Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Rapporti Internazionali |
Titolo: | Incontro del Presidente della Camera dei deputati con il Presidente del Parlamento tibetano in esilio, sig. Karma Chopel - Roma, 1° aprile 2008 |
Serie: | Documentazione per l'attività internazionale Numero: 49 |
Data: | 31/03/2008 |
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Camera dei deputati
XV LEGISLATURA
SERVIZIO RAPPORTI INTERNAZIONALI
Documentazione per l’attività internazionale
Incontro del Presidente DELLA CAMERA DEI DEPUTATI con il Presidente del Parlamento tibetano in esilio Sig.KarmaChopel
Roma, 1° aprile 2008
n. 49
31 marzo 2008
Consigliere Capo Servizio |
Mirella Cassarino (Tel. 9330) |
Consigliere parlamentare |
Maria Teresa Calabrò (Tel. 2049) |
Documentarista |
Tiziana Giannotti (Tel. 2790) |
Segretario |
Daniela Vachez (Tel. 9515) |
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I N D I C E
BIOGRAFIA E PRESENTAZIONE DELLA VISITA 1
INIZIATIVE PARLAMENTARIRELATIVE AL TIBET 5
RESOCONTO STENOGRAFICO DELL'AUDIZIONE DELLE COMMISSIONI RIUNITE AFFARI ESTERI DI CAMERA E SENATO "Comunicazioni di Governo sui recenti sviluppi della situazione in Tibet", (19 marzo 2008) 15
RELAZIONI PARLAMENTARI ITALIA E CINA61
POSIZIONE DELL’ITALIA RISPETTO ALL’ATTUALE CRISI IN TIBET (a cura del Ministero degli Affari Esteri) 71
LA REGIONE DEL TIBET tratto da “Wikipedia”
IL GOVERNO TIBETANO IN ESILIOtratto da “Wikipedia”
PUBBLICISTICA
CINA: LA QUESTIONE DEL TIBET - Tratto da Equilibri.net (20 marzo 2008) 85
La crisi in Tibet e le ragioni della realpolitik di Emanuele Scimia – Tratto da Limes (17 Marzo 2008) 89
La questione tibetana estratto dell'articolo di Beniamino Natale pubblicato nel volume di Limes 4/05 Cindia la sfida del secolo 93
NOTE BIOGRAFICHE DI KARMA CHOPHEL E CONTESTO DELLA VISITA
(in collaborazione con il MAE)
Nato nel 1949 a Labrang Kosa nel Tibet sud occidentale
Compie i suoi studi in India dove si laurea nel 1973
In quel periodo lavora per il Council for Tibetan Education
Nel 1976 dopo aver ottenuto un dottorato alla Bangalore University inizia la sua carriera nel campo dell’insegnamento.
In questo periodo inizia la sua attività nell’ambito del Congresso dei Giovani Tibetani di cui viene eletto Presidente nel 1982
Nel 1981 viene nominato rettore della CST di Shimla un istituto controllato dal Dipartimento per l’Educazione del Governo Tibetano in Esilio.
Dal 1981 al 1984 serve come Honorary Tibetan Welfare Officer nel distretto di Shimla
Nel 2006 viene eletto Presidente del Parlamento Tibetano in Esilio.
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Il Presidente del Parlamento tibetano è in visita a in Italia su iniziativa del Partito Radicale.
Il 28 marzo 2008, Chopel è stato ricevuto dal Presidente del Senato, Franco Marini. Chopel è stato accompagnato dai radicali Marco Pannella e Sergio Stanzani. Nel corso dell’incontro, il leader tibetano ha illustrato le cinque proposte del Dalai Lama riscuotendo l’apprezzamento di Marini per le posizioni moderate e favorevoli al dialogo espresse dal Dalai Lama che prevedono:
Marini ha inoltre affermato che il rispetto dei diritti umani – ed il sostegno alle organizzazioni internazionali che si battono in loro favore - è uno dei cardini fondamentali della politica estera internazionale italiana.
Nella stessa giornata, Chopel è stato ricevuto dal Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera, on. Umberto Ranieri, il quale ha confermato il forte impegno del Parlamento italiano a sostegno della causa del popolo tibetano. Ranieri ha espresso l’auspicio che le autorità cinesi possano rivedere la propria posizione sul Dalai Lama, altrimenti rischierebbero di manifestare un’estrema miopia politica. Per quanto riguarda un possibile boicottaggio dei giochi olimpici che si terranno a Pechino in agosto, Ranieri ha affermato di condividere la posizione del Dalai Lama, il quale è contrario a qualsiasi isolamento della Cina. Allo stesso tempo è necessario, ha concluso, il Presidente della Commissione Esteri, che le autorità cinesi rivedano le loro posizioni e non si chiudano di fronte alle richieste, peraltro condivisibili, avanzate dalla comunità tibetana.
Si ricorda, inoltre, che il 26 marzo 2008, Karma Chopel è stato audito dalla Commissione Esteri del Parlamento Ue a Bruxelles, dopo aver assistito ad un lungo dibattito sul Tibet in assemblea plenaria. Dinanzi alla Commissione parlamentare, Chopel ha contestato le accuse lanciate da Pechino al Dalai Lama ed alla dirigenza tibetana in esilio su un’aspirazione all’indipendenza del Tibet. Chopel ha inoltre rivolto un appello all’Ue affinché faccia pressioni sul Governo cinese per porre fine alla crisi. Il leader tibetano ha ribadito che l’obiettivo del suo popolo è un’ampia autonomia nei confini di quello che era il Tibet prima dell’occupazione cinese, ma nel quadro della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese. L’aspirazione ad avere un’unica amministrazione per tutto il Tibet è stata al centro dei sei incontri di dialogo che si sono finora avuti tra la dirigenza tibetana e Pechino.
Nel merito della repressione attuata dalla Cina a seguito della protesta del 10 marzo 2008, Chopel ha esortato l’Ue a esercitare pressioni su Pechino affinché possa essere attuata quella che è stata definita dal Dalai Lama la “via mediana” basata sui cinque punti:
Riuniti in seduta plenaria, mercoledì 26 marzo 2008, gli eurodeputati hanno esortato la fine delle violenze in Tibet e il rispetto dei diritti dell'uomo e delle minoranze in Cina. Una risoluzione del PE sul Tibet dovrebbe essere votata dalla sessione plenaria il 10 aprile.
Il 30 marzo 2008 il Presidente Chopel ha tenuto una conferenza stampa nella sede del Partito Radicale a Roma, nel corso della quale ha rinnovato l’appello alla comunità internazionale a fare pressioni sulla Cina e ribadito le posizioni del governo in esilio e del Dalai Lama. Ha chiesto però un impegno maggiore da parte dell'Unione europea. Secondo Chopel la dichiarazione del 29 marzo 2008 di Brdo dei 27 Ministri degli Esteri UE deve essere ''solo l'inizio''.
Il 29 marzo 2008 Chopel ha visitato a Torino il Consiglio regionale del Piemonte e le istituzioni regionali della Valle d’Aosta, al fine di conoscere l’assetto delle autonomie in Italia. Nei prossimi giorni sono previsti incontri anche con le autorità del Trentino-Alto Adige.
INIZIATIVE PARLAMENTARI RELATIVE AL TIBET
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Si segnala nel Parlamento che opera, dal 2002, un gruppo informale di amicizia con il Tibet, l’ Intergruppo parlamentare Italia-Tibet[1] che si occupa di sostenere l’autonomia politica culturale e religiosa della regione. Ne sono i principali animatori gli onn. Bruno Mellano (Rosa nel pugno) e Marco Zacchera (AN).
XV Legislatura
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In relazione agli ultimi sviluppi della questione tibetana, si ricorda che si e’ tenuta, il 19 marzo 2008, un’audizione del Sottosegretario di Stato agli affari esteri Gianni Vernetti, da parte delle Commissioni esteri riunite di Camera e Senato su tale tema (vedi infra).
Il 28 marzo 2008 il Presidente del Parlamento tibetano in esilio, Karma Chopel, è stato ricevuto dal Presidente della Commissione Affari esteri, on. Umberto Ranieri, il quale ha confermato il forte impegno del Parlamento italiano a sostegno della causa del popolo tibetano. Ranieri ha espresso l’auspicio che le autorità cinesi possano rivedere la propria posizione sul Dalai Lama, altrimenti rischierebbero di manifestare un’estrema miopia politica. Per quanto riguarda un possibile boicottaggio dei giochi olimpici che si terranno a Pechino in agosto, Ranieri ha affermato di condividere la posizione del Dalai Lama, il quale è contrario a qualsiasi isolamento della Cina. Allo stesso tempo è necessario, ha concluso, il Presidente della Commissione Esteri, che le autorità cinesi rivedano le loro posizioni e non si chiudano di fronte alle richieste, peraltro condivisibili, avanzate dalla comunità tibetana.
Nel dicembre 2007, il Dalai Lama ha compiuto una visita in Italia. Durante la tappa romana, il leader spirituale è stato ricevuto alla Camera, il 12 dicembre, ed ha rivolto un discorso ad un centinaio di deputati.
Il leader religioso ha richiesto un sostegno morale, pratico e concreto, affinché siano riconosciuti i diritti che spettano ai tibetani e che sono sanciti anche nella Costituzione cinese. Sempre in tale occasione, il Presidente della Camera, Bertinotti, ha confermato l’amicizia italiana sia alla Cina che al popolo tibetano e l’importanza di includere nei negoziati anche i rappresentanti dei religiosi tibetani. Ha altresì ribadito l’importanza di sviluppare il dialogo interculturale. Il Dalai Lama ha sottolineato che non è obiettivo del Tibet quello di ottenere l’indipendenza dalla Cina. L’incontro, svoltosi nella Sala della Lupa alla presenza del Sottosegretario agli Affari esteri, Gianni Vernetti, è stato aperto da un intervento del Presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Umberto Ranieri.
La precedente visita in Italia del Dalai Lama si è tenuta dal 12 al 14 ottobre 2006. In tale occasione, al leader spirituale è stata conferita una Laurea honoris causa in Biologia dall'Università degli Studi Roma Tre. Incontrando i rappresentanti del Governo, il Dalai Lama ha ribadito che non è obiettivo del Tibet quello di ottenere l’indipendenza, “ma solo una significativa autonomia, prevista peraltro dalla Costituzione della Repubblica Popolare”.
Il Dalai Lama è stato ricevuto dal Presidente del Senato e dal Presidente della Camera (12 ottobre 2006):
Nel corso dell’incontro con il Presidente Bertinotti, il Dalai Lama ha espresso la massima ammirazione per il sistema democratico ed ha ribadito il suo impegno per promuovere la democrazia e sviluppare la sensibilità rispetto alle questioni ambientali. Si è detto inoltre portavoce dei valori della tolleranza, della pace e dell’armonia tra i popoli e ha dichiarato che il suo intento è di ottenere l’autonomia nell’ambito della Costituzione cinese. Bertinotti ha ribadito l’importanza del dialogo tra civiltà e tra religioni per favorire la pace tra i popoli e ha augurato successo al leader religioso impegnato nella sua lotta per preservare nel miglior modo possibile i valori culturali ed etnici del Tibet.
Gli stessi temi sono stati toccati nel corso degli incontri che il Dalai Lama ha avuto con l’Intergruppo parlamentare Italia-Tibet e la Commissione Cultura della Camera. Ad entrambi questi incontri ha presenziato il Sottosegretario agli Esteri, Gianni Vernetti. Il Dalai Lama ha inoltre incontrato Piero Fassino (DS) e Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi). Il Dalai Lama è stato inoltre ricevuto da Papa Benedetto XVI. Al termine degli incontri, il Sottosegretario Vernetti ha ribadito l’impegno italiano, insieme a quello dell’Ue, per favorire il dialogo sulla questione tibetana.
Atti di controllo e sindacato ispettivo
Nel corso dell’attuale legislatura sono stati presentati, tra gli altri, i seguenti atti di indirizzo e sindacato ispettivo:
Mozione 1-00234 (Maroni) sul rispetto dei diritti civili in Tibet. Presentata il 18 ottobre 2007: Iter in corso;
Mozione 1-00116 (Mellano) sul rispetto dei diritti civili in Tibet. Presentata il 9 marzo 2007: Iter in corso;
Mozione 1-00053 (D’Elia). Approvata dal Governo il 12 dicembre 2006 (abbinata ai seguenti atti: 1-00026; 1-00027; 1-00033; 1-00052; 1-00057; 1-00059; 1-00063; 6-00009).
Nel testo si impegna il Governo a sostenere l’embargo del commercio di armi con la Cina, legando un’eventuale revoca da parte dell’Ue a progressi verificabili e tangibili della Cina nel campo dei diritti umani, delle riforme democratiche e delle relazioni pacifiche coi vicini regionali.
Interpellanza2-00564 (Boato) sul rispetto dei diritti umani in Tibet, con particolare riguardo a presunte violenze commesse dalle forze armate cinesi. Presentata il 30 maggio 2007: Iter in corso.
Il Governo ha risposto il 31 luglio 2007 nel seguente modo all’Interrogazione in Commissione 5-01385 (D’Elia, cofirmatario Mellano) sempre sulla situazione dei diritti umani in Tibet:
Il Governo è a conoscenza dei rapporti citati dall'On. interrogante ma non dispone ancora di elementi diretti di conoscenza circa l'incidente che si sarebbe verificato il 30 settembre 2006 sul confine nepalese-tibetano. Per questo abbiamo dato istruzioni alle nostre Ambasciate dell'area di acquisire in loco ogni ulteriore elemento di informazione. Con i partner comunitari stiamo valutando la possibilità di incaricare la Presidenza finlandese di sollevare la questione con la controparte cinese in occasione della prossima tornata del Dialogo tra UE e Cina in materia di diritti umani prevista aPechino il 19-20 ottobre 2006. L'obiettivo che condividiamo con i partners comunitari è quello di raccogliere tutti gli elementi che consentano di valutare l'esatta portata dell'episodio e, in caso di verificato eccessivo uso della forza, richiamare le autorità cinesi a comportamenti maggiormente in linea con gli standards internazionali in tema di rispetto dei diritti umani. Vorrei ricordare, in proposito, che la questione dei diritti umani in Tibet è regolarmente sollevata nel quadro del dialogo strutturato UE-Cina sui diritti umani. Negli incontri di dialogo strutturato - che dal 1997 si svolgono a cadenza semestrale alternativamente a Pechino e nella capitale europea che detiene la Presidenza di turno dell'UE - vengono affrontate questioni particolarmente sensibili come il rispetto delle libertà fondamentali, con particolare riferimento alla libertà di espressione e di culto, le detenzioni arbitrarie, la tortura, i diritti delle minoranze, la pena di morte, l'abolizione della pena di morte, la ratifica del Patto delle Nazioni Unite sui Diritti Civili e Politici del 1966 e la ratifica dello Statuto della Corte Penale Internazionale. Queste consultazioni forniscono anche l'occasione all'Unione Europea di segnalare alle Autorità cinesi casi individuali, fra cui un cospicuo numero di tibetani, di detenuti per reati di opinione, di vittime di trattamenti inumani e degradanti e di condannati a morte. In generale, valutiamo positivamente tale strumento di dialogo per aver incoraggiato i miglioramenti legislativi compiuti nell'ultimo decennio dalle Autorità di Pechino, anche sul campo della tutela delle minoranze, quantunque nella valutazione prevalente in ambito UE, permangono preoccupazioni per perduranti, diffuse violazioni dei diritti umani nel Paese. In occasione dell'ultimo incontro di dialogo strutturato, che si è tenuta a Vienna il 25-26 maggio 2006, l'UE ha espresso profonda preoccupazione per il severo controllo esercitato dalle Autorità cinesi sulle istituzioni religiose tibetane. La prossima sessione di dialogo, che si terrà a Pechino il 19-20 ottobre 2006, costituirà non solo una valida opportunità per ribadire questa linea con le autorità cinesi ma anche, come accennavo, l'occasione per chiedere chiarimenti sull'episodio richiamato dall'On. interrogante. Vorrei ricordare, infine, su un piano più generale, che l'Italia guarda con particolare attenzione alla problematica della tutela dei diritti umani e delle minoranze in Cina tanto nei contatti bilaterali quanto nel più ampio contesto dell'azione esterna dell'Unione europea in questo settore.
Si ricorda infine che, nel corso della votazione finale del disegno di legge di ratifica ed esecuzione dell’accordo tra il governo della Repubblica Italiana ed il Governo della Repubblica Popolare Cinese per la cooperazione scientifica e tecnologica (legge n. 135/07, approvata definitivamente il 17 luglio 2007) il Governo ha accettato due ordini del giorno presentati da Zacchera (9-02266-1) e Mellano (9-02266-2) con il quale si è impegnato a tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tibetano.
XIV Legislatura
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La visita del Dalai Lama a Roma nel 2003
Il Dalai Lama ha effettuato una visita a Roma dal 26 al 30 novembre 2003, su invito dell'Intergruppo Parlamentare Italia-Tibet e della Fondazione Gorbachev.
L'invito ha fatto seguito all'approvazione da parte della Camera dei Deputati, nell’ottobre 2002, di una Risoluzione sul Tibet, votata all’unanimità e che “impegna il Governo ad adottare tutte le iniziative possibili nei confronti della Repubblica Popolare Cinese affinché si creino le condizioni per l'apertura di negoziati finalizzati alla realizzazione di un nuovo Statuto per il Tibet che garantisca l’autonomia dei tibetani in tutti i settori della vita politica, culturale e religiosa”. La risoluzione invita anche “il governo cinese a riconoscere e rispettare pienamente i fondamentali diritti politici delle minoranze etniche e religiose, nonché le loro specificità culturali”.
Il Dalai Lama è stato ricevuto dall’allora Presidente della Camera, on. Pier Ferdinando Casini, il 26 novembre 2003. All’incontro hanno partecipato anche gli onn. Gianni Vernetti (allora Presidente dell’Intergruppo parlamentare Italia - Tibet), Pietro Folena e il Senatore Alessandro Forlani.
Nel corso del colloquio, il Presidente Casini ha elogiato l’impegno del Dalai Lama a favore della pace. Il Dalai Lama ha affermato che i principi alla base della sua azione consistono nella promozione dei valori umani e dell’armonia religiosa. Il terrorismo oggi è un fenomeno particolarmente pericoloso, perché può essere realizzato anche da ristretti gruppi di persone. L’unico modo per contrastarlo consiste in un approccio non violento, dal momento che la forza produce effetti a breve, ma non a lungo termine. Il Dalai Lama ha anche affermato di essere sempre inviso alle autorità cinesi, mentre il suo impegno e quello dei suoi sostenitori non può essere classificato pro Tibet e contro la Cina. L’impegno dei sostenitori del lamaismo è semplicemente teso al raggiungimento della pace sociale, anche in Cina.
A seguito di tale incontro l’Ambasciata della Repubblica Popolare cinese a Roma aveva espresso le proprie critiche.
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Si segnala, inoltre, che il 20 aprile 2005 l’allora Presidente della Commissione affari esteri della Camera, on. Gustavo Selva, aveva incontrato una delegazione guidata dal Presidente del Parlamento Tibetano in esilio, Pema Jungney.
Visita alla Camera di Samdhong Rimpoche (2003)
Il 7 maggio 2003 su invito dell’Intergruppo Parlamentare “Italia-Tibet”[2]ilPrimo Ministro del Governo del Tibet in esilio, Samdhong Rimpoche, è stato in visita alla Camera dove ha incontrato i parlamentari dell’Intergruppo. Il Primo Ministro ha parlato della difficile situazione del Tibet e ha chiesto la collaborazione dello Stato italiano per far riconoscere l'autonomia tibetana richiamandosi alla risoluzione approvata alla Camera dei deputati il 9 ottobre 2002, nella quale si impegna il Governo a favorire le condizioni per un dialogo fra rappresentanti del Dalai Lama e della Repubblica popolare cinese.
Visita a Dharamsala dell’Intergruppo Parlamentare “Italia-Tibet” (2002)
Una delegazione parlamentare italiana dell’Intergruppo Parlamentare “Italia-Tibet” si è recata in visita a Dharamsala (India Settentrionale) e Nuova Delhi, dal 24 al 30 settembre 2002, su invito dell’omologo gruppo del Parlamento indiano[3].
La delegazione ha incontrato membri del Parlamento tibetano e del Governo tibetano in esilio, nonché altri enti, istituzioni e ONG tibetane. La delegazione ha incontrato anche il Dalai Lama.
Facevano parte della delegazione gli onn. Gianni Vernetti (Margherita), Pietro Folena (DS), Marco Zacchera (AN), Giuseppe Fioroni (Margherita), Olga D’Antona (DS) Laura Cima (Verdi), Benedetto Nicotra (FI), Luigi D’Agrò (CCD-CDU), Donato Mosella (Margherita), Giuseppe Detomas (Misto) Pierluigi Mantini (Margherita) ed il senatore Alessandro Forlani (UDC). Accompagnava i parlamentari anche il Consigliere Regionale del Piemonte, Bruno Mellano (Radicale), che presiede l’Associazione Comuni, Province e Regioni per il Tibet.
La delegazione parlamentare invitò il Dalai Lama a compiere una visita in Italia entro il 2003.
Al Dalai Lama è stata inoltre consegnata una copia della mozione 1-00096 che è stata discussa il 9 ottobre 2002 congiuntamente alla risoluzione in Assemblea 6-00038. La mozione è stata ritirata mentre la risoluzione è stata approvata il 9 ottobre 2002 con 407 voti a favore ed uno contrario.
Atti di indirizzo sulla questione tibetana nella XIV legislatura |
Risoluzione in Assemblea 6-00038
approvata il 9 ottobre 2002 nella seduta n. 201
La Camera,
viste le risoluzioni sul Tibet del Parlamento europeo del 14 ottobre 1987, 15 marzo 1989, 15 settembre 1993, 17 maggio 1995, 13 luglio 1995, 14 dicembre 1995, 18 aprile 1996, 23 maggio 1996, 13 marzo 1997, 16 gennaio 1998, 13 maggio 1998, 6 luglio 2000, 11 aprile 2002; viste le risoluzioni sulle violazioni dei diritti fondamentali in Tibet adottate dal Bundestag tedesco (15 ottobre 1987, 20 giugno 1996 e 18 aprile 2002), dalla Commissione affari esteri della Camera dei deputati italiana (12 aprile 1989), dalla Camera dei deputati belga (20 giugno 1990), dalla Commissione affari esteri del Parlamento irlandese (21 luglio 1998); vista la risoluzione adottata il 23 agosto 1991 dalla Sotto-Commissione delle Nazioni Unite per la prevenzione delle discriminazioni e la protezione dei diritti delle minoranze; vista la risoluzione dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa (D.E. 173, 5 ottobre 1988); viste le risoluzioni adottate dal Congresso degli Stati Uniti d'America, dal Senato e dalla Camera dei Rappresentanti australiana e dal Parlamento Ceco; visto l'atto costitutivo dell'«Associazione dei comuni, delle province e delle regioni italiane per il Tibet», Associazione alla quale hanno già aderito decine di enti locali; ricordando: le tragiche vicende storiche vissute dal 1949 ad oggi dal popolo tibetano; ricordando: le risoluzioni delle Nazioni Unite n. 1353 del 1959, n. 1723 del 1961 e n. 2079 del 1965; l'«accordo in 17 punti» firmato a Pechino dalle autorità tibetane, che pur prendendo atto che il Tibet è diventato parte integrante della Repubblica Popolare, garantiva anche la piena autonomia del Tibet e, in particolare, il riconoscimento del suo sistema politico e il pieno rispetto della libertà religiosa; i tentativi reiterati di rilanciare il dialogo con le autorità di Pechino fatti dal Dalai Lama con il «Piano in 5 punti», presentato davanti al Congresso americano nel 1987, e con la «proposta di Strasburgo», presentata davanti al Parlamento europeo nel 1988; valuta: favorevolmente, al fine di rafforzare il dialogo e il negoziato, la posizione del Dalai Lama per quanto riguarda la realizzazione di un governo autonomo per il Tibet in seno alla Repubblica Popolare cinese; condivide la sua profonda preoccupazione per il grave danno già arrecato all'ambiente, alle tradizioni, alla cultura ed alla religione tibetana, e per il deterioramento della situazione riguardante i diritti dell'uomo nel Tibet; esprime un giudizio positivo in merito ai recenti contatti avviati fra il governo cinese ed il Dalai Lama ed auspica che questi si trasformino quanto prima in un vero e proprio negoziato diretto fra il Governo cinese e il Dalai Lama con l'obiettivo di definire un nuovo statuto che garantisca la piena autonomia per il Tibet in seno alla Repubblica Popolare Cinese; facendo proprie: le risoluzioni del Parlamento europeo del 6 luglio 2000 e del 11 aprile 2002,
impegna il Governo
ad adottare, nel quadro delle Risoluzioni sopra richiamate del Parlamento europeo, tutte le iniziative possibili nei confronti della Repubblica Popolare cinese affinché, attraverso il dialogo, si creino le condizioni per la realizzazione di un nuovo statuto per il Tibet che garantisca una piena autonomia dei tibetani in tutti i settori della vita politica, economica, sociale e culturale, ad eccezione della politica estera e di difesa; ad invitare il governo cinese a riconoscere e rispettare pienamente i fondamentali diritti politici, sociali e culturali delle minoranze religiose, etniche e di altro genere nonché le loro specificità culturali compresa la libertà di culto; a favorire d'intesa con gli altri paesi dell'Unione europea il dialogo fra le autorità di Pechino e il Dalai Lama; ad adoperarsi presso la Commissione europea affinché nomini un osservatore della Unione europea per la questione tibetana. (6-00038)
«Vernetti, Paoletti Tangheroni, Landi di Chiavenna, Folena, Cima, Boato, Rizzi, Vendola, Zeller, Azzolini, Motta, Biondi, Ceremigna, Scherini».
XIII Legislatura
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L’allora Presidente della Camera, on. Luciano Violante, aveva incontrato il Dalai Lama il 21 maggio 1996 ed il 28 ottobre 1999.
Il Presidente Violante ha inoltre incontrato, il 24 ottobre 2000, la sig.ra Chungdak Koren, Rappresentante del Dalai Lama per l’Europa. Nel corso dell’incontro, la sig.ra Koren ha affermato che il dialogo tra Cina e Tibet non ha avuto evoluzioni, che il Tibet sta puntando all’autonomia, non alla separazione dalla Cina, in un quadro generale che ha conosciuto solo peggioramenti. Il Presidente Violante ha affermato di condividere la posizione tibetana, favorevole all’autonomia della regione.
Un gruppo di parlamentari appartenenti all’Associazione “Amici della Cina” si è recato in visita in Tibet nel settembre 2000. La delegazione era guidata dal senatore Romualdo Coviello (PPI), Presidente della Commissione Bilancio del Senato, e ne facevano parte i deputati Antonio Soda (DS), Michele Saponara (FI), Marco Zacchera (AN) e i senatori Luigi Marico e Renzo Gubert (Misto-Centro Unione Popolare Democratica). Nel comunicato reso noto l’11 settembre si afferma che la Cina contribuisce positivamente alla crescita economica del Tibet e che alla popolazione tibetana è garantita la libertà di religione, anche se rimane aperta la questione del rapporto tra i governi cinese e tibetano con il Dalai Lama.
Il comunicato è stato oggetto di una nota diffusa da Amnesty International, in cui si ribadisce la pesante repressione politica e religiosa in atto nella Repubblica Popolare cinese insieme alla necessità che i leader dei maggiori partiti politici italiani smentiscano le dichiarazioni fatte dai parlamentari dell’associazione “Amici della Cina” e si attivino affinché vengano intraprese azioni concrete nei confronti del Governo di Pechino per il rispetto dei diritti umani.
Il Presidente dell’Associazione “Amici della Cina”, il senatore Renzo Gubert (Misto UPD), ha ribattuto successivamente alla nota di Amnesty, invitando l’organizzazione a distinguere tra la libertà di religione – a suo avviso riconosciuta dal governo cinese nel Tibet – e il tentativo politico di secessione, vero nodo da sciogliere per la soluzione del problema tibetano.
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Si menziona, a parte, che, in occasione del “Vertice del Millennio sulla Pace nel Mondo”, promosso dall’ONU a New York nell’agosto 2000 la partecipazione del Dalai Lama, prima annunciata era stata esclusa dagli organizzatori, nonostante si fossero pronunciati favorevolmente anche gli Stati Uniti d’America. Lo stesso segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, aveva sottolineato la necessità di tenere conto delle diverse sensibilità presenti in seno alle Nazioni Unite. Il Dalai Lama aveva, comunque, inviato un messaggio nel quale si formulava un appello per il rispetto reciproco e la tolleranza tra fedi differenti, nella convinzione che la religione debba essere uno strumento di pace piuttosto che di divisione. A seguito della lettura di tale messaggio la delegazione cinese aveva abbandonato la riunione in segno di protesta, in quanto la figura del leader spirituale tibetano viene interpretata dal governo cinese in chiave politica, come una istigazione all’indipendenza della regione.
RELAZIONI PARLAMENTARI
ITALIA E CINA
Rappresentanze diplomatiche
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Ambasciatore d’Italia in Cina
Riccardo SESSA
Ambasciatore della Repubblica popolare cinese a Roma
DONG JINYI
Incontri delle Commissioni
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Il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha ricevuto, il 17 dicembre 2007, la visita dell’Ambasciatore cinese in Italia, Dong Jinyi.
L’Ambasciatore ha manifestato l'auspicio che il Parlamento Italiano non offra facilitazioni al Dalai Lama, che il Governo di Pechino reputa promotore di una forte attività separatista nei confronti della Cina. Pechino accetta il fatto che il Dalai Lama sia un personaggio religioso, ma non le sue prese di posizione politiche: l'obiettivo delle sue visite in alcuni paesi è quello di attirarsi simpatie per raggiungere la separazione del Tibet dalla Cina. Sempre secondo l’Ambasciatore, il Dalai Lama non è l'unico leader religioso del buddismo tibetano, che è formato da diverse scuole. La sua autorevolezza non è per nulla assimilabile a quella del Papa. Ci sono 1.700 templi buddisti dove vivono oltre 46mila monaci, e oltre duemila "putti" viventi. Il governo cinese ha intrapreso misure a tutela e salvaguardia della propria integrità e identità territoriale. La Cina è un Paese multietnico, i diritti delle minoranza sono protetti dalla Costituzione e ci sono 5 regioni e oltre 1.000 villaggi autonomi. Invita quindi il Presidente Bertinotti, come già aveva fatto nei riguardi della Commissione di collaborazione italo-cinese guidata dall’onorevole Pier Ferdinando casini, a recarsi di persona in Tibet per rendersi conto della situazione. Da parte del Presidente Bertinotti si è ricordato l’ottimo stato delle relazioni bilaterali con la Cina e si è precisato che l'incontro è stato realizzato per la rilevanza internazionale del Dalai Lama, premio Nobel per la pace, e perché 200 parlamentari italiani, appartenenti a tutti i partiti politici, ne avevano avanzato richiesta. Il Parlamento italiano ha sempre dato l’opportunità di esprimersi alle minoranze che in ogni parte del mondo avanzano tale richiesta. L’incontro ha consentito di dare voce all'istanza di autonomia culturale e religiosa del popolo tibetano, istanza che il Dalai Lama rappresenta, tendendo fermo il riconoscimento dell'integrità geografica della Repubblica popolare cinese.
Il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha incontrato a Roma, il 17 ottobre 2007, una delegazione di parlamentari cinesi guidata dal Presidente del Gruppo di collaborazione italo-cinese, on. Chen Guangyi. La delegazione cinese ha partecipato ai lavori della seconda riunione del Gruppo di collaborazione italo-cinese. All’incontro ha presenziato il Presidente della parte italiana del Gruppo di collaborazione, Pier Ferdinando Casini.
Nel corso dell’incontro, Bertinotti ha ricordato gli storici vincoli di amicizia che legano Cina e Italia, nonché il ruolo che i due Paesi possono svolgere nella ricerca di intese riguardanti i maggiori temi internazionali (globalizzazione, multilaterlismo). Da parte cinese è stato posto in risalto l’ottimo andamento dei rapporti bilaterali, nonché la possibilità di incrementare ulteriormente la partmership sia a livello economico che politico. Da entrambe le parti è stata infine sottolineata l’importanza del dialogo bilaterale a livello parlamentare. Il Presidente della Camera è stato invitato a compiere una visita in Cina.
Incontri delle Commissioni
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Il Presidente della Commissione Esteri, Umberto Ranieri, ha ricevuto a Roma, il 17 ottobre 2007, una delegazione di parlamentari cinesi guidata dal Presidente del Gruppo di collaborazione italo-cinese, on. Chen Guangyi.
Nel corso dell’incontro sono stati esaminati in particolare due dei principali questioni di politica estera con cui è alle prese Pechino: la questione tibetana e Taiwan. La delegazione cinese ha ricordato la posizione del Governo che si oppone a qualsiasi tentativo secessionista sia da parte tibetana, sia da parte di Taiwan. Ranieri, rilevando che non è interesse del nostro Paese e della comunità internazionale quello di mettere in dubbio la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica popolare, ha posto in evidenza il ruolo di mediazione a livello internazionale svolto dalla Cina, la sua posizione favorevole ad un ordine multipolare, l’impegno profuso nel mantenimento della pace a livello globale.
Il 1° giugno 2007 il Presidente della Commissione affari esteri, Umberto Ranieri, ha incontrato il Consigliere Chen Guoyou dell’Ambasciata della Repubblica popolare cinese a Roma (il Consigliere Chen svolge all’interno dell’Ambasciata la funzione di promuovere i rapporti parlamentari tra i due paesi, un ruolo che come da lui sottolineato, è stato creato dalla stessa Assemblea Nazionale del Popolo e che coinvolge in tutto 16 funzionari ad hoc in 16 paesi).
Nel corso dell’incontro è stato auspicato da entrambe le parti un rilancio dell’attività di cooperazione parlamentare che, su sollecitazione della parte cinese, dovrebbe prevedere la ricostituzione della Commissione di collaborazione italo-cinese e la calendarizzazione della sua prossima riunione, nonché uno scambio di visite da parte delle Commissioni esteri dei rispettivi Parlamenti. A sua volta, il Presidente Ranieri ha invitato la Commissione esteri dell’ANP a visitare la Camera.
Protocollo di cooperazione
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L’Accordo di collaborazione parlamentare tra Italia e Cina, sottoscritto a Pechino il 28 febbraio 2001 e a Roma l’8 marzo 2001 dal Segretario Generale della Camera dei deputati dott. Ugo Zampetti e dal Segretario Generale del Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale dott. He Chunlin, prevede la costituzione di una Commissione parlamentare di collaborazione Italia – Cina, composta da un Presidente e da otto deputati per parte, e che si riunisca una volta l'anno, alternativamente in Italia ed in Cina, per avviare il dialogo su temi di comune interesse come la legislazione, le tematiche economiche e sociali e la lotta alla criminalità organizzata.
§ Composizione della Commissione
Nella XV legislatura la Commissione è presieduta dal Presidente Pier Ferdinando Casini e composta dai deputati Fulvia Bandoli, Marco Boato, Francesco Colucci, Pierfrancesco Emilio Romano Gamba, Paola Goisis, Giuseppe Ossorio, Erminio Angelo Quartiani e Franco Russo.
La parte cinese della Commissione è presieduta dall’onorevole Chen Guangyi, Presidente Commissione Affari Cinesi d`Oltre Mare e Presidente del Gruppo d`Amicizia Cina-Italia dell’Assemblea Nazionale cinese, ed è composta dagli onorevoli Yang Guoliang, Vice Presidente della Commissione Esteri, Wang Xueping, Membro Commissione Affari Etnici e Membro del Gruppo d`Amicizia Cina-Italia, Jiang Chengsong, Membro Commissione Affari Protezione Ambientale e Conservazione di Risorse e Membro del Gruppo d`Amicizia Cina-Italia, e Lu Baifu, Membro Commissione Affari Finanziari ed Economici.
§ Precedenti riunioni
La Commissione di collaborazione italo-cinese si è riunita due volte nella XIV legislatura, nel luglio 2005, a Pechino, e nell’ottobre 2007, a Roma.
I temi trattati nella prima riunione (1°-5 luglio 2005) sono stati i seguenti:
1. La riforma delle Nazioni Unite;
2. I rapporti bilaterali tra Italia e Cina e tra Cina e Europa, con particolare riguardo agli aspetti economici e commerciali;
3. Il sistema formativo con particolare riguardo all’istruzione superiore ed universitaria.
I temi trattati nella seconda riunione (17 ottobre 2007) sono stati i seguenti:
1. I rapporti politici ed economici tra Ue e Cina;
2. Ambiente e politiche di sviluppo industriale;
3. La tutela legislativa delle minoranze etniche.
Al termine della seconda riunione si era convenuto che la terza riunione della Commissione si sarebbe tenuta nella prima metà del settembre 2008 in Cina e che, in tale occasione, la parte italiana della Commissione avrebbe effettuato una visita in Tibet.
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Nel corso della I riunione la parte italiana della Commissione si è recata a Shangai, dove ha incontrato il Vice Direttore del Comitato Permanente dell’Assemblea del Popolo della Municipalità di Shangai, Wang Peisheng. A Pechino la parte italiana Commissione, oltre a svolgere i lavori parlamentari, ha avuto incontri di carattere istituzionale presso il Ministero degli Esteri ed il Ministero dell’Istruzione, nonché con rappresentanti del PCC; infatti, ha incontrato il Vice Ministro degli Affari Esteri, Zhang Yesui, e il Direttore Generale del Ministero dell’Educazione, Cen Jainjun,. Inoltre, ha incontrato la Vice Presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, signora Wuyun Qimuge, e il Vice Ministro per il Collegamento con l’Estero del Partito Comunista Cinese, Zhang Zhijun.
Nel corso della II riunione i capi delegazione cinesi, il Presidente Chen Guangyi ed il Vice Presidente Yang Guoliang, sono stati ricevuti dal Presidente della Camera, Fausto Bertinotti. All’incontro ha preso parte anche il Presidente della parte italiana, Onorevole Pier Ferdinando Casini. Inoltre, a conclusione dei lavori della Commissione, il Commissario europeo per le relazioni estere, Benita Ferrero-Waldner, ha rivolto un saluto ai partecipanti ai lavori.
La delegazione cinese ha, quindi, avuto incontri con il Vice Presidente del Senato, Senatore Mario Baccini, con il Sottosegretario di Stato agli Affari esteri, Bobo Craxi, e con il Presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Umberto Ranieri.
La delegazione cinese si era recata in visita, domenica 14 ottobre, a Milano, dove è stata accolta al suo arrivo dal Vice Presidente del consiglio comunale di Milano, Stefano Di Martino, ha visitato la Fiera di Milano, dove è stata ricevuta dal Presidente della Fiera di Milano, Dott. Michele Perini, dal Presidente del Consiglio Comunale, Manfredi Palmeri, dalla dottoressa Claudia Bugno, dirigente della sezione internazionale della Camera commercio della Lombardia, e dal dottor Fabio Aromatici, dirigente di Assolombarda. Inoltre, la delegazione cinese è stata ricevuta dal Vice Presidente del Consiglio Regionale Lombardia, Enzo Lucchini, e dal Vice Presidente del Consiglio Regionale Lombardia, Marco Cipriano.
La delegazione cinese, che, nel corso del suo viaggio in Italia, ha altresì visitato la città di Venezia, gli Scavi di Pompei e la città di Pisa, si è recata a Firenze dove ha incontrato il Vice Presidente del Consiglio Regionale, Paolo Bartolozzi.
Si segnala che, a conclusione dei lavori della seconda riunione, si è convenuto di dare avvio ad un programma di stages con l’Assemblea Nazionale cinese.
Cooperazione multilaterale
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Il dialogo eurasiatico
La Cina partecipa al dialogo euro-asiatico dell’ASEM (Asia Europe Meeting)[4] e, quindi, agli incontri dell’Asia-Europe Parliamentary Partnership (ASEP) e a quelli dell’Asia-Europe Foundation (ASEF) che definiscono la parte parlamentare della cooperazione.
ASEP
L’Asia-Europe Parliamentary Partnership (ASEP), è un foro di dialogo parlamentare maturato in ambito ASEM, la cui quarta riunione siè tenuta a Helsinki (Finlandia) il 4 e 5 maggio 2006. In tale occasione è stato presentato il rapporto sulla cooperazione tra Asia ed Europa ed è stato approvato il regolamento dell’ASEP.
Si ricorda che le riunioni hanno cadenza biennale e che il prossimo incontro si terrà a Pechino dal 18 al 20 giugno 2008.
Le precedenti riunioni ASEP si sono tenute:
· la terza ad Hue City, in Vietnam, dal 25 al 27 marzo 2004;
· la seconda a Manila, nelle Filippine, dal 26 al 28 agosto 2002;
· la prima a Strasburgo, presso il Parlamento europeo, nel 1996. L’incontro mirava, in particolare, a fare dell’ASEP il braccio parlamentare dell’ASEM e a farne la sede per eccellenza della diplomazia parlamentare tra le assemblee legislative dei Paesi asiatici ed europei.
ASEF[5]
La Fondazione, con sede a Singapore, gestisce una serie di attività articolate in specifici programmi. In particolare, l’iniziativa dei giovani parlamentari euroasiatici, Asia Europe Young Parlamentarians Meeting (AEYPM), qualifica, assieme al Seminario dei Giovani Leaders dell'Asia e dell'Europa (AEYLS), la sezione politica di tali attività.
L’ultimo incontro, il sesto, dei giovani parlamentari eurasiatici (AEYPM6), si è svolto a L’Aja dal 28 febbraio al 3 marzo 2007. La Camera è stata rappresentata dall’On. Sandro Gozi.
Il precedente incontro dei Young Parliamentarians Meeting dell’ASEF, il quinto, si è svolto a Guilin (Cina) dal 23 al 26 ottobre 2003[6].Nell’ottobre 2002 la riunione dei giovani parlamentari è stata ospitata dalla Camera dei deputati a Venezia. In precedenza i giovani parlamentari eurasiatici si sono incontrati, nel novembre 1998, a Cebu nelle Filippine, nell’aprile 2000 a Cascais in Portogallo e, nel novembre 2001 a Bali in Indonesia.
Conferenza su “Il ruolo dei parlamenti nella promozione di politiche per lo sviluppo della società dell’informazione”
Nessun parlamentare cinese ha partecipato alla Conferenza su Il ruolo dei parlamenti nella promozione di politiche per lo sviluppo della società dell’informazione, ospitata dalla Camera dei deputati, il 3 e il 4 marzo 2007, organizzata congiuntamente all’Unione Interparlamentare e all’UNDESA, in quanto inserita nel quadro dell’iniziativa Gobal Centre for ICT in Parliaments.
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Si ricorda, inoltre, che il Parlamento cinese prende parte all’Associazione dei Parlamenti Asiatici per la Pace, all’Asia Pacific Parliamentary Forum (APPF), all’Asia Pacific Parliamentarians’ Union (APPU), ed interviene in qualità di osservatore all’ASEAN Inter-Parliamentary Organization.
Unione interparlamentare
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E’ in via di costituzione la sezione di amicizia Italia-Cina per la XV Legislatura. Al momento ne fanno parte l’on. Andrea PAPINI (Ulivo) che ne è Presidente, e gli On. Francesco COLUCCI (FI), Gino CAPOTOSTI (Udeur), Massimo Saverio Ennio FUNDARO’ (Verdi) ed il Sen. Learco SAPORITO (AN).
Disegni di legge di ratifica di trattati internazionali all’esame del Parlamento riguardanti la Repubblica Popolare Cinese
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Ratifica ed esecuzione dell'Accordo fra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica popolare di Cina per la cooperazione scientifica e tecnologica, con Allegato, fatto a Pechino il 9 giugno 1998.
Legge n. 135/07 del 2 agosto 2007, GU n. 199 del 28 agosto 2007
AS 1376 / AC 2630
Ratifica ed esecuzione dei seguenti accordi: a) Accordo di cooperazione relativo ad un sistema globale di navigazione satellitare civile (GNSS) - Galileo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri e la Repubblica popolare cinese, fatto a Pechino il 30 ottobre 2003; b) Accordo concernente la promozione, la fornitura e l' uso dei sistemi di navigazione satellitare Galileo e GPS e applicazioni correlate tra gli Stati Uniti d' America, da un lato, e la Comunità europea ed i suoi Stati membri, dall' altro, con Allegato, fatto a Dromoland Castle il 26 giugno 2004.
Approvato dal Senato. Trasmesso alla Camera e assegnato alla 3ª Commissione permanente (Affari esteri e comunitari) in sede referente il 14 maggio 2007. In corso di esame in Commissione.
AS 884 / AC 2265
Ratifica ed esecuzione dell' Accordo di coproduzione cinematografica tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica popolare cinese, firmato a Pechino il 4 dicembre 2004.
Approvato dal Senato. Trasmesso alla Camera e assegnato alla 3ª Commissione permanente (Affari esteri e comunitari) in sede referente il 21 febbraio 2007. In corso di esame in Commissione.
ATTI DI SINDACATO ISPETTIVO
Numerosi sono gli atti di sindacato ispettivo relativi alla Cina presentati nel corso dell’attuale legislatura e concernenti varie materie: rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa, embargo sulle armi, tutela del lavoro e dei lavoratori, concorrenza sleale e misure antidumping. Si segnalano, in particolare, le mozioni Paoletti Tangheroni n. 1-00033, Volontà n. 1-00052, D’Elia n. 1-00053 e Sereni n. 1-00063, approvate dalla Camera il 12 dicembre 2006, con le quali si impegna il Governo, tra l’altro,ad indirizzare l’azione diplomatica, sia nei rapporti bilaterali che a livello europeo, in modo da assicurare il rispetto dei diritti umani e civili, della libertà di espressione e religiosa; a sostenere, nella discussione in corso in sede europea sull'embargo del commercio di armi con la Cina, la posizione per la quale un'eventuale revoca da parte dell'Unione europea debba essere legata a progressi verificabili e tangibili della Cina nel campo dei diritti umani, delle riforme democratiche e delle relazioni pacifiche coi vicini regionali; ad intervenire presso le autorità cinesi affinché la legislazione del lavoro e i diritti dei lavoratori si adeguino agli standard internazionali (cfr. allegato).
Si segnala anche l’Interrogazione a risposta immediata in Paoletti Tangheroni Commissione n. 5-00593, sullo sviluppo dell'armamento satellitare e violazione dei diritti umani in Cina (di cui si allega il testo della risposta).
Aggiornamenti sul Tibet e posizione dell’Italia rispetto all’attuale crisi in Tibet
(in collaborazione con il Ministero Affari esteri)
Il 10 marzo 2008 è iniziata la protesta a Lhasa di migliaia di tibetani contro la Cina, in occasione del 49esimo anniversario della fallita insurrezione anticinese. Le proteste, continuate fino a pochi giorni fà[7], sono state brutalmente represse dalle autorità cinesi. Secondo le informazioni in possesso del governo tibetano in esilio, le vittime sarebbero 135, oltre 400 invece le persone arrestate e oltre 1000 i feriti, ma tali cifre, secondo tali fonti potrebbero essere notevolmente superiori.
Il Governo Cinese da parte sua accusa il Dalai Lama di avere ''premeditato e organizzato'' le proteste anticinesi in Tibet.
Il Governo Italiano ha preso immediatamente posizione riguardi i drammatici fatti avvenuti in Tibet, infatti, il Sottosegretario Vernetti ha ricevuto il 18 marzo, presso la Farnesina, l’Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese Sun Yuxi per rappresentargli la preoccupazione con la quale l’Italia seguiva la vicenda e per chiedere al Governo Cinese di evitare l’uso della forza nei confronti dei manifestanti. Il Sottosegretario Vernetti in quella occasione ha voluto ancora una volta manifestare l’importanza che l’Italia attribuisce al diritto di libertà di espressione e di protesta pacifica.
L’Italia ha, inoltre, intrapreso un passo a livello europeo proponendo, tramite un documento fatto circolare sul canale COREU, l’invio di una Delegazione ufficiale dell’UE a Pechino. Il fine di tale proposta vuole essere quello di dare un segnale forte alle Autorità Cinesi testimoniando così l’attenzione e la preoccupazione che i Governi e le Opinioni Pubbliche Europee dedicano alla questione tibetana. In tale ottica si è guardato con favore alla Dichiarazione Comune dell’ Unione Europea del 17 marzo.
Nei giorni del 28 e 29 marzo 2008 si è svolta una missione a Lhasa di diplomatici, su invito del Ministero degli Affari Esteri cinese e delle Autorità locali: Alla missione hanno preso parte, tra gli altri, rappresentanti di Slovenia, Francia, Commissione Europea, Italia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Australia, Brasile; Canada, Giappone, Russia, Singapore, Tanzania e Usa. Per l’Italia era presente Antonio Bartoli.
Secondo il programma cinese, la delegazione ha visitato le zone distrutte dagli attacchi, una scuola, un monastero e due ospedali, uno militare ed uno civile. Ma al di fuori degli eventi organizzati è stato impossibile per i delegati incontrare gente della strada o persone comuni. Nonostante questo Bartoli e l' Ambasciatore italiano Riccardo Sessa hanno affermato che si tratta di un ''primo passo'' la cui importanza e' ''da non sottovalutare'' se si tiene conto che la Cina continua a considerare la crisi nel Tibet come un proprio ''affare
interno''.
Si segnala, infine, che i ministri degli Esteri dell'Unione europea, riunitisi informalmente a Brdo (Slovenia) insieme alla Commissione Europea, hanno diffuso sabato 29 marzo 2008 una dichiarazione in cui chiedono per il Tibet "la fine delle violenze e un trattamento in conformita' con gli standard internazionali per le persone arrestate", "libero accesso per la stampa". Si è quindi fatto riferimento alle dichiarazioni in favore della non violenza e sulla autonomia della regione fatte dal Dalai Lama, si è così auspicato l’avvio di "un dialogo sostanziale e costruttivo che comprenda questioni centrali come la tutela della cultura, religione, lingua e delle tradizioni tibetane". E’ stato infine reiterato l’impegno della UE a seguire con attenzione la situazione dei diritti umani in Cina.
Il 31 marzo 2008 Pechino ha reagito alla dichiarazione accusando l'Unione Europea "d'interferenza" nei propri "affari interni". "La questione del Tibet e' completamente un affare interno della Cina", ha affermato una dichiarazione posta sul sito web del ministero degli esteri cinese. "Nessun paese straniero o organizzazione internazionale ha il diritto d'interferire".
LA REGIONE DEL TIBET
tratto da “Wikipedia”
La Regione Autonoma del Tibet, nota anche con l'acronimo TAR (Tibet Autonomous Region) (è una regione con autonomia a livello di provincia della Repubblica Popolare Cinese.
Storia
Fino al 1950 il Tibet era uno stato sovrano indipendente governato dalla massima autorità religiosa del Buddhismo tibetano, il Dalai Lama. In quell'anno l'Esercito di liberazione popolare, facente capo alla Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Zedong, invase il Tibet, adducendo, come motivazioni verso l'esterno, il fatto che il Tibet, secoli prima, era stato conquistato dai Mongoli e appartenevano allo stesso impero. Nel 1956 il Governo cinese costituì il Comitato Preparatorio per la Regione Autonoma del Tibet. Tenzin Gyatso (XIV Dalai Lama) presiedeva il comitato, ma si rese conto che gli altri appartenenti erano molto dipendenti dalle decisioni del governo centrale. Nel 1957 scoppiò una rivolta nel Tibet orientale che si estese a Lhasa nel 1959. Nello stesso anno l'Esercito di liberazione popolare schiacciò la rivolta e costrinse il Dalai Lama alla fuga e il 17 marzo lasciò il Palazzo del Norbulingka travestito da soldato e scappò in India dove costituì il Governo tibetano in esilio. Il 1° settembre1965 nacque ufficialmente la Regione Autonoma del Tibet, nota internazionalmente con l'acronimo di TAR (Tibet Autonomous Region). In concordanza con gli articoli 111 e 112 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese e seguendo l'esempio dell'Unione Sovietica, il governatore doveva essere di etnia tibetana, controllato dal locale segretario del Partito Comunista Cinese, generalmente un cinese di etnia Han. La Cina governò quello che rimaneva del Tibet con la forza e la repressione.
Durante la Rivoluzione Culturale vennero uccisi circa 1,2 milioni di tibetani, distrutti 6.254 monasteri, deportati circa 100.000 tibetani nei campi di lavoro e si è avuta una deforestazione indiscriminata.
Nel 1976, dopo la morte di Mao, visto il clima di rivolta sempre nell'aria, i cinesi si resero conto che non potevano continuare a governare la Regione Autonoma del Tibet sempre nello stesso modo. Per questo Hua Guofeng, successore di Mao, invitò il Dalai Lama a ritornare in Tibet. Questi considerò con cautela l'invito e, dopo avere mandato una commissione per valutare il rientro (con il consenso cinese), decise di rimanere in India. Deng Xiaoping sostuì Hua Guofeng ed inviò in Tibet una commissione per valutare la situazione del Tibet. A seguito di questa venne stabilito un piano per cercare di migliorare le condizioni di vita dei tibetani riducendo per due anni le tasse, consentendo un minimo di iniziativa privata e facendo riaprire il Jakong e il Palazzo del Potala.
Nei primi anni ottanta vennero diminuiti leggermente i divieti relativi all'osservanza della religione e vennero riaperti alcuni monasteri. Questo era per riaprire il colloquio con il Governo tibetano in esilio in modo che il Dalai Lama fosse più vicino all'influenza cinese e che andasse in Cina dove avrebbe potuto ricoprire qualche incarico da funzionario. Egli rifiutò e nel 1983 i colloqui furono interrotti definitivamente e l'invito al Dalai Lama fu ritirato. Da allora ci sono state sporadiche rivolte (per lo più non armate) per l'autonomia del Tibet contro il Governo cinese, condotte principalmente da monaci e monache. Il Governo cinese, oltre a reprimere con la forza queste proteste, cerca di favorire l'immigrazione di cinesi di etnia Han nella Regione Autonoma del Tibet. In particolare, è stata inaugurata l’anno scorso la Ferrovia del Qingzangche collega Lhasa a Pechino e al resto della Cina. Si stima che questa porterà in Tibet 40 milioni di non tibetani (contro circa 6,5 milioni di tibetani). Il turismo è stato incrementato, ma le guide turistiche cinesi vengono favorite rispetto a quelle native alle quali viene impedito di svolgere la professione, nel caso in cui fossero scappate in India in precedenza. A tutt'oggi Tenzin Gyatso (XIV Dalai Lama) non richiede più l'indipendenza e la sovranità del Tibet, anche tramite pressioni internazionali, ma solo una vera autonomia della Regione Autonoma del Tibet ed il rispetto dei diritti umani dei tibetani.
La Regione Autonoma del Tibet costituisce una parte del Tibet ed è localizzata nell'omonimo altopiano e comprende una parte importante della catena dell'Himalaya (tra cui il Monte Everest, la montagna più alta del mondo).Confina a nord e a est con la regione autonoma dello Xinjiang e con le province cinesi di Qinghai e Sichuan; a ovest confina con l'India e a sud con Nepal, India e Bhutan e con la provincia dello Yunnan.
La Regione Autonoma del Tibet ha la più bassa densità delle 6 regioni amministrative a livello di province cinesi a causa del clima e del territorio altamente montagnoso. La popolazione è costituita da Tibetani e da Cinesi di etnia Han. Non esistono stime ufficiali attendibili inerenti alla percentuale degli uni e degli altri. Sono presenti anche piccoli gruppi tribali come i Monpa e i Lhoba nella parte sud-ovest della regione.
I tibetani dipendono tradizionalmente dall'agricoltura e dall'allevamento, in particolare di yak. Dagli anni '80, con l'arrivo della tecnologia e della modernità dalla Cina, i servizi svolgono un ruolo importante. Nel 2003, il PIL era di 2,2 milioni USD e costituiva il minore tra le province e regioni cinesi, contribuendo solo allo 0,1% dell'intera economia cinese.
IL GOVERNO TIBETANO IN ESILIO
tratto da “Wikipedia”
Il Governo tibetano in esilio o Amministrazione centrale tibetana (spesso abbreviato come CTA da Central Tibet Administration) rappresenta il tradizionale governo del Tibet, i cui componenti sono fuggiti in esilio in India nel marzo del 1959 insieme al Dalai Lama dopo la rivolta di Lhasa contro l'esercito cinese. Il governo tibetano è stato dichiarato illegale da parte della Repubblica popolare cinese il 28 marzo1959, ma contemporaneamente il Dalai Lama formava un governo provvisorio presso il villaggio Lhuntse Dzong, pochi giorni prima di varcare il confine indiano.
Il 29 aprile dello stesso anno il Governo tibetano in esilio si è insediato nella località indiana di Masūrī (Mussoorie). Il trasferimento definitivo a Dharamsala, ove opera tutt’oggi, è avvenuto nel maggio del 1960.
Il Governo tibetano in esilio ha principalmente le funzioni di supportare gli esuli in arrivo dal Tibet, amministrare i campi profughi e gli insediamenti permanenti, preservare la cultura tibetana e promuovere l’istruzione dei profughi.
La fonte primaria del diritto è costituita dalla Carta dei Tibetani in esilio (Charter of the Tibetans in Exile), un documento adottato nel 1991 dall’Assemblea dei Deputati. Si basa sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e sul principio della separazione dei poteri.
L’attuale struttura dell’Amministrazione centrale tibetana è frutto di un processo di democratizzazione iniziato già nei primi anni dell’esilio.
Sono attivi i sette ministeri (Lhenkhang) elencati di seguito.
Ministero |
Ministro |
Interno |
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Educazione |
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Finanze |
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Sicurezza |
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Informazione e Relazioni internazionali |
|
Salute |
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Religione e Cultura |
Sono inoltre in funzione i seguenti organi:
Il Dalai Lama a New Delhi
NEW
DELHI - "Per favore, aiutate il
mio popolo a risolvere la crisi del Tibet. Per favore, abbiamo bisogno
dell'aiuto di tutto il mondo". In ginocchio, le mani giunte sopra la
testa, con la voce spezzata dalla tensione e dal dolore, la guida spirituale
del buddismo lancia un nuovo, accorato appello alla comunità internazionale. La
scena è drammatica e le parole del Dalai Lama rendono l'atmosfera ancora più
densa di emozioni.
Avviene di mattina presto, qui a Delhi, davanti a migliaia di persone, di ogni
fede religiosa, radunate per commemorare i 60 anni dall'assassinio del Mahatma Gandhi,
l'uomo della non-violenza, il leader politico che ispirò, con la sua pratica,
l'attuale capo della chiesa buddista. Circondato da rappresentanti indù,
musulmani, sikh e jain e da centinaia di tibetani, il Dalai Lama si dedica
prima a una lunga preghiera in ricordo del padre dell'indipendenza indiana,
ucciso nel 1948. Poi, dentro il mausoleo che sorge sul luogo dove Gandhi è
stato cremato, lancia il suo ultimo, disperato appello: "Non abbiamo altro
potere se non la giustizia, la verità, la sincerità. E' per questo che chiedo
alla comunità internazionale di aiutarci. Sono qui, impotente, posso solo
pregare. Il mondo può intervenire, fare qualcosa, ottenere verità e
giustizia".
Parole semplici ma forti che riescono a scuotere la grande folla di religiosi, sostenitori, tibetani in esilio. Moltissimi pregano; altri pronunciano, sottovoce, in un brusio crescente, frasi e nenie che rimbombano tra le mura del masuoleo. La tensione è forte. Come l'emozione. C'è qualcuno che piange, in silenzio.
La
mente viaggia verso nord, a Dharamsala, il piccolo villaggio indiano dove dal
1958 viene opsitato il governo tibetano in esilio. E poi ancora più a nord-est,
dietro le cime imponenti dell'Himalaya, a Lhasa. Si pensa a quanto è accaduto,
alle proteste esplose improvvise due settimane fa, ai morti, agli scomparsi, ai
monaci inseguiti e bastonati, a quelli rinchiusi da 15 giorni nei monasteri,
isolati dal resto del mondo, circondati dalle squadre speciali antisommossa
della polizia della Repubblica popolare cinese.
Il gruppo di 26 giornalisti, selezionati tra i corrispondenti stranieri a
Pechino, è già rientrati dalla visita di tre giorni organizzata dal governo
cinese. La delegazione di 15 rappresentanti diplomatici di altrettanti paesi,
autorizzata a recarsi in Tibet, avrà 48 ore di tempo per cercare di capire gli
effetti della sommossa e della repressione, durissima, scattata l'11 marzo
scorso. Pechino non sembra disposta a cedere: respinge in blocco gli appelli al
dialogo e al confronto più volte lanciati dal Dalai Lama. Lo considera la mente
della rivolta e lo bolla come un bandito che punta a boicottare i Giochi
olimpici di agosto.
Ma le autorità di Pechino mettono in campo anche gesti distensivi. Il classico pugno di ferro in guanto di velluto. Il vicepresidente cinese delle regione autonoma del Tibet, Baema Chilain, ha assicurato che i 30 monaci che si erano rivolti alla delegezione di giornalisti denunciando i soprusi cui erano stati sottoposti dalla polizia cinese non saranno puniti. Ma pochi credono agli impegni ufficiali e temono che la situazione sia gravissima e che la repressione possa accanirsi con più forza su chiunque sia sospettato di aver partecipato alle proteste. Alla delegazione diplomatica è stato vietato di incontrarli.
Il Dalai Lama parla anche del suo futuro e non esclude di potersi presto ritirare. "Credo che nel giro di breve tempo", annuncia durante una conferenza stampa, "rassegnerò completamemte le dimissioni dalla mia carica. lo farò in modo volontario e sereno. Del resto", aggiunge con la sua consueta ironia, "sono già mezzo pensionato. Vorrà dire che consacrerò più tempo alla preparazione della mia prossima vita".
(29 marzo 2008)
Il presidente cinese deve le sue fortune al ruolo di segretario del partito in Tibet e alla repressione del 1989, ma in questo caso si è tenuto lontano dalla scena politica. Le critiche all'apparato di sicurezza. La strategia della polizia cinese contro i monaci simile a quella utilizzata in Birmania. I rischi per la fazione di Hu.
E’ ormai guerra di cifre tra il governo cinese e la diaspora tibetana
all’estero sul numero di vittime provocate dai recenti scontri in Tibet e nelle
province limitrofe abitate da comunità tibetane (Quinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan),
con le due parti che si accusano vicendevolmente per l’escalation di violenze.
Il presidente cinese Hu Jintao tace, mentre cominciano a serpeggiare nei suoi
confronti – e in quelli della sua ‘fazione tibetana’ – critiche per la mancata
prevenzione dei disordini.
Hu – che è anche segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc) e presidente della Commissione militare centrale – ha costruito le sue fortune politiche ricoprendo il ruolo di segretario del Partito nella regione autonoma del Tibet dal 1988 al 1992. Deng Xiaoping favorì il suo ingresso nel comitato permanente del Pcc e la sua ascesa alla leadership nazionale, proprio per il modo spietato ed efficiente con cui represse a Lhasa nel marzo del 1989 l’ultima rivolta indipendentista tibetana prima di quella scoppiata in questi giorni. Come erede designato di Jiang Zemin (successore a sua volta di Deng), Hu ha promosso negli anni diversi suoi subordinati in Tibet a ruoli chiave nel Partito e nello Stato.
Zhang Qingli, l’attuale segretario del Partito in Tibet, è una sua creatura politica. Come il leader del Pcc nel Xinjiang (Wang Lequan), la provincia occidentale minacciata dal separatismo uighuro. Sempre dal gruppo tibetano del presidente cinese proviene Hu Chunhua, ora segretario della Gioventù comunista del Partito (ruolo ricoperto da Hu Jintao a metà anni Ottanta) e nei pronostici già successore in pectore di Xi Jinping, nominato recentemente vice presidente della Commissione militare centrale, e probabile erede di Hu Jintao nel 2012.
Data la consistenza dell’apparato repressivo di Pechino in Tibet, in molti hanno manifestato sorpresa per il vuoto di sicurezza
creatosi in quei giorni a Lhasa, come per il fatto che le proteste cominciate
il 10 marzo scorso nel capoluogo tibetano siano sfuggite di mano alle autorità
cinesi, dilagando poi nelle province vicine. Uno sbigottimento che nasce anche
dalle considerazioni sulla natura del Pcc, una delle organizzazioni politiche
più efficienti dell’era contemporanea, con cui si identifica il regime cinese.
L’anno passato, Hu aveva rafforzato il dispositivo militare in Tibet e
nello Xinjiang e richiamato in servizio parte
delle 650 mila unità paramilitari, che compongono la Polizia Armata del Popolo.
L’obiettivo era chiaro: fronteggiare con azioni preventive ogni sussulto
separatista in quelle regioni all’approssimarsi della kermesse olimpica.
L’operazione con cui le autorità cinesi avrebbero sventato ai primi di marzo un
presunto dirottamento aereo da parte di un gruppo separatista uighuro,
rientrerebbe nel quadro di questa strategia.
Per il sistema di sicurezza cinese si parla ora di una vera e propria debacle nella gestione della crisi in Tibet, da ricondurre in particolare al condizionamento del ‘fattore Olimpiadi’. Con gli occhi del mondo costantemente puntati addosso e con l’opinione pubblica mondiale che chiedeva moderazione, le autorità cinesi avrebbero preferito temporeggiare dinanzi alle proteste dei tibetani, rinunciando in un primo momento all’uso della forza.
Un particolare interessante – riportato dalle poche cronache dei primi giorni di scontri – è la passività delle forze di sicurezza di Pechino nell’affrontare il 14 marzo i manifestanti tibetani che assaltavano i negozi e gli esercizi commerciali dei cinesi di etnia han a Lhasa. I soldati si sarebbero infatti limitati a filmare e fotografare le proteste, senza usare le armi. La repressione sarebbe scattata poi il giorno seguente.
Una tattica forse mutuata da quella utilizzata dalla giunta militare birmana durante le sollevazioni dei monaci buddisti lo scorso settembre a Yangoon. Anche in quel caso, i soldati birmani attesero qualche giorno prima di colpire, filmando prima chi partecipava alle proteste, per poi procedere scientificamente agli arresti nel corso di raid notturni, al riparo dagli sguardi indiscreti dei media internazionali.
Il silenzio assordante del presidente cinese esprime un evidente disagio. In questi giorni, Hu è completamente scomparso, lasciando il proscenio al premier Wen Jiabao, alle autorità locali delle province interessate e, più in generale, agli organi di propaganda del Partito. Alcuni osservatori pensano che questa scelta rientri in una sottile strategia tesa a lasciare campo aperto a Wen – ritenuto ‘l’anima dialogante’ dell’attuale leadership cinese – per intavolare una difficile trattativa a distanza con il Dalai Lama.
Un biografo di Hu ha confidato invece al New York Times, che quella di eclissarsi durante i momenti di crisi è una peculiarità del presidente cinese. Durante le proteste del 1989 in Tibet, Hu si sarebbe in realtà dileguato dalla scena pubblica, per poi ricomparire a repressione compiuta. Come allora, con questo atteggiamento il presidente cinese si riserverebbe la possibilità di prendere le distanze da quanto accaduto nel caso in cui la rivolta non fosse soffocata.
I fatti di Lhasa rischiano di indebolire la fazione di Hu, dopo che le nomine scaturite dal 17° Congresso del Pcc dell’ottobre 2007 – e ratificate nei giorni scorsi, durante la sessione annuale dell’Assemblea Nazionale del Popolo – ne avevano sanzionato il primato all’interno del Partito. La ‘cricca di Shanghai’, che fa capo all’ex presidente Jiang Zemin e che conta ancora esponenti di peso nel Comitato permanente del Politburo, potrebbe ora usare la crisi in Tibet come pretesto per riguadagnare influenza.
Il ritorno in auge del gruppo di Jiang rischierebbe di rallentare il timido processo riforme del sistema politico nazionale avviato dalla leadership di Hu, i cui cardini sono il concetto confuciano di ‘società armonica’ (la distribuzione della ricchezza tra le fasce deboli della popolazione) e quello di ‘sviluppo scientifico’ (il bilanciamento tra crescita economica, attenzione all’agricoltura e rispetto dell’ambiente).
Nei piani di Hu il Tibet doveva rappresentare parte di questa visione: l’unità e l’armonia di Pechino con la sua immensa periferia – simboleggiata dalla ferrovia Quinghai-Lhasa – e la diffusione del benessere nella Repubblica Popolare come strumento per il superamento delle differenze tra le sue innumerevoli componenti etniche, religiose e sociali. Al presidente cinese dovrebbero forse ricordare, però, che per Confucio ogni sovrano deve governare i propri sudditi con la persuasione e non con la violenza.
Michele Tempera
CINA: LA QUESTIONE DEL TIBET
Tratto da Equilibri.net (20 marzo 2008)
I disordini nella regione tibetana riportano alla ribalta il difficile rapporto tra Pechino e Lhasa. Tralasciando le polemiche sul bilancio degli scontri, è interessante soffermarsi sulla strategia cinese riguardo alla regione, analizzando le motivazioni e le modalità della gestione cinese in Tibet. Una potenza in ascesa si confronta con le pulsioni indipendentiste manifestate in una rilevante porzione del proprio territorio. Questa situazione apre scenari significativi, i quali sottolineano come Pechino intenda proseguire nell’integrazione politico-economica del Tibet e quanto questa sia tenuta in considerazione nella prospettiva di divenire un protagonista della politica internazionale.
Il Tibet appartiene alla Cina sin dalla metà del diciottesimo secolo. Questo territorio impervio entra nella attualità internazionale quando le truppe cinesi ne prendono possesso militarmente. Ciò accadde nel 1950-51 per opera dell’esercito maoista della Repubblica Popolare Cinese (formatasi nel 1949). Il governo presieduto da Mao Tse-Dong decise allora di conferire al territorio in questione la qualifica di Provincia Autonoma, lasciandoli formalmente libertà religiosa, culturale e di linguaggio. I rapporti tra il governo centrale cinese e il Tibet si sono ulteriormente inaspriti quando nel 1959 una rivolta è stata repressa sanguinosamente da Pechino, provocando la fuga del Dalai Lama (massima autorità politico-religiosa tibetana) in India.
Le proteste espresse da una parte della popolazione tibetana nei giorni scorsi sono il sintomo di una sofferenza politico-culturale. Data la scarsa trasparenza delle fonti cinesi da un lato e della propaganda dei movimenti indipendentisti tibetani (guidati dal Dalai Lama) dall’altro, risulta molto difficile stabilire in maniera affidabile la reale entità del fenomeno in corso. Infatti se è certa la presenza di un ampio movimento favorevole al distaccamento dalla Cina Popolare, è altrettanto accertata l’esistenza di una porzione di cittadini che vede positivamente il legame della regione autonoma alla locomotiva economico-produttiva cinese. Inoltre il ruolo sempre più prominente occupato da Pechino sulla scena internazionale non può che costituire un’attrattiva per la popolazione tibetana che ambisce ad un miglioramento delle proprie condizioni di vita e ad uno sviluppo economico duraturo. Con queste premesse sembra opportuno non soffermarsi in questa sede sull’annoso dibattito che vede da una parte la Cina condannare la deleteria influenza destabilizzante esercitata dall’esterno dal Dalai Lama e dall’altra parte il movimento per l’indipendenza del Tibet evocare l’evidenza di un genocidio in corso nel territorio tibetano. Risulta per il momento del pari opportuno, per le stesse ragioni, evitare di addentrarsi nei particolari della rivolta e della conseguente risposta di Pechino.Si cercherà di esporre invece la dinamica sottostante alla annosa tensione tra le due entità in gioco, dinamica della quale gli scontri in corso rappresentano un effetto ricorrente ma episodico.
La strategia di Pechino in Tibet e le sue motivazioni
Supportata dal diritto internazionale e dall’evidenza, la Cina considera il Tibet come parte integrante ed indivisibile del proprio territorio. Non è dunque verosimile pensare, nelle condizioni geopolitiche internazionali attuali, a una possibilità di riuscita di qualsiasi rivolta popolare in Tibet. Fin dalla nascita della Repubblica Popolare la capitale Lhasa ed i suoi dintorni sono stati soggetti a un processo di assimilazione culturale ed economica. Tuttavia solamente da dieci anni a questa parte tale processo ha assunto caratteri di marcata rilevanza quantitativa. Dalla fine degli anni ’90 del ‘900 miliardi di dollari sono fluiti verso la repubblica autonoma, dando via ad un percorso si modernizzazione attualmente in pieno svolgimento.
Questo movimento verso la modernità impresso dal governo centrale cinese si può scindere in una duplice strategia. In primo luogo Pechino sta includendo il Tibet in una tendenza, caratterizzata da una crescita economico-produttiva, vissuta su scala più ampia dall’intero paese. La travolgente crescita economica deve essere accompagnata, secondo l’ultimo piano quinquennale, dalla modernizzazione delle aree del paese più arretrate e sottosviluppate, al fine di scongiurare tumulti, malcontento e instabilità. Il Tibet rientra pienamente in questa categoria di province e la sua volontà indipendentista lo rende uno dei terreni privilegiati dove applicare i piani elaborati a Pechino. In questo contesto la Cina sta attuando in Tibet diversi progetti di sviluppo infrastrutturale, tra i quali la linea ferroviaria che collega Lhasa alla Cina centrale ed occidentale (nota per transitare per 1.200 Km a 5.000 m di altitudine) ne rappresenta l'esempio più alto.
La seconda parte della strategia consiste nello stabilire solide reti amministrative nella regione, in modo da rendere maggiormente partecipi i cittadini tibetani alla vita politica nazionale e allo stesso tempo inserirli nel contesto partitico e amministrativo vigente nel resto del paese asiatico.Questa duplice strategia è ispirata da motivazioni ben precise nonché da specifici obiettivi strategici. Pechino sta tentando attivamente di creare un legame economico e produttivo solido tra il Tibet e le altre zone dell’immenso stato. Difatti oltre ai progetti e alle infrastrutture, lo sviluppo di un tessuto economico integrato a quello nazionale risulta di fondamentale importanza al fine di avvicinare attraverso l’economia e il commercio due realtà culturalmente differenti. Se il Tibet riuscirà ad essere incluso nel circuito dello sviluppo produttivo sperimentato in molte altre parti del paese, le proteste diverranno inevitabilmente più flebili, come del resto il consenso ad una politica indipendentista la quale, a quel punto, sarebbe anacronistica.
Vi
sono ragioni geopolitiche all’intransigenza di Pechino di fronte ad ogni
richiesta di indipendenza proveniente da Lhasa.La Cina è da alcuni anni nel
pieno di una rapida ascesa politica, diplomatica ed economica, che sta rendendo
il gigante asiatico una tra le maggiori potenze mondiali. Le prospettive e le
previsioni per il breve e medio periodo non si discostano da questo trend. Ciò
rende di cruciale importanza per Pechino ottenere una stabilità interna
completa e immodificabile, così da potere affrontare liberamente e nel migliore
dei modi le sfide economiche e strategiche che si stagliano al suo orizzonte.
Di conseguenza, non può essere tollerata una spinta indipendentista che
coinvolge una fetta consistente del suo territorio, poiché, se avesse successo,
getterebbe nello scompiglio l’intera nazione e produrrebbe contraccolpi
imprevedibili. Risulta quindi semplice comprendere come per Pechino non solo
non possa nemmeno entrare in discussione una eventuale indipendenza della
Provincia Autonoma, ma neppure un riconoscimento parziale di tali istanze.
Anche la necessità di fornire un'immagine del paese solida e
prestigiosa all’estero, soprattutto in Asia, concorre a rendere inaccettabile
il movimento tendente all’indipendenza del Tibet. La Società Armoniosa
descritta dal presidente cinese Hu Jintao durante l’ultimo congresso del
Partito Comunista Cinese, serve in questo caso da paradigma per la questione tibetana.
La costruzione di una società pacifica e stabile avverrà certamente a scapito
di ogni istanza separatista, che verrà repressa duramente. Non va sottovalutato
poi il fatto che il Tibet è l’unica tra le province cinesi a confinare con
l’India. Questa circostanza rende il territorio tibetano di fondamentale
importanza, tanto strategica quanto economica, per Pechino e allontana
qualsiasi residua possibilità di indipendenza.Proprio l’India ha interrotto sul
nascere le manifestazioni dei rifugiati tibetani scatenatesi al di là del
confine cinese. I manifestanti che stavano marciando verso il confine partendo
dall’India settentrionale sono stati fermati dalle autorità indiane. La
collaborazione è stata apprezzata dal governo cinese, il quale sta sviluppando
con l’India una sempre più stretta intesa in numerosi settori politici ed
economici.Fatta eccezione per le dichiarazioni rituali di alcuni governi, viene
sottolineato così come la causa tibetana sia sostanzialmente isolata in virtù
dell’influenza strategica ed economica detenuta oramai da Pechino su scala
planetaria.
Conclusioni
Gli scontri avvenuti in Tibet nei giorni scorsi rappresentano l’effetto di due volontà contrapposte. Da un lato quella cinese di esercitare la propria sovranità nazionale sulla totalità del proprio territorio e di evitare qualsiasi possibilità di secessione della provincia autonoma. Dall’altro lato, il desiderio di indipendenza di una grande parte del popolo tibetano che si esprime mediante tensioni separatiste in virtù di una cultura estranea a quella cinese.La strategia di Pechino sopra descritta è rifiutata da una parte significativa dei cittadini tibetani, i quali sentono in tal modo cancellata la propria specificità storica e culturale. In seguito alla repressione dei giorni scorsi, concessioni simboliche dello stato centrale cinese rispetto alla sfera amministrativa e culturale, potrebbero appianare momentaneamente la crisi in atto. Molto probabilmente i disordini non avranno conseguenze su scala internazionale, tuttavia è probabile che sul piano dell’ordine pubblico interno alla provincia vengano adottate dalle autorità cinesi misure estremamente stringenti affinché non si ripetano episodi analoghi, soprattutto in prossimità delle olimpiadi di Pechino.
di Emanuele Scimia
I rivoltosi tibetani, come i ragazzi di Tienanmen, combattono per quei diritti che l'Occidente considera inalienabili. Ma dagli Stati Uniti all'India, passando per l'Europa, interessi economici e imperativi strategici rendono improbabile un intervento anticinese.
Gli eventi che in questi giorni stanno
insanguinando il Tibet non rappresentano solo una sfida per il governo cinese, chiamato a disinnescare una rivolta che minaccia
l’equilibrio interno del paese a pochi mesi dall’inizio delle olimpiadi di
Pechino. Gli scontri, che oppongono monaci buddisti e civili tibetani alle
forze di sicurezza cinesi a Lhasa e in altre zone della regione autonoma cinese
del Tibet (nonché in aree delle province del Gansu e del Sichuan, abitate da
comunità tibetane), hanno confermato anche il chiaro imbarazzo della comunità
internazionale nell’affrontare i problemi connessi alla causa tibetana.
Il Tibet, che dal XIII secolo in poi ha alternato periodi di
indipendenza ad altri di dominio cinese, è stato occupato militarmente
dalla Repubblica Popolare Cinese nel 1950. Spinto da considerazioni di natura
geopolitica (e non certo ideologica), Mao Zedong lo voleva trasformare in un
baluardo naturale contro eventuali invasioni da occidente. Le proteste
scoppiate in tutta la loro virulenza nei giorni scorsi (le più importanti da
quelle del 1989), hanno coinciso con la commemorazione della repressione del
1959, quando l’esercito cinese sedò nel sangue la prima grande rivolta dei
tibetani contro il giogo di Pechino.
All’epoca il Dalai Lama – la guida spirituale e politica del buddismo tibetano – fu costretto a fuggire e a stabilirsi a Dharamsala, nell’India settentrionale, dove fu formato anche un governo tibetano in esilio. I tentativi di giungere a un compromesso tra le due parti sono sempre naufragati. Il Dalai Lama rifiuta l’etichetta di ‘leader separatista’ affibbiatagli dai cinesi, affermando di non aspirare all’indipendenza del Tibet, ma a una sua maggiore autonomia all’interno della Cina, a cui spetterebbe, comunque, il controllo della politica estera e di difesa.
Con tutta probabilità – e con buona pace dello spirito olimpico – anche l’odierna sollevazione rischia di essere schiacciata dalle autorità cinesi con la forza. Pechino ha già dichiarato di voler condurre una ‘guerra di popolo contro la cricca separatista del Dalai Lama’. Colonne di mezzi militari cinesi sarebbero in marcia verso il Tibet, mentre autorità del Nepal parlano addirittura di agenti cinesi che opererebbero all’interno del loro territorio per bloccare possibili iniziative di rifugiati tibetani lungo il confine. Pechino non può permettersi cedimenti sul Tibet. La sua integrità territoriale è sempre a rischio, minacciata com’è da pressioni centrifughe interne (ad esempio nello Xinjiang) e da tensioni internazionali come quella sullo status di Taiwan.
I fatti di Lhasa hanno già fornito il destro a Taipei per i primi attacchi. Frank Hsieh, il candidato governativo alle presidenziali taiwanesi del 22 marzo, considera quanto sta accadendo in Tibet un test cinese per saggiare l’applicazione delle legge anti-secessione, che Pechino ha varato nel 2005 per impedire l’indipendenza formale di Taiwan. Pensare che Hsieh (indietro nei sondaggi rispetto al candidato nazionalista Ma Ying-jeou) ha condotto finora la campagna elettorale sconfessando la linea marcatamente indipendentista dell’attuale presidente Chen Shui-bian, suo compagno di partito.
La comunità internazionale ha fatto sentire la propria voce. Come per la crisi nell’ex Birmania dello scorso settembre, ha però assunto un approccio improntato alla massima cautela. Mentre esponenti della società civile chiedono il boicottaggio delle olimpiadi di Pechino (peraltro non condiviso dallo stesso Dalai Lama), gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone e l’Australia chiedono al governo cinese di esercitare moderazione, di liberare i detenuti politici, di rispettare le aspirazioni e tradizioni culturali del popolo tibetano e di aprire un concreto dialogo con i dimostranti e il Dalai Lama.
L’India si è unita al coro internazionale di proteste, ma allo stesso tempo ha bloccato con il pugno di ferro le manifestazioni dei rifugiati tibetani organizzate all’interno dei propri confini. Un limpido esempio di equilibrismo, dettato da esigenze politico-strategiche. Dal 1962, Delhi è impegnata in una disputa di confine con Pechino e negli ultimi anni ha avviato un processo di apertura diplomatica ed economica con il suo potente vicino. L’ospitalità indiana al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio è sempre stata motivo di dissidio tra i due paesi, anche se il governo indiano ha strappato alla guida spirituale tibetana la promessa di non organizzare manifestazioni anticinesi sul proprio suolo.
Gli Stati Uniti sono quelli maggiormente in impaccio, alla luce anche della recente pubblicazione dell’annuale rapporto sul rispetto dei diritti umani del dipartimento di Stato, che non ha considerato la Cina tra i dieci peggiori paesi al mondo come negli ultimi due anni. Nell’attuale congiuntura politico-economica, Washington non può permettersi un nuovo cataclisma geopolitico, perché tale dovrebbe considerarsi un eventuale processo di destabilizzazione del delicato mosaico cinese.
La strategia di Washington, dunque, sembrerebbe più orientata al mantenimento dello status quo in Asia, come dimostrano le prese di posizione su Corea del Nord e Taiwan. Gli Usa fanno grande affidamento sulle riserve valutarie di Pechino (che possiede la quota maggiore del debito estero americano) per finanziare il proprio deficit, nonché sulla capacità della Cina di assorbire le esportazioni mondiali, anche americane. Nelle relazioni con la Cina, pertanto, gli Usa non possono abbandonare il paradigma del responsible stakeholder, specialmente in un momento in cui l’economia statunitense è incalzata dal fantasma della recessione.
Anche i fautori del contenimento della Cina dovrebbero considerare il fatto che Washington non ha le risorse politiche ed economiche per cavalcare un processo di disgregazione della Repubblica Popolare Cinese. Il crollo dell’Unione Sovietica e del suo sistema imperiale è stato gestito grazie all’aiuto degli alleati europei, che si sono sobbarcati parte dei costi di riassorbimento dell’ex blocco comunista nella comunità euro-atlantica. Senza dimenticare che, alla fine degli anni Ottanta, l’Urss era una potenza in declino, al contrario dell’attuale Cina.
L’ipertrofico impegno americano in Medio Oriente esclude un’attenzione a tutto campo di Washington in Asia orientale. Il pacific command ha recentemente lamentato la drammatica penuria di forze (drenata dal Centcom) per poter affrontare anche impegni di ordinaria amministrazione. Sono gli stessi teorici del contenimento cinese ad ammettere che questo potrebbe effettivamente realizzarsi solo cedendo in appalto a vecchi e nuovi amici (Giappone, Australia, Corea del sud e India) gran parte degli sforzi lungo il rimland eurasiatico.
Sarà difficile, dunque, che gli Usa sfruttino la crisi in Tibet e tutti gli attriti geopolitici che covano sotto la cenere dell’autoritarismo cinese, per ostacolare l’ascesa di Pechino. Secondo diversi osservatori, per minimizzare il costo economico e politico di un suo intervento di stabilizzazione in Asia, Washington dovrebbe vestire i panni dell’onesto sensale, impegnato più a comporre le crisi, accrescendo così il proprio prestigio, che a presentarsi come una potenza dedita a difendere il proprio status egemonico.
La carta di Limes sulla questione tibetana con un estratto dell'articolo di Beniamino Natale pubblicato in Cindia, la sfida del secolo, che descrive la regione.
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Per capire come stanno le
cose è forse utile una descrizione della situazione sul terreno, cioè in Tibet. Partiamo, per questo breve viaggio sul «tetto del
mondo», dalla prefettura di Gou Lou (Golok in tibetano), che si trova nella
parte meridionale della provincia cinese del Qinghai, a poche decine di
chilometri dai confini della Regione autonoma del Tibet. I suoi abitanti sono tibetani
al 90%. In tutto sono 140 mila, 110 mila dei quali nomadi. La Gou Lou County –
il centro amministrativo della prefettura – è composta da poche case e dal compound
del governo, al centro del quale sventola la bandiera rossa. Tutto intorno
sorgono le tende dei nomadi o seminomadi. La mattina presto la cittadina ha
l’aria di un campeggio più che di un centro urbano. Uomini, donne e ragazzini
escono e si lavano i denti con l’acqua che antiquate pompe tirano su da un
piccolo ruscello che appare pulitissimo, anche perché nella zona non ci sono
industrie. La maggior parte si allontana poi in moto, ma non sono pochi quelli
che ancora preferiscono il cavallo.
Grazie all’impegno degli impiegati e dei funzionari tibetani, la prefettura ha prodotto negli anni passati una storia della
prefettura di Gou Lou in venti volumi. Sono in tibetano. Forse verranno
tradotti in cinese da Ju Kalzag, un apprezzato poeta locale. Alcune delle sue
poesie – che parlano della natura, del modo di vivere dei tibetani e delle
minacce a cui questo va incontro nel mondo attuale – sono state tradotte in
inglese e in francese. Il Qinghai comprende gran parte della regione che i tibetani
chiamano Amdo, determinante nella storia del Tibet. Ad Amdo, tra l’altro, è
nato il Dalai Lama.
Zone etnicamente e culturalmente tibetane esistono anche nelle province del Sichuan, dello Yunnan e del Gansu. Degli oltre sei milioni di tibetani che vivono in Cina, solo 2,6 milioni risiedono nella Regione autonoma. A pochi chilometri dalla capitale del Qinghai, la moderna Xining, sorge uno dei templi più importanti per il buddhismo tibetano, quello di Tàer. Il monastero fu stabilito da Tsong Khapa, che nel XVI secolo fondò la setta buddhista del Ge- lug-pa, alla quale appartengono i Dalai Lama. La guida, una bella studentessa universitaria cinese, ha una conoscenza piuttosto sommaria del buddhismo tibetano ma accompagnando un gruppo di turisti a visitare il tempio si sofferma a lungo su un particolare. Quando si arriva davanti ad un altare alla cui sinistra c’è una statua del primo Panchen Lama e alla cui destra una statua del primo Dalai Lama la ragazza si ferma e dice: «Vedete? Questa è una cosa importante. Il Panchen Lama ed il Dalai Lama sono esattamente sullo stesso livello. Nessuno dei due è più in alto dell’altro. Alcuni dicono che il Dalai Lama è più importante ma questo dimostra che non è vero!».
Nelle zone tibetane della Cina il Dalai Lama è come un fantasma. Se ne parla (apertamente) malvolentieri ma tutti sanno che c’è. E come ogni fantasma che si rispetti, alle volte si materializza inaspettatamente. Scendendo da Guo Luo verso sud sull’altopiano tibetano si arriva nella Regione autonoma del Tibet. Non lontano dal confine tra le due province sorge un altro dei grandi monasteri del buddhismo tibetano: quello di Garma Lhading, fondato nel 1185 da Dusum Kiempa, il primo reincarnato del lignaggio del Karmapa, un «Buddha vivente» che è anche il leader spirituale della setta del Kagyu-pa. I monaci hanno l’aria da contadini e portano appuntati sulla tonaca distintivi che raffigurano il Dalai Lama o l’attuale Karmapa, il diciassettesimo, che all’inizio del 2000 è fuggito dalla Cina per raggiungere «Sua Santità» nel suo esilio indiano, lasciando i cinesi con un palmo di naso. Non li ostentano ma neanche si preoccupano di nasconderli.
Le foto del Dalai Lama e del Karmapa sono esposte anche in molte delle cappelle private che le famiglie più ricche hanno nelle loro abitazioni. In questa zona – ora siamo nella regione chiamata Chamdo dai tibetani – vivono i temibili khampa, i selvaggi predatori che ancora oggi amano portare i capelli lunghi fin sulle spalle, indossare lunghe tuniche scure e tenere grossi pugnali appesi alla cintura. Il centro di questa prefettura è la città di Chamdo, la terza per grandezza del Tibet. Chamdo città ha centomila abitanti ed è attraversata da due fiumi, lo An Chu e lo Za Chu. Quest’ultimo, dopo aver attraversato le montagne, entra nel Laos dove assume il mitico nome di Mekong.
A est del centro abitato, i due fiumi si incontrano, ritagliando una piccola isola che divide in due la città e segna la separazione tra il mondo dei cinesi e quello dei tibetani. La città cinese è nuova, e simile a tutte le altre città cinesi. C’è l’edificio moderno della Agriculture Bank (una delle quattro grandi banche statali cinesi), alto 15 piani, ma che a Chamdo sembra un grattacielo. Dietro alla banca sorgono altre due costruzioni moderne, la scuola elementare e la scuola media: i funzionari cinesi le indicano con orgoglio, sono una prova dello sviluppo che i cinesi hanno portato nel medievale Tibet. Ci sono negozi con grandi vetrine e alberghi nei quali alloggiano i funzionari o gli uomini d’affari in visita alle regioni della «nuova frontiera». Sull’altra sponda stanno ammassate le piccole case dei tibetani. Alcune, lungo l’unica strada sulla quale sono stati aperti negozi gestiti da cinesi con una parvenza di modernità, sono state ristrutturate. Le altre sono visibilmente antiche, alcune cadenti. Una strada stretta e lunga è piena di tavoli da biliardo e la sera si riempie di uomini e donne di tutte le età che ridono e giocano mentre sorseggiano il tè di un vicino ristorante o rosicchiano i kebab cucinati dagli immigrati musulmani dalle province settentrionali del Xinjiang e del Gansu.
Dall’alto della montagna il monastero di Jambaling, un gioiello dell’architettura tibetana costruito nel XV secolo, domina la scena. Sull’isola non può mancare uno degli orribili monumenti frutto dell’incontro tra realismo socialista e cattivo gusto americaneggiante che deturpano buona parte delle città cinesi: nel caso di Chamdo è un’enorme aquila dorata (simbolo dello sviluppo economico del Tibet, secondo i funzionari cinesi) montata su un arco in pietra sul quale sono scolpite immagini idilliache dell’armonia che regna fra cinesi e tibetani.
Nella realtà, i due mondi vivono separati: non si vedono cinesi nei ristoranti tibetani né tibetani nei ristoranti cinesi. I matrimoni misti sono una rarità. Nessun cinese parla tibetano e solo i tibetani più istruiti – cioè pochi, dato che secondo i dati ufficiali un terzo della popolazione è analfabeta e solo il 3,4% ha frequentato le scuole medie – parlano un cinese fluente. Molti tibetani parlano della ferrovia in costruzione da Golmund, nel nord del Qinghai, a Lhasa, come di una nuova strada per l’immigrazione cinese (si tratta di una delle grandi opere infrastrutturali che negli ultimi vent’anni hanno occupato un ruolo centrale nello sviluppo economico della Cina e dovrebbe essere completata entro la fine del 2006). Forse è così, però Chamdo è già da tempo collegata a Chengdu, capitale della provincia del Sichuan, da tre voli aerei settimanali.
E già la presenza cinese è fortissima. Da Chamdo per arrivare a Lhasa, la capitale del Tibet, ci vogliono tre giorni di jeep nonostante la distanza sia di poco più di mille chilometri. Gli stessi funzionari cinesi non esitano a definire «la peggiore strada del paese» quella che collega le due città. Si procede saltando sulle buche, avvicinandosi pericolosamente, di tanto in tanto, ai precipizi in fondo ai quali scorrono impetuosi i fiumi di montagna.Quando, spesso, si incontra uno degli scassati camion guidati da minacciosi khampa, passano delle ore prima che si possa azzardare un sorpasso.
Se la montagna è ancora dominata dai tibetani, le città sono completamente cinesi. Bayi – una città nuova che dopo un paio di giorni sui monti è una sosta obbligata – prende il nome dalla data di fondazione dell’esercito popolare cinese (vuol dire «primo agosto»; «yi» è «uno» in cinese e «ba» vuol dire «otto», quindi è la città del primo giorno dell’ottavo mese, perché in cinese si va sempre dal più grande al più piccolo e le date si scrivono indicando prima l’anno, poi il mese e infine il giorno). Gli alberghi sono decenti, l’acqua calda è disponibile e nei ristoranti ragazze in minigonna servono cibo del Sichuan. Infine, ecco Lhasa. Intorno al Jokhang, il tempio più importante del buddhismo tibetano, e nel mercatino che circonda il maestoso Potala, la città proibita sogno di tanti avventurieri dei secoli scorsi ha mantenuto il suo fascino. Il resto è Cina.
La città nuova avanza verso ovest, lungo l’arteria chiamata viale Pechino, che taglia la città da est ad ovest e ormai stringe d’assedio il quartiere vecchio del Jokhang. Il Barkhor, la strada che corre intorno al tempio e viene percorsa da migliaia di pellegrini che si sdraiano per terra, si rialzano e si sdraiano di nuovo fino ad aver completato il percorso, è un misto tra un mercato tradizionale tibetano ed un supermarket di paccottiglia per i turisti dai gusti facili. Difficile dire quanto resisterà. Oggi assomiglia alla Katmandu degli anni Settanta, con i bar con il roof top, i giovani con le biciclette ed i sacchi a pelo, i gruppi di anziani turisti europei e giapponesi. E, soprattutto, turisti cinesi a frotte.
La municipalità di Lhasa ha poco più di 500 mila abitanti, 238 mila dei quali vivono nell’area urbana. A questi vanno aggiunte quasi centomila persone della cosiddetta popolazione fluttuante. Secondo i dati forniti dalle stesse autorità, circa la metà degli abitanti della città propriamente detta sono cinesi han. In tutta la Regione autonoma, secondo le statistiche ufficiali, è di etnia tibetana il 92% della popolazione. Però solo coloro che stanno per più di nove mesi all’anno sono registrati come «residenti». I cinesi d’inverno chiudono negozi, alberghi e ristoranti e tornano nei loro paesi d’origine. La maggior parte delle imprese è familiare e spesso i membri di una famiglia si alternano nella gestione delle attività in Tibet seguendo i ritmi dettati dagli altri impegni: per esempio, d’estate gli studenti sono liberi e i genitori ne approfittano per metterli al lavoro in modo da poter tornare a casa per qualche mese.
In estrema sintesi si può affermare che nella Regione autonoma del Tibet c’è una fortissima immigrazione cinese, arrivata alla seconda generazione. L’esercito è presente in modo discreto, ma in forze. L’opposizione dei tibetani non si esprime in forme eclatanti ma è generalizzata. La cultura tibetana, con la relativa liberalizzazione religiosa degli ultimi anni e con una atmosfera generalmente più aperta (molti fatti recenti indicano che l’attuale dirigenza di Pechino sta facendo dei passi indietro) è sopravvissuta e si è rinforzata, anche al di fuori della Regione autonoma. Il buddhismo – come anche il taoismo e, in misura nettamente inferiore ma significativa, il cristianesimo – sta conoscendo una diffusione di massa in tutta la Cina. Per quanto riguarda i tibetani, questo si traduce nella conservazione di una forte identità culturale.
[1]Si ricorda, altresì, che opera dal 1987 all’interno del Parlamento europeo un Intergruppo parlamentare The European Parliament Tibet Intergroup il cui Presidente è l’on. Thomas Mann. Si segnala, peraltro, che il Dalai Lama ha visitato il Parlamento europeo nel 1996, nel 2001 e, da ultimo, il 31 maggio 2006.
Da menzionare, inoltre, che il 9 marzo 2002, per iniziativa della Regione Piemonte e con l'adesione dell'ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) si è costituita a Torino, presso il Consiglio regionale del Piemonte, l'Associazione di Comuni, Province, Regioni per il Tibet.
L'Associazione si propone di promuovere e coordinare la campagna europea "Una bandiera per uno status di piena autonomia del Tibet", di sostenere presso gli stati membri dell'Unione Europea la risoluzione del Parlamento Europeo del 6 luglio 2000, e di supportare l'iniziativa del Dalai Lama e del governo tibetano nei confronti delle autorità della Repubblica Popolare Cinese.
[2] L’Intergruppo Parlamentare “Italia-Tibet”è nato l’8 maggio 2002 e presieduto dall’on. Gianni Vernetti (Margherita). Del gruppo fanno parte circa 120 parlamentari di Camera e Senato in rappresentanza di tutte le forze politiche.
[3]L’organizzazione “All Party Indian Parliamentary Forum for Tibet” (APIPFT) si prefigge di tutelare gli interessi della regione del Tibet (Repubblica Popolare Cinese) presso tutti i fora internazionali, sia a livello governativo che a livello non governativo. A tale scopo, coordina la propria azione con quella di tutti i gruppi parlamentari di amicizia con il Tibet presenti in oltre 40 Paesi.
[4] Il processo intergovernativo ASEM (Asia Europe Meeting), è stato avviato nel 1996 tra i 15 Paesi membri dell'Unione europea e 10 Paesi dell'area asiatica (Brunei, Cina, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Indonesia, Malesia, Singapore, Thailandia e Vietnam). In occasione del Vertice di Hanoi dell’ottobre 2004 sono entrati a far parte dell’organismo di cooperazione eurasiatico altri 13 paesi:Cambogia, Cipro, Repubblica ceca, Estonia, Laos, Lettonia, Lituania, Malta, Myanmar/Birmania, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. All’ultimo vertice ASEM, che si è tenuto ad Helsinki nel settembre 2006, è stato deciso di allargare la cooperazione a: Bulgaria, Romania, India, Pakistan, Mongolia e al Segretariato ASEAN (Association of South East Asian Nations). Tale allargamento diverrà operativo nel corso del 2007.
[5] L’Asia-Europe Foundation (ASEF), è stata istituita nel 1997 con lo scopo di favorire l'interscambio culturale e intellettuale fra Europa ed Asia e di promuovere una maggiore comprensione tra i popoli dei due continenti. L'ASEF, assieme ad altre iniziative di tipo economico e politico, è parte integrante del processo intergovernativo ASEM.
[6] La Camera dei deputati è stata rappresentata dagli onn. Roberta Pinotti (DS) e Massimo Polledri (Lega Nord). La delegazione vietnamita era composta dagli onorevoli Nguyen Dinh Xuan e Y Ly Trang.
[7] Alcune fonti parlano di proteste ancora in corso.
[8] Speciale Limes 27 marzo 2008
[9] Limes 17 Marzo 2008
[10] estratto dell'articolo di Beniamino Natale pubblicato nel volume di Limes 4/05 Cindia la sfida del secolo