data del decreto di rinvio a giudizio e quella fissata per il giudizio (l’unico termine fissato era quello “minimo” di 20 gg.);
§ i commi 1-bis e 1-ter dell’art. 552 introducono, rispettivamente - per i procedimenti per lesioni personali colpose gravi e gravissime commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale - : a) un termine massimo di 30 gg. (dalla chiusura delle indagini) per l’emissione del decreto di citazione a giudizio davanti al tribunale monocratico; b) un termine massimo di 90 gg. (dall’emissione del decreto di citazione) per la comparizione dell’imputato davanti al giudice.
Anche sul fronte dei risarcimenti da sinistri stradali, la legge presenta cambiamenti sostanziali (articolo 5); è, infatti, aggiunto un comma all’art. 24 della legge 990/1969[234] secondo il quale tutte le volte che emergeranno delle gravi responsabilità a carico della controparte, anche dopo le prime sommarie indagini, sarà possibile vedersi riconosciuto subito una provvisionale, che oscillerà tra il 30 ed il 50% della somma presumibilmente ottenibile in qualità di risarcimento con la sentenza.
Infine, si segnala un’ultima novità circa gli obblighi del condannato alla reclusione per delitto colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale (nuovo art. 224 del Codice della strada).
Il colpevole potrà, infatti, essere punito anche con la sanzione amministrativa accessoria dell’attività non retribuita in favore della collettività (cd. lavoro di pubblica utilità) da svolgere presso lo Stato, gli enti locali od organismi no-profit (articolo 6).
Il contenuto della norma è modellato sulle previsioni dell’art. 54 del D.Lgs 274/2000[235] relativo alla competenza penale del giudice di pace, che contiene la disciplina sostanziale sul lavoro di pubblica utilità e la cui disciplina è esplicitamente richiamata (art. 56) in relazione alle violazioni degli obblighi del condannato.
L’art. 54 del D.Lgs 274/2000 prevede che il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell'imputato.
Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato.
L'attività viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali.
La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore.
Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.
Fermo quanto previsto dall’articolo 54, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d'intesa con la Conferenza unificata Stato-città ed autonomie locali.
I punti di novità dell’art. 6 della legge rispetto alla indicata disciplina generale consistono nella unilateralità della decisione del giudice (il lavoro di pubblica utilità applicato dal giudice di pace in sede penale deve essere, invece, richiesto dall’imputato), nella fissazione di una durata minima maggiore dell’attività (un mese anziché 10 gg.) e nella previsione di ulteriori termini minimi di durata in caso di recidiva (3 mesi).
La legge 9 aprile 2003, n. 72[236]ha inteso affrontare un problema di carattere sociale – quello dell’omissione di aiuto o soccorso a persone coinvolte in un sinistro stradale - che non trovava sufficiente disciplina, sotto il profilo sanzionatorio, nella normativa previgente.
A tal fine, la prima delle modifiche proposte (articolo 1), di novella dell’art. 593 del codice penale, inasprisce la pena del reato di omissione di soccorso, consistente nel non dare immediato avviso all'autorità qualora si trovi abbandonato o smarrito un minore di anni dieci o un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, “per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa”. Alla reclusione fino a tre mesi si sostituisce, quindi, quella fino ad un anno e alla multa fino a seicentomila lire si sostituisce quella fino a 2.500 euro. Si tratta di un aumento di pena simbolico più che concreto, poiché la norma penale modificata, di fatto, non trova alcuna applicazione.
L'articolo 2 della legge modifica, invece, l'articolo 189 del codice della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285), e sanziona più severamente l’omissione di soccorso a seguito di sinistro stradale.
In particolare, in caso di incidente - ricollegabile al proprio comportamento - dal quale derivino solamente danni alle cose, la novità è di prevedere che, qualora non si ottemperi all'obbligo di fermarsi, alla sanzione amministrativa pecuniaria (raddoppiata rispetto alla previgente),si accompagni la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida da quindici giorni a due mesi, nel caso in cui il danno sia tanto grave da rendere necessaria la revisione del veicolo (si tratta, quindi, di una pena accessoria).
La pena della reclusione è portata da quattro mesi a tre anni nel caso in cui, in caso di incidente con danno alle persone, non si ottemperi all'obbligo di fermarsi. È confermato che il conducente che si sia dato alla fuga è, in ogni caso, passibile di arresto (ed ora anche di assoggettamento alle misure coercitive previste dagli articoli 281, 282, 283 e 284 c.p.p., ovvero divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto e obbligo di dimora e arresti domiciliari), mentre è stato triplicato il periodo (il precedente limite era da da tre mesi ad un anno) di sospensione della patente di guida, ora elevato a tre anni.
L'ultima modifica apportata all'articolo 189 riguarda la non ottemperanza all'obbligo di prestare l'assistenza occorrente alle persone ferite, che è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, anziché, come previsto dalla normativa previgente, fino a dodici mesi e - ed è questa una novità - con la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo non inferiore ad un anno e mezzo e non superiore a cinque anni.
E’, infine, aggiunto all’art. 189 un comma 8-bis che “premia” la condotta del conducente che, entro le ventiquattro ore successive ad incidente con danno alle persone, si mette a disposizione degli organi di polizia giudiziaria: nei suoi confronti, non si applicano l’arresto e le altre misure coercitive citate.
L'articolo 3 della legge, novellando l’art. 4 del D.Lgs 274/2000[237], trasferisce dal giudice di pace al tribunale la competenza per il delitto di omissione di soccorso a seguito di sinistro stradale.
Tale modifica si è resa necessaria al fine di ovviare alle conseguenze derivanti dalla devoluzione del reato in esame al giudice di pace, a seguito del decreto legislativo n. 274 del 2000. Tali conseguenze consistono nella impossibilità di procedere all'arresto dell'autore del reato e di applicare ad esso misure cautelari personali. In sostanza, l'inasprimento sanzionatorio previsto dalla legge 72/2003 non avrebbe alcun effetto concreto, in quanto, mantenendo ferma la cognizione del giudice di pace, esso non inciderebbe, per effetto dell'articolo 52 del decreto n. 274, sulle sanzioni in concreto applicabili e non sarebbe possibile procedere all'arresto. L'attribuzione al tribunale della competenza in ordine al reato di omissione di soccorso consente, da un lato, di irrogare le ordinarie sanzioni penali e, dall'altro, di procedere all'arresto anche al di fuori della flagranza e di applicare misure cautelari coercitive, compresa la custodia in carcere.
Le modifiche introdotte dal legislatore dopo il 1990 al Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 9 ottobre 1990, n. 309)[238] sono state di solito tali da non alterare l’impianto complessivo del provvedimento che, invece, ha subito importanti modifiche in due sole occasioni: a seguito dell’esito del referendum del 1993 che ha eliminato il concetto di “dose media giornaliera” e, successivamente, con la recente approvazione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonche' la funzionalita' dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, convertito dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Con i nuovi articoli 13 e 14 del Testo Unico, introdotti con la novella contenuta nel decreto legge 272/2005 si è avuta una delle principali novità della riforma in esame: la parificazione delle droghe “leggere” e “pesanti”.
Finora le sostanze soggette a controllo erano ripartite in sei tabelle: nelle tabelle I e III erano ricompresse le droghe cosiddette pesanti, in grado di produrre effetti sul sistema nervoso centrale, con dipendenza fisica e psichica; nelle tabelle II e IV erano elencate le droghe leggere per le quali i pericoli di dipendenza erano considerati di intensità e gravità minori; nelle tabelle V e VI erano inseriti i prodotti usati con finalità terapeutica, che per contenere talune sostanze stupefacenti di cui alle precedenti tabelle, potevano essere pericolose per rischi di abuso e di dipendenza.
Ora invece scompare la differenziazione tra droghe cosiddette leggere e droghe cosiddette pesanti, con la conseguente parificazione sotto il profilo sanzionatorio.
Le tabelle sono ridotte da sei a due: in pratica, tutte le sostanze vietate sono ricomprese nella tabella I, dall’oppio alle foglie di coca, dalla cannabis indica alle anfetamine. Nella tabella II, suddivisa in cinque sezioni, invece, trovano collocazione i medicinali regolarmente registrati in Italia contenenti sostanze stupefacenti e che, pur avendo proprietà curative, possono essere pericolose: ad esempio i medicinali impiegati nella terapia del dolore. Per queste sostanze viene ora prevista una sostanziale assimilazione alle sostanze vietate di cui alla tabella I in assenza della prescrizione medica.
Mentre per una più specifica disamina delle norme di modifica del TU di natura sanitaria, v. scheda Stupefacenti – Il decreto legge n. 272 del 2005, nel dossier relativo alla Commissione affari sociali, di seguito viene dato sinteticamente conto del contenuto degli articoli 4 e seguenti del decreto-legge, più specificamente interessanti l’aspetto penalistico.
L’articolo 4 abroga, da un lato, l’articolo 94-bis del TU introdotto dall’art. 8 della legge 251/2005 (cd. ex Cirielli) che stabiliva alcuni presupposti per la concessione dei benefici penitenziari ai recidivi, e dispone – dall’altro - la non applicabilità del comma 9, lettera c) art. 656 c.p.p. (che vieta la concessione della sospensione dell’esecuzione della pena di cui al comma 5 dello stesso articolo ai recidivi di cui all’articolo 99, comma 4, c.p.) ai tossicodipendenti che al momento del deposito della sentenza definitiva abbiano in corso un programma terapeutico di recupero, salva la revoca della sospensione del beneficio qualora il pubblico ministero accerti l’interruzione del citato programma.
Gli articoli successivi del D.L. sono frutto dell’approvazione da parte del Senato dell’emendamento del Governo 1.2000, che ha apportato, una serie di modifiche a diverse disposizioni del citato TU, nonché ad articoli del codice di procedura penale e ad alcune leggi complementari, che qui di seguito verranno illustrate sinteticamente.
L’articolo 4-bis del decreto-legge interviene sull’art. 73 del D.P.R. 309/90 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), rubricato nuovamente Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Il nuovo art. 73 costituisce uno degli pilastri della riforma su cui si articola il testo unico ed è volto a definire con maggiore certezza criteri di individuazione dell’illecito penale e parametri investigativi tali da permettere alle Forze dell’ordine di distinguere nettamente, sotto il profilo giuridico, le condotte detentive finalizzate allo spaccio e quelle tese al consumo personale.
In pratica da un lato, viene ribadita rispetto al testo del ’90 la rilevanza penale delle condotte che si caratterizzano per la destinazione a terzi (spaccio), a prescindere dal quantitativo e dall’altro, ed è la vera novità del testo aggiornato, viene prevista la rilevanza penale delle condotte non destinate oggettivamente a terzi. Condotte in cui viene ricompresa non solo l’importazione, l’esportazione, l’acquisto, la ricezione ma anche la detenzione, finalizzate per le modalità oggettive e soggettive allo spaccio o meglio ad un uso non esclusivamente personale. Le modalità si sostanziano nella quantità, nella presentazione (peso lordo o confezionamento frazionato) e in altre circostanze dell’azione. Vengono quindi normativizzati i criteri indiziari attualmente utilizzati in giurisprudenza per individuare la sussistenza del reato. Anche se rimane valido il principio secondo cui la prova della sussistenza del reato (ad uso non esclusivamente personale) è a carico della polizia e del magistrato, è fuor di dubbio che risulterà più semplice l’onere probatorio perché troverà supporto valutativo nei parametri indicati dalla norma.
Il nuovo articolo 73 ha profonda portata innovativa anche riguardo ad un altro aspetto: i criteri di individuazione dell’illecito penale, in particolare, l’individuazione del limite quantitativo massimo di riferimento di ciascuna sostanza stupefacente, che viene ancorato sia alla percentuale di principio attivo presente nella sostanza sia al peso lordo della medesima.
Tali limiti sono stati individuati da una apposita Commissione di esperti (istituita con decreti del Ministro della salute, 11 febbraio e 10 marzo 2006) ,ed indicati con D.M. 11 aprile 2006[239].
Va rilevato che, in tal modo, la qualificazione di una fattispecie come reato o come illecito amministrativo viene collegata ,almeno in parte, a prescrizioni contenute in un decreto ministeriale. In relazione a tale aspetto e alla sua conformità con il principio di legalità di cui all’articolo 25, comma 2, della Costituzione, si fa rinvio al dibattito che si è svolto presso il Senato sull’originario disegno di legge del Governo (A.S. 2953).
Pertanto una volta fissati i valori soglia delle sostanze stupefacenti, ci sarà una valenza indiziaria forte, che non si è nell’ambito del consumo esclusivamente personale, e quindi scatta il reato penale, se viene trovata una quantità di sostanza stupefacente superiore per principio attivo ai limiti fissati dalle tabelle. Trattandosi di presunzione relativa, per andare esenti da sanzioni penali bisognerà presentare rigorosi elementi giustificativi idonei a superare la stessa presunzione dovuta al superamento dei limiti soglia. E’ ovvio che tanto più elevato è il quantitativo tanto più difficile sarà allegare elementi giustificativi tali da ovviare alla sanzione penale. La detenzione delle sostanze stupefanti al di sotto del limite soglia fissato farà scatterà invece un sistema sanzionatorio di carattere amministrativo modulato in relazione al numero di infrazioni compiute e al pericolo procurato, attraverso la circolazione delle sostanze illegali, alla sicurezza pubblica: la prima volta il procedimento potrà concludersi con un ammonimento al Prefetto e successivamente potranno essere comminate sanzioni che vanno dalla sospensione della patente di guida, del porto d’armi e del passaporto all’applicazione – nei casi di recidiva – di misure che hanno l’obiettivo di limitare il più possibile la pericolosità sociale di chi ha tenuto condotte che destano allarme nella collettività. Nell’ottica del recupero del tossicodipendente lo stesso articolo 73 prevede una significativa modifica riguardo la circostanza attenuante del fatto di lieve entità: in pratica viene previsto che il giudice qualora ritenga sussistente il “fatto di lieve entità”, limitatamente ai reati previsti dallo stesso articolo 73, possa applicare anziché la pena detentiva o pecuniaria, quella del lavoro di pubblica utilità, evitando così l’ingresso nel circuito carcerario. E’ evidente che al maggior rigore seguito alla parificazione tra le sostanze stupefacenti viene compensato dall’intervento sulla circostanza attenuante del fatto di lieve entità, introducendo la possibilità appunto di applicare anziché la pena detentiva e pecuniaria quella del lavoro sostitutivo.
(L’articolo 4-ter interviene sull’articolo 75 del citato D.P.R.309/90 (sanzioni amministrative), rubricato nuovamente Condotte integranti illeciti amministrativi.
Tra le numerose modifiche si segnala:
§ l’inclusione, tra le condotte punibili con sanzione amministrativa (sempre che non si rientri nelle ipotesi di reato di cui al nuovo comma 1-bis dell’articolo 73), dell’esportazione e ricezione a qualsiasi titolo di sostanze stupefacenti o psicotrope o medicinali contenenti le sostanze medesime (di cui alla tabella II, sezioni B e C ), purché non si tratti di uso terapeutico, con la conseguente soppressione dell’espresso riferimento all’uso personale;
§ l’eliminazione della previsione di sanzioni di durata diversa a seconda del tipo di sostanza oggetto dell’illecito.
§ la previsione dell’invito del prefetto all’interessato relativamente alla frequentazione del programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122, quale ipotesi che si aggiunge alla procedura amministrativa in corso, senza determinare la sospensione di quest’ultima; tuttavia in caso di esito positivo di tale programma il prefetto dispone la revoca delle sanzioni eventualmente applicate (commi 2, 4, 11).
§ l’introduzione di una disciplina piuttosto dettagliata per quanto attiene ai compiti di spettanza degli organi di polizia deputati agli accertamenti ed alla contestazione; peraltro ad essi viene attribuita la facoltà, nel caso in cui al momento dell’accertamento l’interessato abbia la diretta e immediata disponibilità di veicoli a motore, di procedere immediatamente al ritiro della patente di guida e, qualora si tratti di un ciclomotore, al ritiro del certificato di idoneità tecnica ed al fermo amministrativo dello stesso, successivamente trasmessi al prefetto competente.
Vengono espressamente richiamati gli articoli 214 (Fermo amministrativo del veicolo) e 216 (Sanzione accessoria del ritiro dei documenti di circolazione, della targa, della patente di guida o della carta di qualificazione del conducente) del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) anche in relazione alle sanzioni applicabili nelle ipotesi di guida di un veicolo durante il periodo di ritiro della patente o di circolazione con il veicolo sottoposto a fermo.
§ Alla modifica della disciplina dei compiti e delle funzioni di spettanza del prefetto a seguito della ricezione della segnalazione degli organi di polizia. Viene infatti prevista, qualora l’accertamento venga ritenuto fondato, l’emanazione di un’ordinanza prefettizia, appellabile al giudice di pace – o al tribunale per i minori nel caso di minorenne -, e la convocazione della persona segnalata per valutare le sanzioni amministrative da applicare, la loro durata e l’invito alla frequentazione del programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122. La mancata presentazione al colloquio comporta l’irrogazione delle sanzioni stabilite per le violazioni. Nell’ipotesi in cui l’interessato si sia avvalso delle facoltà di cui all’articolo 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Ordinanza-ingiunzione), e non sia stata disposta l’archiviazione degli atti, contestualmente all’ordinanza con cui viene ritenuto fondato l’accertamento il prefetto convoca la persona segnalata con le modalità sopra illustrate.
Anche il decreto con cui il prefetto irroga le sanzioni e formula l’invito relativo al programma sopra citato, è opponibile davanti al giudice di pace – o al tribunale per i minorenni in caso di minorenne -.
§ Alla previsione, nell’ipotesi in cui la condotta punibile sia stata tenuta da uno straniero maggiorenne, di un informativa degli organi di polizia al questore competente affinché quest’ultimo possa assumere le necessarie valutazioni in ordine al rinnovo del permesso di soggiorno.
§ Alla precisazione che gli accertamenti medico-legali e tossicologico-forensi siano effettuati presso gli istituti di medicina legale, i laboratori universitari di tossicologia forense, le strutture delle Forze di polizia o presso le strutture pubbliche di base da individuare con decreto del Ministro della salute.
§ Alla trasformazione in una facoltà del prefetto la previsione – in precedenza applicabile ogni volta che ne ricorressero i presupposti -, nel caso di particolare tenuità della violazione, e in presenza di elementi tali da far presumere che la persona si asterrà nel futuro dal commetterla, della definizione del procedimento, in luogo della sanzione e limitatamente alla prima volta, con il formale invito a non fare più uso delle sostanze e l’avviso al soggetto delle conseguenze a suo danno.
L’articolo 4-quater introduce un nuovo articolo 75-bis nel DPR 309/1990, rubricato Provvedimenti a tutela della sicurezza pubblica.
La norma consente la adozione di misure di sicurezza (sia pure atipiche poiché non disposte dal giudice anche se convalidate da quest’ultimo) nei confronti di colui che tenga una condotta ai sensi dell’articolo 75, comma 1, dalla quale, in relazione alla modalità od alle circostanze dell’uso, possa derivare pericolo per la sicurezza pubblica e sia già stato condannato, anche non in modo definitivo, per reati contro la persona, contro il patrimonio, per reati previsti da disposizioni del DPR 309/1990, da norme sulla circolazione stradale, oppure sia stato colpito da sanzioni per violazioni di cui al DPR 309/1990 o sia destinatario di misure di prevenzione o di sicurezza. Le misure possono essere disposte, anche in modo congiunto, per una durata massima di due anni.
Tali misure consistono in obblighi di presentazione o comparizione presso gli uffici della polizia di Stato o dell’Arma dei carabinieri, anche in coincidenza con gli orari di entrata o uscita degli istituti scolastici, e di dimora, nonché divieti in ordine alla frequentazione di determinati locali o alla conduzione di veicoli a motore (comma 1).
Le misure sono adottate dal questore che comunica il relativo provvedimento motivato entro 48 ore al giudice di pace: quest’ultimo, qualora ne ricorrono i presupposti, procede alla convalida entro le successive 48 ore.
Spetta al giudice di pace modificare o revocare le misure, qualora ne faccia richiesta l’interessato e sentito il questore e qualora vengano meno i presupposti che hanno determinato l’adozione delle stesse. Al questore è poi attribuita la facoltà di chiedere la modifica delle misure nel caso di aggravamento delle condizioni che ne hanno giustificato l’emissione, sentito l’interessato che può, personalmente o a mezzo di difensore, presentare memorie e deduzioni al giudice di pace compente (comma 3). Il ricorso per cassazione contro il provvedimento di revoca o di modifica non ha effetto sospensivo.
Le misure sono revocate quando il programma di recupero ex art. 75 ha avuto buon esito (ed ha comportato l’emanazione del decreto di revoca delle sanzioni ai sensi dell’articolo 75). Il giudice pace provvede alla revoca senza formalità (comma 5).
Colui che contravviene alle misure disposte nei suoi conforti è punito con l’arresto da tre a diciotto mesi (comma 6). Infine, nel caso di minori di età, la competenza a provvedere sulle misure è del tribunale per i minorenni presso il luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio (comma 7).
L’articolo 4-sexies modifica l’articolo 89 del DPR 309/1990 relativo a Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici.
L’art. 89 stabiliva l’impossibilità di disporre la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata è una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura autorizzata, e l'interruzione del programma può pregiudicare la disintossicazione dell'imputato.
La nuova norma prevede in tale ipotesi la possibilità del giudice di disporre gli arresti domiciliari, al fine di non pregiudicare il recupero dell’imputato
Per i delitti di rapina aggravata (art. 628, comma 3, c.p.) ed estorsione aggravata (art. 629, comma 2, c.p.) e quando sussistano comunque particolari esigenze cautelari, il provvedimento è subordinato alla prosecuzione del programma terapeutico in una struttura residenziale.
Per quanto concerne i controlli sul proseguimento del programma di recupero, il giudice indica gli orari ed i giorni nei quali il tossicodipendente può assentarsi per l’attuazione del programma .
Quando invece, il tossicodipendente è gia in carcere ed intende avviare un programma di recupero, il nuovo art. 89 prevede che la misura cautelare non è semplicemente revocata, comestabiliva la norma previgente, ma è sostituita con quella degli arresti domiciliari. Anche in tal caso viene fatta salva l’ipotesi della sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza .La sostituzione della misura è concessa su istanza dell’interessato che deve essere corredata con la certificazione attestante, oltre allo stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza e la dichiarazione di disponibilità della struttura all’accoglimento, anche la procedura con cui è stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope o alcoliche.
Per i delitti di rapina aggravata (art. 628, comma 3, c.p.) ed estorsione aggravata (art. 629, comma 2, c.p.) e quando sussistano particolari esigenze cautelari, l’accoglimento dell’istanza è subordinato all’individuazione di una struttura residenziale.
La disciplina di favore sopradescritta non si applica se si procede per uno dei delitti di particolare gravità di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (terrorismo, anche internazionale, associazione di tipo mafioso, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di traffico illecito di sostanze stupefacenti o di tabacchi lavorati esteri, ecc.)
Infine, ai sensi del nuovo comma 5-bis, spetta al responsabile della struttura presso cui si svolge il programma terapeutico di recupero e socio-riabilitativo segnalare all’autorità giudiziaria le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma. Qualora tali violazioni integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità giudiziaria ne dà comunicazione alle autorità competenti per la sospensione o revoca dell’autorizzazione di cui all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117, ferma restando l’adozione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura.
L’articolo 4-septies novella l’articolo 90 del DPR 309/1990, (Sospensione dell’esecuzione della pena detentiva) che prevede la sospensione della pena detentiva inflitta al tossicodipendente.
Ai fini della concessione del beneficio, tale pena detentiva non è più determinata in quattro anni ma deve essere non superiore a sei anni (od a quattro anni se relativa a titolo esecutivo in ordine ai gravi reati di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, cfr. commento all’articolo 4-sexies, ante).
Il tribunale di sorveglianza adotta la decisione in ordine alla sospensione sulla base non più, come previsto finora, dell’accertamento in ordine al programma terapeutico e socio-riabilitativo eventualmente ancora in corso, ma occorre l’acquisizione della relazione finale di cui all’articolo 123 e l’accertamento in ordine all’esito positivo del programma terapeutico e socio-riabilitativo eseguito presso una struttura sanitaria pubblica od una struttura privata autorizzata.
Viene contemplata anche la sospensione della esecuzione della pena pecuniaria: nel caso in cui l’interessato versi in condizioni economiche disagiata, il tribunale di sorveglianza può sospendere tale esecuzione qualora la pena pecuniaria non sia già stata riscossa.
Viene, inoltre, sancita espressamente l’inammissibilità della domanda presentata per la concessione della sospensione della esecuzione qualora sussistano le ipotesi ostative a tale beneficio previste espressamente dal comma 2 dell’art. 90 .
L’articolo 4-octies modifica l’articolo 91 DPR 309/1990 (Istanza per la sospensione dell'esecuzione).
Dopo l’abrogazione del comma 1, relativo alle modalità di presentazione dell’istanza di sospensione della esecuzione della pena al tribunale di sorveglianza (in conseguenza di quanto stabilito in merito dal precedente articolo 90, comma 1), è stabilito che all’istanza di sospensione è allegata, a pena di inammissibilità, una certificazione rilasciata, oltre che un servizio pubblico, anche da una struttura privata accreditata per l’attività di diagnosi prevista dal comma 2, lettera d), dell’articolo 116. Tale certificazione deve attestare non solo il tipo di programma terapeutico scelto, la struttura e le modalità di realizzazione ma anche la procedura con la quale è stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope; inoltre il programma deve essere stato eseguito e la certificazione deve comunque indicare i risultati conseguiti a seguito del programma stesso.
Il comma 3, disciplinante aspetti connessi all’istanza per la sospensione dell’esecuzione, presentata nell’ipotesi in cui l’ordine di carcerazione non fosse ancora stato emesso, è stato abrogato per coordinarlo con le modifiche disposte al comma 1 dell’articolo 90 dall’articolo 4-septies. Conseguentemente viene modificato il comma 4 riguardante la presentazione della domanda quando l’ordine di carcerazione sia già stato eseguito e viene stabilito che:
§ la domanda, anziché a PM, si presenta al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione .
§ Il tribunale di sorveglianza può disporre il beneficio provvisorio della sospensione dell’esecuzione della pena a condizione che l’istanza sia ammissibile, se vi siano concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda ed al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e se non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza del pericolo di fuga.
§ Sino alla decisione del tribunale di sorveglianza, il magistrato di sorveglianza è competente a dichiarare la revoca del beneficio se il condannato, nel termine di cinque anni, commette un delitto non colposo per cui viene inflitta la pena della reclusione (ex art. 96, co.2).
Infine, viene adesso operato un rinvio alle disposizioni, in quanto compatibili, di cui all’articolo 47, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena.
Mentre l’articolo 4-novies apporta limitate modifiche all’articolo 92 del TU sul Procedimento innanzi alla sezione di sorveglianza, il successivo articolo 4-decies novella l’articolo 93 del TU (Estinzione del reato e revoca della sospensione).
La prima modifica riguarda la individuazione della non commissione nei successivi cinque anni di delitto non colposo punibile con la sola reclusione come unico presupposto per la estinzione della pena e di ogni altro effetto penale; viene eliminato il riferimento alla contestuale attuazione del programma terapeutico. Inoltre, non è più esplicitato che il termine di cinque anni decorre dal provvedimento di sospensione dell’esecuzione: infatti, tale termine decorre dalla data di presentazione della istanza, secondo quanto introdotto dal nuovo comma 2-bis (cfr. infra).
La sola causa che determina la revoca di diritto della sospensione della esecuzione, è la commissione nei cinque anni successivi di un delitto non colposo punibile con la sola reclusione; è, infatti, aspunto il riferimento all’essersi sottratti al programma terapeutico senza giustificato motivo.
Si prevede altresì che la competenza alle pronunce di estinzione della pena e degli effetti penali e di revoca di diritto della sospensione spetti al tribunale di sorveglianza che ha disposto la sospensione.
Infine, ai sensi del nuovo comma 2-bis, si precisa che il termine di cinque anni di cui al comma 1 decorre dalla data di presentazione dell’istanza in seguito al provvedimento di sospensione, adottato dal pubblico ministero ai sensi dell’articolo 656 (Esecuzione delle pene detentive), comma 4, c.p.p. o della domanda di sospensione dell’esecuzione, di cui all’articolo 91, comma 4. Tuttavia il tribunale, tenuto conto della durata delle limitazioni e prescrizioni alle quali l’interessato si è spontaneamente sottoposto e del suo comportamento, può determinare una diversa, più favorevole data di decorrenza dell’esecuzione ».
L’articolo 4-undecies novella profondamente l’art. 94 del Testo Unico 309/1990 (Affidamento in prova in casi particolari).
Come è noto, tale misura consiste in quella particolare forma di affidamento rivolta ai tossicodipendenti e alcooldipendenti che intendano intraprendere o proseguire un programma terapeutico concordato.
Sinteticamente, le novità rispetto alla disciplina previgente sono le seguenti:
§ ai fini della concessione della misura, il limite massimo di pena detentiva inflitta (ora anche congiunta a pena pecuniaria) passa da 4 a6 anni ampliandone, quindi, l’ambito di concessione; il limite dei 4 anni rimane solo in relazione a condanne per i gravi reati di terrorismo e criminalità organizzata di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario (comma 1);
§ la certificazione sanitaria da allegare alla domanda potranno essere ora rilasciate non solo dalle ASL ed altre strutture pubbliche, ma anche da strutture private accreditate (comma 1);
§ in caso di domanda presentata ad ordine di carcerazione già eseguito, ferma restando la competenza del tribunale di sorveglianza, in presenza delle specifiche condizioni indicate, l’affidamento è provvisoriamente disposto dal magistrato di sorveglianza; attualmente, ai sensi dell’art. 91, comma 4, la domanda va, invece, presentata al PM che ordina la scarcerazione del condannato trasmettendo gli atti al tribunale, che decide entro 45 giorni (comma 2);
§ la concessione della misura è specificamente condizionata dalla convinzione del tribunale dell’efficacia del programma terapeutico in relazione al recupero del condannato ed alla prevenzione della recidiva (comma 4) ;
§ il tribunale, a programma terapeutico positivamente già in corso, può determinare una diversa e più favorevole data di decorso dell’esecuzione della pena; attualmente, la decorrenza è data in ogni caso dalla data del verbale di affidamento (comma 4).
§ sono, infine, aggiunti due commi all’art. 94: il primo (comma 6-bis) prevede un allargamento della possibilità di trasformare l’affidamento ex art. 94 in affidamento “ordinario” al servizio sociale (art. 47, L. 354/1975), quando sia positivamente concluso il programma terapeutico; infatti, l’affidamento ex art. 47 potrà ora essere disposto anche oltre i limiti, stabiliti dalla stessa norma per la pena residua da scontare; il secondo (comma 6-ter) impone specifiche obblighi al responsabile della struttura sanitaria dove è in corso il programma terapeutico, in particolare, dovranno essere segnalate all’autorità giudiziaria le violazioni commesse dalla persona soggetta al programma;
L’articolo 4-duodecies interviene sull’art. 96 del TU stupefacenti (prestazioni sanitarie per detenuti tossicodipendenti).
La nuova norma conferma gli oneri finanziari di mantenimento, cura, ecc., a carico dell’amministrazione penitenziaria soltanto quando la misura restrittiva sia eseguita presso una struttura privata autorizzata ex art. 116 (ovvero iscritta agli albi regionali o provinciali) in convenzione col Ministero della giustizia.
Sono poi introdotti due commi aggiuntivi: il primo (comma 6-bis) attribuisce al Dipartimento Giustizia Minorile gli oneri finanziari per il trattamento sociosanitario e riabilitativo di minori tossicodipendenti collocati presso comunità terapeutiche in esecuzione di misure alternative, messa alla prova, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive; il secondo (comma 6-ter) prevede la copertura finanziaria per l’attuazione del citato comma 6-bis.
L’articolo 4-terdecies propone una nuova formulazione dell’art. 97 del TU 309/1990, che detta disposizioni relative alla non punibilità degli ufficiali di polizia giudiziaria che procedano all’acquisto simulato di droga nel corso delle indagini per reati di cui al TU ovvero durante operazioni anticrimine.
L’art. 97, ora rubricato ”Attività sottocopertura” estende l’ambito di non punibilità della polizia giudiziaria che, oltre all’acquisto simulato di droga, comprende ora attività - compiute anche per interposta persona – consistenti nel ricevere, occultare o sostituire sostanze stupefacenti nonché il “compimento di attività prodromiche o strumentali” (comma 1) alle prime; si intende quindi, comprendere nella attività non punibili anche quelle compiute nelle fasi precedenti e finalizzate all’acquisto, occultamento e sostituzione della droga.
Tre disposizioni (commi 2, 4 e 5) sono introdotte ex novo; il comma 2 consente alla polizia giudiziaria, a fini di indagine, l’uso di documenti, identità o indicazioni di copertura informandone al più presto il PM. Il comma 4 estende la non punibilità anche agli ausiliari ed alle terze persone di cui gli ufficiali di polizia giudiziaria si servano per compiere le attività sottocopertura (cd. agenti provocatori). Il comma 5 punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque, nel corso delle operazioni di indagine, riveli indebitamente l’identità degli appartenenti alla polizia giudiziaria impegnati in attività sottocopertura.
Il comma 3 conferma l’obbligo di comunicazione all’autorità giudiziaria ed alla Direzione centrale per i servizi antidroga delle avvenute operazioni sottocopertura, precisando, però, la possibilità di indicare il nome dell’ufficiale di PG responsabile dell’operazione e delle terze persone in essa utilizzate.
Mentre gli artt. da 4-quaterdecies a 4-septiesdecies sono relativi ad aspetti sanitari, l’articolo 4-duodevicies novella l’art. 123 del TU stupefacenti ora rubricato “Verifica del trattamento in regime di sospensione del procedimento o di esecuzione della pena”.
Le modifiche introdotte all’art. 123 dall’art. 4-duodevicies collegano le citate disposizioni sugli obblighi di relazione a fini di verifica del trattamento (prima solo in capo alle ASL, ora anche alle strutture private autorizzate ex art. 116 TU), sia - come attualmente - al procedimento di sospensione dell’esecuzione della pena (di cui all’art. 90) che a quello relativo all’affidamento in prova in casi particolari (art. 94); è espunto, invece, il riferimento alla “sospensione del procedimento”.
La norma appare coordinata con la eliminazione dal nuovo testo dell’art. 75 (v. ante) dell’ipotesi di sospensione del procedimento amministrativo da parte del Prefetto nel caso di sottoposizione del soggetto al programma sanitario.
Al nuovo art. 123 (di cui è, coerentemente, modificata la rubrica) è, inoltre, aggiunto un comma 1-bis che impone agli indicati soggetti tenuti agli obblighi di relazione di informare l’autorità (ora solo giudiziaria) di “ogni nuova circostanza suscettibile di rilievo in relazione al provvedimento (di sospensione, n.d.r.) adottato”.
L’articolo 4-undevicies interviene sull’art. 656 del codice di procedura penale novellando i commi 5, 8 e 9.
Il comma 5 prevedeva la possibilità per il PM di sospendere l‘esecuzione di una pena detentiva, anche residuo di pena maggiore, quando essa non fosse superiore a 3 o 4 anni. Il nuovo comma 5 dell’art. 656 estende da 4 a 6 anni tale limite di pena ampliando così l’ambito di operatività della sospensione in favore dei condannati tossicodipendenti o alcooldipendenti.
Lo stesso comma 5 prevede, per quel che riguarda gli aspetti procedimentali che sia l’ordine di esecuzione che il decreto di sospensione siano notificati al condannato e al difensore, con l'avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza al PM (che poi la trasmette al tribunale di sorveglianza), corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle indicate misure alternative. Tale avviso informa altresì che se non è presentata detta istanza o manchi la certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria da allegare, l'esecuzione della pena avrà corso immediato
Tale ultima parte del comma 5 è novellata dall’art. 4-undevicies al fine di prevedere oltre all’ipotesi di mancanza dell’istanza quelle di inammissibilità della stessa sulla base dei nuovi dettagliati contenuti della certificazione dettati dai nuovi articoli 90 e ss. TU 309/1990.
Sono inoltre.aggiunte ulteriori ipotesi di revoca immediata della sospensione dell’esecuzione da parte del PM.
Il nuovo comma 8 prevede quindi, la revoca della sospensione dell’esecuzione - oltre che nel caso di inammissibilità dell’istanza ex artt. 90 e ss. TU 309/1990 – anche nelle more della decisione del tribunale sull’istanza per mancato avvio nei termini o interruzione, da parte del tossicodipendente, del programma di recupero concordato.
L’ultima novella all’art. 656 introduce un’eccezione al divieto assoluto di sospensione dell’esecuzione (di cui al comma 5) nei confronti dei condannati per i gravi delitti terrorismo e criminalità organizzata di cui all'articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La sospensione potrà, infatti, disporsi quando tali soggetti siano agli arresti domiciliari ex art. 89 TU 309/1990: si dovrà necessariamente trattare, quindi, di tossicodipendenti o alcooldipendenti con in corso un programma terapeutico di recupero (presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116) e l’interruzione del programma possa pregiudicare il recupero stesso.
L’articolo 4-vicies integra la formulazione del comma 1 dell’art. 671 c.p.p. introducendo, nella disciplina del reato continuato, una disposizione di favore per gli imputati tossicodipendenti o alcooldipendenti.
Infatti, la consumazione di più reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza dell’autore è ora inserita tra gli elementi che incidono sull’applicazione della continuazione.
L’articolo 4-vicies semel modifica il comma 12 dell’art. 47 della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, che prevede attualmente, nell’affidamento in prova al servizio sociale, l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale in caso di esito positivo del periodo di prova.
La modifica introdotta specifica che l’esito positivo della prova estingue la sola pena detentiva ma non anche quella pecuniaria; quest’ultima – se non riscossa - si estingue comunque, su pronuncia del tribunale di sorveglianza, quando l”affidato” si trovi in condizione economiche disagiate.
L’articolo 4-vicies bis introduce un comma all’art. 56 della legge 689/1981[240] (cd. legge di depenalizzazione).
Il citato art. 56 prevede, tra le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 53, la cd. libertà controllata , irrogabile in caso di condanna fino ad un massimo di un anno.
La libertà controllata comporta in ogni caso, tra i diversi obblighi imposti, quello di presentarsi almeno una volta al giorno, nelle ore fissate compatibilmente con gli impegni di lavoro o di studio del condannato, presso il locale ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza di questo, presso il comando dell'Arma dei carabinieri territorialmente competente;3)
E’ aggiunto all’art. 56 un comma 2-bis che prevede che l’indicato obbligo giornaliero di presentazione presso gli uffici di polizia o dei carabinieri del condannato tossicodipendente in libertà controllata che frequenti un programma terapeutico residenziale o semiresidenziale presso una struttura pubblica o privata (ASL o struttura autorizzata) possa essere sostituito dall’attestazione di presenza rilasciata dal responsabile della struttura.
L’articolo unico della legge 6 novembre 2003, n. 304 ha operato un intervento di tipo soppressivo sul dettato dell’articolo 342-bis del codice civile, in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari.
L’articolo 342-bis c.c. è stato inserito nell’ordinamento dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari, approvata nel corso della XIII legislatura, che ha introdotto un sistema di tutela contro il fenomeno della violenza domestica basato sull’impiego di strumenti penalistici e civilistici.
In sede penale, la legge 154/2001 ha introdotto la nuova misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.c.): chi subisce la misura (coniuge, convivente o altro componente del nucleo familiare) deve lasciare immediatamente la casa e solo il giudice può concedere l'autorizzazione al rientro. Con lo stesso provvedimento il giudice può vietare di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d'origine o dei congiunti più prossimi). L’applicazione della nuova misura cautelare si pone come un’alternativa alla custodia in carcere ma non la esclude: nei casi più gravi, infatti, può anche essere disposta la misura coercitiva privativa della libertà. La norma è applicabile ai procedimenti per delitti puniti con pena superiore, nel massimo, a tre anni: di fatto, oltre che per la violenza sessuale, se commessa in famiglia, anche per i delitti di maltrattamento, lesioni personali gravi e gravissime. Restano escluse le minacce, le ingiurie e le lesioni lievi, se non ripetute fino a diventare maltrattamenti. Come tutte le misure cautelari anche questa richiede l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, il pericolo di reiterazione di delitti, il criterio della proporzionalità tra gravità del fatto e misura prescelta.
In sede civile sono stati introdotti nel codice civile gli articoli 342-bis (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) e 342-ter (Contenuto degli ordini di protezione) per ottenere la tutela della vittima anche quando sussista soltanto una accertata situazione di tensione e non necessariamente un reato. Diversamente dalla misura penalistica, le cui condizioni di applicabilità sono fissate in via generale per tutte le misure cautelari, il presupposto positivo che legittima l’adozione dell’ordine in sede civile consiste nel “grave pregiudizio all’integrità fisica e morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente” mentre il presupposto negativo è che “il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio”. L'ordine di protezione è un provvedimento d’urgenza che il giudice adotta con decreto su istanza di parte, per una durata massima di 6 mesi prorogabili in presenza di gravi motivi, con cui sono ordinati la cessazione della condotta e l'allontanamento dalla casa familiare con eventuale ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante; sono altresì dettate le specifiche modalità di adempimento ed è eventualmente disposto l'intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare nonché il pagamento periodico di un assegno (art. 342-ter c.c.). Chiunque violi l’ordine di protezione (ma anche analoghi provvedimenti assunti nei procedimenti di separazione e di divorzio) è soggetto alla pena della reclusione fino a 3 anni o della multa da lire 200.000 a 2 milioni.
Prima dell’intervento normativo in commento, in relazione al tipo di abuso familiare, potevano scattare diverse modalità di tutela ai sensi della legge n. 154/2001. In particolare, la tutela civile era attivabile soltanto:
§ qualora la condotta non costituisse reato (su istanza di parte attraverso l’ordine di protezione contro gli abusi familiari se la condotta è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale, ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente)
§ qualora la condotta costituisse reato perseguibile su istanza di parte (se la condotta è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, sempre su istanza di parte, attraverso l’ordine di protezione contro gli abusi familiari). In questo caso, se il delitto è punito con pena superiore nel massimo a 3 anni è possibile anche l’applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare.
In caso di condotta che costituisse reato perseguibile d’ufficio la tutela civile attraverso l’ordine di protezione era comunque esclusa e si potevano verificare le seguenti due ipotesi:
§ per delitto punito con pena superiore nel massimo a 3 anni, possibilità di applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare;
§ per delitto punito con pena inferiore nel massimo a 3 anni, impossibilità di disporre alcun tipo di misura.
La legge 304/2003 ha, dunque, ovviato a queste due ultime ipotesi scongiurando ogni possibile esclusione della tutela civile, non ragionevole in particolare in occasione delle forme di abuso più gravi, e ogni applicazione di tipo alternativo degli strumenti civilistici o penalistici di tutela, peraltro non giustificabile alla luce della diversa funzione assolta da essi (misura cautelare per quelli penalistici, tutela della persona offesa per quelli civilistici).
La legge 9 gennaio 2004, n. 6 introduce nell’ordinamento l’istituto dell’amministrazione di sostegno che, in virtù della nuove disposizioni, verrebbe ad affiancarsi a quelli dell’interdizione e dell’inabilitazione.
In sostanza, le ragioni che hanno condotto all’introduzione della nuova disciplina sono ispirate dalla considerazione che vi sono tutta una serie di situazioni in cui il soggetto può essere incapace di provvedere a se stesso senza versare in stato di infermità mentale.
Il nuovo istituto mira, quindi, ad offrire soluzioni concrete a bisogni che oggi non trovano adeguata risposta: basti pensare ai casi delle persone anziane o inferme non più in grado di provvedere alla cura dei propri interessi o di chi, anche in conseguenza di una menomazione fisica, necessita dell'assistenza, anche solo temporanea, di una persona che si prenda cura di gestire i suoi interessi o il compimento di un affare
Finora, per chi si trovava in queste situazioni, la tutela che il codice civile riusciva a offrire risultava scarsamente efficace. A chi versava in condizioni di abituale infermità di mente, la protezione che veniva accordata consisteva nell'interdizione o, per i casi meno gravi, nell'inabilitazione dell'infermo, la cui capacità d'agire veniva, in tutto o in parte, "annullata" per essere affidata a un tutore o a un curatore nominato dal Tribunale.
Queste procedure, però, denotavano molti limiti. Oltre ai costi, l'utilità pratica risultava spesso penalizzata dai tempi molto lunghi per l'ottenimento del provvedimento di nomina e, soprattutto, dalla non "graduabilità" della privazione della capacità d'agire in dipendenza della più o meno grave infermità di mente del beneficiario
Da qui l’opportunità di prevedere una figura che affianchi la persona anche temporaneamente disabile nell’amministrazione del proprio patrimonio; tale assistenza riguarderà non tutti gli atti che la persona disabile è chiamata a compiere ma solamente quelli per i quali la situazione concreta suggerisce un supporto. Tale figura è stata individuata, appunto, nell’amministratore di sostegno, nominato da un giudice, in presenza di determinati requisiti accertati, con definizione dell’area di attività, con procedura semplificata, e con carattere di ordinaria gratuità.
Il Capo I (Finalità della legge) si compone di un solo articolo (art. 1) diretto ad illustrare la finalità della legge, che è quella di assicurare la migliore tutela, con la minore limitazione possibile, della capacità di agire delle persone prive, in tutto o in parte, di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente.
La premessa non è solamente descrittiva, ma vale a porre in risalto che il perno dell’intervento non è l’infermità mentale, ma in generale la privazione totale o parziale della capacità di relazionarsi e determinarsi, quale che sia la causa; e che ogni intervento deve tutelare, e non segregare o comunque sminuire la persona.
Il Capo II (artt. 2-11) detta modifiche al codice civile, inserendo nuovi articoli e modificandone altri. In primo luogo viene sostituita la rubrica (art. 2) del titolo XII del libro I del codice civile - attualmente intitolata Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione -, nuovamente intitolata come Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
Si è scelta così la via di non varare una legge speciale, ma di inserire nel codice civile il nuovo istituto.
L’articolo 3 inserisce un nuovo Capo – premesso all’attuale capo I – intitolato “Dell’amministrazione di sostegno”. Utilizzando, infatti, il vuoto lasciato nel codice civile dalla legge sull’adozione del 1983, che ha abrogato gli articoli da 404 a 413, si è compiuta la scelta di sdoppiare il titolo XII in un Capo I dedicato all’amministrazione di sostegno e in un Capo II (cfr. ultra art. 4) dedicato all’interdizione, all’inabilitazione e all’incapacità naturale.
Vengono quindi inseriti 10 nuovi articoli del codice civile (404-413), relativi al tema dell’amministratore di sostegno.
L’assistenza di un amministratore di sostegno (art. 404 c.c.) consegue alla particolare situazione del beneficiario che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere adeguatamente alla cura della propria persona o dei propri interessi. Sul piano dei beneficiari, la platea è molto ampia, marcandosi quindi una notevole differenza rispetto all’interdizione, che riguarda solo gli infermi di mente: i beneficiari potranno essere oltre che persone con problemi di disabilità intellettiva, anche malati terminali e soggetti colpiti da gravi patologie, handicappati gravi, down, tossicodipendenti o alcoolisti, ciechi, persone, insomma, anche solo temporaneamente, non in grado di amministrare autonomamente il proprio patrimonio ed, in generale, di provvedere ai propri interessi.
La nomina dell’amministratore è disposta entro 60 gg. dalla richiesta, con decreto motivato (art. 405 c.c.), dal giudice tutelare del luogo in cui il soggetto interessato ha la residenza o il domicilio. E qui si nota già una novità, rispetto ai procedimenti di interdizione e inabilitazione, che sono invece di competenza del Tribunale
La nomina avviene su ricorso del soggetto beneficiario (anche se già interdetto o inabilitato), dei responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura della persona – per questi ultimi, la presentazione del ricorso è obbligatoria qualora siano a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno -, del coniuge, della persona stabilmente convivente, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero (art. 406 c.c.). Il giudice tutelare è comunque autorizzato ad adottare i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata, per la conservazione e amministrazione del suo patrimonio e può procedere alla nomina di un amministratore provvisorio indicando gli atti che è autorizzato a compiere. Vengono poi indicati gli elementi che deve contenere il decreto di nomina e viene stabilito che se la durata dell’incarico è a tempo determinato il giudice può prorogarlo con decreto motivato, adottabile d’ufficio anche prima della scadenza. Il decreto di apertura, quello di chiusura, ed ogni altro provvedimento adottato dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno devono essere annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro; vengono anche previste annotazioni a margine dell’atto di nascita del beneficiario.
Il nuovo articolo 407 disciplina il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, stabilendo che nell’istanza di nomina debbano essere indicate le generalità del beneficiario e, se conosciute dal ricorrente, del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti dei fratelli e dei conviventi del beneficiario medesimo, nonché le ragioni per cui si richiede la nomina.
In via ordinaria, il giudice tutelare, prima di provvedere all’eventuale nomina dell’amministratore di sostegno, deve svolgere una istruttoria per la quale si prevede, innanzitutto, l’audizione diretta della persona cui il procedimento si riferisce, dei cui bisogni e richieste il giudice deve tener conto compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della medesima. Nel procedimento – che sembrerebbe assumere le caratteristiche di un procedimento di volontaria giurisdizione - interviene in ogni caso il pubblico ministero; Il giudice tutelare dispone anche d’ufficio gli accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili ai fini della decisione; egli può, in ogni tempo, modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte con il decreto di nomina e, quindi, anche adottare un provvedimento di revoca dell’amministratore.
La scelta dell’amministratore di sostegno (art. 408) avviene con esclusivo riguardo agli interessi e alla cura del beneficiario. Ferma restando la facoltà del beneficiario di operare, con atto pubblico o scrittura privata autenticata, la designazione dell’amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale futura incapacità (solo in mancanza di designazione o in presenza di gravi motivi, il giudice può designare altro soggetto), vengono stabiliti una serie di criteri per orientare il giudice nella scelta .
Gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono stabiliti al nuovo articolo 409 c.c., disposizione chiave della nuova legge: per tutti gli atti che non ne formano oggetto, il beneficiario conserva la capacità di agire. Sarà quindi necessario l’intervento dell’amministratore per gli atti più rilevanti rispetto al patrimonio (alienazione o acquisto di bene immobile, assunzione di ipoteca, promozione di una procedimento giudiziario, ecc) mentre negli atti di ordinaria amministrazione questi interviene insieme al beneficiario (acquisto beni mobili, stipula locazioni inferiori a 9 anni, ec.). Rimane ferma legittimazione di quest’ultimo a compiere in ogni caso, gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (acquisto beni uso personale, come abiti, cibo, incassare un afitto, riscuoter la pensione, ecc.).
I doveri dell’amministratore sono invece elencati al nuovo articolo 410; oltre ad ispirarsi in ogni caso alla considerazione dei bisogni e delle esigenze del beneficiario, si tratta per lo più di doveri di informazione, del beneficiario e del giudice in caso di dissenso con lo stesso. Nel caso di contrasto tra la volontà del beneficiario e quella dell’amministratore di sostegno, nel caso di scelte o atti dannosi per il beneficiario o di negligenza nel perseguire l’interesse o soddisfare i bisogni o le richieste di quest’ultimo, il beneficiario, il pubblico ministero o i soggetti legittimati a fare istanza di nomina dell’amministratore possono ricorrere al giudice tutelare che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti. L’art. 410 prevede, inoltre, salvo il caso in cui il ruolo sia rivestito dal coniuge, dalla persona convivente, dagli ascendenti e discendenti, una durata massima di 10 anni dell’ufficio di amministratore di sostegno.
Il nuovo articolo 411 elenca poi, le disposizioni applicabili, in quanto compatibili, all’amministratore di sostegno. Si tratta, in primo luogo, di disposizioni relative all’istituto della tutela e, più in particolare, degli articoli 349 (Giuramento del tutore), 350 (Incapacità all’ufficio tutelare), 351 (Dispensa dall’ufficio tutelare), 352 (Dispensa su domanda), 353 (Domanda di dispensa), nonché degli articoli da 374 (Autorizzazione del giudice tutelare) a 388 (Divieto di convenzioni prima dell’approvazione del conto). Viene in ogni caso precisato che i provvedimenti di cui agli articoli 375 (Autorizzazione del tribunale) e 376 (Vendita di beni) sono emessi dal giudice tutelare. Vengono inoltre richiamate le disposizioni di cui agli articoli 596 (Incapacità del tutore e del protutore), 599 (Persone interposte) e 779 (Donazione a favore del tutore o protutore). Viene stabilita in ogni caso la validità delle disposizioni testamentarie e convenzioni in favore dell’amministratore di sostegno parente entro il quarto grado o coniuge o convivente con il beneficiario.
Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno può prevedere che alcuni determinati effetti previsti dalla legge come conseguenza dell’interdizione e dell’inabilitazione possano – nell’interesse del beneficiario della tutela – estendersi a quest’ultimo.
Il nuovo articolo 412 sancisce l’annullabilità relativa – pronunciabile solo su istanza dei soggetti espressamente indicati dalla disposizione -, degli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni legislative o in eccesso rispetto all'incarico o ai poteri conferiti dal giudice e, analogamente , di quelli compiuti dal beneficiario in violazione di disposizioni legislative o contenute nel decreto di nomina. Viene stabilito un termine di prescrizione quinquennale.
Il nuovo articolo 413 definisce condizioni e limiti per la revoca dell’amministratore di sostegno. A tale proposito è importante sottolineare che la dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno, oltre che su istanza di parte, può essere adottata dal giudice tutelare anche d’ufficio, quando l’istituto si sia rivelato inidoneo a realizzare la piena tutela del beneficiario. In tal caso, se il giudice ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o inabilitazione, ne informa il pubblico ministero, affinché vi provveda.
Le rimanenti disposizioni del Capo II (artt. 4-11) sono dirette ad apportare modifiche alla disciplina degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
L’articolo 4 della legge, come sopra anticipato, modifica, innanzitutto la rubrica del Capo II (attualmente Capo I) del Titolo XII del Libro I, nuovamente intitolato Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale. Scompare quindi il riferimento all’infermità di mente come categoria che qualifica la normativa.
L’art. 4 sostituisce, poi, l’articolo 414 del codice civile (Persone che possono essere interdette), nel senso di precisare che l'interdizione del maggiorenne e del minore emancipato la cui abituale infermità di mente li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, venga disposta solo se necessaria ad assicurare la loro adeguata protezione. Si è quindi ritagliato uno spazio meno perentorio a favore dell’interdizione, che viene ad essere utilizzata solo quando, come precisato dal nuovo articolo 413 del codice civile (cfr. supra), l’amministrazione di sostegno si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario.
L’articolo 5 della legge, sostituendo il comma 1 dell’articolo 417 (Istanza d’interdizione o d’inabilitazione) contribuisce a semplificare la relativa procedura, poiché prevede che la richiesta può essere avanzata dallo stesso soggetto beneficiario, dal coniuge o da qualsiasi persona stabilmente convivente.
L’articolo 6, proprio al fine di assicurare il coordinamento con le nuove disposizioni sull’amministrazione di sostegno introdotte dall’articolo 3, aggiunge un comma all’articolo 418 (Poteri dell’autorità giudiziaria), per prevedere che qualora nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione si profili l’opportunità di far ricorso all’amministrazione di sostegno, il giudice, d’ufficio o a istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare: in tal caso egli può anche adottare i provvedimenti urgenti (cfr. supra art. 405) per la cura della persona interessata e la conservazione e amministrazione del suo patrimonio, nonché la nomina di un amministratore provvisorio.
L’articolo 7 è diretto a sostituire il terzo comma dell’articolo 424 del codice civile (Tutela dell’interdetto e curatela dell’inabilitato), concernente la scelta del tutore dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato da parte del giudice tutelare: in pratica, ferma restando la necessità di individuare la persona più idonea allo svolgimento dell’incarico, vengono richiamati i criteri che il nuovo articolo 408 (cfr. supra) individua per la scelta dell’amministratore di sostegno.
L’articolo 8 interviene sull’articolo 426 del codice civile (Durata dell’ufficio) per aggiungere, accanto al coniuge, il riferimento alla persona stabilmente convivente, tra i soggetti tenuti a continuare nella tutela dell’interdetto o nella curatela dell’inabilitato oltre dieci anni.
L’articolo 9 è diretto a premettere un comma all’articolo 427 del codice civile (Atti compiuti dall’interdetto e dall’inabilitato).
In sostanza, con formula rovesciata rispetto a quanto stabilito per l’amministrazione di sostegno dal nuovo articolo 409, viene stabilito che nella sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che alcuni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento o l’assistenza del tutore o che alcuni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore.
L’articolo 10, aggiungendo un comma all’articolo 429 del codice civile (Revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione), è diretto a consentire, qualora nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione si profili l’opportunità che il soggetto sia successivamente assistito dall’amministratore di sostegno, che il tribunale, d’ufficio o su istanza di parte, trasmetta gli atti al giudice tutelare.
L’articolo 11 della legge detta una disposizione di coordinamento, disponendo l’abrogazione dell’articolo 39 delle disposizioni di attuazione del codice civile che si riferisce all’omologazione di cui ai vecchi articoli 406 e 412 del codice civile, successivamente abrogati dalla legge sull’adozione (n. 184 del 1983), e ora reinseriti nuovamente dalla legge n. 6/2004 (artt, 12 e ss.) e che dettano le disposizioni relative all’amministrazione di sostegno.
Il Capo III della legge 6/2004 (Norme di attuazione, di coordinamento e finali, artt. 12-20) detta alcune modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile, al codice di procedura civile, a quello di procedura penale e all’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12).
L’articolo 12 si limita a dettare una modifica di coordinamento all’articolo 44 delle disposizioni di attuazione al codice civile, inserendo il riferimento all’amministratore di sostegno tra i soggetti che il giudice tutelare può convocare per chiedere informazioni sull’andamento della gestione.
L’articolo 13, al comma 1, aggiunge l’articolo 46-bis nelle disposizioni di attuazione al codice civile per prevedere che gli atti e i provvedimenti relativi ai procedimenti di cui al titolo XII del libro I del codice, non sono soggetti all’obbligo di registrazione e sono esente dal contributo unificato per le spese degli atti giudiziari di cui all’articolo 9 del testo unico sulle spese di giustizia (DPR 115/2002).
L’articolo 14 detta una modifica di coordinamento riferita all’articolo 47 delle disposizioni di attuazione al codice civile, inserendo il riferimento al registro delle amministrazioni di sostegno tra quelli tenuti presso l’ufficio del giudice tutelare.
L’articolo 15 inserisce, nell’ambito delle medesime disposizioni di attuazione, l’articolo 49-bis, che stabilisce le annotazioni che, a cura del cancelliere, devono essere effettuate nel registro delle amministrazioni di sostegno.
L’articolo 16 detta una modifica di coordinamento riferita all’articolo 51 c.p.c., inserendo la qualità di amministratore di sostegno di una delle parti tra i casi determinanti l’obbligo di astensione del giudice.
Anche l’articolo 17 prevede una modifica di analoga natura, aggiungendo alla rubrica del Capo II, del Titolo II, del Libro IV del codice di procedura civile, attualmente intitolata dell’interdizione e dell’inabilitazione, il riferimento all’amministrazione di sostegno.
Viene poi inserito nel codice di procedura civile l’articolo 720-bis per stabilire l’applicabilità, ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno, delle disposizioni, contenute nel Capo sopra richiamato, di cui agli articoli 712 (Forma della domanda), 713 (Provvedimenti del presidente), 716 (Capacità processuale dell’interdicendo e dell’inabilitando), 719 (Termine per l’impugnazione) e 720 (Revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione). Viene poi stabilito che contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo (entro 10 gg.) alla corte d’appello e che contro quello della corte d’appello può essere proposto ricorso per cassazione.
Anche l’articolo 18 è diretto a stabilire modifiche di coordinamento inserendo nel testo unico sul casellario giudiziale (DPR 313/2002) il riferimento ai decreti in materia di amministrazione di sostegno (e di revoca di quest’ultima):
§ nell’art. 3, comma 1, lett. p), ovvero tra gli atti che vanno iscritti per estratto nel casellario giudiziale.
§ negli artt. 24, 25, comma 1, lett. m) e 26, comma 1, lett. a), ovvero tra quelli che non vanno riportati, se revocati, nel certificato generale del casellario giudiziale nonchè nel certificato penale e civile richiesti dall’interessato;
L’articolo 19, modificando l’articolo 92 dell’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12) è diretto a consentire la trattazione, durante il periodo feriale dei magistrati , dei procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione e di inabilitazione.
Infine, l’articolo 20, è relativo all’entrata in vigore del provvedimento.
La legge 2 agosto 2004, n. 210[241]è diretta a rafforzare la tutela dei soggetti che si associano a cooperative edilizie al fine di acquistare la proprietà di immobili da costruire (o che, pur non essendo soci di cooperative abbiano assunto obbligazioni con le stesse finalizzate ad acquisire la proprietà o la titolarità di un diritto reale di godimento sull’immobile) e che incorrono nel rischio di perdere le somme versate, oltre che di non acquisire la titolarità del bene, a causa di eventi, quali il fallimento, che possono colpire l’imprenditore-costruttore.
La legge si prefigge, peraltro, di attuare i principi costituzionali in materia di sviluppo della cooperazione edilizia. Al riguardo si possono ricordare le norme costituzionali contenute nell’articolo 47, comma 2, ai sensi del quale la Repubblica favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, e nell'articolo 45, secondo cui la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.
Passando ai contenuti dei tre articoli di cui si compone la legge, con l’articolo 1, comma 1, il legislatore ha pertanto conferito delega al Governo per la emanazione di uno o più decreti legislativi recanti norme per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere ultimata, versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità, anche apportando alla legislazione vigente le modifiche e le integrazioni necessarie. Il termine per l'esercizio della delega è stato fissato in 6 mesi dall'entrata in vigore della legge delega, avvenuta il 28 agosto 2004. Viene richiamata (comma 2) la procedura prevista dall’art. 14 della legge n. 400/88 per l’adozione dei decreti legislativi, sono individuati i ministri competenti per l'emanazione, e viene prescritta l’espressione del parere parlamentare.
Il comma 4 dell’articolo 1 prevede la possibilità che il Governo emani entro un anno dall’entrata in vigore dell’ultimo decreto legislativo, di cui al comma 1, disposizioni integrative e correttive degli stessi decreti legislativi.
L'articolo 2 contiene le definizioni utili ai fini dell’interpretazione dei princìpi e criteri di delega, dettati al successivo articolo 3. In particolare, si provvede ad individuare le nozioni di "acquirente", “costruttore” di un immobile da costruire, nonché di "situazione di crisi", che ricorre nei casi in cui il costruttore sia sottoposto o sia stato sottoposto ad esecuzione immobiliare ovvero a fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa in relazione all'immobile oggetto del contratto.
L’articolo 3 reca i princìpi e criteri direttivi da seguire non solo nell'emanazione dei decreti legislativi ex art. 1, comma 1, ma anche per i possibili successivi decreti integrativi e correttivi.
L’insieme dei principi e dei criteri fissati in questa sede concorre a definire un sistema di strumenti di tutela a favore del soggetto acquirente a partire dalla costituzione del rapporto con il costruttore e fino alla gestione della eventuale fase finale patologica del fallimento dell’imprenditore costruttore.
Il sistema di tutela si articola nei seguenti strumenti specifici:
§ la previsione della fideiussione da parte del costruttore; questi è obbligato, a pena di nullità del contratto, prima della stipula del preliminare, a rilasciare e consegnare una fideiussione (bancaria o assicurativa o comunque rilasciata da altro soggetto autorizzato) di importo pari alle somme riscosse o da riscuotere prima della stipula del contratto definitivo di compravendita dell’immobile, con esclusione di quelle che debbano essere erogate da un soggetto mutuante. La garanzia opera quando il costruttore versi in “situazione di crisi” (che l’art. 2, lett. c, della legge delega individua nella sottoposizione ad esecuzione immobiliare sulla casa oggetto del contratto, nel fallimento, e nelle altre procedure concorsuali) (lett. c, d);
§ la introduzione dell’obbligo di forme di tutela risarcitoria dell’acquirente in caso di vizi e difformità dell’immobile manifestatesi dopo la compravendita o l’assegnazione (lett. e);
§ la istituzione di un Fondo di solidarietà a beneficio degli acquirenti che, a seguito dell’insolvenza del costruttore, tra il 31 dicembre 1993 e la data di entrata in vigore della legge abbiano perduto somme versate e non abbiano conseguito la proprietà o l’assegnazione del bene. Tale Fondo, alimentato da contributi obbligatori posti a carico dei costruttori in misura non inferiore al 5 per mille delle fideiussioni cui essi sono tenuti, è articolato in sezioni autonome definite in base ad ambiti territoriali ed è accessibile per una volta sola (lett. f, g, h, i, l);
§ la non esperibilità di azioni revocatorie nei confronti dell’acquirente (lett. b).
La norma individua altresì i contenuti del contratto preliminare diretto all’acquisto dell’immobile da costruire (lett. m) e segnala la necessità di rendere effettivo il diritto dell’acquirente al perfezionamento degli atti e delle formalità connesse alla stipula del definitivo contratto di compravendita insieme alla possibilità di suddivisione in quote del finanziamento per l’acquisto dell’immobile e del frazionamento della relativa ipoteca a garanzia (lett. n).
In attuazione della citata delega legislativa, è stato adottato il decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della legge 2 agosto 2004, n. 210.
L’articolo 1 recepisce senza modifiche l’elenco delle definizioni, già contenuto nell’articolo 2 della legge di delega 210/2004, integrato con la nozione di “immobile da costruire”, come peraltro già inquadrata nell’articolo 1, comma 1, della legge di delega (“sono immobili da costruire quelli per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità”).
L’articolo 2 disciplina l’oggetto della garanzia fideiussoria. In attuazione dell’articolo 3, lettera c), legge delega, si prevede l’obbligo del costruttore di procurarsi e consegnare all’acquirente una fideiussione a garanzia delle somme riscosse o da riscuotere prima che si dia corso al trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento. Tale obbligo, la cui violazione cagiona la nullità dell’intero contratto (si tratta, tuttavia, di una ipotesi di nullità relativa che soltanto la parte acquirente, a tutela della quale la disposizione è dettata, può far valere), grava sul costruttore sia all’atto della stipula di un contratto obbligatorio avente come finalità il trasferimento successivo della proprietà o di altro diritto reale di godimento, sia al compimento di qualsivoglia altro atto che abbia le medesime finalità (comma 1). Per le società cooperative si dispone (comma 2) che l’atto equipollente al contratto indicato al comma 1 è quello con il quale il soggetto, socio o meno della cooperativa, versa somme o assume obbligazioni con la medesima per ottenere l’assegnazione in proprietà o l’acquisto della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire per iniziativa della stessa.
L’articolo 3 disciplina il rilascio, il contenuto e le modalità di escussione della fideiussione di cui all’articolo precedente. In particolare si dispone che la suddetta garanzia possa essere rilasciata, in conformità a quanto previsto all’articolo 3, lettera d), della legge delega, soltanto da una banca, da un’impresa esercente assicurazioni, oppure da intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107 del TUB (D.Lgs.n. 385 del 1993) e sottoposti, quindi, ai controlli ed alla sorveglianza della Banca d’Italia. La fideiussione garantisce all’acquirente, nella ipotesi in cui il costruttore incorra in uno stato di crisi, la restituzione delle somme versate, ma anche il valore di ogni altro corrispettivo che sia stato corrisposto al costruttore, come, ad esempio, l’area edificabile ceduta in permuta contro un immobile da costruire (comma 1). Il comma 2 provvede ad individuare il momento nel quale deve intendersi verificata ogni singola ipotesi di situazione di crisi, rilevante per l’operare della garanzia fideiussoria.
La fideiussione può essere escussa a decorrere dalla data in cui si è verificata una delle illustrate situazioni di crisi, a condizione che, per l’ipotesi di cui al primo punto del comma 2, l’acquirente abbia comunicato al costruttore la risoluzione del contratto e, per le ipotesi di cui ai successivi punti, il competente organo della procedura concorsuale non abbia comunicato la volontà di subentrare nel contratto preliminare.
Per quanto concerne le modalità di escussione della garanzia, esse sono state disciplinate in modo da facilitare il recupero di quanto versato dall’acquirente in tempi rapidi e con procedure semplificate: la fideiussione deve, quindi, prevedere la rinuncia del garante al beneficio della preventiva escussione del debitore principale; può essere escussa a semplice richiesta scritta dell’acquirente corredata dalla documentazione attestante i versamenti; il relativo pagamento deve essere effettuato dal garante entro trenta giorni dalla richiesta, senza che il mancato versamento della commissione o del premio assicurativo possa essere opposto all’acquirente.
L’efficacia della fideiussione viene meno all’atto della stipula dell’atto definitivo di trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento, dal momento che “l’acquisto del diritto reale sul bene garantisce all’acquirente il soddisfacimento del proprio interesse sostanziale”.
L’articolo 4 concerne l’assicurazione dell’immobile. Come già disposto all’articolo 3, lettera e) della legge delega, si sancisce l’obbligo del costruttore di stipulare una polizza assicurativa decennale a beneficio dell’acquirente, finalizzata a garantire il risarcimento dei danni conseguenti ai vizi dell’immobile di cui all’articolo 1669 del codice civile e manifestatisi successivamente alla stipula dell’atto definitivo di compravendita o di assegnazione .
L’articolo 5 definisce l’ambito di applicabilità della disciplina fin qui definita: le disposizioni relative all’obbligatorietà della garanzia fideiussoria e dell’assicurazione per i vizi dell’immobile non si applicano ai contratti aventi ad oggetto immobili per la cui costruzione, alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, sia già stato richiesto il relativo provvedimento abilitativo comunale: ciò, al fine di evitare che iniziative edilizie già in corso siano gravate da oneri ed adempimenti imprevisti al momento del rilascio del relativo preventivo.
L’articolo 6 individua, in attuazione dell’articolo 3, lettera m), della legge delega, il contenuto del contratto preliminare ed i documenti che ad esso devono essere allegati in modo da rendere più trasparente l’operazione negoziale e consentire al promissario acquirente di acquisirne una completa rappresentazione.
Gli articoli 7 e 8 intervengono con modifiche ed integrazioni sull’art. 39 del TUB (testo unico bancario)[242] e costituiscono attuazione delle previsioni contenute nell’art. 3, lett. n) della legge delega; tali disposizioni mirano a garantire all’acquirente, da un lato (art. 7) il diritto alla suddivisione in quote del finanziamento ed il corrispondente frazionamento dell’ipoteca iscritta a garanzia; dall’altro e dall’altro, a che l’eventuale cancellazione dell’ipoteca o del pignoramento gravante sull’immobile possa avvenire prima della stipula del contratto definitivo di compravendita o, al più tardi, contestualmente alla stipula stessa (art. 8).
Sempre al fine di garantire l’effettività dell’acquisizione dell’immobile (art. 3, lett. a, della legge delega), all’articolo 9 si prevede il riconoscimento all’acquirente che abbia già ottenuto la consegna dell’immobile e lo abbia adibito ad abitazione principale per sé o per un proprio parente in primo grado, del diritto di essere preferito nell’acquisto di detto immobile nel caso in cui lo stesso formi oggetto di vendita all’incanto; il prezzo di acquisto è lo stesso fissato dall’incanto.
In attuazione di quanto previsto dall’art. 3, lett. b) della legge delega, l’articolo 10 introduce esenzioni e limiti alla esperibilità della revocatoria fallimentare.
L’articolo 11 del decreto aggiunge un articolo, il 72-bis, alla legge fallimentare (Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267); tale disposizione è volta alla attribuzione al promissario acquirente di un immobile da costruire, in caso di fallimento del venditore o promittente tale, della facoltà di sciogliersi dal contratto: tale possibilità è attualmente riconosciuta, in alternativa a quella di subentrare nel contratto, al solo curatore, senza che il promissario acquirente possa adottare alcuna autonoma determinazione; la norma costituisce attuazione delle previsioni dell’art. 3, lett. b) della legge delega, in cui si evidenzia la necessità di una modifica in tal senso dell’art. 72 della legge fallimentare. Si disciplina, infine, l’ipotesi in cui il curatore sia più sollecito del compratore nella scelta, optando per l’esecuzione del contratto: quest’ultimo potrà acquistare comunque l’immobile stipulando con la curatela il contratto definitivo di compravendita.
Gli articoli da 12 a 18 disciplinano l’istituzione e la gestione del Fondo di solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire, nonché le modalità di accesso al Fondo stesso, nel rispetto dei principi e criteri direttivi previsti dall’articolo 3, lettere da f) a l), della legge delega.
In particolare, la finalità del Fondo – ora istituito con il D.M. giustizia 2 febbraio 2006[243] - è quella di assicurare un indennizzo, nell'ambito delle risorse del medesimo Fondo, agli acquirenti che, a seguito dell'assoggettamento del costruttore a procedure implicanti una situazione di crisi, hanno subito la perdita di somme di denaro o di altri beni e non hanno conseguito il diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento su immobili oggetto di accordo negoziale con il costruttore ovvero l'assegnazione in proprietà o l'acquisto della titolarità di un diritto reale di godimento su immobili da costruire per iniziativa di una cooperativa.
Per reperire le risorse destinate al Fondo, e' istituito un contributo obbligatorio a carico dei costruttori (per un periodo massimo di 15 anni) tenuti all'obbligo di procurare il rilascio e di provvedere alla consegna della fideiussione di cui all'articolo 2; il contributo e' versato direttamente dal soggetto che rilascia la fideiussione.
Ai fini dell'accesso alle prestazioni del Fondo, devono risultare nei confronti del costruttore, a seguito della sua insolvenza, procedure implicanti una situazione di crisi non concluse in epoca antecedente al 31 dicembre 1993 ne' aperte in data successiva a quella di emanazione del decreto.
La legge 13 giugno 2005, n. 118, Delega al Governo concernente la disciplina dell’impresa sociale, ha inteso colmare una lacuna dell’ordinamento relativa alla disciplina di un tipo particolare di impresa, definita “sociale” e ricompresa nell’ambito dei cosiddetti enti non profit. Si tratta di una categoria rientrante nel c.d. terzo settore, che comprende soggetti con differenti connotazioni giuridiche, che svolgono la loro attività, anche imprenditoriale, ma comunque al di fuori della logica del profitto propria del mercato. L'elemento unificante appare rappresentato proprio dall'assenza di fine di lucro, cioè dalla mancata redistribuzione di utili tra gli associati.
La finalità perseguita dal provvedimento è pertanto quella di superare, dettando una disciplina specificamente applicabile all’impresa sociale, la dicotomia, attualmente presente nelle norme codicistiche, tra enti del libro I, senza fini di lucro e destinati al perseguimento di finalità etiche e/o ideali ed enti del libro V, finalizzati invece alla produzione in funzione meramente lucrativa o di mutualità interna di beni e servizi.
La legge 118/2005, recuperando alcuni aspetti presenti nella vigente disciplina di alcune delle fattispecie rientranti nel c.d. “terzo settore”, ha infatti delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per adottare una definizione di impresa sociale applicabile trasversalmente ad enti del libro I e del libro V del codice e per adottare le fondamentali prescrizioni della relativa disciplina.
Il provvedimento si compone di un solo articolo.
Il comma 1 si apre con la previsione della delega al Governo, da esercitare:
§ entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge,
§ su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, del Ministro delle attività produttive, del Ministro della giustizia, del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro dell’interno,
§ con l’emanazione di uno o più decreti legislativi,
§ per disciplinare organicamente, a integrazione delle norme dell’ordinamento civile, le imprese sociali, definite come le organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un’attività economica di produzione o di scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale.
Vengono poi stabiliti quattro principi e criteri direttivi relativi:
§ alla definizione del carattere sociale dell’impresa. Nella messa a punto di tale definizione sarà necessario tener conto delle materie di particolare rilievo sociale in cui l’impresa opera la prestazione di beni e servizi, che dovrà essere diretta a tutti i potenziali fruitori, senza limitazione ai soli soci, associati o partecipi. Occorrerà poi tener conto del divieto di ridistribuire, anche in modo indiretto, gli utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale ad amministratori e a persone fisiche o giuridiche partecipanti, collaboratori o dipendenti, e dell’obbligo di reinvestire gli utili o gli avanzi di gestione nello svolgimento dell’attività istituzionale, nonché dell’esclusione della possibilità che soggetti pubblici o imprese private con fini di lucro possano detenere il controllo, anche attraverso la facoltà di nomina maggioritaria degli organi di amministrazione;
§ alla previsione di disposizioni omogenee in relazione ad alcuni aspetti coerenti con il carattere sociale dell’impresa e compatibili con la struttura dell’ente. Tali aspetti riguardano l’elettività delle cariche sociali e le relative situazioni di incompatibilità; la responsabilità degli amministratori nei confronti dei soci e dei terzi; la ammissione ed esclusione dei soci; l’obbligo di redazione e di pubblicità del bilancio economico e sociale e di previsione di forme di controllo contabile e di monitoraggio dell’osservanza delle finalità sociali da parte dell’impresa; l’obbligo di devoluzione, in caso di cessazione dell’impresa, del patrimonio residuo ad altra impresa sociale ovvero ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, fatto salvo, per le cooperative sociali, quanto previsto dalla legge 31 gennaio 1992, n. 59, (Nuove norme in materia di società cooperative); l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese; la definizione delle procedure applicabili in caso di insolvenza; la rappresentanza in giudizio da parte degli amministratori e la responsabilità limitata al patrimonio dell’impresa per le obbligazioni da questa assunte; la previsione di organi di controllo; forme di partecipazione nell’impresa anche ai diversi prestatori d’opera e ai destinatari delle attività. Ancora, una disciplina delle trasformazione, fusione e cessione d’azienda in riferimento alle imprese sociali tale da preservarne la qualificazione e gli scopi e garantire la destinazione dei beni delle stesse finalità di interesse generale; la disciplina delle conseguenze sulla qualificazione e disciplina dell’impresa sociale, derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni relative ai requisiti dell’impresa sociale e della violazione di altre norme di legge, con particolare riferimento alla materia del lavoro, della sicurezza, e della contrattazione collettiva.
§ all’attivazione, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di funzioni e servizi permanenti di monitoraggio e di ricerca necessari alla verifica della qualità delle prestazioni rese dalle imprese sociali;
§ alla definizione della disciplina dei gruppi di imprese sociali secondo i principi di trasparenza e tutela delle minoranze, regolando i conflitti di interesse e le forme di abuso da parte dell’impresa dominante.
Il comma 2 delega, poi, il Governo al coordinamento delle disposizioni adottate in attuazione delle delega con quelle vigenti nelle medesime materie e nelle materie connesse, sentite la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nonché le rappresentanze del terzo settore, e ferme restando le disposizioni in vigore concernenti il regime giuridico e amministrativo degli enti riconosciuti dalle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese.
Viene poi stabilito (comma 3) che dall’attuazione della legge non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica
I commi 4, 5 e 6 disciplinano, infine, la procedura concernente l’espressione del parere sugli schemi dei decreti legislativi da parte delle competenti Commissioni parlamentari. Il provvedimento ha optato per la procedura del cosiddetto “doppio parere” secondo il quale, espresso il primo parere parlamentare, il Governo, ove non intenda conformarsi alle condizioni ivi eventualmente formulate, trasmette nuovamente alle Camere i testi, corredati dai necessari elementi integrativi di informazione, per i pareri definitivi delle Commissioni parlamentari competenti.
Completato il prescritto passaggio parlamentare, in attuazione della citata delega, il Governo ha emanato il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155 Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118.
L’articolo 1 fornisce la nozione di impresa di utilità sociale, riprendendola testualmente da quella contenuta nella legge delega, che fa riferimento a quelle organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata di produzione e scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale. Nella relativa nozione sono stati fatti rientrare anche i requisiti di cui agli articoli 2 (Utilità sociale), 3 (Assenza dello scopo di lucro) e 4 (Struttura proprietaria e disciplina dei gruppi) del decreto.
Il comma 2 esclude dal novero di impresa sociale le amministrazioni pubbliche di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, e le organizzazioni i cui atti costitutivi limitino, anche indirettamente, l’erogazione dei beni e dei servizi in favore dei soli soci, associati o partecipi.
In ossequio ad una specifica indicazione della legge delega (lettera a) articolo 1), il comma 3 stabilisce una particolare disciplina per gli enti ecclesiastici e gli enti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, rimettendo ad uno specifico regolamento, adottato in forma di scrittura privata autenticata, il recepimento delle norme del provvedimento relative allo svolgimento delle attività di utilità sociale.
L’articolo 2, in attuazione di quanto indicato dalla lettera a) dell’articolo 1 della legge 118/2005, stabilisce i settori nei quali i beni e servizi prodotti o scambiati possano essere considerati di utilità sociale.
In particolare, il comma 1, fa riferimento ai seguenti settori:
§ assistenza sociale, ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali);
§ assistenza sanitaria, per l’erogazione delle prestazioni di cui al d.p.c.m. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli di assistenza) e successive modificazioni;
§ assistenza socio-sanitaria, ai sensi del d.p.c.m. del 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie);
§ educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53 (Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale);
§ tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai sensi della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), con esclusione dell’attività, esercitata abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi;
§ valorizzazione del patrimonio culturale, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);
§ turismo sociale (articolo 7, comma 10, della legge 29 marzo 2001, n. 135, recante “Riforma della legislazione nazionale del turismo”);
§ formazione universitaria e post-universitaria;
§ ricerca ed erogazione di servizi culturali;
§ formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico e formativo;
§ servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al 70% da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale.
Il comma 2 consente inoltre l’acquisizione della qualifica di impresa sociale a quelle organizzazioni che, indipendentemente dallo svolgimento delle attività indicate nel precedente comma 1, esercitano attività di impresa ai fini dell’inserimento lavorativo di soggetti rientranti in particolari categorie alla luce della normativa comunitaria in materia di aiuti di stato all’occupazione (lavoratori svantaggiati e lavoratori disabili).
La percentuale di lavoratori rientranti in tali categorie – la cui particolare situazione deve essere attestata da documentazione proveniente dalla pubblica amministrazione - deve comunque essere non inferiore al 30% dei lavoratori impiegati a qualunque titolo nell’impresa.
Il comma 3 fissa inoltre una soglia quantitativa per la determinazione di attività principale (ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del decreto e della legge delega) - da definire più precisamente con decreto del ministro delle attività produttive e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali - quale quella per la quale i relativi ricavi sono superiori al 70% dei ricavi complessivi dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale.
In attuazione delle previsioni di cui ai nn. 2 e 3, lettera a) dell’articolo 1 della legge 118/2005, l’articolo 3 del decreto - dopo aver disposto l’obbligo per l’organizzazione esercente un’impresa sociale, di destinare gli utili o gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio (comma 1) e dopo aver vietato la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione, nonché di fondi e riserve in favore di soci, amministratori, partecipanti, lavoratori o collaboratori - definisce alcune condotte costituenti “distribuzione indiretta di utili”.
In attuazione delle previsioni di cui al n. 4 della lettera a) dell’articolo 1 della legge delega, l’articolo 4 detta norme in materia di struttura proprietaria e di disciplina dei gruppi.
Più in particolare, il comma 1 del citato articolo richiama, per la disciplina dell’attività di direzione e controllo dell’impresa sociale, le norme di cui al Capo IX del Titolo V del Libro V nonché l’articolo 2545 septies,c.c. (Gruppo cooperativo paritetico) c.c.
Viene stabilito l’obbligo per i gruppi di imprese sociali di depositare l’accordo di partecipazione presso il registro delle imprese e di redigere e depositare i documenti contabili ed il bilancio sociale in forma consolidata secondo le linee guida di cui al successivo articolo 10 (Scritture contabili).
I commi 3 e 4, inibiscono alle amministrazioni pubbliche e alle imprese private con fini di lucro di svolgere funzioni di direzione e detenere il controllo di un impresa sociale, sancendo, al contempo, l’annullabilità degli atti assunti con il voto determinante di tali soggetti.
L’articolo 5 sancisce la costituzione con atto pubblico dell’organizzazione che esercita un’impresa sociale stabilendo l’obbligo di indicare l’oggetto sociale e l’assenza dello scopo di lucro.
Vengono poi stabilite particolari modalità di deposito, degli atti costitutivi, delle loro modificazioni e degli altri fatti relativi all’impresa. E’ previsto l’accesso per via telematica, da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, agli atti depositati presso il registro delle imprese.
L’articolo 6 dispone in tema di responsabilità patrimoniale delle imprese sociali, stabilendo che, nelle organizzazioni esercenti tale tipo di impresa, con patrimonio superiore a ventimila euro, dal momento della iscrizione nella apposita sezione del registro, delle obbligazioni assunte risponde soltanto l’organizzazione con il suo patrimonio.
Soltanto quando risulta che, in conseguenza di perdite, il patrimonio è diminuito di oltre un terzo rispetto all’importo citato, delle obbligazioni assunte rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa. Tali norme non sono comunque applicabili agli enti ecclesiastici e agli enti delle confessioni religiose con cui lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese.
L’articolo 7 rende obbligatorio l’uso della locuzione impresa sociale, vietandola al contempo a soggetti diversi dalle organizzazioni effettivamente esercenti un’impresa sociale. Come evidenziato dalla relazione illustrativa si tratta di disposizioni ispirate ad esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi. In ogni caso tale obbligo non sussiste per gli enti ecclesiastici o religiosi.
In tema di cariche sociali, l’articolo 8 esclude che negli enti associativi la nomina della maggioranza dei componenti delle cariche sociali possa essere riservata a soggetti esterni all’organizzazione che esercita l’impresa sociale - salve previsioni specifiche per ogni tipo di ente dalle norme legali e statutarie compatibilmente con la loro natura - .
In ogni caso, non possono rivestire tali cariche soggetti nominati dalle imprese private con fini di lucro e dalle pubbliche amministrazioni. Nell’ambito dell’atto costitutivo dovranno poi essere previsti specifici requisiti di onorabilità professionalità ed indipendenza.
In tema di modalità di ammissione ed esclusione dei soci e di disciplina del rapporto sociale, l’articolo 9 sancisce il rispetto del principio di non discriminazione nonché la necessità di garantire nello statuto la possibilità di beneficiare di una decisione dell’assemblea dei soci al riguardo.
L’articolo 10 dispone in tema di obbligo di tenuta delle scritture contabili, richiamando le disposizioni codicistiche (artt. 2216 e 2217 c.c.).
In materia di bilancio, tuttavia, viene richiamato il rispetto di linee guida adottate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentita l’Agenzia per le Onlus. Per gli enti ecclesiastici, tuttavia, tali disposizioni si applicano limitatamente alle attività indicate nel regolamento.
In tema di organi di controllo, l’articolo 11 stabilisce che, nel caso di superamento di due dei limiti indicati nel comma 1 dell’articolo 2435–bis del codice civile (totale attivo patrimoniale, ricavi delle vendite e delle prestazioni, dipendenti occupati in media durante l’anno), ridotti alla metà, gli atti costitutivi devono prevedere la nomina di uno o più sindaci che vigilino sul rispetto della legge, dello statuto e dei principi di corretta amministrazione, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile.
I sindaci esercitano anche compiti di monitoraggio e possono procedere in qualsiasi momento ad atti di ispezione e controllo; inoltre, nel caso in cui l’impresa sociale superi per due esercizi consecutivi i citati limiti di cui al’art. 2435-bis, deve essere previsto anche il controllo contabile esercitato da uno o più revisori o dai sindaci.
L’articolo 12 stabilisce l’obbligo di prevedere, nei regolamenti aziendali o negli atti costitutivi, forme di coinvolgimento dei lavoratori e delle attività.
L’articolo 13 detta alcune regole in tema di trasformazione, fusione, scissione e cessione d’azienda e devoluzione del patrimonio; in particolare, gli atti in questione devono conformarsi a linee guida adottate con decreto del Ministro del lavoro, sentita l’Agenzia per le onlus; sia il Ministro che l’Agenzia devono, in ogni caso autorizzare gli atti. Le regole dettate dall’art. 13 non si applicano se degli atti in oggetto beneficia un’altra impresa sociale.
L’articolo 14 dispone che il trattamento economico e normativo applicabile ai lavoratori dell’impresa sociale non può essere inferiore a quello previsto dai contratti e accordi collettivi; è ammessa anche, entro certi limiti (50%), la prestazione di attività di volontariato, salve regole particolari per gli enti ecclesiastici.
L’articolo 15 assoggetta le imprese sociali – fatta eccezione per gli enti ecclesiastici - in caso di insolvenza, alla procedura della liquidazione coatta amministrativa.
L’articolo 16 attribuisce al Ministero del lavoro e delle politiche sociali una funzione di controllo sul rispetto delle norme del provvedimento da parte delle imprese sociali; mentre nei casi meno gravi gli uffici competente diffidano gli organi direttivi dell’impresa a regolarizzare i comportamenti illegittimi, in caso di accertata violazione delle norme di cui agli articoli 1, 2, 3 e 4 o di mancata ottemperanza alla intimazione alla regolarizzazione del comportamento nel caso di violazione delle altre disposizioni, viene disposta la perdita della qualifica di impresa sociale con conseguente cancellazione dal registro delle imprese.
Le determinazioni e i compiti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali vengono assunte e svolti sentita l’agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale.
L’articolo 17 detta, infine, norme di coordinamento.
La legge 8 luglio 2005, n. 137[244] è intervenuta sull’istituto dell’indegnità a succedere, disciplinato dall’articolo 463 del codice civile.
Le modifiche approvate hanno riguardato essenzialmente l’inserimento di una nuova ipotesi di indegnità a succedere e di esclusione dalla successione, nei confronti di chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti del de cuius, non sia stato reintegrato nella medesima alla data di apertura della successione.
Si ricorda che l’indegnità a succedere, conseguente ad un comportamento riprovevole tenuto dal successore nei confronti del de cuius o dei suoi eredi legittimari, consiste nell’esclusione dalla successione e, a differenza dell'incapacità a succedere, non impedisce la chiamata all'eredità, bensì l'acquisto dei beni. L’indegno, per una delle cause di cui all’art. 463 c.c., può, dunque, acquistare i beni ma deve restituire quanto ricevuto se una sentenza costitutiva lo escluda dalla successione. L’ordinamento tuttavia ammette che il de cuius possa perdonare l’indegno, riabilitandolo; peraltro, l’effetto pratico della riabilitazione può essere conseguito anche qualora il de cuius disponga in favore dell’indegno, essendo a conoscenza della causa di indegnità (art. 466 c.c.). L'esclusione comporta, nella successione testamentaria a titolo universale, l'accrescimento della quota in favore degli altri coeredi (art. 674 c.c.).
L’art. 463 c.c. previgente alla legge 137/2005 prevedeva l’esclusione dalla successione come indegno:
1) di chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale;
2) di chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge penale dichiara applicabili le disposizioni sull'omicidio;
3) di chi ha denunziato una di tali persone per reato punibile con la morte, con l'ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone medesime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale;
4) di chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l'ha impedita;
5) di chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata;
6) di chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.
L’articolo unico della legge 137/2005 ha così modificato l’art. 463 del codice civile:
§ la lettera a) ha soppresso l’aggettivo “penale” riferito alla legge che dichiari applicabili ad un determinato fatto le disposizioni dell’omicidio, di cui al numero 2) dell’articolo 463 c.c.
§ La lettera b) ha soppresso il riferimento, contenuto al numero 3) dell’articolo, al reato punibile con la morte, considerato che l’ordinamento giuridico italiano non contempla la pena capitale, né in tempo di pace né in tempo di guerra.
§ La lettera c), come sopra ricordato, ha introdotto, con il numero aggiuntivo 3-bis, l’indegnità a succedere (nei confronti del de cuius) del genitore privato della potestà genitoriale che, alla data di apertura della successione, non risulti reintegrato nella medesima potestà.
L’articolo 330 c.c. prevede che quando il genitore viola o trascura i doveri inerenti alla potestà o abusa dei relativi poteri, con grave pregiudizio del figlio, il tribunale per i minorenni può pronunciare la decadenza dalla potestà sui figli, ordinando anche l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Il pregiudizio per il figlio può essere sia morale sia materiale: così, ad es., i maltrattamenti possono essere rivolti, oltre che nei confronti del minore, anche neiconfronti dell'altro genitore, arrecando un danno, soltanto psicologico, al minore; in tal caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare.
Tuttavia può reintegrarlo nella potestà quando, venute meno le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, è escluso ogni pericolo di pregiudizio al figlio (art. 332 c.c.).
In caso di condotta pregiudizievole al figlio, ma non tanto grave da determinare la decadenza dalla potestà, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti (revocabili in qualsiasi momento), e può anche disporre l'allontanamento del minore dalla residenza familiare (art. 333 c.c.).
La legge 14 febbraio 2006, n. 55,Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia ha introdotto una significativa disciplina derogatoria al generale divieto di patti successori, sancito dall’articolo 458 del codice civile.
Com’è noto, tale divieto comporta la nullità dei:
§ patti istituitivi, con cui una persona dispone della propria successione;
§ patti dispositivi, con cui taluno dispone (a favore di altri) dei diritti che gli deriverebbero solo a successione aperta;
§ patti rinunciativi, con cui taluno rinuncia ai diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta.
La ratio del divieto dei patti successori deriva fondamentalmente dalla necessità di tutelare la libertà del testamento e la sua revocabilità, quindi dall’esigenza di assicurare ad una persona, fino al momento della morte, la facoltà di disporre dello ius poenitendi e di decidere, quindi, della propria successione con un atto di ultima volontà. La nullità si estende anche ai patti che contengono soltanto l’impegno ad istituire taluno erede o legatario (Cass. 24 novembre 1980, n. 6230).
La legge n. 55/2006 limita il proprio campo di applicazione al settore della successione di impresa, ambito in cui si è ritenuto che la rigidità del divieto dei patti successori dovesse cedere terreno al diritto all’esercizio dell’autonomia privata ma soprattutto alla esigenza di garantire dinamicità agli istituti collegati all’attività d’impresa.
Peraltro, la nuova disciplina è coerente con il contenuto della Comunicazione della Commissione europea n. 98/C93/02 del 28 marzo 1998 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, che ha citato il ricorso ai patti d’impresa o agli accordi di famiglia tra le misure giuridiche che, consentendo di mantenere alcune regole gestionali da una generazione all’altra, contribuiscono ad agevolare la continuità dell’impresa
La legge n. 55/2006 permette, dunque, all’imprenditore di disporre liberamente della propria azienda per il periodo successivo alla propria morte, purchè in accordo con i componenti della propria famiglia e senza precludere il ricorso a strumenti di tutela da parte dei legittimari che a seguito degli accordi risultino esclusi dalla proprietà dell’azienda stessa.
La legge, composta di due articoli, non si è limitata a novellare il citato articolo 458 del codice civile ma ha introdotto, nel libro II, titolo IV, del codice un nuovo capo, il V-bis, sul patto di famiglia, contenente sette nuovi articoli (da 768-bis a 768-octies).
La novella dell’articolo 458 c.c., recata dall’articolo 1 della legge, consiste in un rinvio alla disciplina derogatoria contenuta nei nuovi articoli 768-bis e seguenti.
Passando ad analizzare le nuove disposizioni, contenute nell’articolo 2 della legge, il nuovo articolo 768-bis c.c. reca la nozione del patto di famiglia, un nuovo tipo di contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti.
L’articolo 768-ter prescrive, a pena di nullità, la stipulazione nella forma dell’atto pubblico.
L’articolo 768-quater dispone che al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. A tutela dei legittimari “esclusi” è previsto che gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie provvedano a liquidare questi ultimi (ove questi non vi rinuncino in tutto o in parte) con una somma di denaro corrispondente al valore delle quote di legittima (ex artt. 536 e ss.), ferma restando la possibilità, per i contraenti, di convenire una liquidazione totale o parziale “in natura”. Il terzo comma dell’articolo disciplina l’ipotesi che l’imprenditore, mediante il patto di famiglia assegni beni agli altri discendenti non assegnatari dell’azienda; in tal caso il valore di detti beni dovrà essere imputato alle loro quote di legittima. L’assegnazione potrà avvenire anche meditante contratto successivo al patto di famiglia, purchè dichiaratamente collegato ad esso e sottoscritto dagli stessi soggetti o dai loro sostituti.
L’articolo 768-quinquies, concernente i vizi del consenso, estende al patto di famiglia la disciplina codicistica recata all’articolo 1427 e ss., con la precisazione che la relativa azione si prescrive nel termine di un anno, e non nei cinque anni previsti dall’articolo 1442 c.c. per l’esercizio dell’azione di annullamento per vizi del consenso.
L’articolo 768-sexies disciplina i rapporti con i terzi: allo scopo di tutelare il coniuge o gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto è riconosciuto a costoro, all’apertura della successione dell’imprenditore, il diritto di chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento della somma corrispondente alla quota di legittima, comprensiva degli interessi legali.
L’articolo 768-septies concerne l’ipotesi di scioglimento o modifica del contratto, su iniziativa delle stesse persone che lo hanno concluso e secondo modalità che la norma provvede a disciplinare: mediante un nuovo contratto, avente gli stessi requisiti di forma e di sostanza del patto di famiglia oppure mediante una dichiarazione di recesso, qualora questo sia espressamente previsto nel patto di famiglia, da rendere agli altri contraenti con la certificazione di un notaio.
Infine, l’articolo 768-octies dispone che le controversie relative all'applicazione delle nuove norme siano preliminarmente devolute ad uno degli organismi di conciliazione stragiudiziale, previsti dall'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
La norma citata prevede che enti pubblici o privati che diano garanzie di serietà ed efficienza possano istituire organismi chiamati, su istanza della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazione delle controversie nelle materie societarie. Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia. Le camere di commercio, che abbiano costituito organismi di conciliazione ai sensi dell'articolo 4 della loro legge di riordino delle stesse camere di commercio (L. 29 dicembre 1993, n. 580), hanno diritto ad ottenere l'iscrizione di tali organismi nel registro.
Come si ricorderà, nella XIII legislatura, la cd. legge sulla privacy 31 dicembre 1996, n. 675 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” aveva dato attuazione alla Convenzione 108/81 del Consiglio d’Europa ed a gran parte delle disposizioni delle direttive 95/46/CE e 97/66/CE, sulla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. Ciò ha permesso all’Italia di raggiungere un livello di tutela del trattamento dei dati particolarmente elevato, ma ha comportato, anche per la novità della materia, la necessità di successivi aggiustamenti e correzioni di rotta.
Le difficoltà incontrate nella redazione della legge 675/96 sono state molteplici, dovute sia dalla molteplicità dei settori interessati alla regolamentazione, sia dalla necessità di stabilire le relative discipline nei settori più disparati ed impensabili dell’ordinamento giuridico. Perciò, il legislatore, ben conscio della fragilità del sistema approntato, il quale rivestiva connotati di assoluta novità nel panorama giuridico preesistente, ha accompagnato la normativa fondamentale (la legge 675/1996) con una legge di delega, la legge 676/96. Con essa autorizzava il Governo ad emanare, entro il mese di luglio 1998, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative alla legge 675/96. Tali decreti avrebbero dovuto completare la vasta disciplina con normative settoriali e con disposizioni correttive, al fine di pervenire ad una disciplina finale che consentisse effettivamente di tutelare, nella sua globalità, la riservatezza del cittadino, così come richiesto dagli impegni assunti dal nostro Paese in ambito internazionale.
Il Governo, nella fase attuativa, incontrò molte difficoltà per la vastità e per la complessità della materia: in sede parlamentare vi è stato chi ha evidenziato come la legge 675/96 abbia avviato una rivoluzione copernicana nei rapporti cittadini-autorità e nei rapporti dei privati tra loro. Di conseguenza il termine fu, una prima volta (legge 6 ottobre 1998, n. 334) differito al 31 luglio 1999, e, una seconda volta (legge 24 marzo 2001, n. 127) al 31 dicembre 2001.
Va ricordato che nella citata legge 24 marzo 2001, n. 127, Differimento del termine per l' esercizio della delega prevista dalla legge 31 dicembre 1996, n. 676, in materia di trattamento dei dati personali) vi era un’ulteriore delega al Governo diretta all’emanazione, entro il 31 dicembre 2002, di un Testo unico delle disposizioni sul trattamento dei dati, provvedimento che è rivelato quanto mai necessario solo se si considera la quantità di provvedimenti legislativi che dal 1996 hanno riguardano il tema della privacy. Si pensi, ad esempio, ai decreti legislativi 123/97 e 255/97 contenenti disposizioni integrative e correttive della legge 675/96; ai decreti legislativi 135/98, 389/98 e 135/99 sul trattamento di dati particolari da parte di soggetti pubblici; al decreto legislativo 171/1998 sul settore delle telecomunicazioni e sull’attività giornalistica; al Dpr 318/99 sulle misure minime di sicurezza; al decreto legislativo 281/99 sul trattamento di dati per finalità storiche,statistiche e di ricerca scientifica; al decreto legislativo 282/99 sui dati personali in ambito sanitario, ecc..
Una concreta ed organica risistemazione della materia si è avuta, quindi, soltanto con l’entrata in vigore del citato Testo Unico, ovvero il D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali, attuativo della delega legislativa conferita al Governo con la legge 127/2001.
La norma di delega aveva, come accennato, previsto che il Governo emanasse, entro il termine del 31 dicembre 2002, poi prorogato al 30 giugno 2003 (cfr. art. 26, L. 3 febbraio 2003, n. 14, Legge comunitaria 2002 , che ha disposto tale proroga al fine di consentire il recepimento della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 2002), un testo unico delle disposizioni in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali e delle disposizioni connesse, coordinandovi le norme vigenti ed apportando alle medesime le integrazioni e modificazioni necessarie al predetto coordinamento o per assicurarne la migliore attuazione.
Il testo unico, entrato in vigore il 1° gennaio 2004, è di matrice unicamente legislativa; sono pertanto state assorbite od eliminate le disposizioni di rango regolamentare non più necessarie ed è stato previsto come allegato al testo unico un disciplinare tecnico recante le misure minime di sicurezza. L’integrazione delle vigenti norme legislative con gli aspetti disciplinati a livello regolamentare consente una maggiore semplificazione delle norme che si sono intese riunire.
Tale impostazione è da porre in relazione con la natura fondamentale dei diritti e delle libertà che la nuova fonte disciplina, e anche con la volontà del legislatore di realizzare un organico sistema di garanzie per i cittadini insieme alla razionalizzazione delle norme esistenti, alla semplificazione degli adempimenti, nel rispetto della normativa comunitaria e della prassi applicativa maturata dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali.
In allegato al testo unico vengono poi riprodotti gli esistenti codici di deontologia e buona condotta, la cui allegazione non ne fa mutare le caratteristiche non legislative.
Il Codice, contenente 186 articoli, è diviso in tre parti.
La prima parte del codice (artt. 1-45) reca le disposizioni generali, riguardanti i diritti e le libertà fondamentali, le garanzie di ordine generale e la disciplina della responsabilità (artt. 1-17). Si è quindi articolata la successione degli adempimenti e delle regole del trattamento in base alla natura del soggetto preposto al trattamento dei dati personali: soggetti privati, soggetti pubblici (art. 18-22); privati ed enti pubblici economici (artt. 23-27). Sono quindi stati oggetto di nuova definizione, necessaria ai fini di una maggiore certezza interpretativa rispetto alla disciplina previgente e in linea con la prassi applicativa accolta dal Garante, i soggetti che effettuano il trattamento (titolare, responsabili, incaricati ex artt. 28-30). Inoltre, è stato semplificato e aggiornato il sistema delle misure minime di sicurezza, le cui modalità applicative sono contenute nel disciplinare tecnico allegato al codice (artt. 33-36), così come anche il sistema delle notificazioni (artt. 37-41), già previsto dal D.Lgs. 476/2001 e del trasferimento di dati all’estero (artt. 42-45).
Tra le novità di questa prima parte del testo unico si segnalano:
§ (art. 1) il “diritto alla protezione dei dati personali” è qualificato come diritto autonomo rispetto al “diritto alla riservatezza”, già previsto dalla legge 675/1996, in linea, tra l’altro, con quanto contenuto nella Carta dei diritti del cittadino europeo che qualifica tale diritto come essenziale;
§ (art. 2) è stato codificato il “principio di semplificazione nell’elevata tutela”, in forza del quale il più alto grado di tutela dei diritti è assicurato nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia;
§ (art. 3) è stato fissato il “principio di necessità nel trattamento dei dati” che deve guidare la configurazione di sistemi informativi e programmi informativi riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali;
§ (art. 7) all’interessato è attribuito il diritto di conoscere i soggetti ai quali i dati possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza (non più dunque soltanto i soggetti “destinatari” dei dati), in attuazione dell’articolo 12, par. 1, lett. a), primo punto, della direttiva 95/46/CE;
§ (art. 8) la nozione di pregiudizio allo svolgimento di investigazioni difensive derivante dall’esercizio dei diritti da parte dell’interessato è stata precisata nel senso che tale pregiudizio deve essere “effettivo e concreto”;
§ (art. 26) tra gli interventi di razionalizzazione del sistema per l’adeguamento della normativa alla direttiva 95/46/CE è stata integrata in modo significativo la disciplina del trattamento di dati sensibili effettuato da confessioni religiose;
§ per quanto riguarda i casi di trattamento consentito anche senza il consenso dell’interessato, previa autorizzazione del Garante, la disciplina è stata adeguata a criteri di maggiore garanzia e trasparenza in ordine agli organismi senza scopo di lucro (art. 26, co. 4, lett. a)); il diritto di “rango pari” dell’interessato, presupposto per la liceità del trattamento a rivelare lo stato di salute, è definito come relativo ad un diritto della personalità o altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile (art. 26, co. 4, lett. c)); è stato introdotto in osservanza della direttiva europea n. 95/46/CE, un ulteriore presupposto di liceità del trattamento in ordine a ciò che è necessario per adempiere a obblighi previsti dalla normativa, nazionale e comunitaria, in materia di gestione del rapporto di lavoro, nei limiti dell’autorizzazione del Garante e di quanto disposto dai codice deontologici e di buona condotta (art. 26, co. 4, lett. d)).
La seconda parte del testo unico (artt. 46-140) include disposizioni particolari in ordine a specifici trattamenti effettuati da soggetti pubblici, al fine di recepire i principi in materia di protezione dei dati personali già applicabili a tali trattamenti per effetto della legge n. 675/1996 con integrazione ed adattamenti indispensabili. I trattamenti in questione sono:
§ trattamenti in ambito giudiziario (artt. 46-52)
§ trattamenti da parte di forze di polizia (artt. 53-57)
§ difesa e sicurezza dello Stato (art. 58)
§ trattamenti in ambito pubblico (artt. 59-74)
§ trattamenti in ambito sanitario (artt. 75-94)
§ istruzione (artt. 95-96)
§ trattamento per scopi storici, statistici o scientifici (artt. 97-110)
§ lavoro e previdenza sociale (artt. 111-116)
§ sistema bancario, finanziario ed assicurativo (artt. 117-120)
§ comunicazioni elettroniche (artt. 121- 134)
§ libere professioni e investigazione privata (art. 135)
§ giornalismo ed espressione letterario ed artistica (artt. 136-139)
§ marketing diretto (art. 140).
Infine, il codice reca una terza parte (artt. 141-186) con le disposizioni relative alle azioni di tutela dell’interessato e al sistema sanzionatorio, nonché le disposizioni modificative, abrogative, transitorie e finali.
In particolare, la terza parte del provvedimento si articola nei seguenti ambiti di disciplina:
§ tutela amministrativa e giurisdizionale (artt. 141-152),
§ l’Autorità garante per la protezione dei dati personali: compiti, ufficio, accertamenti e controlli (artt. 153-160),
§ sanzioni amministrative e illeciti penali (artt. 161-172).
Il Titolo IV della Parte III del Codice raccoglie le disposizioni modificative di altri testi normativi connesse all’adozione del testo unico (Capo I, artt. 173-179), nonché le disposizioni transitorie (Capo II, artt. 180-182), le abrogazioni e le norme finali (artt. 183-184).
Infine, si segnala che l’articolo 183 del Codice, recante le abrogazioni espresse, ha abrogato, tra l’altro, la legge n. 675/1996 e il decreto legislativo n. 467 del 28 dicembre 2001 che aveva apportato specifici correttivi alla legge n. 675/1996, nonché al decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, attuativo delle direttive 95/46/CE del 24 ottobre 1995 (Direttiva del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento di dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati)e 97/66/CE del 15 dicembre 1997 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sul trattamento dei dati personali e sulla tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni).
In relazione alle disposizioni transitorie, occorre segnalare che a partire dall’entrata in vigore del Codice, si sono succeduti diversi interventi normativi volti a prorogare taluni termini di adeguamento alla nuova disciplina.
L’articolo 180, comma 1, del Codice, relativo alle misure di sicurezza nonché all’adozione del cd. documento programmatico sulla sicurezza, di cui agli articoli 33 e 35 e all’allegato B, aveva previsto la loro adozione entro il 30 giugno 2004.
Tale termine è stato prorogato una prima volta al 31 dicembre 2004 dall’articolo 3 del decreto-legge 24 giugno 2004, n. 158, convertito dalla legge 27 giugno 2004, n. 188, (Permanenza in carica degli attuali consigli degli ordini professionali e proroga di termini in materia di difesa d’ufficio e procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni, nonché protezione dei dati personali). Sono quindi intervenute ulteriori proroghe: al 30 giugno 2005 dall'articolo 6 del decreto-legge9 novembre 2004, n. 266, convertito dalla legge 27 dicembre 2004, n. 306, (Proroga o differimento di termini previsti da disposizioni legislative); al 31 dicembre 2005 dall'articolo 6-bis del decreto-legge30 dicembre 2004, n. 314, convertito dalla legge 1 marzo 2005, n. 26, (Proroga di termini); ed infine al 31 marzo 2006 dall'articolo 10 del decreto-legge30 dicembre 2005, n. 273, (Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti), convertito dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51.
Lo stesso articolo 180 aveva previsto, al comma 3, da parte del titolare del trattamento l’adeguamento entro un anno dall’entrata in vigore del Codice degli strumenti elettronici detenuti, così da renderli conformi alle misure di sicurezza.
I quattro decreti-legge sopra citati hanno, nell’ordine, prorogato detto termine prima al 31 marzo 2005, poi al 30 settembre 2005 , quindi al 31 marzo 2006 ed, infine al 30 giugno 2006.
L’articolo 181 del Codice, recante altre disposizioni transitorie, aveva disposto, al comma 1, lettera a), che per i trattamenti di dati personali iniziati prima del 1° gennaio 2004, in sede di prima applicazione del Codice, l'identificazione con atto di natura regolamentare dei tipi di dati e di operazioni ai sensi degli articoli 20, commi 2 e 3, e 21, comma 2, era effettuata, ove mancante, entro il 30 settembre 2004. Tale termine è stato portato al 31 dicembre 2005 dall’articolo 3 del citato decreto-legge 158/2004 (legge 188/2004) e poi al 15 maggio 2006 dall'art. 10, del decreto-legge 30 dicembre 273/2005 (legge 51/2006).
Limitatamente alle attività del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Commissari delegati, l’articolo 8-bis del decreto-legge 30 ottobre 2005, n. 245, convertito dalla legge 27 gennaio 2006, n. 21 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile. Disposizioni in materia di procedimenti di competenza del Dipartimento della protezione civile), ha prorogato il termine di cui all’articolo 181, comma 1, lettera a) al 30 giugno 2006.
Per completezza, va ricordata anche l’emanazione, nel corso della XIV legislatura, del decreto legislativo 28 dicembre 2001, n. 467 (Disposizioni correttive ed integrative della normativa in materia di protezione dei dati personali, a norma dell'articolo 1 della legge 24 marzo 2001, n. 127), provvedimento che, per ovvie esigenze di coordinamento, è stato successivamente abrogato - con la legge 675/1996 e tutta la disciplina di attuazione – a seguito dell’adozione del citato Testo Unico di cui al D.Lgs 196/2003.
Il decreto legislativo 467/2001, in attesa dell’adozione di un unico corpus normativo in materia, risistemava, sotto alcuni aspetti i temi già affrontati nella preesistente legislazione apportando modificazioni ed integrazioni alla legge quadro 675/1996, attuando alcuni principi di protezione dei dati in determinati settori, nonchè modificando il D.Lgs 171/98 che conteneva una prima attuazione della direttiva 97/66/CE sulla protezione dei dati personali e sulla tutela della vita privata in materia di telecomunicazioni.
Il decreto legge 11 marzo 2002, n. 28[245], convertito dalla legge 10 maggio 2002, n. 91 ha introdotto modifiche alla disciplina alla disciplina del contributo unificato di iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali.
La legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Finanziaria 2000), all’articolo 9, comma 1, aveva disposto la non applicazione dell’imposta di bollo, della tassa di iscrizione a ruolo, dei diritti di cancelleria, nonché dei diritti di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario per gli atti e per i provvedimenti relativi ai procedimenti civili, penali e amministrativi, comprese le procedure concorsuali e di volontaria giurisdizione, nonché per i provvedimenti in materia tavolare. Contestualmente alla disapplicazione delle citate imposte, l’art. 9 della legge n. 488 ha istituito, relativamente ai procedimenti giurisdizionali indicati, per ciascun grado di giudizio, un contributo unificato di iscrizione a ruolo secondo determinati importi e valori collegati, in misura forfettaria, al valore della controversia.
Tale nuova disciplina doveva inizialmente entrare in vigore il 1° luglio 2000; per difficoltà applicative, però, il termine è progressivamente slittato, fino ad arrivare al 1° marzo 2002.
Si ricorda che l’intera disciplina del contributo unificato è ora confluita nel testo unico spese di giustizia di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 che ha riorganizzato e reso sistematica l’intera materia delle spese giudiziarie (v. schedaTesto Unico spese di giustizia). Conseguentemente l’art. 9 della legge 488/1999 è stato abrogato.
Per tentare di risolvere numerosi problemi insorti nella fase applicativa della disciplina sul contributo unificato, il Governo era intervenuto con il decreto legge 11 marzo 2002, n. 28, che ha modificato in modo sostanziale la precedente formulazione dell'art. 9 della legge 488/1999.
Il provvedimento introduce nella disciplina del contributo unificato le seguenti principali innovazioni (articolo 1):
§ dispone la non applicazione dell’imposta di bollo, della tassa di iscrizione a ruolo, dei diritti di cancelleria, nonché dei diritti di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario per gli atti e per i provvedimenti relativi ai procedimenti civili, penali e amministrativi, comprese le procedure concorsuali e di volontaria giurisdizione, nonché per i provvedimenti in materia tavolare; in particolare si includono nell’esenzione gli atti e i provvedimenti necessari o funzionali ai procedimenti citati, anche se ad essi antecedenti. Il provvedimento dispone, inoltre, l’esenzione dalle imposte di bollo delle copie autentiche, comprese quelle esecutive, degli atti e dei provvedimenti civili, penali, amministrativi, tavolari, concorsuali e di volontaria giurisdizione (comma 01);
§ elimina la sanzione della irricevibilità, prevista dall’originario comma 3 dell’art. 9, per il caso di omesso pagamento del contributo, che si esponeva a fondati dubbi di legittimità costituzionale (comma 1);
§ aumenta il novero dei soggetti tenuti all'integrazione del contributo unificato in corso di causa. Mentre prima l'ipotesi era limitata alla modifica della domanda, ora la fattispecie è estesa alla domanda riconvenzionale, all'intervento autonomo e alla chiamata in causa che facciano scattare lo scaglione superiore previsto nella Tabella 1 allegata alla legge n. 488/99 e nei soli limiti dell'aumento (comma 1);
§ inserisce nel comma 4 dell'art. 9 della legge 488 la prenotazione a debito del contributo unificato da recuperare nei confronti dell’obbligato al risarcimento del danno nell'ipotesi di contributo dovuto a seguito di domanda risarcitoria formulata, anche in via provvisionale, nel procedimento penale (comma 2);
§ esclude l'improcedibilità della domanda per l'insufficiente pagamento del contributo nell'ipotesi di modifica della stessa che ne aumenti il valore (comma 3);
§ stabilisce, in caso di mancata dichiarazione del valore della causa, una presunzione di valore della causa corrispondente allo scaglione massimo, pari a 930 euro (comma 3);
§ inserisce nell’art. 9 il comma 5-bis che disciplina il meccanismo di riscossione del contributo unificato, in caso di mancato o insufficiente pagamento. Il funzionario addetto all'ufficio verifica la presenza della ricevuta di versamento e controlla se l'importo risultante dalla stessa è diverso dall'importo del corrispondente scaglione, individuato sulla base della dichiarazione resa dall'avvocato. Se il versamento è insufficiente il funzionario invita al pagamento dell’integrazione e, in caso di inottemperanza, procede alla formazione del ruolo e alla trasmissione del medesimo al concessionario per la riscossione. Nell'importo iscritto a ruolo sono calcolati gli interessi al saggio legale, decorrenti dal deposito dell'atto cui si collega il pagamento o l'integrazione del contributo (comma 4);
§ estende il novero dei procedimenti esenti dal contributo unificato ai procedimenti di rettificazione di stato civile; in materia tavolate; ai procedimenti cautelari attivati in corso di causa; al regolamento di giurisdizione e di competenza; ai procedimenti esecutivi mobiliari di valore inferiore a 2.500 euro; ai procedimenti di opposizione e cautelari; ai procedimenti in materia di assegno di mantenimento dei figli e comunque riguardanti la prole e, più in generale, a tutti i procedimenti in materia di famiglia e stato delle persone (comma 5);
§ disciplina la fase transitoria della riforma prevedendo che la parte il cui procedimento sia già iscritto a ruolo prima del 1° marzo 2002 possa, ferma restando l’irripetibilità di quanto già versato, optare per il pagamento del 50% del contributo unificato rilasciando l’apposita dichiarazione sul valore della causa (comma 6);
§ dispone l’equivalenza del pagamento dei diritti di cancelleria con marche ordinarie anche laddove sia previsto il pagamento mediante marche speciali (comma 6-bis);
§ sostituisce la tabella 1 allegata alla legge 488 con la seguente (comma 6-ter):
Valore dei processi |
Importo contributo unificato |
fino a euro 1.033 |
euro 0 (lett. a) |
da euro 1.033 a euro 5.165 |
euro 62 (lett. b) |
da euro 5.165 a euro 25.823 |
euro 155 (lett. c) |
da euro 25.823 a euro 51.646 |
euro 310 (lett. d) |
da euro 51.646 a euro 258.228 |
euro 414 (lett. e) |
da euro 258.228 a euro 516.457 |
euro 672 (lett. f) |
superiore a euro 516.457 |
euro 930 (lett. g) |
§ detta disposizioni particolari per alcuni procedimenti speciali (commi da 7 a 11):
Procedure fallimentari |
euro 672 |
Procedimenti sommari (Libro IV, titolo I, c.p.c.): procedimenti d’ingiunzione, per convalida di sfratto, provvedimenti cautelari, procedimenti possessori |
Riduzione del 50% del contributo unificato |
Opposizione al decreto ingiuntivo e opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento |
Riduzione del 50% del contributo unificato |
Procedimenti di volontaria giurisdizione |
euro 62 |
Procedimenti in camera di consiglio |
euro 62 |
Procedure di opposizione agli atti esecutivi |
euro 103,30 |
Procedimenti esecutivi di rilascio e consegna |
Esenzione |
Procedure in materia di locazione, comodato, occupazione senza titolo e impugnazione delle delibere condominiali |
euro 103,30 |
Un ulteriore intervento del decreto-legge 28/2002 riguarda la legge 89/2001[246] (c.d. legge Pinto) e prevede l'espressa esenzione dal contributo unificato anche dei procedimenti in materia di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, anche se iscritti anteriormente al 13 marzo 2002 (articolo 2). Inoltre, intervenendo sull’art. 71 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, si stabilisce che la nota di iscrizione della causa nel ruolo generale debba contenere le generalità della parte che iscrive la causa e, ove attribuito, il codice fiscale di quest’ultima (articolo 3).
Il decreto-legge 6 maggio 2002, n. 81, recante “Sospensione dei termini processuali, amministrativi e legali concernenti la regione Lombardia" convertito nella legge 2 luglio 2002, n. 131, è volto a porre rimedio ai problemi provocati dall’incidente aereo del 18 aprile 2002 che, devastando in particolare gli uffici legali della Regione Lombardia, ha provocato la distruzione o l’irreversibile deterioramento della documentazione relativa ai giudizi di cui è parte la stessa Regione. Ciò ha provocato l’impossibilità, per quest’ultima, di rispettare i termini di legge e convenzionali così come quelli nell’ambito di contenziosi o relativi a procedimenti amministrativi.
Allo scopo di evitare alla Regione Lombardia pregiudizi, sia di natura processuale che economica, per la difficoltà o impossibilità di ricostituire la citata documentazione, l’articolo unico del provvedimento d’urgenza ha provveduto quindi:
§ alla sospensione fino al 31 ottobre 2002 di tutti i termini processuali dei giudizi civili amministrativi e tributari di cui era parte la Regione, la cui notifica fosse avvenuta prima del 18 aprile 2002; sono stati ugualmente sospesi i termini di prescrizione, decadenza, legali e convenzionali in corso alla stessa data;
§ al rinvio delle udienze dei giudizi sopracitati, a data successiva al 31 ottobre 2002;
§ ad esentare la Regione Lombardia dal pagamento di oneri tributari e diritti di copia di atti, documenti e provvedimenti formati antecedente al 18 aprile 2002. E’ stato fatto salvo il potere di sospensione o differimento di obblighi tributari da parte del Ministero delle finanze previsto dall’art. 9 della legge 212/2000[247];
§ al differimento al 31 ottobre 2002 dei termini che la Regione Lombardia doveva rispettare nell’ambito di procedimenti amministrativi di qualsiasi tipo, avviati da qualsiasi amministrazione.
Il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (testo A), raccoglie le disposizioni legislative e regolamentari vigenti nel settore delle spese di giustizia - applicabili nei processi penali, civili, amministrativi, contabili e tributari - con l’obiettivo di ricondurre a unità e riordinare la disciplina frammentaria stratificatasi in materia nel corso degli ultimi centocinquanta anni.
Il provvedimento è stato adottato secondo la tecnica del “testo unico misto”, in base a quanto previsto dall’art. 7, comma 2, della legge n. 50/1999[248] che autorizza il Governo a predisporre, nelle materie ivi indicate, testi normativi in cui siano raccolte le disposizioni di rango sia primario che secondario vigenti al fine di procedere a una complessiva semplificazione e razionalizzazione del quadro normativo esistente.
Il Testo unico recato dal D.P.R. in commento, riunisce così in un unico testo normativo le disposizioni di natura legislativa contenute nel D.Lgs. n. 113/2002[249] e quelle regolamentari recate dal D.P.R. n. 114[250]/2002, che vengono contrassegnate nel testo, rispettivamente, con le lettere «L» ed «R» per distinguerne la forza giuridica.
Non si tratta, tuttavia, di un testo unico avente natura meramente compilativa: giova infatti evidenziare che, ai sensi della norma autorizzatrice, la prevista operazione di riordino delle varie discipline consentiva di procedere a delegificazioni e al coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa.
Pertanto, l’operazione di riordino in materia di spese di giustizia è stata compiuta anche incidendo sulle norme di carattere sostanziale (e non solo procedurale) ove ciò sia stato necessario per armonizzare gli istituti relativi alle spese giudiziarie, collocandoli in un sistema coerente e omogeneo.
Il testo unico è composto da 302 articoli, suddivisi in 10 parti, a loro volta articolate in titoli e capi.
La parte I reca le disposizioni generali, valide, alcune, per tutti i processi, altre, per il solo processo penale o per i soli processi civili, amministrativi, contabili o tributari.
In particolare, con riferimento al processo penale, l’art. 4 conferma quanto già previsto nell’art. 691 del codice di procedura penale in materia di anticipazione delle spese: queste vengono anticipate dall’erario, salvo il caso in cui siano relative ad atti chiesti da parti private (anticipate dalla parte) o inerenti alla pubblicazione della sentenza (anticipate dall’imputato). Sono inoltre individuate, nell’art. 5, le spese ripetibili e irripetibili senza novità sostanziali rispetto normativa vigente.
L’art. 6 si conforma alla giurisprudenza della Corte costituzionale nel disciplinare la remissione del debito.
Ai sensi dell’art. 7, qualora l’Italia anticipi le spese in caso di rogatorie all’estero, trovano applicazione le norme del testo unico in esame.
Le disposizioni generali relative al processi diversi da quello penale sono recate dal solo art. 8 che raccorda l’art. 90 del codice di procedura civile con le norme sul patrocinio a spese dello Stato, sancendo il principio secondo cui le spese sono imputate alla parte, se questa compie o chiede atti processuali, mentre sono da essa anticipate se la legge o il magistrato lo prevedono.
Nella parte II, concernente le voci di spesa, hanno trovato disciplina, tra le altre materie: il contributo unificato; le spese di spedizione, diritti e indennità di trasferta degli ufficiali giudiziari; le spese di trasferta di magistrati o ufficiali giudiziari per il compimento di atti fuori della sede in cui si svolge il processo civile o penale. Sono previste disposizioni anche in riferimento agli ausiliari del magistrato e ai testimoni nel processo penale, civile, amministrativo e contabile. Vengono inoltre disciplinate le indennità di custodia. Nel titolo relativo alla pubblicazione dei provvedimenti del magistrato nel processo penale e civile si introduce la novità relativa alla possibilità di effettuare convenzioni con i giornali al fine di ottenere prezzi di pubblicazione inferiori a quelli di mercato.
In relazione al profilo dell’esecuzione di sentenze recanti ordini di demolizione di opere abusive e di riduzione e ripristino dei luoghi, il testo unico introduce il principio, affermatosi per via di prassi, secondo cui il magistrato deve scegliere l’alternativa meno onerosa tra l’intervento pubblico e privato e razionalizza le modalità di determinazione dell’importo da corrispondere quando l’incarico è affidato a imprese private.
Vengono infine disciplinate le indennità dei magistrati onorari, dei giudici onorari e degli esperti componenti degli uffici giudiziari penali e civili; nonché indicate le spese non rientranti in quelle di giustizia per quanto riguarda il processo penale.
La parte III riguarda il patrocinio a spese dello Stato, materia in cui il testo unico riunisce e coordina quanto previsto per il processo civile e penale; provvede ad aggiornare le voci di spesa; introduce le novità previste dalla più recente normativa in materia di autocertificazione; opera una distinzione tra le norme di carattere generale e quelle speciali applicabili soltanto ad alcuni processi.
Nella parte IV trovano disciplina processi particolari, quali la procedura fallimentare; l’eredità giacente attivata d’ufficio; la restituzione e vendita di beni sequestrati e le spese nella procedura di vendita; le spese processuali della procedura esecutiva attivata dal concessionario per la riscossione delle entrate iscritte a ruolo e il processo di cui è parte la pubblica amministrazione.
La materia dei registri viene trattata nella parte V. La precedente disciplina, caratterizzata da duplicazioni e mancanza di coordinamento tra le norme, viene ora fatta oggetto di una profonda semplificazione: il testo unico riduce, infatti, i registri da 6 a 3, sulla base di un criterio di necessità della funzione da registrare, così sopprimendo le duplicazioni delle annotazioni.
Per ciò che concerne i titoli di pagamento delle spese anticipate dallo Stato, la parte VI del testo unico semplifica la precedente disciplina mantenendo in vita unicamente la distinzione tra ordine di pagamento (emesso dal funzionario) e decreto di pagamento (emesso dal magistrato), riferita ora a voci di spesa diverse, così sopprimendo le precedenti duplicazioni del titolo di pagamento. Si attribuisce quindi al magistrato la competenza a provvedere alla quantificazione quando siano in questione profili valutativi.
La parte VII ha per oggetto la materia della riscossione, settore in cui il testo unico cerca di salvaguardare tanto l’esigenza dell’armonizzazione del sistema delle riscossioni quanto la peculiarità della normativa relativa alle pene pecuniarie (che, come noto, consente la conversione di queste in misure restrittive della libertà personale in caso di insolvibilità del debitore). E’ stata inoltre superata la disciplina di settore che attribuiva la riscossione dell’adempimento spontaneo e il pagamento delle spese per conto dello Stato agli uffici finanziari, nel solo caso di condanna a spese e pene pecuniarie e solo per alcuni reati, per cui non ci saranno soggetti diversi per il pagamento delle spese di giustizia, né uffici diversi per ricevere l’adempimento spontaneo.
La parte VIII reca, in riferimento a particolari spese di giustizia, disposizioni speciali per il processo amministrativo, contabile e tributario, derogatorie dei principi generali. Vi si prevedono, ad esempio, norme speciali sul diritto di copia, sugli ordini di pagamento emessi dai funzionari nonché disposizioni che per il processo contabile e tributario disciplinano l’imposta di bollo, non sostituita, per tali processi, dal contributo unificato.
La parte IX reca la disciplina transitoria, riguardante, in particolare, le voci di spesa, il patrocinio a spese dello Stato, i registri, gli ordini di pagamento e la riscossione.
Le disposizioni finali e le abrogazioni sono contenute nella parte X. Si segnala che vi trovano indicazione non soltanto le norme primarie e secondarie abrogate dal testo unico, ma anche quelle abrogate in modo espresso prima della sua emanazione.
La legge 24 febbraio 2005, n. 25[251] "Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115" interviene sulla disciplina relativa al patrocinio a spese dello Stato, novellando a tal fine alcune disposizioni del testo unico sulle spese di giustizia.
Più in particolare, l’articolo 1 della legge interviene sull’articolo 80 del testo unico, relativo alla nomina del difensore da parte del soggetto ammesso al patrocinio.
Inserendo nella disposizione il comma 3, si prevede che colui che è ammesso al patrocinio a spese dello Stato possa scegliere il difensore anche al di fuori del distretto di Corte d’appello nel quale ha sede il magistrato competente ovvero il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato. In ogni caso, dovrà trattarsi di un difensore iscritto negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato.
L’articolo 2 del provvedimento riscrive l’articolo 81 del testo unico, relativo ai requisiti per l’iscrizione dell’avvocato negli elenchi dei patrocinatori a spese dello Stato, riducendo da sei a due anni l’anzianità professionale richiesta, analogamente a quanto previsto per la formazione degli elenchi dei difensori d’ufficio[252], e sostanzialmente specificando gli ulteriori requisiti già previsti dalla normativa.
In particolare, si evidenziano tra i requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei difensori ammessi le seguenti novità:
§ le attitudini e l’esperienza professionale richieste dovranno essere specifiche e cioè relative al processo civile ovvero a quelli penale, amministrativo, contabile, tributario o di volontaria giurisdizione;
§ l’assenza di sanzioni disciplinari dovrà riguardare i cinque anni precedenti alla domanda d’iscrizione nell’elenco e si dovrà tener conto solo delle sanzioni superiori all’avvertimento. Il precedente testo prevedeva tout court l’assenza di sanzioni disciplinari;
§ l’anzianità professionale – prima fissata in almeno sei anni – è ora ridotta ad almeno due anni e viene meglio definita come iscrizione all’albo degli avvocati da almeno due anni.
L’articolo 3 della legge interviene sull’art. 83 del testo unico, estendendo anche al difensore le previsioni sulla liquidazione dell’onorario e delle spese dell’ausiliario del magistrato e del consulente tecnico di parte.
Gli articoli 4 e 5 della legge aggiungono un comma agli artt. 101 e 102 del testo unico prevedendo che la nomina del sostituto del difensore e dell’investigatore (art. 101) e del consulente tecnico di parte (art. 102), in caso di ammissione al gratuito patrocinio, possa avvenire anche al di fuori del distretto; entrambe le norme precisano che, in tal caso, non sono dovute le spese e le indennità di trasferta previste dalle tariffe professionali).
Il decreto legge 11 settembre 2002, n. 201 nel testo coordinato con la legge di conversione 14 novembre 2002, n. 259, che vi ha apportato rilevanti modifiche[253], interviene sui seguenti temi:
§ la nomina dei giudici di pace ed il funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura (Capo II);
§ il potenziamento delle strutture dell’amministrazione penitenziaria (Capo III);
§ l’impiego della polizia penitenziaria in compiti di scorta, (Capo V).
In particolare, il Capo II detta Misure urgenti per la nomina dei giudici di pace e per il supporto dell’attività di governo della magistratura ed introduce, anzitutto, modifiche all’articolo 4 della legge n. 374/1991[254], dirette a semplificare ed accelerare il procedimento concorsuale di nomina dei giudici di pace (articolo 4 del D.L.).
In particolare, si prevede che, ai fini della presentazione delle domande di ammissione al tirocinio, il presidente della Corte d'appello, almeno sei mesi prima che si verifichino vacanze nella pianta organica degli uffici del giudice di pace del distretto ovvero al verificarsi della vacanza, provveda alla pubblicazione dei posti vacanti mediante inserzione nel sito Internet del Ministero della giustizia nonché nella Gazzetta Ufficiale, richiedendo altresì ai sindaci dei comuni interessati l’affissione all’albo pretorio (tale modalità permane come forma rafforzativa di pubblicità) dell’elenco delle vacanze e dei termini per la presentazione delle domande e dandone comunicazione ai presidenti dei Consigli dell'Ordine degli avvocati del distretto.E’ esplicitato che il termine di sessanta giorni per la presentazione delle domande da parte degli interessati decorre dalla data della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale (il legislatore ha inteso eliminare ogni dubbio, peraltro superfluo, su quale delle due pubblicazioni - G.U. e sito Internet del Ministero - valesse quale dies a quo, riferendosi espressamente alla pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale»).
Inserendo un nuovo comma 1-bis nel citato articolo 4, si limita a tre il numero massimo annuo di distretti diversi presso i quali possono essere presentate annualmente dagli interessati le domande di ammissione al tirocinio e a sei il numero delle sedi che possono essere indicate in ciascuno di tali distretti.
Rispetto al testo previgente le novità consistono:
§ nella previsione che il bando dei posti vacanti sia effettuato non più a livello nazionale, ma a livello distrettuale, in modo da radicare maggiormente sul territorio la partecipazione dei candidati;
§ nell’indicazione di ulteriori fonti di pubblicità, G.U. e sito Internet del ministero, in aggiunta all’albo pretorio;
§ nella comunicazione dei posti vacanti ai presidenti dei Consigli dell'Ordine degli avvocati del distretto e nella individuazione di limiti numerici sia alle domande di ammissione al tirocinio sia alle sedi richieste per ciascun distretto.
L’articolo 5 del decreto-legge reca modifiche agli articoli 3 e 5 del D.lgs. n. 37/2000[255], istitutivo del ruolo del personale amministrativo della segreteria e dell'ufficio studi del Consiglio superiore della magistratura, al fine di garantire un miglior funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura. L’art. 5 introducendo un comma 4-bis nell’articolo 3 del citato D.lgs. n. 37, pur senza autorizzare aumenti di organico e nuovi oneri finanziari, prevede l’incremento da 10 a 26 del numero dei contratti di collaborazione a tempo determinato con specifica professionalità e specializzazione che, in base alle norme vigenti, il C.S.M. è autorizzato a stipulare nel limite dei fondi stanziati per il proprio funzionamento. Inoltre la norma consente la possibilità di utilizzare il personale a contratto oltreché per le esigenze particolari della segreteria del Vicepresidente anche per quelle di assistenza ai consiglieri e individua nel Comitato di presidenza l’organo competente ad autorizzare la stipula dei contratti e nel Segretario generale quello competente alla relativa esecuzione.
E, poi, stato introdotto il limite massimo di 10 unità nel caso in cui i contratti di collaborazione riguardino pubblici dipendenti che l’amministrazione di appartenenza è tenuta a collocare in aspettativa o comando senza alcun onere economico.
Lo stesso art. 5, modificando l’articolo 5 del D.lgs. n. 37, proroga di sei mesi il termine, prima fissato in un anno, entro il quale il C.S.M., per esigenze di funzionalità dei singoli servizi, e limitatamente alle professionalità più elevate, può avvalersi della possibilità di coprire i posti vacanti, per non più di 10 unità, mediante passaggio diretto di dipendenti della stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, secondo quanto previsto dall’art. 30 del D.lgs. n. 165/2001 (già art. 33 del D.lgs. n. 29/1993). La relativa decisione è rimessa ad un provvedimento del Comitato di presidenza (il testo previgente faceva genericamente riferimento al Consiglio).
Il Capo III(Interventi urgenti per il potenziamento delle strutture dell’amministrazione penitenziaria) si compone del solo articolo 6 il quale detta disposizioni per il potenziamento delle strutture dell’Amministrazione penitenziaria ritenute improrogabili in considerazione dell’inefficienza e della vetustà degli istituti penitenziari esistenti e del loro sovraffollamento.
La norma prevede che il Ministro della giustizia predisponga, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, un piano straordinario pluriennale di interventi per l’acquisizione e per l’adeguamento strutturale di edifici, opere, infrastrutture e impianti indispensabili al potenziamento del settore penitenziario. Per la realizzazione del piano è prevista la possibilità di utilizzare prioritariamente gli strumenti della locazione finanziaria, della permuta e della finanza di progetto previsti dall’art. 145, comma 34, della legge n. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) dando spazio in tal modo all’autonomia negoziale privata per la realizzazione delle nuove strutture.
L’onere finanziario complessivo per la realizzazione degli interventi è valutato in circa 93,327 mln di euro, ripartiti, a norma del successivo articolo 9, in ragione di circa 10,695 mln di euro nel 2002 e di 20,658 mln di euro negli anni dal 2003 al 2006. E’ previsto un obbligo di trasmissione alle Camere del piano adottato dal Ministro ai fini dell’acquisizione del parere delle competenti commissioni parlamentari, entro il termine di trenta giorni dalla presentazione[256], nonché un obbligo di relazione semestrale sullo stato di attuazione del piano straordinario anche in rapporto all’attuazione degli interventi ordinari. E’, infine, stabilito che il Ministro della giustizia, entro centottanta giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione del decreto, predisponga l’elenco degli istituti penitenziari per la cui dismissione possa farsi ricorso allo strumento della permuta.
Mentre il capo IV, composto dal solo articolo 7 (modifiche all’articolo 67 dell’ordinamento giudiziario), è stato soppresso nel corso dell’esame parlamentare, il Capo V (artt. 8, 8-bis e 9) reca modifiche ai decreti-legge 83/2002[257] e 341/2000[258].
L’articolo 8 interviene sull’art. 2 del D.L. n. 83/2002, che ha istituito, nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno, un Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale (UCIS), competente, in via esclusiva ed in forma coordinata, alla direzione unitaria ed al raccordo della azione di prevenzione e tutela delle persone ritenute a rischio.
La novella proposta mira a consentire che all’UCIS sia assegnato anche personale del Corpo di polizia penitenziaria ed estende agli uffici, ai reparti e alle unità specializzate di tale Corpo lo svolgimento dei servizi di protezione e vigilanza, qualora necessario e limitatamente alle persone appartenenti all’Amministrazione della giustizia che siano ritenute a rischio.
L’articolo 8-bis, modificando l’art. 9 del D.L. 341/2000, eleva da cinque a sei anni il termine ivi previsto di durata massima delle indagini preliminari nei confronti di soggetti indagati per i reati di devastazione (art. 285 c.p.) e di saccheggio e strage (art. 422 c.p.) commessi prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (24 ottobre 1989).
Si ricorda al riguardo che il termine di durata massima delle indagini preliminari per i delitti di strage commessi anteriormente all’entrata in vigore del codice di procedura penale è stato dapprima fissato in tre anni dall’articolo 1 della legge n. 336/1998[259], poi prorogato a quattro dal D.L. n. 330/1999 e, infine, a cinque dal D.L. n. 341/2000.
La norma si limita semplicemente ad ampliare il termine sopra ricordato non ritenendo evidentemente cessate le ragioni che hanno motivato i precedenti interventi legislativi diretti ad evitare che la scadenza dei termini in questione possa vanificare le indagini nell’ambito di importanti procedimenti non ancora conclusi.
L’articolo 9, come accennato (cfr. ante, art. 6), detta disposizioni sugli oneri finanziari del provvedimento,.
Anche il successivo decreto-legge 11 novembre 2002, n. 251, convertito dalla legge 10 gennaio 2003, n. 1, ha introdotto misure urgenti di diversa natura in materia di amministrazione della giustizia.
Preliminarmente, si ricorda come l’intero capo I del provvedimento (artt. 1-4) relativo alla abolizione dei tribunali regionali e del tribunale superiore delle acque pubbliche, sia stato soppresso in sede di conversione.
Il capo II del decreto legge, composto dal solo articolo 5, aggiungendo un comma all’art. 19 del D.lgs. n. 300/1999[260] (il quale fissa in 50 unità il numero massimo dei magistrati collocati fuori dal ruolo organico della magistratura e distaccati presso il ministero), ha previsto, in occasione del semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea e fino al 30 giugno 2004, l’elevazione di 12 unità, (da 50 a 62) del numero dei magistrati fuori ruolo destinati al ministero della giustizia. Finalità dell’intervento è stata quella di garantire il necessario supporto tecnico all’attività del Governo in adempimento degli obblighi comunitari.
Il Capo III del decreto-legge interviene sulle indennità spettanti al giudice di pace penale.
Si ricorda, in proposito, che con il Decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274[261], sono state attribuite al giudice onorario limitate competenze anche in campo penale; a differenza che nel settore civile, non esistevano, tuttavia, disposizioni normative primarie che riconoscessero al giudice onorario specifiche indennità a fronte dell’emissione di provvedimenti, comunque rilevanti, emessi nel corso del procedimento penale ma che non lo avessero definito.
Questa lacuna normativa finiva, quindi, per penalizzare il giudice di pace penale che vedeva non retribuite attività proprie che comunque richiedevano l’esame degli atti del procedimento, lo studio di una problematica e l’emissione di un provvedimento decisorio.
Una circolare dell’8 luglio 2002 del Ministero della giustizia, Dipartimento Affari di giustizia, in risposta a numerosi quesiti posti dagli uffici del giudice di pace relativamente alla possibilità di veder retribuite alcune attività di competenza dei giudici onorari in materia penale forniva una prima interpretazione “generosa” dell’art. 11, comma 2, della legge 374/91. La norma prevede che ai magistrati onorari che esercitano le funzioni di giudici di pace sia corrisposta “un'indennità di lire 70.000 (ora 36,15 euro) per ciascuna udienza civile o penale, anche non dibattimentale e per l'attività di apposizione dei sigilli, nonché di lire 110.000 (ora 56,81, euro) per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo”. Il Ministero ha interpretato in senso atecnico il termine “processo” utilizzato dal legislatore ritenendo che si volesse in realtà fare riferimento non solo ai processi, bensì ai procedimenti definiti. Si è quindi stabilito, ad esempio, il diritto ad una un’indennità di 56,81 euro per ogni decreto di archiviazione (parificandolo di fatto ad una sentenza) valutandolo come idoneo a “definire” un procedimento ed individuando, altresì, le ulteriori ipotesi in cui, in presenza di determinati provvedimenti del giudice, doveva essergli riconosciuta o meno l’indennità d’udienza di 36,51 euro.
Una nuova nota del 25 settembre 2002 dello stesso Dipartimento, a fronte dell’enorme numero di indennità richieste sotto la voce “decreti di archiviazione”, aveva, poi, cercato di riparare ai costi eccessivi sul bilancio del Ministero delle previsioni della circolare dell’8 luglio 2002, chiarendo come l’indennità dovesse essere unica quando il decreto di archiviazione fosse riferito a più richieste di archiviazione di denunce contro ignoti presentate dal PM. Secondo la circolare, al giudice di pace spetterà un'unica indennità in quanto, dall’analisi della disciplina normativa “emerge che non è consentito al giudice separare le denunce, predisponendo diversi fascicoli in relazione ai quali pronunciare il decreto di archiviazione, dovendo egli provvedere con un unico provvedimento cumulativo”.
In conformità di quanto previsto nell’ordine del giorno 9/3290/2 (Bertolini ed altri), accolto dal Governo nella recente seduta del 5 novembre 2002 della Camera dei deputati (v. allegato), l’articolo 6 del decreto-legge, aggiungendo il comma 3-ter all’art. 11 della legge 374/1991, individua una serie di provvedimenti del giudice di pace penale, la cui emissione dà diritto alla corresponsione di una indennità Il relativo importo, pari a quanto riconosciuto, in ambito civile, per ciascun decreto ingiuntivo, è fissato in 10,33 euro.
Si tratta dei seguenti provvedimenti previsti dal D.Lgs. 274 del 2000:
§ decreto di archiviazione del procedimento richiesto dal PM oppure analogo decreto che, (in mancanza di un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento) dichiara non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto (artt. 17, comma 4 e 34, comma 2); l’indennità per i decreti di archiviazione passa quindi da 56,81 a 10,33 euro;
§ ordinanza con cui il giudice di pace, in caso di incompetenza per materia[262], trasmette gli atti al PM od ordinanza che dichiara la sua incompetenza per territorio disponendo la trasmissione degli atti al ricorrente per la reiterazione del ricorso davanti al giudice naturale (artt. 26, commi 3 e 4);
§ provvedimento che trasmette gli atti al PM per inammissibilità del ricorso (art. 26, comma 2);
§ decreto del giudice di pace che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e ordinanza che decide sulla richiesta (art. 41, comma 2);
§ provvedimento di modifica (solo per motivi di assoluta necessità) delle modalità esecutive della permanenza domiciliare, del divieto di accesso a specifici luoghi nonché del lavoro di pubblica utilità, stabilite nella sentenza dal giudice (art. 44, comma 1);
§ ordinanza che, in caso di disaccordo sull’archiviazione chiesta dal PM, restituisce gli atti allo stesso pubblico ministero con l’indicazione delle ulteriori indagini necessarie;
§ decreto che, nella fase delle indagini preliminari, dispone il sequestro preventivo e conservativo ovvero rigetta, motivando, la relativa richiesta;
§ decisione sulle statuizioni del PM in materia di restituzione di cose sequestrate;
§ decisione sulla richiesta di riapertura delle indagini;
§ autorizzazione o rigetto (motivato) della richiesta di intercettazioni telefoniche, informatiche o telematiche (art. 19).
Le disposizioni del Capo IV del decreto-legge, costituenti il solo articolo 7, hanno mirato a garantire il funzionamento della Giunta speciale per le espropriazioni presso la Corte d’appello di Napoli.
La Giunta, organo di giurisdizione speciale anteriore alla Costituzione (sopravvissuta in attesa della revisione ai sensi della VI disposizione transitoria Cost.) è stata costituita ex art. 17 del D.L. Lgt. 27 febbraio 1919, n. 219, Provvedimenti a favore della città di Napoli, (convertito dalla legge 24 agosto 1921, n. 1290) ed è competente per le determinazioni in via contenziosa delle indennità per le espropriazioni relativi a beni immobili siti nel territorio del comune di Napoli per le quali siano applicabili le norme di cui agli artt. 12 e 13 della legge 2892 del 1885, Risanamento della città di Napoli[263].
Sono devolute alla competenza della Giunta speciale, ai sensi dell’art. 18 dello stesso D.L. luogotenenziale del 1919, tutte le questioni che, in applicazione della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), sarebbero di competenza dell'autorità giudiziaria; l'art. 19 indica come non suscettibili di gravame le decisioni della Giunta, prevedendo contro di esse il ricorso per revocazione e il ricorso dinanzi alle sezioni unite della Cassazione.
La composizione della Giunta, prevista dallo stesso D.L.Lgt., era inizialmente la seguente: un magistrato della Corte di appello di Napoli, con funzioni di presidente; due ingegneri, di cui almeno uno funzionario governativo, nominati dal Presidente della Corte di appello di Napoli; tale composizione e' stata successivamente modificata dall'art. 1 della legge 6 giugno 1935, n. 1131, Espropriazioni da eseguirsi dall’Alto Commissario per la Provincia di Napoli, ed ora i due componenti tecnici sono l'uno, ex lege, l'ingegnere capo dell'ufficio tecnico di finanza di Napoli (UTE, Ufficio tecnico erariale); l'altro, un ingegnere particolarmente esperto nella materia. I membri della Giunta durano in carica due anni e sono riconfermabili e nel caso di assenza o impedimento sono sostituiti da un delegato dell’ingegnere capo dell’U.T.E e da un altro ingegnere esperto in materia.
L'art. 20 del D.L.Lgt. n. 219 del 1919 pone a carico delle parti le spese del giudizio, e l'art. 21 rinvia ad un regolamento le norme per il funzionamento della Giunta speciale e la procedura da seguire dinanzi alla stessa. Detto regolamento, approvato con R.D. 17 aprile 1921, n. 762, che rimanda, per quanto non stabilito direttamente, alle norme del codice di procedura civile, agli artt. 13 e 14, disciplina gli onorari spettanti ai componenti della Giunta, il compenso al segretario e le spese del giudizio, stabilendone la ripartizione a norma della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e la liquidazione, per ciascun giudizio, con decreto del Presidente della Corte d'appello di Napoli.
Il D.L.Lgt. 27 febbraio 1919, n. 219, è stato abrogato dall’art. 58 (comma 1, n. 50) del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 325, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità, con decorrenza dalla data di entrata in vigore delle stesso D.lgs. (1° gennaio 2002)[264].
Detta norma non ha, però, potuto produrre immediato effetto in quanto il termine di vigenza del citato testo unico è stato prorogato prima al 30 giugno 2002, dall'art. 5 del D.L. 23 novembre 2001, n. 411, Proroghe e differimenti di termini, (convertito dalla legge 31 dicembre 2001, n. 463), poi al 31 dicembre 2002 dall'art. 5, comma 3, della legge 1° agosto 2002, n. 166, Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti, e, infine, al 30 giugno 2003 dall'art. 3, D.L. 20 giugno 2002, n. 122, Disposizioni concernenti proroghe in materia di sfratti, di edilizia e di espropriazione, nel testo modificato dalla legge di conversione 21 giugno 2002, n. 144.
Con la sentenza 10 luglio-25 luglio 2002, n. 393, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la composizione della Giunta sancendo la relativa illegittimità costituzionale dell’art. 17 del D.L.Lgt. n. 219 del 1919 “nella parte cui prevede che ne faccia parte l’ingegnere capo dell’U.T.E. di Napoli o un suo delegato” per contrasto con i principi di imparzialità e indipendenza che ciascun componente di un organo giurisdizionale deve possedere. Tale contrasto derivava, secondo la Corte, dal fatto che proprio l’U.T.E. partecipa al procedimento amministrativo di stima degli immobili da espropriare fornendo una valutazione normalmente adottata come base dell’indennità di espropriazione offerta dall’amministrazione; indennità che costituisce oggetto del giudizio della Giunta speciale.
Per rimediare alla paralisi dei giudizi ancora da definire presso la Giunta, conseguente alla citata pronuncia di incostituzionalità e garantirne il funzionamento fino alla soppressione dell'organo, l’articolo 7 del decreto-legge è intervenuto sulla composizione della componente non togata della Giunta dettata dall’art. 17 del D.L.Lgt. 219 del 1919.
La norma, sostituendo a tal fine l’art. 17, ha previsto la competenza del Presidente della Corte d’appello di Napoli alla nomina come membri del collegio di due ingegneri particolarmente esperti in materia. (comma 1).
Sempre al Presidente spetta, poi, la nomina dei tre membri supplenti in caso di assenza o impedimento dei titolari (comma 2) ed è infine confermata, dal comma 3 dell’art. 7, la durata in carica biennale dei componenti la Giunta e la loro possibile permanenza in carica.
Il Capo V del decreto-legge (artt. 8 e 9) è, infine, relativo agli oneri finanziari del provvedimento ed alla sua entrata in vigore.
Anche il decreto legge 354/2003 contiene, nei suoi nove articoli, disposizioni varie dirette ad intervenire, in modo urgente, su aspetti e materie attinenti a diversi settori dell’amministrazione della giustizia.
L’articolo 1 è diretto a modificare alcune norme contenute nel regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) e nella legge 1° agosto 1959, n. 704 (Indennità ai componenti dei Tribunali delle acque pubbliche), intervenendo sul funzionamento e sulla composizione dei Tribunali delle acque pubbliche nonché sull’indennità spettante ai suoi componenti.
I tribunali regionali delle acque pubbliche, operanti presso otto corti d’appello, e il Tribunale superiore delle acque pubbliche sono organi di giurisdizione speciale disciplinati dalle norme del titolo IV del testo unico delle disposizioni in materia di acque e impianti elettrici, approvato con R.D. 1775/1933, e dall’art. 64 dell’ordinamento giudiziario approvato con R.D. 12/1941 .
Si tratta di organi giurisdizionali speciali rimasti sostanzialmente immutati e ancora ancorati alle norme processuali del 1865 nonostante l’obbligo costituzionale di revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti (VI disposizione transitoria e finale ) e l’intervenuta istituzione (ex legge n. 1034/1971) dei tribunali amministrativi regionali quali organi di giustizia amministrativa di primo grado.
In particolare, l’art. 138 del citato testo unico ha previsto l’istituzione, presso le corti d’appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari, di un Tribunale regionale delle acque pubbliche costituito “da una sezione della corte stessa designata dal primo presidente, alla quale sono aggregati tre funzionari del genio civile, designati dal presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro della Giustizia”. I componenti del Tribunale durano in carica cinque anni e possono essere riconfermati. I Tribunali delle acque pubbliche decidono con l’intervento di tre votanti, uno dei quali deve essere un funzionario del Genio civile.
La norma illustrata è stata interessata da una pronuncia della Corte costituzionale, la sentenza n. 353 del 22 maggio 2002, che ne ha dichiarato l’illegittimità nella parte in cui prevede che siano aggregati al Tribunale membri tecnici dell’ex Genio civile, uno dei quali deve intervenire nel collegio giudicante. In conseguenza di tale pronuncia gli organi giurisdizionali in questione sono stati posti nell’impossibilità di funzionare.
Per quanto concerne la competenza, l’art. 140 del citato testo unico attribuisce alla cognizione dei Tribunali regionali delle acque pubbliche in primo grado le controversie relative alla demanialità delle acque; ai limiti dei corsi o bacini, e ai loro alvei e sponde; ai diritti relativi alle derivazioni e utilizzazioni di acqua pubblica; alla occupazione di fondi e alle indennità di esproprio in conseguenza dell’esecuzione o manutenzione di opere idrauliche; ai risarcimenti di danni dipendenti da opere idrauliche eseguite dalla pubblica amministrazione; nonché ai ricorsi avverso i provvedimenti definitivi di esproprio dei diritti esclusivi di pesca sulle acque del demanio pubblico.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche, istituito ai sensi dell’art. 139 del R.D. n. 1775/1933, con sede a Roma presso il palazzo di Giustizia, è composto da un presidente, nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della giustizia, sentito il Consiglio dei ministri, avente grado corrispondente a quello di procuratore generale della Corte di cassazione; quattro consiglieri di Stato; quattro magistrati scelti fra i consiglieri di cassazione; tre tecnici, membri effettivi del Consiglio superiore dei lavori pubblici, non aventi funzione di amministrazione attiva.
I giudici del Tribunale, nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della giustizia, sono così designati: i consiglieri di Stato, dal presidente del Consiglio stesso; i consiglieri di cassazione, dal primo presidente della Corte di cassazione; i membri tecnici, dal presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Anche i componenti del Tribunale superiore durano in carica cinque anni e possono essere riconfermati.
In merito alle competenze dell’organo delineate dagli articoli 142 e 143 del citato testo unico, il Tribunale superiore delle acque, oltre a costituire giudice di secondo grado per le pronunce dei Tribunali regionali, è investito di una giurisdizione di unico grado per i ricorsi concernenti la illegittimità dei provvedimenti di utilizzazione delle acque. In questo secondo caso, rientrano nella competenza del Tribunale sia i ricorsi contro i provvedimenti lesivi di interessi legittimi che incidano sul regime delle acque pubbliche e su quello delle acque superficiali o sotterranee, sia i ricorsi relativi alle contravvenzioni alle norme di polizia demaniale, al ripristino dello stato delle cose del demanio idrico, ai ricorsi contro i provvedimenti di revoca e di decadenza dei diritti esclusivi di pesca (art. 143).
Peraltro, la composizione del Tribunale è differenziata in relazione alla predetta duplice funzione: quando opera come giudice di appello è composto da cinque membri (tre magistrati di Cassazione, un consiglieri di Stato, un tecnico); quando interviene in qualità di giudice amministrativo opera invece con sette componenti (tre magistrati di Cassazione, tre consiglieri di Stato, un tecnico).
Va inoltre ricordato che la mancata previsione da parte delle norme istitutive della nomina di membri supplenti dei titolari è stata oggetto di censura da parte della Corte costituzionale, che, con sentenza n. 305 del 20 giugno 2002 ha dichiarato l’incostituzionalità del combinato disposto degli articoli 139 e 143, comma 3, del R.D. 1775/1933, nella parte in cui non prevede meccanismi di sostituzione del componente astenuto, ricusato, o legittimamente impedito.
Le norme di procedura da osservarsi dinanzi agli organi giurisdizionali sopra descritti sono contenute negli articoli da 147 a 210 del testo unico. Per tutto ciò che non è regolato dalle disposizioni degli articoli ora indicati, l’art. 208 fa rinvio all’osservanza delle norme del Codice di procedura civile e dell’ordinamento giudiziario, in quanto applicabili, nonché, per quanto riguarda i ricorsi di competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche ex art. 143 T.U., all’applicazione delle norme che regolano il procedimento innanzi al Consiglio di Stato contenute nel T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (titolo III, capo II), approvato con R.D. n. 1054 del 1924 .
Va segnalato, infine, che la disciplina normativa vigente non garantisce la tutela del doppio grado di giurisdizione per le controversie attinenti alle acque pubbliche attribuite alla competenza esclusiva del Tribunale superiore, contrariamente a quanto previsto dall’ordinamento vigente per tutte le controversie relative a interessi legittimi (TAR, in primo grado, e Consiglio di Stato, in appello).
Le disposizioni contenute nell’art. 1 hanno inteso assicurare la completa ripresa dell’operatività dei Tribunali delle acque; infatti, a seguito delle citate pronunce della Corte costituzionale, i Tribunali medesimi erano stati posti nell’impossibilità di esercitare la giurisdizione.
A tale proposito va ricordato che, allo scopo di ottemperare al disposto delle citate sentenze della Corte costituzionale, il testo originario del decreto legge 11 novembre 2002, n. 251 (Misure urgenti in materia di amministrazione della giustizia), - convertito dalla legge 10 gennaio 2003, n. 1 - disponeva, nell’ambito del Capo I, la soppressione dei tribunali regionali e del tribunale superiore delle acque pubbliche, attribuendo, in particolare, le relative competenze al giudice ordinario (tribunali e corti d’appello), per le controversie relative a diritti soggettivi, e al giudice amministrativo (T.A.R. e Consiglio di Stato), per quelle inerenti interessi legittimi e dettando una disciplina transitoria.
Tale Capo, tuttavia, è stato soppresso nel corso dell’esame del provvedimento presso il Senato.
Il comma 1 dell’articolo 1, dopo aver preventivamente stabilito, quale limite temporale dell’efficacia delle disposizioni dettate dal comma medesimo, quello dell’entrata in vigore della complessiva riforma della disciplina concernente la giurisdizione in materia di acque pubbliche, dispone alcune modifiche puntuali a disposizioni del R.D.1775/1933 e della legge 704/1959.
In particolare, la lettera a) interviene a modificare l’articolo 138 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, sopracitato, che dispone in ordine all’istituzione dei tribunali regionali della acque pubbliche, sostituendo i commi secondo e quarto dell’articolo stesso.
Il nuovo secondo comma dell’articolo 138 sostanzialmente modifica la composizione dei tribunali regionali delle acque prevedendo la sostituzione nel collegio giudicante dei tre funzionari dell’ex Genio civile con tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri e nominati con decreto del Ministro della giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, adottata su proposta del presidente della Corte di appello.
Prima di tale modifica, il comma 2 dell’articolo 138 del R.D. stabiliva che il Tribunale fosse costituito da una sezione della Corte di appello designata dal primo presidente, alla quale venissero aggregati tre funzionari del Genio civile designati dal Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e nominati con decreto reale, su proposta del Ministro Guardasigilli.
Come sopra già ricordato, tale disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 353/2002.
Invece, come rilevato dalla Corte, nella specie considerata dalla norma oggetto della presente questione di legittimità costituzionale, il nominato funzionario dell’ex Genio civile (ora normalmente del Provveditorato delle opere pubbliche) continua, anzitutto, ad espletare le funzioni istituzionali nell’ufficio di appartenenza e conserva tra le sue attribuzioni, anche le procedure amministrative in materia di acque pubbliche (anche se quelle statali sono divenute nel frattempo del tutto residuali, a seguito del passaggio di competenze alle regioni); rimane, inoltre, incardinato nella amministrazione di appartenenza e quindi soggetto a tutti i condizionamenti dovuti alla sua posizione di dipendenza dall’amministrazione stessa, che ne gestisce lo stato giuridico ed economico.
La modifica apportata al comma 4 dell’articolo 138 è di coordinamento, stabilendosi che nei tre votanti coinvolti nelle decisioni adottate dai Tribunali regionali, sia compreso uno degli esperti sopracitati.
Precedentemente, infatti, il comma 4 dell’articolo 138 prevedeva che i Tribunali delle acque pubbliche decidessero con l’intervento di tre votanti, uno dei quali doveva essere un funzionario del Genio civile.
Motivate dalle medesime esigenze sopra esposte sono le modifiche che la lettera b) apporta al secondo e quarto comma dell’articolo 139 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, concernente la composizione e il funzionamento del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Viene modificata la lettera d) del comma secondo dell’articolo 139, nel senso di prevedere quali membri "tecnici" componenti il Tribunale tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri.
Va ricordato infatti che, precedentemente, la lettera d) citata faceva riferimento a tre tecnici, membri effettivi del Consiglio superiore dei lavori pubblici, non aventi funzione di amministrazione attiva.
Viene poi modificato il comma quarto dell’articolo 139, con la sostituzione dell’ultimo periodo dello stesso, prevedendo che gli esperti siano nominati con decreto del Ministro della giustizia, in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura adottata su proposta del presidente del Tribunale superiore, con una procedura analoga a quella stabilita per la nomina degli esperti presso il Tribunale regionale.
Va ricordato, infatti, che l’ultimo periodo del comma 4 dell’articolo 139 prevedeva che i membri tecnici fossero nominati dal presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici.
La lettera c) apporta alcune modificazioni all’articolo 1 della legge 1° agosto 1959, n. 704 (Indennità ai componenti dei Tribunali delle acque pubbliche), disciplinante le indennità spettanti ai componenti dei Tribunali delle acque.
Oltre alla conversione in euro delle indennità attualmente stabilite per i membri togati (pari a euro 15,50 per i magistrati del Tribunale superiore, ad euro 11,36 per i presidenti effettivi dei tribunali regionali e in euro 9,3 per i consiglieri effettivi degli stessi tribunali) viene prevista, con l’inserimento di un nuovo comma dopo il comma primo, un’apposita indennità da corrispondere agli esperti chiamati ad integrare i Tribunali, pari a euro 100 per ciascuna udienza cui prendano parte.
Tale previsione è stata dettata dalla considerazione che questi esperti non sono legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di lavoro dipendente, come invece avveniva a proposito dei funzionari dell’ex Genio civile - per i quali, infatti, il previgente art. 1 prevedeva un’indennità fissa mensile pari a lire 13.000 -.La lettera d), infine, inserisce, dopo l’articolo 139 del R.D. 11 dicembre 1933, n.1775, un articolo 139 bis diretto a prevedere la nomina, nelle stesse forme previste per i titolari, di componenti supplenti del Tribunale superiore, retribuiti per il servizio effettivamente prestato, nella misura di cui all’articolo 1, commi 1 e 2 della citata legge 704/59.
La previsione di cui sopra si ricollega al disposto della sentenza della Corte costituzionale n. 305 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità del combinato disposto degli artt. 139 e 143, terzo comma, del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), nella parte in cui non prevedevano meccanismi di sostituzione del componente astenuto, ricusato o legittimamente impedito del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
I commi 2 e 3 dell’articolo 1 del decreto-legge riguardano autorizzazioni di spesa con decorrenza 2004 per l’attuazione di disposizioni contenute nello stesso art. 1
L’articolo 1-bis del D.L. porta da 50 a 65 unità i magistrati fuori dal ruolo organico destinati al Ministero della giustizia. Il numero, come detto in precedenza, era stato portato da 50 a 62 dal DL 251/2002 (L. 1/2003) solo al fine di sopperire alle temporanee necessità create dal semestre italiano della Presidenza europea.
L’articolo 2 del decreto-legge riconferma nelle funzioni fino al 31 dicembre 2004 i giudici onorari di tribunale e i viceprocuratori onorari il cui mandato sarebbe dovuto scadere entro il 31 dicembre 2003.
L’art. 4 dell’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12) prevede che i giudici onorari di tribunale (GOT) ed i vice procuratori onorari (VPO) – con i giudici di pace, gli esperti del tribunale e della sezione di corte d’appello per i minorenni ed i giudici popolari della corte d’assise - appartengono all’ordine giudiziario come magistrati onorari. La disciplina relativa ai giudici onorari di tribunale e ai vice procuratori onorari - in gran parte comune – oltre che dal citato R.D. 12/1941 sull’ordinamento giudiziario - è dettata dalle specifiche circolari del C.S.M., che contengono le numerose disposizioni di dettaglio.
Secondo la previsione contenuta nell’art. 245 del decreto legislativo n. 51/1998 sul giudice unico, i GOT e i VPO erano destinati a svolgere funzioni temporanee e di mera "supplenza" della magistratura ordinaria. Tali magistrati onorari, sostituiscono attualmente i giudici e i pubblici ministeri “ordinari” in sempre più numerose udienze e molto spesso hanno un loro ruolo assegnato con funzioni, competenze e responsabilità identiche a quelle della magistratura togata.
Per quanto riguarda le funzioni dei giudici onorari di tribunale, l’art. 43-bis del regio decreto 12/1941 attribuisce al presidente del tribunale (o del presidente di sezione dell’ufficio) il compito di assegnare il “lavoro giudiziario” ai magistrati (sia ordinari che onorari), fermo restando il principio generale in base al quale i GOT possono tenere udienza solo nei casi di impedimento o di assenza dei giudici ordinari. L’art. 43-bis non indica in positivo le funzioni da esercitare o i procedimenti che possono essere assegnati al GOT, limitandosi a precisare che il presidente del tribunale, nell’assegnare i procedimenti, segua il criterio di non affidare ai giudici onorari:
a) nella materia civile, la trattazione di procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito o del giudizio petitorio;
b) nella materia penale, le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare, nonché la trattazione di procedimenti diversi da quelli previsti dall’articolo 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) .
I vice procuratori onorari, che l’art. 72 dell’ordinamento giudiziario prevede solo come “possibili” delegati del PM, sostituiscono in maniera pressochè stabile il magistrato togato nelle udienze monocratiche. Nei procedimenti civili, tale delega è possibile senza alcun limite; in quelli penali è invece limitata a specifici casi indicati dall’art. 72 dell’ordinamento giudiziario (ad es: la partecipazione all’udienza dibattimentale e di convalida dell’arresto nel rito direttissimo, la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, ecc).
L’art. 42-ter prevede che la nomina dei GOT (e dei VPO) avvenga con decreto del Ministro della giustizia, in conformità della deliberazione del CSM, su proposta del Consiglio giudiziario competente per territorio .
La disciplina di dettaglio per la nomina e la conferma dei giudici onorari di tribunale ed i vice procuratori onorari è stata recentemente oggetto di riforma da parte di due circolari C.S.M. del 26 maggio 2003 il cui contenuto è stato oggetto di recepimento da parte dei due D.M. giustizia 18 luglio 2003.
Riaffermato il principio per cui i giudici onorari possono essere adibiti a mere funzioni di supplenza dei magistrati professionali, sono ribaditi i limiti numerici per la presenza dei magistrati onorari nei tribunali (spostati tra le disposizioni di carattere generale): il numero dei GOT e dei VPO presso ogni tribunale non potrà essere superiore – rispettivamente - alla metà e ai due terzi dei magistrati ordinari previsti in organico, salvo che specifiche esigenze di servizio, da motivare espressamente, consiglino di elevare tale numero.
Per consentire una più celere definizione delle procedure ed una tempestiva copertura dei posti scoperti, le nuove circolari innovano radicalmente le modalità di reclutamento di GOT e VPO: l’attuale sistema, sostanzialmente casuale, viene sostituito da una procedura di tipo concorsuale decentrata, mediante la predisposizione in ogni distretto di corte d’appello, da parte del Consiglio Giudiziario, di una graduatoria degli aspiranti, con validità biennale, (inviata entro il 30 ottobre al CSM e da questo approvata sulla base di parametri di preferenza ) cui attingere periodicamente in tutti i casi di vacanze di organico.
Le domande di nomina sono presentate dal 1° gennaio al 30 giugno di ogni anno dispari, ma - in regime transitorio - l’articolo 14 di entrambe le circolari prevede per - l’anno 2003 - un differimento di un mese (scadenza al 30 luglio 2003), in cui verranno comprese, ai fini della graduatoria, anche tutte le domande di nomina a GOT e VPO ancora pendenti (già presentate e non ancora vagliate dal CSM); le domande presentate prima del 22 maggio 2003 (data di approvazione delle circolari) dovevano essere esaminate in base alla disciplina previgente.
Anche il tirocinio di formazione professionale, propedeutico all’assunzione delle funzioni giudiziarie, risulta diversamente regolamentato dalle citate circolari CSM, con un aumento dei tempi di formazione pratico-teorica: il tirocinio passa, infatti, da due a quattro mesi complessivi (due nel settore civile e due in quello penale) per i GOT e da due a tre mesi per i VPO, cui consegue (e anche questa è una novità) una valutazione di idoneità da parte del magistrato "di riferimento" essenziale per la prosecuzione dell’attività, uniformandosi così al sistema vigente per i giudici di pace .
La nomina a giudice onorario di tribunale e a vice procuratore onorario ha durata triennale , con la possibilità della conferma per un solo ulteriore mandato di tre anni (art. 42-quinquies); il periodo massimo di permanenza nell’ufficio è quindi di sei anni.
Per rendere più agile la procedura di conferma, le circolari CSM prevedono che il giudizio "necessario" di idoneità alla conferma da parte del consiglio giudiziario in composizione “allargata” (v. nota 3) dovrà ora essere espresso non al termine del mandato triennale ma tre mesi prima della scadenza); il giudizio sarà fornito sulla base di ogni elemento utile, compreso l’esame a campione dei provvedimenti emessi dal magistrato onorario.
La necessità ed urgenza di provvedere è derivata dal fatto che le citate circolari C.S.M. del 26 maggio 2003, di modifica della disciplina relativa ai criteri di nomina e conferma dei GOT e dei VPO, prevedessero la data del 30 luglio 2003 come termine ultimo per la presentazione delle domande da parte degli aspiranti magistrati onorari.
I citati decreti ministeriali di recepimento (D.M. giustizia 18 luglio 2003) delle circolari erano però stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale solo il 6 novembre 2003, a termine quindi ampiamente scaduto.
Il C.S.M. ha quindi dovuto emanare, il 21 novembre 2003, due ulteriori identiche circolari integrative (una per i GOT e una per i VPO) che fissavano al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dei relativi decreti ministeriali di recepimento il nuovo termine ultimo per la presentazione delle domande. Poiché tali decreti (D.M. giustizia 25 novembre 2003) erano stati pubblicati il 13 dicembre, il citato termine risultava fissato al 28 dicembre 2003.
Essendo risultato impossibile, quindi, assicurare tempestivamente per inizio 2004 l’entrata in servizio dei nuovi magistrati onorari, anche in considerazione dei tempi tecnici necessari alle selezioni e al tirocinio, l’articolo 2 del decreto-legge – per scongiurare vacanze di organico ed i prevedibili disservizi nell’amministrazione della giustizia - provvedeva a riconfermare nell’ufficio fino al 31 dicembre 2004 la quota di magistrati onorari di tribunale (circa 800, secondo la relazione governativa) che, già confermati dopo il primo mandato triennale, avrebbero dovuto lasciare l’incarico per il raggiunto limite dei sei anni, fissato dall’art. 42-quinquies dell’ordinamento giudiziario.
L’articolo 3 ha sostituito integralmente l’art. 132 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) che sarebbe dovuto entrare in vigore il 1°gennaio 2004 (da qui anche la necessità di ricorrere allo strumento del decreto legge): nella sua originaria formulazione esso prevedeva, per finalità di accertamento e repressione dei reati, un terminemassimo per la conservazione dei dati da parte del fornitore pari a 30 mesi, non prorogabile nemmeno in caso di commissione di delitti di particolare gravità che, assai frequentemente, implicano la necessità di indagini lunghe e complesse.
Al fine di ovviare a tali difficoltà, nell’ambito del nuovo articolo 132 è stato, da un lato, ridotto a 24 mesi il termine ordinario di conservazione dei dati di traffico telefonico, dall’altro, è stata prevista la possibilità di proroga del termine per un periodo di ulteriori 24 mesi: ciò quando debbano essere perseguiti delitti in danno di sistemi informatici o telematici e quelli di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), del Codice di procedura penale (omicidio, rapina, estorsione, sequestro di persona, associazione di tipo mafioso, associazione sovversiva, terrorismo, ecc.)
Anche relativamente alle modalità di acquisizione e di conservazione dei dati il nuovo art. 132 contiene rilevanti innovazioni.
In riferimento alle prime, nulla disponeva il vecchio testo, ora invece si prevede una disciplina dettagliata e differenziata, a seconda che l’acquisizione dei dati telefonici debba avvenire nel corso dei primi 24 mesi o nel corso del periodo successivo. Nel primo caso, i dati sono acquisiti, anche a seguito di istanza di parte, con decreto motivato dell’autorità giudiziaria (pubblico ministero nel corso delle indagini, giudice nel corso del giudizio), ovvero direttamente dal difensore dell’indagato o dell’imputato, tramite estrazione di copia (art. 391-quater c.p.p. cit.). Nel secondo caso, scaduto cioè il termine dei primi 24 mesi, sia il pubblico ministero che il difensore devono rivolgersi al giudice che autorizzerà l’acquisizione dei dati, con decreto motivato, in presenza di sufficienti indizi.
Mentre il vecchio art. 132 rinviava ad un successivo decreto ministeriale per l’individuazione delle modalità di conservazione dei dati di traffico telefonico, la nuova disposizione (comma 5) detta dei principi, per il trattamento dei dati, ai quali attenersi “nel rispetto delle misure e degli accorgimenti a garanzia dell’interessato”.
In particolare dovranno prevedersi specifici sistemi di autenticazione informatica e di autorizzazione degli incaricati al trattamento dei dati (analoghi a quelli contenuti all’allegato B del Codice); dovranno disciplinarsi le modalità di conservazione separata dei dati per il periodo successivo ai primi 24 mesi, garantendo che, nel corso di tale periodo, l’accesso sia consentito esclusivamente nell’ambito delle limitazioni prima esaminate (previo decreto motivato del giudice) e di quelle previste all’articolo 7 del Codice (diritto di accesso ai dati da parte dell’interessato); dovranno individuarsi le modalità tecniche per la periodica distruzione dei dati, una volta trascorso il periodo di 24 e quello, eventuale, di proroga.
L’articolo 4, aggiunge il comma 6-bis all’articolo 181 del D.Lgs. 196/2003: si introduce una disposizione transitoria in materia di conservazione dei dati di traffico telefonico in possesso del fornitore di una rete pubblica di comunicazioni o di un servizio di comunicazione elettronica alla data del 31 dicembre 2003.
L’articolo 123 del Codice per la protezione dei dati personali prevede che il trattamento dei dati relativi al traffico (ed in particolare di quelli strettamente necessari a fini di fatturazione o di pagamenti per interconnessione) sia consentito per un periodo della durata massima di sei mesi; in via transitoria, fino cioè alla data in cui divengono efficaci le misure e gi accorgimenti prescritti dal citato comma 5 dell’art. 132 del Codice, si dispone invece che la conservazione dei dati relativi al traffico sia consentita sino alla fine del periodo durante il quale può essere legalmente contestata la fattura o preteso il pagamento (termine di cui all’art. 4 del D.Lgs. 13 maggio 1998, n. 171, Disposizioni in materia di tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni, in attuazione della direttiva 97/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, ed in tema di attività giornalistiche)[265].
Mentre l’’articolo 5 del decreto-legge è stato soppresso in sede di conversione, l’articolo 6 provvede ad autorizzare per il 2004 una spesa pari a 700.000 euro al fine di assicurare il funzionamento nonché il potenziamento del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, organo che, ai sensi dell’art. 23 dello Statuto, esercita funzioni consultive e giurisdizionali di appello nella regione.
La norma si è resa necessaria a seguito dell’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, il 7 novembre del 2003, del decreto legislativo di riassetto della composizione e del funzionamento del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. In particolare l’onere deriva dall’aumento nella composizione di un Presidente di sezione e due Consiglieri di Stato (disposto all’art.2), nonché dall’attribuzione ai membri laici di un compenso equiparato alla metà della retribuzione iniziale del Consigliere di Stato (disposta all’art. 7).
L’articolo 6-bis introduce una serie di posizioni vicarie nelle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative e nell’Avvocatura dello Stato:
§ nell’ordinamento della magistratura ordinaria è istituito il posto di procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione, con contestuale soppressione di un posto di avvocato generale presso la stessa Corte;
§ nell’ordinamento della magistratura amministrativa è istituito il posto di presidente aggiunto del Consiglio di Stato, con contestuale aumento di una unità di organico;
§ nell’ordinamento della magistratura contabile sono istituiti i posti di presidente aggiunto e di procuratore generale aggiunto della Corte di conti con contestuale soppressione di due posti di presidente di sezione;
§ nell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato è istituito il posto di avvocato generale aggiunto con contestuale soppressione di un posto di vice avvocato generale.
L’art. 6-bis indica sia le attribuzioni che gli incrementi retributivi riconosciuti ad ogni posizione vicaria istituita, disponendo infine sulla copertura finanziaria.
L’articolo 7 prevede disposizioni in tema di effetti delle procedure concorsuali sui contratti di leasing. Ad integrazione di quanto disposto dalla Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), dispone che la sottoposizione a procedura fallimentare delle società autorizzate alla concessione di finanziamenti sotto forma di leasing, non comporti né la possibilità per il curatore di optare per lo scioglimento dei contratti, né tanto meno lo scioglimento automatico di questi ultimi (ipotesi previste rispettivamente dagli articoli 72 e 73 della Legge Fallimentare per i casi di vendita priva di immediato effetto traslativo e di vendita a rate con riserva di proprietà). Poiché quindi, nonostante la procedura concorsuale, i contratti di leasing non si considerano sciolti, resta ferma la facoltà per l’utilizzatore di acquistare la proprietà del bene verso il pagamento del relativo prezzo.
Nell’ordinamento vigente non esiste alcuna norma che disciplini le conseguenze delle procedure concorsuali sui contratti di leasing. In particolare la Legge Fallimentare, contenuta in un Regio Decreto del 1942, anno in cui tale forma contrattuale non era ancora diffusa, si limita a prevedere le ipotesi di vendita priva di effetti traslativi immediati (art. 72 L.F.) e di vendita a rate con riserva di proprietà (art. 73 L.F.). Nel primo caso è facoltà del curatore optare tra la esecuzione e lo scioglimento del contratto, nel secondo lo scioglimento opera automaticamente. La più recente giurisprudenza della Corte di cassazione ha ritenuto applicabile ai contratti di leasing, per analogia, la norma relativa ai contratti di vendita privi di effetti traslativi immediati, ritenendo che essa abbia portata generale a differenza dell’ altra avente natura eccezionale: in caso di fallimento della società autorizzata alla concessione di finanziamenti sotto forma di leasing, spetta pertanto al curatore la scelta tra l’esecuzione dei contratti ed il loro scioglimento. L’art. 7 del decreto-legge è volto a modificare tale recente indirizzo giurisprudenziale.
L’articolo 8 provvede alla quantificazione degli oneri finanziari derivanti dall’entrata in vigore del decreto e alla individuazione delle relative modalità di copertura. Si autorizza una spesa pari a 743.960 euro e si dispone che ad essa si faccia fronte mediante parziale utilizzo dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2003-2005, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente “Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze.
L’articolo 9 stabilisce che le disposizioni del decreto entrano in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, fatte salve le disposizioni contenute agli articoli 1, 6 e 8 la cui entrata in vigore è posticipata al 1°gennaio 2004.
Il decreto legislativo9 ottobre 2002, n. 231 ha attuato la direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
La direttiva ha dettato una disciplina per la soluzione del problema dei ritardati pagamenti in Europa in linea con le esigenze del Mercato Unico e con i principi di trasparenza e di libertà economica che ne sono alla base.
Il Governo italiano, sulla base della delega legislativa conferita dall'articolo 26 della legge 1 marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001), ha adottato il decreto legislativo in commento che, nei suoi 11 articoli, reca disposizioni che si applicano (art. 1) a tutti i pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo per transazioni commerciali, intese (art. 2) come contratti comunque denominati tra imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo.
Per quanto concerne la direttiva comunitaria, è opportuno ricordare che fin dal 1994 il Parlamento europeo aveva posto la necessità di adottare atti giuridici vincolanti sulla questione dei termini di pagamento nelle transazioni commerciali e dei relativi ritardi. La direttiva del 2000 ha inteso soddisfare l’impegno del Parlamento europeo nel pieno riconoscimento del principio della libertà contrattuale delle parti e nell’intento di introdurre regole comuni per le transazioni commerciali fra imprese e nei rapporti con la Pubblica Amministrazione.
I contenuti del decreto legislativo n. 231/2002, oltre a rispettare i principi e criteri di delega fissati dalla legge comunitaria 2001, ricalcano sostanzialmente le disposizioni recate dalla direttiva del 2000.
Passando all’analisi dei contenuti del decreto legislativo, si segnala che l'articolo 1, concernente l’ambito di applicazione, riproduce integralmente l'articolo 1 della direttiva. In aggiunta però a quanto stabilito dalla direttiva - e nel silenzio della delega - il comma 2 dell'articolo 1 precisa che le disposizioni del decreto non si applicheranno nei seguenti casi:
§ debiti oggetto di procedure concorsuali a carico del debitore;
§ richieste di interessi inferiori a 5 euro;
§ pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, ivi compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore.
L'articolo 2 contiene - analogamente a quanto fatto dalla direttiva - le definizioni, tra cui la più rilevante è certo quella di "transazione commerciale", che viene data ricalcando sostanzialmente il testo della direttiva e che reca l’importante innovazione (co. 1, lett. a) per cui la transazione commerciale è tale solo quando fa riferimento a contratti che comportano in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazione di servizi. Vengono riprese le nozioni comunitarie di pubblica amministrazione, di impresa, di ritardi di pagamento e di saggio di interesse della BCE.
L'articolo 3 sancisce il diritto del creditore a percepire gli interessi moratori disciplinati dalle successive disposizioni, a meno che il debitore non dimostri che il ritardo nel pagamento è determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da una causa a lui non imputabile. L'onere della prova al fine di escludere la propria responsabilità è quindi a carico del debitore, così come stabilito in via generale dal codice civile all'art. 1218.
L'articolo 4 dà attuazione all'articolo 3, par. 1, lett. a) e b) della direttiva, disciplinando la decorrenza degli interessi moratori, in deroga a quanto previsto in via generale per tutte le obbligazioni dall'articolo 1219 del codice civile.
Il decreto legislativo elimina la costituzione in mora e fa decorrere automaticamente gli interessi moratori dal giorno successivo alla scadenza del termine legale (comma 1).
Anche quando il contratto non prevede un termine per il pagamento, gli interessi moratori decorrono ope legis trascorsi 30 giorni:
§ dalla data di ricevimento della fattura o di una analoga richiesta di pagamento;
§ dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi, se non è certa la data di ricevimento della richiesta di pagamento;
§ dalla data di ricevimento delle merci o di prestazione dei servizi se la fattura o richiesta di pagamento è anteriore;
§ dalla data dell'accettazione o della verifica di conformità eventualmente previste dalla legge o dal contratto se la fattura o richiesta di pagamento è anteriore.
Per i contratti concernenti la cessione di prodotti alimentari deteriorabili il pagamento del corrispettivo va effettuato entro 60 giorni dalla consegna o dal ritiro degli stessi, e gli interessi decorrono dal giorno successivo alla scadenza del termine. In questi casi il saggio degli interessi è maggiorato di ulteriori due punti percentuali ed è inderogabile (comma 3).
Il comma 4 stabilisce il principio della libertà contrattuale delle parti nella fissazione di termini superiori a quello legale di cui al comma 3 a condizione che le pattuizioni siano fatte per iscritto e siano nei limiti degli accordi sottoscritti a livello nazionale tra Ministero delle attività produttive e le organizzazioni rappresentative dei settori produttivi interessati.
L'articolo 5 attua l'art. 3, par. 1, lett. d) della direttiva, relativo al saggio degli interessi. Viene riprodotto il contenuto della direttiva, affermando che ai fini del decreto legislativo, il tasso degli interessi moratori è pari al tasso di interesse del principale strumento di rifinanziamento della BCE (applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale, effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione) maggiorato di 7 punti percentuali. Tale saggio, rilevato il primo giorno lavorativo della BCE, si applica per sei mesi.
Spetterà al Ministero dell'economia e delle finanze curare la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del tasso di riferimento al netto della maggiorazione di 7 punti: la pubblicazione dovrà avvenire due volte all'anno, entro i primi 10 giorni lavorativi di gennaio e di luglio.
La lettera e), par. 1, articolo 3 della direttiva è attuata dall'articolo 6, relativo al risarcimento dei costi di recupero dei crediti.
Salva la prova della non imputabilità del ritardo di pagamento al debitore - prova che egli stesso dovrà dare – o la prova del maggior danno, il creditore ha diritto al risarcimento dei costi sostenuti per recuperare le somme che il debitore non gli ha tempestivamente corrisposto (comma 1).
I costi, come affermato dalla direttiva, devono rispondere a principi di trasparenza e di proporzionalità con il debito e, per quanto aggiunto dal comma 2 dell'articolo in commento, possono essere determinati anche in base a elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale.
L'articolo 7 afferma che gli accordi sulla data di pagamento (o accordi sulle conseguenze del ritardo di pagamento) gravemente iniqui in danno dei creditori sono nulli. Per stabilire se un accordo è iniquo si farà riferimento alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti e ai rapporti commerciali fra i medesimi e ad ogni altra circostanza utile.
Il legislatore definisce gravemente iniqui l’accordo che, senza essere giustificato da ragioni obiettive, ha per scopo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore o quello con cui l’appaltatore o subfornitore imponga ai proprio fornitori o subfornitori termini più di pagamento più lunghi di quelli a lui concessi.
La dichiarazione di nullità dell'accordo è pronunciata anche d'ufficio dal giudice che, conseguentemente, applica i termini legali ovvero riconduce a equità il contenuto dell'accordo.
L'articolo 8 individua una serie di azioni a tutela di interessi collettivi, mutuate sostanzialmente sulle azioni a tutela dei consumatori previste dalla legge n. 281 del 1998 (anch'essa emanata per dare attuazione a normativa comunitaria), esperibili dalle associazioni di categoria delle piccole e medie imprese, per contrastare il ricorso a condizioni contrattuali inique in danno dei creditori. Il diritto di azione viene riconosciuto dal legislatore alle associazioni di categoria degli imprenditori presenti nel CNEL, prevalentemente in rappresentanza delle PMI e degli artigiani.
Inoltre, se gli obblighi stabiliti dal provvedimento adottato dal giudice a seguito dell'azione a tutela degli interessi collettivi (comma 1 e 2) restano inadempiuti, il giudice - d'ufficio o su domanda dell'associazione ricorrente - dispone la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 500 a 1.100 euro per ogni giorno di ritardo, tenendo conto della gravità del fatto (comma 3).
L'articolo 9 dà attuazione alla direttiva comunitaria per quanto riguarda le procedure di recupero dei crediti. A tal fine vengono apportate le seguenti modifiche al codice di procedura civile: è abrogato l'articolo 633, ultimo comma, c.p.c., ai sensi del quale il decreto ingiuntivo non può essere pronunciato quando la notificazione del provvedimento esecutivo all’intimato debba avvenire fuori del territorio nazionale. L'articolo 641, comma 1, c.p.c. viene modificato al fine di ottenere che il giudice, se sussistono le condizioni di cui all'art. 633, emetta decreto ingiuntivo entro 30 giorni dal deposito del ricorso. Si tratta di un termine ordinatorio volto a favorire un'accelerazione dei procedimenti. Se l'intimato risiede in uno degli Stati membri dell'Unione europea il termine per l'adempimento/opposizione è di 50 giorni e può essere ridotto a 20. Se l'intimato risiede in altri Stati il termine è di 60 giorni e, comunque, non può essere né inferiore a 30 né superiore a 120. Il decreto legislativo dispone che l'ordinanza di esecuzione provvisoria e parziale del decreto ingiuntivo debba essere concessa dal giudice per quanto riguarda le somme non contestate, a meno che l'opposizione non sia proposta per vizi procedurali.
E’ da sottolineare che le modifiche al codice di rito trovano applicazione per tutti i procedimenti di ingiunzione, a prescindere dalla natura di debitore e creditore, laddove il campo di applicazione della direttiva riguarda le transazioni commerciali fra imprese (ivi compresi i liberi professionisti) e fra imprese e PA.
L'articolo 10 sostituisce il comma 3 dell'articolo 3 della legge 18 giugno 1998, n. 192, riguardante i contratti di subfornitura e volta a tutelare le piccole e medie imprese, spesso svantaggiate nei confronti di controparti economicamente e contrattualmente più forti, soprattutto per quanto attiene ai termini e alle condizioni di pagamento delle commesse.
Attuando i principi e criteri direttivi di cui all'art. 26, comma 2, lett. e) della legge comunitaria 2001, la norma dispone che in caso di mancato rispetto del termine di pagamento, il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, interessi corrispondenti al saggio d'interesse del principale strumento di rifinanziamento della BCE, maggiorato di 7 punti (vedi sopra, art. 5), salva la prova del danno ulteriore e salva la pattuizione di interessi moratori superiori. Viene confermato che, ove il ritardo nel pagamento ecceda i 30 giorni dal termine convenuto, il committente incorre anche in una penale pari al 5 per cento dell'importo in relazione al quale non ha rispettato i termini.
L'articolo 11 contiene una norma transitoria volta ad escludere che le disposizioni del decreto si applichino ai contratti conclusi prima dell'8 agosto 2002. Si tratta del termine entro il quale gli Stati devono recepire la normativa comunitaria, ai sensi dell'articolo 6 della direttiva.
Il legislatore delegato ha, inoltre, fatto salve le disposizioni del codice civile e delle leggi speciali contenenti una disciplina più favorevole per il creditore e ha specificato che la riserva di proprietà ex art. 1523 c.c., concordata per iscritto tra l’acquirente e il venditore, è opponibile ai creditori del compratore se è confermata nelle singole fatture delle ulteriori forniture aventi data certa anteriore al pignoramento e registrate nelle scritture contabili.
Il decreto legislativo 10 dicembre 2002, n. 305[266], adottato in attuazione dell’articolo 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Legge comunitaria 2000), ha introdotto e disciplinato l’applicazione di sanzioni amministrative in occasione di violazioni al Regolamento (CEE) n. 4045/89 del Consiglio, del 21 dicembre 1989, relativo ai controlli, da parte degli Stati membri, delle operazioni che rientrano nel sistema di finanziamento del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), sezione garanzia. Lo stesso Regolamento, all’articolo 6, paragrafo 2, ha stabilito che gli Stati membri prendono le misure appropriate per sanzionare le persone fisiche o giuridiche che non rispettano gli obblighi previsti regolamento.
L’articolo 4 della citata legge comunitaria 2000, che ha conferito delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di disposizioni comunitarie e norme penali concernenti operazioni di esportazione di prodotti e tecnologie a duplice uso, nell’obiettivo di assicurare la piena integrazione delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale, ha previsto l'introduzione di un trattamento sanzionatorio per le violazioni alle direttive comunitarie attuate in via regolamentare o amministrativa e ai regolamenti comunitari vigenti alla data del 30 giugno 2000 per i quali non siano già previste sanzioni penali o amministrative.
Il decreto legislativo si compone di 3 articoli.
L’articolo 1 inserisce alcuni commi aggiuntivi all’articolo 3 del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701, convertito con modificazioni dalla legge 23 dicembre 1986, n. 898, recante Misure urgenti in materia di controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo. Tale decreto-legge ha stabilito le sanzioni amministrative applicabili nei confronti di chiunque, mediante l'esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del FEOGA. Oltre alla sanzione penale, il percettore è tenuto in ogni caso alla restituzione dell'indebito. Il decreto-legge ha anche equiparato le erogazioni a carico del FEOGA alle quote nazionali previste dalla normativa comunitaria a complemento delle somme a carico di detto Fondo, nonché alle erogazioni poste a totale carico della finanza nazionale sulla base della normativa comunitaria.
I commi aggiunti dall’articolo 1 del decreto legislativo in commento sono volti a sanzionare talune condotte delle imprese beneficiarie del finanziamento o di terzi soggetti coinvolti in occasione di controlli incrociati, che non ottemperino a specifici obblighi previsti dagli articoli 4 e 5 del regolamento (CEE) n. 4045/89 del Consiglio.
Ai sensi del successivo articolo 2, le sanzioni, fino all’individuazione dell’organo competente da parte delle singole regioni e province autonome, sono irrogate a livello nazionale, secondo le procedure di cui alla legge n. 898/1986, dal Ministero delle politiche agricole e forestali per quanto riguarda gli interventi di mercato e dalla Agenzia delle dogane per quanto concerne le restituzioni all’esportazione.
L’articolo 3 prevede, infine, che i funzionari che effettuano i controlli di cui al Regolamento (CEE) n. 4045/89 hanno la qualifica di pubblici ufficiali ai sensi dell’articolo 357 del codice penale.
Il decreto legislativo 10 dicembre 2002, n. 306[267], adottato in attuazione della delega di cui all’articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), introduce e disciplina le sanzioni amministrative applicabili in occasione di violazioni al regolamento (CE) n. 1148/2001 della Commissione, del 12 giugno 2001, concernente i controlli di conformità alle norme di commercializzazione applicabili nel settore degli ortofrutticoli freschi, che ha abrogato il precedente regolamento in materia (Reg. CEE n. 2251/92).
La norma di delega riguardava l'emanazione di disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative per la violazione di direttive comunitarie attuate in via regolamentare o amministrativa, nonché di regolamenti comunitari vigenti alla data di entrata in vigore della legge comunitaria che non recassero sanzioni penali o amministrative.
Il citato Regolamento del 2001 non recava misure sanzionatorie per i casi di violazione che la normativa comunitaria previgente (reg. CEE n. 2251/92) invece conteneva. Il decreto legislativo n. 306/2002 novella il sistema sanzionatorio introdotto dal regolamento comunitario del 1992 e attuato dal decreto legislativo 1° febbraio 2000, n. 57, che il provvedimento del 2002 ha abrogato (art.6).
Per quanto concerne il settore disciplinato dalle fonti fin qui richiamate, è da ricordare che l’adeguamento della legislazione nazionale alle disposizioni comunitarie sui controlli della qualità dei prodotti ortofrutticoli è avvenuto a partire dal 1992, mentre alla definizione di sanzioni per il mancato rispetto delle norme sulla commercializzazione degli ortofrutticoli si è provveduto solo nel corso del 2000 con l’approvazione del D.lgs. n. 57/2000, in base ad una delega conferita dalla legge comunitaria 1995-97.
Passando ai contenuti del decreto legislativo n. 306/2002, l’articolo 1 definisce l’ambito di applicazione, concernente le sanzioni applicabili in materia di commercializzazione all’interno dell’Unione europea e di interscambio con i Paesi terzi dei prodotti ortofrutticoli freschi, oggetto di regolamentazione comunitaria.
Gli articoli 2, 3 e 4 introducono le sanzioni amministrative pecuniarie applicabili per le violazioni alle prescrizioni del regolamento CE n. 1148/2001 della Commissione del 12 giugno 2001: commercializzazione e apposizione di etichette sui colli senza la prevista iscrizione alla banca dati ed autorizzazione (art. 2); impedimento delle operazioni di controllo e omissione di informazioni richieste dagli organismi di controllo (art. 3); violazione delle norme di qualità e sui controlli (art. 4).
L’articolo 5 individua la competenza delle regioni e delle province autonome, nei rispettivi ambiti, all’accertamento delle violazioni amministrative e all’applicazione delle relative sanzioni (comma 1). Vengono comunque fatte salve, ai fini degli accertamenti e delle procedure applicative, per quanto non previsto dal decreto legislativo, le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale). Il terzo comma attribuisce la qualifica di pubblico ufficiale, ai sensi dell’articolo 357 c.p., ai funzionari regionali deputati al controllo.
Infine, come già accennato, l’articolo 6 dispone l’abrogazione del decreto legislativo 1 febbraio 2000, n. 57, Disciplina sanzionatoria relativa ai controlli sulla qualità dei prodotti ortofrutticoli, a norma dell’articolo 8 della legge 24 aprile 1998, n. 128) che stabiliva le sanzioni amministrative applicabili per le violazioni del regolamento (CEE) n. 2251/92 (Regolamento della Commissione concernente i controlli sulla qualità degli ortofrutticoli freschi), abrogato a sua volta dal regolamento (CE) n. 1148/2001.
Il decreto legislativo 24 giugno 2004, n. 180[268], in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 1 marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001), ha disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni del regolamento (CE) n. 2560/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 dicembre 2001, che ha introdotto una serie di obblighi a carico delle imprese che nell’ambito della propria attività eseguono pagamenti transfrontalieri in euro. Tali sanzioni sono direttamente ed esclusivamente applicate in capo alle imprese. L’articolo 3 della legge comunitaria 2001 ha delegato il Governo ad emanare, entro due anni dall’entrata in vigore della legge, decreti legislativi contenenti disposizioni sanzionatorie penali o amministrative per le violazioni ai regolamenti comunitari già vigenti nel nostro ordinamento alla data di entrata in vigore della legge comunitaria, e per i quali non siano già previste sanzioni.
Al riguardo si ricorda che con il decreto legislativo 28 luglio 2000 n. 253 è già stata data attuazione alla direttiva 97/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 gennaio 1997, diretta a migliorare i servizi di bonifico transfrontaliero. Scopo della direttiva era quello di consentire in particolare ai consumatori e alle piccole e medie imprese di effettuare bonifici in modo rapido, affidabile ed economico all’interno della Comunità. Tali bonifici e, più in generale, i pagamenti transfrontalieri avvenivano, infatti, in assenza di precise garanzie per il cliente (informazione, tempi di esecuzione, eventuale indennizzo), risultando estremamente costosi se confrontati ai pagamenti effettuati a livello nazionale. Mentre la citata direttiva 97/5/CE ha riguardato soltanto i "bonifici" transfrontalieri, il Regolamento CE n. 2560/2001 è invece relativo, in generale, ai "pagamenti" transfrontalieri di importo non superiore a 50.000 euro eseguiti nella Comunità (ad eccezione delle transazioni tra enti creditizi per loro proprio conto). Per pagamenti transfrontalieri si intendono: i bonifici transfrontalieri; le operazioni transfrontaliere di pagamento elettronico; gli assegni (cartacei) transfrontalieri. Il Regolamento ha inteso rendere di eguale ammontare le spese di commissione trattenute per i pagamenti transfrontalieri in euro e quelle trattenute per i pagamenti all’interno dei singoli territori nazionali. La parificazione dei costi delle commissioni è stata applicata dal 1° luglio 2002 ai pagamenti tramite carta e ai prelievi presso distributori automatici di banconote a partire dal 1° luglio 2003 ai bonifici e agli assegni. Questo termine supplementare di un anno mirava a consentire l'automazione completa delle reti interbancarie. La “parificazione” è stata introdotta per transazioni fino ad un massimo di 12.500 euro, importo che dal 1° gennaio 2006 è salito a 50.000 euro. L’articolo 7 del Regolamento, in particolare, ha imposto agli Stati membri l’applicazione, per le relative violazioni, di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive.
Passando ai contenuti dei tre articoli di cui si compone il decreto legislativo n. 180/2004, l’articolo 1 prevede che la mancata perequazione delle commissioni percepite (violazioni all’art. 3 del Regolamento) comporta l’applicazione agli enti incaricati di eseguire il pagamento transfrontaliero della sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 100.000 euro; in caso di gravità della violazione o di recidiva, la sanzione non può essere inferiore a 50.000 euro e può anche essere disposta la sanzione interdittiva (che si aggiunge alla pecuniaria) consistente nella sospensione dell’autorizzazione a compiere bonifici transfrontalieri.
L’articolo 2 introduce la disciplina sanzionatoria applicabile alle seguenti violazioni:
§ mancata trasparenza verso i clienti riguardo le commissioni percepite (art. 4 del Regolamento);
§ mancata applicazione di misure volte a facilitare i bonifici transfrontalieri (art. 5 del Regolamento).
Per tali violazioni è stabilita una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro. In caso di reiterazione la sanzione non può essere inferire a 25.000 euro.
L’articolo 3 individua la procedura per l’irrogazione delle sanzioni:
§ le sanzioni sono proposte dalla Banca d’Italia o dall’U.I.C. (Ufficio Italiano Cambi);
§ sono irrogate dal Ministero dell’economia e delle finanze.
La procedura è mutuata dal decreto legislativo 253/2000 (art. 9), di attuazione della direttiva 97/5/CEE sui bonifici transfrontalieri, a sua volta già richiamata dall’art. 195 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria).
Il decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 297[269]ha introdotto e disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni al regolamento (CEE) n. 2081/92 del Consiglio, del 14 luglio 1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari.
Si ricorda che le violazioni commesse in questa materia sono state depenalizzate dall’articolo 1 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, che ha trasformato in illeciti amministrativi le violazioni previste come reato da ogni disposizione in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande, nonché di tutela della denominazione di origine dei medesimi.
Il provvedimento ha attuato la delega contenuta nell’articolo 3 della legge comunitaria 2002 (legge 3 febbraio 2003, n. 14) che ha disposto, in analogia con precedenti leggi comunitarie, l'introduzione di un trattamento sanzionatorio, penale e amministrativo, per le violazioni ai regolamenti comunitari già vigenti nel nostro ordinamento giuridico che ne fossero sprovvisti.
Il Regolamento (CEE) 2081/92 ha introdotto una disciplina di protezione di prodotti agricoli di qualità, al fine di garantire condizioni di concorrenza uguali fra i produttori, superando la preesistente eterogeneità di disposizioni tra i Paesi membri. La nuova disciplina risponde anche all’esigenza di tutelare il consumatore, assicurandogli informazioni chiare e sintetiche sull’origine del prodotto, e reca pertanto anche disposizioni sull'etichettatura dei prodotti agricoli ed alimentari (che assumono carattere di specialità rispetto alla normativa generale in materia). Il regolamento (CEE) 2081/92 si applica ai prodotti agro-alimentari destinati all'alimentazione umana, con l'espressa esclusione dei vini e delle bevande spiritose, disciplinati, per questi profili, da apposita regolamentazione. Il Regolamento ha assegnato ai singoli Stati membri di provvedere alla istituzione di strutture di controllo, aventi il compito di garantire che i prodotti tutelati da una denominazione protetta rispondano ai requisiti definiti nel disciplinare di appartenenza.
In merito agli adempimenti previsti, l’Italia vi ha provveduto, nel 1998, all’articolo 53 della legge 24 aprile 1998, n. 128 (legge comunitaria 1995-1997), successivamente integrata dalla legge 21 dicembre 1999, n. 526 (legge comunitaria 1999) e da numerosi decreti ministeriali. L’autorità nazionale preposta al coordinamento delle attività di controllo è il Ministero delle politiche agricole e forestali, che agisce di concerto con le regioni; al ministero compete poi la designazione delle autorità pubbliche deputate ai controlli, nonchè la concessione dell’autorizzazione a quelle private. Anche per i consorzi di tutela va fatto richiamo all’articolo 53 della legge 24 aprile 1998, n. 128 e ai successivi decreti del Ministro delle politiche agricole e forestali in materia.
Il decreto legislativo si compone di 12 articoli, suddivisi in cinque Capi.
L’articolo 1 - salvo che il fatto costituisca reato - introduce sanzioni amministrative pecuniarie per l’illegittimo impiego commerciale, in modo diretto o indiretto, di una denominazione di origine o di una indicazione geografica o del segno distintivo o del marchio. Le condotte sanzionate sono individuate a seconda che riguardino prodotti comparabili (appartenenti allo stesso tipo e non aventi diritto a tale denominazione), prodotti non comparabili (non appartenenti allo stesso tipo e l’uso della denominazione protetta consente di sfruttarne indebitamente la reputazione); prodotti composti, elaborati o trasformati recanti nella etichettatura, presentazione, pubblicità riferimenti ad una denominazione protetta. La norma individua i casi in cui il riferimento alla denominazione protetta non costituisce violazione.
Per tutti gli illeciti è prevista la sanzione accessoria dell’inibizione all’uso della denominazione protetta per le quantità accertate e, tenuto conto della gravità del fatto, può essere disposta anche la pubblicazione del provvedimento che accerta la violazione a spese del soggetto colpito dalla sanzione.
L’articolo 2 dispone , salvo che il fatto costituisca reato, sanzioni amministrative pecuniarie per le contraffazioni, imitazioni e riproduzioni di marchi e segni distintivi di denominazioni di origine e indicazioni geografiche.In riferimento alla sanzione accessoria della pubblicazione, a spese del soggetto sanzionato, del provvedimento di accertamento della violazione, l’articolo 2 prevede che tale sanzione possa essere irrogata tenuto conto della gravità del fatto, da desumersi in base a due criteri: quantità dei prodotti oggetto delle condotte sanzionate e rischio di induzione in errore dei consumatori finali.
L’articolo 3 stabilisce, salvo che i fatti costituiscano reato, sanzioni amministrative pecuniarie a carico del soggetto che, una volta inserito nel sistema di controllo delle prescrizioni inerenti ad una denominazione protetta, violi tali prescrizioni.
Oltre alla sanzione amministrativa, si applica la sospensione del diritto ad utilizzare la denominazione protetta fino alla rimozione della causa che ha dato origine alla sanzione.
Il Capo II, relativo agli organismi di controllo e ai consorzi di tutela, si apre con l’articolo 4 che dispone le sanzioni amministrative relative alle violazioni commesse dalla struttura di controllo autorizzata dal Ministero delle politiche agricole e forestali ai sensi dell’articolo 53 della legge n. 128 del 1998 e successive modificazioni.
L’articolo 5 sanziona invece lo svolgimento di attività concorrenziali rispetto a quelle che l’ordinamento affida ai Consorzi di tutela. Le sanzioni previste dal successivo articolo 6 colpiscono invece il Consorzio di tutela della denominazione che non adempie agli obblighi e alle prescrizioni derivanti dal decreto di riconoscimento o svolge attività incompatibili con il mantenimento di tale provvedimento, non avendo ottemperato alla specifica intimazione ad adempiere e fatta salva la facoltà del Ministero delle politiche agricole forestali di procedere alla sospensione o alla revoca del provvedimento.
L’articolo 7, incluso nel Capo III relativo alle circostanze, sanziona altri illeciti quali il mancato rispetto delle inibizioni previste agli articoli 1 e 2: laddove, nonostante l’inibizione, il sanzionato non cessi dalla condotta illecita, il comma 1 prevede una ulteriore sanzione amministrativa pecuniaria. Inoltre, ai sensi del comma 2, in caso di reiterazione dell’illecito, la sanzione prevista dagli articoli da 1 a 6 deve essere triplicata.
I successivi articoli da 8 a 10 (Capo IV) identificano i soggetti competenti ad accertare le violazioni. Si tratta:
§ degli agenti vigilatori (articolo 8, comma 1) con qualifica di agente di pubblica sicurezza, legati ad uno o più Consorzi da un rapporto di lavoro, per le violazioni di cui altri articoli 1, 2 e 5;
§ del Ministero delle politiche agricole e forestali (articoli 9 e 10) per le violazioni di cui agli articolo 3, co. 1, 2, 3 e 4, e articoli 4 e 6.
A prescindere dall’autorità che accerta la violazione, la competenza ad irrogare la sanzione amministrativa pecuniaria è attribuita dall’articolo 11 al Ministero delle politica agricole e forestali. Lo stesso articolo aggiunge che in caso di violazione degli obblighi pecuniari relativi allo svolgimento delle attività di controllo da parte della struttura pubblica designata o privata autorizzata dal Ministero delle politiche agricole e forestali (art. 3, comma 3) o degli obblighi pecuniari relativi alle attività del Consorzio di tutela della denominazione protetta (art. 3, comma 4), il soggetto sanzionato dovrà anche provvedere a versare le somme dovute al creditore.
Infine, l’articolo 12 abroga tutte le disposizioni sanzionatorie previste dal norme speciali aventi ad oggetto la tutela dei prodotti registrati e contenute nelle seguenti leggi:
§ legge n. 125/1954, Tutela delle denominazioni di origine e tipiche dei formaggi,
§ legge n. 628/1981, Norme relative alla tutela della denominazione d'origine e tipica del prosciutto veneto berico-euganeo,
§ legge n. 224/1989, Tutela della denominazione di origine del salame di Varzi, delimitazione della zona di produzione e caratteristiche del prodotto,
§ legge n. 11/1990, Tutela della denominazione d'origine del prosciutto di Modena, delimitazione della zona di produzione e caratteristiche del prodotto.
Il decreto legislativo 29 gennaio 2004, n. 58[270] in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 1 marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001), ha introdotto e disciplinato le sanzioni amministrative applicabili per le violazioni ai regolamenti comunitari e alla normativa nazionale in materia di identificazione e registrazione dei bovini, nonché di etichettatura delle relative carni e dei prodotti derivati. Si ricorda che l’articolo 3 della legge comunitaria 2001 ha delegato il Governo italiano ad emanare, entro due anni dall’entrata in vigore della legge, decreti legislativi contenenti disposizioni sanzionatorie penali o amministrative per le violazioni ai regolamenti comunitari già vigenti nel nostro ordinamento alla data di entrata in vigore della legge comunitaria, e per i quali ovviamente non siano già previste sanzioni.
Il provvedimento si inquadra nel novero delle misure adottate, a livello comunitario e nazionale, per far fronte alla crisi del mercato delle carni a seguito della diffusione dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE), e alla necessità di ripristinare la fiducia dei consumatori nella qualità delle carni bovine consumate. Esso ha completato, peraltro, il quadro normativo in materia di passaporto sanitario ed etichette delle carni bovine che dal primo gennaio 2002 ha previsto, tra l'altro, l'indicazione non solo del Paese di nascita dell'animale ma anche del luogo di ingrasso e di macellazione.
Al riguardo si ricorda che la etichettatura delle carni, introdotta su base volontaria da un regolamento del 1997, è stata resa obbligatoria dal Regolamento 1760/2000/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 luglio 2000, che ha abrogato e sostituito il precedente Regolamento 820/97 del Consiglio e che ha previsto disposizioni di immediata applicazione, dirette a rendere rintracciabili le fasi di lavorazione delle carni, e disposizioni volte ad assicurare anche informazioni sul luogo di nascita e di ingrasso dell’animale, per le quali è stato concessa una fase di adeguamento del comparto produttivo.
Disposizioni di applicazione del Reg 1760/2000/CE sono state introdotte dal Regolamento 1825/2000 della Commissione, del 25 agosto 2000, soprattutto allo scopo di garantire la rintracciabilità dell’origine del prodotto carne, sia nel sistema obbligatorio che in quello facoltativo di etichettatura, anche in assenza di taluni dati quali il numero di riconoscimento del macello o le informazioni sul luogo di nascita e gli spostamenti successivi dei capi. Il Regolamento ha previsto, sullo specifico tema dei controlli, che gli operatori, o le organizzazioni, consentano l’accesso ai locali ed alla documentazione dei seguenti soggetti: esperti della Commissione; autorità competenti; organismi indipendenti di controllo sulle produzioni che recano le etichettature aggiuntive diverse da quelle facoltative. Si è inoltre richiesto ai singoli Stati membri di definire un sistema di sanzioni per le violazioni al reg. n. 1760/2000, tale che le misure ivi previste risultino efficaci, commisurate e dissuasive.
Il decreto legislativo si compone di tre capi: il primo si riferisce al titolo I del regolamento CE n. 1760/2000 sul sistema di “identificazione e registrazione dei bovini ” (artt. 1-4); il secondo capo, relativo al titolo II dello stesso regolamento (artt. 5-8), riguarda l’”etichettatura delle carni e dei prodotti a base di carni bovine” con richiami al regolamento di applicazione n. 1825/2000, della Commissione; il terzo, composto dal solo art. 9, riguarda le norme finali, affidando alle Regioni e alle Province autonome specifiche competenze di accertamento, e sanzionatorie.
L’articolo 1 - salvo che il fatto costituisca reato - introduce sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni in tema di apposizione dei marchi auricolari, da applicare al detentore di bovini, intendendosi per tale, in base all’art. 2 del Reg. 1760/CE, “qualsiasi persona fisica o giuridica responsabile degli animali, su base sia permanente che temporanea, anche durante il trasporto o su un mercato”.
L’articolo 2 prevede, salvo che il fatto costituisca reato, sanzioni amministrative pecuniarie anche per le violazioni in materia di fornitura di marchi auricolari. Per il caso di reiterazione l’articolo 2 prevede il raddoppio della sanzione amministrativa pecuniaria prevista e la non ammissione al pagamento in misura ridotta previsto dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale, la cd. legge di depenalizzazione). Come sanzione accessoria per la reiterazione delle violazioni è disposta, inoltre, la cancellazione dell’elenco dei fornitori (comma 5).
L’articolo 3 del provvedimento, fatta salva la riserva di legge penale, introduce numerose e diversificate sanzioni pecuniarie per le violazioni in materia di cedole identificative, passaporto e registro aziendale. La reiterazione comporta, anche in tal caso, il raddoppio della sanzione pecuniaria e l’impossibilità di accesso al pagamento in misura ridotta.
L’articolo 4 stabilisce che, in sede di accertamento, l’autorità incaricata debba indicare nel verbale a carico del detentore dell’animale le carenze riscontrate e le prescrizioni di adeguamento alla normativa vigente. In caso di primo controllo in azienda, l’autorità competente, quando - anche in presenza di violazioni- sia comunque possibile la sicura identificazione degli animali, prescrive al detentore gli adempimenti necessari a regolarizzare la sua posizione, fissando un termine massimo di 15 giorni; in caso di adempimento degli obblighi nel termine indicato, le sanzioni relative agli illeciti riscontrati sono estinte.
In relazione al Capo II del decreto, le sanzioni amministrative relative alla etichettatura delle carni bovine e dei prodotti da esse derivate sono elencate dall’articolo 5.
Salvo che il fatto costituisca reato, soggetti a tali sanzioni sono il singolo operatore commerciale ovvero l’organizzazione; quest’ultima, ai sensi dell’art. 12 del Regolamento 1760/2000/CE, è definita come “un gruppo di operatori del medesimo settore o di settori diversi negli scambi di carni bovine”.
La recidiva della commercializzazione di carni bovine con indicazioni dell’etichettatura (oltre quelle obbligatorie) non conformi ad alcun disciplinare approvato comporta la revoca dell’approvazione del disciplinare quando la condotta sia tale da compromettere l’affidabilità dell’operatore (o dell’organizzazione) nella prosecuzione della gestione del disciplinare (comma 4).
Sanzioni in materia di controlli da parte degli esperti della Commissione delle Comunità europee, delle autorità competenti e degli organismi di controllo, fatta salva la riserva di legge penale, sono previste dall’articolo 6. L’articolo 7, salvo che il fatto costituisca reato, introduce sanzioni in materia di denominazioni di origine e di indicazioni geografiche protette. L’articolo 8 prevede sanzioni in materia di organismi di controllo; infatti, la norma stabilisce che - in caso di mancata attuazione del sistema di controllo previsto dal disciplinare di etichettatura facoltativo (art. 16, par. 1, Reg 1760/2000) - all’organismo indipendente di controllo (riconosciuto dall’autorità competente e designato dall’operatore commerciale o dall’organizzazione) debba essere revocato il riconoscimento.
La disposizione finale (Capo III, articolo 9) individua le competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano all’accertamento delle violazioni amministrative previste dal provvedimento e all’irrogazione delle relative sanzioni, dandone comunicazione ai Ministeri delle politiche agricole e della salute. A fini dell’accertamento e delle procedure, sono applicabili le previsioni della citata legge 689/1981. Le norme del decreto sono applicate nel rispetto delle disposizioni statutarie delle regioni a statuto speciale e delle citate province autonome.
Il decreto legislativo 30 settembre 2005, n. 225[271], adottato in attuazione della delega conferita al Governo dall’articolo 3 della legge 31 ottobre 2003, n. 306, (legge comunitaria per il 2003), ha introdotto nell’ordinamento e disciplinato sanzioni di tipo amministrativo per le violazioni al Regolamento (CE) 1019/2002 della Commissione, del 13 giugno 2002, relativo alle norme di commercializzazione dell’olio di oliva e successive modificazioni, nonché al decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 4 giugno 2004.
La norma di delega ha riguardato la introduzione di sanzioni penali o amministrative per le violazioni delle disposizioni contenute in direttive (attuate in via regolamentare o amministrativa), nonché in regolamenti comunitari vigenti per i quali non siano già previste sanzioni. L’entità delle sanzioni è stabilita secondo i medesimi criteri individuati dall’art. 2, comma 1, lettera c) della legge 306/2003 che prevede che i limiti edittali delle sanzioni amministrative pecuniarie sono fissati in una somma non inferiore nel minimo a 103 euro e non superiore nel massimo a 103.291 euro. Nell'ambito dei limiti minimi e massimi previsti, tali sanzioni sono determinate nella loro entità, tenendo conto della diversa potenzialità lesiva dell'interesse protetto che ciascuna infrazione presenta in astratto, di specifiche qualità personali del colpevole, comprese quelle che impongono particolari doveri di prevenzione, controllo o vigilanza, nonché del vantaggio patrimoniale che l'infrazione può recare al colpevole o alla persona o ente nel cui interesse egli agisce. In ogni caso sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi.
Per quanto concerne il Regolamento CE n. 1019/2002, esso concerne le operazioni di commercializzazione al dettaglio, ovvero di vendita al consumatore finale, di diverse tipologie di olio d’oliva (olio extra vergine e olio vergine; olio composto di oli raffinati tagliati con oli vergini; olio ottenuto dal taglio dell’olio di sansa raffinato con olio d’oliva vergine). Tali tipologie di olio sono oggetto di una specifica tutela in ragione delle peculiari qualità organolettiche che si traducono in elevati prezzi di mercato e nella conseguente necessità di una maggiore tutela del consumatore. In particolare, il citato regolamento comunitario ha reso impossibile la vendita diretta al consumatore di olio sfuso, dovendo il prodotto essere comunque presentato in contenitori preconfezionati della capacità minima di 5 litri.
Con il D.M. 4 giugno 2004 sono state introdotte disposizioni applicative relative ai controlli in materia di disciplina della commercializzazione dell'olio di oliva, di cui al regolamento (CE) n. 1019/2002. I controlli previsti riguardano gli imballaggi, le informazioni sulla categoria e la designazione dell’origine dell’olio, le altre indicazioni facoltative, l’identificazione delle partite di prodotto, il piano annuale dei controlli, affidato – come già stabilito dal DM 29 aprile 2004 - all'Ispettorato centrale repressione frodi del Ministero delle politiche agricole e forestali.
Il decreto legislativo n. 225/05 si compone di 8 articoli; i primi 6, in particolare, - fatta salva la riserva di legge penale - determinano le sanzioni amministrative pecuniarie irrogabili per le diverse tipologie di illecito nella materia in oggetto.
L’articolo 1 prevede le sanzioni per le violazioni delle norme sugli imballaggi per le vendite al dettaglio di oli d’oliva.
L’articolo 2 sanziona la non conformità delle etichette che contengano informazioni sulla categoria di olio.
L’articolo 3 enuclea le sanzioni per diverse tipologie di illecito, attinenti alla designazione dell’origine del prodotto.
Con l’articolo 4 è sanzionato il mancato rispetto delle procedure relative alle altre indicazioni facoltative sulle etichette e gli imballaggi.
L’articolo 5 detta le sanzioni relative al mancato rispetto delle norme sull’identificazione delle partite di prodotto.
L’articolo 6 individua le sanzioni per le violazioni degli artt. da 1 a 5 in relazione alla quantità, piccola o grande, di olio.
L’articolo 7 prevede che l’organo di controllo possa preventivamente diffidare il contravventore invitandolo ad adempiere nel termine alle prescrizioni nel termine di quindici giorni.
L’articolo 8 individua nelle regioni e nelle province autonome di Trento e Bolzano le autorità amministrative competenti per l’irrogazione delle sanzioni.
Il decreto Legislativo 21 febbraio 2005, n. 36[272]adottato in attuazione della delega contenuta nell’articolo 3 della legge 3 febbraio 2003, n. 14 (legge comunitaria 2002), ha introdotto e disciplinato le sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni al Regolamento CE 1774/2002 del Parlamento e del Consiglio, del 22 maggio 2001, relativo alle norme sanitarie per i sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano, e successive modificazioni.
L’articolo 3 della legge comunitaria 2002 ha delegato il Governo ad emanare, entro due anni dall’entrata in vigore della legge, decreti legislativi contenenti disposizioni sanzionatorie penali o amministrative per le violazioni ai regolamenti comunitari già vigenti nel nostro ordinamento e per i quali non fossero già previste sanzioni.
In seguito alle crisi alimentari dovute all’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE), è stato evidenziato il ruolo di specifici sottoprodotti, con particolare riferimento ai mangimi animali, nel contagio della malattia dall’animale all’uomo. Inoltre, è stato appurato come la somministrazione a qualsiasi animale di proteine ottenute da cadaveri della stessa specie - il cosiddetto “cannibalismo” - può costituire un rischio supplementare di propagazione di malattie (cfr. ordinanza Ministro della sanità 17 novembre 2000, che ha vietato la somministrazione a tutte le specie animali di alimenti per animali ottenuti dai rifiuti di origine animale). Il Regolamento (CE) n. 1774/2002, successivo al Regolamento (CE) n. 178/2002, ha distinto le misure da attuare per il trattamento dei sottoprodotti di origine animale, fissando regole minime a livello europeo e lasciando agli Stati membri la possibilità di prendere misure ancora più rigorose o che coprano prodotti esclusi dal suo campo d'applicazione. Tale regolamento, abrogando la direttiva 90/667/CEE del 27 novembre 1990 e le decisioni 95/348/CE e 99/534/CE, ha automaticamente abrogato anche il decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 508, contenente la relativa disciplina di recepimento delle norme sanitarie per l'eliminazione, la trasformazione e l'immissione sul mercato di rifiuti di origine animale e la protezione dagli agenti patogeni degli alimenti per animali di origine animale o a base di pesce, e che ha modificato la direttiva 90/425/CEE.
Il decreto legislativo in commento, oltre a corredare il citato regolamento comunitario di uno specifico apparato sanzionatorio, ha introdotto sanzioni amministrative pecuniarie in riferimento a disposizioni contenute in ulteriori fonti normative nazionali di rango secondario, riguardanti la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di alcune encefalopatie spongiformi trasmissibili all’uomo. Si tratta segnatamente del decreto ministeriale del Ministro della salute 16 ottobre 2003 - con il quale sono state dettate nuove misure sanitarie di protezione contro le encefalopatie spongiformi trasmissibili, con particolare riferimento alle procedure da adottare per la gestione degli specifici materiali a rischio – e dell'Accordo tra il Ministro della salute, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il Ministro delle politiche agricole e forestali e le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano sancito in data 1° luglio 2004, recante le Linee guida per l'applicazione del regolamento (CE) n. 1774/2002.
Il decreto si compone di 11 articoli.
L’articolo 1 si riferisce al campo di applicazione della disciplina sanzionatoria, recata dal provvedimento, che si applica in relazione alle disposizioni del regolamento CE n. 1774/2002, a quelle contenute nel decreto ministeriale 16 ottobre 2003 e nel citato Accordo. La norma fa riferimento al regolamento CE del 2002 e al decreto ministeriale del 2003 per quanto concerne la definizione della nozione di sottoprodotti di origine animale e di prodotti trasformati da essi derivati, nonchè di materiale specifico a rischio.
L’articolo 2 - salvo che il fatto costituisca reato - introduce sanzioni amministrative pecuniarie per il trattamento (spedizione, raccolta, trasporto, identificazione) di sottoprodotti di origine animale o relativi prodotti di trasformazione in violazione dell’articolo 7 del regolamento comunitario. Le stesse sanzioni si applicano se il trasporto avviene con mezzi privi dell’autorizzazione dell’autorità sanitaria o ambientale o nel caso di sospensione o revoca della stessa.
L’articolo 3 reca le sanzioni amministrative per la mancata istituzione dei registri delle partite, di cui all’art. 9 del regolamento comunitario, o per la loro tenuta in modo non conforme all’Allegato II del regolamento.
L’articolo 4, fatta salva la riserva di legge penale, introduce sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni in materia di trasformazione ed eliminazione dei sottoprodotti di origine animale o prodotti trasformati da essi derivati, in difformità dalle prescrizioni di cui articoli 4, 5 e 6 del Regolamento.
Le sanzioni amministrative pecuniarie relative al mancato riconoscimento degli impianti da parte dell’Autorità competente o nel caso di una sua sospensione o revoca sono elencate dall’articolo 5, mentre analoghe sanzioni in materia di autocontrollo degli impianti, fatta salva la riserva di legge penale, sono previste dall’articolo 6.
I successivi articoli, salvo che il fatto costituisca reato, introducono sanzioni amministrative pecuniarie in materia di illecita immissione sul mercato o illecita esportazione di prodotti trasformati (articolo 7) e di alimenti per animali da compagnia, articoli da masticare o prodotti tecnici (articolo 8) in difformità dagli articoli 19 e 20 del Regolamento.
Il successivo articolo 9 sanziona il mancato rispetto delle restrizioni d’uso previste in materia di sottoprodotti di origine animale e prodotti trasformati.
L’articolo 10, fatta salva la riserva di legge penale, prevede sanzioni amministrative per violazioni connesse all’uso di materiale specifico a rischio, come definito dal citato decreto ministeriale del 16 ottobre 2003. Il comma 4 dell’art. 10 prevede, inoltre, il raddoppio dell’entità dei limiti edittali (minimi e massimi) stabiliti per le violazioni in tema di trasporto, raccolta ed immagazzinaggio, istituzione di registri, trasformazione ed eliminazione dei materiali, nonché autocontrollo degli impianti (art. 2, 3, comma 1, e articoli 4 e 6) quando tali violazioni riguardino il materiale specifico a rischio di cui all’art. 1 del citato D.M. 16 ottobre 2003.
Le disposizioni finali del provvedimento sono, infine, contenute nell’articolo 11. Sono sempre disposti il sequestro e la distruzione del materiale, oltre alla applicazione delle sanzioni amministrative, quanto le violazioni riguardano prescrizioni relative al materiale più a rischio (di categoria 1 e 2, ai sensi del Regolamento). La norma sancisce la competenza di regioni e province autonome, nell’ambito delle loro competenze, all’accertamento delle violazioni ed all’irrogazione delle sanzioni.
Un ulteriore decreto legislativo, alla data di chiusura della XIV legislatura risulta ancora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Si tratta del provvedimento che introduce una disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 178/2002, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare.
Il decreto ha attuato la delega legislativa conferita al Governo ai sensi dell’articolo 3 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003). Tale disposizione, al fine di assicurare la piena integrazione delle norme comunitarie nell'ordinamento nazionale, ha attribuito al Governo, fatte salve le norme penali vigenti, la delega ad adottare, entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge, disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative per le violazioni di direttive comunitarie attuate in via regolamentare o amministrativa e di regolamenti comunitari vigenti alla data di entrata in vigore della legge, per i quali non siano già previste sanzioni penali o amministrative.
Il decreto legislativo, che si compone di sette articoli, provvede pertanto ad introdurre una disciplina sanzionatoria di tipo amministrativo per la violazione delle disposizioni contenute nelcitato Regolamento (CE) n. 178/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.
L’articolo 1 individua il campo di applicazione del provvedimento in riferimento agli articoli 18, 19 e 20 del Regolamento (CE) n. 178 del 2002.
L’articolo 2 disciplina il caso di violazione degli obblighi derivanti dall'articolo 18 del Regolamento (CE) 178/2002 in materia di rintracciabilità al fine di prevedere che, salvo che il fatto costituisca reato, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi che non adempiono agli obblighi di cui all'articolo 18 del Regolamento (CE) 178/2002 sono soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da settecentocinquanta a quattromilacinquecento euro.
L’articolo 3 riguarda la violazione degli obblighi derivanti dagli articoli 19 e 20 del Regolamento (CE) 178/2002 relativi all'avvio delle procedure per il ritiro dal mercato. Salvo che il fatto costituisca reato, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi che siano a conoscenza che un alimento o un mangime o un animale da loro importati, prodotti, trasformati, lavorati o distribuiti, non più nella loro disponibilità non è conforme ai requisiti di sicurezza e che non attiva le procedure di ritiro degli stessi, sono soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro tremila a euro diciottomila. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi che, avendo attivato la procedura di ritiro di cui al comma 1, non informano contestualmente l'autorità competente dell'attivazione di tale procedura sono soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquecento a euro tremila. Salvo che il fatto costituisca reato, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi che non forniscono alle autorità competenti le notizie o la collaborazione dalle stesse legittimamente richieste, al fine di evitare o ridurre i rischi legati ad un alimento, ad un mangime o ad un animale da essi fornito, sono soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro duemila a euro dodicimila.
L’articolo 4 prende in considerazione l’ipotesi di violazione degli obblighi nei confronti dei consumatori e degli utilizzatori, di cui agli articoli 19 e 20 del Regolamento (CE)178/2002, e fissa una sanzione amministrativa da duemila a dodicimila euro per gli operatori del settore alimentare e dei mangimi, il cui alimento o mangime non conforme ai requisiti di sicurezza è arrivato al consumatore o all'utilizzatore, che non informano il consumatore e l'utilizzatore sui motivi del ritiro.
L’articolo 5 prevede la fattispecie della violazione degli obblighi nei confronti dell’operatore che non incidono sul confezionamento, sull’etichettatura, sulla sicurezza o sull’integrità dell’alimento ai sensi degli articoli 19 e 20 del Regolamento (CE) 178 del 2002. Salvo che il fatto costituisca reato, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi che svolgono attività di vendita al dettaglio o distribuzione di alimenti o mangimi, che non incidono sulla sicurezza o integrità dell'alimento o del mangime, che non avviano procedure, nei limiti della propria attività, per il ritiro dal mercato di prodotti di cui siano a conoscenza che non sono conformi ai requisiti di sicurezza, sono soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquecento a euro tremila. La sanzione si applica anche nelle ipotesi in cui gli stessi operatori non attuino, per quanto di competenza, gli interventi predisposti dai responsabili della produzione, della trasformazione e della lavorazione e dalle autorità competenti, ai fini del ritiro o richiamo degli alimenti o mangimi.
L’articolo 6 fissa una sanzione amministrativa pecuniaria da cinquecento a tremila euro per l'operatore del settore dei mangimi che, dopo il ritiro dal mercato dei mangimi non conformi ai requisiti di sicurezza, non provvede alla distruzione, fatte salve le eventuali diverse disposizioni da parte dell'Autorità competente, della partita, del lotto o della consegna di un mangime non conforme ai requisiti di sicurezza,
L’articolo 7 reca le disposizioni finali, al fine di prevedere che, nel caso di reiterazione delle violazioni previste dal decreto, è disposta, in aggiunta alla sanzione amministrativa pecuniaria, la sospensione del provvedimento che consente lo svolgimento dell'attività che ha dato causa all'illecito per un periodo di giorni lavorativi da un minimo di dieci ad un massimo di venti. Sono confermate le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689 (cd. legge di depenalizzazione), e successive modifiche. infine, è stabilito che le disposizioni di cui all'articolo 2 non si applicano al settore vitivinicolo e al settore relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari. Le Regioni e Province autonome provvedono nell'ambito delle proprie competenze all'accertamento delle violazioni amministrative e alla irrogazione delle relative sanzioni
Una delle più significative discipline introdotte nella XIV legislatura in materia famigliare riguarda la legge 8 febbraio 2006, n. 54[273], il cui nucleo fondamentale è, senza dubbio, l’adozione in via ordinaria da parte del giudice - in caso di separazione dei coniugi - del cd. affidamento congiunto del minore ovvero l’affidamento a entrambi i genitori.
Nonostante tale istituto fosse già previsto dalla legge sul divorzio (legge 1° dicembre 1970 n. 898) il sistema previgente stabiliva, in via ordinaria l'affidamento dei figli ad uno dei genitori in caso di separazione, secondo il prudente apprezzamento del presidente del tribunale o del giudice o secondo le intese raggiunte dai coniugi. Nella prassi, la stragrande maggioranza degli affidamenti ha individuato la madre come genitore affidatario del minore. La situazione non teneva, in effetti, conto del principio della bigenitorialità; un principio affermatosi da tempo praticamente in tutti gli ordinamenti europei; tale principio è stabilito inoltre, a livello internazionale, dalla Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con la legge 176 del 1991. Nonostante la Convenzione facesse esplicito riferimento alla bigenitorialità come principio cardine dell'ordinamento, di fatto, tale principio (previsto dalla normativa sul divorzio ma non dal codice civile ed esteso dalla giurisprudenza anche alle ipotesi di separazione) non è stato tenuto in considerazione dall'articolo 155 del nostro codice civile.
Il principio di bigenitorialità sarà dunque la prima soluzione da valutare per il giudice, anche in caso di elevata conflittualità tra i coniugi, al contrario di quanto espresso dal comma 2 dell'articolo 6 della citata legge 808/1970, nella quale si ammetteva quasi come estrema ratio o come una delle possibilità, l'affidamento congiunto. La legge 54/2006 capovolge, quindi, il sistema attuale, rendendo regola quella che attualmente è l'eccezione, cioè l'affidamento congiunto, che dovrebbe nella sostanza diventare l'ipotesi base; l’affidamento ad un solo genitore rimane possibile nell'interesse del minore quando l’affido condiviso possa determinare per quest’ultimo una situazione di pregiudizio.
L’articolo 1 della legge 54/2006 introduce, a tal fine, alcune modifiche al codice civile.
E’ dettata, anzitutto, una nuova formulazione dell’art. 155 del codice civile (Provvedimenti riguardo ai figli) che sancisce, la finalità della nuova disciplina ovvero il diritto del minore ad mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.
Nell’interesse morale e materiale della prole, il giudice che pronuncia la separazione valuta, quindi, prioritariamente la possibilità che i figli minori siano affidati a entrambi i genitori (o stabilisce a quale genitore affidare i minori), determinando i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, le modalità di contribuzione al loro mantenimento, cura, istruzione ed educazione. Prende atto di eventuali accordi fra i genitori e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
Di conseguenza, la potestà genitoriale spetta ad entrambi i coniugi e solo in caso di disaccordo sulle decisioni di rilevo riguardo ai figli è previsto l’intervento del giudice; è, inoltre, stabilito l’esercizio disgiunto della potestà in caso di decisioni su questioni “di ordinaria amministrazione”.
In relazione agli obblighi economici, l’assegno di mantenimento dei figli assume un’importanza secondaria perché entrambi i genitori contribuiscono direttamente, in base al proprio reddito, alle esigenze patrimoniali. Se i redditi fossero diversi, uno dei genitori potrebbe usufruire di un eventuale conguaglio per soddisfare il principio di proporzionalità; l’intervento del giudice, da ordinario diventa quindi eventuale in relazione alla necessità di ripristinare tale proporzionalità del contributo; in tal caso, sulla base di precisi parametri, può essere stabilita la corresponsione di un assegno periodico, anche sulla base di accertamenti reddituali richiesti alla polizia tributaria sui beni contestati.
Prima dell’assunzione dei provvedimenti di cui all’art. 155, il giudice - ai sensi del nuovo art. 155-sexies c.c. - può assumere mezzi di prova ed, eventualmente, audire il figlio ultradodicenne, o anche di età inferiore se capace di discernimento.
Come accennato, rimane comunque al giudice la possibilità (ora residuale) di affidamento esclusivo (ad un solo genitore) della prole; l’art. 155-bis, di nuova introduzione nel codice civile, giustifica tale ipotesi quando l’affidamento (anche) all’altro sia contrario agli interessi del minore.
L’affidamento esclusivo, assunto con provvedimento motivato, può essere chiesto al giudice da ogni genitore anche dopo l’affidamento congiunto, in presenza delle condizioni che lo giustifichino; se la domanda è manifestamente infondata, il giudice può valutare il fatto ai fini dell’assunzione di provvedimenti relativi ai figli.
Il successivo art. 155-ter, anch’esso aggiunto ex novo al codice civile, è invece relativo alla possibilità di chiedere sempre la revisione dei provvedimenti sull’affidamento dei figli; la norma non contiene novità, riproducendo il contenuto dell’ottavo comma del previgente art. 155 c.c..
Sull’assegnazione della casa familiare, l’art. 155 previgente prevedeva soltanto l’assegnazione, di preferenza, al coniuge affidatario; ora il nuovo art. 155-quater c.c. oltre a stabilire che il godimento della casa è attribuito tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli, prevede il possibile venir meno del diritto se l’assegnatario non la abiti, cessi di abitarvi, conviva more uxorio o contragga un nuovo matrimonio. In questo caso, però, è l’altro coniuge a dover far ricorso al giudice per un riesame della situazione (naturalmente, sarà possibile che il giudice confermi la precedente decisione sull’assegnazione); l provvedimento di assegnazione della casa e quello di revoca sono ora trascrivibili e opponibili a terzi. Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio l’altro coniuge può chiedere la ridefinizione degli accordi se il mutamento interferisce con le modalità di affidamento.
L’’ulteriore articolo 155-quinquies, inserito nel codice civile, prevede che su decisione del giudice, possa essere disposta la corresponsione “diretta” di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente; ai maggiorenni portatori di handicap grave si applicano le disposizioni previste in favore dei figli minori.
L’articolo 2 della legge introduce modifiche al codice processuale civile
La prima è relativa all’art. 708 cui è aggiunto un terzo comma che prevede la possibilità di impugnare davanti alla corte d’appello i provvedimenti temporanei e urgenti del presidente del tribunale assunti (con ordinanza) nell’interesse dei figli in caso di mancata conciliazione o di mancata comparizione del coniuge convenuto all’udienza di comparizione davanti a lui ex art. 707. Sul ricorso, che va proposto entro 10 gg. dalla notifica dell’ordinanza, la corte decide con rito camerale.
Viene, poi, aggiunto un art. 709-ter che dispone in merito alle controversie che possono insorgere tra i genitori in relazione alla potestà sui figli o sulle modalità dell’affidamento. Dopo l’individuazione del giudice competente, è disciplinato il procedimento che può portare alla modifica dei provvedimenti precedentemente assunti nonché, nel caso di gravi violazioni e inadempienze, anche congiuntamente all’ammonimento del genitore, al risarcimento dei danni nei confronti dell’altro coniuge o del minore, o, infine, alla condanna al pagamento di una somma tra i 75 e i 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
Secondo le previsioni dell’articolo 3 della legge, la violazione degli obblighi di natura economica fa scattare l’applicazione dell’articolo 12-sexies della legge 898/1970 che prevede per il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto le pene previste dall’articolo 570 del codice penale: si tratta della reclusione fino a un anno e della multa da 103 a 1.032 euro. In alcuni casi le pene possono essere applicate congiuntamente.
L’articolo 4 introduce una disposizione che disciplina il diritto intertemporale in materia. Viene stabilito, infatti, che si può chiedere l’applicazione del provvedimento sull’affido condiviso nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della legge (16 marzo 2006). Le disposizioni si applicano anche in caso di scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati
Gli articoli 5 e 6 riguardano, infine, l’assenza di oneri finanziari e l’entrata in vigore della legge.
L’intervento del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, recante disposizioni urgenti in materia di adozione e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni, convertito dalla legge 23 giugno 2001, n. 240, avente carattere transitorio, ha assolto a funzioni di coordinamento della disciplina vigente con il quadro normativo, modificato nel corso del 2001, in materia di adozione, di difesa d’ufficio e di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, al fine di evitare che dall’applicazione delle nuove disposizioni derivasse un aggravio delle spese processuali a carico dei soggetti economicamente più deboli e, quindi, una lesione del principio di effettività della difesa.
Si ricorda che la legge 28 marzo 2001 n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori” nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), ha riformato in maniera consistente la disciplina dell’adozione, modificando tra l’altro le norme relative alla dichiarazione di adottabilità (artt. 8-18), contenute nella legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore a una famiglia) nonché l’articolo 336 del codice civile (art. 37, comma 3), che prevede adesso l’obbligo dell’assistenza legale del minore e dei genitori per una serie di procedimenti di natura civile.
Nel frattempo la legge 6 marzo 2001 n. 60 (Disposizioni in materia di difesa d’ufficio) è intervenuta a disciplinare la difesa d’ufficio nei procedimenti penali per prevedere specifiche modalità per la nomina del difensori d’ufficio e per la distribuzione del carico delle spese processuali.
Al riguardo è da sottolineare che la citata legge n. 149/2001 non ha stabilito analoghe disposizioni in ordine alla nomina del difensore di ufficio in favore dei genitori e del minore in occasione dei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità né una specifica norma transitoria di coordinamento con la legge 60/2001, con la conseguente possibile lesione del principio di effettività della difesa nei casi di famiglie non abbienti.
Va considerato, inoltre, che nei giudizi civili ed amministrativi, le disposizioni relative al patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, dettate dalla legge del 29 marzo 2001, n. 134, (Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, che ha elevato a lire 18.000.000 il livello del reddito massimo per l’ammissione) sono entrate in vigore soltanto a partire dal 1° luglio 2002.
Dall’insieme delle circostanze sopra esposte è derivata la necessità di consentire l’applicazione della disciplina processuale previgente per i procedimenti sullo stato di adottabilità e per i procedimenti ex art. 336 c.c. (in materia di potestà dei genitori) almeno fino all’entrata in vigore delle norme sul gratuito patrocinio nei procedimenti civili e amministrativi, vale a dire fino al 1 luglio 2002.
Il decreto-legge n. 150 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2001, n. 240, ha pertanto consentito l’ultrattività delle disposizioni processuali contenute nel titolo II (Della adozione), Capo II (Della dichiarazione di adottabilità), della legge n. 184/1983 e nell’articolo 336 c.c., che a causa delle modifiche apportate dalla legge 149/2001 non potevano più trovare applicazione. La previsione di una disciplina transitoria ha trovato giustificazione nella mancanza di una specifica regolazione della difesa di ufficio nei procedimenti d’adozione, per i quali le nuove previsioni hanno reso obbligatoria l’assistenza legale.
Per quanto concerne i contenuti specifici del decreto-legge 150/2001, l’articolo 1 ha previsto l’applicazione della disciplina processuale previgente in via transitoria, fino all’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità ai sensi della legge n. 184/1983, e comunque non oltre il 30 giugno 2002, considerato che dopo tale data sono entrate in vigore le norme sul patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti.
Analogamente, l’articolo 2 ha disposto che agli stessi procedimenti si applica la disciplina previgente in via transitoria e fino all’emanazione di nuove disposizioni che regolano i procedimenti di cui all’articolo 336 del codice civile, e comunque non oltre il 30 giugno 2002.
Va ricordato che il citato termine di entrata in vigore fissato al 1 luglio 2002 è stato più volte prorogato. Infatti, il decreto-legge 1 luglio 2002, n. 126 (Disposizioni urgenti in materia di difesa d’ufficio e di procedimenti civili davanti al tribunale per i minorenni), convertito con modificazioni dalla legge 2 agosto 2002, n. 175, ha disposto una proroga dell’ultrattività della disciplina processuale (in materia di dichiarazione di adottabilità e nei procedimenti ex art. 336 c.c.) previgente all’entrata in vigore della legge n. 240/2001 fino al 30 giugno 2003 in vista della emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio in tali materie.
Sono quindi intervenute due ulteriori proroghe: al 30 giugno 2004 con l'art. 15 del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147 (Proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali), convertito nella legge 1° agosto 2003, n. 200 e al 30 giugno 2005 con l’art. 2 del decreto-legge 24 giugno 2004, n. 158, convertito dalla legge 27 luglio 2004, n. 188.
Da ultimo, l’articolo 8 (comma 2) del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168, recante Disposizioni per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione, ha disposto la proroga della disciplina processuale previgente nelle indicate materie fino al 30giugno 2006.
La legge 6 febbraio 2006, n. 38[274], anche in attuazione di quanto previsto dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile, è diretta ad adeguare il quadro legislativo vigente in materia di contrasto allo sfruttamento sessuale dei minori. Tale disciplina, profondamente innovata dalla legge 3 agosto 1998, n. 269 "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitu'", ha manifestato, infatti, alcune carenze in riferimento alla manifestazione di nuove forme del drammatico fenomeno della pedofilia, soprattutto tramite l'utilizzo della rete Internet.
La legge 38/2006 prevede, in generale, un inasprimento del quadro sanzionatorio introdotto dalla citata legge quadro del 1998 ed una più stringente definizione di alcune delle fattispecie di reato.
Il provvedimento è diviso in due Capi: il primo (artt. 1-18) contiene disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia.
Con l’articolo 1 della legge, è estesa la sfera di applicazione dell’art. 600-bis sulla prostituzione minorile, che nel caso del secondo comma (atti sessuali con minore in cambio di denaro o altra utilità economica) ora scatta quando il minore coinvolto ha tra 14 e 18 anni (il codice penale prevedeva la forbice minore tra 14 e 16 anni). Immutate le sanzioni già previste, si è contestualmente stabilito:
§ un aggravamento della pena (reclusione da 2 a 5 anni) nel caso in cui la vittima del reato non abbia compiuto sedici anni;
§ una riduzione della pena (da 1/3 a 2/3) quando il colpevole sia un minore di 18 anni.
L'articolo 2, novella l'articolo 600-ter, del codice penale (Pornografia minorile) che sanzionava, al primo comma, lo sfruttamento dei minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico nonché il commercio di tale materiale.
La legge ha proceduto:
§ alla riformulazione della fattispecie criminosa in termini di dolo generico anziché di dolo specifico come in precedenza previsto: viene infatti sanzionata dal nuovo art. 600-ter c.p. la realizzazione di esibizioni pornografiche o la produzione di materiale pornografico mediante l'utilizzazione di minori di anni diciotto o l'induzione degli stessi minori a partecipare ad esibizioni pornografiche;
§ a sostituire il termine "sfruttamento" con quello di "utilizzazione".
Confermata la punibilità con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa da € 2.582 a € 51.645 dell’illecito descritto dal terzo comma dell’art. 600-ter (condotta di chi, al di fuori delle ipotesi citate, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga o pubblicizza il materiale pornografico o distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori di anni diciotto), è stata dalla legge incriminata, accanto alla "divulgazione", anche la "diffusione" di materiale pornografico.
Una ulteriore modifica ha interessato il quarto comma dell’art. 600-ter che, nella previgente versione, puniva (con la reclusione fino a 3 anni o con la multa da € 1.549 a € 5.164) la consapevole cessione ad altri, anche a titolo gratuito, di materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto.
La norma è stato novellata per quanto attiene:
§ all'incriminazione (accanto alla condotta della "cessione", c’è ora anche quella dell'"offerta", anche a titolo gratuito, di materiale pornografico);
§ alla eliminazione del riferimento alla “consapevolezza” dell’illecito (che amplia l’ambito della punibilità);
§ alla previsione dell'applicazione congiunta (e non più alternativa come attualmente previsto) della pena della multa e di quella della reclusione (entrambe rimaste invariate nel loro ammontare). Tale disposizione è stata dettata in attuazione della previsione di cui all'articolo 5 della citata decisione quadro UE del 22 dicembre 2003, che prevede la pena della reclusione per tutti i reati in essa contemplati.
E’ stato infine aggiunto un ulteriore comma diretto a prevedere un aumento di pena (non oltre i 2/3) qualora il materiale sia di ingente quantità.
L'articolo 3 sostituisce l'articolo 600-quater c.p. relativo al reato di detenzione di materiale pornografico.
Il previgente articolo 600-quater puniva (con la reclusione fino a 3 anni o con la multa non inferiore a € 1.549) chiunque, al di fuori delle ipotesi rientranti nella fattispecie di pornografia minorile, consapevolmente si procurasse o disponesse di materiale pornografico prodotto mediante lo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto.
Le modifiche introdotte sono limitate ed attengono alla sostituzione della condotta di "disposizione" con quella di "detenzione" ed alla previsione, dell’applicazione congiunta e non più alternativa della pena detentiva e pecuniaria (invariate nel loro ammontare). Anche in tal caso, è stato, infine, aggiunto un ulteriore comma diretto a prevedere un aumento di pena fino a 2/3 qualora il materiale sia di ingente quantità.
L'articolo 4 introduce l’articolo 600-quater.1 del codice penale, relativo alla nuova fattispecie incriminatrice di “Pornografia virtuale”.
La norma stabilisce che le disposizioni di cui agli articoli 600-ter e 600-quater si applichino, ma la pena è diminuita di 1/3, anche quando il materiale pornografico rappresenta immagini virtuali realizzate utilizzando immagini di minori degli anni diciotto o parti di esse.
Viene poi definito il concetto di immagine virtuale, intendendo con questo un'immagine realizzata con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali.
L’articolo 5 della legge 38/2006 aggiunge un comma all'articolo 600-septies del codice penale, che dispone in tema di confisca e pene accessorie in caso di condanna, o di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., per i delitti contro la personalità individuale di cui agli artt. 600-604 del codice penale
In particolare, viene inserita la previsione secondo cui la condanna o il patteggiamento per uno dei citati delitti comporta in ogni caso l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture frequentate prevalentemente da minori.
L’articolo 6 apporta alcune modifiche all'articolo 609-quater del codice penale.
Tale norma, disciplinante la fattispecie di atti sessuali con minorenne, sottopone, nel testo previgente, alle pene stabilite per i casi di violenza sessuale (art. 609 bis) chiunque compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto:
§ non ha compiuto gli anni quattordici;
§ non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest'ultimo, una relazione di convivenza.
Viene poi espressamente sancita la non punibilità del minorenne che, al di fuori delle ipotesi di violenza sessuale di cui all'articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i due soggetti non è superiore a tre anni. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi.
Sostanzialmente le modifiche apportate attengono all'inserimento, tra i soggetti attivi del reato, del convivente del genitore, e devono essere lette in correlazione con quelle disposte dal successivo articolo 7 (comma 1, lettera b) all'articolo 609-septies, quarto comma c.p.p., riguardante i casi di procedibilità di ufficio: viene stabilita la soggezione alle pena della reclusione da tre a sei anni, al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 609 bis (cfr. supra) di chi compia atti sessuali con minore di anni sedici, purché il colpevole sia uno dei soggetti indicati al numero precedente, ed abbia agito abusando dei poteri connessi alla sua posizione.
Il citato articolo 7 della legge apporta alcune modifiche al quarto comma dell'articolo 609-septies del codice penale.
L'articolo stabilisce che i reati di violenza sessuale, anche aggravati, e gli atti sessuali con minorenne sono punibili a querela della parte offesa e che la querela, una volta proposta, è irrevocabile (art. 609-septies).
La norma, tuttavia, prevede al quarto comma delle specifiche ipotesi di procedibilità d’ufficio. L’art. 7 interviene sul n. 1) del comma 4 dell'articolo 609-septies, ampliando i casi di procedibilità d'ufficio nei casi in cui, ricorrendo la sola fattispecie criminosa di violenza sessuale (art. 609-bis), soggetto passivo sia persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni diciotto (e non i quattordici, come in precedenza previsto.
E’, poi, sostituito il numero 2) del quarto comma dell'articolo 609-septies sostanzialmente introducendo tra i soggetti attivi del reato che determinano la procedibilità d'ufficio l'ascendente e il soggetto che abbia con il minore una relazione di convivenza, armonizzando così le previsioni della disposizione in esame con quelle di cui all'articolo 609-quater, comma 2, come modificato dall'articolo 6.
L'articolo 8 novella l'articolo 609-nonies del codice penale, disposizione che prevede che la condanna per uno dei reati di cui agli artt. 609-bis (Violenza sessuale) sia semplice che aggravata (art. 609-ter), 609-octies (Violenza sessuale di gruppo) se commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto, nonché 609-quater (Atti sessuali con minorenne) e 609-quinquies (Corruzione di minorenne), comporti le seguenti pene accessorie:
§ la perdita della potestà dei genitori, quando la qualità di genitore sia elemento costitutivo del reato (come nel caso degli atti sessuali con minorenne);
§ l'interdizione perpetua dagli uffici di tutore e curatore;
§ la perdita del diritto agli alimenti e l'incapacità successoria nei confronti della persona offesa.
In particolare, le modifiche introdotte attengono:
§ alla previsione che le pene accessorie sopra indicate vengano applicate in conseguenza, non soltanto di una sentenza di condanna, ma anche di una sentenza di patteggiamento emanata ai sensi dell'articolo 444 c.p.p.;
§ alla previsione della perdita della potestà dei genitori - come conseguenza della sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti - non solo nel caso in cui la qualità di genitore è elemento costitutivo del reato, ma anche nel caso in cui la stessa è circostanza aggravante del medesimo;
§ all'introduzione, mediante l'aggiunta di un ulteriore comma all’art. 609-nonies, di una norma diretta a stabilire che la condanna il patteggiamento per uno dei delitti sopraelencati comporti in ogni caso l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture frequentate prevalentemente da minori.
L'articolo 9, intervenendo sull'articolo 734-bis del codice penale (Divulgazione delle generalità o dell'immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale), estende la protezione dell'immagine e delle generalità delle vittime dei reati di violenza sessuale e pornografia minorile alla nuova fattispecie criminosa di cui all’articolo 600-quater 1. (Pornografia virtuale).
L’articolo 10 interviene sull’articolo 25-quinquies del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti: con la disposizione in esame si vogliono equiparare i reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 601 e 602 del codice penale, in relazione ai quali è già prevista la responsabilità degli enti (persone giuridiche, società, associazioni prive di personalità giuridica), ai reati commessi utilizzando il materiale pornografico che rappresenti immagini virtuali (articolo 4 della legge che, come visto, introduce nel codice penale l’articolo 600-quater.1).
L’articolo 11, intervenendo sul comma 1-bis dell’articolo 444 c.p.p. (Applicazione della pena su richiesta) esclude il ricorso a tale rito abbreviato anche per tutta una serie di delitti contro i minori, espressamente indicati.
L’articolo 12 modifica gli articoli 380, comma 2, e 381, comma 2, del codice di procedura penale, con l’effetto di prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza anche per l’ipotesi del nuovo reato di pornografia virtuale (articolo 600-quater.1 c.p.), nonché di consentire l’arresto facoltativo in flagranza, nel caso di offerta, cessione o detenzione di materiale pornografico nelle ipotesi di cui agli articoli 600-ter, quarto comma e 600-quater, anche se relativi a materiale di pornografia virtuale.
L’articolo 13 dispone, attraverso una integrazione del comma 1 dell’articolo 266 c.p.p., che le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni siano ammesse anche per i reati, da ultimo citati, di pornografia virtuale di cui all’articolo 600-quater.1. Nel medesimo senso opera l’articolo 14, che novella gli articoli 190-bis, 392 e 398 del codice di procedura penale, relativi ai requisiti della prova, alle ipotesi e alle modalità di svolgimento dell’incidente probatorio.
L’articolo 15, intervenendo sull’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) subordina la concessione dei benefici penitenziari alla circostanza che per buona parte dei delitti in tema di pedofilia, espressamente indicati, non sussistano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
L’articolo 16 è diretto a prevedere, anche in relazione al reato di cui all’articolo 600-quater.1 (pornografia virtuale):
§ la possibilità che il P.M., al fine di acquisire ulteriori elementi di indagine, ritardi, con decreto motivato, l’esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale (art. 10, D.L. 31 dicembre 1991, n. 419, Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive, convertito dalla L.. 18 febbraio 1992, n. 172);
§ l’applicabilità ai collaboratori di giustizia delle speciali misure di protezione previste dal D.L. 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia) convertito dalla L. 15 marzo 1991, n. 82;
§ l’applicabilità delle attività di contrasto di cui all’articolo 14 della legge 269/1998 (vedi ultra, art. 19 della legge)
L’articolo 17 introduce a partire dal novantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, l’obbligo, per gli operatori turistici che organizzano viaggi all’estero, di inserire nei materiali propagandistici, nei programmi o nei documenti di viaggio, nei cataloghi, l’avvertenza relativa alla punibilità con la reclusione dei reati concernenti la prostituzione e la pornografia minorile, anche se commessi all’estero.
La violazione di tale obbligo comporta la irrogazione di una sanzione amministrativa, da parte del Ministero delle attività produttive, che può variare da € 1500 a € 6000.
Si ricorda che un obbligo analogo era stato introdotto, in via sperimentale per un periodo non inferiore a tre anni, dall’articolo 16 della legge 269/1998.
L’articolo 18 prevede, intervenendo sul secondo comma dell’articolo 17 della legge 269/1998, che, anche coloro che siano stati condannati per i delitti di cui agli articoli 600-ter, terzo comma (distribuzione, divulgazione, diffusione e pubblicizzazione, anche per via telematica di materiale pornografico minorile) e 600-quater (detenzione di materiale pornografico), anche relativi al materiale di pornografia virtuale, possano essere ammessi ad iniziative di recupero finanziate attraverso parte del fondo istituito dal medesimo art. 17 della legge 269/1998 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri .
Il Capo II (Norme contro la pedopornografia a mezzo Internet) si compone dei soli articoli 19 e 20.
L’articolo 19 è diretto ad inserire una serie di disposizioni aggiuntive nel corpo della legge 269/1998.
In particolare, sono aggiunti quattro articoli dopo l’articolo 14, norma che disciplina una serie di attività della polizia giudiziaria o della polizia delle telecomunicazioni dirette alla prevenzione e repressione dei delitti sessuali (tra esse l’acquisto simulato di materiale pornografico, la partecipazione ad iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, l’utilizzazione di indicazioni di copertura per attivare siti, realizzare reti, ecc.).
L’articolo 14-bis istituisce presso il Ministero dell’interno un Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete INTERNET che ha il compito di raccogliere, in un elenco costantemente aggiornato, tutte le informazioni, provenienti dalla polizia giudiziaria e da altri soggetti, sui siti che diffondono materiale pedopornografico, sui relativi gestori, sui beneficiari di pagamenti. I dati così raccolti sono comunicati alla Presidenza del Consiglio, al fine della predisposizione di un Piano nazionale di contrasto e prevenzione alla pedofilia e della relazione annuale al Parlamento di cui al vigente articolo 17, comma 1, della legge 269/1998. La costituzione del Centro non comporta nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio pubblico, giacché effettuata mediante le esistenti risorse umane, strumentali, finanziarie.
L’articolo 14-ter introduce, per i fornitori di servizi resi attraverso reti di comunicazioni elettronica, l’obbligo di comunicare al Centro, affinché esso possa adeguatamente svolgere i suoi compiti, i contratti con imprese o soggetti che diffondono materiale pedopornografico: tale obbligo, ovviamente, sorge soltanto qualora il fornitore venga a conoscenza del contenuto di quanto trasmesso. Il materiale oggetto di segnalazione deve essere conservato per 45 giorni.
La violazione di quanto disposto comporta l’applicazione, da parte del Ministero delle comunicazioni, di una sanzione pecuniaria che può variare da 50.000 a 250.000 euro.
L’articolo 14-quater prevede l’obbligo, per i fornitori di connettività alla rete, di utilizzare sistemi di filtraggio per impedire l’accesso ai siti, individuati dal Centro sulla base delle segnalazioni ricevute, che diffondono materiale osceno. Tali sistemi sono individuati con decreto del Ministro delle comunicazioni, di concerto con il Ministro per l’innovazione e le tecnologie, sentite le maggiori associazioni dei providers.
Anche in tal caso, la violazione degli obblighi prescritti comporta l’irrogazione di una sanzione pecuniaria variabile da € 50.000 a € 250.000.
L’articolo 14-quinquies dispone:
§ uno scambio di informazioni tra Centro, Ufficio Italiano Cambi ed istituti di moneta elettronica, Poste Italiane Spa ed intermediari finanziari: in particolare, attraverso l’UIC, il Centro comunica agli operatori finanziari le informazioni relative ai siti che diffondono materiale pedopornografico, ai relativi gestori, ai beneficiari di pagamenti e riceve da essi, sempre attraverso l’intermediazione dell’UIC, i dati di cui sono in possesso;
§ la risoluzione ope legis dei contratti, stipulati tra operatori finanziari e beneficiari dei pagamenti effettuati per la commercializzazione di materiale pedopornografico, relativi alla accettazione di carte di pagamento. Tali contratti hanno, di per sé, oggetto e causa leciti e pertanto non possono essere considerati nulli; ad essere illecito è il motivo che ha indotto una parte (il beneficiario dei pagamenti) a stipulare il contratto con l’altra (l’operatore finanziario). Poichè, ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, affinché possa essere considerato illecito e quindi nullo l’intero contratto, occorre che il motivo illecito sia comune ad entrambe le parti, la soluzione della risoluzione ope legis è apparsa, pertanto, la più opportuna;
§ la possibilità per gli operatori finanziari di revocare l’autorizzazione all’utilizzo della carta di pagamento a coloro che risultino, a seguito delle informazioni fornite dal Centro, acquirenti di materiale concernente lo sfruttamento sessuale dei minori; i casi di revoca sono comunicati all’archivio degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento, disciplinato all’art. 10-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386;
§ l’obbligo per gli operatori finanziari di comunicare, tramite l’UIC, al Centro, i casi di risoluzione dei contratti relativi alla accettazione delle carte di pagamento ed ogni altra informazione relativa a rapporti e ad operazioni con i soggetti beneficiari di pagamenti effettuati per la commercializzazione di materiale pedopornografico;
§ l’emanazione di un regolamento che definisca le procedure per lo scambio di informazioni riservate prima descritto;
§ l’attribuzione alla Banca d’Italia e all’UIC del compito di vigilare sull’osservanza delle disposizioni appena esaminate da parte degli operatori finanziari (banche, istituti di moneta elettronica, Poste italiane Spa, intermediari finanziari) e del correlato potere sanzionatorio: quest’ultimo è esercitato, al di fuori dei casi concernenti l’uso della moneta elettronica, dal Ministero dell’economia e delle finanze;
§ la destinazione delle somme derivanti dalla applicazione delle sanzioni di cui al punto precedente al ricordato fondo, istituito presso la Presidenza del Consiglio dall’articolo 17 della legge 269/1998, ed il loro impiego per il finanziamento di iniziative per il contrasto della pornografia minorile su INTERNET.
Infine, con l’articolo 20 della legge viene istituzionalizzato l'Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile, già attivo presso il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio, con compiti di monitoraggio in merito all’attività svolta da tutte le pubbliche amministrazioni per la prevenzione e repressione dei fenomeni di pedofilia. Viene prevista anche la messa a punto di una banca dati e demandata ad un decreto ministeriale la definizione ed organizzazione di quest’ultima e dell’Osservatorio.
La legge 3 ottobre 2001, n. 366 ha delegato il Governo a riformare la normativa in materia di illeciti penali concernenti le società commerciali(art. 11) ed a riformare le disposizioni sulla giurisdizione al fine di consentire una più rapida ed efficace definizione delle controversie in materia di diritto societario (art. 12).
I principi e criteri direttivi contenuti nell’articolo 11 della legge delega in merito agli illeciti societari riguardavano:
§ la previsione di reati ed illeciti amministrativi. In particolare, per quanto attiene ai tipi di reato, il legislatore delegante sceglie di ridurre le fattispecie omissive, mentre in materia di sanzioni decide di non prevedere mai la comminatoria congiunta di pena detentiva e pena pecuniaria, in quanto essa non sembra aggiungere nulla all’efficacia dissuasiva della pena detentiva. Sempre in materia di sanzioni, la legge delega introduce, sia pure limitatamente alla sanzione amministrativa, una forma di responsabilità delle persone giuridiche;
§ l’armonizzazione e il coordinamento delle ipotesi sanzionatorie riguardanti falsità nelle comunicazioni alle autorità pubbliche di vigilanza, ostacolo allo svolgimento delle relative funzioni e omesse comunicazioni alle autorità stesse; il coordinamento della normativa posta a tutela del capitale sociale con quella del capitale sociale, delle riserve e delle azioni introdotta in attuazione del provvedimento in esame;
§ l’abrogazione della fattispecie della divulgazione di notizie sociali riservate (articolo 2622 del c.c.) e la sua collocazione, come aggravante, nell’ambito del reato di rivelazione di segreto professionale (articolo 622 del c.p.);
§ la previsione di circostanze attenuanti o aggravanti, in relazione alla tenuità o meno dell’offesa arrecata, dei reati di cui alle precedenti lettere a) e b).
§ l’equiparazione ai soggetti che svolgono determinate funzioni in quanto ne sono anche formalmente titolari di coloro i quali le esercitano in assenza di formale investitura (c.d. amministratori di fatto); la previsione che l’esercizio di fatto delle funzioni sia rilevante solo qualora l’attività svolta presenti elementi di continuità nel tempo e di significatività rispetto alla gestione complessiva;
§ la previsione dell’obbligatorietà della confisca dei beni in determinati casi. In particolare viene previsto che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati indicati nelle lettere a) e b), sia disposta la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo; inoltre, viene previsto che quando non sia possibile l’individuazione o l’apprensione dei beni, la misura abbia ad oggetto una somma di denaro o beni di valore equivalente.
§ la riformulazione delle norme sui reati fallimentari, limitatamente a quelli che richiamano reati societari. In particolare, viene stabilito che la pena si applichi alle sole condotte integrative di reati societari che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società;
§ la previsione, in tema di responsabilità delle persone giuridiche, di una responsabilità di natura amministrativa della società stessa, alla quale verrebbe applicata una sanzione amministrativa pecuniaria in caso di reati commessi nel suo interesse sia dal c.d. management (amministratori, direttori generali o liquidatori) sia da soggetti non apicali sui quali il management non abbia svolto un’adeguata vigilanza;
§ l’abrogazione delle norme incompatibili, nonché il coordinamento e l’armonizzazione delle norme sanzionatorie da emanare con quelle vigenti;
§ la previsione che la competenza a conoscere dei reati in esame è sempre del tribunale in composizione collegiale.
In particolare, per quanto riguarda i principi e criteri direttivi relativi alle nuove fattispecie di reato:
§ in riferimento al reato di falso in bilancio, il legislatore ha previsto che oggetto dell’esposizione – da parte di degli amministratori, direttori generali sindaci e liquidatori - idonea a concretare gli estremi della fattispecie criminosa debbano essere fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni idonee ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. Viene inoltre qualificato quale attributo essenziale delle valutazioni citate l'idoneità delle stesse ad indurre in errore sulla situazione della società e viene precisato che l’omissione di informazioni idonea a concretare egualmente la fattispecie in esame deve avere ad oggetto informazioni sulla situazione della società la cui comunicazione è imposta dalla legge.
Viene poi reso più esplicito il dolo specifico caratterizzante il reato in esame con l’utilizzazione dalla dizione “con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico” e viene richiesta la precisazione della finalizzazione della condotta al conseguimento, per sé o per altri, di un ingiusto profitto. Il legislatore delegante accoglie dunque la c.d. clausola della minima rilevanza, laddove richiede che le informazioni false o omesse debbano essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie quantitative.
La legge n. 366 prevede quindi l’introduzione di una differenza di regime sanzionatorio incidente, di conseguenza, sulla qualificazione del reato in esame, a seconda che la condotta posta in essere abbia o meno cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori:
§ se la condotta non ha cagionato il danno citato la pena prevista è quella dell’arresto fino a un anno e sei mesi; di conseguenza il reato de qua dovrebbe essere qualificato come contravvenzione, ai sensi delle disposizioni di cui agli articoli 17 e 39 del codice penale;
§ se, diversamente, la condotta ha cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori occorrerà distinguere tra:
- -società non quotate, per le quali viene stabilita la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la procedibilità a querela;
- -società quotate, per le quali viene prevista la pena della reclusione da uno a quattro anni e la procedibilità d’ufficio.
§ quanto al reato di falso in prospetto, la fattispecie dovrà consistere nel fatto di chi, nei prospetti richiesti ai fini della sollecitazione all’investimento o dell’ammissione alla quotazione di mercati regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione delle OPA o OPS, espone informazioni false od occulta informazioni. Anche in questo caso, il reato si compie se vi è il fine di conseguire un ingiusto profitto e se la condotta è idonea a trarre in inganno i destinatari del prospetto. Sulla base di criteri analoghi a quelli sopra descritti per il reato di falso in bilancio, il legislatore delegante:
- rende esplicito il requisito del dolo specifico, richiedendosi espressamente per la sussistenza del reato la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto;
- richiede, quale attributo delle false informazioni o dell’occultamento di dati e notizie, la idoneità delle stesse ad indurre in errore;
- conferisce autonomo rilievo alla finalizzazione della condotta al conseguimento di un ingiusto profitto;
- stabilisce sanzioni differenziate a secondo che la condotta abbia o meno cagionato un danno patrimoniale ai destinatari (arresto fino ad un anno nel caso in cui la condotta non abbia cagionato un danno patrimoniale; reclusione da uno a tre anni nel caso in cui l’abbia cagionato).
§ il reato di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni della società di revisione consiste nell’attestazione del falso e nell’occultamento di informazioni. Anche in questo caso è richiesto il dolo specifico (consapevolezza della falsità e intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni), viene dato autonomo rilievo alla finalizzazione della condotta al conseguimento di un ingiusto profitto; vengono stabilite sanzioni differenziate a seconda che la condotta abbia o meno cagionato un danno patrimoniale ai destinatari (arresto fino ad un anno nel caso in cui la condotta non abbia cagionato un danno patrimoniale; reclusione da uno a quattro anni nel caso in cui l’abbia cagionato).
§ la fattispecie di impedito controllo consiste invece nell’impedimento o ostacolo posto dagli amministratori, attraverso l’occultamento di documenti od altri idonei artifici, allo svolgimento delle attività di controllo o di revisione legalmente attribuite ai soci, ad altri organi sociali ovvero alle società di revisione. Si tratta di un illecito penale procedibile a querela e punito con la reclusione fino ad un anno, soltanto quando ne derivi un danno ai soci; in ogni altro caso si tratta di un illecito amministrativo, punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro.
§ viene riformulata la fattispecie della omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi, già regolamentata dall’articolo 2626 del c.c. e che viene ora modificata anche in relazione all’istituzione del Registro delle imprese.
Quanto alle norme poste a tutela dell’effettività ed integrità del capitale sociale, anche in questo caso la legge delega ha operato una riduzione del numero delle figure criminose, ritenendo sufficienti risposte sanzionatorie di natura civilistica. Le fattispecie in questione riguardano:
§ la formazione fittizia del capitale: si colpiscono le condotte che incidono sul processo di formazione del nucleo patrimoniale (costituzione della società e aumento di capitale). In base a quanto stabilito nelle norme di delega, costituiranno illeciti penali l’attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore del loro valore nominale, la sottoscrizione reciproca di azioni o quote, la rilevante sopravvalutazione dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione. Per il reato in questione il legislatore delegato dovrà prevedere la pena della reclusione fino ad un anno;
§ l'indebita restituzione dei conferimenti: si tratta della restituzione ai soci dei conferimenti o della loro liberazione dall’obbligo di eseguirli, fuori del caso di riduzione del capitale sociale. La fattispecie prevista dalla norma di delega è pressoché identica a quella già vigente, ora sanzionata con la reclusione fino ad un anno;
§ l'illegale ripartizione degli utili e delle riserve: si puniscono gli amministratori che ripartiscono utili o acconti sugli utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva, ovvero ripartiscono riserve non distribuibili per legge (è pertanto esclusa da ipotesi di punibilità la distribuzione di riserve non distribuibili per statuto).
§ le illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante: si puniscono gli amministratori che acquistano o sottoscrivono azioni o quote sociali o della società controllante, cagionando una lesione dell’integrità del capitale sociale e delle riserve non distribuibili per legge (anche in questo caso sono escluse quelle che non lo sono per statuto). Si tratta di un delitto che si consuma solo nel caso in cui l’operazione posta in essere determini effettivamente un’indebita menomazione della sfera patrimoniale tutelata. Il legislatore delegante ha previsto la pena della reclusione fino ad un anno e una causa di estinzione del reato consistente nella ricostituzione del capitale sociale o delle riserve prima del termine previsto per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio in relazione al quale è stata posta la condotta.
§ la fattispecie delle operazioni in pregiudizio dei creditori punisce con la reclusione l’effettuazione, da parte degli amministratori, e in violazione delle norme a tutela dei creditori, di riduzioni del capitale sociale o fusioni con altra società o scissioni, cagionando danno ai creditori stessi. La differenza principale rispetto alla normativa previgente (articolo 2623, n. 1), del c.c.) consiste nel fatto che la violazione di per sé non è sufficiente a far scattare l’ipotesi delittuosa se non vi è un concreto pregiudizio per i creditori, che dovrà pertanto essere valutato di volta in volta. La legge delega prevede la procedibilità a querela, la sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni e che il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato.
§ l’indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori riguarda l’ipotesi dei liquidatori che ripartiscono beni sociali tra i soci prima del pagamento dei creditori sociali o dell’accantonamento delle somme necessarie a soddisfarli, cagionando un danno ai creditori. Anche in questo caso, la differenza principale rispetto alla disciplina previgente (articolo 2625 del c.c.) consiste nel fatto che la punibilità scatta solo in presenza di un reale danno cagionato ai creditori. Analogamente alle fattispecie precedenti la legge delega prevede la procedibilità a querela e una causa estintiva del reato consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio.
§ in parte del tutto innovativa è la fattispecie di infedeltà patrimoniale, che introduce nel nostro ordinamento societario una forma di tutela del patrimonio sociale contro gli abusi dei titolari di poteri gestori. Il reato consiste essenzialmente nel compimento, da parte di amministratori, direttori generali e liquidatori, in una situazione di conflitto di interessi, di atti di disposizione dei beni sociali (ovvero posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi) al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, cagionando un danno patrimoniale alla società. Pertanto, affinché si configuri il reato sono necessarie almeno due condizioni: che vi sia una situazione di conflitto di interessi e che sia cagionato un danno patrimoniale alla società, nel senso che l’ingiustificato profitto da solo non è sufficiente a determinare i presupposti per l’esistenza del reato.
§ il comportamento infedele degli amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione, a seguito di corruzione. La fattispecie presenta elementi innovativi rispetto alla sua attuale configurazione, esportando in campo privatistico societario, con gli opportuni adattamenti, il tradizionale modello punitivo della corruzione (propria) di pubblico ufficiale, al fine di realizzare un’efficace protezione del patrimonio sociale. Il reato consiste nel compimento o nell’omissione di atti, da parte di amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio che siano commessi a seguito della dazione o della promessa di utilità e che da ciò derivi nocumento per la società; la punibilità dovrà altresì essere estesa a chi dà o promette l’utilità.
§ la formulazione della fattispecie di indebita influenza sull’assemblea mira ad estendere il novero dei soggetti che possono esercitarla. Essa consiste infatti nella determinazione, con atti simulati o con frode messi in opera da chiunque, della maggioranza in assemblea, allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto; la pena viene individuata nella reclusione da sei mesi a tre anni. Rispetto alla normativa vigente, che prevede la punizione solo per gli amministratori che influiscono sulla formazione della maggioranza dell’assemblea, valendosi di azioni o di quote non collocate o facendo esercitare sotto altro nome il diritto di voto ovvero usando altri mezzi illeciti, (articolo 2630, primo comma n. 3), del c.c.) vengono inclusi anche altri soggetti, come ad esempio i soci, che con il loro comportamento possono determinare lo stesso risultato. Tuttavia, se l’ambito soggettivo della norma viene ampliato, si restringe l’ambito applicativo in quanto l’azione non solo deve essere posta in essere con atti simulati o con frode ma deve essere finalizzata al raggiungimento di un ingiusto profitto.
§ l’omessa convocazione dell’assemblea consiste nell’omissione, da parte degli amministratori e dei sindaci, di convocare l’assemblea nei casi in cui siano obbligati per legge o per statuto; il Legislatore delegato dovrà altresì determinare il momento nel quale l’illecito si realizza e prevedere la sola sanzione amministrativa pecuniaria da 1.032 a 6.197 euro, aumentata di un terzo se l’obbligo di convocazione consegue a perdite o ad una legittima richiesta dei soci (nella disciplina previgente le medesime fattispecie erano punite con la reclusione).
§ infine, viene ridefinito il reato di aggiotaggio: la fattispecie – punibile con la pena della reclusione da uno a cinque anni – consiste nel fatto di chi diffonde notizie false ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici, concretamente idonei a cagionare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento del pubblico nella stabilità patrimoniale di banche o gruppi bancari (reclusione da uno a cinque anni).
Il decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61[275] ha dato attuazione alla delega di cui all’art. 11 della legge 366/ 2001 per la riforma del diritto penale societario.
Si segnala, preliminarmente come la materia sia stata successivamente oggetto di riforma da parte della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (v. ultra).
Alla base della delega legislativa stava, come detto, l'urgenza di una incisiva razionalizzazione del sistema penale societario, da un lato, restringendo il numero delle fattispecie penali e, dall'altro, introducendo nuove ipotesi incriminatrici volte a colmare talune lacune di tutela da tempo segnalate dalla dottrina penalistica.
Si richiedeva, inoltre, che le nuove fattispecie fossero rispettose dei principi-cardine del diritto penale fissati dalla Costituzione: determinatezza e tassatività dell'illecito, in modo da garantire la conoscibilità del precetto; sussidiarietà, con conseguente contrazione del tradizionale spazio di intervento penalistico a favore di altri strumenti in grado di assicurare l'effettività della tutela; ma soprattutto offensività, intesa sia come attenta selezione dei beni giuridici penalmente rilevanti, sia come tipizzazione delle sole condotte realmente lesive di tali beni.
L'esigenza di razionalizzazione si traduce, in sede di attuazione, in primo luogo nella riduzione drastica del numero di reati. Basti pensare, ad esempio, all'accorpamento delle diverse figure di aggiotaggio c.d. speciali in un'unica fattispecie, ma soprattutto in un'unica sedes materiae, o alla contrazione del numero di fattispecie criminose previste a tutela dell'integrità del capitale sociale, unificando quelle caratterizzate da una sostanziale omogeneità tra le condotte ed un identico contenuto offensivo, a cui razionalmente corrisponde oggi un medesimo trattamento sanzionatorio.
L'opera di razionalizzazione è completata dall'inserimento nel sistema penale-societario di nuove fattispecie delle quali – come detto – da tempo si sollecitava la previsione: l'infedeltà patrimoniale e quella commessa a seguito di dazione o promessa di utilità.
L'introduzione della prima figura, sulla cui necessità si era unanimemente convenuto, va ricollegata alla sperimentata incapacità della fattispecie di appropriazione indebita, nonché delle poche figure di reati societari previgenti e per lo più inapplicate (artt. 2624, 2630, 2° co. n. 2 e 2631 c.c.) a fornire adeguate risposte alle esigenze di protezione del patrimonio sociale contro gli abusi posti in essere da parte dei titolari dei poteri gestori. La fattispecie così come formulata, attraverso la previsione del dolo specifico di “ingiusto profitto per sé o per altri”, consentiva inoltre di discriminare l'assunzione di rischi patrimoniali non sempre evitabili e talora perfino utili o necessari, dai fatti meritevoli di rimprovero penale. Sempre nell'ottica del più rigoroso rispetto del principio di tassatività delle fattispecie penali si è, inoltre, preferito inserire come presupposto del fatto tipico di infedeltà una situazione di conflitto di interessi, collegando per tale via la meritevolezza di pena all'asservimento degli interessi della società a interessi ad essa estranei e con quelli confliggenti.
Nella medesima prospettiva si pone la repressione dei fatti di infedeltà commessi dai soggetti qualificati a seguito della dazione o promessa di utilità, nella quale tuttavia conformemente alla legge delega si orienta la tutela in chiave di protezione del patrimonio sociale, piuttosto che di salvaguardia del solo dovere di fedeltà degli amministratori, trasformando la fattispecie da reato di pericolo a reato di danno e subordinando la procedibilità alla presentazione della querela.
Una maggiore selettività nelle scelte di criminalizzazione si è ottenuta poi attraverso una descrizione delle fattispecie penali finalmente autonoma dalla matrice civilistica di riferimento, mediante l'abbandono della c.d. tecnica del rinvio e privilegiando modelli di tipizzazione del precetto secondo i canoni penalistici di formulazione delle fattispecie.
Piuttosto articolato risulta il meccanismo attraverso cui ci si propone di garantire l'effettivo rispetto del principio di sussidiarietà.
La risposta sanzionatoria in quest'ottica viene diversificata su diversi piani. Costituiscono illeciti amministrativi quei fatti che si sostanziano in mere violazioni formali: omessa convocazione dell'assemblea, omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi ed impedito controllo da parte degli amministratori (in quest'ultima ipotesi si recupera, invece, la più grave sanzione penale qualora ne derivi un danno ai soci).
In alcune fattispecie penali si introducono poi meccanismi post factum di reintegrazione dell'offesa e di risarcimento del danno. Si pensi alla causa di estinzione del reato di illegale ripartizione degli utili e delle riserve, qualora il patrimonio indisponibile della società venga reintegrato prima dell'approvazione del bilancio; o al risarcimento del danno subito dai creditori che, in materia di indebita ripartizione dei beni sociali ad opera dei liquidatori, estingue il reato.
Infine la diffusa previsione del regime di procedibilità a querela della persona offesa asseconda le attuali e condivise esigenze deflattive.
Sul versante dell'offensività si registrano le novità di maggior rilievo, lì dove l'intervento penale è polarizzato attorno alla tutela di interessi ben definiti (patrimonio, integrità del capitale sociale e regolare funzionamento degli organi sociali) e si predilige la selezione di modalità comportamentali direttamente offensive di singoli beni giuridici, piuttosto che ricostruzioni in chiave di plurioffensività, le quali – come visto in questi anni – recano con sé l'effetto, difficilmente arginabile, di estendere a dismisura talune fattispecie, lasciando eccessiva discrezionalità nell'applicazione giurisprudenziale.
Le nuove fattispecie in tema di false comunicazioni sociali, destinate a sostituire l'abrogato n. 1 dell'art. 2621 c.c., traducono sul piano positivo l'esigenza di polarizzare l'intervento penale attorno alla tutela di interessi ben definiti e di differenziarne il trattamento in relazione alla diversa oggettività giuridica.
Infatti, nonostante la legge-delega manchi di una specifica relazione sul punto, questa diversità di bene tutelato, oltre a ricavarsi dalle note di tipicità oggettiva contenute al n. 1, lett. a), dell'art. 11, viene espressamente confermata nei lavori preparatori della legge 366/2001 (seduta 29 del 2 agosto 2001) dal Relatore per la maggioranza della II Commissione, quando precisa che si prevede un “falso tout-court per tutelare la trasparenza” e una seconda fattispecie di danno che riguarda la posizione patrimoniale dei soci o dei creditori.
Una tale opzione politico-criminale risponde all'esigenza di potenziare il ruolo del principio di offensività, attraverso una precisa individuazione dell'oggetto giuridico, al fine di porre un freno a quel processo di dilatazione operato dalla giurisprudenza nella delimitazione dei confini di rilevanza penale del falso in bilancio, in un certo senso avallato dalla lettura in chiave di plurioffensività della fattispecie.
L’articolo 1 del decreto sostituisce il titolo XI del libro V del codice civile, ora titolato “Disposizioni penali in materia di società e consorzi” (artt. da 2621 a 2641).
Per quanto concerne il cd. falso in bilancio sono state previste autonome fattispecie incriminatrici – in conformità della legge delega – differenziate sul presupposto della esistenza o meno di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori:
§ la prima fattispecie, prevista dal nuovo art. 2621 e rubricata “false comunicazioni sociali”, mira a salvaguardare quella fiducia che deve poter essere riposta da parte dei destinatari nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni della impresa organizzata in forma societaria. A questa ipotesi viene riservato un trattamento di minore severità sanzionatoria, prevedendo una fattispecie di pericolo, di natura contravvenzionale e punita solo se commessa con dolo intenzionale;
§ la seconda fattispecie, di cui all’art. 2622, rubricata “false comunicazioni sociali in danno ai soci e ai creditori”, è invece di natura delittuosa; posta a tutela esclusiva del patrimonio, è costruita come reato di danno, riproponendo sotto forma di modalità comportamentali le condotte previste nella ipotesi contravvenzionale e richiedendo, altresì, la causazione di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori. La norma prevede, a sua volta, due differenti ipotesi di delitto di false comunicazioni sociali - l’una commessa nell’ambito di società quotate e l’altra consumata in seno alle altre società di capitali – che si differenziano nel trattamento sanzionatorio e nella procedibilità. Nel primo caso (società quotate), la pena è la reclusione da uno a quattro anni e si procede d’ufficio; per le società non quotate, la reclusione va da sei mesi a tre anni e la procedibilità è a querela.
Si è, poi, ritenuto di dover posporre la locuzione, contenuta nella legge delega, “idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene”, inserendola, con una formula finale e omnicomprensiva, “in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione” dopo la descrizione della condotta omissiva, in quanto non vi sono ragioni per ritenere che la richiesta attitudine ingannatoria della condotta debba essere esclusa per l'ipotesi di omissione. Per il resto ci si è attenuti rigorosamente alla formula letterale della legge delega.
Tutte le fattispecie introdotte (sia quella di natura contravvenzionale, sia quella di natura delittuosa) contemplano casi di non punibilità del fatto: anzitutto, la punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo o comunque determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%.
Per tutte le ipotesi in cui non è possibile utilizzare tale soglia per la mancanza di risultato economico a cui parametrarla (si pensi ai conti d'ordine, ai bilanci straordinari o ad altre comunicazioni sociali) varrà la generale formula della non alterazione sensibile della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. Sempre in conformità alla delega, si è stabilita poi l'irrilevanza di uno scostamento non superiore al 10% nelle singole valutazioni estimative, mutuandola dalla recente normativa penale tributaria.
In attuazione, poi, del principio previsto alla lettera i) dell'art. 11 che impone al delegato di “evitare [...] disparità di trattamento rispetto a fattispecie di identico valore” è aggiunto all'art. 2622 un secondo comma in relazione alla procedibilità, facendo salva la perseguibilità d'ufficio nell'ipotesi in cui il fatto integri un delitto commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.
Riguardo all’art. 2623, cd. falso in prospetto (ora abrogato dall'art. 34, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, v. ora l'art. 137-bis, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), ponendo fine ai contrasti interpretativi legati alla riconducibilità sotto il concetto di “comunicazione sociale” del prospetto informativo, con l'autonoma previsione del delitto di falso in prospetto il legislatore delegante ha voluto fornire un'adeguata e certa tutela dell'affidamento del pubblico degli investitori sull'idoneità delle informazioni contenute in questo particolare veicolo informativo per consentire l'effettuazione di scelte consapevoli di investimento.
Anche per il falso in prospetto la legge delega imponeva di distinguere tra una fattispecie di pericolo, di natura contravvenzionale, e una fattispecie di danno, di natura delittuosa. Ferma l'identità della condotta nelle due ipotesi di reato, l'unico elemento distintivo sta nella verificazione o meno dell'evento materiale, costituito dalla causazione di un danno patrimoniale ai destinatari del prospetto.
Le due ipotesi criminose di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione (art. 2624 c.c.) vengono a sostituire l'abrogata fattispecie dell'art. 175 del decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58.
Oltre ad una semplificazione nella descrizione delle condotte costitutive di reato, qui limitate all'attestazione del falso o all'occultamento delle informazioni, e ad una puntualizzazione dell'elemento soggettivo, con l'articolo in esame si è, in particolare, proceduto ad un'armonizzazione del trattamento sanzionatorio di questa ipotesi di falsità con quello delle false comunicazioni sociali e del falso in prospetto.
La previsione di due ipotesi di reato, una contravvenzione e un delitto, poste lungo una linea di progressione di tutela dello stesso bene giuridico, ha consentito di meglio “calibrare” il disvalore del fatto, analogamente a quanto stabilito per le false comunicazioni sociali e per il falso in prospetto, a seconda che dalla stessa condotta intenzionale derivi o no l'evento materiale del danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni. Anche per quest'ipotesi di falsità, dunque, valgono le stesse considerazioni già svolte per il falso in prospetto: lo spazio di un autonomo intervento del tentativo del predetto delitto deve di conseguenza ritenersi logicamente escluso.
Dovendo essere sorretto dalla “consapevolezza della falsità” e dalla “intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni”, il fatto contravvenzionale non può, evidentemente, essere realizzato né con colpa né con dolo eventuale, in deroga a quanto stabilito dall'ultimo comma dell'art. 42 c.p.
La fattispecie di impedito controllo (art. 2625)contiene due distinte ipotesi di illecito, l'una di natura amministrativa, l'altra di natura penale. L'illecito amministrativo è strutturato attraverso la condotta dell'impedire, o, comunque, ostacolare l'esercizio delle funzioni di controllo attribuite dalla legge ai soci, agli organi sociali o alle società di revisione.
Oggetto di tutela, quanto al comma 1, è, propriamente, il regolare esercizio del controllo; quanto al comma 2, oggetto di tutela è il patrimonio. L'elemento del danno integra il contenuto del fatto, che assume natura delittuosa.
Rispetto alla abrogata fattispecie di cui all'art. 2623 c.c., si registrano importanti differenze.
Tra i soggetti titolari di funzioni legali di controllo è compresa la società di revisione. Si modifica inoltre la condotta tipica, che, non consiste più nel solo impedimento, ma anche nel semplice “ostacolo”. Per altro verso la nuova fattispecie restringe il campo delle modalità tipiche della condotta, in quanto la legge delega precisava che l'impedimento o l'ostacolo dovesse esprimersi mediante l'occultamento di documenti o con «altri idonei artifici».
L'indebita restituzione dei conferimenti (art. 2626) è una fattispecie generale di salvaguardia dell'integrità del capitale che punisce la restituzione, anche simulata, dei conferimenti o la liberazione dei soci dall'obbligo di eseguirli, al di fuori, naturalmente, delle ipotesi di legittima riduzione del capitale sociale.
L'illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art. 2627) è norma posta a tutela dell'integrità del capitale e delle riserve obbligatorie per legge attraverso una previsione contravvenzionale che appare strutturalmente dolosa è diretta a sostituire i previgenti nn. 2 e 3 dell'art. 2621 c.c.
E' eliminata anzitutto la differenza di disciplina precedentemente prevista per gli utili e gli acconti sugli utili. Vengono così private di rilevanza penale le inosservanze formali in tema di riparto di acconti, essendo riservata la reazione penale alle ripartizioni di utili o acconti non effettivamente conseguiti o destinati per legge e riserva. Per quanto riguarda i soggetti attivi del reato, la legge delega indicava soltanto gli amministratori e non anche, come l'abrogato art. 2621 nn. 2 e 3, i direttori generali.
L'intervento penalistico è ora riservato alle sole riserve obbligatorie per legge.
Per converso, si chiarisce che la norma penale si applica anche alle fattispecie, oggi controverse, delle riserve non costituite con utili (riserve da sovrapprezzo, da rivalutazione, ecc.).
Per quanto riguarda l'aspetto quantitativo della sanzione edittale, mentre l'art. 2621 prevedeva la reclusione da uno a cinque anni e la multa, l’art. 2627 stabilisce l'arresto fino ad un anno.
Si è mantenuta nella formulazione della norma la clausola "Salvo che il fatto non costituisca più grave reato", in quanto l'illegale ripartizione di utili o riserve da parte degli amministratori può integrare un reato più grave (l'appropriazione indebita, in particolare, è punita dall'art. 646 c.p. con la reclusione fino a tre anni e la multa).
E' introdotta la causa di estinzione consistente nella restituzione degli utili o nella ricostituzione delle riserve prima del termine previsto per l'approvazione del bilancio.
.L’art. 2628 c.c., relativa alle illecite operazione sulle azioni o quote sociali o della società controllante va a sostituire la disciplina penale, assai articolata in quanto modellata sui precetti civilistici, che in precedenza regolava le diverse fattispecie ed i diversi momenti delle operazioni su azioni proprie o della società controllante.
La disciplina penale è ora riservata a fattispecie individuate dalla legge delega sulla base di tre elementi: tipologia della condotta (acquisto o sottoscrizione); oggetto materiale della condotta (azioni o quote, sociali o della società controllante); lesività (effettiva) dell'operazione per l'integrità del capitale sociale o delle riserve obbligatorie per legge.
Infine, le operazioni di leveraged buy out - alle quali in questi anni si è discusso se applicare o meno le norme sulle operazioni su azioni proprie (acquisto di azioni proprie per interposta persona o violazione del divieto posto dall'attuale art. 2358 c.c.) - sono espressamente considerate a parte dalla legge delega, che conferisce ad esse il crisma della legittimità (art. 7, lett. d).
L’art. 2969 (operazioni in pregiudizio dei creditori) mira a tutelare l'integrità del patrimonio sociale ed è diretta a sostituire l'art. 2623, n. 1 c.c. che sanzionava l'inosservanza dei precetti civilistici in tema di riduzione del capitale, fusione e scissione. Tra le novità si segnala l'introduzione di una causa di estinzione del reato, consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio, nonché della procedibilità a querela.
L'omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi (art. 2630) costituisce illecito amministrativo e riformula in termini più generali gli abrogati articoli 2626 e 2635 c.c., anch'essi costitutivi di figure di illecito amministrativo, al fine di semplificare e di armonizzare la materia evitando il ricorso a previsioni eccessivamente specifiche.
Laddove, tuttavia, l'omesso deposito abbia ad oggetto, in particolare, i bilanci, data l'indiscutibile maggior gravità del fatto rispetto alle altre ipotesi di omissione, è previsto l'aumento di un terzo della sanzione amministrativa pecuniaria irrogabile per la fattispecie-base, secondo una tecnica normativa già nota per le circostanze aggravanti del reato. Trattandosi di illecito amministrativo punito con una sanzione pecuniaria, esso, secondo il principio generale contenuto nell'art. 3 legge 24 novembre 1981 n. 689, può essere realizzato sia con dolo che con colpa.
Mentre l’art. 2631 (omessa convocazione dell'assemblea), finalizzata alla tutela dei diritti delle minoranze nonché alla tutela del diritto all'informazione sull'integrità patrimoniale della società, sostituisce l'abrogato art. 2630, comma 2, n. 2) c.c. (la disposizione è stata trasformata in illecito amministrativo, ritenendo tale configurazione un sufficiente presidio per la tutela del generale regolare funzionamento delle società), l’art. 2632 (formazione fittizia del capitale) costituisce la prima delle fattispecie di reato posta a tutela dell'effettività ed integrità del capitale sociale. In particolare, essa è volta a colpire, in modo unitario, le condotte che incidono, inquinandolo, sul processo “genetico” del nucleo patrimoniale protetto nei due momenti della costituzione della società e dell'aumento di capitale.
Si tratta di una fattispecie delittuosa, procedibile d'ufficio, costruita come reato d'evento a condotta vincolata, punita con la reclusione fino ad un anno. L'evento costitutivo del delitto – la formazione o l'aumento di capitale – deve cioè essere cagionato, per essere penalmente rilevante, da una delle tre condotte descritte per note interne dal legislatore, ossia: l'attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore nominale; la sottoscrizione reciproca di azioni o quote; la sopravvalutazione rilevante dei conferimenti dei beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione.
Sotto l'unico delitto in esame sono state in tal modo raggruppate – e armonizzate nel trattamento sanzionatorio – alcune ipotesi di illecito corrispondenti, in parte, a quelle in precedenza contemplate dagli articoli 2629 e 2630 nn. 1 e 2 c.c., oltretutto attualmente strutturate come reati di mera condotta.
L'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633) mira a tutelare i creditori in sede di liquidazione e va a sostituire l'abrogato art. 2625 c.c.Come per l'ipotesi precedente, in conformità della legge delega, è stata introdotta la procedibilità a querela e la causa di estinzione del reato consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio.
La fattispecie di infedeltà patrimoniale, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, costituisce una delle novità di maggior rilievo in tema di reati societari (art. 2634).
Il disegno di legge originario, che ha costituito il testo base dei lavori delle commissioni parlamentari, menzionava, tra le finalità rilevanti, solo quella di procurarsi un “ingiusto profitto”; ad esso è stato aggiunto l’ulteriore elemento dell”altro vantaggio”.
Per quanto concerne il comportamento infedele degli amministratori, direttori generali, sindaci liquidatori e revisori, l'infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità (art. 2635) sottolinea nella rubrica una migliore armonizzazione con il contenuto della fattispecie e meglio segnala la distinzione dalla infedeltà patrimoniale.
L'illecita influenza sull'assemblea (art. 2636) si perfeziona con la formazione irregolare di una maggioranza. La condotta deve esprimersi nel compimento di atti simulati o fraudolenti, e risulta così meglio precisata rispetto all'abrogato art. 2630 1° comma n. 3 c.c., che utilizzava il concetto più generico di “mezzi illeciti”, sia pure specificando alcune forme tipiche di espedienti (il valersi di azioni o quote non collocate, o il far esercitare sotto altro nome il diritto di voto spettante alle azioni proprie). Soggetto attivo non è più il solo amministratore ma chiunque. il fatto è collegato all'esigenza che la condotta abbia determinato una maggioranza che altrimenti non si sarebbe formata, escludendo il rilievo dell'influenza non decisiva.
L’articolo 2637, una delle più importanti del provvedimento, accorpa le diverse fattispecie di aggiotaggio, in precedenza previste al di fuori del codice penale (art. 2628 c.c.; art. 138 d. lgs. 1/9/1993, n. 385; art. 181 d. lgs. 24/2/1998, n. 58), ponendo così fine allo stato di confusione normativa generato dalla coesistenza, nella legislazione speciale, di varie disposizioni.
Il reato è, di conseguenza, configurato come reato comune e mira a tutelare l'economia pubblica ed in particolare il regolare funzionamento del mercato.
Nella descrizione del fatto punibile la norma ha subito, in conformità con i principii della legge delega, una notevole semplificazione ed un affinamento sul piano della concreta lesività del fatto. In primo luogo, infatti, è stato eliminato dalla condotta di entrambe le forme di aggiotaggio il riferimento (ritenuto sovrabbondante rispetto al requisito della falsità) alle notizie “esagerate o tendenziose”, che invece erano previste nella norma di cui all'art. 138 T.U. bancario e nella norma di cui all'art. 181 T.U. mercati finanziari.
Per ciò che riguarda invece l'aspetto della lesività del fatto, è stata prevista – quale nota modale della condotta – la necessità che le notizie mendaci o le operazioni simulate o gli altri artifici siano concretamente idonee a provocare una alterazione sensibile del prezzo degli strumenti finanzioari, in modo da configurare il reato in questione come reato di pericolo concreto.
Anche per la fattispecie di aggiotaggio bancario è stato previsto – in conformità con quanto previsto dalla legge delega – un requisito di lesività (“ … incidere in modo significativo sull'affidamento …”).
Per qual che concerne l’ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638), nel rispetto della previsione di cui alla lett. b), prima parte, della legge delega, si è costruita una fattispecie a carattere generale alla quale poter ricondurre le diverse figure previste al di fuori del codice, garantendo così l'uniformità sanzionatoria.
I i due commi prevedono fattispecie delittuose diverse per modalità di condotta e momento offensivo: la prima centrata sul falso commesso al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza; la seconda sulla realizzazione intenzionale dell'evento di ostacolo attraverso qualsiasi condotta (attiva o omissiva). Si è ritenuto di prevedere la stessa pena per ambedue le ipotesi, attesa la sostanziale equivalenza fra la più grave condotta di falso, nella prima, e le condotte meno gravi, nella seconda, che però determinano l'ostacolo alle funzioni di vigilanza. La reclusione “da uno a quattro anni” si spiega in considerazione della grande rilevanza che, in un sistema di libero mercato, riveste la tutela del corretto svolgimento delle funzioni di controllo affidate alle pubbliche autorità di vigilanza.
L’art. 2639, relativo all’estensione delle qualifiche soggettive, tipicizza, al primo comma, la figura dell'“amministratore di fatto”, largamente riconosciuta in giurisprudenza.L'equiparazione, ai fini della responsabilità, collegata all'esercizio di fatto delle funzioni è circoscritto alla presenza degli elementi della continuità e della significatività rispetto ai poteri tipici della funzione.
Il secondo comma, coerentemente all'abrogazione delle norme relative ai delitti commessi dagli amministratori giudiziali e dai commissari governativi, si ricollega ad una esigenza di razionalizzazione dell'intera materia, prevedendo espressamente ed in via generale che le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applichino anche ai soggetti che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi; ferma restando, ovviamente, la possibilità di applicare la disciplina dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in tutti gli altri casi.
In conformità alla legge delega si è poi provveduto ad inserire una circostanza attenuante dell'offesa di particolare tenuità applicabile a tutte le fattispecie di reato (art. 2640).
Sempre in attuazione della legge delega, si è provveduto ad introdurre, anche per i reati societari, l'istituto della confisca obbligatoria, in caso di condanna o di pena patteggiata ex art. 444 (art. 2641).
L’articolo 2 del D.Lgs 61/2002 introduce una circostanza aggravante al delitto di rivelazione di segreto professionale di cui all'art. 622 c.p.
La disposizione prevede, in conformità a quanto disposto dalla legge delega, uno specifico comma, da aggiungere all'art. 622 c.p., che introduce una ipotesi particolare (aggravata) del delitto di rivelazione di segreto professionale, allorché la condotta sia posta in essere da soggetti qualificati nell'ambito della gestione di una società (amministratori, sindaci, direttori generali e liquidatori) o da soggetti che svolgono la revisione contabile della società. A ciò corrisponde l'abrogazione dell'art. 2622 c.c. e dell'art. 176 del T.U. mercati finanziari.
L’articolo 3 del decreto prevede la responsabilità amministrativa degli enti nelle ipotesi di commissione di reati societari da parte delle persone fisiche preposte alla gestione, in conformità a quanto previsto dalla legge delega, nel rispetto dei principi contenuti nella legge 29 settembre 2000 n. 300 e nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Si è aggiunto, a tal fine, un art. 25-ter (reati societari) all'interno del D.Lgs 231 che punisce con sanzioni pecuniarie “per quote” le diverse ipotesi di reato.
Viene, inoltre, prevista un'ipotesi aggravata nei casi in cui a seguito della commissione dei reati l'ente consegua un profitto rilevante, nonchè la possibilità di applicare sanzioni interdittive, ma solo in caso di condanna della persona fisica per uno dei delitti previsti al comma 1.
L’articolo 4 del decreto legislativo ha riformulato l'art. 223, comma 2, n. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, di disciplina delle procedure concorsuali.
La richiesta del delegante di stabilire un collegamento causale tra i reati societari richiamati nella fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria e il dissesto della società, ha obbligato a riconsiderare la congruità della precedente soluzione operata dal legislatore del 1942.
Sono stati previsti come ipotesi base i reati societari dolosi che, seppur con diversa oggettività giuridica, siano armonicamente riconducibili nella tipicità della bancarotta fraudolenta, in ragione di una parziale omogeneità di offesa. E' sembrato, cioè, indispensabile considerare, nella più grave prospettiva fallimentare, gli illeciti penali nei quali la strumentalizzazione dei meccanismi societari sia rivolta contro le ragioni creditorie, per converso escludendo quei reati – già previsti nel c.c. del '42 – che, non presentando alcuna affinità offensiva con l'art. 223, non meritano considerazione al fine di una tanto più severa previsione punitiva.
L’articolo 5 del provvedimento ha introdotto una norma transitoria in base alla quale per i reati perseguibili a querela ai sensi del decreto legislativo 61/2002, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la proposizione della querela decorre dalla data predetta
L’articolo 6, intervenendo sull’art. 33-bis c.p.p., attribuisce, infine, al tribunale in composizione collegiale la competenza sui reati societari di cui al titolo XI del libro V del codice civile.
L’articolo 7 introduce una norma di coordinamento che aggiunge l’art. 187-bis al D.Lgs 58/1998 (Testo unico intermediazione finanziaria) relativo all’abuso di informazioni privilegiate. Analoga natura riveste l’articolo 8 del D.Lgs 61/2002, che procede alle necessarie abrogazioni; l’articolo 9 riguarda, infine, l’entrata in vigore del decreto.
Come in precedenza accennato, parte della disciplina introdotta dal D.Lgs 61/2002 è stata novellata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262, Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari. cd legge sul risparmio.
Si tratta di una riforma molto complessa, nata come risposta ai numerosi scandali finanziari (Parmalat, in primis) che hanno colpito i mercati negli ultimi anni.
Numerose sono state le modifiche apportate sia ai principali provvedimenti disciplinanti il settore del risparmio sia al codice civile. La nuova legge sul risparmio nei suoi 44 articoli, modifica l’attuale disciplina sugli emittenti, quella sugli intermediari, la disciplina delle revisione contabile, l’organizzazione e la disciplina delle autorità di vigilanza, la disciplina delle società ed il sistema sanzionatorio penale e amministrativo. Le novità più rilevanti, contenute nel capo III della legge 262/2005, sono quelle che riguardano la tutela degli investitori.
Si osserva, preliminarmente, come in questa sede, sono illustrate le sole innovazioni introdotte alla disciplina dei reati societari prevista dal codice civile nonché una modifica alla legge fallimentare (RD 267/1942) riferita al reato di ricorso abusivo al credito. Si tratta, quindi, di parte delle disposizioni contenute nel solo titolo V della legge 262/2005.
L’articolo 30 della legge 262/2005 ha, anzitutto, modificato la disciplina del falso in bilancio introdotta dal decreto legislativo 61/2002 novellando gli articoli 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori) del codice civile.
In relazione all’ipotesi di illecito contravvenzionale di cui all’articolo 2621, in cui si disciplina la fattispecie di false comunicazioni sociali, fermi restando tutti gli elementi costitutivi del reato (oggetto materiale, elemento oggettivo, elemento soggettivo, condizioni di procedibilità, ipotesi di non punibilità del fatto), nonché la sua natura contravvenzionale, si è proceduto: ad ampliare il novero dei soggetti attivi mediante la indicazione, accanto agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari; ad innalzare la pena edittale dell’arresto da un anno e sei mesi a due anni.
Altra novità consiste nella introduzione di una sanzione amministrativa da irrogare ai soggetti che, pur avendo diffuso false comunicazioni sociali dotate di attitudine ingannatoria, con lo scopo di indurre in errore i soci o il pubblico e al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, non sono sanzionabili penalmente in quanto ricorre una delle ipotesi di non punibilità di cui ai commi terzo e quarto ( si ricorda che il fatto non è punibile se è il frutto di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta; la punibilità è, altresì, esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo o comunque determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%).
Si introduce, pertanto, accanto ad un illecito penale di natura contravvenzionale, un illecito di natura amministrativa che ha in comune con il primo tutti gli elementi costitutivi, ad eccezione di quello consistente nel raggiungimento delle predette soglie e che è punito con la sanzione pecuniaria da dieci a cento quote, nonché con l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni.
Il riferimento alla sanzione delle quote sembra ricollegarsi alle previsioni del decreto legislativo n. 231 del 2001, relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche nel caso di commissione di determinati reati nel loro interesse da parte dei dirigenti: ai sensi dell’ articolo 10 del suddetto provvedimento la sanzione pecuniaria viene applicata alla persona giuridica per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille; l’importo di una quota varia da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di lire tre milioni e viene stabilito a seconda della situazione economica dell’ente, al fine di rendere efficace la sanzione pecuniaria.
Per quanto concerne, poi, l’ulteriore sanzione dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche per un periodo che può variare dai sei mesi ai tre anni conseguente all’illecito amministrativo, si ricorda come l’articolo 35-bis del codice penale, anche in relazione a ipotesi di maggiore gravità (condanna all’arresto derivante dalla commissione di reati di natura contravvenzionale), preveda una analoga sanzione, ma di durata sensibilmente inferiore (da quindici giorni a due anni).
Di portata più ampia appare l’intervento concernente l’articolo 2622, in cui si disciplinano due differenti ipotesi di delitto di false comunicazioni sociali, l’una commessa nell’ambito di società quotate e l’altra consumata in seno alle altre società di capitali.
Una prima innovazione riguarda, anche in tal caso, l’ampliamento del novero dei soggetti attivi del reato mediante la indicazione, accanto agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari; altra modifica concerne l’evento e i soggetti passivi del reato: oltre alla diminuzione del patrimonio dei soci o dei creditori, acquista rilevanza anche quella del patrimonio della società e, nella ipotesi di false comunicazioni relative a società quotate, il grave nocumento ai risparmiatori; in particolare quando si verifichi quest’ultima eventualità, la pena della reclusione da irrogare può variare da due a sei anni.
Il nocumento al risparmio si considera grave quando riguarda un numero di risparmiatori superiore allo 0,5 per mille della popolazione risultante dall’ultimo censimento ISTAT (attualmente si tratta di circa 28500 persone) o, in alternativa, se consiste nella distruzione o riduzione del valore di titoli di entità complessiva superiore allo 0,5 per mille del PIL.
Si osserva come nessun riferimento sia presente nel nuovo art. 2622 c.c. e comunque, nella legge, alla fonte cui far riferimento per la individuazione del valore del prodotto interno lordo, in termini, ad esempio, di un rinvio all’ultima rilevazione operata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT).
Anche nell’ambito dell’articolo 2622 è stata inserita una ipotesi di illecito amministrativo che ha in comune con le fattispecie delittuose tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi, ad eccezione del requisito consistente nel raggiungimento delle soglie prescritte per l’irrogazione delle sanzioni penali: nel caso in cui amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, con l’intenzione di ingannare il pubblico o i soci e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nelle comunicazioni sociali previste dalla legge e dirette ai soci o al pubblico espongano fatti materiali falsi (ovvero omettano informazioni imposte dalla legge) in modo idoneo da indurre in errore i destinatari, ma le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, ovvero determinano una alterazione del risultato economico di esercizio non superiore all’1% o una variazione del patrimonio netto non superiore al 5% , tali soggetti sono puniti con la sanzione amministrativa da dieci a cento quote e con l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni .
L’articolo 31 della legge sul risparmio inserisce, poi, nel codice civile, nel capo relativo agli illeciti commessi dagli amministratori, il delitto di omessa comunicazione del conflitto di interessi.
La fattispecie viene delineata dal nuovo articolo 2629-bis del codice civile nel modo seguente.
Soggetti attivi del reato possono essere l’amministratore o il componente del consiglio di gestione di:
§ una società quotata in borsa (nel mercato italiano o in quello di uno degli altri Stati membri dell’UE);
§ una società emittente strumenti finanziari che, ancorché non quotati in mercati regolamentati italiani, siano diffusi tra il pubblico in misura rilevante;
§ un soggetto sottoposto a vigilanza ai sensi della normativa in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. n. 385/1993), assicurativa (legge n. 576/1982), in tema di intermediazione finanziaria (D.Lgs. n. 58/1998) e di fondi pensione (D.Lgs. n. 124/1993).
La condotta consiste nella violazione degli obblighi previsti dall’articolo 2391, primo comma del codice civile, e dunque essenzialmente dell’obbligo di comunicare agli altri amministratori e al collegio sindacale ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, l’amministratore o il componente del consiglio di gestione abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata; nonché dell’obbligo, per l’amministratore delegato, di astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale.
L’evento è dato dalla produzione di danni alla società o a terzi.
La sanzione è fissata nella reclusione da uno a tre anni.
Si ricorda inoltre che, comunque, ai sensi dell’articolo 2391 c.c., l’amministratore risponderà anche dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione e dei danni che siano derivati alla società dall’utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell'esercizio del suo incarico.
Lo stesso art. 31 della legge 262/2005 - apportando una modifica alla lettera r) del comma 1 dell’articolo 25-ter del D.Lgs. n. 231 del 2001 - prevede che a seguito dell’accertamento della fattispecie penale di omessa comunicazione del conflitto di interesse, se il delitto è stato commesso nell’interesse della società, alla società si applichi la sanzione pecuniaria da 200 a 500 quote.
Si ricorda che il decreto legislativo n. 231/2001 opta per un sistema commisurativo della sanzione pecuniaria “per quote”, che opera attraverso due fasi: nella prima fase il giudice determina l’ammontare del numero delle quote sulla scorta degli indici di gravità (articolo 11, comma 1), mentre nella seconda egli qualifica il valore monetario della singola quota considerando le condizioni economiche dell'ente (articolo 11, comma 2). Ciò avviene nel rispetto del minimo e del massimo fissati dalla legge delega (legge n. 300/2000):
§ la sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a 100 né superiore a mille;
§ l'importo di una quota va da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.549 euro.
L’articolo 32 della legge interviene sulla legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) per modificare il delitto di ricorso abusivo al credito.
Il previgente art. 218 della legge fallimentare stabiliva che il delitto è commesso dall’imprenditore esercente un’attività commerciale che ricorre o continua a ricorrere al credito, dissimulando il proprio dissesto, salvo che il fatto costituisca un reato più grave.
Soggetto attivo era dunque il solo imprenditore in stato d’insolvenza autore di una condotta diretta ad ottenere credito, accompagnata dall’occultamento del proprio stato di dissesto. L’elemento soggettivo richiesto, trattandosi di reato di pericolo, è (e rimane) il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di far ricorso al credito nonostante il pericolo che lo stato di dissesto possa recare danno ai creditori, indipendentemente dal raggiungimento dello scopo.
La sanzione consisteva nella reclusione fino a 2 anni, unita all’inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale ed all'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a 3 anni.
Le disposizioni dell’articolo 218 si applicano anche agli amministratori ed ai direttori generali di società dichiarate fallite (art. 225 L.F.) nonché all’institore dell’imprenditore dichiarato fallito (art. 227 L.F.).
La norma sostituisce l’articolo 218 del R.D. n. 267/1942. La nuova fattispecie di reato di ricorso abusivo al credito presenta alcune caratteristiche analoghe alla disciplina previgente; in particolare, invariate risultano la condotta e le sanzioni accessorie. Le novità riguardano:
§ i soggetti attivi del reato, individuati negli amministratori, nei direttori generali, nei liquidatori e negli imprenditori esercenti un’attività commerciale;
§ la sanzione, che viene individuata nella reclusione da 6 mesi a tre anni;
§ la previsione di un aumento di pena quando il soggetto attivo del reato operi in società con azioni quotate in mercati regolamentari italiani o di altri paesi dell’Unione europea (soggette dunque alla disciplina del D.Lgs. n. 58 del 1998, parte IV, titolo III, capo II).
L’articolo 34 della legge sul risparmio riscrive, infine, la fattispecie del falso in prospetto in precedenza disciplinata dall’articolo 2623 c.c., di cui viene disposta l’abrogazione.
Ponendo fine ai contrasti interpretativi sulla riconducibilità alla categoria delle “comunicazioni sociali” del prospetto informativo per gli investimenti, derivanti dalla collocazione della norma nell’ambito del codice civile, l’illecito viene “trasferito” aggiungendo l'articolo 173-bis al testo unico della finanza (TUF) di cui al D.Lgs n. 58/1998.
L’articolo 2623 c.c., come riformato dal D.Lgs n. 61 del 2002, disciplinava il falso in prospetto come fattispecie speciale rispetto agli illeciti previsti dagli articoli 2621 e 2622 (false comunicazioni sociali). La norma distingueva due ipotesi, pur unificate dall’identica condotta: una fattispecie di pericolo, punita in via contravvenzionale, ed una di danno, avente natura di delitto.
Si prevedeva, infatti, che chiunque, per conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei prospetti informativi per gli investimenti o per l’ammissione ai mercati regolamentati o nei documenti da pubblicare in occasione delle offerte pubblico di acquisto e di scambio, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari, espone false informazioni ed occulta dati e notizie in modo idoneo ad indurre i suddetti destinatari in errore, è punito con l’arresto fino a un mese se la condotta non ha loro causato un danno patrimoniale. Ferma l’identità della condotta, l’ipotesi era punita con la reclusione da uno a tre anni quando, invece, i destinatari del prospetto subiscono un danno patrimoniale.
A parte la sanzione, l’unico elemento distintivo tra le due fattispecie riguarda, quindi, l’evento dannoso.
Nell’ambito del nuovo articolo 173-bis del TUF viene eliminato il riferimento al reato di danno e, contestualmente, la residua fattispecie di pericolo viene trasformata da contravvenzione in delitto, punito, pertanto, con la pena della reclusione da uno a cinque anni: il nuovo trattamento sanzionatorio risulta, dunque, nel complesso aggravato, sia perché ad un reato di pericolo, attualmente punito con l’arresto, viene applicata la pena della reclusione, sia perché tale pena, attualmente prevista per il solo reato di danno, viene comunque aumentata nella sua entità (in particolare il limite massimo edittale è portato da tre a cinque anni).
Rispetto al vigente articolo 2623, inoltre, pur essendo mantenuto l’elemento soggettivo del dolo specifico, esso concerne la sola “intenzione di ingannare” i destinatari del prospetto.
Altra disposizione di interesse è l’articolo 39 della legge 262/2005, il cui comma 2 apporta, in particolare, modificazioni al codice civile.
Con riferimento alle fattispecie definite dagli articoli 2625 (Violazione di obblighi incombenti ai liquidatori), 2635 (Omissione dell’iscrizione nel registro delle imprese) e 2638 (Accettazione di retribuzione non dovuta), si prevede il raddoppio della pena quando tali fattispecie riguardino società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ai sensi dell’articolo 116 del testo unico sull’intermediazione finanziaria n. 58/1998.
L’articolo 40, infine, esame delega il Governo ad emanare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi per l’introduzione di sanzioni accessorie alle sanzioni penali e amministrative in materia di società e di consorzi previste dal codice civile (titolo XI del libro V, artt. 2621-2641) ed alle sanzioni previste dalla normativa in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. n. 385/1993), in tema di intermediazione finanziaria (D.Lgs. n. 58/1998), di vigilanza sulle assicurazioni (legge n. 576/1982) e di fondi pensione (D.Lgs. n. 124/1993).
Nel disciplinare le sanzioni accessorie il Governo dovrà attenersi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
§ la durata delle sanzioni accessorie non dovrà superare i tre anni e dovrà essere commisurata alla gravità della violazione desunta da una serie di indici, individuati dall’articolo 133 del codice penale (lettera a);
L’articolo 133 del codice penale prevede che il giudice, per stabilire quale pena applicare in concreto all'interno del minimo e del massimo imposti dalla legge, debba tener conto di due criteri, l'uno oggettivo e l'altro soggettivo: la gravità del reato commesso e la capacità di delinquere del reo. La prima si desume da:
- ogni modalità dell'azione o dell'omissione che ha causato il reato;
- dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa;
- dall'intensità del dolo o dal grado della colpa.
- La capacità di delinquere, che consiste nella soggettiva possibilità che il soggetto commetta ulteriori reati, si desume invece:
- dai motivi per delinquere e dal carattere del reo;
- dai precedenti penali e giudiziari dell'imputato e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato;
- dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
- dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
§ dovranno essere previste, fra le sanzioni accessorie, la sospensione o decadenza dalle cariche o dagli uffici direttivi ricoperti (lettera b), ovvero l’interdizione dalle cariche (lettera c), presso banche o altri soggetti operanti nel settore finanziario, ovvero società;
Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 32-bis del codice penale, l’interdizione e sospensione dagli uffici direttivi è una pena accessoria che comporta il divieto di rivestire gli uffici di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e tutti gli uffici di rappresentanza nelle imprese e nelle persone giuridiche in genere, per la durata della pena principale. Consegue a ogni condanna non inferiore a sei mesi di reclusione per delitti commessi con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti all'ufficio svolto.
§ dovrà inserirsi la previsione che della condanna alla sanzione pecuniaria, nonché alla sanzione accessoria sia data pubblicità a spese del condannato sui mezzi di comunicazione, nei locali aperti al pubblico delle banche e delle finanziarie presso le quali l’autore della violazione ricopriva cariche o era dipendente (lettera d);
§ dovrà essere prevista la sanzione accessoria della confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, ovvero di beni di valore equivalente (lettera e).
Si ricorda che l’istituto della confisca è disciplinato in generale dall’articolo 240 del codice penale. Si tratta di una misura di sicurezza disposta dal giudice, consistente nel ritiro, da parte dell'autorità giudiziaria, di oggetti pertinenti al reato; può essere obbligatoria o facoltativa.
È facoltativa la confisca riguardante: a) le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato; b) le cose che rappresentano il prodotto del reato; c) le cose che rappresentano il profitto del reato.
È obbligatoria la confisca riguardante: a) le cose che costituiscono il prezzo del reato, cioè ciò che l'agente ha ricevuto per commetterlo; b) le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituiscono reato, anche se non è stata pronunciata condanna.
La lettera f) inserisce, nel novero dei princìpi e criteri direttivi previsti per l’esercizio della delega legislativa conferita, la precisazione secondo cui la competenza ad irrogare le sanzioni accessorie dev’essere attribuita alla medesima autorità competente ad irrogare la sanzione principale.
La riforma del diritto societario è completata da un rito ad hoc per le relative controversie con il quale la materia ha acquistato quindi una autonomia processuale prima inesistente. Tale nuova disciplina è stata introdotta con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della L. 3 ottobre 2001, n. 366.
L’articolo 12 della legge 366/2001 aveva delegato il Governo ad emanare nuove norme processuali, allo scopo di assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti vertenti su materie che richiedono un elevato tasso di conoscenze specifiche nei settori del diritto societario (comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali) e delle materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385).
Per il perseguimento di queste finalità e in queste materia il Governo è stato delegato a dettare regole processuali che in particolare potessero prevedere:
§ la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali;
§ l’attribuzione di tutte le controversie al tribunale in composizione collegiale, salvo ipotesi eccezionali di giudizio monocratico in considerazione della natura degli interessi coinvolti;
§ la mera facoltatività della successiva instaurazione della causa di merito dopo l’emanazione di un provvedimento emesso all’esito di un procedimento sommario cautelare in relazione alle controversie nelle materie di cui al comma 1, con la conseguente definitività degli effetti prodotti da detti provvedimenti, ancorché gli stessi non acquistino efficacia di giudicato in altri eventuali giudizi promossi per finalità diverse;
§ l’introduzione di un giudizio sommario, non cautelare, particolarmente celere che, con il rispetto del principio del contraddittorio conduca all’emanazione di un provvedimento esecutivo, anche se privo di efficacia di giudicato. Le caratteristiche delineate, quindi, sembrano riportare al modello del procedimento di ingiunzione (artt. 633-656 c.p.p.), caratterizzato dall’esigenza di conseguire il più rapidamente possibile il titolo esecutivo e, dal punto di vista strutturale, dalla sommarietà della cognizione;
§ la possibilità, per il giudice, di operare un tentativo preliminare di conciliazione (lettera e), formulando concrete proposte in merito, assegnando, eventualmente, un termine per la eventuale rimozione delle ragioni di lite (per la modificazione o rinnovazione di atti negoziali su cui verte la causa) e, in caso di mancata conciliazione, tenendo conto dell’atteggiamento tenuto al riguardo dalle parti ai fini dell’attribuzione delle spese di lite;
§ l’introduzione, anche mediante la modifica degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile, di uno o più procedimenti in camera di consiglio che, estendendo le ipotesi attualmente previste, assicurino il rispetto dei principi del giusto processo senza compromettere la rapidità dei procedimenti medesimi;
§ l’introduzione di forme di pubblicità sui tempi medi di durata dei diversi tipi di procedimenti di cui alle lettere precedenti trattati dai tribunali, dalle corti di appello e dalla Corte di cassazione.
L’articolo 12 della legge delega prevedeva inoltre (comma 3) la possibilità di inserire negli statuti delle società commerciali clausole compromissorie per l’instaurazione di un giudizio arbitrale (artt. 806-840 c.p.c.) per tutte o alcune delle controversie societarie di cui al comma 1, anche in deroga alle limitazioni di cui agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile. Infine (comma 4), il Governo è stato delegato a prevedere forme di conciliazione delle controversie civili in materia societaria anche dinanzi ad organismi istituiti da enti privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza e che siano iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia.
Passando all’esame del decreto legislativo, il provvedimento si compone di VII Titoli e di 42 articoli che saranno, di seguito illustrati.
Si ricorda, tuttavia, che alcune modifiche al decreto legislativo 5/2006 sono state introdotte dal D.Lgs 37/2004 e dal D.Lgs 310/2004 (v.ultra).
Il Titolo I (Nuove norme di procedura) si compone del solo articolo 1 diretto a definire l’ambito di applicazione del provvedimento.
Il comma 1 indica le controversie alle quali risultano applicabili le particolari norme processuali contenute nel decreto legislativo.
Le lettere a), b) e c), in attuazione di quanto disposto alla lettera a) dell’articolo 12, comma 1, della legge delega n. 366/2001, forniscono un’ampia definizione delle controversie in materia di diritto societario alle quali si applicano le norme processuali speciali in esame. Si fa infatti riferimento ai rapporti societari[276], al trasferimento delle partecipazioni sociali – nonché ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti -, ai patti parasociali.
Le lettere d), e) ed f), forniscono una definizione delle controversie di cui alla lettera b) del comma 1 del citato articolo 12, operandone una selezione. In relazione, infatti, alle materie disciplinate dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) si fa riferimento alle ipotesi specifiche di cui alla lettera d)[277], mentre in relazione alle controversie di cui al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (Dlgs. 1 settembre 1993, n. 385), specificate alla lettera e), si è operata una selezione sulla base di un criterio soggettivo riferito alla parte attrice o convenuta – deve trattarsi infatti di controversie promosse da una banca nei confronti di una banca ovvero da o contro associazioni rappresentative di consumatori o camere di commercio -; la lettera f) si riferisce poi alle controversie relative al credito per le opere pubbliche.
Il comma 2 dell’articolo 1 chiarisce espressamente che restano ferme le norme sulla giurisdizione, nonché la competenza della corte d’appello in tema di opposizione all’applicazione di sanzioni amministrative di cui agli articoli 145 del Testo unico bancario e 195 del Testo unico sulla intermediazione finanziaria.
Il comma 3 stabilisce che, salvo che nelle controversie di cui al comma 1[278], lettera e), il Tribunale giudica in composizione collegiale. Tuttavia anche nelle controversie di cui alla lettera e) il tribunale giudica in composizione collegiale nelle azioni promosse da associazioni rappresentative dei consumatori e dalle camere di commercio.
Il comma 4, infine, prevede che, in quanto compatibili, siano applicabili le disposizioni del codice di procedura civile per quanto non sia disciplinato dal provvedimento in esame.
Il Titolo II del provvedimento è diretto a disciplinare il processo di cognizione davanti al tribunale e si compone di IV capi.
Il capo I (artt. 2-17) è diretto a disciplinare il procedimento di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale.
L’articolo 2 disciplina il contenuto dell’atto di citazione, quale atto introduttivo del processo.
Va notato che, a differenza di quanto previsto dall’articolo 163 del c.p.c., l’articolo 2 prevede che nell’atto di citazione, indirizzato al tribunale, siano presenti le indicazioni di cui ai nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 163 (lettera a): mancano pertanto l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione e l’invito al convenuto a costituirsi in termini brevi, con le conseguenti decadenze di cui all’articolo 167, di cui al n. 7 del citato articolo 163.
Va ricordato, infatti, che è prevista la presentazione (art. 8) di un’apposita istanza di fissazione di udienza.
L’unico termine fissato al convenuto è quello (lettera c), non inferiore a 60 giorni dalla notifica allo stesso della citazione, per la notifica al difensore dell’attore della comparsa di risposta.
Si tratta, tuttavia, di un’indicazione non essenziale ai fini della validità dell’atto di citazione, poiché qualora essa manchi, o il termine indicato sia insufficiente, la legge prevede che esso sia comunque pari a 60 giorni.
Viene poi prevista l’indicazione del numero di fax o dell’indirizzo di posta elettronica per la ricezione delle notificazioni e comunicazioni all’attore nel corso del procedimento: si tratta di nuovi mezzi di comunicazione ai quali si fa riferimento in vari articoli del provvedimento, e, in particolare, nell’articolo 17, che possono essere utilizzati lungo tutto l’arco del procedimento.
L’articolo 3 disciplina la costituzione dell’attore.
Rispetto alla disciplina di cui all’articolo 165, l’articolo 3 in commento prevede
§ che la costituzione avvenga sempre a mezzo di procuratore;
§ che il fascicolo da depositare in cancelleria insieme alla nota di iscrizione a ruolo possa contenere anche la copia – non necessariamente l’originale – della citazione;
§ che, nel caso di citazione notificata a più persone, la costituzione dell’attore – e non l’inserimento nel fascicolo dell’originale della citazione – deve avvenire entro dieci giorni dall’ultima notificazione.
In tal caso il termine di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c, fissato al convenuto per la notifica al difensore dell’attore, della comparsa di risposta, - non inferiore a sessanta giorni dalla notificazione della citazione - , è prolungato, per ciascun convenuto, fino al sessantesimo giorno successivo all’iscrizione a ruolo.
Gli articoli 4 e 5 disciplinano il contenuto della comparsa di risposta del convenuto e le forme e i termini della costituzione dello stesso.
L’articolo 4, nel disciplinare il contenuto della comparsa di risposta, al comma 1, riproduce pressoché integralmente le disposizioni di cui all’articolo 167 del c.p.c.
Viene espressamente specificato che le domande riconvenzionali proposte dal convenuto siano quelle dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, conformemente ai principi generali di cui all’articolo 36 c.p.c., e che i terzi dallo stesso chiamati in causa siano quelli ai quali il convenuto ritiene comune la causa o dai quali pretende di essere garantito, conformemente ai principi generali di cui all’articolo 106 c.p.c.; nel caso di chiamata in causa di terzi a questi ultimi il convenuto deve notificare l’atto di citazione (coma 3) .
Come già previsto dall’articolo 2, viene poi prevista l’indicazione del numero di fax o dell’indirizzo di posta elettronica per la ricezione delle notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento.
Analogamente poi a quanto stabilito dall’articolo 2 in relazione all’atto di citazione, viene poi stabilito che, nella comparsa di risposta, il convenuto fissi all’attore un termine, non inferiore a trenta giorni dalla notificazione della stessa, per l’eventuale replica.
Anche in tal caso la legge stabilisce che il termine sia comunque pari a trenta giorni in caso di omessa o insufficiente indicazione.
Rispetto alla disciplina di cui all’articolo 167 c.p.c., l’articolo 5, relativo alla costituzione del convenuto, prevede:
§ che la costituzione avvenga sempre a mezzo di procuratore;
§ che il fascicolo da depositare in cancelleria possa contenere anche la copia – non necessariamente l’originale – della comparsa di risposta;
§ che la costituzione debba avvenire entro 10 giorni dalla scadenza del termine di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) – sessanta giorni dalla notificazione della citazione - o di cui all’articolo 3, comma 2 – sessantesimo giorno successivo all’iscrizione a ruolo, nel caso di citazione notificata a più persone -.
§ che in assenza di documenti da depositare, di domande riconvenzionali o di chiamata di terzi, il convenuto che abbia tempestivamente notificato la comparsa di risposta possa costituirsi entro dieci giorni dalla notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza a cui abbia provveduto altra parte.
Gli articoli 6 e 7 disciplinano la memoria di replica dell’attore e le repliche ulteriori.
Se intende replicare l’attore deve dare alla controparte un termine minimo (non inferiore a venti giorni, o a trenta nel caso in cui siano state proposte nuove domande) per l’eventuale controreplica. A questo punto la facoltà di scelta tra la replica e la richiesta di udienza passa alla controparte che, qualora decida di replicare a sua volta, dovrà concedere un ulteriore termine, non inferiore a quindici giorni dalla notificazione, per una ulteriore replica.
In ogni caso ciascuna parte, dopo il terzo scritto, con la facoltà di replicare, in alternativa costante alla richiesta di udienza, deve rispettare un termine massimo (sette giorni dalla ricezione della memoria di controreplica del convenuto per l’attore, i successivi sette giorni per le altre parti).
In ogni caso lo scambio di ulteriori memorie tra le parti non potrà avvenire decorso il termine massimo di settanta giorni dalla notifica della memoria di controreplica di cui al comma 2.
Gli articoli 8, 9 e 10 disciplinano, rispettivamente, le modalità di presentazione, il contenuto e gli effetti dell’istanza di fissazione di udienza.
L’articolo 8, in particolare, stabilisce un termine pari a quindici giorni per la notificazione dell’istanza, avente diversa decorrenza a seconda che la notificazione della stessa sia effettuata dall’attore, dal convenuto o dal terzo chiamato in causa.
Viene previsto, in ogni caso (comma 4), che il mancato deposito dell’istanza di fissazione di udienza nei quindici giorni successivi alla scadenza del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto di cui all’articolo 7, comma 2, ovvero della scadenza del termine massimo di cui all’articolo 7, comma 3, determina l’estinzione del processo rilevabile anche d’ufficio.
Qualora si sia comunque svolta l’udienza con la partecipazione di almeno una parte, l’estinzione deve essere eccepita nella stessa udienza a pena di decadenza.
L’istanza presentata in maniera irrituale può essere dichiarata inammissibile con ordinanza non impugnabile del Presidente del Tribunale, su richiesta della parte interessata.
L’istanza deve contenere (articolo 9) la formulazione delle conclusioni – di rito e di merito – con esclusione di qualsiasi modificazione delle domande e la definitiva formulazione delle istanze istruttorie già proposte, e va depositata in cancelleria entro 10 giorni dall’ultima notificazione; la sua presentazione genera comunque, a carico delle altre parti, l’onere di deposito della nota di precisazione delle conclusioni (articolo 10), nei dieci giorni successivi.
E’ a seguito della notificazione dell’istanza di fissazione di udienza che le parti decadono dal potere di proporre nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, di precisare o modificare domande o eccezioni già proposte, di formulare ulteriori istanze istruttorie e depositare nuovi documenti.
L’istanza può contenere, analogamente alla nota di precisazione delle conclusioni di cui all’articolo 10, comma 1, una proposta transattiva, che non pregiudica in alcun modo la decisione della causa.
Può essere presentata congiuntamente (articolo 11) per risolvere questioni controverse , ma le conclusioni devono essere sempre integralmente precisate.
L’articolo 12 disciplina la designazione del giudice relatore e il decreto di fissazione dell’udienza.
I commi 1 e 2 stabiliscono termini precisi per il successivo impulso del processo:
§ decorsi 10 giorni dal deposito dell’istanza, nei tre giorni successivi il cancelliere forma il fascicolo processuale e lo presenta subito al Presidente ;
§ il Presidente, entro due giorni dalla presentazione del fascicolo, designa il giudice relatore;
§ quest’ultimo, entro cinquanta giorni dalla designazione, sottoscrive e deposita in cancelleria il decreto di fissazione dell’udienza, da comunicare alle parti costituite.
Il Presidente, tuttavia, per comprovate ragioni, può prorogare tale termine ai sensi dell’articolo 154 c.p.c.[279]
Il decreto di fissazione di udienza è quindi un provvedimento monocratico del giudice relatore che presuppone la conoscenza della causa da parte del suo autore e implica la risoluzione di rilevanti questioni, tutte propriamente decise soltanto all’esito dell’udienza.
Il comma 3 disciplina il contenuto necessario del decreto che comprende, tra l’altro, la fissazione dell’udienza collegiale da tenersi non prima di dieci e non oltre trenta giorni dalla comunicazione del decreto stesso, l’invito alle parti, ove appaia opportuno, a comparire personalmente all’udienza per l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, nonché, ove taluna di esse abbia dichiarato le condizioni alle quali sia disposta a conciliare, l’invito alle altre parti a prendere all’udienza esplicita posizione sulle stesse, l’invito alle parti a depositare, almeno cinque giorni prima dell’udienza, memorie conclusionali, anche indicando le questioni bisognose di trattazione.
Con il decreto il giudice poi assegna:
§ un termine non inferiore a trenta e non superiore a sessanta giorni per la regolarizzazione della costituzione delle parti e nei casi di difetto di rappresentanza e di assistenza; in tal caso l’udienza di discussione viene fissata entro i successivi trenta giorni;
§ un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la rinnovazione della citazione al convenuto nel caso di nullità della relativa notificazione;
§ nei casi in cui occorra integrare il contraddittorio ai sensi dell’articolo 102 e 107 del c.p.c., un termine non inferiore a trenta giorni per le notifiche ad opera della parte, non inferiore a quaranta giorni e non superiore a sessanta per la costituzione dei litisconsorti e dei terzi, e di ulteriori trenta giorni per l’eventuale replica delle parti originarie. In tali casi l’udienza davanti al collegio è fissata con decreto nei successivi trenta giorni.
L’articolo 13 disciplina le ipotesi di contumacia dell’attore e del convenuto.
Qualora l’attore non si costituisca nei termini, al convenuto è consentito di optare tra la richiesta di dichiarazione dell’estinzione del processo e la richiesta di una pronuncia nel merito (comma 1).
Nel caso di contumacia del convenuto l’attore può notificare al convenuto una nuova memoria di replica o depositare istanza di fissazione di udienza; in tale ultimo caso (la relazione di accompagnamento fa riferimento ad una ficta confessio integrabile dal giuramento suppletorio) i fatti affermati dall’attore, anche quando il convenuto si sia tardivamente costituito, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa. Se lo ritiene opportuno il giudice deferisce all’attore il giuramento suppletorio.
Nel caso in cui nessuna delle parti si sia costituita nel termine, l’istanza può sempre essere proposta dalla parte successivamente costituita: in tal caso le altre parti possono costituirsi nei dieci giorni successivi dalla notifica dell’avvenuto deposito dell’istanza.
In ogni caso, salvo quanto disposto dagli articoli 184-bis e 294 c.p.c. in tema di rimessione in termini, il giudice, nel decreto di fissazione di udienza, può rimettere in termini la parte che da irregoralità procedimentali abbia risentito pregiudizio nel suo diritto di difesa. Rimane tuttavia ferma l’inammissibilità, purché eccepita, delle eccezioni non rilevabili d’ufficio proposte dal convenuto dopo la seconda memoria difensiva o proposte dall’attore dopo la memoria successiva alla proposizione della domanda riconvenzionale, nonché delle allegazioni e istanze istruttorie tardivamente proposte e dei documenti tardivamente depositati.
Gli articoli 14 e 15 disciplinano le modalità dell’intervento autonomo e dell’intervento adesivo dipendente.
In particolare, l’articolo 14 stabilisce che l’intervento volontario di terzi di cui all’articolo 105, comma 1, non possa aver luogo oltre il termine di sessanta giorni dalla notificazione della citazione o eventualmente più ampio – di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) - per la notifica da parte del convenuto della comparsa di risposta. Va ricordato, infatti, che, ai sensi dell’articolo 4, comma 3, se dichiara di voler chiamare in causa terzi, il convenuto deve notificare loro l’atto di citazione.
La costituzione del terzo avviene, poi, secondo le modalità di cui all’articolo 4, comma 1, con la contestuale fissazione, alle altre parti, di un termine per la replica.
Ciascuna delle parti originarie potrà poi proporre istanza di fissazione di udienza perché venga decisa la questione dell’ammissibilità dell’intervento o fissare un termine al terzo perché provveda alla notificazione di una sua memoria; quest’ultimo, a sua volta, potrà notificare istanza di fissazione di udienza o fissare alle altre parti un termine per un’ulteriore replica.
L’articolo 15, poi, disciplinando l’intervento adesivo dipendente, prevede che questo possa avvenire fino al deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza, senza tuttavia poter compiere atti che, al momento dell’intervento, non sono più consentiti alle parti originarie. In ogni caso il terzo intervenuto è legittimato all’impugnazione della sentenza.
Qualora tuttavia il terzo deduca il dolo o la collusione delle parti in suo danno,il giudice, qualora ritenga fondata la deduzione, lo rimette in termini ai sensi dell’articolo 13, comma 5.
L’articolo 16 disciplina l’udienza di discussione della causa, di norma collegiale (cfr. art. 1, comma 3), possibilmente unica, preparata dal decreto e dalle comparse scambiate anteriormente.
La disciplina dettata è ispirata al celere svolgimento del procedimento.
Se nessuna delle parti costituite compare, il tribunale ordina la cancellazione della causa dal ruolo (comma 1).
Dopo aver proceduto all’interrogatorio libero delle parti, il giudice, se la natura della causa lo consente, esperisce il tentativo di conciliazione: qualora questo riesca il verbale costituisce titolo esecutivo, altrimenti il tribunale può tenerne conto ai fini della distribuzione delle spese di lite, anche ponendole, in tutto o in parte, a carico della parte formalmente vittoriosa che abbia rifiutato ragionevoli proposte conciliative.
Nel caso di mancata conciliazione della lite i difensori delle parti illustrano le rispettive conclusioni e si svolge la discussione coordinata dal Presidente; all’esito di essa il Tribunale conferma o revoca in tutto o in parte il decreto procedendo, delegandola eventualmente al relatore, all’assunzione dei mezzi di prova ritenuti necessari, e fissando nuova udienza di discussione nei trenta giorni successivi all’assunzione.
Ove non sia necessario procedere all’assunzione di mezzi di prova il tribunale decide la causa in camera di consiglio con sentenza, anche a norma dell’articolo 187, comma secondo e terzo c.p.c.. La decisione viene emessa a norma dell’articolo 281-sexies c.p.c.
L’art. 281 sexies citato disciplina la decisione a seguito di trattazione orale e prevede che la sentenza sia pronunciata al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In tal caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria.
L’articolo 16 dispone poi che in caso di particolare complessità della controversia, il tribunale dispone con ordinanza, di cui dà lettura in udienza, che la sentenza sia depositata nei trenta giorni successivi alla chiusura della discussione orale.
L’articolo 17 stabilisce poi il principio generale secondo il quale tutte le notificazioni e comunicazioni alle parti costituite possono essere fatte, oltre che a norma degli articoli 136 e ss. del c.p.c.[280]:
§ con trasmissione dell’atto a mezzo fax;
§ con trasmissione dell’atto per posta elettronica;
§ con scambio diretto tra difensori attestato da sottoscrizione per ricevuta sull’originale, apposta anche da collaboratore o da addeto allo studio del difensore.
Va rispettata comunque la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione e la trasmissione dei documenti informatici e teletrasmessi.
Il capo II (Rinvio alle norme relative al procedimento davanti al collegio) composto dal solo articolo 18, stabilisce che le disposizioni di cui al capo precedente si applichino, in quanto compatibili, al procedimento di cognizione davanti al Tribunale in composizione monocratica.
Come sopra ricordato, il tribunale giudica in tale composizione per le controversie di cui all’articolo 1, comma 1, lettera e). Il magistrato a cui è affidata la trattazione della causa è designato dal Presidente del Tribunale a norma dell’articolo 12 sopra illustrato.
Il Capo III, costituito dal solo articolo 19 è dedicato invece al procedimento sommario di cognizione.
L’articolo 19 prevede che tale procedimento possa essere utilizzato per tutte le controversie di cui all'articolo 1 che abbiano ad oggetto il pagamento di una somma di denaro - anche se non liquida - o la consegna di una cosa mobile determinata. Restano escluse le azioni di responsabilità (comma 1).
Il procedimento presenta le seguenti caratteristiche:
§ il ricorso va depositato nella cancelleria del tribunale competente;
§ giudice competente è il tribunale in composizione monocratica;
§ il giudice dispone la comparizione delle parti e assegna un termine per la costituzione del convenuto (non oltre 10 giorni prima dell'udienza). A questo punto si aprono due strade: a) il giudice, inaudita altera parte, ritiene sussistenti i fatti costitutivi della domanda e manifestamente infondata la contestazione del convenuto. Pronuncia allora ordinanza di condanna, immediatamente esecutiva (e titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale) e dispone in ordine alle spese (comma 2); b) il giudice se ritiene che l'oggetto della causa richieda una cognizione non sommaria, fissa l'udienza di discussione concedendo alle parti un termine (non inferiore a 30 giorni prima dell'udienza) per il deposito di memorie integrative e conclusioni (comma 3).
§ l'ordinanza di condanna è appellabile nelle forme del successivo articolo 20 (comma 4) e, comunque, anche laddove non vi sia impugnazione, sull'ordinanza non si forma il giudicato (comma 5).
Il Capo IV chiude il Titolo II, dedicato al processo di cognizione davanti al Tribunale, disciplinando negli articoli da 20 a 22 il procedimento in grado di appello.
L'articolo 20 si occupa della forma dell'appello e richiama quasi integralmente la disciplina generale contenuta nel codice di procedura (comma 2: Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 342 e seguenti del codice di procedura civile).
In sintesi, prevede:
§ che l'atto introduttivo sia una citazione contenente, pena l'inammissibilità, specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata (comma 1);
§ che l'appello possa essere dichiarato improcedibile se l'appellante non si costituisce in termini e l'appellato presenta apposita istanza (comma 3);
§ che l'appello sia dichiarato inammissibile se le parti avevano convenuto che la sentenza fosse solo ricorribile in Cassazione (comma 4);
L'articolo 21 si occupa invece del tema dell'intervento in appello.
L anorma fa salva la disciplina generale ma consente l'intervento anche ai litisconsorti necessari pretermessi ed ai terzi che abbiano interesse a sostenere le ragioni di una delle parti.
Il successivo articolo 22 disciplina gli effetti della mancata comparizione delle parti all'udienza.
Analogamente a quanto previsto dall’articolo 13 del provvedimento, anche qui viene perseguita un’abbreviazione dei tempi rispetto alla disciplina ordinaria del processo civile, poiché viene sanzionata subito con la cancellazione della causa dal ruolo la mancata comparizione delle parti all'udienza.
Il titolo III (artt. 23 e 24) del decreto legislativo disciplina il procedimento cautelare.
In relazione alle controversie societarie, la tutela cautelare ha una disciplina speciale.
In particolare, l'articolo 23 tratta dei provvedimenti cautelari emessi ante causame introduce - rispetto alla disciplina generale - le seguenti differenze:
§ i provvedimenti cautelari non perdono efficacia in caso di mancato inizio della causa sul merito (comma 1) né in caso di estinzione del giudizio di merito (comma 4)[281];
§ il giudice cautelare provvede sempre anche in ordine alle spese del procedimento cautelare (comma 2);
§ la revoca e la modifica del provvedimento cautelare devono essere richieste allo stesso giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare (comma 3), il quale potrà concederle in presenza di mutamenti nelle circostanze ovvero di circostanze preesistenti ma solo successivamente venute a conoscenza (in tal caso, spetterà all'istante fornire la relativa prova);
§ per quanto riguarda il reclamo, le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo stesso, debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento. Il Tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti ma non è consentita la rimessione al primo giudice (comma 5);
§ l'autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo (comma 6).
L'articolo 24 tratta invece, nei primi 3 commi, dei provvedimenti cautelari emessi in corso di causa: la disposizione prevede che la domanda vada presentata al Tribunale (giudice competente per il merito), che attraverso il Presidente individuerà il magistrato competente per la trattazione (comma 1). Quest'ultimo - direttamente con il decreto di fissazione dell'udienza - inviterà le parti a depositare tutti i documenti rilevanti ai fini dell'istanza cautelare e della decisione della causa, potendo fissare anche termini per il deposito di memorie e repliche (comma 2).
Il procedimento cautelare procede nelle forme generali disposte dal codice di rito, salva la piena efficacia dei provvedimenti cautelari anche in caso di estinzione del giudizio sul merito (comma 3).
I successivi commi dell'art. 24 trattano invece del c.d. giudizio abbreviato e dispongono che:
§ se all'udienza di comparizione il giudice designato ritiene che la causa sia matura per la decisione ne dà comunicazione alle parti presenti e le invita a precisare subito le rispettive conclusioni di rito e di merito; di seguito, nella stessa udienza, il giudice pronuncia sentenza (comma 4);
§ se la decisione deve essere collegiale, il giudice designato fissa entro 30 giorni l'udienza di discussione davanti al collegio (comma 5);
§ in entrambi i casi la sentenza è pronunciata al termine della discussione e il giudice dovrà dare lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (ex art. 281-sexies c.p.c.). Se la complessità della causa rende problematica l'esposizione della motivazione il giudice potrà limitarsi alla lettura del dispositivo potendo depositare la motivazione nei successivi 15 giorni (comma 6);
§ se la discussione viene rinviata il giudice può adottare provvedimenti cautelari (comma 7);
§ le disposizioni dell'articolo 24 si applicano anche alla sospensione della deliberazione sociale richiesta dal socio opponente a norma dall'art. 2378 c.c.[282] Il comma 8 dell'articolo 24 prevede quindi che la società, ricevuta notifica dell'istanza di sospensione, ne dia notizia agli amministratori e ai sindaci.
Si aggiunge, inoltre, che ai sensi dell'articolo 41 del decreto, l'articolo 24 in tema di tutela cautelare in corso di causa e giudizio abbreviato si applicherà, da subito, anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo.
Il titolo IV (artt. 25-33) del decreto legislativo disciplina il procedimento in camera di consiglio.
Gli articoli da 25 a 27 introducono una disciplina derogatoria delle disposizioni generalmente applicabili ai procedimenti in camera di consiglio. In particolare, per quanto riguarda l'atto introduttivo e l'individuazione del giudice competente, l'articolo 25 specifica che:
§ giudice competente è il tribunale del luogo dove la società ha la sede legale (comma 1);
§ il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del tribunale e presso l'ufficio del PM (nei casi di partecipazione necessaria del PM) (comma 2);
§ se il provvedimento richiesto deve essere emesso nei confronti di più parti, è richiesto il patrocinio di un difensore (ex art. 82, co. 2, c.p.c.), munito di procura alle liti (artt. 83 e 84 c.p.c.).
L'articolo 26 dispone invece in ordine alla forma e all'efficacia del provvedimento. Rispetto alla disciplina generale si segnalano le seguenti differenze:
§ il decreto motivato pronunciato dal giudice diviene esecutivo trascorsi 20 giorni dal deposito del ricorso ovvero dall'udienza (comma 1);
§ in caso di provvedimento di rigetto l'istanza può essere ripresentata solo se fondata su nuovi presupposti di fatto (comma 2);
§ in caso di provvedimento di accoglimento, la revoca o la modifica sono possibili da parte dello stesso giudice, previo contraddittorio e su ricorso della parte interessata o del pubblico ministero (comma 3). Restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla conoscenza della modifica o della revoca (comma 4).
Per quanto riguarda invece il reclamo, l'articolo 27 conferma gran parte della disciplina generale (commi 1 e 2 in tema di legittimati al reclamo, termine per la proposizione e autorità competente[283]) e specifica il procedimento da seguire: il collegio procede al contraddittorio, dispone gli atti istruttori necessari, e provvede con decreto motivato non impugnabile (comma 3); in attesa della decisione il presidente del collegio può disporre la sospensione di efficacia del provvedimento reclamato (in presenza di gravi motivi ai sensi del comma 4).
I successivi articoli del decreto disciplinano le due diverse ipotesi del procedimento in confronto di una sola parte (Capo II, Sez. I, artt. 28-29) e del procedimento in confronto di più parti (Capo II, Sez. II, artt. 30-33).
L'articolo 28 dispone che quando il procedimento veda coinvolta una sola parte, dopo la designazione del magistrato incaricato questi possa fissare un udienza per l'audizione del ricorrente (comma 1); contemporaneamente il PM potrà presentare alla cancelleria del giudice le proprie osservazioni (comma 2). Nel corso dell'udienza in camera di consiglio il giudice provvede all'istruzione e può invitare il ricorrente a depositare documenti, fornire chiarimenti o integrare il contraddittorio (comma 3).
L'articolo 29 precisa che questa disciplina trova applicazione per una serie di specifiche istanze previste dal codice civile, nonché - in quanto compatibili - per le altre istanze unilaterali previste dal codice civile e dalle leggi speciali.
In particolare, all'interno del codice civile vengono richiamate le seguenti istanze[284]:
§ per la designazione, da parte del Presidente del tribunale, degli esperti incaricati di redigere la relazione contenente la stima dei beni (ex artt. 2343, co. 1; 2343-bis, co. 2; 2545-undecies, co. 2) o il valore di liquidazione delle azioni (ex art. 2437-ter, co. 4[285]) o gli esperti incaricati di redigere una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote in caso di fusione (ex art. 2501-sexies, co. 3);
§ per la nomina, da parte del Presidente del tribunale, del rappresentante comune degli obbligazionisti (ex art. 2417, co. 2);
§ per l'iscrizione, con decreto del Presidente del tribunale e dopo la modifica dell'atto costitutivo, della società nel registro delle imprese (ex art. 2436, co. 4).
Il procedimento in camera di consiglio che veda coinvolte più parti è disciplinato dai successivi articoli da 30 a 33.
L'articolo 30 prevede la nomina da parte del Presidente del collegio del magistrato incaricato della relazione e fissa con decreto:
§ un'udienza per l'audizione delle parti in camera di consiglio;
§ un termine per la notifica del ricorso e del decreto ai soggetti nei cui confronti il provvedimento è richiesto;
§ un termine per la costituzione di questi ultimi, che corrisponde al termine a disposizione del PM per presentare osservazioni (comma 1).
Nel corso dell'udienza in camera di consiglio il collegio provvede all'istruzione, potendo a tal fine delegare uno dei componenti (comma 2).
In caso di urgenza (eccezionale e motivata), l'articolo 31 prevede che il Presidente del collegio possa provvedere sull'istanza con decreto, salva la fissazione - entro 15 giorni - dell'udienza per la comparizione delle parti, del termine per la notifica e per la costituzione. In udienza e previo contraddittorio, il Presidente potrà confermare, modificare o revocare il decreto stesso (stavolta con decreto motivato).
L'articolo 32 disciplina invece le modalità della conversione del procedimento in camera di consiglio in procedimento ordinario.
Fino alla conclusione dell'udienza nella quale le parti compaiono innanzi al collegio, ciascuna di esse può proporre una questione pregiudiziale (comma 1); in tal caso il giudice provvede comunque sul ricorso con decreto motivato ma, contestualmente, dispone la prosecuzione del procedimento nelle forme del processo ordinario di cognizione (v. sopra, artt. 2 e ss. del decreto), fissando un termine per la notificazione alle altre parti dell'atto di citazione. Nel corso del processo di cognizione il decreto emesso in camera di consiglio potrà essere modificato o revocato ma non diverrà inefficace in caso di estinzione del giudizio (commi 2 e 3).
Le disposizioni precedenti, relative al procedimento in camera di consiglio per rispondere ad istanze proposte nei confronti di più parti, si applicano in quanto compatibili a tutte le istanze di questo tipo previste dal codice civile o dalle leggi speciali. In particolare, però, ai sensi dell'articolo 33, si applicano alle seguenti istanze previste dal codice civile[286]:
§ per la convocazione dell'assemblea da parte del presidente del tribunale quando gli amministratori non provvedano (ex artt. 2367, co. 2 e 2487, co. 2);
§ per la denunzia al tribunale di gravi irregolarità commesse dagli amministratori (ex art. 2409 c.c.);
§ per la riduzione, in generale, del capitale sociale (ex artt. 2445, co. 4 e 2482, co. 3) o per la stessa riduzione in caso di perdite (ex artt. 2446, co. 2 e 2482-bis, co. 4);
§ per l'opposizione alla deliberazione che destina un patrimonio (ex 2447-quater, co. 2), che revoca lo stato di liquidazione (art. 2487-ter, co. 4), che trasforma la società (art. 2500, co. 2) o che ne determina la fusione (art. 2503, co. 2).
Il titolo V del decreto legislativo (artt. 34-37) disciplina l'arbitrato.
L'articolo 34 prevede l'ipotesi dell'inserimento di una clausola compromissoria direttamente all'interno dello statuto della società; tale possibilità è esclusa per le società che fanno ricorso al capitale di rischio, tenendo conto che sarebbe per i soci impossibile manifestare l'accettazione della clausola stessa. L'importanza del consenso è sottolineata dal comma 6 della disposizione in commento, ai sensi del quale le modifiche dell'atto costitutivo che riguardino clausole compromissorie devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i 2/3 del capitale sociale mentre gli assenti o dissenzienti possono comunque - entro i successivi 90 giorni - esercitare il diritto di recesso.
In particolare, la disposizione prevede:
§ che, fermo restando il principio generale per il quale possono essere devolute agli arbitri solo le controversie in tema di diritti disponibili, con la clausola compromissoria si possono devolvere tutte o alcune delle controversie insorgenti fra i soci o fra i soci e la società (comma 1), ivi comprese le controversie promosse da amministratori e sindaci ovvero nei loro confronti quando questi - all'atto di accettazione dell'incarico - ne abbiano preso visione (comma 4); restano escluse le controversie nelle quali la legge prevede l'intervento obbligatorio del Pubblico Ministero (comma 5);
§ che la clausola compromissoria deve contenere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo il relativo potere di nomina a un soggetto estraneo alla società. Laddove questi non provveda, la nomina è richiesta al Presidente del Tribunale (comma 2);
· che la clausola è vincolante per tutti i soci e per la società stessa ma non si applica - e quindi ci si rivolge al giudice ordinario - quando oggetto di contestazione sia la stessa qualità di socio (comma 3).
La scelta da parte della società di ricorrere ad arbitri per la risoluzione delle controversie, e quindi di disciplinare all'interno della clausola compromissoria o, successivamente, nel compromesso, le modalità del giudizio arbitrale incontra dei limiti. Tali limiti sono posti dall'articolo 35, intitolato Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale.
Anzitutto la disposizione prevede che della domanda di arbitrato coinvolgente la società sia data adeguata pubblicità attraverso il deposito presso il registro delle imprese (comma 1); questo consentirà l'intervento volontario di terzi, nonché quello di altri soci chiamati in causa su istanza di parte o per ordine dell'arbitro (comma 2). Sono inoltre inderogabili le seguenti previsioni:
§ il procedimento arbitrale non si sospende se nel corso del procedimento sorge una questione dalla quale dipende il giudizio ma che, per legge, non può costituire oggetto di giudizio arbitrale (comma 3). Ciò che nell'arbitrato disciplinato dal codice di procedura civile determina sospensione, ai sensi dell'art. 819, comma 1, non vale quindi per l'arbitrato delle società, nel quale la conoscenza da parte dell'arbitro di questioni non compromettibili produce le conseguenze previste dal successivo articolo 36 del decreto;
§ il lodo è sempre impugnabile per nullità, per revocazione o per opposizione di terzo. Ciò vale anche per l'arbitrato internazionale, per il quale invece la disciplina generale esclude l'impugnazione a meno che non sia espressamente prevista dalle parti (comma 4);
§ il lodo è vincolante per la società (comma 5);
§ la devoluzione della controversia ad arbitri non esclude l'accesso alla tutela cautelare così come disciplinata dal titolo III del decreto in commento; peraltro, se oggetto della controversia è la validità di delibere assembleari, gli stessi arbitri possono disporre - con ordinanza non reclamabile - la sospensione di efficacia delle delibere stesse (comma 6).
Ai sensi dell'articolo 36, quando per pronunciare il lodo gli arbitri affrontano questioni non compromettibili - posto che l'articolo precedente esclude la sospensione del giudizio - la loro decisione deve essere secondo diritto (anche se la clausola compromissoria gli autorizzava a decidere secondo equità) e il lodo sempre impugnabile (anche se la clausola compromissoria prevedeva la non impugnabilità). Lo stesso accade quando oggetto del giudizio sia la validità di delibere assembleari e, in entrambi i casi, quando l'arbitrato sia internazionale.
L'articolo 37 disciplina il c.d. arbitrato economico. Si tratta della possibilità di sottoporre ad arbitri eventuali contrasti insorti fra gli amministratori sulla gestione della società. Le tipologie societarie per le quali questo strumento è previsto sono le società a responsabilità limitata e le società di persone; la previsione potrà essere contenuta direttamente nell'atto costitutivo e la decisione dovrà essere affidata a uno o più estranei comunque designati da un soggetto terzo (comma 1).
L'atto costitutivo potrà prevedere che la decisione sia reclamabile, sempre davanti a un collegio imparziale (nominato da un soggetto estraneo), la cui decisione non sarà però ulteriormente sindacabile; se invece l'atto costitutivo non prevede reclamo, la decisione non è in alcun modo sindacabile (comma 2).
Il soggetto o il collegio chiamato a decidere potrà inoltre dare - ove previsto - indicazioni vincolanti su questioni connesse a quelle deferite (comma 3).
L'art. 12, comma 4, della legge delega invitava il Governo a prevedere forme di conciliazione delle controversie civili in materia societaria anche dinanzi ad organismi istituiti da enti privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza[287] e che siano iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia.
Tale previsione è attuata dal Titolo VI del decreto, dedicato alla conciliazione stragiudiziale.
L'articolo 38 prevede, infatti, che organismi di conciliazione possano essere costituiti presso enti pubblici o privati, e che questi possano, su istanza della parte interessata, tentare la conciliazione delle controversie nelle materie di cui all'articolo 1 del decreto (v. ante).
La costituzione degli organismi di conciliazione risulterà dall'iscrizione in un apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia (comma 1); contestualmente dovrà essere depositato anche il regolamento di procedura e le tabelle delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione costituiti da enti privati (comma 3). Per queste ultime l'articolo 38 prevede l'approvazione a norma dell'articolo 39.
Entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto legislativo, il Ministro della giustizia emana un regolamento con il quale disciplina i criteri e le modalità di iscrizione nel registro, la formazione dell'elenco e la sua revisione, l'iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti (comma 2).
L'articolo 39 si propone l'obiettivo di rendere economicamente vantaggioso il ricorso alla procedura di conciliazione, attraverso le seguenti misure:
§ esenzione dall'imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie o natura per tutti i provvedimenti attinenti al procedimento di conciliazione (comma 1).
§ esenzione dall'imposta di registro per il verbale di conciliazione, entro il valore di 25.000 euro (comma 2).
§ deducibilità dei costi di conciliazione dalle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche (comma 2).
Quanto alle indennità spettanti agli organismi di conciliazione costituiti da enti pubblici, l'articolo in commento prevede che il loro ammontare minimo e massimo, nonché il criterio di calcolo, siano stabiliti con regolamento del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia (comma 3); l'ammontare sarà poi rivalutato, in base agli indici ISTAT, ogni 3 anni (comma 4).
Anche gli organismi di conciliazione istituiti presso enti pubblici dovranno quindi depositare il regolamento di procedura e le tabelle delle indennità all'atto dell'iscrizione nel registro (comma 5).
Le caratteristiche principali del procedimento di conciliazione sono delineate nel successivo articolo 40.
Anzitutto, la disposizione prevede che i regolamenti di procedura - da depositarsi all'atto dell'iscrizione nel registro - debbano prevedere (comma 1):
· la riservatezza del procedimento. A tal fine il successivo comma 3 dispone che le dichiarazioni rese dalle parti nel corso del procedimento non possano essere utilizzate nell'eventuale giudizio promosso a seguito dell'insuccesso del tentativo di conciliazione (salvo che ai fini della valutazione del comportamento delle parti per la condanna alle spese);
· l'imparzialità e l'idoneità del conciliatore allo svolgimento sollecito dell'incarico.
Il procedimento si apre con un'istanza di conciliazione, proposta agli appositi organismi di cui al precedente art. 38 (comma 4). Dal momento della comunicazione alle altre parti l'istanza produce su prescrizione e decadenza gli stessi effetti della domanda giudiziale. In caso di fallimento del tentativo di conciliazione, però, la domanda giudiziale dovrà essere proposta entro il medesimo termine di decadenza (che sarà calcolato dal deposito del verbale che dà atto del fallimento della conciliazione).
Il procedimento di conciliazione, che si chiude con un verbale nel quale devono essere indicati gli estremi dell'iscrizione nel registro tenuto presso il Ministero della giustizia (comma 7), può avere i seguenti esiti:
§ esito positivo. Ai sensi del comma 8 viene redatto separato processo verbale, sottoscritto dalle parti e dal conciliatore. Tale verbale - omologato dal Presidente del Tribunale - costituisce titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, l'esecuzione in forma specifica o l'iscrizione di ipoteca giudiziale.
§ esito negativo. Il procedimento si conclude con una proposta rispetto alla quale ciascuna delle parti è chiamata ad esprimere la propria posizione nonché le condizioni in presenza delle quali sarebbe disposta a conciliare. Di tutto ciò si dà atto a verbale. Sempre con verbale il conciliatore darà eventualmente atto della mancata adesione di una parte al tentativo di conciliazione (comma 2). Della condotta della parte nel corso del tentativo di conciliazione terrà conto il giudice dell'eventuale successivo giudizio, ai fini della decisione sulle spese processuali (comma 5).
Inoltre, sempre laddove la controversia approdi davanti al giudice, se il contratto ovvero lo statuto della società prevedano una clausola di conciliazione e il tentativo non è stato esperito, questi, su istanza della parte interessata, dispone la sospensione del procedimento e fissa un termine (da 30 a 60 giorni) per il deposito dell'istanza di conciliazione (comma 6). Solo successivamente il processo potrà essere riassunto, se il tentativo non riesce.
In ogni caso però, la causa di sospensione si intende cessata decorsi 6 mesi dal provvedimento di sospensione.
Il titolo VII (artt. 41 e 42) contiene le norme transitorie e finali.
L'articolo 41 precisa che le disposizioni del decreto legislativo non si applicano ai giudizi già pendenti alla data della sua entrata in vigore l'unica eccezione è prevista per i provvedimenti cautelari emessi in corso di causa e per il giudizio abbreviato, ai sensi dell'articolo 24 del provvedimento (v. retro).
Infine, l'articolo 42 mira a raccogliere i dati sulla durata dei procedimenti delineati dal decreto legislativo. A tal fine dispone che:
§ il Ministero della giustizia approvi modelli, anche telematici, per la rilevazione del dato della durata media dei procedimenti (comma 1);
§ che tali modelli siano messi a disposizione degli uffici di cancelleria dei Tribunali, delle Corti d'appello e della Corte di Cassazione e che i relativi risultati vengano comunicati tempestivamente al Ministero (comma 2);
§ che il Ministro della giustizia renda pubblici i dati stessi e li comunichi annualmente al Ministro dell'economia (comma 2);
§ che il dato sulla durata media dei procedimenti sia reso noto anche nel corso della tradizionale relazione sullo stato dell'amministrazione della giustizia, da parte del Procuratore generale della Cassazione (comma 3).
Come accennato, la disciplina del nuovo processo societario è stata oggetto di specifiche modifiche, prima da parte del D.Lgs 37/2004 e successivamente ad opera del D.Lgs 310/2004.
La novella di cui al decreto legislativo 6 febbraio 2004, n. 37[288]è contenuta nell’articolo 4 che introduce puntuali modifiche al D.Lgs 5/2003:
§ la lettera a) modifica l'articolo 1 del decreto (ambito di applicazione), precisando che il rito trova applicazione anche alle controversie promosse contro il soggetto incaricato della revisione contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti della società che ha conferito l'incarico e nei confronti dei terzi danneggiati.
§ la lettera b) modifica l'articolo 2 (contenuto dell’atto di citazione) chiarendo, per eliminare ogni incertezza al riguardo, che anche i termini contenuti nella citazione possono essere abbreviati secondo il procedimento ordinario previsto dall'articolo 163-bis, comma 2, del codice di procedura civile e sono abbreviati ex lege alla metà in ipotesi di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, caso in cui resta applicabile la procedura prevista dagli articoli 648 e 649 del codice di rito.
§ la lettera c) modifica l'articolo 3 del decreto (costituzione dell’attore), provvedendo a sopprimere il riferimento all'abbreviazione dei termini, compresa ora nella previsione generale dell'articolo 2 comma 2.
§ la lettera d) modifica l'articolo 4 (comparsa di risposta) chiarendo che la sanzione per l'omissione delle previsioni sul contenuto della citazione è la decadenza.
§ la lettera e) modifica l'articolo 5 del decreto (forme e termini per la costituzione del convenuto), precisando che il termine per la costituzione del convenuto decorre dalla notificazione al procuratore dell'attore della comparsa di risposta.
§ la lettera f) modifica l'articolo 6 del decreto (memorie di replica dell’attore), precisando la sanzione di decadenza per l'omissione degli adempimenti ivi descritti.
§ la lettera g) modifica l'articolo 7 (repliche ulteriori), adeguando i vari termini contenuti per repliche e memorie all'unico e più agevole termine di 20 giorni e precisando al numero 4), in un ottica di mera chiarificazione, essendo tale conclusione già rinvenibile nel sistema complessivo del processo societario, che l'onere di allegazione delle eccezioni in senso stretto in ipotesi di reconventio reconventionis è stabilito a pena di decadenza.
§ la lettera h) modifica l'articolo 8 del decreto (istanza di fissazione di udienza), adeguando i termini all'unico termine di 20 giorni, apportando alcune precisazioni terminologiche e chiarendo al comma 3 che l'istanza di fissazione può essere proposta anche dal terzo intervenuto volontariamente nel processo.
§ la lettera i) modifica l'articolo 10 (effetti della notificazione di istanza di fissazione dell’udienza), eliminando il riferimento alla non rilevabilità d’ufficio delle eccezioni.
§ la lettera l) modifica l'articolo 11 del decreto (istanza congiunta di fissazione di udienza), adeguando il riferimento temporale ai giorni (90) anziché ai mesi (tre).
§ la lettera m) modifica l'articolo 13 del decreto (contumacia dell’attore), da un lato precisandosi che l'istanza di fissazione di udienza va sempre notificata e che la tardiva costituzione per il convenuto è data dall'omessa notificazione della comparsa di costituzione, dall'altro adeguando i riferimenti dell'articolo alle ipotesi di decadenza contenute nel decreto e chiarendo espressamente le modalità di deduzione della relativa eccezione.
§ la lettera n) modifica l'articolo 19 (procedimento sommario di cognizione. ambito di applicazione) chiarendo che la trasformazione del rito da sommario in ordinario deve essere disposta in tutte le ipotesi in cui il giudice non ritenga la causa definibile con il rito sommario.
§ la lettera o) modifica l'articolo 29 del decreto (procedimento in confronto di una parte sola. ambito di applicazione), aggiungendo nell'ambito di applicazione del rito camerale nei confronti di una sola parte anche alle azioni connesse alla nomina del rappresentante comune degli azionisti indicati nell'articolo 2347 del codice e alla nomina dell'amministratore provvisorio di cui all'articolo 2468 del codice.
§ la lettera p) modifica l'articolo 32 (prosecuzione del procedimento nelle forme del rito ordinario), specificando per ragioni di chiarezza che il rinvio in esso contenuto è da intendersi riferito sia all'udienza prevista dall'articolo 31 che a quella disciplinata dall'articolo 30 del decreto.
§ la lettera q) modifica l'articolo 33 del decreto (ambito di applicazione), includendo nell'ambito di applicazione del rito camerale plurilaterale, per evidenti ragioni di coordinamento, anche il procedimento di nomina dei liquidatori della società semplice, disciplinato dall'articolo 2275 del codice.
§ la lettera r) modifica l'articolo 35 del decreto (disciplina inderogabile del procedimento arbitrale), prevedendo che anche i provvedimenti resi dagli arbitri durante il lodo societario debbano essere iscritti nel registro delle imprese a cura degli amministratori.
§ la lettera s) modifica l'articolo 37 (risoluzione di contrasti sulla gestione di società) estendendo il rinvio ivi previsto non solo alle modalità previste nello statuto, ma anche a quelle contenute nell'atto costitutivo.
§ la lettera t) precisa che il particolare procedimento conciliativo descritto nell'articolo 40 trova applicazione solo in caso di consenso di entrambe le parti, applicandosi in caso contrario i sistemi conciliativi già esistenti.
Successivamente il titolo I (artt. 1-6) del decreto legislativo 28 dicembre 2004, n. 310[289].ha introdotto modifiche agli artt. 5, 7, 8 10 17 e 30 del D.Lgs 5/2003.
§ l’articolo 1 introduce una integrazione formale all'articolo 5 del decreto 5/2003 (forme e termini per la costituzione del convenuto), precisando che il termine per la costituzione del convenuto decorre anche dalla scadenza del termine di cui all’art. 3, comma 2 dello stesso decreto;
§ l’articolo 2 interviene sull’articolo 7 del suddetto decreto legislativo, in cui si disciplinano le repliche e le controrepliche che le parti processuali possono scambiarsi in alternativa alla richiesta di fissazione di un’udienza. In particolare:la lettera a) mira a “correggere una possibile evenienza connessa all’esistenza del termine massimo di ottanta giorni per lo scambio delle memorie tra le parti” si prevede infatti la possibilità che il giudice assegni – ai fini del rispetto del contraddittorio - un termine ulteriore (compreso tra dieci e venti giorni) per replicare alla parte cui tale attività sia stata preclusa dal comportamento dell’altra, consistente nella introduzione di un fatto o di una contestazione nuovi a ridosso della scadenza suddetta; la lettera b) provvede ad integrare la disciplina recata dall’articolo 7 mediante una norma che la renda applicabile anche ai processi con pluralità di parti: si specifica, infatti, che in tali ipotesi il termine per ulteriori repliche sia compreso tra venti e quaranta giorni e decorra dall’ultima delle notificazioni effettuate.
§ gli articoli 3 e 5, modificando rispettivamente l’articolo 8, relativo alla istanza di fissazione dell’udienza, e l’articolo 17 del D.Lgs 5/2003, concernente le notificazioni e le comunicazioni, ne adeguano il contenuto alla previsione di un processo con pluralità di parti.
§ l’articolo 4, aggiungendo un comma all’articolo 10 del decreto legislativo n. 5, dispone che la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, che pone fine allo scambio di memorie tra le parti e conclude la fase preliminare del rito, renda non contestabili i fatti allegati dalle parti nei documenti processuali (atto di citazione, comparsa di risposta, repliche, controrepliche); una analoga previsione è contenuta al comma 2 dell’articolo 13 del medesimo decreto, in cui si specifica che, in caso di contumacia del convenuto, “i fatti affermati dall’attore si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa”
§ l’articolo 6, infine, provvede a correggere un errato rinvio operato dall’articolo 38, comma 2 (organismi di conciliazione) del decreto legislativo n. 5/2003.
La materia delle procedure concorsuali, disciplinate dal regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (cd. legge fallimentare),recante la disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) è stata significativamente innovata nel corso della XIV legislatura: tale dato appare particolarmente rilevante in considerazione della circostanza che, nelle precedenti legislature, non è stata approvata nessuna modifica organica di tale settore. Su alcune norme del R.D. 267/42 citato, tuttavia, erano intervenute in periodi diversi pronunce della Corte costituzionale.
Vanno innanzitutto menzionate le modifiche che alla legge fallimentare sono state introdotte ad opera del decreto legge 14 marzo 2005 n. 35[290],convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80; in particolare il decreto legge, all’articolo 2, commi 1 e 2, ha dettato alcune urgenti disposizioni in ordine all’istituto della revocatoria ed alla procedure di concordato preventivo.
Quanto all’istituto della revocatoria fallimentare, esso viene ridisciplinato sotto due aspetti:
§ sono precisati i presupposti per l’esercizio dell’azione;
§ è inserito un regime di esenzioni dalla revocatoria;
La revisione della disciplina relativa agli atti soggetti a revocatoria giudiziale promossa dal curatore riguarda sia gli atti c.d. “anormali” che quelli “normali”.
Per gli atti anormali, quelli cioè per i quali lo stato di insolvenza si presume, le novità normative sono essenzialmente due ed attengono:
§ al limite temporale previsto per la revocatoria fallimentare, che è stato sensibilmente ridotto[291].
§ al limite della sproporzionefra la prestazione a carico del fallito e quella a carico della controparte: a seguito della novella non è richiesta una generica “notevole” sproporzione, ma una sproporzione di “oltre un quarto” fra le prestazioni in sinallagma.
Per quanto concerne invece gli atti normali, quelli cioè per i quali è il curatore a dover provare che il terzo conosceva lo stato di insolvenza quando l’atto fu compiuto, oltre alla previsione un limite temporale inferiore al quale risalire ai fine di una possibile revocatoria (sei mesi), la novella prevede un ampliamento della categoria, che comprende ora anche agli atti costitutivi di un diritto di prelazione per debiti di terzi.
Il nuovo testo prevede poi una serie di atti che sono espressamente sottratti alla revocatoria fallimentare.
Con riguardo agli effetti della revocatoria, la novella introduce due importanti novità:
§ la precisazione che in alcune particolari ipotesi tipizzate (come quella dei pagamenti avvenuti tramite gli intermediari specializzati) la revocatoria ha effetto nei confronti del destinatario della prestazione e non dell’intermediario;
§ l’introduzione di casi nei quali il terzo non deve restituire tutto qualora venga provata dal curatore la sua conoscenza dello stato di insolvenza, ma una somma pari alla differenza fra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data di apertura del concorso. Questa limitazione è prevista come applicabile ai soli atti estintivi di rapporta continuativi o reiterati.
In materia di concordato preventivo, la novella modifica il titolo III del R.D. 267/1942, aggiungendo un nuovo istituto: quello degli “accordi di ristrutturazione”.
Inoltre sostituisce i requisiti di meritevolezza per l’accesso al concordato con un piano che può essere proposto ai creditori e che può prevedere:
§ la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma;
§ l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore;
§ la suddivisione dei creditori in classi;
§ trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi differenti.
Quanto alla disciplina della domanda di accesso al concordato, si prevede che con il relativo ricorso il debitore debba presentare :
§ una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa;
§ uno stato analitico ed estimativo delle attività e l'elenco nominativo dei creditori, con l'indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
§ l'elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore;
§ il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili. Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista di cui all'articolo 28 che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
In relazione al ruolo del Tribunale nella fase di ammissione al concordato preventivo, il nuovo testo prevede esso svolga un ruolo di verifica della completezza e della regolarità della documentazione (non più un giudizio sulla ammissibilità). In caso di presenza di diverse classi di creditori, la valutazione avrà ad oggetto anche la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi.
Viene fissato, inoltre, un termine più ampio - non superiore ai quindici giorni (non più otto) – entro il quale il ricorrente deve depositare in cancelleria, su ordine del Tribunale, la somma che si presume necessaria per l’intera procedura. Qualora la stessa non venga depositata il commissario (non più il tribunale) provvede alla dichiarazione di fallimento.
Con il nuovo sistema introdotto dalla conversione del decreto legge anche l’approvazione del concordato da parte dei creditori ha subito delle modifiche. Per l’ammissione diviene necessario il voto favorevole non della maggioranza dei creditori votanti, ma della maggioranza dei crediti ammessi al voto. Qualora, inoltre siano previste diverse classi di creditori, il concordato verrà approvato qualora riporti il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto per ciascuna classe di appartenenza.
E’ prevista altresì la possibilità che il tribunale, verificate le prescritte maggioranze, approvi il concordato anche se vi è il dissenso di uno o più classi di creditori. Tale valutazione dell’organo giudicante potrà essere operata preliminarmente qualora ricorrano entrambe le seguenti condizioni:
§ la maggioranza delle classi abbia approvato la proposta;
§ i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare comunque soddisfatti, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. Nell’ambito del nuovo concordato è previsto che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, abbiano diritto al voto solo qualora rinuncino alla prelazione. In questo modo, e solo ai fini del concordato verranno assimilati ai creditori chirografari.
Innovazioni sono previste anche in tema di procedura.
Diviene il tribunale (al posto del giudice delegato) l’organo competente alla fissazione dell’udienza di comparizione, che si svolgerà in camera di consiglio con la partecipazione del debitore, del commissario, e degli eventuali creditori dissenzienti. Questi soggetti legittimati dovranno costituirsi almeno dieci giorni prima con una memoria che conterà tutte le deduzioni, eccezione e le istanze istruttorie. Qualora il debitore non si costituisca, non potrà presenziare all’udienza. Tuttavia il tribunale, anche di ufficio, potrà assumere, eventualmente delegando uno dei componenti del collegio, tutte le informazioni e le prove che riterrà necessarie per la formazione di un proprio convincimento.
Nello stesso termine il commissario giudiziale depositerà il proprio parere che dovrà essere motivato. L’ approvazione del concordato, secondo le modalità di cui all’art. 177, avverrà con decreto motivato che sarà comunicato al debitore ed al commissario. Sarà lo stesso commissario a darne notizia ai creditori. E’ previsto anche il deposito da parte del debitore delle eventuali somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irripetibili.
Infine la novella introduce un nuovo istituto: l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Il legislatore consente al debitore di depositare un accordo raggiunto con quei creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti. Dovrà essere altresì depositata una relazione redatta da un esperto che garantisca la attuabilità e la idoneità dell’accordo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L’accordo diviene efficace trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione nel registro delle imprese qualora ne i creditori né ogni altro interessato vi si oppongano. Il decreto di omologa è reclamabile entro quindici giorni dalla sua pubblicazione.
Il comma 2-bis ha previsto che alcune delle norme poste dall’articolo 2 (comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i)) siano applicabili anche ai procedimenti di concordato preventivo pendenti e non ancora omologati alla data del 17 marzo 2005 (giorno di entrata in vigore del decreto-legge).Conseguentemente, alle procedure di concordato preventivo in corso alla data indicata, sono risultate applicabili le disposizioni che modificano il titolo III (ora denominato Del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione) del R.D 267/1942.
Esse sostituiscono i requisiti di meritevolezza per l’accesso al concordato con un piano che può essere proposto ai creditori e che può prevedere:
§ la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma;
§ l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore;
§ la suddivisione dei creditori in classi;
§ trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi differenti.
Nel corso del dibattito per la conversione del decreto-legge, è stata inserita nel disegno di legge di conversione, attraverso la presentazione di un emendamento governativo, una delega al Governo per una riforma organica e coerente di tutta la materia delle procedure concorsuali (art. 1, comma 5).
L’indicazione dei principi e criteri direttivi cui deve informarsi il Governo è contenuta nel successivo comma 6.
La tecnica normativa prescelta consiste nella enunciazione di tre “principi-base”, delineati nelle lettere a), b) e c), ad alcuni dei quali segue una ulteriore enumerazione di principi direttivi, per così dire, di “secondo” e “terzo grado”.
Tra i cennati “principi-base” il comma 6 annovera:
§ “modificare la disciplina del fallimento” secondo i principi di “secondo grado” enumerati nel prosieguo della lettera a), numeri da 1) a 14, ad esempio valorizzando il ruolo del comitato dei creditori, specificando le competenze professionali dei curatori, intervenendo sulla disciplina dell’azione revocatoria, privilegiando la continuazione dell’esercizio dell’impresa, modificando la disciplina del concordato fallimentare ed introducendo ex novo l’istituto dell’esdebitazione, ecc…);
§ prevedere l’abrogazione dell’amministrazione controllata (lettera b);
§ prevedere che i crediti di rivalsa verso il cessionario previsti dalle norme relative all’imposta sul valore aggiunto, se relativi alla cessione di beni mobili, abbiano privilegio sulla generalità dei mobili del debitore con lo stesso grado del privilegio generale di cui agli articoli 2752 e 2753 del codice civile, cui tuttavia è posposto (lettera c);
Sulla base della citata norma di delega è stato quindi emanato il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica delle procedure concorsuali), che interviene in profondità sulla legge fallimentare di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
Per quanto riguarda il contenuto del decreto, va ricordato che esso si suddivide in diciotto capi[292] e 153 articoli. Considerato, pertanto, l’elevato numero di disposizioni recate dal provvedimento, ci si limiterà, in questa sede, a dar conto delle novità di maggior rilievo introdotte nella disciplina fallimentare ed a una sintetica illustrazione del contenuto dei Capi del decreto legislativo.
I principali profili di novità dell’intervento riguardano:
§ l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto del fallimento; l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie relative;
§ la valorizzazione del ruolo e dei poteri del curatore fallimentare e del comitato dei creditori (a fronte del ridimensionamento di quelli del giudice delegato);
§ la conservazione delle componenti positive dell’impresa (beni produttivi e livelli occupazionali);
§ l’introduzione della disciplina dell’esdebitazione, cioè la liberazione del debitore dai debiti residui nei confronti dei creditori in taluni casi di buona condotta;
§ la riduzione delle ipotesi di incapacità del fallito allo scopo di agevolarne il reinserimento sociale.
La riforma, coerentemente con la normativa comunitaria, realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti, e riconduce al concordato preventivo la disciplina della transazione in sede fiscale per insolvenza o assoggettamento a procedure concorsuali.
Il Capo I contiene le modifiche del Titolo I della legge fallimentare, e, segnatamente, degli articoli 1, 3 e 4.
Il Capo II contiene le modifiche del Titolo II, Capo I, della legge fallimentare, in particolare degli articoli da sei a ventidue.
Il Capo III contiene le modifiche del Capo II del Titolo II della legge fallimentare, in particolare degli articoli da 23 a 41. Questo Capo, dedicato agli organi della procedura di fallimento, modifica in misura rilevante la normativa previgente, sia con riferimento alla specificazione di competenze dettagliate per ciascuno degli organi, sia per una diversa allocazione dei poteri e delle rispettive competenze.
Il Capo IV modifica il Capo III del titolo II della legge fallimentare dedicato agli effetti del fallimento e segnatamente gli articoli da 42 a 83-bis.
Le modifiche del titolo in commento risentono degli stringenti limiti della delega che non hanno permesso di intervenire, oltre i necessari coordinamenti, sulla sezione II relativa agli effetti del fallimento per i creditori e alla sezione III, quest’ultima peraltro oggetto di novella da aprte del decreto legge 35/2005, convertito nella legge 80/2005, relativo agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli dei creditori.
Il Capo V contiene le modifiche del Capo IV del Titolo II della legge fallimentare e, segnatamente, degli articoli da 84 a 90. Esso disciplina la custodia e l’amministrazione delle attività fallimentari. Tenuto conto dell’evoluzione normativa europea e, in particolare, delle più recenti leggi in materia di insolvenza entrate in vigore in Spagna e Germania, nonché del criterio di delega che consente una nuova allocazione dei poteri e delle competenze degli organi delle procedure fallimentari, è emersa l’esigenza di contemplare nuove norme dirette a regolare il quomodo della acquisizione dei beni all’attivo da destinare al soddisfacimento dei creditori.
Il Capo VI contiene le modifiche del Capo V del Titolo II della legge fallimentare e, segnatamente, degli articoli da 92 a 103. In esecuzione del principio di delega, che impone di abbreviare i tempi della procedura al fine di realizzare il massimo grado di economia dei mezzi giudiziari e di semplificare le modalità di presentazione delle domande, è stata rivisitata la disciplina dell’accertamento del passivo e delle correlate impugnazioni, puntando su un modello unitario di procedimento, nel contesto del quale siano ben distinguibili i ruoli delle parti (creditori istanti e curatore) e del giudice delegato, e sia ben definito il sistema delle impugnazioni, sulla base di una serie di principi esattamente definiti.
Il Capo VII contiene le modifiche del Capo VI sulla liquidazione dell’attivo, del Titolo II della legge fallimentare, in particolare, degli articoli da 104 a 110.
Coerentemente con l’impostazione della delega verso una semplificazione ed una maggiore efficienza della procedura, il decreto legislativo ha tenuto conto, in materia di liquidazione e ripartizione dell’attivo, delle prassi già poste in essere da alcuni tribunali che da tempo adottano soluzioni liquidatorie che privilegiano la rapidità e duttilità delle operazioni di cessione, cercando di superare le farraginose e poco efficienti norme sulle vendite, modellate sul sistema delle esecuzioni coattive individuali. Sono quindi state adottate nuove scelte per quanto attiene alla ridefinizione dei ruoli del giudice delegato, del curatore e del comitato dei creditori e dell’individuazione dei più opportuni adempimenti procedurali improntati a semplicità e rapidità; sostanzialmente la scelta è stata quella di una minore giurisdizionalizzazione del procedimento, in cui il curatore diviene il vero motore della procedura ed al giudice viene riservata una funzione di controllo sulla regolarità della stessa e di organo preposto alla soluzione dei conflitti endoconcorsuali.
Il Capo VIII contiene le modifiche del Capo VII, relativo alla ripartizione dell’attivo, del titolo II della legge fallimentare, in particolare, degli articoli da 110 a 117.
Anche la disciplina di tale aspetto è stata improntata al principio della speditezza ed economicità, essendo stata prevista la pronta distribuzione dei ricavati man mano che si realizzano.
Il Capo IX modifica il capo VIII della legge fallimentare, ed, in particolare la sezione I dedicata alla chiusura del fallimento (articoli da 118 a 123), e la sezione II dedicata al concordato fallimentare (articoli da 124 a 141). Anche se l’impianto della legge è stato conservato, sono state previste ulteriori ipotesi specifiche di chiusura ed è stato introdotto il reclamo innanzi alla Corte d’appello del decreto che respingeva la richiesta di chiusura.
Il Capo X modifica la sezione II del capo IX del Titolo II della legge fallimentare che viene ex novo rubricata della esdebitazione, e, segnatamente, degli articoli da 142 a 145. L’istituto della esdebitazione, pur ispirato a categorie già presenti nella normativa europea od americana, costituisce un assoluta novità per il sistema italiano e consiste nella incentivante liberazione del debitore persona fisica dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti integralmente, seppure in presenza di certe condizioni. L’obbiettivo è quello di recuperare l’attività economica del fallito per permettergli un nuovo inizio, una volta azzerate tutte le posizioni debitorie. Vengono stabilite alcune particolari condizioni per poter accedere a tale istituto e quest’ultimo è stato strutturato in modo tale da evitare che, nella applicazione pratica, possa incentivare distorsioni nei comportamenti del debitore insolvente.
Il Capo XI contiene le modifiche della sezione II del capo X , rubricata del fallimento delle società, del Titolo II della legge fallimentare e, segnatamente, degli articoli da 146 a 153.
Il Capo XII contiene le modifiche del Capo IX del Titolo II della legge fallimentare, rubricato ex novo dei patrimoni destinati ad uno specifico affare e, segnatamente, degli articoli da 155 a 159.
Il Capo XIII contiene le modifiche al Capo I del titolo III della legge fallimentare rubricato dell’ammissione alla procedura di concordato fallimentare, e, segnatamente, degli articoli 164 e 166.
Il Capo XIV contiene le modifiche al Capo II del titolo III della legge fallimentare, rubricato degli effetti dell’ammissione al concordato preventivo e, segnatamente, degli articoli 167 e 169.
Il Capo XV contiene le modifiche al Capo V del titolo III della legge fallimentare rubricato ex novo dell’omologazione e dell’esecuzione del concordato preventivo.
Il Capo XVI contiene l’abrogazione del titolo IV della legge fallimentare, rubricato dell’amministrazione controllata.
Il Capo XVII contiene modifiche al titolo V della legge fallimentare, rubricato della liquidazione coatta amministrativa e, segnatamente, degli articoli 195 e 213.
Il Capo XVIII, infine, contiene la disciplina transitoria, le abrogazioni e l’entrata in vigore del decreto legislativo.
Il decreto legge 21 maggio 2003, n. 112[293], convertito dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 detta disposizioni incidenti sulla disciplina dello svolgimento degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense.
Lo scopo dell’intervento normativo è quello di adottare iniziative in grado di assicurare una maggiore omogeneità degli esiti nonché un maggior rigore complessivo della prova d’esame: i dati statistici, infatti, hanno rivelato un numero di candidati promossi notevolmente elevato e con provenienza del tutto disomogenea, posto che in talune sedi si registrava un ingente afflusso di candidati, con percentuali di promossi fortemente elevate rispetto al numero degli ammessi a sostenere l’esame, mentre in altre sedi le percentuali di promossi erano molto ridotte, con conseguente disparità di trattamento.
Con queste finalità, l’articolo 1 del provvedimento, modificando l’articolo 9 del D.P.R. 101/1990[294], incide sulla disciplina del certificato di compiuta pratica[295], stabilendo che quest’ultimo sia rilasciato non più dal Consiglio dell’ordine del luogo ove è stato effettuato l’ultimo semestre di pratica, bensì dal Consiglio dell’ordine del luogo dove il praticante ha svolto la maggior parte della pratica, ovvero, in caso di parità, del luogo ove la pratica è iniziata. Viene inoltre stabilito che il certificato di compiuta pratica non possa essere rilasciato più di una volta.
In caso di trasferimento del praticante, il Consiglio dell’ordine di provenienza certifica l’avvenuto accertamento sui periodi precedenti.
Poiché viene confermato il principio secondo cui tale certificato determina il distretto di Corte di appello presso cui il praticante può sostenere gli esami di avvocato, risulta evidente che le modifiche dettate dal provvedimento sono dirette a contrastare la prassi di trasferimento del praticante nell’ultimo semestre che precede la conclusione della pratica al solo fine di scegliere la sede d’esame.
Pertanto, pur salvaguardando la libertà di circolazione dei praticanti, viene comunque resa meno agevole la scelta della sede d’esame poiché il certificato verrà rilasciato dal Consiglio dell’Ordine del luogo in cui la pratica è stata svolta per oltre un anno o, in caso di parità, da quello in cui la pratica è iniziata; inoltre, escludendo che possa essere rilasciato un nuovo certificato di compiuta pratica si vuole evitare che il candidato possa successivamente svolgere un nuovo periodo di pratica presso la sede prescelta d’esame.
L’articolo 1-bis interviene principalmente sulla struttura organizzativa delle Commissioni costituite in vista dell’esame di abilitazione, modificando la disciplina recata in materia dall’art. 22 del R.D.L. n. 1578/1933[296].
La novella introduce innanzitutto la previsione secondo la quale gli esami di avvocato hanno luogo contemporaneamente presso ciascuna Corte di appello, sopprimendo il precedente riferimento allo svolgimento degli esami nel mese di dicembre di ogni anno. Viene invece confermata la previsione secondo cui i temi per ciascuna prova sono dati dal Ministro della giustizia.
Alla precedente modalità organizzativa, articolata unicamente in commissioni esaminatrici istituite presso le Corti di appello, la legge aggiunge la novità dell’istituzione presso il Ministero della giustizia di una commissione “centrale” con i compiti che saranno più avanti illustrati.
Tale commissione viene istituita con decreto del Ministro della giustizia da emanare entro trenta giorni dalla pubblicazione del bando di esame, e dovrà essere composta da cinque membri titolari e cinque supplenti, dei quali:
§ due titolari e due supplenti, avvocati iscritti all’Albo da almeno dodici anni;
§ due titolari e due supplenti, magistrati con qualifica non inferiore a magistrato di Corte di appello;
§ un titolare e un supplente, professori ordinari o associati in materie giuridiche presso sedi universitarie italiane o presso istituti superiori.
Con il medesimo decreto, presso ogni Corte d’appello è nominata una sottocommissione avente composizione identica alla commissione “centrale”.
Il presidente e il vicepresidente della commissione e di ogni sottocommissione sono nominati dal Ministro, che li sceglie tra i componenti avvocati.
La legge specifica inoltre i criteri di designazione dei componenti della commissione e della sottocommissione.
In particolare:
§ gli avvocati sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni non possono candidarsi ai rispettivi consigli dell'ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto;
§ i magistrati sono nominati nell'àmbito delle indicazioni fornite dai presidenti delle Corti di appello.
Si prevede che a ciascuna sottocommissione non possa essere assegnato un numero di candidati superiore a trecento; pertanto, qualora il numero dei candidati che hanno presentato la domanda di ammissione sia superiore, un decreto del Ministro della giustizia da emanare prima dell'espletamento delle prove scritte dovrà nominare presso ciascuna Corte di appello ulteriori sottocommissioni, costituite in base ai criteri sopra descritti.
Quanto ai compiti della commissione istituita presso il Ministero della giustizia, la legge prevede che essa debba definire i criteri per la valutazione degli elaborati scritti e delle prove orali, dandone comunicazione alle sottocommissioni. La commissione è comunque tenuta a comunicare i seguenti criteri di valutazione:
§ chiarezza, logicità e rigore metodologico dell'esposizione;
§ dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
§ dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
§ dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
§ relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Inoltre, la commissione riceve, da parte delle sottocommissioni, le comunicazioni in ordine ai provvedimenti da esse adottati nel caso in cui in sede di esame siano state rilevate irregolarità formali, avvalendosene per definire la linea difensiva dell'Amministrazione in sede di contenzioso.
L’articolo 1-ter novella l’art. 16 del R.D. n. 37/1934 per sostituire la locuzione precedentemente impiegata di “commissione esaminatrice”, con la nuova denominazione di “sottocommissione”.
L’articolo 2, aggiungendo due commi all’articolo 15 del R.D. n. 37/1934[297], introduce il meccanismo del sorteggio nell’abbinamento tra i candidati individuati presso ciascuna Corte d’appello e le sedi di Corte d’appello in cui avranno luogo le operazioni di correzione degli elaborati scritti.
Il sorteggio viene effettuato previo raggruppamento delle sedi di Corte d'appello che presentino caratteristiche omogenee in relazione al numero di domande di ammissione presentate, in modo che gli abbinamenti sottocommissioni-candidati garantiscano l’efficienza del sistema.
La prova orale avrà invece luogo nella medesima sede della prova scritta.
Sostanzialmente, quindi, al fine impedire qualsiasi efficacia al trasferimento della pratica ai fini della scelta della sede d’esame, pur continuando a rappresentare le Corti di appello il riferimento sia per l’individuazione del numero dei candidati che per la formazione delle sottocommissioni, ai fini della prova scritta viene eliminata la coincidenza tra commissioni esaminatrici e candidati.
Tale procedura è ulteriormente precisata nell’articolo 3 con il quale, anteponendo due commi all’articolo 23 del R.D. 37/1934 – disciplinante le modalità di correzione degli elaborati scritti negli esami di avvocato -, viene attributo al Presidente della Corte d’appello, informato dal presidente della commissione della conclusione delle prove scritte, il compito di disporre il trasferimento delle buste contenenti glielaborati redatti dai candidatipresso la Corte d’appello abbinata in base al sorteggio e in cui, a opera delle sottocommissione ivi istituita, dovranno svolgersi le operazioni di correzione.
La consegna va effettuata tramite l’ispettore di polizia penitenziaria appositamente delegato dal Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Il Presidente della Corte d’appello “ricevente” ordina quindi la consegna delle buste pervenute ai presidenti delle sottocommissioni ivi insediate, i quali, attestatone il corretto ricevimento, dispongono l’inizio delle operazioni di revisione degli elaborati scritti.
Una volta concluse le operazioni di correzione, gli elaborati verranno rispediti, con le stesse modalità, alla Corte di appello di appartenenza dei candidati, unitamente ai verbali attestanti le operazioni di correzione e i giudizi espressi, per essere riconsegnati alle sottocommissioni ai fini dello svolgimento della prova orale.
In sede di conversione è stato soppresso l’articolo 4 del decreto-legge volto ad escludere che i candidati, in sede d’esame, potessero consultare i codici commentati con la giurisprudenza.
L’articolo 5, novellando l’art. 17-bis del regio decreto n. 37/1934, aggiunge il diritto comunitario tra le materie che possono costituire oggetto della prova orale.
Il citato articolo 17- bis disciplina le prove di esame dell’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, prevedendo tre prove scritte ed una prova orale.
Le prove scritte consistono nella redazione di due pareri motivati - in materia regolata dal codice civile e dal codice penale – e di un atto giudiziario – in materia di diritto privato, o penale, o amministrativo - .
La prova orale consiste nella discussione, dopo una succinta illustrazione delle prove scritte, di brevi questioni relative a cinque materie, di cui almeno una di diritto processuale, scelte in una rosa più vasta comprendente diritto costituzionale, diritto civile, diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto penale, diritto amministrativo, diritto tributario, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto internazionale privato, diritto ecclesiastico e nella dimostrazione di conoscenza dell’ordinamento forense e dei diritti e doveri dell’avvocato.
L’articolo 5-bis reca poi una norma di coordinamento ai sensi della quale i riferimenti alla commissione esaminatrice contenuti nel R.D.L. n. 1578/1933 e nel R.D. n. 37/1934 si intendono alla sottocommissione esaminatrice.
L’articolo 6 esclude dal novero delle sedi d’esame considerate ai fini degli abbinamenti, di cui agli articoli 2 e 3 sopra descritti, la sezione distaccata di Bolzano presso la Corte d’appello di Trento, in ragione della peculiarità della disciplina dettata dall’articolo 36-bis[298] del D.P.R. 15 luglio 1988, n. 574, con riferimento alla composizione della commissione esaminatrice, in attuazione del principio della tutela del bilinguismo.
La legge 25 novembre 2003, n. 339 interviene in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato.
In via generale, lo scopo dell’intervento normativo è quello di consentire la permanenza nell’ordinamento dei divieti contenuti nel Regio D.L. 1578/1933[299], che sanciscono l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato con qualunque impiego od ufficio pubblico.
Il R.D.L. 1578/1933, come integrato ed attuato dal R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, costituisce la fonte principale dell'ordinamento della professione di avvocato. Esso, nei nove titoli in cui è suddiviso, regolamenta la tenuta dell'albo professionale, fissa i requisiti per l'iscrizione, che è condizione imprescindibile per l'esercizio della professione di avvocato; disciplina la cancellazione dall'albo; dispone in materia di avvocati, Consiglio nazionale forense, onorari e rimborso delle spese.
In particolare, ai sensi di tale normativa l’esercizio della professione di avvocato è incompatibile con quello delle professioni ivi indicate[300] e con qualunque impiego o ufficio pubblico o privato[301]. Nei casi di incompatibilità, d’ufficio e su richiesta del Pubblico ministero, il Consiglio dell'ordine, dopo aver sentito l'interessato, dispone la cancellazione dall'albo (art. 37).
Con le finalità sopra menzionate, la legge n. 339 in commento prevede, all’articolo 1, la non applicabilità per l'iscrizione agli albi degli avvocati delle disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57 della legge n. 662/1996[302].
Tali disposizioni rispettivamente prevedono:
§ l'esclusione dell'applicabilità ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale e con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, delle vigenti disposizioni in materia di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi recate dal testo unico sul pubblico impiego[303] (comma 56);
§ l'abrogazione delle disposizioni che vietano l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attività professionali per i predetti soggetti, ferme restando quelle in materia di requisiti per l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle relative attività. Vi si specifica, peraltro, che ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche, e gli stessi non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione (comma 56-bis);
§ che il rapporto di lavoro a tempo parziale può essere costituito relativamente a tutti i profili professionali appartenenti alle varie qualifiche o livelli dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ad esclusione del personale militare, di quelle delle forze di polizia e del corpo nazionale dei vigili del fuoco (comma 57).
Per effetto del combinato disposto di tali disposizioni con l'articolo 3, secondo comma, del citato R.D.L. n. 1578/1933, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro part-time e con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento non si applica il divieto di iscrizione ad albi e di esercizio di attività professionali.
Ciò determinerebbe effetti negativi per la professione forense, in quanto sarebbe lesa sostanzialmente l'indipendenza del difensore e la inviolabilità del diritto di difesa, con conseguenze potenzialmente suscettibili di basare il prestigio del difensore sul suo potere nell'ambito dell'amministrazione anziché sulla sua professionalità.
La figura del difensore nell’ordinamento italiano trova diretto radicamento nell’articolo 24 della Costituzione e la norma sulla incompatibilità è di diretta derivazione da principi di civiltà giuridica atti ad assicurare con l’”indipendenza” (in senso ampio e tecnico di mancanza di subordinazione) del difensore, la inviolabilità del diritto di difesa.
Inoltre, mentre le leggi che regolano le altre professioni “liberali”, non ponendo queste ultime problemi in relazione alla tutela dell’inviolabilità del diritto di difesa, non prevedono l’assoluta incompatibilità con altro impiego retribuito, problemi di rilievo si pongono invece per la professione forense e, in particolare, per l’inviolabilità del diritto di difesa nei casi in cui l’avvocato sia contemporaneamente anche cancelliere, ufficiale giudiziario, dipendente non militare degli uffici finanziari o degli istituti previdenziali o amministrativi dei ministeri.
Pertanto, l'articolo 1 della legge n. 339, escludendo l’applicabilità delle disposizioni contenute nell’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57 della legge 662/1996 per i casi di iscrizione agli albi degli avvocati, caduca la possibilità che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni che si trovino nelle situazioni sopra precisate possano esservi iscritti, confermando così il regime di incompatibilità della professione forense con qualunque impiego od ufficio pubblico.
L’articolo 2 reca una norma transitoria volta a regolare le situazioni in cui, per effetto del regime introdotto dalla legge n. 662/1996, pubblici dipendenti abbiano ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Per essi, se ancora iscritti, la disposizione prevede la possibilità di optare per il mantenimento del rapporto di impiego, dandone comunicazione al Consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell'iscritto al proprio albo.
In tale ipotesi, il pubblico dipendente ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.
In alternativa, ed entro lo stesso termine di trentasei mesi, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli avvocati.
Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l'opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione di appartenenza. In tal caso, si prevede che l'anzianità maturata resti sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricominci a decorrere dalla data di riammissione.
La legge 28 novembre 2005 n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005 ha previsto (art. 7) una delega al Governo per l’adozione, entro un anno dalla sua data di entrata in vigore, di uno o più decreti legislativi per ilriassetto e la codificazione delle disposizioni vigenti in materia di ordinamento del notariato e degli archivi notarili, secondo i princìpi, i criteri direttivi e le procedure di cui all'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (cd. legge Bassanini 1), e successive modificazioni, nonché nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
§ semplificazione mediante riordino, aggiornamento, accorpamento o soppressione di adempimenti e formalità previsti dalla legge notarile 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), dal suo regolamento di esecuzione, il regio decreto 10 settembre 1914, n. 1326, e dalla legislazione speciale, non più ritenuti utili, anche sulla base di intervenute modifiche nella legislazione generale e in quella di settore, in particolare in materia di: redazione di atti pubblici e di scritture private autenticate, anche in lingua straniera o con l'intervento di soggetti privi dell'udito, muti o sordomuti; nullità per vizi di forma e sostituzione delle nullità, salvo che sussistano esigenze di tutela di interessi primari, con sanzioni disciplinari a carico del notaio, graduate secondo la gravità dell'infrazione; tirocinio professionale, concorsi, iscrizione al ruolo anche del notaio trasferito, con abolizione della cauzione e sua sostituzione con l'assicurazione e il fondo di garanzia di cui alla lettera e), numero 5); determinazione e regolamentazione delle sedi e assistenza alle stesse, permessi di assenza e nomina di delegati e coadiutori; custodia degli atti e rilascio di copie, estratti e certificati;
§ aggiornamento e coordinamento normativo degli ordinamenti del consiglio nazionale del notariato, dei distretti notarili, dei consigli distrettuali e degli archivi notarili;
§ ricorso generalizzato ai sistemi ed alle procedure informatiche, assicurando in ogni caso la certezza, sicurezza e correttezza dello svolgimento della funzione notarile, e attribuzione al notaio della facoltà di provvedere, mediante propria certificazione, a rettificare inequivocabili errori di trascrizione di dati preesistenti alla redazione dell'atto, fatti salvi i diritti dei terzi;
§ previsione che i controlli sugli atti notarili, compresi quelli stabiliti dal codice civile, da effettuare in sede di deposito per l'esecuzione di qualsiasi forma di pubblicità civile e commerciale, abbiano per oggetto solo la regolarità formale degli atti;
§ revisione dell'ordinamento disciplinare, mediante: istituzione, a spese dei consigli notarili distrettuali, di un organo di disciplina collegiale di primo grado, regionale o interregionale, costituito da notai e da un magistrato designato dal presidente della corte d'appello ove ha sede l'organo e previsione della competenza della stessa corte d'appello in sede di reclamo nel merito, ove previsto e comunque nei casi di infrazioni punite con sanzioni incidenti sull'esercizio della funzione notarile; aggiornamento, coordinamento e riordino delle sanzioni, con aumento di quelle pecuniarie all'attuale valore della moneta; previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale e revisione dell'istituto della recidiva; attribuzione del potere di iniziativa al procuratore della Repubblica della sede del notaio, al consiglio notarile e, relativamente alle infrazioni rilevate, al conservatore dell'archivio notarile; previsione dell'obbligo di assicurazione per i danni cagionati nell'esercizio professionale mediante stipula di polizza nazionale, individuale o collettiva, e costituzione di un fondo nazionale di garanzia per il risarcimento dei danni di origine penale non risarcibili con polizza, con conferimento al consiglio nazionale del notariato di tutte le necessarie e opportune facoltà anche per il recupero delle spese a carico dei notai
In attuazione della delega conferita dalla citata legge di semplificazione, il Governo ha presentato al Parlamento, per il prescritto parere, tre provvedimenti attuativi.
Due di essi, alla data di chiusura della XIV legislatura, non risultavano ancora pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Il decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonche' in materia di coadiutori notarili in attuazione dell'articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246, si prefigge l'obbiettivo di soddisfare le esigenze di semplificazione e di adeguamento della disciplina sull'accesso al notariato, alla luce del mutato quadro complessivo di riferimento in cui oggi opera il notaio.
A tal fine, sono state introdotte modifiche alle procedure di svolgimento del concorso notarile, alla pratica, ed al tirocinio obbligatorio successivo al concorso, tutti passaggi fondamentali in tema di accesso al notariato.
Il conseguimento di tali obbiettivi vuole essere perseguito attraverso le seguenti principali innovazioni:
§ abbreviazione del necessario periodo di pratica (da 24 a 18 mesi), con la possibilità di anticiparne l'inizio nel corso dell'ultimo anno di università, per un periodo massimo di sei mesi;
§ introduzione di un tirocinio obbligatorio dopo il superamento della prova orale;
§ elevazione a cinquanta anni del limite massimo di età per partecipare al concorso;
§ introduzione del diritto, una volta superata la prova preselettiva, di essere ammesso direttamente a sostenere anche le prove scritte di altri due concorsi immediatamente consecutivi, oltre quelle del concorso in atto;
§ un più rapido espletamento delle formalità concorsuali;
§ aggiornamento delle materie di esame;
§ introduzione del principio della valutazione complessiva della idoneità del candidato;
§ eliminazione di alcune delle principali cause di contenzioso relativo allo svolgimento del concorso.
Ne deriva un sostanziale potenziamento del concorso quale strumento diretto a valutare le capacità professionali ed a selezionare dei professionisti a cui lo Stato affida il delicato compito del controllo di legalità degli atti giuridici dagli stessi rogati o autenticati, al fine di garantire la sicurezza delle contrattazioni e la certezza dei rapporti giuridici.
L’articolo 1 del provvedimento modifica l'articolo 5 della legge notarile[304] consentendo di anticipare lo svolgimento del periodo di tirocinio nel corso dell'ultimo anno di frequenza universitaria, così creando uno stretto collegamento tra l'università ed il mondo delle professioni. Gli studenti avranno così la possibilità di orientarsi, già prima del conseguimento della laurea, nell'ambiente professionale.
Parimenti, al fine di accorciare i tempi di inserimento nel mercato lavorativo ed offrire ai laureati un maggior numero di opportunità, la pratica notarile viene ridotta da mesi ventiquattro a diciotto mesi.
Viene inoltre introdotto un tirocinio obbligatorio di centoventi giorni - da svolgere in qualunque distretto del territorio nazionale - per mettere in condizione il concorrente che abbia superato la prova orale del concorso di compiere una pratica effettiva e più consapevole accanto ad un notaio già in servizio.
La norma prevede, inoltre, che sia il praticante, che il candidato notaio possano rivolgersi al Consiglio Notarile, qualora abbiano difficoltà a reperire un notaio presso il quale effettuare la pratica o il tirocinio obbligatorio.
L’articolo 2 reca modifiche ai commi quinto, sesto e settimo dell'art. 5-bis della legge notarile. Il nuovo comma 5-bis riconosce il diritto a chi ha superato la prova di preselezione informatica di sostenere tre concorsi senza riaffrontarla. A tal proposito, la norma transitoria di cui all'articolo 16 riconosce anche a coloro che hanno superato l'ultima prova di preselezione prima dell'entrata in vigore della presente legge di sostenere i due prossimi concorsi). Il sesto comma esonera dalla prova di preselezione chi ha conseguito l'idoneità in un precedente concorso. Al comma 5-ter si introduce una facilitazione per i candidati in quanto si consente loro di utilizzare fogli per appunti durante l'espletamento della prova di preselezione per ovviare ad una oggettiva difficoltà dei candidati a risolvere casi pratici che presentano molte variabili e necessitano di schemi.
L’articolo 3 sostituisce il terzo comma dell'art. 5-ter della legge notarile e, considerato il più basso numero di candidati che sosterranno la prova preselettiva a seguito del “bonus” introdotto al comma 5-bis dell'articolo 5-bis, riducendo a tre volte i posti messi a concorso con un minimo di cinquecento, il numero di candidati ammessi a sostenere le prove scritte.
L’articolo 4 reca modifiche all'art. 45 della legge notarile, il cui quarto comma è stato recentemente modificato dall'articolo 23, comma 2, del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, attualmente in corso di conversione. Tale comma è stato riprodotto, salva qualche piccola variazione, nel comma 1 del nuovo articolo 45 e riguarda la possibilità, per il presidente del consiglio notarile, di nominare un coadiutore in sostituzione del notaio assente in permesso o temporaneamente impedito, per un periodo non inferiore ad un mese, quando non si procede alla nomina di un delegato ai sensi dell'articolo 44 legge notarile.
La norma di cui al nuovo comma 4 consente, inoltre, la nomina di un coadiutore anche in sostituzione dei notai nominati commissari di concorso notarile; e ciò al fine di consentire un'assidua partecipazione ai lavori della commissione di esame, senza soluzioni di continuità.
L’articolo 5 sostituisce l'articolo 13 del regio decreto 14 novembre 1926, n. 1953 (Disposizioni sul conferimento dei posti di notaro) e, nell'intento di accelerare i tempi della correzione, stabilisce in quindici il numero dei commissari e conferma la prassi di scegliere i commissari notai in un elenco di nominativi indicata, per ogni concorso, dal Consiglio Nazionale del Notariato. Precisa altresì che il commissario, che abbia preso parte attiva ai lavori della commissione, non possa far parte della commissione dei due concorsi successivi. Individua, inoltre, le modalità di composizione delle sottocommissioni durante la prova preselettiva, gli scritti e gli orali.
L’articolo 6 riformula l'art. 15 del regio decreto n. 1953/1926., sostituendo nella prova scritta, la materia di esame della volontaria giurisdizione con quella di diritto commerciale, materia, questa, che fa parte del normale bagaglio professionale e culturale di ciascun notaio.
L’articolo 7 novella l'articolo. 16 del regio decreto n. 1953/1926, includendo come prova orale la volontaria giurisdizione, eliminata dalle prove scritte.
Gli articoli 8, 9 e 10 novellano, rispettivamente, gli articoli 17, 19 e 22 del regio decreto n. 1953/1926. Il nuovo articolo 17 disciplina compiutamente le operazioni di svolgimento delle prove scritte, assicurando, pur in uno spirito di semplificazione della procedura, il corretto svolgimento delle stesse. La durata della prova è elevata a otto ore in coerenza con quella prevista per le prove del concorso in magistratura. Il novellato articolo 22 del regio decreto n. 1953/1926 detta le procedure e le formalità di correzione degli elaborati scritti, allo scopo di garantire maggiore celerità ed omogeneità delle valutazioni.
L’articolo 11 riformula l'art. 24 del regio decreto n. 1953/1926, introducendo un'importante innovazione, al fine di garantire una più completa valutazione delle capacità e della preparazione del candidato.
All'uopo, è prevista la necessaria valutazione complessiva degli elaborati scritti da parte della commissione. Con il nuovo sistema di attribuzione dei punteggi, viene poi eliminato uno dei principali motivi di ricorso; ovvero, quello relativo alla posizione dei candidati che si collocavano tra il minimo sufficiente di punti (pari, complessivamente, a novanta) ed il totale di punti (pari, complessivamente, a centocinque) richiesti per l'ammissione alle prove orali. L'introduzione della votazione collegiale finale per l'idoneità del candidato a sostenere la prova orale impedisce che, come nel sistema attualmente vigente, il giudizio finale possa essere sostanzialmente rinviato alla lettura dell'ultimo elaborato.
Si elimina, poi, un'altra frequente causa di ricorso, chiarendo che il giudizio di idoneità risulti esclusivamente dalla attribuzione del punteggio, senza altra motivazione. Mentre la motivazione è richiesta in caso di giudizio di non idoneità.
L’articolo 12 novella l'articolo 25 del regio decreto n. 1953/1926, definendo le regole per lo svolgimento delle prove orali, con particolare riguardo all'attribuzione dei punteggi in condizione di massima trasparenza. In materia di motivazione dei giudizi, sono ripetute disposizioni simili a quelle già previste per la correzione degli elaborati scritti.
L’articolo 13 reca, alla lettera a), modifiche all'articolo 1, terzo comma della legge 1365/1926, riportando, dopo le modifiche recate dalla legge n. 328/1995, a cinquanta anni il limite di età per la partecipazione al concorso notarile.
La lettera b) introduce il nuovo articolo 2-bis nella citata legge n. 1365/1926; la norma è diretta ad eliminare le problematiche sorte in passato, in occasione di alcune sentenze del Consiglio di Stato, garantendo certezza nei concorsi di prima nomina che potrebbero essere pregiudicati nel caso di pronunce del giudice amministrativo. Infatti la decisione del giudice amministrativo può determinare gravi conseguenze nel caso in cui intervenga una volta che sia stato adottato il decreto di nomina a notaio, contenente l'assegnazione della relativa sede per tutti gli altri concorrenti del medesimo concorso, con il rischio che il ricorrente, inserito tardivamente nella graduatoria, potrebbe ambire ad occupare il posto assegnato e ormai ricoperto, anche da anni, da altro vincitore. D'altra parte non è pensabile che l'adozione del decreto di nomina per tutti gli altri vincitori sia sospeso a tempo indeterminato, in attesa che si definiscano tutti i contenziosi instaurati innanzi ai giudici amministrativi.
L’articolo 14 introduce l'articolo 1-bis alla legge 30 aprile 1976, n. 197 (Disciplina dei concorsi per trasferimento dei notai). La norma è diretta ad eliminare alcune problematiche sorte in passato, in occasione di sentenze del Consiglio di Stato, garantendo certezza nei concorsi per trasferimento dei notai in esercizio che potrebbero essere pregiudicati nel caso di pronunce del giudice amministrativo che modifichino la graduatoria dei trasferimenti.
Infatti la decisione del giudice amministrativo può determinare un effetto a catena nei trasferimenti dei notai dato che il notaio già trasferito deve lasciare il posto ricoperto, assegnato al candidato ricorrente e ricoprire il posto da lui indicato per secondo fra le preferenze, ovvero, in caso di mancata scelta gradata, ritornare nella sede di provenienza, con il rischio di un pregiudizio per l'intera procedura concorsuale e con un grave pregiudizio economico per gli interessati.
La scelta operata con la presente norma – che riguarda comunque casi numericamente esigui – di collocare il notaio perdente in soprannumero al capoluogo, oltre ad essere coerente col sistema previgente in tema di soppressione di posti notarili, appare consono ad una corretta distribuzione dei notai nel territorio, atteso il fatto che i capoluoghi di circoscrizione possono assorbire meglio la presenza di un professionista in soprannumero.
L’articolo 15 sancisce l'espressa abrogazione dell'art. 1, del regio decreto n. 1728/1932, implicitamente abrogato dagli articoli 1 e 2 della citata legge 197/1976, che aveva disciplinato ex novo l'intera materia del concorso per trasferimento.
La norma reca anche l'abrogazione dell'art. 14 del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953 in tema di nomina dei componenti supplenti, tenuto conto dell'ampliamento del numero dei componenti della commissione di esame, che rende inutile la previsione dei componenti supplenti per il suo corretto funzionamento.
L’articolo 16 reca disposizioni transitorie necessarie, da un lato, per consentire ai praticanti di usufruire della nuova normativa di semplificazione immediatamente, e, dall'altro, per applicare le nuove norme soltanto a partire dal prossimo concorso, salvaguardando così le procedure relative a quello in atto.
L’articolo 17 precisa che dall'attuazione del decreto non derivano nuovi o maggiori oneri finanziari a carico dell'Erario ed, infine, l’articolo 18 disciplina, secondo le regole ordinarie, l'entrata in vigore del decreto.
Un altro decreto legislativo (in attesa di pubblicazione) èrelativo all’assicurazione per la responsabilità civile derivante da attività notarile.
Il notaio svolge, infatti, una funzione delicata e fondamentale nell'economia dei traffici giuridici ed il suo ruolo centrale lo espone inevitabilmente al rischio di incorrere in errori professionali che possono essere causa di danni anche ingenti per i cittadini che, direttamente o indirettamente, si avvalgono della sua opera. Il legislatore si era posto il problema di approntare una forma di garanzia per i cittadini utenti lesi nei loro interessi da errori commessi dai notai nell'esercizio della loro funzione. Infatti, aveva previsto l'istituto della cauzione, disciplinato dagli articoli 18 e seguenti della legge 16 febbraio 1913, n. 89. Da tempo l'entità di tale cauzione non è più ritenuta adeguata alla finalità per la quale era stata concepita. Inoltre, il mutato panorama legislativo, sociale ed economico italiano, nonché le positive esperienze di altri Paesi europei hanno indotto a ritenere necessaria ed urgente una sostanziale riforma della disciplina della materia, introducendo soluzioni più adeguate a tutela del cittadino-utente. A tali finalità si ispira la delega di cui all' art. 7, comma uno, lettera e), numero 5), legge 28 novembre 2005, n. 246.
Gli obiettivi che il decreto si prefigge di realizzare, in attuazione della delega legislativa, sono i seguenti:
§ abolizione dell'istituto della cauzione che, ormai inadeguata sia per la sua struttura che per la sua entità, non è da tempo più in grado di far fronte alle esigenze per le quali era stato concepita a causa del mutato panorama economico e sociale;
§ sostituzione della cauzione con una copertura assicurativa obbligatoria, strumento più moderno, flessibile ed appropriato per garantire una efficace tutela del cittadino;
§ predisposizione di un sistema prioritario di copertura assicurativa collettiva, al fine di poter fornire al cittadino la garanzia di una tutela che sia la più ampia e trasparente possibile ed una omogeneità di trattamento su tutto il territorio nazionale rispetto ai danni causati da qualsiasi notaio, senza distinzioni o discriminazioni.
In relazione al contenuto, l’articolo 1 riformula l'art. 19 della legge notarile 89/1913, prevedendo una forma collettiva di copertura assicurativa predisposta dal consiglio nazionale del notariato ed a carico del medesimo. Il ricorso alla copertura individuale è riservato al caso in cui l'accesso all'assicurazione collettiva risultasse impossibile. È fatta salva la facoltà per il singolo notaio di stipulare polizze assicurative aggiuntive a proprie spese.
Il nuovo comma 4 dell'art. 19 sopra citato prevede che verranno fissate, con decreto del Ministero della Giustizia, su proposta del consiglio nazionale del notariato, le condizioni economiche e normative minime della polizza assicurativa, al fine di garantire l'omogeneità e l'effettività della tutela degli interessi generali sottesi alla materia. In questo quadro va anche collocata la disposizione di cui al terzo comma dello stesso articolo, che disciplina la pubblicità degli estremi delle polizze assicurative.
L’articolo 2 novella l'articolo 20 della citata legge, introducendo, in sostituzione del precedente istituto della cauzione, l'obbligo per il notaio, in mancanza di una copertura assicurativa collettiva, di stipulare una polizza assicurativa individuale per la responsabilità civile derivante dai danni cagionati nell'esercizio dell'attività professionale. Il sistema della copertura assicurativa permette di adattare di volta in volta le caratteristiche della garanzia assicurativa alle esigenze mutevoli del mercato e della società, di adeguare con il tempo i massimali e l'oggetto della copertura, di prevedere garanzie flessibili a seconda dello sviluppo della professione, delle modifiche legislative, delle tendenze giurisprudenziali. Rendere tale strumento obbligatorio fa sì che ogni cittadino che si rivolge ad un notaio sia assistito da un sistema che lo protegge anche nei casi in cui il singolo professionista (o i suoi eredi) non siano in grado, con il proprio patrimonio, di far fronte ad un eventuale danno causato nell'esercizio della professione.
Con l’articolo 3 si sostituisce l'articolo 21 della citata legge e, in attuazione della delega legislativa, si prevede l'istituzione di un fondo di garanzia, alimentato da separata contribuzione dei notai, che possa intervenire nel caso di danno derivante da illecito penale e laddove non sia operante la copertura assicurativa. Ciò al fine di non lasciare il cittadino, incolpevolmente leso nei suoi interessi, senza adeguata tutela, in soprattutto in presenza di quei sinistri originati da comportamenti di natura penale. Al fine di garantire la migliore funzionalità del fondo, viene stabilito che esso sarà direttamente amministrato dal consiglio nazionale del notariato.
Attraverso la novella dell'articolo 22 della legge notarile, ad opera dell’articolo 4, sono elencati i criteri oggettivi in base a cui è subordinata la erogazione del contributo in favore dei soggetti danneggiati dall'attività professionale del notaio: a) passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della responsabilità del notaio (o l'intervenuto patteggiamento da parte del notaio medesimo); b) cessione del credito risarcitorio all' ente gestore del fondo. È, inoltre, richiesta la dimostrazione del danno patrimoniale effettivamente subito dal danneggiato, mediante prova scritta, che sarà valutata nell' ambito di un procedimento regolamentato dall' ente gestore, o mediante sentenza passata in giudicato. Infine, viene opportunamente precisato che la garanzia apprestata dal fondo non ha carattere retroattivo, stante l'impossibilità di quantificare, nel caso contrario, gli oneri da sostenere.
L’articolo 5, al fine di sopperire agli oneri che deriveranno al consiglio nazionale del notariato dalla stipula della polizza collettiva, eleva l'ammontare massimo del contributo obbligatorio di cui all'articolo 20, comma due, legge 27 giugno 1991, n. 220: contributo con il quale viene finanziato, senza oneri per la finanza pubblica, il funzionamento dello stesso consiglio nazionale.
L’articolo 6 è norma di coordinamento che prevede la espressa abrogazione di tutte le disposizioni incompatibili con la nuova disciplina.
Mentre l’articolo 7 precisa che dall'attuazione del provvedimento non deriveranno nuovi o maggiori oneri finanziari a carico dell'erario, l’articolo 8 disciplina, secondo le comuni regole, l'entrata in vigore del presente decreto.
Un terzo decreto legislativo (in attesa di pubblicazione)ha, poi, dato attuazione alla previsione contenuta nella lettera e) del comma 1 dell’art. 7 della legge delega, che prevede, al n. 1, la revisione dell'ordinamento disciplinare dei notai mediante istituzione a spese dei consigli notarili distrettuali, di un collegio di disciplina composto da un magistrato e da notai con l'attribuzione alla corte d'appello del riesame nel merito della decisione in seguito a reclamo.
Si è provveduto, altresì, a dare attuazione al numero 2) della stessa lettera e), quanto al riordino delle sanzioni ed all'aumento di quelle pecuniarie al valore attuale della moneta; al numero 3) della medesima lettera e), con la previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale e con la revisione della recidiva; al numero 4) della stessa lettera e), con l'attribuzione del potere di iniziativa al procuratore della Repubblica, al consiglio notarile e, per le infrazioni da esso rilevate, al conservatore dell'archivio.
L’articolo 1 del provvedimento sostituisce il comma cinque dell'articolo 30 della legge notarile al fine di coordinarlo con le altre disposizioni novellate, nelle quali viene abrogato il desueto istituto dell'inabilitazione del notaio da non confondere con l'omonimo istituto previsto dal codice civile.
Con l’articolo 2 si sostituisce l'articolo 34 della legge notarile sempre al fine di coordinare le disposizioni alle nuove regole che attribuiscono alle commissioni regionali l'intera materia disciplinare e che dettano norme del tutto nuove per le misure cautelari demandate alla competenza delle stesse commissioni con esclusione, nel rispetto dei principi costituzionali, di ogni automatismo.
Gli articoli 3 e 4 sostituiscono, rispettivamente, gli artt. 35 e 39, comma terzo, della legge notarile per esigenze di coordinamento alle altre disposizioni novellate.
L’articolo 5 aggiorna il disposto dell'art. 40 della legge notarile che detta norme in materia di conservazione del sigillo del notaio che cessa, anche temporaneamente dall'esercizio, coordinandolo sistematicamente. Il comma 3 del nuovo testo dell'articolo 40 è stato inserito per colmare un vuoto normativo attribuendo espressamente al capo dell'archivio i necessari poteri per l'attuazione delle norme di cui ai commi 1 e 2.
L’articolo 6 novella l'articolo 43 della legge notarile coordinando sistematicamente le norme sulla conservazione degli atti del notaio cessato temporaneamente dall'esercizio e sul rilascio delle copie finchè perdura tale situazione con le nuove regole del procedimento disciplinare. Si è ritenuto opportuno anche inserire un'espressa estensione delle norme in materia di deposito degli atti e di rilascio delle copie agli istituti, previsti dalla legge penale, che comportano sospensione del notaio dall'esercizio, così colmando l'assenza di un'espressa previsione in materia.
L’articolo 7 novella il primo comma dell'articolo 44 della legge notarile che è stato riformulato sulla base delle modifiche di cui al citato articolo 43 della stessa legge e per coordinarlo sistematicamente con le nuove regole disciplinari.
L’articolo 8 modifica il secondo comma dell'art. 46 della legge notarile coordinando opportunamente le norme sugli onorari per le copie con la nuova formulazione dell'articolo 43 della stessa legge nel quale si prevede, in taluni casi, la nomina di un depositario, preposto anche al rilascio delle copie ed, in altri, la permanenza degli atti presso lo stesso notaio che temporaneamente non esercita.
L’articolo 9 modifica l'articolo 80 della vigente legge notarile al fine di aggiornare all'attualità l'ammontare delle sanzioni pecuniarie ivi previste, in attuazione di uno specifico principio della legge delega.
L’articolo 10 introduce nella legge notarile vigente gli articoli 93 bis e 93 ter. Si tratta di una delle norme più significative nell'ambito di questo intervento di riforma ed è rivolta a specificare, in conformità ad orientamenti ormai consolidati in giurisprudenza e recependo anche le regole deontologiche della categoria, i poteri demandati rispettivamente ai consigli notarili distrettuali ed al consiglio nazionale del notariato a fini disciplinari e deontologici con particolare riguardo al potere di vigilanza dei consigli distrettuali sugli iscritti. Si è ritenuto, infatti, che l'esercizio del potere di vigilanza, mediante idonei strumenti, da parte degli organi della categoria professionale sia determinante per un'effettiva disciplina degli iscritti alla stessa.
L’articolo 11 modifica la rubrica del titolo IV della legge notarile in coerenza con il novo testo delle disposizioni ivi contenute. L’articolo 12 riformula l'articolo 127 aggiornandone il lessico ai mutamenti della legislazione generale e precisando che la competenza territoriale delle procure ai fini della vigilanza è regolata sulla base del criterio del luogo nel quale il notaio ha sede. La precisazione si è resa necessaria in ragione del criterio con il quale, nel riformulato articolo 153, è stata regolata la competenza per l'esercizio dell'azione disciplinare.
L’articolo 13 riformula l'articolo 128 che prevede l'istituto dell'ispezione, la cui importanza a fini disciplinari è intuibile al fine di adeguare il testo della disposizione alla legislazione generale e, soprattutto, per regolare ex novo l'ipotesi di sospensione cautelare ivi prevista per il caso del notaio che non presenta atti e registri all'ispezione ordinaria, sospensione cautelare che, in ossequio a principi generali, non è automatica, ma è rimessa alla valutazione della Commissione di disciplina, secondo quanto previsto dal nuovo articolo 158 - sexies della stessa legge.
L’articolo 14 riformula il testo dell'articolo 129 adeguandone il lessico e specificando esattamente sulla base dei mutamenti intervenuti nell'ordinamento degli archivi, le competenze in materia. Inoltre, viene introdotto il comma 2, che definisce le competenze per l'accertamento delle infrazioni deontologiche, disciplinando espressamente la materia in conformità alle conclusioni alle quali era già pervenuta in argomento la dottrina.
L’articolo 15 riformula il testo dell'articolo 132 della legge notarile, che disciplina le ispezioni straordinarie. In modo particolare, il primo comma è stato modificato al fine di estendere, anche per tale ipotesi, la sospensione cautelare di cui all'articolo 128, del quale si è già detto.
Gli articoli 16 e 17 riformulano, rispettivamente, gli articoli 133 e 134 della legge notarile per aggiornarne il lessico ai mutamenti intervenuti nella legislazione generale, mentre l’articolo 18 sostituisce la rubrica del capo II del titolo IV in coerenza con il nuovo testo delle disposizioni ivi contenute.
L’articolo 19 riformula l'articolo 135 della legge notarile con le stesse finalità di cui agli articoli 16 e 17, già illustrati, mentre l’articolo 20, nel riformulare l'articolo 136 della legge notarile, introduce la specificazione, che recepisce le massime conclusioni alle quali è pervenuta la dottrina, secondo la quale l'avvertimento è sanzione residuale, da applicare quando per un'infrazione non ne sia comminata una specificamente.
Gli articoli 21, 22, 23 e 24, nelle more di una revisione delle regole sulla forma degli atti, contestualmente alla quale dovranno essere riformulate tutte le fattispecie di illecito in materia, sostituiscono rispettivamente gli articoli 137, 138, 138 - bis e 142 della legge notarile, provvedendo, in attuazione della delega, ad aggiornare le sanzioni disciplinari, pecuniarie e, quanto all'art. 138, a prevedere come specifica fattispecie sanzionabile il caso del notaio che impedisce o ritarda le ispezioni nonché a comminare, oltre alla sospensione, quale pena accessoria, l'ineleggibilità alle cariche degli organi di categoria per due anni dopo che è cessata la sospensione.
L’articolo 25 introduce l'articolo 142 - bis, nella vigente legge notarile. Si tratta di una disposizione di grande rilievo con la quale, in aderenza ai principi formulati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2 febbraio 1990, n. 40, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 142, comma secondo e dell'art. 139, comma primo, n. 2 della vigente legge, viene regolata ex novo la materia della destituzione conseguente a condanna penale, eliminando qualsiasi automatismo, graduando la sanzione e rimettendola alla valutazione della commissione di disciplina. Il comma 2 della nuova disposizioni attua anche il necessario coordinamento con talune pene accessorie previste dalla legge penale, che interessano specificamente il notaio.
L’articolo 26 riformula l'articolo 144 della legge notarile che detta norme in materia di circostanze attenuanti, specificando, sulla base dell'esperienza giurisprudenziale, in quali fattispecie esse consistono e coordinando la disposizione con l'art. 16, r.d. 27 maggio 1923, n. 1324, che viene conseguentemente abrogato dall'art. 52, comma 2, del decreto.
L’articolo 27 sostituisce l'art. 145 della legge notarile, che definisce, agli effetti disciplinari, la rilevanza della recidiva per il notaio, accogliendo gli orientamenti della giurisprudenza sul punto e precisandone l'ambito temporale.
L’articolo 28 Introduce nella sede propria, ossia il Capo II del titolo IV della legge notarile, l'articolo 145 - bis, che disciplina l'estinzione degli illeciti disciplinari punibili con la sola sanzione pecuniaria. Tale disposizione consente l'oblazione affinchè possa comunque essere preservata la funzione deterrente della sanzione disciplinare, soltanto se non vi è recidiva. Nuova è la disposizione che attribuisce al Conservatore dell'archivio l'accertamento dell'estinzione per avvenuta oblazione delle infrazioni dallo stesso rilevato che sono state statisticamente più numerose ma di minore entità. Scopo di questa norma è quello di semplificare l'attività delle Commissioni regionali, demandando il compito di cui si è detto ad un organo che offre adeguate garanzie al fine di un puntuale controllo della sussistenza delle condizioni per l'oblazione.
L’articolo 29 sostituisce l'art. 146 della legge notarile, che detta norme sulla prescrizione. Poiché la disposizione previgente aveva dato luogo a gravi problemi applicativi, a causa della brevità del termine e della mancata previsione di cause di interruzione, la nuova disposizione allunga questo termine e ne prevede espressamente l'interruzione e la sospensione. In particolare, la previsione della sospensione della prescrizione in caso di azione penale, è correlata alla previsione della sospensione dello stesso procedimento disciplinare, in pendenza di quello penale, in conformità alla sentenza Corte Cost. 2 febbraio 1990, n. 40, che aveva dichiarato, sul punto, l'incostituzionalità dell'art. 146.
L’articolo 30 novella un'altra norma cardine del sistema disciplinare notarile, l'art. 147 della legge sul notariato, inserendovi, in modo da recepire gli orientamenti consolidati dalla Cassazione sul punto, l'espressa previsione della punibilità del notaio che non si attiene alle regole deontologiche della categoria, come del resto, è previsto per la generalità degli ordini professionali.
L’articolo 31 modifica la rubrica del capo III del titolo IV della legge notarile alla luce delle modifiche degli articoli 148 e seguenti della legge stessa.
Gli articoli 32, 33 e 34 modificano, in attuazione di uno dei punti di maggior rilievo della legge delega, rispettivamente gli articoli 148, 149, mentre l'articolo 34 introduce gli artt. 149 - bis e 149 - ter della legge notarile, dettando regole per la formazione delle commissioni regionali di disciplina, che sono collegi amministrativi ai quali è demandato il giudizio sugli illeciti disciplinari dei notai, innovando profondamente all'attuale sistema che attribuiva in parte ad altri collegi amministrativi – i consigli notarili distrettuali – ed in parte ai tribunali civili, in base alla pena edittale, la decisione sui suddetti illeciti.
Le disposizioni in esame contengono le regole per la definizione delle circoscrizioni territoriali, la formazione della commissione, presieduta da un magistrato, i requisiti per la nomina, le cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza. Le regole in materia sono state formulate in modo da garantirne adeguatamente l'indipendenza dell'organo e la sua autonomia finanziaria, senza oneri per lo Stato.
Gli articoli 35 e 37 novellano rispettivamente gli articoli 150 e 151 della legge notarile, mentre l'articolo 36 introduce nella stessa legge gli articoli 150 bis e 150 ter. Tali disposizioni disciplinano il procedimento per la nomina dei componenti delle commissioni di disciplina e per la formazione dei collegi nei quali esse si articolano. Si è ritenuto di affidarne sempre la presidenza al magistrato, che presiede la commissione, quale garanzia di indipendenza e di ponderazione della decisione. Di particolare rilievo sono le regole che, sia durante la fase delle elezioni dei notai, sia nella formazione dei collegi, sono finalizzate ad evitare, in quanto possibile, che il notaio sia giudicato da colleghi dello stesso distretto, in modo da rafforzare la garanzia di imparzialità.
L'articolo 38 del decreto sostituisce l'art. 152 della legge notarile, dettando ai fini della determinazione della competenza territoriale in armonia con i principi generali, il criterio del luogo in cui l'illecito è commesso. Per i procedimenti a carico dei componenti della COREDI è predeterminato un criterio per lo spostamento della competenza ad altra Commissione.
L’articolo 39 sostituisce l'articolo 153 della legge notarile individuando i titolari dell'azione disciplinare con riferimento sotto il profilo territoriale, al criterio già adottato per definire la competenza delle commissioni. Nello stesso articolo è contenuta anche la fondamentale disposizione che sancisce l'obbligatorietà dell'azione (comma 2), fissando nello stesso tempo a garanzia del notaio un termine di decadenza per il suo promovimento.
E' da notare che il comma 3 prevede che l'organo che assume l'iniziativa dell'azione debba, nella richiesta di procedimento, formulare le proprie conclusioni. In tal modo l'organo, pur essendo tenuto all'obbligatorio esercizio dell'azione, potrà subito richiedere, se del caso, l'archiviazione. La posizione dell'organo che ha l'iniziativa dell'azione si caratterizza, infine, per l'attribuzione allo stesso (comma 2) di un potere di cestinazione di notizie del tutto irrilevanti a fini disciplinari. Infatti, l'azione è obbligatoriamente promossa solo se risultano sussistenti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare.
L’articolo 40 novella l'articolo 154 della legge notarile dettando, in coerenza con i principi già enunciati esaminando gli articoli 34 e 35, norme in materia di astensione e ricusazione.
Gli articoli 41, 42 e 44 sostituiscono rispettivamente gli articoli 155, 156, 157 e 158 della legge notarile, mentre l'articolo 43 introduce l'art. 156-bis dettando le regole del procedimento innanzi alla commissione, che è informato al principio della netta separazione tra organo che promuove il procedimento e organo giudicante, adeguando sotto un profilo di grande rilievo, il sistema disciplinare notarile, nel quale, con riferimento al giudizio dinanzi ai consigli notarili distrettuali, tale separazione non era delineata. Sono stati fissati i termini per le varie fasi del procedimento affinchè esso non si protragga oltre tempi ragionevoli.
L’articolo 45 novella l'art. 158 della legge notarile, il quale detta norme per il ricorso giurisdizionale contro le decisioni della Commissione.
Gli articoli 158-bis e ter della legge notarile disciplinano il ricorso giurisdizionale contro le decisioni della commissione e per il successivo giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione.
L'articolo 158-quater, introdotto dall’articolo 46 del decreto, demanda al presidente del consiglio notarile del distretto al cui ruolo è iscritto il notaio l'esecuzione delle sanzioni, dettando norme finalizzate a dare notizia dell'esecuzione delle sanzioni agli organi giudiziari vigilanti, di cui all'articolo 127, comma 2, nel testo novellato dal decreto.
L'articolo 158-quinquies, introdotto dallo stesso articolo 46 del decreto, detta regole per il caso che sia promosso per lo stesso fatto o per un fatto commesso, anche un procedimento penale, conformando tali regole alla sentenza Corte Cost. 2 febbraio 1990, n. 40, la quale ha statuito che l'azione disciplinare deve restare sospesa fino a quando non è passata in giudicato la sentenza penale.
Gli articoli 158 sexies e septies, introdotti anch'essi dal citato articolo 46, disciplinano l'applicazione della sospensione dall'esercizio e delle misure cautelari in genere. La nuova normativa sostituisce il desueto istituto dell'inabilitazione del notaio all'ufficio notarile, la quale, con la più volte citata sentenza della Corte Costituzionale n. 40/1990, era stata dichiarata illegittima nella parte in cui prevedeva l'applicazione automatica della misura in questione.
La sospensione obbligatoria è prevista soltanto per il caso di cui al comma 4 dell'articolo 158-septies, che configura un'ipotesi particolare e precisamente quella del notaio che subisca provvedimenti restrittivi della libertà personale. E' chiaro, infatti, che in questa ipotesi la ratio della sospensione risiede in una situazione oggettiva e precisamente l'impossibilità di esercitare l'ufficio di notaio. Tutte le altre ipotesi sono, invece, fondate su esigenze cautelari e, quindi, sulla necessità di prevenire altri illeciti o di impedire la prosecuzione o comunque di tutelare l'immagine della categoria. La competenza per l'adozione delle misure, nelle varie fasi del procedimento, è regolata dall'articolo 158 septies. A garanzia dei diritti del notaio, l'articolo 158 septies disciplina il procedimento di impugnazione delle norme cautelari.
Gli articoli 158 novies e decies disciplinano le regole per l'adozione delle misure, con norme procedurali improntate agli stessi principi già fissati per l'esame nel merito e rispettivamente le norme per il ricorso giurisprudenziale nel merito alla Corte d'Appello e in sede di legittimità alla Corte di Cassazione.
L'art. 158-undicies, introdotto dal citato articolo 46, disciplina le notificazioni degli atti del procedimento in coerenza con i principi generali. In particolare si prevedono le comunicazioni delle decisioni in materia disciplinare agli organi della categoria notarile ed alle autorità vigilanti allo scopo di rendere conoscibili tali provvedimenti dalle suddette autorità.
L'articolo 47 del decreto riformula l'articolo 159 della legge notarile, che disciplina la riabilitazione del notaio all'esercizio dopo la destituzione, sulla base delle regole attualmente vigenti che sono state riformulate per adeguarle sistematicamente al nuovo ordinamento disciplinare.
L'articolo 48 introduce un nuovo capo destinato a contenere l'articolo 160 nel testo riformulato dall'articolo 49, il quale dispone il necessario raccordo tra i procedimenti amministrativi di cui al titolo VI della legge e le norme della l. 7 agosto 1990, n. 241, in conformità della legge delega la quale richiede l'adeguamento della normativa in esame ai mutamenti intervenuti nella legislazione generale. E' anzi opportuno precisare che la l. 241/1990 anche in mancanza di un'espressa previsione, è da ritenersi applicabile ai procedimenti in questione.
Gli articoli 50 e 51 del decreto riformulano rispettivamente gli articoli 23 R.D. 23 ottobre 1924, n. 1737 e l'art. 20, comma secondo, l. 22 gennaio 1934, n. 64, al fine di aggiornare le sanzioni ivi previste.
L'articolo 52 del decreto abroga espressamente, come previsto nei principi della legge delega, le norme incompatibili, mentre l'articolo 53 prevede l'emanazione di norme regolamentari, sostitutive di quelle vigenti, per l'attuazione delle nuove disposizioni.
L'articolo 54, disciplina, secondo il consueto principio, l'entrata in vigore del decreto, dettando norme transitorie circa l'entrata in vigore delle norme sul procedimento disciplinare.
Il terzo comma detta una norma intertemporale improntata al principio dell'applicazione del trattamento più favorevole per l'autore dell'infrazione.
I commi 4-septies e 4-opties dell’art. 2 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, Disposizioni urgenti nell'àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, cd. decreto competività, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, hanno introdotto modifiche alla disciplina della legge notarile (L. 16 febbraio 1913, n. 89)
In particolare, sostituendo l’art. 4 della legge 89/1913, le citate disposizioni hanno previsto che con un decreto del Ministro della giustizia – uditi i Consigli notarili e le Corti d’Appello – sia determinato il numero e la residenza dei notai per ogni distretto, da rivedere di regola ogni sette anni. I criteri alla base della ripartizione sono individuati in una serie di caratteristiche del distretto: popolazione, volume degli affari, estensione del territorio e mezzi di comunicazione.
In ogni caso, ad ogni posto di notaio dovranno corrispondere una popolazione di 7 mila abitanti (inferiore rispetto a quanto attualmente previsto) ed un reddito annuo di 50.000 euro di onorari professionali repertoriali.
In sede di prima applicazione, è introdotta una norma transitoria che stabilisce che la prima revisione della tabella avvenga entro un anno dalla vigenza della legge 80/2005, di conversione del decreto-legge 35/2005 (quindi entro il 15 maggio 2006).
In conseguenza delle modificazioni introdotte, sono esclusi oneri a carico dell’erario; le misure volte a garantire l’equilibrio economico della gestione della Cassa nazionale del notariato sono a carico della Cassa stessa.
La legge 24 febbraio 2005, n. 34 ha delegato il Governo all’adozione di decreti legislativi per realizzare l’unificazione dell’ordine professionale dei dottori commercialisti e dell’ordine dei ragionieri e periti commerciali (allora disciplinati, rispettivamente, dal D.P.R. n. 1067/1953 e dal D.P.R. 1068/1953, ora abrogati dal decreto legislativo n. 139/2005, v. ultra), delle rispettive Casse di previdenza e assistenza, e per attribuire al neo-istituito Ordine professionale dei dottori commercialisti e dei revisori contabili specifiche competenze sul registro dei revisori contabili.
In tal modo il legislatore ha inteso riordinare il settore delle professioni cosiddette “contabili” anche al fine di adeguare la normativa italiana agli standard europei, alle modifiche apportate dal DPR del 5 giugno 2001, n. 328, in materia di accesso alle professioni, e alla riforma universitaria realizzata a partire dal DM 509/1999, attuativo della legge 127/1997. Nel quadro di tale riforma è opportuno ricordare che la legge 14 gennaio 1999, n. 4, in materia di università e ricerca scientifica, ha previsto i regolamenti di delegificazione come strumento normativo per adeguare la disciplina dell'accesso ad albi, ordini e collegi professionali alla nuova architettura del sistema universitario. Il DPR 5 giugno 2001, n. 328, ha quindi disciplinato l'ordinamento, i connessi albi, ordini o collegi, nonché i percorsi formativi di talune professioni rinviando ad altro regolamento per le professioni di commercialista e di ragioniere e perito commerciale in considerazione della necessità di unificazione dei due ordini professionali. Per quel che concerne i commercialisti e i ragionieri, l’articolo 3 del decreto legge 10 giugno 2002, n. 107, recante disposizioni urgenti in materia di accesso alle professioni, convertito dalla legge 1° agosto 2002, n. 173, ha confermato sostanzialmente la natura speculare delle professioni contabili e ha consentito, nell’attesa del riordino delle professioni di dottore commercialista e di ragioniere e perito commerciale, ai possessori delle nuove lauree, triennali e specialistiche, nelle discipline economiche, di iniziare il tirocinio per le professioni di dottore commercialista e di ragioniere e perito commerciale, facendo salva la possibilità di iscrizione nel registro dei praticanti dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali per i laureati in economia e commercio secondo l’ordinamento universitario previgente.
Il rinnovato contesto normativo ha messo in evidenza la necessità di superare la distinzione tra i due Ordini, date le analogie tra le due professioni a fronte dell’unico dato differenziale, costituito dal titolo professionale.
La legge n. 34/2005 ha dunque rappresentato uno dei principali tasselli del processo di armonizzazione di tutte le professioni aventi ambiti professionali unitari e identici percorsi formativi, nell’obiettivo di rendere più trasparente per il cittadino la reale qualificazione nella fornitura dei servizi professionali.
Passando all’analisi dei 6 articoli di cui si compone la legge delega, l'articolo 1 dispone l'unificazione dei due ordini preesistenti nell'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nonché l'istituzione del nuovo albo, denominato “Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili”.
L'articolo 2 prevede che tale unificazione sia realizzata con l’emanazione di un decreto legislativo, adottato su proposta del Ministro della giustizia di concerto con i Ministri dell’istruzione e dell’università, sentiti i Consigli nazionali dei due ordini professionali, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge delega. La delega conferita da questa norma è stata attuata con il decreto legislativo 28 giugno 2005, n. 139 (vedi infra).
L’articolo 3 ha elencato i contenuti del decreto legislativo, preannunciato dall’articolo 2, con particolare riferimento alle modalità costitutive e alla composizione degli organi centrali e locali di rappresentanza del nuovo ordine unificato, nel rispetto dei criteri di proporzionalità e di rappresentatività, ma assicurando ai laureati specialistici, dopo il periodo transitorio, un numero minimo di rappresentanti non inferiore alla metà e l’elettorato passivo per la nomina del presidente. Inoltre, il provvedimento dovrà indicare le classi di laurea e di laurea specialistica, nonché i titoli regolati dall’ordinamento previgente alla riforma universitaria che permettono l’accesso all’esame di Stato. Saranno istituite due distinte sezioni dell’albo professionale, riservate ai possessori delle lauree e delle lauree specialistiche, con la attribuzione di specifiche attività, agli iscritti nell’una o nell’altra sezione. Il legislatore delegato potrà attribuire nuove competenze ai soli iscritti nella sezione riservata ai laureati specialistici, quando tali competenze presentino profili di interesse pubblico generale, salvo il rispetto del principio della libertà di concorrenza e fatte salve le prerogative attualmente attribuite dalla legge a professionisti iscritti ad altri Albi. Il legislatore delegato dovrà disciplinare le prove degli esami di Stato, con previsione di svolgimento del tirocinio professionale già durante il corso di studi specialistici e conseguente modifica delle modalità di accesso all'esame. Dovrà essere definita una disciplina transitoria relativa all’inserimento nella sezione dell’albo destinata ai laureati specialistici degli attuali iscritti ai due albi professionali (la nuova denominazione dei ragionieri e periti commerciali iscritti in tale sezione è quella di “ragionieri commercialisti”), con specifica indicazione, per ciascuno, dell’anzianità di iscrizione, del titolo di studio, del titolo professionale, e dell’Ordine o Collegio di provenienza. Occorrerà provvedere alla protezione dei titoli professionali derivanti dall’unificazione degli ordini consentendo l'uso del titolo di "commercialista" ai soli iscritti nella sezione dell’albo riservata ai laureati specialistici. La disciplina transitoria - di nove anni a partire dallo scioglimento degli organismi rappresentativi - dovrà garantire ai commercialisti la maggioranza e le presidenze degli organi rappresentativi nazionali e locali del nuovo ordine unificato e ai ragionieri le vicepresidenze. Tale disciplina garantirà altresì le modalità di confluenza degli attuali organi rappresentativi nei rispettivi organi del nuovo ordine unificato.
L'articolo 4 ha previsto l'emanazione, entro due anni, di uno o più decreti legislativi per favorire l’unificazione delle rispettive Casse di previdenza e assistenza, tenendo conto dell'applicazione, da parte delle Casse unificande, del principio del pro rata di cui all'articolo 3, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335, rapportato alle condizioni di equilibrio di lungo periodo che caratterizzano ciascuna gestione. Ulteriori criteri che il legislatore delegato è chiamato a seguire riguardano il rispetto delle norme civilistiche (artt. 2498 e ss.) in materia di trasformazione e fusione delle società, in quanto applicabili, nonché dei principi del D.Lgs 509/1993 (Trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza) previa adozione di progetti di unificazione da parte degli organi rappresentativi delle due Casse; l’adeguamento della normative già applicabili alle Casse rispetto al processo di unificazione come definito; l’esenzione fiscale degli atti relativi all’unificazione. I decreti legislativi citati saranno adottati su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro della giustizia. Allo stato attuale la delega legislativa, disposta dall’articolo 4, non è ancora stata esercitata.
L'articolo 5 ha disposto l'emanazione, su proposta del Ministro della giustizia, entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo di unificazione dei due ordini ex art. 2, di un ulteriore decreto legislativo per l’attribuzione all’Ordine professionale unificato di specifiche competenze, per lo più di carattere gestionale, sul registro dei revisori contabili, fino ad allora spettanti al Ministero della giustizia. La delega legislativa è stata attuata con il decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 28 (vedi infra) che ha abrogato le norme che fino a quel momento disciplinavano tale settore di attività: il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 88 (Attuazione della direttiva n. 84/253/CEE, relativa all’abilitazione delle persone incaricate del controllo di legge dei documenti contabili) e il D.P.R. 6 marzo 1998, n. 99 (Regolamento recante norme concernenti le modalità di esercizio della funzione di revisore contabile). Quanto ai principi e ai criteri direttivi, l’articolo 5 ha previsto che la legislazione delegata dovrà salvaguardare: l’autonomia del “registro” rispetto agli albi tenuti dall’unificato Ordine; le funzioni e le competenze della “Commissione centrale per i revisori contabili”; la disciplina normativa vigente relativa all’esame per l’accesso al registro; la competenza del Ministero della giustizia all’adozione dei provvedimenti di iscrizione, sospensione, e cancellazione dal registro.
L'articolo 6 individua, in relazione all’esercizio della delega relativa all’unificazione dei due ordini professionali, prevista all’articolo 2, i principi e i criteri della disciplina relativa alla durata dei Consigli nazionali e locali dei due Ordini, in carica al momento della entrata in vigore della legge delega. A tal fine è stata prevista la proroga degli organi in carica fino al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello della entrata in vigore della legge delega, nonché la facoltà - per i consigli locali così prorogati - di procedere alle operazioni elettorali alla naturale scadenza, ferma restando la decadenza al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello della entrata in vigore della legge delega in esame.
Entrato in vigore il 20 luglio 2005, il decreto legislativo 28 giugno 2005, n. 139, attuativo della delega legislativa conferita dagli articoli 2, 3 e 6 della legge 34/2005, ha unificato gli ordini professionali dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali provvedendo ad una disciplina analitica degli organi, dei requisiti di ammissione all’esame di Stato, alla istituzione di sezioni riservate all’interno del costituendo albo, nonché alla definizione dell’ambito di attività consentito agli iscritti alle diverse sezioni, delle prove di esame e delle norme transitorie per gli attuali iscritti nei due distinti albi professionali.
In particolare, il decreto legislativo, composto da 79 articoli, nel definire l’oggetto dell’attività professionale e le materie e attività rientranti nelle competenze di tutti gli iscritti all’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, ha specificato l’ambito della competenza tecnica spettante rispettivamente agli iscritti nella Sezione A Commercialisti dell’Albo e nella Sezione B Esperti contabili dell’Albo (Capo I, articolo 1).
L’iscrizione all’albo resta il requisito per l’esercizio della professione e resta attribuita al Ministro della giustizia l’alta vigilanza sull’esercizio medesimo (articolo 2). Il decreto reca una disciplina articolata sulle incompatibilità (articolo 4 e 27) e sancisce l’obbligo del segreto professionale (articolo 5), richiamando gli articoli 199 (Facoltà di astensione dei prossimi congiunti ) e 200 (Segreto professionale) del c.p.p., nonché l’articolo 249 (Facoltà d’astensione) del c.p.c..
Il costituendo Ordine professionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, articolato nel Consiglio nazionale e negli ordini territoriali, si qualifica come ente pubblico non economico a carattere associativo, dotato di autonomia patrimoniale e finanziaria e soggetto alla vigilanza esclusiva del Ministro della giustizia (articolo 6). Vengono poi istituiti e disciplinati gli organi, nazionali e territoriali: il Consiglio, il Presidente, il collegio dei revisori e l’Assemblea degli iscritti, per quanto concerne il livello territoriale; il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e il collegio dei revisori, costituito presso il Ministero della giustizia, per il livello nazionale (Capo II, artt. 7-24 e Capo III, artt. 25-33).
Il Capo IV disciplina gli albi, tenuti da ciascun consiglio dell’ordine e suddiviso nelle due Sezioni A e B, i requisiti per la iscrizione e gli specifici aspetti gestionali (artt. 34-39).
Ai fini dell’accesso alla professione (artt. 40-48) si prevede un tirocinio di durata triennale e il superamento di un esame di Stato. In particolare, gli ordini territoriali curano il registro dei tirocinanti, diviso – analogamente a quanto accade per l’Albo – in due sezioni, una per i tirocinanti commercialisti, l’altra per i tirocinanti esperti contabili. Un regolamento del Ministro dell’istruzione, sentito il Consiglio nazionale, provvede ad individuare i contenuti e le modalità di effettuazione del tirocinio, mentre se ne consente lo svolgimento contestualmente al biennio di studi finalizzato al conseguimento della laurea specialistica o magistrale. Concluso il tirocinio, l’iscrizione all’Albo è preceduta da un esame di Stato: coloro che hanno compiuto il tirocinio per accedere alla Sezione A possono sostenere l’esame anche per l’iscrizione nella Sezione B dell’Albo, mentre non è vero l’inverso. Sarà il Ministero dell’istruzione a indire ogni anno due sessioni di esame che, tanto per l’iscrizione nella Sezione A, quanto per l’iscrizione nella Sezione B, consisterà in tre prove scritte e una prova orale, con diverse materie di esame.
Il decreto legislativo disciplina l’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Consiglio dell’ordine ed enuclea i principi del procedimento disciplinare (Capo V, artt. 49-57).
Per quanto concerne la gestione della fase transitoria (Capo VI, artt. 58-75), la data fissata per la soppressione degli attuali ordini dei dottori commercialisti e dei collegi dei ragionieri e periti commerciali istituiti negli stessi circondari di tribunale è stabilita al 1° gennaio 2008; da tale data sono istituiti nei circondari gli Ordini territoriali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Sempre dal 1° gennaio 2008 sono, di conseguenza, soppressi sia l’Ordine nazionale dei dottori commercialisti che quello dei ragionieri e periti commerciali, al cui posto sarà istituito il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili cui viene attribuita la qualificazione giuridica di ente pubblico non economico. L’Albo unico dei dottori commercialisti e degli esperti contabili deve essere costituito dai Consigli locali entro il 28 febbraio 2008, a due mesi, quindi, dall’istituzione dei nuovi ordini unificati. E’ precisato, inoltre, che gli aventi diritto all’iscrizione nel nuovo albo unico sono i professionisti che alla data del 31 dicembre 2007 risultavano iscritti in uno dei soppressi albi dei commercialisti , ragionieri e periti commerciali. Il titolo professionale di dottore commercialista è riservato agli iscritti nella sola sezione A, già iscritti agli albi professionali dei dottori commercialisti; il titolo di ragioniere commercialista sarà, invece, appannaggio degli iscritti alla stessa sezione A, già iscritti all’albo dei ragionieri e periti commerciali.
Viene disciplinata la costituzione dei Consigli dell’ordine e del Consiglio nazionale, che non potrà essere successiva al 30 novembre 2007. La disciplina delle elezioni e della composizione degli organi è articolata in una prima fase transitoria, dal 1 gennaio 2008 al 31 dicembre 2016, e una fase definitiva, successiva a tale data.
Il provvedimento dispone la costituzione di una Commissione presso il Ministero della giustizia cui è assegnato il compito di vigilare sul corretto svolgimento del processo di unificazione degli albi, coadiuvando il Ministro della giustizia.
Tra le disposizioni finali e di coordinamento (Capo VII, artt. 76-79), si provvede alla abrogazione espressa dei DPR 27 ottobre 1953, n. 1067, e 27 ottobre 1953, n. 1068, normativa quadro relativa agli ordini ora unificati.
Con il recente decreto legislativo 23 gennaio 2006, n. 28 è stata, poi, attuata la delega conferita al Governo dall’articolo 5 della citata legge 24 febbraio 2005, n. 34, per l’attribuzione al nuovo ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di talune competenze sul registro dei revisori contabili, prima spettanti al Ministero della giustizia, ai sensi del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 88 e del DPR 6 marzo 1998, n. 99.
L’attribuzione delle nuove competenze è, ovviamente, da porre in relazione alla unificazione degli ordini professionali dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali, di cui all'articolo 2 della stessa legge delega n. 34/2005 e al decreto legislativo del 28 giugno 2005, n. 139.
In linea con i principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega, il decreto legislativo ha attuato una riorganizzazione amministrativa del registro dei revisori contabili e del registro del tirocinio che, nel rispetto del principio di autonomia di tale registro rispetto agli albi tenuti dall’ordine dei commercialisti e degli esperti contabili introducendo misure di semplificazione e decentramento. Infatti, la tenuta e gestione del registro vengono attribuite al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili che, per l’utilizzo dei dati, si avvale di un sistema informativo centralizzato, accessibile anche a livello locale, i. Il provvedimento ha affrontato altresì il problema dell’aggiornamento dei revisori contabili, secondo quanto recato nella proposta di modifica dell’ottava direttiva comunitaria (COM (2004) 0177 – 2004/0065 (COD)) secondo cui gli Stati membri assicurano l’assoggettamento dei revisori a programmi adeguati di formazione continua e il cui mancato rispetto è oggetto di sanzioni.
Passando ai contenuti specifici degli undici articoli di cui consta il decreto legislativo, l’articolo 1 conferma, al comma 1, la istituzione del registro dei revisori contabili e del registro del tirocinio presso il Ministero della giustizia, secondo quanto previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 88, e dall’articolo 5 del decreto del Presidente della repubblica 6 marzo 1998, n. 99, mentre la relativa tenuta è attribuita alla competenza del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili che la esercita attraverso un separato sistema informatico centralizzato, accessibile anche a livello locale. Tale accesso a livello locale consente, peraltro, al Consiglio nazionale il rilascio, per il tramite degli Ordini territoriali, di attestati di iscrizione, su richiesta degli iscritti. Il comma 2, ribadisce il principio della autonomia del registro dei revisori contabili e del registro del tirocinio rispetto agli albi dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, malgrado l’attribuzione di funzioni amministrative in capo al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
L’articolo 2 ha confermato le funzioni e le competenze della Commissione centrale per i revisori contabili, prevista dal Titolo I del regolamento sulle modalità di esercizio della funzione di revisore contabile, di cui al DPR 6 marzo 1998, n. 99, e successive modificazioni. La Commissione, istituita per lo svolgimento di attività consultiva in materia di tenuta del registro del tirocinio, del registro dei revisori contabili e di esercizio del potere di vigilanza del Ministero di giustizia, conserva intatte le proprie competenze in merito alle iscrizioni, sospensioni e cancellazioni dal registro e all’esercizio dell’azione di vigilanza ai sensi dell’articolo 32 e seguenti del citato DPR. La Commissione, pur istituita presso il Ministero della giustizia, ha adesso sede ed opera presso il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili.
L’articolo 3, nell’indicare le nuove modalità di tenuta del registro del tirocinio, attribuisce al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili compiti relativi alla acquisizione della documentazione e alla relativa trasmissione alla Commissione centrale, alla comunicazione del provvedimento di accoglimento o rigetto elle domande di iscrizione, al rilascio – su richiesta del tirocinante - dell’attestato di iscrizione nel registro per il tramite degli ordini territoriali attraverso il sistema informatico, nonché ad ulteriori adempimenti quali la comunicazione relativa alla attestazione di compiuto tirocinio.
L’articolo 4 prevede che la domanda di ammissione all’esame per l’iscrizione nel registro dei revisori contabili, è indirizzata alla commissione esaminatrice presso il Ministero della giustizia, per il tramite del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili secondo quanto attualmente previsto dalla normativa vigente.
Analogamente all’articolo 3 in tema di registro del tirocinio, l’articolo 5 indica le nuove modalità di tenuta del registro dei revisori contabili e attribuisce al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili compiti relativi agli adempimenti e alla gestione dello stesso. In particolare, il Consiglio nazionale, ricevuta la documentazione allegata alle domande di iscrizione, richiede alla Procura della Repubblica presso il tribunale del circondario ovvero del distretto in cui il revisore ha il proprio domicilio, gli accertamenti relativi alla onorabilità del soggetto (cfr. art. 8 D. Lgs. 27 gennaio 1992, n. 88), acquisendo rispetto al richiedente o agli amministratori della società, il certificato del casellario giudiziale, il certificato dei carichi pendenti ed il certificato relativo alla sottoposizione a misure di prevenzione. Il Consiglio nazionale è competente in ordine alle comunicazioni sui provvedimenti di iscrizione o di rigetto delle domande, nonché in ordine al rilascio - per il tramite dell’Ordine territoriale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e previo accesso al sistema informatico centralizzato - dell’attestato di iscrizione nel registro dei revisori contabili, su richiesta dall’interessato e anche in forma digitale.
L’articolo 6 dispone che il Ministro della giustizia emana con proprio decreto un regolamento, su proposta del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, per la formazione continua degli iscritti nel registro dei revisori contabili.
L’articolo 7 prevede che, salvi i poteri e le funzioni della Commissione centrale per i revisori contabili, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili verifica periodicamente la permanenza dei requisiti per l’iscrizione delle società nel registro e, per quanto riguarda le persone fisiche, dei requisiti di onorabilità, nonché la sussistenza delle circostanze per cui è disposta la cancellazione dal registro, ai sensi dell’articolo 40, comma 2, del DPR n. 99 del 1998, e provvede a darne tempestiva comunicazione alla Commissione centrale per i revisori contabili che formulerà la proposta al direttore generale degli affari civili e delle libere professioni del Ministero della giustizia per l’adozione di opportuni provvedimenti sanzionatori.
L’articolo 8 modifica il sistema di riscossione dei contributi dovuti dai tirocinanti e dai revisori contabili per la tenuta del registro del tirocinio e per l'iscrizione al registro dei revisori contabili, secondo quanto previsto dagli articoli 6 e 29 del DPR 6 marzo 1998, n. 99 e dall’articolo 8 della legge 13 maggio 1997, n. 12, affidando tale riscossione al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Il Ministero della giustizia, sentito il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, definisce l’ammontare dei contributi e determina, salvo conguaglio, la quota di competenza del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili per la copertura delle spese relative alla tenuta del registro dei revisori contabili e del registro del tirocinio, risultanti dal bilancio di previsione approvato entro il 31 gennaio dell’anno di competenza.
L’articolo 9 reca disposizioni transitorie volte a definire la disciplina fino al 31 dicembre 2007, vale a dire finché l’unificazione degli ordini dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali non sarà completata con l’istituzione del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, sia per quanto riguarda lo svolgimento delle funzioni e dei compiti previsti dal decreto legislativo sia per la quantificazione e modalità di pagamento dei contributi.
L’articolo 10 dispone l’abrogazione delle disposizioni incompatibili con le norme recate dal provvedimento mentre l’articolo 11 fissa l’entrata in vigore del decreto legislativo al 1°ottobre 2006, al fine di consentire al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e al Consiglio nazionale dei ragionieri e periti commerciali di adeguarsi alle nuove norme.
L’articolo 11 prevede l’entrata in vigore del decreto alla data del 1° ottobre 2006.
Il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30, Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, costituisce il primo caso di attuazione, nel nostro ordinamento, della delega contenuta nell’articolo 1, comma 4, della L. 131/2003[305] (c.d. legge La Loggia), volta ad adeguare l’assetto ordinamentale all’ampia riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla Legge cost. 3/2001[306] (v. scheda Titolo V e norme di attuazione, nel dossier relativo alla Commissione affari costituzionali).
Si ricorda, in proposito, che il citato comma 4 ha conferito al Governo una delega ad emanare uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto la ricognizione dei princìpi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti nelle materie attribuite alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni, come, nella fattispecie in esame, la materia delle "professioni”, intesa in senso ampio, ovvero comprensiva delle attività professionali, che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, riserva alla potestà legislativa concorrente.
L’attribuzione al Governo di tale compito, per espressa disposizione della legge, avviene “in sede di prima applicazione”, e il suo scopo è quello di “orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi princìpi fondamentali”.
La norma afferma, dunque, il principio secondo cui spetterà al Parlamento individuare con proprie leggi i nuovi princìpi fondamentali, avendo l’attività di ricognizione delegata al Governo carattere provvisorio e contingente: in ragione dell’asserita natura meramente ricognitiva della delega, il Governo non può, con i decreti legislativi di attuazione, modificare i princìpi fondamentali vigenti, dovendo limitarsi a farli emergere nella loro testuale formulazione attualmente vigente nell’ordinamento.
Il citato comma 4, formula, inoltre, i princìpi della delega (individuati nei principi di esclusività; adeguatezza; chiarezza; proporzionalità; omogeneità) e stabilisce la procedura di adozione dei decreti legislativi, che risulta aggravata rispetto a quella delineata, in via generale, dall’art. 14 della L. 400/1988[307].
Infatti, vi si prevede:
§ la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri;
§ il concerto con i ministri interessati;
§ il parere della Conferenza Stato-Regioni;
§ il parere delle Camere, compreso quello della Commissione parlamentare per le questioni regionali, da rendersi entro 60 giorni dall’assegnazione alle competenti Commissioni parlamentari;
§ il riesame da parte del Governo;
§ il parere definitivo della Conferenza Stato-Regioni, da rendersi entro 30 giorni dalla nuova trasmissione del testo eventualmente modificato dal Governo (o corredato delle sue osservazioni);
§ il parere definitivo delle Camere, da rendersi entro 60 giorni dalla nuova trasmissione del testo eventualmente modificato dal Governo (o corredato delle sue osservazioni).
L’organo deputato a rendere il parere parlamentare definitivo è la Commissione parlamentare per le questioni regionali, che deve in particolare rilevare se le disposizioni normative contenute nello schema:
§ non indichino alcuni dei princìpi fondamentali (principi omessi e da inserire);
§ abbiano contenuto innovativo dei principi fondamentali e non siano, quindi, meramente ricognitive (principi inseriti e da omettere perché innovativi);
§ non rechino principi fondamentali, ma, ad esempio, norme di dettaglio (principi inseriti e da omettere perché “non principi”).
I rilievi della Commissione parlamentare per le questioni regionali producono uno specifico effetto procedurale sull’attività successiva del Governo nelle sue vesti di legislatore delegato, conducendolo a dover optare tra le seguenti alternative:
§ espungere dal testo definitivo le disposizioni costituenti nuovi princìpi o non costituenti principio;
§ modificarle secondo le indicazioni della Commissione;
§ conservare ugualmente le disposizioni oggetto del rilievo, trasmettendo ai Presidenti delle Camere e al Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali una relazione che motivi la difformità rispetto al parere parlamentare.
Si segnala che sulla delega legislativa testé illustrata è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 13 luglio 2004.
Con tale sentenza la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i commi 5 e 6 dell’articolo 1 della L. 131/2003, le parti cioè che individuavano i criteri direttivi della delega (co. 6) e consentivano di estendere la ricognizione alle disposizioni che, nell’ambito delle materie di legislazione concorrente, fossero riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, Cost. (co. 5).
Nella sentenza, la Corte si è concentrata sulla peculiarità della delega in oggetto, in quanto “meramente ricognitiva” e finalizzata a un “primo orientamento” dell’attività legislativa di Stato e Regioni.
Risulta chiaro, secondo la Corte, che “oggetto della delega è esclusivamente l’espletamento di un’attività che non deve andare al di là della mera ricognizione di quei princìpi fondamentali vigenti, che siano oggettivamente deducibili”.
A proposito dell’infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente a oggetto l’art. 1, comma 4, la Corte ha infatti sostenuto che i decreti legislativi ricognitivi dei principi fondamentali costituiscono “un quadro (...) di principi già esistenti, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative regionali, determinato dal mutamento del titolo V della Costituzione, andrà a regime, e cioè (…) fino al momento della entrata in vigore delle apposite leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali”.
Inoltre, secondo la Corte, i decreti legislativi sopra citati costituiscono un “quadro di primo orientamento destinato ad agevolare, contribuendo al superamento di possibili dubbi interpretativi, il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza peraltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali, dal momento che il comma 3, dello stesso articolo 1 (della Legge 131/2003), ribadisce che le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato, o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.
Con questa “lettura minimale” – che assimila la delega in esame a quelle di compilazione dei testi unici – contrastavano quindi i co. 5 e 6 dello stesso art. 1, i quali imponevano al legislatore delegato “un’attività interpretativa, largamente discrezionale”: il co. 5, infatti, ampliava “notevolmente e in maniera del tutto indeterminata l’oggetto della delega stessa fino eventualmente a comprendere il ridisegno delle materie”; i criteri direttivi di cui al co. 6 non solo evocavano “nella terminologia impiegata l’improprio profilo della ridefinizione delle materie, ma” stabilivano, “anche una serie di ‘considerazioni prioritarie’ nella prevista identificazione dei princìpi fondamentali vigenti, tale da configurare una sorta di gerarchia tra di essi”.
In considerazione di quanto sopra esposto in ordine alla portata “minimale” della disposizione di delega, e alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale, si segnala fin da ora che la ricognizione dei principi fondamentali operata dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 in commento non sembra assumere alcuna portata innovativa e non appare pertanto in grado di limitare la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia di professioni.
Composto da 7 articoli, il decreto legislativo si articola in tre Capi.
Il Capo I, recante le Disposizioni generali, si compone del solo articolo 1, che definisce l’ambito d’applicazione del decreto.
Si tratta, come già illustrato, dell’individuazione dei princìpi fondamentali in materia di professioni, di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che si desumono dalla legislazione statale vigente ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della Legge “La Loggia”.
Tali principi sono più compiutamente enunciati nel Capo II e al loro rispetto sono tenute le Regioni al momento dell’esercizio della loro potestà legislativa in materia di professioni.
Si specifica che la potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale.
L’articolo esclude dall’ambito di applicazione del decreto alcune specifiche discipline che, pur riconducibili alla stessa materia, ineriscono a interessi unitari e afferiscono alla potestà esclusiva dello Stato:
§ la formazione professionale universitaria;
§ la disciplina dell'esame di Stato previsto per l'esercizio delle professioni intellettuali, nonché i titoli, compreso il tirocinio, e le abilitazioni richiesti per l'esercizio professionale;
§ l'ordinamento e l'organizzazione degli Ordini e dei collegi professionali;
§ gli albi, i registri, gli elenchi o i ruoli nazionali previsti a tutela dell'affidamento del pubblico;
§ la rilevanza civile e penale dei titoli professionali
§ il riconoscimento e l'equipollenza, ai fini dell'accesso alle professioni, di quelli conseguiti all'estero.
Il Capo II indica i seguenti principi fondamentali:
Tutela della libertà professionale (articolo 2): l'esercizio della professione, quale espressione del principio della libertà di iniziativa economica, è tutelato in tutte le sue forme e applicazioni, purché non contrarie a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume. Le regioni non possono adottare provvedimenti che ostacolino l'esercizio della professione.
E’ sancito il divieto di ogni discriminazione derivante da ragioni razziali, sessuali, politiche, religiose e in genere da qualsiasi condizione personale o sociale, secondo quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro (v. capitolo Parità di trattamento nel lavoro, nel capitolo relativo alla Commissione lavoro).
Anche l'attività professionale esercitata nelle forme del lavoro dipendente deve svolgersi secondo specifiche disposizioni normative che assicurino l'autonomia del professionista.
Si stabilisce che le associazioni rappresentative di professionisti che non esercitano attività regolamentate o tipiche di professioni disciplinate ai sensi dell'articolo 2229[308] del codice civile, se in possesso dei requisiti e nel rispetto delle condizioni prescritte dalla legge per il conseguimento della personalità giuridica, possono essere riconosciute dalla regione nel cui àmbito territoriale si esauriscono le relative finalità statutarie.
Tutela della concorrenza e del mercato (articolo 3). L'esercizio della professione si svolge nel rispetto della disciplina statale della tutela della concorrenza (ivi compresa quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale), della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale
La norma equipara l’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo a quella d’impresa, ai fini della applicazione della disciplina in materia di concorrenza, di cui agli artt. 81, 82 e 86 del Trattato CE[309], salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali.
Sono ammessi gli interventi pubblici a sostegno dello sviluppo delle attività professionali, secondo le rispettive competenze di Stato e Regioni, nel rispetto della normativa comunitaria.
Princìpi relativi all’accesso alle professioni (articolo 4): l'accesso all'esercizio delle professioni è libero, nel rispetto delle specifiche disposizioni di legge.
Relativamente alle attività professionali per l’esercizio delle quali sia richiesta una specifica preparazione, a garanzia di finalità tutelate dallo Stato, debbono essere rispettati i requisiti tecnico-professionali e la definizione dei titoli stabiliti dalla legge statale.
I titoli professionali rilasciati dalla regione nel rispetto dei livelli minimi uniformi di preparazione stabiliti dalle leggi statali, consentono l'esercizio dell'attività professionale anche fuori dei limiti territoriali regionali.
Princìpi per la regolazione delle attività professionali (articolo 5): si individuano alcuni princìpi cui la regolazione delle attività professionali dovrà ispirarsi: tutela della buona fede, affidamento del pubblico e della clientela, correttezza, tutela degli interessi pubblici, ampliamento e specializzazione dell'offerta dei servizi, autonomia e responsabilità del professionista.
Il Capo III reca le disposizioni finali del decreto legislativo.
L’articolo 6 dispone l’applicazione a favore delle Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano di quanto previsto dall’articolo 11 della legge “La Loggia”.
Il citato art. 11 fa salvo quanto previsto dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, nonché dall’articolo 10 della legge costituzionale 3/2001, che estende alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano l’applicazione di quelle parti della riforma del Titolo V che prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite (ciò sino all'adeguamento degli statuti).
L’art. 11 stabilisce inoltre che le Commissioni paritetiche previste dagli statuti speciali, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi del sopra richiamato articolo 10 L.cost. 3/2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative.
Tali Commissioni sono inoltre facoltizzate a proporre l’adeguamento degli Statuti anche in relazione alla disciplina delle attività regionali in materia di rapporti internazionali e comunitari.
L’articolo 7 reca, infine, una disposizione di rinvio ai sensi della quale i princìpi fondamentali individuati nel decreto legislativo in commento si applicano a tutte le professioni, restando comunque fermi quelli riguardanti specificamente le singole professioni.
Questioni all’esame
delle istituzioni dell’Unione europea
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)
Il 4 ottobre 2005 la Commissione hapresentato una proposta di decisione quadro(COM(2005)475) relativa alla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale.
La proposta, che segue la procedura di consultazione, dovrebbe essere esaminata dal Parlamento europeo nella riunione del 13 giugno 2006.
Il 15 dicembre 2005 la Commissione hapresentato una proposta di regolamento (COM(2005)650) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I).
La proposta mira alla modernizzazione e alla trasformazione in strumento comunitario della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali.
La Convenzione di Bruxelles del 1968 relativa alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale contiene opzioni che permettono di scegliere tra tribunali di Stati diversi, facendo sorgere il rischio che una parte scelga i tribunali di uno Stato membro piuttosto che quelli di un altro soltanto perché ritiene che la legge applicabile nel primo Stato le sarebbe più favorevole. Per ridurre tale rischio, nel 1980 gli Stati membri hanno firmato, sulla stessa base giuridica, la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (cosiddetta “Roma I”).
La proposta, che segue la procedura di codecisione, è in attesa di esame da parte del Parlamento europeo in prima lettura e del Consiglio.
Il 12 ottobre 2005 la Commissione hapresentato una proposta di decisione quadro(COM(2005)490) relativa allo scambio di informazioni in materia di applicazione della legge in virtù del principio di disponibilità,in base al quale un ufficiale di uno Stato membro può richiedere le informazioni di cui necessita ad un altro Stato membro, che è tenuto a trasmettergliele per i fini dichiarati.
La proposta, che segue la procedura di consultazione, dovrebbe essere esaminata dal Parlamento europeo nella riunione del 13 giugno 2006.
Il 4 ottobre 2005 la Commissione hapresentato una proposta di decisione quadro(COM(2005)475) relativa alla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale.
La proposta è finalizzata a migliorare tale cooperazione, in particolare per quanto riguarda la prevenzione e la lotta contro il terrorismo, nel rispetto dei diritti fondamentali, con particolare attenzione al diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali.
La proposta, che segue la procedura di consultazione, dovrebbe essere esaminata dal Parlamento europeo nella riunione del 13 giugno 2006.
Il 12 ottobre 2005 la Commissione hapresentato una proposta di decisione quadro(COM(2005)490) relativa allo scambio di informazioni in materia di applicazione della legge in virtù del principio di disponibilità, in base al quale un ufficiale di uno Stato membro può richiedere le informazioni di cui necessita ad un altro Stato membro, che è tenuto a trasmettergliele per i fini dichiarati.
La proposta, che segue la procedura di consultazione, dovrebbe essere esaminata dal Parlamento europeo nella riunione del 13 giugno 2006.
Il 1° agosto 2000 la Commissione ha presentato una proposta di regolamento relativa al brevetto comunitario (COM(2000)412) che mira alla creazione di un sistema di brevetto unico valido in tutta l’Unione europea. La mancata intesa sul regime linguistico da applicare per la traduzione delle rivendicazioni relative al brevetto, ha fino ad oggi impedito di arrivare ad un accordo sulla proposta.
Il 12 luglio 2005 laCommissione ha presentato una proposta di direttiva relativa alle misure penali finalizzate ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (COM(2005)276–1) e una proposta di decisione quadro sul rafforzamento del quadro penale per la repressione delle violazioni della proprietà intellettuale (COM(2005)276–2), nell’ambito della lotta contro il crescente fenomeno dei reati in materia.
[1] La legge reca: Modifica alla L. 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura
[2] Molto sinteticamente va ricordato che le censure mosse dal Presidente Ciampi al disegno di legge sull’ordinamento giudiziario (A.C. 4636) hanno riguardato:
§ la facoltà del Ministro della giustizia di rendere comunicazioni alle Camere anche sulle linee di politica giudiziaria dell’anno in corso, (contrasto con gli articoli 101,104 e 110 della Costituzione) di cui all’articolo 2, comma 29 lettera a) del provvedimento, non più presente nella formulazione attualmente vigente;
§ l’istituzione presso ogni direzione regionale o interregionale del Ministero della giustizia di un ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti in tutte le fasi o gradi del giudizio (contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione), di cui all’articolo 2, comma 14, lettera c del disegno di legge, riferimento non più presente nell’attuale formulazione dell’articolo 2, comma 12 della legge 150/2005;
§ la legittimazione del Ministro – a proposito dei concorsi per gli incarichi direttivi, su cui il CSM delibera “previo concerto” o “parere” del Ministro – a ricorrere in sede di giustizia amministrativa contro le delibere eventualmente adottate dal CSM in contrasto con il concerto o con il parere del Ministro (contrasto con l’articolo 134 della Costituzione), di cui all’articolo 2, comma 1, lettera m) del disegno di legge e dellalegge150/2005, comma riformulato nel senso di escludere la legittimazione del Ministro nei casi di ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato;
§ la circostanza che il sistema dei concorsi delineato in generale dal disegno di legge delega, sottoponesse sostanzialmente il CSM a un regime di vincolo che ne riduceva notevolmente i poteri definiti nell’ (…) articolo 105 della Costituzione”. Qui il rilievo non si riferiva ad una puntuale disposizione ma alle varie norme che, su questo argomento, erano presenti nel provvedimento. L’articolo 2, comma 1, lettera l) è stato riformulato nel senso di prevedere che, in tutti i casini cui il concorso debba necessariamente essere preceduto dalla frequenza di un corso presso la Scuola, il CSM “tenga conto” del giudizio elaborato.
[3] La legge reca: Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l'emanazione di un testo unico.
[4] La legge reca: Integrazione all'articolo 110 dell'ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, in materia di applicazione extradistrettuale dei magistrati ordinari.
[5] La legge reca: Disposizioni urgenti in materia di accesso al concorso per uditore giudiziario.
[6] La legge reca: Modifica delle tabelle A e B allegate al D.Lgs 19 febbraio 1998, n. 51, con istituzione della sezione distaccata del Tribunale di Varese nella città di Luino.
[7] La legge reca: Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri.
[8] La legge reca: Disposizioni per l'attuazione della decisione 2002/187/GAI del 28 febbraio 2002 del Consiglio dell'Unione europea, che istituisce l'Eurojust per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità.
[9] Sui contenuti della decisione quadro cfr. D. Manzione, Il mandato di arresto europeo, in La legislazione penale 2002, n. 4
[10] Per un commento articolato sul contenuto della legge 69/2005, cfr. Guida al diritto , 2005, n. 19
[11] Ai sensi del XII Considerandum “La presente decisione quadro non osta a che gli Stati membri applichino le loro norme costituzionali relative al giusto processo, al rispetto del diritto alla libertà di associazione, alla libertà di stampa e alla libertà di espressione negli altri mezzi di comunicazione.”
[12] “Per dare attuazione alla decisione quadro sul mandato di cattura europeo il Governo italiano dovrà avviare le procedure di diritto interno per rendere la decisione quadro stessa compatibile con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, e per avvicinare il suo sistema giudiziario e ordinamentale ai modelli europei, nel rispetto dei principi costituzionali.
[13] Per un compiuto esame dei contenuti della legge 41/2005, si veda D.Borsellino, Riflessione sulla legge n. 41/2005 di attuazione della Decisione istituitva di Eurojust, in Rivista sul diritto penale d’impresa 2006.
[14] Per un commento alla decisione quadro 2002/187/GAI, cfr. D. Manzione, Eurojust e squadre investigative comuni, in La legislazione penale 2002, n. 4
[15] La legge reca: Ratifica ed esecuzione dell' Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l' applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonche' conseguenti modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale
[16] Per un commento ed un’illustrazione dei contenuti dell’ordinanza della Corte cfr Adele Anzon, Il nuovo regime delle rogatorie internazionali tra problemi interpretativi e censure di incostituzionalità e Chiara de Simone, La decisione della Corte costituzionale sulle rogatorie internazionali: ordinanza n. 315 del 2002, dal sito dell’Associazione italiana dei costituzionalisti.
[17] La legge reca: Disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nel territorio del Ruanda e Stati vicini
[18] La legge reca: Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall' Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001
[19] La legge reca: Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti.
[20] La legge reca: Modifica dell'articolo 188 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271.
[21] La legge reca: Disposizioni in materia di limiti temporali alla permanenza dei magistrati presso le sezioni delle indagini preliminari
[22] L’articolo 2, comma 27, della legge 150/2005, inserendo un comma 2 ter nell’articolo 7 bis del Regio decreto n. 12/1941, ha ampliato a dieci anni consecutivi (invece dei sei precedentemente previsti) il termine massimo di esercizio delle funzioni da parte dei G.I.P. e dei G.U.P. E’ consentita una proroga limitatamente al caso in cui sia in corso il compimento di un atto, fino al compimento della medesima attività.
[23] La legge reca: Modifica della tabella «A» allegata alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, e successive modificazioni, sulla competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati
[24] La legge reca: Disposizioni transitorie sulla conversione del ricorso per cassazione in appello.
[25] Si tratta delle Sentenze 18 maggio 2004, Somogyi e 10 novembre 2004, Sejdovich, che riscontravano una violazione del diritto ad un equo processo di cui all’articolo 6 della Convenzione derivante dalla mancanza di garanzie circa la possibilità di ottenere la riapertura del processo, in caso di assenza non derivante da un inequivoco rifiuto a comparire del condannato.
[26] La disposizione citata annovera, tra le condizioni cui è subordinata l’esecuzione del mandato da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi di decisione pronunciata in absentia , quella di ricevere dall’autorità giudiziaria emittente sufficienti garanzie circa la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro di emissione e di essere presenti al giudizio
[27] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna
[28] Va ricordato che con ordinanza n. 465 del 18 novembre 2002, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sollevata per carente motivazione sulla rilevanza della stessa in relazione al processo da cui era originata la questione medesima.
[29] La legge reca: Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale
[30] La legge reca: Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento
[31] Il comma 2 dell’articolo 603 dispone che se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’articolo 495 comma 1.
[32] Molto sinteticamente va ricordato che, le censure mosse dal Presidente della Repubblica nel messaggio di rinvio alle Camere hanno riguardato:
§ le modifiche all’articolo 606 c.p.p. che, sopprimendo, alla lettera d) il riferimento della richiesta della parte ai sensi dell’articolo 495, comma 2, ed alla lettera e) la condizione che tali vizi debbano risultare dal testo del provvedimento impugnato, da un lato sopprimono la condizione che la mancata assunzione di una prova decisiva sia rilevante come motivo di ricorso soltanto se addotta come controprova rispetto a fatti posti a carico o a discarico del pubblico ministero o dall’imputato, dall’altro – con la modifica alla lettera e - fanno venir meno la condizione che la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione debbano emergere esclusivamente dal provvedimento impugnato. In tal senso. Pertanto. si genera un’evidente mutazione delle funzioni della Corte di cassazione, da giudice di legittimità a giudice di merito in palese contrasto con quanto stabilito dal settimo comma dell’articolo 111 della Costituzione.
§ la circostanza che il provvedimento, dopo aver previsto l’applicabilità della legge ai procedimenti in corso, stabilisce che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della legge contro una sentenza di proscioglimento si converta in ricorso per cassazione e trasferisce dalla Corte di appello alla Corte di cassazione l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere.
§ la violazione del principio della ragionevole durata del processo sancito dal secondo comma dell’articolo 111 della Costituzione. Viene infatti rilevato che la funzione compensativa attribuita all’ampliamento delle ipotesi del ricorso per cassazione ha un effetto inflativo superiore di gran lunga a quello deflattivo derivante dalla soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento. La soppressione citata viene giudicata altresì, a causa della disorganicità della riforma, come una violazione del principio della parità delle parti di cui al secondo comma dell’articolo 111 della Costituzione: la posizione delle parti nel processo viene infatti ad assumere una condizione di disparità che supera quella compatibile con le diversità delle funzioni svolte dalle parti nel processo stesso.
§ la circostanza che la vittima del reato costituitasi parte civile vede compromessa dalla legge la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale.
§ la segnalazione, infine, di alcune incongruenze e contraddittorietà del testo.
[33] Per un commento al contenuto della legge 44/2006, cfr. G. Spangher, Legge Pecorella, l’appello si sdoppia tra l’eccezionale e il fisiologico, in Diritto e Giustizia 2006, n. 9.
[34] La legge reca: Modifica dell'articolo 295 del codice di procedura penale, in materia di intercettazioni per la ricerca del latitante
[35] La legge reca: Sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni
[36] Per un esame del contenuto e della natura giuridica dell’istituto cfr. Felice Pier Carlo Iovino, Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva, in Cassazione penale 2003, n. 12.
[37] La legge reca: Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della L. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario
[38] La legge reca: Modifiche alla L. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di liberazione anticipata
[39] La legge reca: Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti
[40] Va ricordato che l’articolo 2 del D.L. 35/2005 e l’articolo 1 della legge di conversione 80/2005 hanno, rispettivamente, introdotto modifiche alla legge fallimentare di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e delegato al Governo a riformare la disciplina delle procedure concorsuali. Il Governo ha esercitato la delega mediante l’emanazione del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5. Su tali aspetti cfr. ultra .
[41] Il decreto legge reca: Definizione e proroga di termini nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative
[42] La legge reca: Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonche' ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato
[43] La legge reca: Riforma delle esecuzioni mobiliari
[44] La legge reca: Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80
[45] Il decreto legge reca: Proroga del termine previsto dall’articolo 6 della legge 24 marzo 2001, n. 89, relativo alla presentazione della domanda di equa riparazione
[46] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità
[47] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale
[48] Per un compiuto esame delle questioni poste dal D.L. 374/2001, cfr. A. Palma, Terrorismo internazionale: risposta dello Stato italiano, in Pubblicazioni Centro Italiano Studi per la pace
[49] Il decreto legge reca: Disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afgana dei Talibani
[50] Il decreto legge reca: Misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale
[51] Il decreto legge reca: Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale
[52] Il decreto legge reca: Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
[53] La legge reca: Modifica al decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373, in tema di tutela del diritto d' autore
[54] La legge reca: Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell' occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti
[55] La legge reca: Proroga del termine previsto per la conclusione dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell' occultamento dei fascicoli relativi a crimini nazifascisti
[56] La legge reca: Misure contro la tratta di persone
[57] La legge reca: Modifiche al codice penale e alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato
[58] La legge reca: Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate
[59] Legge 4 ottobre 2004, n. 254, Modifica all’articolo 33 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973, n. 156, in materia di tutela del commercio filatelico
[59] La rubrica dell’art. 33 reca Contraffazione di bolli, punzoni e relative impronte ed uso di tali sigilli e strumenti contraffatti. Tutela penale di francobolli di altri Stati
[60] La legge reca: Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione
[61] La legge reca: Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile
[62] La legge reca: Modifica all’articolo 52 del codice penale in materia di diritto all’autotutela in un privato domicilio
[63] La legge reca: Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione
[64] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive
[65] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive
[66] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione
[67] Il decreto legge reca: Ulteriori misure per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive
[68] La legge reca: Modifiche al codice penale e al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di omissione di soccorso
[69] La legge reca: Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali
[70] Il decreto legge reca: Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
[71] La legge reca: Modifica all’articolo 342-bis del codice civile, in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari
[72] La legge reca: Introduzione nel libro I, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all' istituzione dell' amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388,414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonche' relative norme di attuazione, di coordinamento e finali
[73] La legge reca: Delega al Governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire
[74] Il decreto legislativo reca: Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire a norma della legge 2 agosto 2004, n. 210
[75] La legge reca: Delega al Governo concernete la disciplina dell’impresa sociale
[76] Il decreto legislativo reca: Disciplina dell'impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118
[77] La legge reca: Modifica agli articoli 463 e 466 del codice civile in materia di indegnita' a succedere
[78] La legge reca: Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia
[79] Il decreto legislativo reca: Codice in materia di protezione dei dati personali
[80] La legge reca: Modifica all’articolo 23, comma 2, della legge 29 marzo 2001, n. 134, in materia di patrocinio a spese dello Stato
[81] Il decreto legge reca: Modifiche all'articolo 9 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, relativo al contributo unificato di iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali civili, penali e amministrativi, nonché alla legge 24 marzo 2001, n. 89, in materia di equa riparazione convertito dalla legge 10 maggio 2002, n. 91
[82] Il decreto legge reca: Sospensione dei termini processuali, amministrativi e legali concernenti la regione Lombardia
[83] Il D.P.R. reca: Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia
[84] La legge reca: Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115
[85] Il decreto legge reca: Misure urgenti per razionalizzare l’amministrazione della giustizia
[86] Il decreto legge reca: Misure urgenti in materia di amministrazione della giustizia
[87] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti per il funzionamento dei tribunali delle acque, nonché interventi per l’amministrazione della giustizia
[88] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie in attuazione del regolamento (CEE) n. 4045/89 relativo al sistema di finanziamento FEOGA - Sezione garanzia, a norma dell'articolo 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 422
[89] Il decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie in attuazione del regolamento (CE) n. 1148/2001 relativo ai controlli di conformità alle norme di commercializzazione applicabili nel settore degli ortofrutticoli freschi, a norma dell'articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39
[90] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie per le violazioni dei Regolamenti (CE) numeri 1760 e 1825 del 2000, relativi all'identificazione e registrazione dei bovini, nonché all'etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine, a norma dell'articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39
[91] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie per le violazioni del regolamento (CE) n. 2560 del 2001, relativo ai pagamenti transfrontalieri in euro
[92] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari
[93] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CE) n. 1774/2002, e successive modificazioni, relativo alle norme sanitarie per i sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano
[94] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CE) n. 1019/2002 relativo alla commercializzazione dell'olio d'oliva
[95] Il Decreto legislativo reca: Disposizioni sanzionatorie per la violazione del Regolamento (CE) n. 261/2004 che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato
[96] Il decreto legislativo reca: Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
[97] La legge reca: Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli.
[98] Si tratta, nell’ordine temporale di emanazione, del decreto-legge n. 150 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2001, n. 240, del decreto-legge 1 luglio 2002, n. 126, convertito con modificazioni dalla legge 2 agosto 2002, n. 175, dell'articolo 15 del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147, convertito nella legge 1° agosto 2003, n. 200, dell’art. 2 del decreto-legge 24 giugno 2004, n. 158, convertito dalla legge 27 luglio 2004, n. 188, e, come sopra ricordato, dell’articolo 8 (comma 2) del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168
[99] Il decreto legge reca: Disposizioni per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione
[100]La legge reca: Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet
[101]La legge reca: Delega al Governo per la riforma del diritto societario
[102]Il Decreto legislativo reca: Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa' commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366
[103]La legge reca: Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari
[104]Il Decreto legislativo reca: Riforma organica della disciplina delle societa' di capitali e societa' cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366
[105]Modifiche e integrazioni sono state successivamente apportate dal decreto legislativo 6 febbraio 2004, n. 37, che ha provveduto altresì all’adeguamento del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Ulteriori correzioni e integrazioni sono state apportate dal decreto legislativo 28 dicembre 2004, n. 310.
[106]A questo riguardo si rinvia all’apposito capitolo su Banche, credito e moneta.
[107]Il Decreto legislativo reca: Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonchè in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366
[108]Modifiche e integrazioni sono state successivamente apportate dai decreti legislativi 6 febbraio 2004, n. 37, e 28 dicembre 2004, n. 310.
[109]Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti nell'àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale
[110]Il Decreto legislativo reca: Riforma organica delle procedure concorsuali
[111]Il decreto legislativo reca: Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d'appello, a norma dell'articolo 16 della L. 12 dicembre 2002, n. 273.
[112]Il decreto legge reca: Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense
[113]La legge reca: Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato
[114]La legge reca: Delega al Governo per l'istituzione dell'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili
[115]Il decreto legislativo reca: Costituzione dell'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma dell'articolo 2 della L. 24 febbraio 2005, n. 34
[116]Il decreto legislativo reca: Attribuzione all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di competenze sul registro dei revisori contabili, a norma dell'articolo 5 della L. 24 febbraio 2005, n. 34
[117]Il decreto legislativo reca: Ricognizione dei princìpi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell'articolo 1 della L. 5 giugno 2003, n. 131
[118]La legge reca: Modifiche alla legge 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura
[119]L’art. 5 della legge 195/1958 prevede, tra l’altro, che ledeliberazioni del plenum del C.S.M. siano prese a maggioranza dei voti (in caso di parità, prevale il voto del Presidente).
[120]Ai sensi dell’art. 19 della legge 511/1946 le sanzioni disciplinari sono:1) l'ammonimento; 2) la censura; 3) la perdita dell'anzianità; 4) la rimozione; 5) la destituzione.
[121]Le decisioni sui ricorsi (reclami) per ineleggibilità in base alle vigenti norme (art. 29, legge 195/1958) spettano al Consiglio superiore.
[122]D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 “Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie”.
.
[123]La legge reca: Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l'emanazione di un testo unico”
[124]Per l’illustrazione dell’articolato dei provvedimenti ci si è riferito alle relazioni di accompagnamento agli schemi di decreto legislativo presentati al Parlamento per il parere ai sensi dell’art. 1, comma 4, della legge delega n. 150/2005..
[125] Il provvedimento reca: Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall'impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento.
[126]La legge reca: Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[127]Il decreto legislativo reca: Riforma dell' organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11, della legge 15 marzo 1997, n. 59.
[128]La legge reca: Integrazione all'articolo 110 dell'ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, in materia di applicazione extradistrettuale dei magistrati ordinari
[129] Proprio per garantire il rispetto del termine dell’applicazione, il comma 7 dell’art. 110 esclude che il magistrato applicato possa svolgere attività in procedimenti penali la cui trattazione si prevede particolarmente lunga, a meno che non si tratti di procedimenti per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
[130] La legge reca: Aumento del ruolo organico e disciplina dell' accesso in magistratura.
[131]La legge reca: Modifica delle tabelle A e B allegate al decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, con istituzione della sezione distaccata del tribunale di Varese nella città di Luino
[132]Il disegno di legge S. 4233 (Pellicini ed altri) dopo l’approvazione in sede referente da parte della Commissione giustizia del Senato (19 ottobre 2000) non ha concluso il suo iter per il sopraggiungere del termine della legislatura.
[133]D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 “Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado”.
[134]La legge reca: Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri
[135] A differenza dei tradizionali strumenti di cooperazione a livello intergovernativo, quali convenzioni e accordi, la decisione quadro non richiede per la sua operatività di essere ratificata dagli Stati membri, ma vincola i paesi appartenenti all'Unione a porre in essere, entro i limiti di tempo fissati nella decisione stessa, le necessarie procedure di adattamento del diritto nazionale alle disposizioni in essa contenute, lasciando tuttavia, al pari delle direttive comunitarie, piena discrezionalità a ciascuno Stato in ordine alle forme e ai mezzi da adottare per il raggiungimento dello scopo prefissato, non potendo la decisione stessa modificare, alla stregua dei regolamenti, direttamente le situazioni giuridiche soggettive dei cittadini.
[136]L’illustrazione della legge 69/2005 è basata sul contributo di De Amicis-Iuzzolino, Al via in Italia il mandato d’arresto europeo, in Diritto e Giustizia, n. 19/2005.
.[137] L legge reca: Disposizioni per l'attuazione della decisione 2002/187/GAI del Consiglio dell'Unione europea del 28 febbraio 2002, che istituisce l'Eurojust per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità.
[138] L'articolo 2 della decisione quadro nello stabilire i requisiti del membro nazionale, cita, oltre al titolo di magistrato del pubblico ministero e giudice, quello di funzionario di polizia con pari prerogative. Tale ultimo riferimento è diretto a tener conto delle esigenze di quegli Stati membri, in particolare di common law, che attribuiscono a tali funzionari competenza in materia di cooperazione giudiziaria.
[139]Va ricordato che scopo della Convenzione citata è quello di incoraggiare ed attualizzare l'assistenza tra le autorità giudiziarie, di polizia e delle dogane completando e facilitando l'applicazione della convenzione del Consiglio d'Europa sull'assistenza giudiziaria in materia penale del 1959 e il suo protocollo del 1978, della convenzione sull'applicazione dell'accordo di Schengen del 1990 e del trattato Benelux del 1962. Tale assistenza giudiziaria rispetta i principi fondamentali di ogni Stato membro, compresa la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1951
[140]Va osservato che, nel corso del dibattito al Senato, si è opinato come la formulazione della norma (che ripete testualmente la formulazione della decisione quadro), prefigurando in capo al membro nazionale un controllo di giurisdizione, attribuisse una competenza assolutamente incompatibile con l'asserita natura amministrativa delle sue funzioni. L’uso del verbo “accettare” è, infatti, sembrato rimandare, da un lato, ad un consenso necessario all’avvio dell’indagine o all’esercizio dell’azione penale da parte dell’autorità giudiziaria nazionale ovvero alla rinuncia alla sua competenza in favore di quella straniera (ritenuta “più indicata” nel caso specifico); dall’altro, in caso di mancato consenso, ad un eventuale potere coercitivo del rappresentante nazionale di Eurojust. La norma, in effetti, stante la mancanza dei citati poteri coercitivi del membro nazionale (ma anche del collegio di cui all’art. 6) nulla dispone quanto all’eventualità che il magistrato non accetti di spogliarsi dell’indagine tanto in merito all’autorità competente per lo scioglimento di un eventuale conflitto di giurisdizione. Va inoltre considerato quanto previsto dell’art. 112 Cost. che stabilisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
[141]Dal sito del Ministero della giustizia.
[142]La legge reca: Ratifica ed esecuzione dell' Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l'applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale
[143]L’articolo IV dell’Accordo italo-svizzero esclude la possibilità che lo Stato richiedente utilizzi le informazioni ottenute grazie all’assistenza in qualsiasi procedura relativa ad un reato per il quale l’assistenza è esclusa. Il paragrafo 2 del medesimo articolo precisa che il divieto di utilizzare le informazioni ottenute si riferisce ai fatti che hanno per lo Stato richiesto natura politica, militare o fiscale, con esclusione dei casi di truffa fiscale.
[144]In proposito va ricordato che le sanzioni processuali previste dalla legge in conseguenza della violazione delle regole del procedimento vengono classificate dalla dottrina nella categorie della irregolarità, della decadenza, della inutilizzabilità e della nullità (relativa od assoluta). Sinteticamente può rilevarsi che: a) l’irregolarità è qualsiasi vizio formale dell’atto non sanzionato dalla legge con la nullità; b) la decadenza consiste nella perdita o estinzione del diritto o facoltà di porre in essere un atto del procedimento; in riferimento all’atto essa si manifesta come preclusione, vale a dire come divieto di compiere l’atto, o come invalidità (inammissibilità)dell’atto compiuto nonostante il divieto; c) l’inutilizzabilità di un atto consiste nel divieto di una sua utilizzazione e quindi nella sua inidoneità ad essere usato; d) la nullità, infine, invalida l’atto e ne compromette gli effetti.
[145]La legge reca: Disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nel territorio del Ruanda e Stati vicini
[146]D.L. 28 dicembre 1993 n. 544, Disposizioni in materia di cooperazione con il tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia, convertito con modificazioni dalla legge 14 febbraio 1994, n. 120
[147]Vedi art. 14 della legge.
[148]La legge reca: Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti
[149]La legge reca: Modifica dell'articolo 188 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271
[150]La legge reca: Disposizioni in materia di limiti temporali alla permanenza dei magistrati presso le sezioni delle indagini preliminari
[151]Legge 16 dicembre 1999, n. 479, Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense.
[152]La legge reca: Modifica della tabella «A» allegata alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e successive modificazioni, sulla competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati.
[153]Si tratta della legge 24 marzo 2001, n. 89 “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile”.
[154]Legge 19 aprile 2002, n. 72, Disposizioni transitorie sulla conversione del ricorso per cassazione in appello
[155]Legge 26 marzo 2001, n. 128, Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini.
[156]Legge 24 novembre 1999, n. 468, Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’articolo 593 del codice di procedura penale.
[157]D.L. 21 febbraio 2005, n. 17 Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna, convertito dalla legge 22 aprile 2005, n. 60
[158]Legge 7 novembre 2002, n. 248, Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale.
[159]Si tratta delle sezione alla quale il Presidente della Corte di cassazione assegna i ricorsi dei quali rilevi una causa di inammissibilità.
[160]Legge 20 febbraio 2006, n. 46, Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento
[161]Si tratta delle due ipotesi di nullità di cui ai commi 1 e 4 dell’art. 419: mancata notifica da parte del giudice all'imputato e alla persona offesa, della quale risulti agli atti l'identità e il domicilio, l'avviso del giorno, dell'ora e del luogo dell'udienza, con la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero e con l'avvertimento all'imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia; violazione del termine di notifica e comunicazione (almeno dieci giorni prima della data dell'udienza) degli avvisi (entro lo stesso termine va notificata la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria).
[162]Legge 14 febbraio 2006, n. 56, Modifica all’articolo 295 del codice di procedura penale, in materia di intercettazioni per la ricerca del latitante
[163]La legge reca: Sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni.
[164]La legge reca: Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
[165]Si tratta del regime cui possono essere sottoposti per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati, gli internati e gli imputati:
a) che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti;
b) che con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati;
c) che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti.
[166]Ai sensi dell’art. 4, comma 1, legge 381/1991, si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all'esterno ai sensi dell'articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
[167]La legge reca: Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario.
[168] “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356)
[169] Con l’inserimento di un comma aggiuntivo (1-bis) all’art. 6 della legge 7 gennaio 1998, n. 11, la legge 446/1999 prevede infatti la proroga al 31 dicembre 2000 della vigenza del comma 2 dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, così come già stabilito per le disposizioni sulla partecipazione a distanza al procedimento penale (cd. videoconferenze).
[170]La legge reca: Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di liberazione anticipata.
[171]Va segnalato che il provvedimento riproduce, pressoché integralmente, il contenuto di una proposta di legge approvata dal Senato e poi modificata dalla Camera, che tuttavia il Senato non aveva potuto definitivamente licenziare avendo ravvisato nel nuovo testo (S. 568-B) un’incongruenza normativa - rappresentata dalla compresenza di due norme contraddittorie - non più sanabile dal punto di vista procedurale. Per l’esigenza di rimediare a tale inconveniente il Senato ha deciso di intraprendere l’esame di un nuovo provvedimento (S. 1803) in materia di liberazione anticipata, che è stato approvato in sede deliberante dalla Commissione giustizia, con conseguente assorbimento di quello trasmesso dalla Camera - non più emendabile per le parti approvate nell’identico testo da entrambi i rami del Parlamento -. La vicenda che ha portato alla presentazione del nuovo progetto di legge S. 1803 è così spiegata nella relazione dei presentatori: "durante l’iniziale esame in Senato del disegno di legge S. 568, era stata inserita la disposizione contenuta nell’articolo 4 che aveva attribuito al magistrato di sorveglianza la competenza a decidere in ordine alla concessione del beneficio della liberazione anticipata, prevedendo che lo stesso dovesse pronunciarsi a seguito di una procedura che assicurava, in linea generale, il contraddittorio tra le parti, anche se veniva delineata, in via subordinata, la possibilità che la concessione del beneficio avvenisse mediante una procedura de plano, in seguito ad espressa richiesta del condannato.
A ciò era destinato l’articolo 1 del testo e, proprio in tale ottica, era stata poi introdotta la previsione contenuta nel citato articolo 4, che – modificando l’articolo 678 del codice di procedura penale e inserendo fra le competenze del magistrato di sorveglianza anche quella relativa alla riduzione di pena per la liberazione anticipata – disponeva che lo stesso dovesse procedere a norma dell’articolo 666 del medesimo codice di rito che, come noto, prevede appunto un procedimento nel quale è assicurato il pieno contraddittorio fra le parti.
La Camera dei deputati, nel successivo esame, ha ritenuto di modificare l’articolo 1 del disegno di legge, prevedendo che il magistrato di sorveglianza dovesse dare luogo soltanto ad una procedura de plano e assicurando il contraddittorio solo in sede di reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza. Una tale scelta avrebbe tuttavia dovuto ovviamente comportare la soppressione della previsione introdotta con il già menzionato articolo 4 del disegno di legge, al fine di impedire un diversamente inevitabile contrasto interno alle norme processuali.
Ciò non è tuttavia accaduto, giacché la Camera dei deputati non ha apportato tale ulteriore modifica (peraltro di mero coordinamento), con la conseguenza che nel disegno di legge pervenuto al Senato si trovavano due diverse e confliggenti disposizioni, la prima delle quali, all’articolo 1, stabilisce che il magistrato proceda in assenza del contraddittorio delle parti, mentre la seconda, all’articolo 4, dispone esattamente il contrario. Si tratta di una palese, quanto inaccettabile, incongruenza normativa, alla quale si sarebbe potuto porre rimedio – a posteriori – solo operando, d’intesa con l’altro ramo del Parlamento, un coordinamento di tipo formale, che però non è stato possibile ottenere.
D’altra parte, sarebbe stata soluzione impraticabile quella di sottoporre alla approvazione della Commissione giustizia del Senato (cui il disegno di legge era stato assegnato in sede deliberante) la soppressione del menzionato articolo 4. Vi era infatti d’ostacolo il disposto dell’articolo 104 del Regolamento del Senato il quale stabilisce che, quando un disegno di legge approvato dal Senato è emendato dalla Camera dei deputati, il Senato – in ulteriore lettura – discute e delibera soltanto sulle modificazioni apportate dalla Camera dei deputati: e il già menzionato articolo 4 risultava, invero, approvato in identica formulazione da entrambi i rami del Parlamento”.
[172]Legge 8 aprile 2004, n. 95, Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti
[173] Il provvedimento reca: Disposizioni urgenti nell'àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.
[174] Il decreto-legge reca: Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione.
[175] La legge reca: "Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonchè ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato.";
[176] Il decreto legislativo reca: Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80.
[177]Legge 24 novembre 1981, n. 689 Modifiche al sistema penale.
[178]Legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.
[179]Legge 24 novembre 1981, n. 689 Modifiche al sistema penale.
[180]Decreto-legge 12 ottobre 2001, n. 370 Proroga del termine previsto dall' articolo 6 della legge 24 marzo 2001, n. 89, relativo alla presentazione della domanda di equa ripartizione
[181]Il provvedimento reca: Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità.
[182]Decreto-legge 28 settembre 2001, n. 353 Disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afghana dei Talibani
[183]Il Regolamento 467/2001 e’ stato successivamente abrogato dal Reg. (CE) 27-5-2002 n. 881/2002 (Regolamento del Consiglio che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al-Qaeda e ai Talibani e abroga il regolamento (CE) n. 467/2001 che vieta l'esportazione di talune merci e servizi in Afghanistan, inasprisce il divieto dei voli e estende il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie nei confronti dei Talibani dell'Afghanistan)
[184]Decreto legge 18 ottobre 2001 n. 374, Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale
[185]Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa.
[186]Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.
[187]Legge 31 maggio 1965, n. 575 Disposizioni contro la mafia.
[188] Il provvedimento reca: Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonche' la funzionalita' dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.
[189] D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 155.
[190] Si ricorda che la situazione giuridica di indagato permane fino alla formulazione dell’imputazione in uno dei suoi atti tipici (richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, ecc.) ovvero fino al promuovimento dell’azione penale; da tale momento in poi, la persona assume la qualità di imputato.
[191] Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
[192] D.L. 6 maggio 2002, n. 83, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza personale ed ulteriori misure per assicurare la funzionalità degli uffici dell'Amministrazione dell'interno, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 luglio 2002, n. 133.
[193] Ai sensi dell’art. 34 del testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, approvato con R.D. 690/1907, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza “vegliano al mantenimento dell'ordine pubblico, all'incolumità e alla tutela delle persone e delle proprietà, in genere alla prevenzione dei reati, raccolgono le prove di questi e procedono alla scoperta, ed in ordine alle disposizioni della legge, all'arresto dei delinquenti; curano l'osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, come pure delle ordinanze delle pubbliche autorità; prestano soccorso in casi di pubblici e privati infortuni”.
[194]Legge 7 febbraio 2003, n. 22, Modifica al decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373, in tema di tutela del diritto d’autore
[195]Legge 15 maggio 2003, n. 107, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti
[196]Un'indagine conoscitiva avente il medesimo oggetto è stata svolta dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati al termine della XIII legislatura (deliberazione del 18 gennaio 2001).
[197]Cfr. Documento conclusivo approvato dalla Commissione, seduta del 6 marzo 2001.
[199]L. 24 ottobre 1977, n. 801, Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato.
[200] La legge reca: Proroga del termine previsto per la conclusione dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti.
[201]Di cui all'articolo 13 del decreto legge 13 maggio 1991 n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata.
[202]Articolo 4, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7, del decreto legge 18 ottobre 2001 n. 374, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2001 n. 438, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale.
[203]Legge 3 agosto 1998 n. 269, Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù.
[204]Va ricordato che il comma 7 dell'articolo 18 del decreto legislativo 286/98 prevede che l'onere derivante dall'articolo sia valutato in lire 5 miliardi per l'anno 1997 e in lire 10 miliardi annui a decorrere dall'anno 1998.
[205]Legge 11 giugno 2004, n. 145, Modifiche al codice penale e alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato
[206]Quando - per ogni effetto giuridico - si devono ragguagliare pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando 38 euro (o frazione di 38 euro) di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva (art. 135 c.p.).
6 L’art. 99 c.p. prevede che colui che, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro, può essere sottoposto a un aumento fino a un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato.
La pena può essere aumentata fino a un terzo: se il nuovo reato è della stessa indole; se il nuovo reato è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente; se il nuovo reato è stato commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena.
Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate nei numeri precedenti, l'aumento di pena può essere fino alla metà.
Se il recidivo commette un altro reato, l'aumento della pena, nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, può essere fino alla metà, e nei casi preveduti dai numeri 1) e 2) del primo capoverso, può essere fino a due terzi; nel caso preveduto dal numero 3) dello stesso capoverso può essere da un terzo ai due terzi.
In nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato.
[208]L’altro requisito previsto dall’art. 179, sesto comma.c.p., ovvero l’adempimento delle obbligazioni civili, non è menzionato essendo già elemento necessario alla concessione della sospensione condizionale speciale di cui all’art. 163, quarto comma.
[208] D.Lgs 28 agosto 2000, n. 274, Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468.
[210] Legge 20 luglio 2004, n. 189, Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate
[211]La legge reca: Modifica all’articolo 33 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973, n. 156, in materia di tutela del commercio filatelico.
[212] La rubrica dell’art. 33 reca Contraffazione di bolli, punzoni e relative impronte ed uso di tali sigilli e strumenti contraffatti. Tutela penale di francobolli di altri Stati
[213] Le disposizioni degli artt. 453, 455 e 457 c.p. – cui l’art. 459 fa rinvio– prevedono le seguenti pene: la reclusione da tre a dodici anni e la multa da € 516 a € 3.098 nel caso di falsificazione, spendita ed introduzione nello Stato, previo concerto, di monete falsificate (art. 453); le stesse pene, ridotte da un terzo alla metà, per i casi di spendita ed introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate (art. 455); la reclusione fino a sei mesi o la multa fino € 1.032, nel caso di spendita di monete falsificate ricevute in buona fede (art. 457).
[214]Legge 5 dicembre 2005, n. 251, Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione.
[215]L’art. 62-bis c.p. prevede la possibilità per il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’art. 62, di prendere in considerazione altre e diverse circostanze qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tali circostanze saranno comunque considerate come una sola circostanza che potrà concorrere con una o più delle circostanze attenuanti comuni.
[216]Come affermato dal relatore nel corso della seduta della Assemblea del Senato del 26 luglio 2005, tale specificazione non era strettamente necessaria ma è stata introdotta nel timore che la imprescrittibilità dei suddetti reati non risultasse chiaramente dal testo.
[217]E’ stato osservato (si veda l’intervento del sen. Zancan nel corso della seduta del 26 luglio 2005) che nei sessanta giorni non è conteggiato il periodo di sospensione feriale, con la conseguenza che “i sessanta giorni risulterebbero mangiati, per un impedimento legato al mese di luglio, dai quarantacinque giorni del periodo feriale”.
[218]Come affermato dal relatore del provvedimento nel corso della seduta dell’Assemblea del Senato del 26 luglio 2005, mediante tale modifica “viene eliminato il riferimento alla durata della sospensione parametrata alla durata dell'impedimento”, al fine di ottenere il superamento di una “prassi degenerativa da lungo tempo instauratasi nei nostri tribunali per la quale, a fronte di un impedimento di un giorno, si rinvia di un anno la prescrizione, arrecando grave danno e lesione ai diritti degli imputati”; si dà, inoltre, “ai magistrati (…) un paletto di riferimento congruo, dal punto di vista della possibilità del rinvio, ma certamente non tale da consentire loro scelte arbitrarie o eccessivamente discrezionali”.
[219]La legge reca: Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile.
[220]D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231 Disciplina della responsabilita' amministrativa delle persone giuridiche, delle societa' e delle associazioni anche prive di personalita' giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300.
[221]Legge 13 febbraio 2006, n. 59, Modifica all'articolo 52 del codice penale in materia di diritto all'autotutela in un privato domicilio.
[222]La Commissione è stata Istituita con D.I. 23 novembre 2001 presso l'Ufficio Legislativo.
[223]Si tratterebbe, non essendo ammessa la prova contraria, di una presunzione assoluta o juris et de jure.
[224]Può essere opportuno ricordare che, in base alla interpretazione che la giurisprudenza ha sinora dato alla nozione di domicilio di cui all’articolo 614 del codice penale, la norma dovrebbe già trovare applicazione in caso di illecita introduzione o intrattenimento in qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente alla esplicazione della vita privata o dell’attività lavorativa. La Cassazione, infatti, ha sostenuto che nel concetto di domicilio non rientri soltanto l’abitazione, ma tutti quei luoghi che assolvano alla funzione di proteggere la vita privata e che siano perciò destinati al riposo, all’alimentazione, alle occupazioni professionali e all’attività di svago
[225] La legge reca: Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione.
[226]Da ultimo, la sentenza n. 168 del 18-29 aprile 2005, della Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall'art. 406 dello stesso codice.
[227]D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della L. 25 giugno 1999, n. 205.
[228] Il provvedimento reca: Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive.
[229]L. 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico.
[230] D.L. 26 aprile 1993, n. 122, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa convertito dalla L. 25 giugno 1993, n. 205.
[231]Nel corso dell’esame presso il Senato del D.L: 336/2001 fu stabilito che il termine “competizioni agonistiche” contenuto nella legge 401/1989 fosse ovunque sostituito con il termine “manifestazioni sportive”, ritenuto più elastico ed aderente alle fattispecie in oggetto.
[232]Va ricordato che la citata sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 6, comma 3, della legge 401/89, come sostituito dall’articolo 1 della legge 24 febbraio 1995, n. 45, nella parte in cui non prevede che la notifica del provvedimento del Questore contenga l’avviso che l’interessato ha facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice per le indagini preliminari.
Cass., I sez., sent. n. 2130 del 16 giugno 2000 ha precisato come l’omissione dell’avviso all’interessato della facoltà di presentare memorie o deduzioni al GIP costituisce causa di nullità del provvedimento stesso.
[233]La legge reca: Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali.
[234]Legge 24 dicembre 1969 n. 990, Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti.
[235] Il D.Lgs. reca: Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468.
[236]La legge reca: Modifiche al codice penale e al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di omissione di soccorso
[237]Il decreto legislativo reca: Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468
[238] Il DPR reca: Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
[239]Decreto Ministro della salute 11 aprile 2006, Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze elencate nella tabella I del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, ai sensi dell'articolo 73, comma 1-bis.
[240]Legge 24 novembre 1981 n. 689, Modifiche al sistema penale.
[241] La legge reca: Delega al Governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire.
[242] Decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia.
[243] La gestione del Fondo è attribuita alla Concessionaria di servizi assicurativi pubblici S.p.a. (Consap), che vi provvede per conto del Ministero dell'economia e delle finanze sulla base di apposita concessione, approvata con decreto del medesimo Ministero. La domanda di accesso al Fondo deve essere presentata entro sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto (10 febbraio 2006).
[244]La legge reca: Modifiche all'articolo 463 del codice civile in materia di indegnità a succedere.
[245]Decreto-legge 11 marzo 2002, n. 28 Modifiche all'articolo 9 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, relativo al contributo unificato di iscrizione a ruolo dei procedimenti giurisdizionali civili, penali e amministrativi, nonché alla legge 24 marzo 2001, n. 89, in materia di equa riparazione convertito dalla legge 10 maggio 2002, n. 91
[246]Legge 24 marzo 2001, n. 89, Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell' articolo 375 del codice di procedura civile.
[247]Legge 27 luglio 2000, n. 212, Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente.
[248]Legge 8 marzo 1999, n. 50, Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998. Si segnala che il citato articolo 7 è stato successivamente abrogato dall’art. 23 della legge 29 luglio 2003, n. 229, Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. - Legge di semplificazione 2001.
[249]D.Lgs. 30 maggio 2002, n. 113, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia (testo B).
[250]D.P.R 30 maggio 2002, n. 114, Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di spese di giustizia (testo C).
[251]Legge 24 febbraio 2005, n. 25, Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115
[252]L’art. 29 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale (al comma 1-bis, introdotto dall’art. 7 della Legge 6 marzo 2001, n. 60, Disposizioni in materia di difesa d’ufficio) prevede infatti che per l’iscrizione nell’elenco dei difensori d’ufficio di cui all’art. 97 c.p.p. sia necessario attestare l’esercizio della professione forense in sede penale per il periodo di almeno due anni anche in alternativa al possesso dell’attestazione di idoneità rilasciata dall’ordine forense al termine dei corsi di aggiornamento professionale organizzati dall’ordine stesso
[253]In particolare, nel corso del procedimento di conversione del decreto legge sono stati soppressi i Capi I (relativo all’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo) e IV (relativo alla presidenza del collegio delle sezioni semplici della Corte di cassazione).
[254]Legge 21 novembre 1991, n. 374, Istituzione del giudice di pace.
[255]Decreto Legislativo 14 febbraio 2000, n. 37 Istituzione del ruolo del personale amministrativo della segreteria e dell'ufficio studi e documentazione del Consiglio superiore della magistratura, a norma dell'articolo 13 della legge 28 luglio 1999, n. 266
[256] Se il parere parlamentare non è espresso entro il prescritto termine, il piano può essere egualmente adottato.
[257] D.L. 6 maggio 2002, n. 83, Misure urgenti in materia di sicurezza personale ed ulteriori misure per assicurare la funzionalità degli uffici dell’Amministrazione dell’interno, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 2002, n. 133.
[258] D.L. 24 novembre 2000, n. 341, Disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4
[259]La legge 28 settembre 1998, n. 336, Durata massima delle indagini preliminari riguardanti i delitti di strage commessi anteriormente all’entrata in vigore del codice di procedura penale, con una norma speciale, ha disposto un aumento di un anno dei termini di durata delle indagini preliminari compiuti dalle Procure senza modificare il termine biennale ordinariamente previsto dal codice di rito. Tale norma, che porta quindi a tre anni il termine in oggetto, oltre ad avere un ambito temporale applicativo limitato, è ulteriormente circoscritta in relazione ai reati oggetto del provvedimento (art. 285 e 422 c.p.) posti peraltro in essere anteriormente alla data di vigenza del nuovo codice processuale penale
[260] D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59
[261] Il decreto legislativo reca “Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della L. 24 novembre 1999, n. 468”.
[262] Va osservato, in proposito, che la norma dettata dal comma 3 dell’art. 26 può apparire ultronea. Infatti, in caso di appartenenza della questione al tribunale o alla corte d’assise, l’incompetenza per materia dovrebbe, infatti, se non rilevata dal PM ex art. 25, comma 2 (in tal caso il PM esprime parere contrario alla citazione), costituire causa di inammissibilità del ricorso a norma dell’art. 24, comma 1, lett. b) ed essere dichiarata dallo stesso giudice onorario ex art. 26, comma 2; il citato art. 24, comma 1, lett. b) prevede, infatti, l’inammissibilità del ricorso se presentato “fuori dei casi previsti”, ipotesi che ben potrebbe comprendere l’incompatibilità per materia.
[263] I criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione dipendono dalla tipologia dell’area interessata. Nel caso di aree agricole e inedificabili la disciplina è contenuta nella legge n. 865 del 1971 (valore agricolo medio), mentre per le aree edificabili occorre fare riferimento alle leggi nn. 359 e 504 del 1992. Infine, per le aree edificate, la normativa da applicare è contenuta nella citata legge n. 2359 del 1865 che è stata la prima a fissare i criteri generali per la determinazione dell'indennità di espropriazione, stabilendo che "l'indennità dovuta all’espropriato consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compravendita" (criterio del cosiddetto valore venale del bene).
Una prima deroga al criterio generale del valore venale è stata introdotta proprio dall'articolo 13 della citata legge 15 gennaio 1885, n. 2892, relativa al Risanamento della città di Napoli: Mentre l’art. 12 ha previsto che nessuno avesse diritto ad indennità “per la risoluzione di contratti di locazione cagionata dalla esecuzione della presente legge”; l’art. 13 ha disposto che l'indennità sia determinata sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio, purchè aventi la data certa, corrispondente al rispettivo anno di locazione.
Il criterio introdotto dalla cosiddetta "legge per Napoli" si è successivamente imposto come alternativo a quello della legge fondamentale n. 2359 del 1865 ed è stato adottato da varie leggi successive, quali quelle relative all'edilizia economica popolare (T.U. 28 aprile 1938, n. 1165) e all'edilizia scolastica (T.U. 5 febbraio 1928, n. 577 e leggi successive).
Successivamente l'articolo 5-bisdeldecreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, ha introdotto una normativa generale per il calcolo dell’indennità di esproprio nelle aree edificabili, in sostituzione dei criteri previsti dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865. Tali nuove disposizioni hanno stabilito che – in via generale - l'indennità spettante al soggetto destinatario di un provvedimento di espropriazione di un'area edificabile sia determinata a norma dell'art. 13, comma 3, della legge n. 2892 del 1885, ma con alcune modifiche che hanno consentito ai soggetti pubblici tenuti al pagamento dell'indennizzo di realizzare una considerevole riduzione di spesa. In primo luogo, che il parametro dei fitti coacervati dell'ultimo decennio sia sostituito con il parametro del reddito dominicale rivalutato. Secondariamente è stato previsto che all'indennità così determinata sia applicata una riduzione del 40%, fatti salvi i casi in cui il soggetto espropriato, in qualunque fase del procedimento espropriativo, si determini alla cessione volontaria del bene.
Con il D. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (art. 16), che ha istituito l’imposta comunale sugli immobili (ICI) è stato stabilito che, per le aree edificabili si considera, ai fini dell’indennizzo, il valore dichiarato nella dichiarazione ICI dell’espropriato
Si fa osservare che tutte le citate disposizioni di legge sono state “assorbite” dal Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità - la cui entrata in vigore è stata da ultimo prorogata al 30 giugno 2003 dall'art. 3, D.L. 20 giugno 2002, n. 122, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione – contenuto nel D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327[263], che prevede, altresì, l’abrogazione del decreto-legge luogotenenziale 27 febbraio 1919, n. 219 (vedi ultra).
[264] Le disposizioni legislative dettate dal D.lgs. n. 325/2001 sono poi confluite, insieme alle disposizioni regolamentari contenute nel D.P.R. n. 326/2001, nel citato Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, approvato con il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.
[265]Il D.Lgs 171/1998 è stato abrogato, dal 1° gennaio 2004, dall’art. 183 del D.Lgs 196/2003.
[266] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie in attuazione del regolamento (CEE) n. 4045/89 relativo al sistema di finanziamento FEOGA - Sezione garanzia, a norma dell'articolo 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 422.
[267] Disposizioni sanzionatorie in attuazione del regolamento (CE) n. 1148/2001 relativo ai controlli di conformità alle norme di commercializzazione applicabili nel settore degli ortofrutticoli freschi, a norma dell'articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39
[268] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie per le violazioni del regolamento (CE) n. 2560 del 2001, relativo ai pagamenti transfrontalieri in euro.
[269] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari.
[270] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie per le violazioni dei Regolamenti (CE) numeri 1760 e 1825 del 2000, relativi all'identificazione e registrazione dei bovini, nonché all'etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine, a norma dell'articolo 3 della legge 1° marzo 2002, n. 39.
[271] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CE) n. 1019/2002 relativo alla commercializzazione dell'olio d'oliva.
[272] Il D.Lgs reca: Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CE) n. 1774/2002, e successive modificazioni, relativo alle norme sanitarie per i sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano.
[273] La legge reca: Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli.
[274] La legge reca: Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo INTERNE.T
[275]D.Lgs 11 aprile 2002, n. 61, Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366
[276]Viene esplicitato che nella nozione di rapporti societari sono compresi quelli concernenti le società di fatto, l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i liquidatori e i direttori generali delle società, delle mutue assicuratrici e delle società cooperative.
[277]La lettera d) fa riferimento a rapporti in materia di intermediazione mobiliare da chiunque gestita, servizi e contratti di investimento, ivi compresi i servizi accessori, fondi di investimento, gestione collettiva del risparmio e gestione accentrata di strumenti finanziari, cessione di rapporti finanziari, ivi compresa la cartolarizzazione dei crediti, offerte pubbliche di acquisto e di scambio, contratti di borsa;
[278] La lettera e) del comma 1 fa riferimento alle materie di cui al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con decreto legislativo1° settembre 1993, n. 385, quando la relativa controversia è promossa da una banca nei confronti di un’altra banca ovvero da o contro associazioni rappresentative di consumatori o camere di commercio.
[279]L’articolo 154 c.p.c. prevede che il giudice, prima della scadenza, può abbreviare, o prorogare anche d’ufficio, il termine che non sia stabilito a pena di decadenza. La proroga non può avere una durata superiore al termine originario. Non può essere consentita proroga ulteriore, se non per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato.
[280]Si tratta della Sezione IV (artt. 136-151) del Capo I del Titolo VI del libro I, disciplinante le comunicazioni e notificazioni.
[281] Con questa previsione viene quindi meno il carattere strumentale della tutela cautelare che conserva autonomia a prescindere dall'instaurazione e dall'esito di un processo di cognizione.
[282]Si fa riferimento alla formulazione dell'art. 2378 c.c. introdotta dall'art. 1 del decreto legislativo n. 6(/2003, Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366..
[283]Con l'unica specificazione relativa all'autorità competente a conoscere del reclamo avverso il provvedimento pronunciato dal giudice singolo del tribunale, individuata nell'organo collegiale dello stesso tribunale (del quale non potrà far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato).
[284]Il decreto legislativo5/2003 richiama le disposizioni del codice civile, così come modificate ed introdotte dal parallelo decreto legislativo 5/2003 recante Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
[285]Si rileva che il testo del decreto fa riferimento all'art. 2437-ter, comma 5. Posto che questa disposizione (Il valore di liquidazione delle azioni quotate su mercati regolamentati è determinato facendo esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero ricezione dell'avviso di convocazione dell'assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso) non contiene alcun riferimento ad istanze, si ritiene che il richiamo vada spostato al comma 4 (In caso di contestazione il valore di liquidazione è determinato entro tre mesi dall'esercizio del diritto di recesso tramite relazione giurata di un esperto nominato dal Presidente del tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo comma dell'articolo 1349).
[286]Il decreto legislativo richiama le disposizioni del codice civile, così come modificate ed introdotte dal parallelo decreto legislativo 6/2003 recante Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
[287] Inoltre, un ordine del giorno presentato al Senato ed accolto dal Governo (G180 - testo 3) impegnava l'esecutivo "a prevedere nei decreti delegati che tali organismi di conciliazione siano composti, ai fini del giusto requisito di garanzia e serietà, con la presenza di professionisti nella cui tariffa professionale sia previsto l’esercizio della consulenza stragiudiziale, civile ed equiparata".
[288] D.Lgs 6 febbraio 2004, n. 37, Modifiche ed integrazioni al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 e al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, recanti la riforma del diritto societario, nonché al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e al testo unico dell'intermediazione finanziaria di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
[289]D.Lgs 28 dicembre 2004, n. 310, Integrazioni e correzioni alla disciplina del diritto societario ed al testo unico in materia bancaria e creditizia.
[290] Il decreto legge reca: Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali
[291]In particolare, sono revocati:
§ gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento;
§ i pagamenti di debiti pecuniari, scaduti ed esigibili, effettuati con mezzi anormali di pagamento, sempre se compiuti nell’anno anteriore al fallimento;
§ i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituite sempre nell’anno anteriore, per debiti preesistenti non scaduti;
§ i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituite entro sei mesi anteriori alla dichiarazione.
[292]Per l’illustrazione in questa parte del contenuto del provvedimento si è fatto riferimento alla relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo (n. 540) presentato al Parlamento per l’espressione del parere.
[293]Il provvedimento reca: Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense.
[294]D.P.R. 10 aprile 1990, n. 101, Regolamento relativo alla pratica forense per l’ammissione all’esame di procuratore legale. Si ricorda che il termine procuratore legale deve intendersi sostituito dal termine avvocato per effetto del disposto dell’articolo 3 della legge 24 febbraio 1997, n. 27, in seguito alla soppressione dell’albo dei procuratori legali.
[295]In merito al certificato di compiuta pratica, l’art. 10 del Regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, stabilisce quanto segue:
“Il Consiglio dell’ordine rilascia, su richiesta degli interessati, un certificato di compimento della pratica a coloro che dai documenti da essi prodotti a termini degli articoli precedenti risultino avere atteso alla pratica stessa, per il periodo prescritto, con diligenza e profitto.
Il consiglio deve deliberare sulla richiesta dell’interessato nel termine di quindici giorni dalla presentazione di essa.
Avverso la deliberazione con la quale la richiesta non sia stata accolta, l’interessato ha facoltà di presentare reclamo al Consiglio nazionale forense.
La facoltà di reclamo spetta all’interessato anche nel caso che il Consiglio non abbia deliberato nel termine prescritto.
In seguito al reclamo di cui ai precedenti commi, il Consiglio nazionale, richiamati gli atti, decide sul merito della istanza”.
[296]Regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36.
[297]Regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, Norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore.
[298]Va ricordato che l’articolo 36-bis citato stabilisce che nella circoscrizione di Bolzano gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense hanno luogo presso la sezione distaccata in Bolzano della Corte d’appello di Trento e che, fermo restando quanto previsto dal R.D. L. 27 novembre 1933, n. 1578, la commissione esaminatrice è composta di quattro membri titolari e quattro supplenti, che conoscano adeguatamente la lingua italiana e la lingua tedesca. Due membri devono appartenere al gruppo di lingua italiana e due al gruppo di lingua tedesca.
[299]Regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore.
[300]L’articolo 3 del R.D n. 1578/33 stabilisce che: “L'esercizio delle professioni di avvocato e di procuratore è incompatibile con l'esercizio della professione di notaio, con l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui, con la qualità di ministro di qualunque culto avente giurisdizione o cura di anime, di giornalista professionista, di direttore di banca, di mediatore, di agente di cambio, di sensale, di ricevitore del lotto, di appaltatore di un pubblico servizio o di una pubblica fornitura, di esattore di pubblici tributi o di incaricato di gestioni esattoriali.
È anche incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d'Italia, della lista civile, del gran magistero degli ordini cavallereschi, del Senato, della Camera dei deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.
È infine incompatibile con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario.
Sono eccettuati dalla disposizione del secondo comma:
a) i professori e gli assistenti delle università e degli altri istituti superiori ed i professori degli istituti secondari dello Stato;
b) gli avvocati ed i procuratori degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell'ente presso il quale prestano la loro opera. Essi sono iscritti nell'elenco speciale annesso all'albo.”
[301]E’ fatta tuttavia eccezione per i professori e gli assistenti universitari, i professori di istituti secondari dello Stato e gli avvocati degli uffici legali di enti pubblici limitatamente agli affari propri dell'ente di appartenenza.
[302]L. 23 dicembre 1996, n. 662, Misure di razionalizzazione della finanza pubblica, collegato alla legge finanziaria per il 1997.
[303]D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Si tratta, in particolare, dell’art. 53, comma 1.
[304] Si ricorda che tale norma è stata novellata dall’art. 11 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004) che ha previsto che i requisiti del possesso della laurea in giurisprudenza nonchè la compiuta pratica per l’accesso alla professione di notaio possano essere sostituiti dal possesso del decreto di riconoscimento professionale emanato in applicazione del D.Lgs 27 gennaio 1992, n. 115, Attuazione della direttiva 89/48/CEE relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni.
[305] Legge 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n.3.
[306] Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione.
[307] Legge 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[308] L’articolo 2229 c.c. costituisce il fondamento normativo della disciplina prevista per le professioni intellettuali: esso, nel riservare alla legge la determinazione delle professioni intellettuali per il cui esercizio è richiesta l'iscrizione in albi o elenchi, demanda alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, l'accertamento dei requisiti per l'iscrizione, la tenuta degli albi e il potere disciplinare.
[309] Si tratta delle disposizioni che stabiliscono l’incompatibilità con il mercato comune: a) degli accordi di imprese e associazioni di imprese che abbiano lo scopo di impedire, limitare o falsare le regole della concorrenza all’interno dell’Unione; tali accordi sono nulli di pieno diritto (art. 81); b) dello sfruttamento abusivo di posizione dominante (art. 82). E’ poi sancita la sottoposizione delle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale alle generali regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata (art. 86).