Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Rapporti Internazionali
Titolo: Assemblea parlamentare euromediterranea (APEM) - L'attività della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura nella XV legislatura
Serie: Documentazione per l'attività internazionale    Numero: 30
Data: 27/11/2007

 

 

 

 

 

 

Assemblea parlamentare euromediterranea – APEM

L’attività della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura nella XV legislatura

 

Documentazione per l’attività internazionale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XV legislatura

 

 

 

 

n. 30

 

 

 

CAMERA DEI DEPUTATI

 

 

Servizio Rapporti internazionali

 


 

 

 

Indice

 

 

1.... L’Assemblea parlamentare euromediterranea

§               Nota illustrativa ............................................................................... pag.        3

2.    Resoconto dei lavori della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura

§         Prima riunione della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euromediterranea, Palazzo Montecitorio, Sala della Regina, 6 novembre 2006 .............................................................. “           7

§         Seconda riunione della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euromediterranea, Palazzo Montecitorio, Sala della Regina, 26 febbraio 2007 .............................................................. “         71

§         Terza riunione della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euromediterranea, Palazzo Montecitorio, Sala della Regina, 29 ottobre 2007........................................................... “    121

3.    Raccomandazione della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura approvata alla Sessione plenaria di Tunisi (marzo 2007)              “     193

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. L’Assemblea parlamentare euromediterranea

Nota introduttiva

 



 

 

 

ASSEMBLEA PARLAMENTARE EURO-MEDITERRANEA

 

I lavori della Commissione per la promozione della qualità della vita,

gli scambi nell’ambito della società civile e la cultura dell’apem

presieduta dalla Camera dei deputati italiana

(giugno 2006-dicembre 2007)

 

 

La Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi nell’ambito della società civile e la cultura dell’APEM è presieduta dal Parlamento italiano dal marzo 2004. Nel primo biennio (2004-2006) era Presidente il Se. Mario Greco (FI); a partire dalla XV legislatura è stata eletta a ricoprire tale carica l’on. Tana de Zulueta (Verdi).

Sono Vice Presidenti della Commissione i deputati Galea (Malta), Adkil (Marocco) e Chorfi (Algeria).

 

Nell’attuale legislatura, la Camera dei deputati, con la Presidenza dell’on. de Zulueta, ha finora ospitato a Roma tre riunioni della Commissione, cui hanno partecipato circa sessanta parlamentari in rappresentanza dei 37 Paesi che fanno parte dell’APEM (i 27 Paesi dell’Unione europea, il Parlamento europeo ed i dieci Paesi della sponda Sud del Mediterraneo aderenti al processo di Barcellona: Algeria, Autorità Palestinese, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia), insieme ad intellettuali, esperti e rappresentanti governativi provenienti dall’area del partenariato.

La prima riunione, il 6 novembre 2006, è stata dedicata ai temi seguenti:

1) Alla ricerca di una cultura euro-mediterranea: scambio di vedute e proposte per un progetto condiviso.

·Il Mediterraneo alle soglie del nuovo millennio

·Iniziative per favorire lo scambio di esperienze nel settore dell’istruzione e della società dell’informazione

2) Esperienze di politiche di integrazione degli immigrati nelle amministrazioni locali.

3) La tutela dell’ambiente marino nell’area mediterranea, anche alla luce delle recenti emergenze ambientali connesse alla crisi libanese.

 

La seconda riunione della Commissione si è svolta il 26 febbraio 2007, e sono stati affrontati, in particolare, i seguenti temi:

1) Il ruolo della cultura quale fattore di sviluppo e di conoscenza reciproca e la proposta di istituire una Università euro-mediterranea;

2) I flussi migratori nell’area del Mediterraneo meridionale e dell’Africa;

3) Le iniziative in atto per la tutela ambientale del mar Mediterraneo.


 

Al termine della riunione la Presidenza della Commissione ha presentato una bozza di risoluzione che – partendo dall’importanza del dialogo interculturale  e del ruolo che la cultura può svolgere in tale ambito – affronta i temi della tutela ambientale del mar Mediterraneo, della cooperazione nel settore delle migrazioni, della mobilità nel settore dell’istruzione, delle iniziative per dare attuazione alla Convenzione Unesco sulla promozione delle diversità culturali.

 

Tale atto di indirizzo è stato poi discusso ed approvato, con alcune modifiche rispetto al testo iniziale sulla base degli emendamenti presentati, nella riunione della Commissione Cultura che ha avuto luogo a Tunisi il 16 marzo 2007. La risoluzione è stata quindi adottata dall’Assemblea parlamentare euro-mediterranea al termine della Sessione plenaria di Tunisi del 17 marzo 2007, insieme a quelle della Commissione Politica, della Commissione Economica e della Commissione ad hoc sui diritti delle donne.

 

 

Nell’autunno 2007, il 29 e 30 ottobre, si è svolta la terza riunione della Commissione Cultura ospitata a Roma dal Parlamento italiano. Le sessioni di lavoro sono state dedicate alle seguenti tematiche:

·        cambiamenti climatici e desertificazione, con particolare riferimento all’accesso all’acqua come diritto per tutti;

·        politica forestale mediterranea e gestione degli incendi;

·        attuazione data dai Parlamenti al programma per la tutela ambientale del mar Mediterraneo “Horizon 2020”;

·        dialogo tra culture e ruolo dei media;

·        rapporti tra l’APEM e la Fondazione Anna Lindh di Alessandria d’Egitto;

·        prospettive e sviluppi dell’iniziativa “Parlamento euro-mediterraneo dei giovani”;

·        definizione di un logo per l’APEM.

Ogni Sessione è stata introdotta da relatori esperti della materia, provenienti dai Paesi dell’area mediterranea, ivi incluso un rappresentante di Al Jazeera nella sessione sui media.

     Tale riunione è stata altresì preceduta, nella mattina del 29 ottobre, dal primo incontro dei componenti del Gruppo di lavoro per l’istituzione di una Università euro-mediterranea.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Resoconto dei lavori della Commissione

per la promozione della qualità della vita,

gli scambi tra società civili e la cultura


 


 

 

 

 

 

 

 

Assemblea parlamentare euromediterranea

Commissione per la promozione della qualità della vita,

gli scambi tra società civili e la cultura

 

 

 

RESOCONTO

 

 

Lunedì, 6 novembre 2006

Palazzo Montecitorio – Sala della Regina



 

 

La seduta inizia alle ore 9,40.

 

Apertura dei lavori. Indirizzi di saluto

 

 

TANA DE ZULUETA. Ho il piacere di aprire i lavori di questa prima riunione alla Camera della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euromediterranea. 

Do subito la parola al Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, per un indirizzo di saluto. 

 

FAUSTO BERTINOTTI, Presidente della Camera dei deputati. Buongiorno a tutti. Cari colleghi e colleghe, illustri professori, gentili ospiti, vorrei rivolgere a voi tutti il mio saluto più cordiale. Sono particolarmente lieto che sia la Camera dei deputati ad ospitare, per il prossimo biennio, le riunioni della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell'Assemblea parlamentare euromediterranea.

La nascita dell'Assemblea, com’è noto, ha rappresentato una delle priorità della Presidenza italiana dell’Unione Europea nel secondo semestre del 2003 e costituisce una sede di dialogo e di interscambio a livello parlamentare cui annettiamo la massima importanza, convinti fortemente che non è possibile pensare ad un dialogo politico che non coinvolga i rappresentanti diretti dei paesi e dei popoli.

La dimensione parlamentare costituisce, oggi, non solo una realtà del partenariato euromediterraneo, ma anche uno strumento istituzionale capace di passare dalla fase del confronto e dello scambio di esperienze a quella dell'indirizzo politico: un obiettivo, quest'ultimo, che ci chiede di concentrare proprio sulla dimensione parlamentare la nostra azione più intensa per rafforzarne la valenza e lo spirito.

È volontà comune fare del bacino del Mediterraneo un’area di pace, sicurezza e stabilità, e di raccogliere insieme le sfide comuni del III millennio, a partire dall'impegno contro la guerra e contro il terrorismo. In questo senso, trascorsi undici anni dalla Dichiarazione di Barcellona, possiamo prendere atto con soddisfazione del processo innovativo che essa ha innescato: un cambio di direzione nelle relazioni tra nord e sud del mondo, che ha finalmente privilegiato una visione inclusiva e che è stato accompagnato dall'avvio di un partenariato – a livello governativo prima, parlamentare poi – segnato da un’inedita apertura alla società civile.

Dobbiamo essere consapevoli, tuttavia, che il cammino da compiere è ancora molto lungo. Occorre lavorare con convinzione per rafforzare i pilastri che sono la base del partenariato, per consolidare l’integrazione tra le economie del nostro tempo, evitando che la dimensione globale dei processi economici in atto finisca per accentuare disuguaglianze più gravi e lacerazioni sociali già profonde, per contrastare i fondamentalismi e la prospettiva di un devastante scontro di civiltà che essi tendono a fomentare.

In questo senso, possiamo dire a ragione che la dimensione culturale del partenariato euromediterraneo ne costituisce di fatto l’asse portante. In un tempo in cui crescita e sviluppo fanno sempre più leva sui beni immateriali – la conoscenza, l’informazione, l’istruzione e la cultura –, avvertiamo tutti la responsabilità di lanciare il partenariato euromediterraneo oltre la custodia dell’eredità che le grandi civiltà mediterranee ci hanno lasciato, per renderlo, su tali preziosissime basi, alimento del presente, in cui ritrovare il significato dell'appartenenza ad una comunità di valori condivisi. 

Il dialogo tra culture, tra civiltà e religioni oggi più che mai rappresenta una priorità assoluta. Solamente la conoscenza reciproca può consentire di ridurre il gapinformativo tra le due sponde del Mediterraneo e di sviluppare relazioni culturali improntate alla fiducia e alla collaborazione reciproca.

 

Ed è per questo tanto più strategica quella funzione di “facilitatore del Mediterraneo dell'Assemblea parlamentare euromediterranea, della quale danno testimonianza eloquente i temi all'ordine del giorno della riunione odierna: le azioni per porre le basi di una cultura euromediterranea, ivi inclusi gli scambi tra studenti; le esperienze delle politiche di integrazione degli immigrati, in specie nelle amministrazioni locali, chiave strategica per assicurare al bacino del Mediterraneo pace e stabilità duratura; la tutela dell'ambiente marino, nel quadro di una rinnovata centralità delle politiche ambientali, grande risorsa del tempo presente e volano di uno sviluppo compatibile per il tempo futuro.

Tutti condividiamo un’aspirazione: chiudere una volta per sempre la stagione del conflitto israelo-palestinese, ricercando tenacemente e senza riserve i presupposti per l'unica soluzione possibile, quella di due Stati per i due popoli. È questa per noi una ragione dell'intero Mediterraneo. In fondo, credo, è la ragione stessa del partenariato euromediterraneo.

L’impegno della vostra Commissione ha, in questo senso, un obiettivo e una responsabilità speciale: dimostrare, con la forza dei fatti e delle idee, che non ci si può e non ci si deve rassegnare alla logica dello scontro e della disgregazione; che è possibile restituire il Mediterraneo al ruolo di ponte tra civiltà, quel ruolo che gli è proprio per vocazione storica, geografica e culturale; che è ineludibile riaffermare la diversità come fattore di crescita e di ricchezza. 

Vi rinnovo il mio ringraziamento e formulo a voi tutti il mio più caloroso augurio di buon lavoro. 

 

(Applausi

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il Presidente della Camera e do la parola al senatore Lamberto Dini, Presidente della Commissione esteri del Senato, che è qui in rappresentanza del Presidente Marini. 

 

LAMBERTO DINI, Presidente della Commissione esteri del Senato. Grazie. Signor Presidente della Camera dei deputati, onorevoli colleghi, signore e signori, il Parlamento italiano si è sempre impegnato in prima fila per dare un forte impulso al dialogo e alla cooperazione parlamentare tra le due sponde del Mediterraneo.

Ricordo l’organizzazione del IV Forum parlamentare euromediterraneo a Bari, come anche il forte coinvolgimento nelle iniziative che hanno condotto alla creazione del Forum euromediterraneo delle donne parlamentari. E ancora, l’assiduo impegno dell'Italia nel processo che ha portato il Forum a trasformarsi in Assemblea parlamentare euromediterranea, pienamente innervata all'interno del Processo di Barcellona, con il potere di trasmettere raccomandazioni alle Conferenze euromediterranee, come anche alla Commissione europea. 

Abbiamo pertanto accolto con grande soddisfazione e orgoglio la decisione di affidarci, fin dalla riunione di Atene, in cui venne formalizzata la creazione dell'APEM, proprio la presidenza di quella Commissione, la Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi fra società civili e la cultura, che ha tra le sue finalità principali la promozione del dialogo tra culture e civiltà,  e consideriamo il rinnovo biennale di tale mandato – in occasione della sessione di Bruxelles, lo scorso 27 marzo – un riconoscimento della bontà del nostro operato e un invito a imprimere ai lavori della Commissione un’ulteriore accelerazione in termini di puntualità e incisività dell’azione di proposta. 

Nei 18 mesi in cui la Presidenza è stata esercitata dal Senato si sono tenute sette riunioni, di cui una a Bruxelles, tre in coincidenza di altrettante sessioni plenarie e tre a Roma. Sono state approvate tre risoluzioni, che hanno affrontato con rigore e serietà tutte le materie rientranti nel mandato di questa Commissione: il dialogo tra culture e civiltà, rafforzato anche attraverso la creazione della Fondazione Anna Lindh; la cooperazione nei settori dell'istruzione e della formazione professionale; la tutela dell'ambiente e la lotta contro le catastrofi naturali e il degrado di origine umana; la ricerca di politiche condivise per la lotta all’immigrazione clandestina e il pieno inserimento dei migranti legalmente residenti nei paesi dell’Unione Europea. Risoluzioni tutte approvate per acclamazione, attraverso un intenso lavoro di dialogo e mediazione che, sapientemente orchestrato dal collega senatore Mario Greco, è riuscito a esaltare, contro le divisioni e gli interessi particolari, un’autentica armonia e unità di intenti. 

Sono certo che, con la collega De Zulueta, se le sarà affidata la nuova presidenza di questa Commissione, questo patrimonio di fruttuosa concordia sarà ulteriormente esaltato, consentendo alla vostra Commissione di procedere a un lavoro ancor più mirato e puntuale di stimolo per l'Assemblea tutta, ma soprattutto per la dimensione intergovernativa del Processo di Barcellona.

Anche da questo punto di vista, credo si possa dire che il dialogo è stato già avviato negli scorsi due anni, e con un discreto successo. 

Più nello specifico, la Commissione europea è sempre stata un’interlocutrice attenta e puntuale nel fornire informazioni e nell’accogliere suggerimenti, mentre molto si deve ancora fare per coinvolgere con maggiore efficacia e continuità le Presidenze di turno dell’Unione Europea, come anche il Comitato Euromed. Il programma della riunione odierna mi sembra estremamente ricco e interessante per i temi prescelti e il prestigio degli oratori chiamati a dare il loro contributo: è questo il parterreideale per un nuovo ciclo di lavoro, per il quale auguro a tutti voi, anche a nome del Presidente del Senato, un pieno e comune successo.

 

(Applausi

 

TANA DE ZULUETA. Saluto e ringrazio per la presenza il Vice Ministro agli Affari esteri, Ugo Intini, al quale do la parola. 

 

UGO INTINI, Vice Ministro agli Affari esteri. Grazie, aggiungerò solo poche parole. La politica e l'economia hanno radici nella storia, e proprio da questa vorrei partire. L'unità politica dell'Europa è il primo obiettivo dell'Italia. Forse gli italiani sono i più europeisti tra gli europei. Non a caso, gli italiani hanno una memoria storica che è quasi impressa nel loro DNA.

Nel Rinascimento, l'Italia era forse l'area più ricca, più sofisticata d’Europa. Poi, in un momento di grande cambiamento e di grande rinnovamento – pensiamo alla scoperta dell'America –, la Francia e la Spagna hanno saputo costruire lo Stato unitario. L'Italia, invece, è rimasta divisa nelle sue Signorie, Repubbliche, e ha perso la corsa. Per secoli è rimasta ai margini, e gli italiani lo ricordano. Adesso, l'Europa è esattamente nella stessa situazione: è ancora centrale, ma in un momento di grandi cambiamenti – già si vedono le potenze del nuovo secolo: gli Stati Uniti, la Cina, l’India – o l'Europa si unisce politicamente, e in fretta, oppure fa la fine dell'Italia del Rinascimento.

L'Europa unita è il punto di partenza. Vediamo, oggi, un'Europa a cerchi concentrici: c'è l'Europa dell'euro, che è il cerchio più stretto; c'è l'Europa dei padri fondatori, quella a 15; c'è l'Europa a 25, che presto si allargherà. Tuttavia, c'è un cerchio più esterno, costituito dai paesi dell'Europa dell'est e dell'altra sponda del Mediterraneo.

Noi italiani guardiamo con particolare attenzione all'altra sponda del Mediterraneo, che qui è rappresentata autorevolmente. Ancora una volta, la storia serve a capire la nostra attenzione. Un tempo il Mediterraneoil Primo Ministro Prodi insiste spesso su questo argomento – era il centro del mondo, anche perché aveva la via della seta verso l'Estremo Oriente e la Cina. Poi questa via si è interrotta e il baricentro del mondo si è spostato verso l’Atlantico. Oggi lo straordinario sviluppo della Cina e dell'India riporta l'Europa e il Mediterraneo al centro, riaprendo in qualche modo la via della seta. Grandi traffici spingono da Suez verso il Mediterraneo e quest’ultimo può tornare ad essere centrale. È una grande, straordinaria occasione, che tuttavia rischiamo di perdere, se non trasformiamo il Mediterraneo in un mare di pace. 

L'Europa, in tal senso, ha fatto la sua parte. Ci siamo impegnati in Libano, ma la pacificazione del Libano è un punto di partenza, non di arrivo. È necessario affrontare rapidamente il nodo palestinese; è necessario, guardando oltre, coinvolgere la Siria e l’Iran in un processo di pacificazione dell'intera regione.

 

Tutto questo richiede un partenariato speciale tra le due sponde del Mediterraneo, tra di noi. Dobbiamo costruire un ponte che leghi l’Europa ai paesi arabi e del nord Africa. L'obiettivo è certamente politico, per la pace in Medioriente, ma non soltanto. I paesi del nord Africa, ad esempio, ed alcuni paesi arabi sono la porta verso l’Africa, e noi abbiamo bisogno di una politica comune anche verso questo continente. Una politica che regoli e controlli i flussi di migrazione, una politica di cooperazione con l'Africa intera. Alcuni dei paesi rappresentati qui oggi sono grandi esperti di Africa, perché con essa confinanti. Noi europei abbiamo bisogno del vostro consiglio e del vostro aiuto. 

C’è, dunque, un obiettivo politico di questo ponte tra le due sponde del Mediterraneo, ma anche un obiettivo economico. La nostra cooperazione economica ha una base solida, strutturale. I paesi dell'altra sponda hanno energia e hanno giovani, ossia energia umana; noi abbiamo tecnologia e know how.  Dobbiamo scambiare quello che abbiamo.

Le grandi imprese italiane fanno molto, ma dobbiamo fare di più con le piccole e le medie imprese, che sono il tessuto connettivo della nostra economia italiana e, probabilmente, possono esserlo anche per quella del nord Africa e dei paesi arabi. Abbiamo bisogno di joint ventures e di portare con mano le nostre piccole e medie imprese nei vostri paesi. 

L'Europa unita getta un ponte verso l’altra sponda del Mediterraneo. Vorremmo gettare, appunto, un ponte, e non tanti ponti quanti sono i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo. Sarebbe importante e utile che un processo di integrazione avvenisse anche dall'altra parte del Mediterraneo. L'unità del Maghreb, ad esempio, non ha fatto alcun progresso e questo è un elemento negativo, per voi e per noi. È in atto un grande lavoro, i Governi sono impegnati, ma è ancora più importante che siano impegnate le opinioni pubbliche. Il terreno psicologico e culturale è quello che apre la strada alla cooperazione politica ed economica. Le opinioni pubbliche, ovviamente, sono rappresentate dai parlamentari, ed è per questo che è decisiva la vostra presenza e la vostra collaborazione. 

Vorrei concludere osservando – lo dicevo ieri sera, in occasione della cena molto piacevole a cui abbiamo partecipato – che non esiste il pericolo di una guerra di civiltà o di culture tra le due sponde del Mediterraneo. Le nostre civiltà e le nostre culture non possono essere in guerra. C'è il rischio di una guerra di opposte ignoranze: l’ignoranza presente nel mondo occidentale e quella presente nel mondo arabo.

Penso che il contributo che voi date all’eliminazione delle opposte ignoranze sia davvero un contributo decisivo. 

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il Vice Ministro Intini, che saluto, insieme al Presidente Bertinotti e al senatore Dini, per passare alla prima parte dei nostri lavori.

 

Nomina del Presidente e dei Vicepresidenti della Commissione in attuazione delle decisioni del Bureau dell’APEM del 26 febbraio.

 

TANA DE ZULUETA. Diamo, dunque, avvio alla prima sessione della nostra Commissione alla Camera dei deputati.

Desidero in primo luogo associarmi alle parole di benvenuto del Presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti, nonché a quelle del Presidente Lamberto Dini e del Vice Ministro Ugo Intini, che ringrazio anche per la collaborazione del coordinamento del partenariato euromediterraneo del Ministero, della quale abbiamo potuto usufruire. 

Come ho detto, questa è la prima riunione della nostra Commissione ospitata dalla Camera dei deputati. Sono particolarmente onorata di aver ricevuto, alcuni mesi fa, dal Presidente Bertinotti l'incarico di rappresentare la Camera dei deputati, per la XV legislatura, presso questa Assemblea. L'auspicio è di poter assolvere al meglio l’incarico ricevuto, mettendo a disposizione la mia esperienza e la mia disponibilità al dialogo e alla collaborazione. 

Se non vi sono obiezioni, facendo seguito alle decisioni assunte dalBureau dell’APEM del 26 febbraio scorso, e alla luce dell'incarico assegnatomi dal Presidente della Camera, rivestirò fino al 2008 la carica di Presidente della Commissione cultura. Insieme a me, svolgeranno la funzione di Vicepresidenti i colleghi Miloud Chorfi, dell'Assemblea nazionale del popolo di Algeria, e Omar Adkhil, della Camera dei rappresentanti del Marocco.

I nostri ringraziamenti vanno al senatore Mario Greco, che ha rivestito l'incarico di Presidente della Commissione per lo scorso biennio, come ricordato dal Presidente Dini, e a Mohammed Mansouri, che ha svolto la funzione di Vicepresidente per il Marocco in questi due anni.

Saluto, naturalmente, il rappresentante di Malta, M. Galea, che oggi è assente. Anche lui, se non ci sono obiezioni, assumerà l'incarico di Vicepresidente di questa Commissione. 

 

Adozione dell’ordine del giorno e del resoconto della precedente riunione.

 

TANA DE ZULUETA. Se non vi sono obiezioni, si intende adottato l'ordine del giorno della riunione odierna e il resoconto sommario della precedente riunione della Commissione cultura, entrambi in distribuzione.

 

Alla ricerca di una cultura euromediterranea: scambio di vedute e proposte per un progetto condiviso.

 

TANA DE ZULUETA. Con il permesso dei relatori, vorrei dare la parola a Miloud Chorfi, membro dell’Assemblea nazionale popolare dell’Algeria, che non potrà partecipare al seguito dei lavori.

 

MILOUD CHORFI, Assemblea nazionale popolare dell’Algeria. Nel nome di Allah il clemente e il misericordioso, onorevoli Presidenti, onorevoli signore e signori, colleghe e colleghi di questa Commissione, a nome mio e della delegazione algerina vorrei esprimere le mie congratulazioni al Presidente De Zulueta per la fiducia di cui gode da parte dei deputati e del Presidente. 

Non posso omettere di esprimere i miei ringraziamenti al Presidente, senatore Greco. Devo dire che abbiamo lavorato ottimamente sotto la sua guida; grazie alla sua saggezza abbiamo ottenuto dei risultati che definirei positivi nei lavori di questa Commissione. Abbiamo tracciato un percorso comune riguardo a varie questioni che sono di interesse, appunto, comune per le due sponde del Mediterraneo. Speriamo che questi sforzi possano andare avanti per trovare soluzioni adeguate, all'altezza delle aspettative dei nostri popoli, per quanto riguarda questo dialogo che tanto desiderano i paesi europei, come quelli della sponda sud del Mediterraneo. 

Siamo convinti che l'onorevole De Zulueta, nota per la sua vitalità e per la sua attività, farà tutto quanto sarà possibile a sostegno degli sforzi tesi a raggiungere una buona politica di vicinato euromediterraneo e a realizzare i quattro scopi che ci siamo prefissati: libertà di movimento dei beni, libertà di movimento dei capitali, libertà di movimento delle persone e, infine, libertà di movimento dei servizi.

Sono gli stessi scopi indicati dall'onorevole Prodi, quando era a capo della Commissione europea. Possiamo aggiungere che, riguardo a questi quattro obiettivi, non si è fatto molto, soprattutto per quanto riguarda la libertà di movimento delle persone. Dovremmo parlare, a tal proposito, dell’immigrazione clandestina, che è diventata un problema per l’Algeria, ma anche per altri paesi. L’Algeria è un nuovo paese di transito, per via della sua posizione geografica nel nord Africa. Pertanto, gli emigrati dal continente nero arrivano numerosi nelle nostre città. Oggi l’Algeria ha un problema importante di immigrazione clandestina, con ricadute sociali ed economiche. Occorre compiere insieme uno sforzo, a livello di Euromed, per studiare questo problema e individuare delle soluzioni eque, che tengano nella dovuta considerazione l'interesse di tutti.

Grande è la nostra speranza di poter rafforzare, sotto la presidenza dell'onorevole De Zulueta, il legame di partenariato fra le due sponde del Mediterraneo, nei vari ambiti (istruzione, cultura, nuove tecnologie). Questo, ovviamente, a servizio dei popoli mediterranei, per trasformare il Mediterraneo in un lago di sapienza, di cultura, di sicurezza, di pace e di stabilità, come anche di benessere e di modernità, in conformità con quanto sta vedendo il mondo come sfide e trasformazioni profonde.

Tutto questo ci impone un lavoro paziente, per un buon vicinato e per un sostegno del partenariato nei vari ambiti. È esattamente quanto ci chiede permanentemente il Presidente Bouteflika per rafforzare il legame di amicizia, per un partenariato forte, che rispetta gli interessi comuni, e con un impegno a favore del dialogo tra civiltà e culture di questi paesi, basati sui valori della tolleranza e della stabilità.

Grazie a tutti, che la pace di Allah e la sua benedizione siano su tutti voi. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, monsieur Chorfi, della sua pur breve partecipazione.

Prima di lasciare la parola ai nostri importanti relatori, vorrei esprimere qualche considerazione sullo spirito con cui abbiamo organizzato questa prima sessione di lavoro. Dalle parole del Presidente Bertinotti, del Presidente Dini e del Vice Ministro Intini, avete inteso l'importanza che questo Parlamento e il Governo annettono al dialogo euromediterraneo e al partenariato. Dunque, lo spirito con cui abbiamo organizzato questa sessione di lavoro è teso a valorizzare e a dare massimo seguito all’enorme potenziale del Processo di Barcellona.

Come sapete, si tratta di un processo innovativo sul piano delle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda la nostra volée, quelladella cultura. In questa sede – e in una sede di cooperazione regionale – noi tentiamo di tenere insieme temi politici, economici e culturali, consapevoli del fatto che la sicurezza a cui tutti aspiriamo si raggiunge proprio attraverso l’intreccio di questi tre fattori. Sono rimasta colpita dalle parole del Presidente Bertinotti, quando ha detto che, forse, in questa fase è proprio la cultura l’asse portante del partenariato euromediterraneo.

Monsieur Chorfi ha affermato che, rispetto alle grandi speranze della Dichiarazione di Barcellona (sono passati undici anni), gli obiettivi non sono stati raggiunti nella dimensione auspicata. Ve li ricordo: l’area comune di pace e di stabilità nel Mediterraneo, la prosperità condivisa e l’avvicinamento dei popoli attraverso la cooperazione sociale e culturale. Del resto, lo ha ricordato anche il Parlamento europeo con una propria risoluzione.

In particolare – questo ci investe come Commissione cultura – non si è riusciti a contribuire come si sperava, attraverso il dialogo culturale, a quell’abbassamento delle tensioni nella regione a cui noi aspiriamo. 

Punto fermo di questo processo è il Forum di dialogo multilaterale, del quale facciamo parte. In particolare, il Forum parlamentare può contribuire in modo decisivo a quel risultato non solo di pace, ma di una pace molto concreta, nella regione, con particolare riferimento alla crisi più duratura e più devastante nei suoi effetti, quella tra Israele e Palestina, in quanto è l'unica sede credo che questo sia il vero potenziale – nella quale sono rappresentati i parlamentari dei due paesi coinvolti. 

Il potenziale di questo dialogo ci porta ad affrontare questa discussione con uno spirito non direi rassegnato, ma senza facili illusioni. Mi chiedo, e chiedo ai nostri relatori, se è giunta l’ora di cambiare prospettiva, di chiedersi se fin qui il dialogo è riuscito a raggiungere un reale rispetto delle differenze e se è possibile fare un passo in più in direzione del riconoscimento delle differenze della cultura altrui.

Recentemente ho avuto l’opportunità di ascoltare, in Parlamento, due persone che non appartengono al mondo della cultura: il nostro ambasciatore in Egitto, Antonio Badini, che ha scritto un libro interessantissimo sul dialogo interculturale, e il Presidente dell'Assemblea del Popolo della Repubblica Araba d'Egitto, Ahmed Fathy Sorour. Entrambi parlano del dialogo partendo da un’esperienza non culturale, bensì politica. Tuttavia, ho trovato molto utili, anche dal punto di vista della cultura, le loro considerazioni, che definisco sagge. L'ambasciatore Badini ci ha messo in guardia contro quella che lui chiama la cultura del diniego, quella che pone condizioni al dialogo. Ha fatto, inoltre, notare che è molto difficile sostenere un dialogo fruttuoso in un periodo in cui le scelte politiche stanno portando a divisioni, discriminazioni, nonché a sentimenti di umiliazione.

Questo ci conduce alla vexata quaestiodella Palestina, il cui diritto ad esistere accanto ad Israele resta il cuore della grande riconciliazione nella regione mediorientale, ma anche oltre.

Ahmed Fathy Sorour, che è dello stesso parere, fa una curiosa distinzione tra cultura e civiltà. Non è la definizione dell’Unesco, ma forse è utile per i nostri lavori. Per Sorour la civiltà è la somma delle espressioni culturali, compresa l’arte, la musica, la conoscenza, e su quel piano è a volte più facile dialogare. Per Sorour la cultura sono i geni, forse si potrebbe dire il DNA, quell'impasto profondo di valori, di lingua, di organizzazione sociale, di religione, di codici comportamentali che generano l’immagine di sé che ha un popolo e che sta dietro anche ai sentimenti più profondi, quelli potenzialmente più importanti, ma anche destabilizzanti. Li ha citati recentemente il premio Nobel Orhan Pamuk, che afferma che intorno a questa nozione di sé possono esserci sentimenti di orgoglio, ma anche di vergogna. È proprio per evitare la seconda categoria di sentimenti che è urgente avviare un dialogo veramente innovativo. 

In conclusione, vorrei segnalare gli strumenti che abbiamo a disposizione come Commissione cultura. Il primo, naturalmente, è la Fondazione Anna Lindh, che in fondo è la sola organizzazione euromediterranea, un’organizzazione ancora giovane. Saluto, perché qui presente in rappresentanza del direttore, la dottoressa Azza Nardini. 

Il secondo strumento – lo segnalo ai colleghi parlamentari – è la Convenzione dell'Unesco per la promozione dell'espressione delle diversità culturali. È una Convenzione recente, approvata a Parigi nel 2005, che potrebbe entrare in vigore a dicembre, se si raggiunge il numero atteso di firme. In questo contesto l’Unione Europea, riconoscendone l'importanza, ha avviato un negoziato come soggetto unitario, attraverso un singolo rappresentante. L’obiettivo è portare le firme di tutti i paesi dell'Unione, a dicembre, per la ratifica. 

Cito questo percorso parlamentare non solo perché è un percorso europeo unitario, che costituisce un precedente diplomatico molto interessante, ma anche perché è un processo in cui sarebbe importante vedere coinvolti anche i paesi nostri partnerdella sponda sud del Mediterraneo. Potenzialmente credo che esso sia uno strumento concreto, attraverso il quale raggiungere gli obiettivi dichiarati di questa Commissione e del partenariato euromediterraneo: la valorizzazione delle differenze culturali e la loro promozione, in un’era di globalizzazione e di rischio di omologazione, ma anche la tutela e la promozione del dialogo, attraverso la creazione di strumenti idonei, tra cui, in ciascun paese che ratifica, un punto di contatto, un’istituzione preposta attraverso la quale ciascun paese può far conoscere interventi politici e di promozione delle attività e delle espressioni culturali. L'ultimo aspetto di questa Convenzione che vi segnalo – anche se ce ne sarebbero molti altri riguarda la promozione di quei saperi tradizionali, di cui anche la zona mediterranea è ricca, per la protezione e la valorizzazione dell’ambiente: saperi che rischiano di andare perduti e che ci interessano e ci riguardano. 

A questo punto, darei la parola ai nostri relatori. Poiché abbiamo il privilegio di averne molti, inviterei tutti a contenere i propri interventi entro 15 minuti, in modo da poter avviare un dialogo interessante con i membri della Commissione. Peraltro, siccome il tempo a disposizione non è tanto, non interromperemo i lavori per il coffee break. Chi vuole potrà trovare un caffè fuori dell’aula. 

Do la parola allo scrittore Predrag Matvejevic’.

 

PREDRAG MATVEJEVIC’, Scrittore. Grazie. Per una mia abitudine professionale preferisco parlare da una cattedra. Sono molto lieto di essere qui e di vedere quanti siamo. Sono molto lieto che questa nostra riunione abbia luogo in un momento in cui sembra, finalmente, che si annunci una politica mediterranea dell’Italia.

Sono stato due anni, nella Commissione europea, nel gruppo dei saggi che era composto da varie nazionalità mediterranee. Abbiamo desiderato dare una spinta alla Commissione europea in questo senso. Devo dire che, dopo la partenza di Romano Prodi, che aveva organizzato questo gruppo dei saggi, il gruppo è sparito. Il nuovo Presidente e alcuni nuovi funzionari si sono interessati ad altri problemi, più che a quelli mediterranei.

In Italia in questo momento – lo vediamo in diverse occasioni si organizzano riunioni in cui si vorrebbe definire la possibilità di una politica mediterranea. Dal momento che l'immagine che ci offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante, credo che occorra uscire da alcuni stereotipi, da alcune utopie che ci sono costate molto. Siamo in un momento in cui la Conferenza di Barcellona rappresenta non direi uno smacco, né un fallimento totale, ma comunque non un successo. È stato per primo il Presidente francese Chirac a dire che la Conferenza di Barcellona è un échec. Non direi che sia un échec – in quel momento vivevo in Francia ed ero nel gruppo francese che ha formulato alcune proposte –, ma bisogna ammettere che la Conferenza di Barcellona non ha realizzato il suo progetto. 

Nel 2010 si doveva realizzare una zona di libero scambio in tutto il Mediterraneo. A quattro anni da quella data, però, non si può assolutamente immaginare una cosa simile. Forse si potrebbe partire proprio dalla ricerca dei motivi per cui la Conferenza di Barcellona non ha realizzato le nostre speranze. Nel momento in cui ci si riuniva, a Barcellona, per prepararsi alla Conferenza, eravamo vicini agli accordi di Oslo del 1992 e le circostanze del conflitto mediorientale apparivano in quel momento vicine ad una soluzione positiva e durevole. Le cose rapidamente sono cambiate, come sappiamo. 

In secondo luogo, in questo periodo l’Europa si è occupata dell'altra Europa. Dieci nuovi paesi sono entrati nell’Unione: essendo per metà di origine russa, considero molto importante che l’Europa si occupi dell’altra Europa, ma non a scapito del Mediterraneo. Il Mediterraneo è quasi uscito fuori dal progetto europeo: nel momento in cui si allargano le frontiere e si spostano verso est e verso nord, si sta creando un fossato fra l’Europa continentale e l’Europa del sud. È sufficiente guardare non soltanto l'Italia, che ha da sempre una diagonale difficile sud-nord, ma anche la Francia, dove città come Marsiglia e Tolone dimostrano che l'Europa non guarda verso il proprio sud. Alla lunga, questo atteggiamento potrebbe essere pericoloso. Questo fossato può diventare una frontiera interna, che non serve all'Europa e alla politica europea.

Quali sono le altre ragioni di questo insuccesso? Naturalmente l’11 settembre 2001. Con le fiamme e la polvere delle due Torri Gemelle di New York si solleva una crisi di fiducia di dimensioni planetarie, con il conseguente peggioramento dei rapporti. Soprattutto la situazione è precipitata ed ha toccato il fondo dopo i sanguinosi attentati di Londra e di Madrid. 

Sulla sponda meridionale, araba soprattutto, la situazione è divenuta sempre più difficile. L’Algeria ha vissuto una crisi gravissima: migliaia di musulmani sono stati uccisi dai musulmani fondamentalisti e integralisti. I rapporti tra Marocco e Algeria non erano tanto buoni, così non si è realizzata la tangenziale sud-sud. Problema, questo, parallelo a quello che si è verificato nell'Europa stessa.

“Partenariato” è la parola chiave di Barcellona, ma assunta in un senso troppo astratto e generico. Un partner come la Svizzera e un partner come la Bosnia non sono uguali. In alcuni paesi non si sa chi si assume la responsabilità di questo partenariato, chi se ne occupa, quali sono le conseguenze, gli impegni. Non ha senso, allora, assumerla come parola chiave, come se ogni partenariato fosse uguale all’altro. Anche questo mi sembra un grave errore. Bisogna pensare ai partnerche possono rispettare gli impegni assunti.

In questi ultimi tempi riappare il termine “vicinato”. Anche questo termine non dovrebbe essere adoperato in un senso troppo generico. Con “vicinato” si intende il rapporto di qualcuno che è vicino a qualcun altro, ma dipende da quali rapporti si instaurano tra i vicini. 

L’“Alleanza delle civiltà è stata proclamata dal Presidente della Spagna per opporsi a questo scontro delle civiltà che, purtroppo, coltivano alcuni “falchidella Casa Bianca. Permettetemi una parola su questo. Ero stato incaricato, nell’ambito del lavoro nella Commissione europea, di elaborare una critica del concetto di scontro delle civiltà e delle culture. Non si scontrano le culture, si scontrano le culture alienate e trasformate in ideologie, che funzionano in quanto ideologie, non più in quanto culture. Altrimenti – per far vedere fino a che punto questa teoria è assurda – ogni sviluppo di cultura sarebbe lo sviluppo della virtualità del conflitto: e allora dovremmo lasciare le culture, anziché svilupparle? Anche questo è un problema difficile da risolvere. 

Sempre con riferimento ai problemi del Mediterraneo, una diagnosi che si può fare, in questo momento, per quasi tutto il Mediterraneo, è la seguente: sono diversi i modi per la sponda sud e per la sponda nord; i paesi, le città, le regioni hanno una forte identità dell’essere e una scarsa identità del fare. Cosa vuol dire identità dell’essere? Il sud ha il suo modo, la sua intensità di vivere il momento; il sud ha il suo dialetto, il suo modo di vedere se stesso nello specchio della storia e del proprio passato. Tutto questo è identità dell’essere.

Cos’è, invece, l’identità del fare? Progetti non riusciti, Governi poco democratici, situazione difficile della donna, corruzione in varie parti (guardiamo a Napoli come a un simbolo della mediterraneità dell'Italia e, forse, della sponda nord).

Dunque, essendo scarsa l’identità del fare, l’identità dell’essere diventa forte. Questo mi sembra un problema molto importante. In questo modo il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, che non riesce a diventare un progetto. La costa sud mantiene le sue riserve dopo l'esperienza del colonialismo. Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi, che non su quelle che dispiegano gli economisti.

Colui che approfondisce la problematica si rende conto che le concezioni storiche o politiche si sostituiscono alle concezioni sociali e culturali, senza arrivare a coincidere e ad armonizzarsi. Le categorie di civiltà, le matrici di evoluzione, al nord e al sud, non si lasciano ridurre facilmente ai denominatori comuni. Gli approcci della fascia costiera e quelli proposti dall'entroterra si escludono e talvolta si contrappongono.

Nella Commissione europea, nell’ambito del gruppo dei saggi, abbiamo visto emergere due proposte per quanto riguarda la cultura. La prima – la cito, non è la mia – è quella di elaborare una cultura intermediterranea alternativa. Mi sembra che mettere in atto un progetto del genere non sia un’azione imminente. Per quanto mi riguarda, ho avanzato una controproposta, per il momento molto più utile, che mira a condividere una visione differenziata, anziché elaborare una cultura intermediterranea alternativa (sappiamo come questo sia difficile, sappiamo quante sono le opposizioni, da una parte e dall’altra). Condividere una visione differenziata è un progetto meno ambizioso, anche se non sempre facile da realizzare. 

Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale, quanto nell’entroterra. Si dice spesso che i mediterranei hanno un grande passato, ma noi abbiamo bisogno di un presente e – perché no – anche di un avvenire. 

Vi sono alcuni ambiti per i quali il Mediterraneo deve uscire dagli schemi precedenti. Siamo la patria dei miti e abbiamo sofferto delle mitologie, che noi stessi abbiamo generato. Siamo uno spazio ricco di storia, ma siamo stati vittime degli storicismi. Il nostro discorso sul Mediterraneo soffre proprio degli storicismi. A noi interessano le alternative presenti e attuali. 

C’è una tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa. La nostra rappresentazione è spesso troppo retorica. Le rappresentazioni intorno a noi sono talvolta piene di bei colori, ma la realtà è diversa.

Prendiamo ad esempio un’isola: in primavera sui manifesti della pubblicità appare un’sola bellissima, circondata dal mare blu, ma a novembre essa diventa un cimitero. Questo vuol dire confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa.

Proprio in questo contesto nuovamente insisto sulla differenza tra l’identità dell’essere e l’identità del fare. Tante altre cose sono da cambiare e avremo possibilità di farlo nel corso della discussione. Bisogna, però, liberarsi di una zavorra ingombrante: ciascuna delle coste conosce le proprie contraddizioni, che non cessano di riflettersi sul resto del bacino e sugli altri spazi, talvolta lontani. La realizzazione di una convivenza in seno ai territori multietnici o plurinazionali, laddove si incrociano e si mescolano tra loro le culture diverse e le religioni differenti, conosce ai nostri occhi uno smacco, un fallimento totale. Ho vissuto questa esperienza nella ex Iugoslavia, dove ho visto fino a che punto fosse difficile realizzare questa convivenza.

 


Vicino a Sarajevo, a Srebrenica, sono stati uccisi 8 mila musulmani bosniaci, forse i musulmani più laici del mondo, perché tardivamente islamizzati: un numero di morti quattro volte superiore a quello dei morti delle Torri Gemelle di New York. Mi sono rattristato molto vedendo le Torri Gemelle bruciare, un evento tragico per l'umanità. Tuttavia, un numero di morti ben quattro volte superiore, in Bosnia, ha trovato nei giornali un piccolo spazio.

Ho citato questo esempio per dirvi fino a che punto ci manca l'obiettività. Bisogna uscire dalle strutture troppo retoriche del nostro discorso sul Mediterraneo e avere il coraggio di raccontare la verità del Mediterraneo. 

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio Predrag Matvejevic’, che ha aperto questa serie di contributi con il solito brio, portando la profondità della sua esperienza di scrittore. Ciascuno dei relatori ha un contributo da dare a questa discussione, anche attingendo alla propria storia

Adesso darò la parola al mio collega deputato Khaled Fouad Allam, profondo conoscitore dei temi alla nostra attenzione. Prima di questa legislatura ero l’unico parlamentare non di origine italiana; sono molto orgogliosa del fatto che adesso ce ne siano parecchi altri. Khaled Fouad Allam è nato a Tlemcen, in Algeria, mentre io sono nata a Bogotà.

Prima di essere eletto insegnava all’Università di Trieste e di Urbino, pertanto abbiamo pensato che sarebbe stato molto interessante sentire anche il suo contributo nell’ambito della nostra discussione sulla ricerca di una cultura euromediterranea. 

 

KHALED FOUAD ALLAM, Deputato. Grazie per le tue parole e benvenuta a questa Assemblea parlamentare euromediterranea. È vero, vengo dall’attività di docente universitario e di esperto di queste tematiche in seno al Consiglio d’Europa.

Un quarto d’ora di tempo non è molto per parlare di un problema strategico, politico e culturale. Laddove allarghiamo lo sguardo, appaiono alla nostra vista una serie di problemi che sono, per il momento, difficilmente superabili. Parlare di Mediterraneo, come ha detto Predrag Matvejevic’, significa parlare essenzialmente di una zona di conflitto: il conflitto storico fra Israele e Palestina, la questione del petrolio, la guerra in Iraq, ma anche conflitti che non hanno questo nome e che, per come sono interpretati, letti e gestiti dalla politica, appaiono spesso con tutta la sostanza che è inerente ad ogni tipo di conflitto.

Parlare di Mediterraneo significa oggi parlare di immigrazione, significa parlare di un intero continente alla deriva, l’Africa, e significa ovviamente cercare di dare delle soluzioni ad una mediterraneità che non va letta o interpretata soltanto attraverso un paradigma geografico, che imprigioni in un certo senso le questioni del Mediterraneo unicamente attraverso delle frontiere territoriali.

C’è un Mediterraneo che è un po’ come il mercurio – non arriviamo mai a definirlo e a perimetrarlo –, che ovviamente va letto attraverso le forti popolazioni che abbiamo nel cuore delle nostre città dEuropa, che è il prodotto della storia del colonialismo; una parte, invece, è il prodotto dei flussi migratori mondiali, che è legata oggi ai circa 15-20 milioni di musulmani che vivono all’interno dell’Europa, sui quali plana l’ombra di enormi questioni legate alla trasformazione intera di un continente. Questo fa che il Mediterraneo interroghi l’Europa e che questa, a sua volta, interroghi il Mediterraneo. 

Oggi la grande questione, che non riesce a trovare la sua traducibilità politica, è l’eterogeneità delle culture. La grande questione del XXI secolo è come tradurre, attraverso un linguaggio politico, la questione dell’eterogeneità delle culture e, in particolar modo, della presenza oggi di popolazioni arabe e africane nel Mediterraneo.

Inoltre, ci sono anche errori grossolani di partenza, che ho considerato tali sin da quando si sono firmati gli accordi di Barcellona nel 1995. Ad esempio, si è definito l’arco mediterraneo soltanto considerando i paesi che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo. In realtà, esiste un Mediterraneo che va al di di frontiere acquatiche o territoriali. A mio avviso, è stato un enorme errore aver sottovalutato il fatto che potevano essere presenti, nella Conferenza di Barcellona, i paesi del Golfo, l’Arabia Saudita o lo Yemen. Mi pare evidente che tutti questi paesi sono un prolungamento – dal punto di vista storico e culturale – di ciò che è stata la koinè del Mediterraneo. 

 

È difficile parlare oggi del Mediterraneo senza fare l’economia dei grandi momenti storici che hanno costituito l’architettura politica del ‘900, vale a dire la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la trasformazione dei paesi orientali, con il loro avvicinamento verso l’Europa continentale. Sono ovviamente importanti le conseguenze di questo cambiamento storico: da una parte, il passaggio alla democrazia per questi paesi, dall’altra la tendenza dell’Europa – in questi ultimi anni – a spingere il suo sguardo molto più verso i paesi dell’Europa dell’est che verso i paesi del Mediterraneo, i paesi che sono sulla sponda sud. Questo ha avuto, certamente, anche degli effetti politici abbastanza importanti.

Come ha ricordato il Presidente del Parlamento europeo, la Polonia ha avuto come budgetannuale, due anni fa, l’equivalente di ciò che hanno avuto i paesi della Conferenza di Barcellona in questi ultimi dieci anni. Le cifre la dicono lunga non soltanto sullo sguardo con cui ci si rivolge ai paesi dell’est, ma anche sulla reale volontà politica di definire delle nuove architetture politiche, che sono fondamentali, oggi, per l’architettura del sistema della globalizzazione. Dunque, mi pare evidente che non possiamo ragionare soltanto in termini culturali, se a monte non prendiamo in considerazione ciò che narrano le cifre, le economie, e via dicendo. 

Ci sono, inoltre, dei problemi che dovrebbero creare un certo allarme in ordine allo stato delle relazioni tra il continente europeo e il Mediterraneo. Cito il dossier delle Nazioni Unite sulla popolazione mondiale fra il 2025 e il 2050: nel 2025 la crescita demografica dell’Unione Europea sarà del 4 per cento, la crescita dei paesi della sponda sud del Mediterraneo sarà del 48 per cento; nel 2050, l’età media della popolazione degli Stati Uniti sarà di 37 anni, l’età media della popolazione dell’Unione Europea sarà di 57 anni. Uno scarto di venti anni non è poca cosa.

Cito altre cifre, sempre dal dossier sulla popolazione mondiale, che riguardano l’Italia e la Francia: mantenendo una politica aperta di immigrazione – l’immigrazione aiuta, indirettamente, il rinnovamento della popolazione sui nostri territori –, nel 2050 l’Italia perderà il 29 per cento della sua popolazione attuale, la Francia perderà il 17 per cento. 

Mi sembra evidente che, di fronte a queste cifre, dobbiamo inventare qualcosa: qualcosa di nuovo che oggi non c’è. Per molto tempo mi sono chiesto come mai ci avviciniamo sempre di più ad uno scacco, diretto o indiretto, della Conferenza di Barcellona. Indubbiamente il progetto di Barcellona era molto ambizioso e, ovviamente, dieci anni dopo non possiamo che registrare una conclusione relativamente amara, anche se oggi, attraverso le politiche di buon avvicinamento, si cerca di invertire la tendenza e di riarticolare le relazioni fra l’Europa e il Mediterraneo.

Tuttavia, credo che il problema sia politico, ma non soltanto nel senso istituzionale. La nascita di nuove architetture politiche e di nuove istituzioni che dovrebbero, in un certo senso, ridefinire l’ambito delle relazioni che si cerca di riformulare attraverso il Mediterraneo non può prescindere, comunque, dalle grandi questioni culturali. Purtroppo, queste grandi questioni culturali oggi sono attraversate da forti tensioni, che probabilmente nascono sul piano della scena mondiale e dell’opinione pubblica mondiale dopo l’attentato dell’11 settembre. Questo, oltre a richiamare la relazione che esiste fra il radicalismo islamico, la violenza, il terrorismo, e così via, impone in un certo senso delle analisi, che dovrebbero portarci a definire cosa non ha funzionato e cosa non funziona ancora nell’ambito delle relazioni fra le due sponde del Mediterraneo. Mi riferisco a ciò che conosco maggiormente, vale a dire il mondo arabo e l’Islam in generale. 

Mi sono spesso interrogato su questo deficitdi una relazione veramente autentica e progettuale a livello politico. È anche una forma retorica quella di ripetere che il mondo musulmano ha contribuito all’elaborazione di ciò che è la civiltà occidentale: Aristotele è stato tradotto dalla scuola dei traduttori di Toledo, come Maimonide, Avicenna, Averroè. Tutte persone che hanno contribuito ad architettare il sapere. Questo sapere, però, non funziona più, è relegato nelle stanze di fondazioni o di esperti che passano la loro vita a tradurre e a pubblicare dei libri che probabilmente solo pochi leggeranno.

Dobbiamo capire come si possa incidere nell’ambito societario, per passare, poi, a quello politico.  Nell’ambito societario mi pare evidente che questo deficit di un corto circuito delle relazioni euromediterranee infligga un duro colpo al meccanismo di produzione delle cittadinanze. Cosa significa essere cittadino europeo, ma nello stesso tempo, oggi, essere cittadino arabo, musulmano, africo-musulmano, e via dicendo? È un problema che dobbiamo porci, soprattutto quando sappiamo che, in parte, questi ragazzi che si avvicinano al radicalismo islamico provengono anche dalle nostre società europee. C’è qualcosa che non ha funzionato nel meccanismo di produzione di cittadinanza e di integrazione.

Dobbiamo chiederci come mai, a livello politico, assistiamo oggi al regno della diffidenza. Guardiamo la questione turca, a come è stata posta da Valéry Giscard d’Estaing, quando – quattro o cinque anni fa – ha affermato che la Turchia ha una cultura totalmente diversa dalla nostra. Il Mediterraneo chiama in causa la struttura profonda di ciò che ha fatto che un giorno la Turchia potesse essere chiamata Europa.

Come mai questo clima di diffidenza tende oggi a creare quelle che io chiamo delle frontiere simboliche? Frontiere che non sono più unicamente territoriali, ma purtroppo diventano frontiere delle culture, frontiere delle etnie, frontiere delle lingue. Questo trasforma quella che è la progettualità politica nella sua versione più pericolosa, vale a dire la comunitarizzazione della politica, che significa un mondo diviso: in altre parole, non abbiamo più niente da dirci insieme, dunque sarebbe meglio che ciascuno rimanesse a casa propria. Questo è estremamente pericoloso, perché riflettere sulle relazioni euromediterranee significa riflettere sull’Europa in sé e sulla sponda sud del Mediterraneo in sé, dai paesi del Golfo fino all’Egitto. 

Cosa non ha funzionato? Sono un grande osservatore della questione ebraica e della filosofia ebraica; sono un grande lettore diFranz Rosenzweig, in particolar modo ho apprezzato La stella della redenzione. Ciò che è successo nei rapporti culturali fra l’ebraismo e l’Europa e il cristianesimo dovrebbe insegnarci qualcosa. A mio avviso, ciò che non ha funzionato e che non funziona ancora nelle relazioni euromediterranee è quello che io chiamo un reale divorzio fra storia e memoria.

Noi siamo dei pezzi di storia, dei pezzi malati della storia, ma non siamo riusciti a diventare memoria condivisa. Fino a quando non arriveremo a creare un ponte fra la storia e la memoria condivisa, credo che la questione euromediterranea sarà soltanto un sogno, ma niente di costruttivo e di progettuale: dall’euroregione prefigurata dalla Conferenza di Barcellona ai meccanismi di integrazione per le nostre popolazioni di origine immigrata, fino all’elaborazione di relazioni autentiche e sane dall’Europa verso il Mediterraneo e dal Mediterraneo verso l’Europa. 

La questione della memoria è molto complicata, perché parlare di memoria significa anche parlare di perdono. Non si va mai avanti, nella storia e nella memoria, se non c’è perdono. Cosa vuol dire il perdono nella storia? Rimando ad un testo bellissimo su memoria e perdono tradotto anche in italiano, comunque il pubblico francofono può leggerlo – di Paul Richer. Il perdono è necessario, ma non si ottiene per decreto: non può firmarlo un ministro, magari fosse così. Il perdono ha bisogno, ovviamente, di un evento simbolico: ricordo Willy Brandt che si inginocchiò di fronte al monumento che ricorda la Shoah, dando così humus ad una nuova partenza nei rapporti fra la Germania e Israele e l’ebraismo

Nel caso del mondo arabo e dell’Islam la partenza è veramente la cultura. E noi siamo in difetto flagrante di occultamento della memoria: non dico nemmeno la memoria araba e islamica, ma la memoria semitica. Non è immaginabile, ad esempio, pensare di fare a meno, al liceo, di libri di storia e di filosofia che facciano onore a questo pezzo di memoria mancante. Già nel nostro linguaggio, quando parliamo di eredità antica classica, parliamo sempre, quasi come un riflesso simultaneo, di un’eredità greco-latina. Manca il mezzo: sarebbe più giusto parlare di un’eredità greco-semitica-latina.

Per fare un esempio – ma potrei citarne diversi – la parola “nenuphar” viene dall’arabo, ma quando gli accademici della Francia decisero di definire l’origine etimologica della parola, trasformano la lettera “f” in “ph”, perché ciò permetteva, nell’Ottocento, un riallacciamento alla Grecia antica.

Questi difetti di memoria e di storia non sono solo degli europei e degli occidentali, ma anche dei musulmani. Potrei parlare del grande patrimonio che abbiamo in Italia della letteratura araba e della presenza musulmana e araba in Sicilia. Se chiedessi ai miei studenti chi è Ibn Hamdīs nato a Siracusa e morto a Palma di Maiorca nel 1198 riceverei solo silenzio. Dovrei dire che Ibn Hamdīs è nato in Sicilia e che era un siciliano: all’epoca era un siciliano arabo, ma comunque un siciliano. Non saperlo non indica una colpa, né mia, né loro. Non saperlo significa esattamente che noi viviamo il divorzio fra storia e memoria. È storia, ma non è memoria condivisa. 

La stessa cosa, del resto, facciamo noi. Senza parlare degli ebrei, se dovessi chiedere a mio cugino, nel mio paese d’origine, chi è Sant’Agostino, seguirebbe un’ora di silenzio. Dovrei dire che Sant’Agostino era un berbero, nato in una città che all’epoca si chiamava Ippona, dopo si è chiamata Bona e oggi si chiama Annaba. Non saperlo, da parte nostra, significa costruire ancora di più il divorzio fra storia e memoria.

Come arginare questo fenomeno? Qui torniamo alla politica, come il serpente che si morde la coda. È evidente che manchiamo, probabilmente, anche di immaginazione e di coraggio politico. Non basta una fondazione o un’istituzione per riformulare il mondo come lo vorremmo. Mi sembra evidente che occorrono iniziative molto più incisive a livello politico. Io abito a Trieste, e a Duino c’è il Collegio del mondo unito. Perché non cominciare a pensare ­– l’ho suggerito anche al nostro Governo – all’idea di un Collegio euromediterraneo, selezionando gli allievi in tutti i paesi euromediterranei, per cercare di elaborare un programma che dia sostanza a tutto questo? Quando si pensa al mondo musulmano o al mondo arabo, sempre secondo la tesi di Edward Said, si pensa all’oriente: l’oriente magico, l’oriente lontano. Perché non pensare, in Europa, a un museo – potrebbe pensarci anche Palermo del patrimonio europeo del mondo arabo e islamico? L’Europa ha un ricco patrimonio libresco, di dipinti, di tessuti, di architetture, e via dicendo.

Non possiamo affidare tutto ai canali televisivi, che ovviamente lavorano con una velocità diversa da quella della cultura. Noi abbiamo bisogno di nuovi libri, che raccontino veramente come stanno le cose. Manchiamo di questo: mancando di questo, c’è il silenzio; essendoci il silenzio, c’è il sospetto. 

L’aspetto grave delle relazioni euromediterranee è proprio questo clima di sospetto, che tende ad allargare e a fare delle differenze il luogo nel quale un’impossibile politica si sta avvicinando all’orizzonte e che oggi ha la sua traduzione: mi riferisco esattamente alla fine che farà la questione turca nel dossier europeo. Entrerà o non la Turchia nell’Unione Europea? Sappiamo quali saranno le conseguenze, nel caso in cui la Turchia non dovesse entrare in Europa.

Mi sembra evidente, però, che porre la questione del Mediterraneo non significa sollevare tutte le questioni economiche, sociali e culturali che affliggono la sponda sud del Mediterraneo. Significa, da una parte, definire quale dovrà essere l’identità dell’Europa e, dall’altra, riformulare la questione dell’Europa nel ciclo della mondializzazione.

Si stanno organizzando, a livello di cerchi concentrici, la Cina, il subcontinente indiano, gli Stati Uniti e il Pacifico, ma manca – a tutt’oggi – l’anello di congiunzione di questo ciclo della mondializzazione. E questo anello passa e passerà attraverso la questione delle relazioni che vorranno o non vorranno costruire l’Europa e il Mediterraneo. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie. Credo che sarebbe interessante, dopo Khaled Fouad Allam, sentire Moni Ovadia, scrittore ed artista cosmopolita. 

 

MONI OVADIA, Attore e scrittore. Mi sento soprattutto uomo di teatro, ma sono – non per mio merito personale – un europeo euromediterraneo, perché sono un ebreo sefardita. Gli ebrei sefarditi sono stati cittadini euromediterranei per definizione, perché hanno girato tutto il Mediterraneo, hanno parlato tutte le lingue del Mediterraneo, hanno inglobato in sé tutte le culture del Mediterraneo; dal Mediterraneo sono stati cacciati, nel Mediterraneo sono stati accolti. Tutto il circuito del Mediterraneo – nel suo aspetto negativo e in quello positivo – ha avuto l’ebreo sefardita come suo cittadino. 

 

Come comincia, nel Mediterraneo, l’avventura dell’ebreo sefardita, che prima è piazzato in Spagna? La Spagna è la culla leggendaria di un mondo in cui le tre religioni dialogano; non sempre, è vero, ma ci sono momenti assai fertili. Tutto questo si spezza perché la Spagna dei sovrani Isabella la Cattolica e Ferdinando di Castiglia decide di diventare un club occidentale, di espellere da sé tutto l’elemento non puro. Per la prima volta, noi sentiamo parlare di “limpieza de sangre”: penso a Torquemada, il grande inquisitore, che probabilmente era di origine ebraica, convertito (succede spesso agli apostati di diventare così). Non è più una questione di anima, tanto che ci fu una dura polemica con la Chiesa cattolica, che non era d’accordo con Torquemada su questa questione, essendo interessata alle anime e non alla fisionomia. Ma è proprio in quella Spagna che, per la prima volta, si sente questa espressione sciagurata, che richiama un razzismo biologico. 

Nel giro di pochi anni questo provoca l’espulsione dei cosiddetti mori – la parte arabo-musulmana – e degli ebrei. Il 1492 è l’anno dell’editto di espulsione degli ebrei dalla Spagna e della conquista dell’America. 

Nell’arco di cinquecento anni circa – guardate che coincidenza – troviamo gli stessi numeri, ma in sequenza diversa: il 1942 è l’anno della Conferenza di Wannsee, in cui viene decisa la Endlosung, la soluzione finale della questione ebraica. È quasi una sorta di alchimia finto cabalistica, ma guardate dove porta il tentativo di dichiarare la propria specificità come forma di aggressione nei confronti di qualcun altro. Questo accade quando uno rivendica di essere qualcosa contro qualcuno.

Allora, ecco che l’esperienza della memoria – Fouad Allam ha fatto un intervento straordinario su questo – assume una cruciale importanza: il rapporto fra memoria e storia, ma soprattutto il rapporto fra memoria e futuro. Noi dobbiamo ricominciare a progettare il futuro, perché nel futuro tutto è possibile. Ciò che ci appare impossibile oggi nel futuro sarà possibile. Dipende non solo dalla politica, ma anche dalla nostra responsabilità individuale.

Io sento profondamente il mio peso di essere un ebreo sefardita portatore di una memoria e di usare questa memoria come strumento di costruzione e di edificazione del futuro, non di un’ipertrofia solipsista del presente. Noi viviamo in questa ossessione del presente, ed è un gravissimo errore, che porta a fare gaffes spaventose. Un ministro di non so quale Stato della Federazione Russa è arrivato ad esprimersi in questo modo durante una conferenza stampa – non si è accorto della gaffe, e naturalmente è stato subissato di critiche: «Noi fra qualche anno vivremo così bene, ma così bene, che ci invidieranno perfino i nostri nipoti». C’è la tendenza a pensare all’ombelico del presente e a non costruire il futuro. 

Se nel 1949 avevo solo tre anni, ma immaginiamo che fossi stato adulto – fossi andato a Place Vendome, a Parigi, e avessi gridato che fra la Germania e la Francia non ci sarebbero stati confini, che un giorno istituzioni culturali tedesche sarebbero state rappresentate dai francesi nelle istanze internazionali, e viceversa, mi avrebbero portato in manicomio, perché quei due popoli si erano “scannati” per secoli e secoli. 

Come possiamo fare affinché i conflitti del Mediterraneo cessino di produrre odio e sangue, e diventino, invece, fertilizzanti di processi culturali che porteranno a cose neanche immaginabili oggi? Mi riferisco, in particolare, al conflitto israelo-palestinese. Il modo per ottenere questo risultato è assumersi in prima persona la responsabilità di costruire nel piccolo, perché il piccolo è paradigma del grande. La politica può fare poco: essa può creare quadri istituzionali, ma soprattutto può attivare massicci investimenti sulla cultura, sulle arti e sulla costruzione di una memoria per il futuro. La memoria non è strumento per il passato: quella si chiama nostalgia, rimpianto, che sono i fertilizzanti della peste nazionalista. La memoria viva è per il futuro, non per il passato. Si tradisce la memoria se non si costruisce il futuro. 

Ci sono magari piccoli paradigmi che in , apparentemente, non rivelano nulla a guardarli subito. Se si sta più attenti, però, c’è qualcosa che parla in questi piccoli eventi. Sono stato di recente a Ramallah, dove c’è una situazione difficilissima, come del resto in tutta la Palestina. Posso dire, anzi, che la situazione è drammatica. A Ramallah sono andato a visitare una piccola scuola di musica, Alkamandjati. Alkamandjati è una scuola di musica per bambini e ragazzi; non è la prima scuola di musica nei cosiddetti territori palestinesi – ce ne sono state altre –, ma questa è la prima ad essere destinata ai ragazzi normali. “Normali” significa oggi, in Palestina, ragazzi immersi in immense difficoltà esistenziali: bambini e ragazzi senza futuro.

Come è nata Alkamandjati? Da una storia, la storia di Ramzi, un bambino che è diventato molto famoso, suo malgrado. Non sapeva di essere così famoso. Ramzi è il bambino che nel 1987, vedendo cadere sotto i suoi occhi il suo compagno di giochi, ha raccolto una pietra e ha tirato la prima pietra della prima intifada. La sua fotografia ha fatto il giro del mondo. Ma Ramzi è stato un bambino fortunato, perché suo zio era violinista dell’orchestra di Amman; un violinista importante, che un giorno è andato a trovare la famiglia nel campo profughi in cui Ramzi abitava, e Ramzi ha rivelato un talento precoce per il violino. Era molto curioso di questo zio con il violino – all’epoca aveva otto o nove anni – e già rivelava un’attrazione per questo strumento.

Poco dopo la visita dello zio, è arrivato un professore del conservatorio di Lione a fare dei corsi di musica. Ramzi si è infilato in questi corsi e il professore di Lione ha visto che Ramzi era molto dotato per lo strumento. Praticamente sapeva quasi già suonare, era un talento. L’ha portato, allora, a Lione, dove Ramzi si è diplomato in viola e oggi è uno dei migliori violisti dell’area euromediterranea. Fa parte dell’orchestra di Daniel Barenboim, un’orchestra che raccoglie israeliani e palestinesi, e non ha dimenticato la sua gente. Ha avuto una carriera folgorante, ma giustamente non ha dimenticato la sua gente ed è tornato a Ramallah, dove ha aperto questa scuola di musica, per insegnare ai bambini palestinesi a suonare uno strumento. 

Tutti noi dovremmo visitare Alkamandjati, per vedere come viene messo in pratica ciò che ha scritto il grande poeta greco Iannis Ritsos: «lì dove un uomo resiste senza speranza, è proprio lì che comincia la storia umana».

Alcuni di questi bambini suonano la fisarmonica – io li ho visti –, ma non hanno una fisarmonica per studiare a casa. Come si fa a studiare uno strumento senza potersi esercitare a casa? Non importa, si fa lo stesso. Le fisarmoniche arriveranno. Alkamandjati è stata riconosciuta da posti molto importanti, in tutta l’Europa. Naturalmente, ci sono progetti su questa scuola. Io stesso, nel mio piccolo, ho cercato di attivare un progetto con altre persone. 

Un ebreo sefardita come me sente l’urgenza – proprio in quanto ebreo sefardita, in quanto cittadino europeo e in quanto essere umano – di attivare dentro di sé i rapporti di collaborazione, ma soprattutto di riconoscimento dell’altro. In questo momento il popolo palestinese rappresenta per me l’altro più urgente, e lo dico proprio per il sentimento che nutro nei confronti della mia gente. Un libro commovente del Talmud dice: «Se io non sono per me, allora chi sarà per me?». Ma dopo la virgola aggiunge: «Ma se io sono solo per me, allora io chi sono?». 

La necessità forte è quella di costruire pace e progetto di incontro con l’altro dentro se stessi. Ci sono decine di progetti che nascono, ed io ne sono personalmente testimone. Penso, ad esempio, a un concerto di canti della pace che faccio ancora con musicisti arabi e un cantante palestinese, Faisal Taher, e a tante altre iniziative, che mi permettono di capire me stesso e di riconoscere me stesso nell’altro.

Quando leggevo i libri degli ebrei sefarditi apprendevo le loro difficoltà negli anni terribili, quando dovevano cambiare passaporto e inventarsi storie. Ebbene, vedo le stesse cose quando passo il confine con il mio amico Faisal Taher, che è nato a Jenin e ha un passaporto giordano. Vedo in lui la storia dei miei, ecco perché sono così vicino a queste storie. Ogni volta che Faisal passa una frontiera lo tengono almeno un’ora e mezza, all’entrata e all’uscita. Nello stereotipo, lui è il perfetto terrorista. Eppure Faisal vive da venti anni in Italia; i suoi tre figli sono nati in Sicilia, sono siciliani, parlano con cadenza siciliana anche l’arabo. Faisal, che ha un grandissimo senso dell’umorismo, mi ha detto, all’ultima frontiera, di essere molto preoccupato perché fra tre anni suo figlio, che è nato in Italia, diventerà italiano e potrebbe buttarlo fuori casa, in quanto extracomunitario. Faisal, pur pagando da diciotto anni le tasse in Italia, non ha ancora un passaporto italiano.

Ecco cosa imparo nell’attivare la mia responsabilità personale nei confronti dell’altro. Proprio perché voglio bene alla mia gente, voglio bene all’altro, altrimenti non sarei più un essere umano. Ho potuto fare queste esperienze perché ho avuto l’opportunità di costruire progetti artistico-culturali. Bisognerebbe che ci fossero massicci investimenti in questa direzione. Se non si comprende questo, l’Europa non andrà da nessuna parte. La questione culturale dovrebbe essere la prima nell’agenda europea. Se non si attivano processi culturali, non si arriverà mai a ciò che noi tutti auspichiamo. Il rapporto stretto che esiste oggi tra due paesi come la Germania e la Francia è dovuto a questo, oltre che a quello che diceva Fouad Allam con tanta lungimiranza: è dovuto a un interesse culturale reciproco profondo, a un’attrazione reciproca culturale.

È inutile che noi europei ci illudiamo, senza l’elemento che giustamente Fouad Allam ha chiamato semita questa Europa non troverà la propria anima. Quel contributo è fondante per questa Europa; senza quel contributo, con il rifiuto di quella parte, l’Europa è diventata quel club occidentale che l’ha portata verso le vie più spaventose della propria perversione.

Questo ci deve mettere sull’avviso. È vitale per l’Europa l’inclusione, la valutazione e la consapevolezza di quell’elemento semita, che sia ebraico o sia arabo. È attraverso questa consapevolezza che l’Europa può svolgere una funzione fondamentale nella soluzione della drammatica questione israelo-palestinese, che è cruciale per il futuro dell’Europa euromediterranea e per il futuro dell’umanità. Nell’Europa euromediterranea è nata la gran parte della cultura che ha mosso questo mondo. Tutte le sue radici, però, sono vitali e servono a questo scopo. Diversamente, quando una radice viene rifiutata, l’intero l’albero rischia di diventare sterile. 

 

TANA DE ZULUETA. Considerato che i relatori sono stati molto disciplinati rispetto ai tempi, e che i loro interventi sono stati molto impegnativi, oltre che molto interessanti, se pensate che sia utile per i nostri poteri di concentrazione possiamo fare una pausa di dieci minuti, per prendere un caffè.

 

(La seduta, sospesa alle ore 11,20, riprende alle ore 11,43). 

 

TANA DE ZULUETA. Riprendiamo i lavori. Se chiudiamo la fase delle relazioni entro mezz’ora, possiamo aprire il dibattito e terminare ampiamente nell’orario previsto. 

Do la parola a Isabella Camera d’Afflitto, dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, una grande arabista. 

 

ISABELLA CAMERA D’AFFLITTO, Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Ringrazio la Presidente De Zulueta per questo invito e per avermi dato l’occasione di partecipare a questo incontro, che mi permette di trovarmi davanti a degli interlocutori che io, come molti miei colleghi, chiusi nelle mura dell’accademia, abbiamo sempre cercato. Interlocutori politici, persone a cui far sentire le nostre ragioni, le nostre proposte. Nello stesso tempo, non essendo un politico, penso di essere più libera e di poter dire quello che, secondo me, non è andato bene fino ad ora e di poter avanzare delle proposte un po’ più concrete per quanto riguarda quello che si può fare nell’immediato. 

Ho insegnato per venti anni, all’Orientale di Napoli, letteratura araba contemporanea. Oggi insegno all’Università di Roma “La Sapienza”. Sono una “nipotina” dei vecchi orientalisti, ed oggi continuo ad occuparmi di letteratura contemporanea, proprio perché ritengo che, attraverso la letteratura, si possa conoscere effettivamente l’altro: si può conoscere la realtà del mondo arabo, le aspirazioni di un popolo, che vengono effettivamente filtrate dalla loro cultura. 

Sin da quando ho cominciato a studiare l’arabo, mi sono accorta di una grande discrepanza tra tutto ciò che si conosceva sulla cultura araba riguardo al passato e la non conoscenza dell’attualità, e questo ha fatto che ci si trovi dinanzi a persone a volte impreparate. Forse vi sono state colpe anche dell’orientalismo, che ha impedito una certa divulgazione; come sappiamo, il mondo dell’orientalismo, da cui noi stessi proveniamo, si concentrava soprattutto sull’antichità, e poi c’era la mancanza di uno sforzo di divulgazione, per cui ci si parlava molto tra accademici e professori. 

Ho notato che si parla tanto della conoscenza dell’altro. In realtà, noi abbiamo una conoscenza – o crediamo di averla – dell'altro, ma l'altro, il nostro dirimpettaio del Mediterraneo, ha una conoscenza molto maggiore della nostra, che risale a molto tempo fa. Gli “altri” hanno cominciato a conoscerci attraverso le traduzioni, e conoscono bene il nostro mondo culturale. Ricordo – lo ricorderanno bene i rappresentanti dell'Egitto presenti – che un grande intellettuale dell'800, Rifâ’a at-Tahtawi, è stato il primo grande traduttore dell'epoca contemporanea, che ha inaugurato un settore delle traduzioni proprio per la conoscenza dell'altro.

 

Si può dire, invece, che in occidente non abbiamo fatto lo stesso, o almeno non con gli stessi mezzi. È stato fatto poco, pochissimo. Questo settore così delicato della conoscenza dell'altro – altro che è, poi, molto vicino all'Italia – è stato affidato agli orientalisti, che hanno fatto ben poco. Forse non c'erano le possibilità, non c'erano le strutture, ma soprattutto non c'era l’interesse: non c'era l’interesse a mostrare un mondo arabo colto, che potesse dialogare in misura egualitaria con noi.

Credo, quindi, che stiamo ereditando una situazione che viene da molto lontano. Uno dei motivi che mi ha spinto ad occuparmi della letteratura contemporanea è stato la mancanza di testi. In pratica, in Italia non potevamo leggere testi provenienti dal mondo culturale arabo perché non esistevano le traduzioni, o comunque erano pochissime. Come ha ricordato l'amico Fouad Allam, ci sono arabisti – io tra questi – che hanno passato la vita a tradurre libri dell'altra sponda del Mediterraneo, ma questi libri hanno un pubblico molto esiguo, perché le grandi case editrici di solito non sono interessate e si lascia molto all’iniziativa del singolo, a piccolissimi editori che vengono schiacciati dalla grande editoria.

Qualcuno dei relatori ha detto che è importante costruire in piccolo, ed io, nel mio piccolo, testardamente da più di venti anni traduco libri della letteratura araba contemporanea in italiano. Qualcuno mi ha chiesto se, in questo modo, cerco di convincere gli italiani a leggere questa letteratura; è uno sforzo che mi sento di fare e lo farò finché avrò energie. So che il mio sforzo non ha un grande riscontro. Nel frattempo ho creato una scuola, ma sempre in privato, perché le istituzioni non ci hanno mai degnato di uno sguardo. Non c’è mai stato un interessamento da parte di chi avrebbe potuto, eventualmente, incoraggiare questo settore.

Ho formato, dunque, un gruppo di traduttori e continuiamo ad imporre i nostri libri della letteratura araba a piccoli editori. Ho fondato anche una collana, Scrittori arabi contemporanei, che in dieci anni ha pubblicato 40 romanzi dei maggiori autori arabi contemporanei. Sono romanzi che nessuno o pochi leggono, ma noi continuiamo con perseveranza, anche perché sono convinta che si possa effettivamente partire dal piccolo, ma ricevere comunque delle soddisfazioni. Alcuni di questi libri, ad esempio, si possono trovare nelle biblioteche scolastiche, laddove c'è un professore particolarmente sensibile, che magari fa leggere a trenta ragazzi un libro del patrimonio culturale palestinese, egiziano, iracheno, tunisino, marocchino, e via elencando. Certo, trenta ragazzi sono pochi, così come lo sarebbero cinquecento, ma è qualcosa che incoraggia ad andare avanti.

Vorrei citare qualche dato. Nei primi 50 anni del secolo scorso, dal 1900 al 1950, in Italia si potevano trovare due o tre traduzioni di opere letterarie arabe. Negli anni ‘60-‘70 questo numero è salito, seppur di poco (da 4 a 5), mentre c'è stato il boom nel 1988, quando lo scrittore egiziano Nagib Mahfuz ha ottenuto il premio Nobel.

Da allora ad oggi sono stati pubblicati oltre 500 libri di narrativa, poesia, antologie provenienti da tutto il mondo arabo; molti egiziani, ma anche molti iracheni, libanesi, siriani. Ebbene, malgrado queste traduzioni, la visione stereotipa che abbiamo in Italia del mondo arabo è sempre la stessa. Gli stereotipi che venivano descritti nel 1870 da un nobile francese, il duca D’Harcourt, nel libro L’Egypte e l’Egyptienne – un libro pieno di stereotipi e di visioni anche umilianti verso il mondo egiziano –, potrebbero essere addirittura attuali, considerato quello che si sente dire sul mondo arabo, a livello di mass media o di interlocutori non sempre molto preparati.

In Italia, tuttavia, c’erano delle istituzioni che si occupavano del mondo arabo. Penso, ad esempio, all'Istituto per l'Oriente, poi chiamato Istituto per l'Oriente “Carlo Alfonso Nallino”, fondato nel 1921. Ebbene, questo Istituto – l'unico che, anche in tempi non sospetti, si interessava della cultura arabo-islamica – stenta a sopravvivere. Oggi faccio parte del consiglio di amministrazione e devo dire che, nei suoi confronti, non c’è alcun interesse da parte delle istituzioni. Peraltro, questo Istituto dal 1921 pubblica, seppur con molti sforzi, una rivista, Oriente moderno, all’epoca rinomata in tutta Europa. Molti di noi si sono formati in quella sede, per passare poi alle varie università.

A mio avviso, si è determinata una vera e propria scollatura tra sapere universitario e opinioni correnti. Il nostro sapere è rimasto tra noi, tra gli specialisti, e non abbiamo avuto alcun riscontro con le opinioni correnti. In qualche modo, ci siamo anche sentiti penalizzati, invisibili, perché il nostro sapere non era in sintonia con una serie di improvvisati esperti, che invece vengono regolarmente invitati e ascoltati; sono loro, poi, che finiscono per veicolare le notizie che noi invece riteniamo approssimative, in quanto le stiamo studiando da una vita. Non crediamo di possedere la verità – sarebbe assurdo – ma sicuramente studiamo, leggiamo quello che gli altri scrivono, e lo facciamo senza intermediazioni. Non ci limitiamo a scrivere libri sugli altri, ma leggiamo direttamente gli altri, e questo è importante.

Siamo stati, dunque, invisibili e questa circostanza è apparsa ad alcuni come una sottrazione di responsabilità: si è ritenuto che fosse molto più comodo non apparire e non dire cose che potrebbero comportare una presa di posizione o comunque metterci in una luce sospetta; alla fine, non si può rimanere arroccati su posizioni strettamente accademiche o che riguardano solo l’antico e glorioso passato degli arabi.

Il nostro è un settore che ha sofferto moltissimo per questa invisibilità degli esperti e, nello stesso tempo, per il fatto che venissero chiamati esperti persone che non lo erano. Oggi basta fare un viaggio in Medioriente, basta scrivere un libro, fare un’intervista, andare in uno dei paesi arabi per essere automaticamente considerati esperti. Queste persone sono quelle che veicolano le informazioni sul mondo arabo, ma si tratta di informazioni sbagliate; sono queste, però, ad arrivare nelle nostre case, ai professori di scuola, a chiunque accenda la televisione, e non solo

Non essendo un politico, vorrei dire tutto quello che, a mio parere, non ha funzionato in Italia nel nostro settore. È grave, a mio avviso, che in alcune inchieste sulla religione islamica si siano fatte passare per esperti persone intervistate per la strada: persone che possono essere più o meno colte, possono dire cose giuste o meno, ma soprattutto non si possono prendere queste parole come oro colato. È come se, negli anni ’50, avessimo chiesto ai nostri immigrati in Europa di disquisire, ad esempio, sui Patti lateranensi. È chiaro che è interessante conoscere queste opinioni, ma non possiamo farle passare per opinioni di esperti o addirittura sostituirle a quelle; al contrario, è necessario interrogare esperti che possano confutare, eventualmente, queste opinioni.

Peraltro, siamo stati guardati anche con una certa dose di sospetto, perché sicuramente c'è una forte empatia, da parte nostra, nello studio del mondo arabo-islamico. In fondo, è un mondo al quale stiamo dedicando tutta la nostra vita. Da quando ho cominciato a studiare l’arabo non faccio altro, quindi è qualcosa che mi ha coinvolto totalmente.

Questo nostro coinvolgimento, dunque, non deve essere considerato con sospetto, né deve essere vista in noi una sorta di complicità nel voler presentare realtà abbellite, modificando la realtà. Il nostro sforzo, invece, soprattutto quando ci sono gravi conflitti, dovrebbe essere visto soltanto come un tentativo di comprendere – noi che abbiamo gli strumenti per farlo – e di far comprendere agli altri, ponendoci su una base di parità senza preconcetti. 

Mi viene in mente Bandali Saliba Jawzi, un intellettuale palestinese degli anni ’20, di origine cristiana, che sosteneva che i popoli d’Oriente dovranno passare per le stesse fasi della storia occidentale. Rifacendosi alle note teorie vichiane, dei corsi e ricorsi storici, sosteneva che non c'è differenza tra oriente e occidente e, in ogni caso, non c'è superiorità naturale di uno sull’altro e viceversa. ScrivevaJawzi: «Gli storici occidentali hanno elaborato i loro giudizi basandosi unicamente sulla storia, sulla loro storia, poiché conoscono poco la storia dell'oriente. Stando così le cose noi possiamo facilmente renderci conto delle stranezze e delle superficialità che essi scrivono a proposito di noi e della nostra storia. Molto approssimativamente, essi affermano che le nazioni orientali non hanno mai avuto e non avranno mai una storia nel comune senso della parola; come anche quando pretendono che i metodi della ricerca scientifica elaborata dagli uomini di scienza europea non potranno mai applicarsi alla storia dell'oriente. Che stravaganza, poi, affermare con tanta arroganza che i fattori e gli agenti che operano nella storia delle nazioni europee sarebbero diversi dai fattori e dagli agenti della storia della cultura e della vita delle nazioni orientali».

Jawzi anticipava di cinquant'anni quello che Edward Said avrebbe detto così chiaramente nel suo libro Orientalismo.Oggi parlo di questo perché la loro visione di come noi vediamo la loro storia è qualcosa che io avverto ogni volta che vado nei paesi arabi, ogni volta che parlo con gli intellettuali arabi. Loro sentono questa nostra arroganza di voler essere noi a spiegare a loro la loro storia. 

Mi avete invitato qui e mi chiedete che cosa si può fare. Lo ripeto, non sono un politico e penso che dobbiamo fare qualcosa per toglierci questo alone di superiorità, che dà molto fastidio al nostro interlocutore. È un fastidio che rende difficile un dialogo.

Si parla tanto di conoscere l'altro, ma si continuano a fare gaffes,anche ad altissimo livello. Ascoltiamo frasi come “noi dobbiamo conoscere l’altro, l’altro deve imparare a conoscere noi”. La frase è sottile, ma la differenza che essa riferisce è abissale: noi dobbiamo soltanto conoscere, gli altri devono imparare a farlo. Non si dice, invece, che siamo noi a dover imparare a conoscere l'altro, perché siamo noi più ignoranti verso l’altro, e non l’altro verso di noi.

Quando vado nei paesi arabi a tenere una conferenza, fra gli studenti, nelle università, ma anche quando parlo con le persone, vedo che lì conoscono la nostra letteratura. Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati è uno dei romanzi più noti in tutto il Medioriente, è stato tradotto in arabo, in persiano; c’è una bellissima traduzione di Badawi, un egiziano. Conoscono Calvino, Umberto Eco, ma anche Leopardi, Machiavelli e tanti altri. Nelle scuole di italianisti al Cairo, a Tunisi, in Marocco, ci sono studiosi molto preparati, che leggono e conoscono la nostra cultura. Hanno tradotto Goldoni, per non parlare di Pirandello.

Quando parlo, invece, con studenti italiani, anche del dottorato, con professori nelle scuole, per non parlare dei miei colleghi, le uniche opere conosciute della letteratura arabo-islamica sono il Corano e le Mille e una notte. Questa è una vergogna, non dobbiamo aver paura di dirlo. Forse non dovremmo dirlo davanti ai nostri parlamentari, ma questo è un problema importante, che comunque riguarda anche i francesi, i belgi, gli olandesi. Dico questo perché per anni ho fatto parte di un progetto chiamato Memorie del Mediterraneo, un progetto europeo finanziato dalla Fondazione europea della cultura di Amsterdam, che aveva come base la scuola di traduttori di Toledo.

In quell’ambito, noi traduttori ci confrontavamo e dicevamo le stesse cose. Pensavo che solo gli italiani avessero queste lacune, invece ho scoperto che lo stesso accadeva per gli olandesi, i belgi, i tedeschi: tutti avevamo gli stessi problemi, tutti dirigevamo collane piccole presso editori microscopici, e quando confrontavamo i numeri delle vendite dei nostri libri si parlava al massimo di 500, 600, 700 copie, per i massimi scrittori arabi, come per noi Calvino o Umberto Eco. Invece, case editrici che fanno passare per scrittori arabi persone che raccontano la propria vita, storie di donne maltrattate dal marito, vendono ventimila copie. Questa non è la cultura araba. Ed è su questo che ci dobbiamo interrogare, dobbiamo chiederci perché si riesce a far passare sempre una realtà distorta, che poi è quella più gettonata.

La mia riflessione non vuole essere solo un cahier de doléances, voglio anche cercare di formulare delle proposte. Oggi la lingua araba, che si insegna nelle nostre università, non è più una scelta esotica, com’era quando io ho cominciato a studiare l’arabo. All’inizio degli anni ’70 eravamo pochissimi studenti, due o tre, intorno al grande arabista.

Oggigiorno, invece, in tutte le nostre università, da Palermo a Trieste – ce lo potrà dire anche il collega che viene da Palermo –, solo al primo anno si iscrivono dai 100 ai 150 studenti. Nelle nostre strutture universitarie, nei nostri ordinamenti, però, la lingua araba viene ancora considerata una lingua “rara”, come se potesse definirsi tale una lingua che fa registrare 500 iscritti in quasi tutte le università. Assistiamo, peraltro, alla situazione per cui è un solo docente, per i tre anni più due della riforma, a insegnare a tanti studenti. Non abbiamo, inoltre, un numero congruo di lettori; nel nostro caso, ad esempio, ne abbiamo uno solo, e cerchiamo di dedicare un’ora a cento studenti per volta. Una situazione ridicola se si pensa, invece, a come viene incrementato l’insegnamento delle altre lingue. 

 

 

 

 

Credo che un’iniziativa da sviluppare sia l’incremento del numero di borse di studio – tipo Erasmus – per il Mediterraneo. È vero, ci sono progetti studiati dai nostri Ministeri, progetti europei, ma a volte implicano meccanismi farraginosi. Spesso, alla fine, riescono quegli accordi dove ci sono rapporti personali fra docenti di due università diverse del Mediterraneo, e in questo caso si riescono a coinvolgere alcuni studenti, anche se un  piccolissimo gruppo.

 

 

Un altro problema che abbiamo è che mentre noi riusciamo facilmente a mandare in quei paesi i nostri studenti, loro spesso non riescono a fare altrettanto, perché l’Italia non concede il visto. Accade spesso che il corso inizia, che sono invitati al dottorato, ma non possono neppure venire a sostenere l’esame perché le nostre ambasciate non concedono il visto.

Mi auguro che in futuro ci saranno degli esperti ad affiancare i nostri direttori degli istituti italiani di cultura all’estero. C’è una forte domanda, da parte degli arabi, di conoscenza della cultura italiana, ma questa domanda non viene sempre soddisfatta, perché noi, per nostre esigenze, mandiamo negli istituti italiani di cultura nel mondo arabo persone sicuramente molto qualificate – nulla da dire –, ma assolutamente lontane dalla conoscenza del mondo arabo-islamico. Quando si parla di cultura, non si possono mandare dei burocrati, ma persone che conoscono e possono interloquire con l'altro, in una forma paritaria.

Credo che questo aiuterebbe molto il futuro delle relazioni. Mi scuso per il cahier de doléances, ma per la prima volta sono stata invitata in questa sede e ne ho approfittato. Grazie.

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA. Siamo noi a ringraziarla, soprattutto per la concretezza. Adesso mi aspetto che un movimento di professori crei un’alleanza contro gli stereotipi. 

Do la parola a Majid El Houssi, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

 

MAJID EL HOUSSI, Università Ca’ Foscari di Venezia. Ringrazio gli organizzatori di questo incontro e soprattutto il Parlamento italiano per aver aperto questo spazio a chi viene dall'altra parte del Mediterraneo e anche a chi arriva da ancora più lontano.

Come avete sentito prima, stiamo vivendo momenti terribili, anni forse decisivi, in particolare per quanto riguarda il rapporto fra occidente e oriente, fra sud e nord, tra pace e guerra. Avvenimenti recentissimi, quotidiani, ci pongono il problema delle relazioni interculturali, o semplicemente quello del dialogo, che implica di per sé una riflessione approfondita.

Qual è stato, nel corso dei secoli, l’atteggiamento della cultura europea e, in generale, occidentale nei confronti della pace? Qual è l'impostazione del confronto con le altre culture? Come interloquire con gli arabi, che sembrano addirittura aver girato le spalle al Mediterraneo? Sono interrogativi ai quali mi pare si debba rispondere con urgenza, per contrastare la generale sfida antiumanista, sollevata da un gelido vento nichilista, e la conseguente sensazione dell'inutilità di ogni lavoro di confronto.

Si tratta di un atteggiamento che si va pericolosamente facendo strada. Per porsi nella condizione di un rapporto dinamico e costruttivo con un'altra cultura, occorre anzitutto essere consapevoli dei valori e dei limiti della propria cultura, ed essere capaci – senza rinunciare all’originaria fondamentale radice – di operare una specie di completo svuotamento, una messa fra parentesi di ogni pregiudizio. Solo operando in tal modo, contraendo la nostra posizione, possiamo consentire alle voci e alle significative dimensioni provenienti dalle altre culture di interpellarci, di coinvolgerci nella loro intatta ed inalterata originarietà.

 


Dobbiamo insomma procedere fino a quel sedimento primo, fondo originario che connette e può far circolare le varie prospettive di cultura. Si tratta, in breve, di un triplice impegnativo lavoro: la valorizzazione selettiva della propria cultura, l'assunzione consapevole del proprio limite, infine la ricognizione approfondita per cogliere simultaneamente gli intimi intrecci tra le varie culture percepite, per quanto possibile, in quella rosa di significati più profonda, e dunque non deformata dalle contingenze del contemporaneo.

La semplicità di queste battute sembra rinviare ad un’operazione facile. Operare correttamente in tale direzione, invece, è impresa difficilissima. Si tratta di assumere l’interezza della propria condizione umana, senza complessi né di superiorità né di inferiorità, manifestando rispetto verso l'altro e la sua cultura, seguendo un assiduo contrappunto fra dimensioni del macrosociale e dimensione del microsociale. Questo è l'arduo abito di virtù al quale siamo richiamati: manifestare ed esigere rispetto, nella prospettiva di guardare negli occhi sia l'altro, in quanto persona, sia l'altra cultura, senza disamore di sé né dell’altro.

La semplice sfida dell’umanesimo esige di guardare all’altra cultura senza spirito di sufficienza e alla propria senza disistima. Questo è quello che ripeto, oramai da una trentina d’anni, in tutti i miei interventi. 

Per un dialogo corretto ed equilibrato occorre creare lo spazio del rispetto. L’universo attuale non si compone della sola Europa – lo avete sentito prima – e oggi la storia dell’Europa non costituisce più in sé la storia dell’universo. Altri popoli, che vivono in altri continenti, sono saliti oramai più volte alla ribalta dell’attualità mondiale. In ogni parte del mondo hanno un ruolo nello scenario della storia universale, mentre l’occidente continua ad evocare il passato sotto forma di un mappamondo medievale, costituito unicamente da un’Europa che contorna l’oceano, un’Europa i cui poli spirituali, Atene e Roma, prendono più o meno il posto del paradiso. Che anche altri popoli ed altri continenti esistano come eguali, che rivendichino un loro posto e una loro funzione, non solo nella storia universale, ma anche nella storia occidentale, è di certo un fatto che non si può ignorare, in un’epoca in cui i confini hanno significati sempre più labili.

Fra questi popoli che hanno profondamente segnato il corso degli eventi vanno annoverati gli arabi, un popolo al quale l’occidente – e non solo, direi l'umanità intera – deve moltissimo. Nonostante tutto, ancora oggi, nei trattati di storia italiani sono raramente menzionati.

Non sarebbe forse tempo, oramai, di interrogarci – e mi chiamo dentro questa operazione, per i miei quarant'anni di vita in Italia, condividendo, per la mia vita personale, familiare e di cittadino, quanto questo paese ha creato – non solo su ciò che ci separa, ma su ciò che ci unisce, su ciò che abbiamo in comune? L'incontro fra culture è sempre esistito ed è una risorsa inestimabile di arricchimento e di rigenerazione. Tutto ciò che ci circonda, ciò che abbiamo introdotto dal punto di vista linguistico (questo è il mio mestiere, sono linguista e mi interesso di arabismi nelle lingue romanze) e che fa parte della nostra vita quotidiana, è per una buona parte dovuto ad una lingua straniera. Il caffè, lo zucchero, la limonata, la caraffa, la giacca, il materasso, il divano e tante altre parole provengono dall’arabo, sono arabismi appunto. Ce ne sono a centinaia nelle lingue romanze, particolarmente in italiano, e in tutti i campi: matematica, filosofia, letteratura, economia, medicina, botanica, farmacologia, nutrizione, costume, e via elencando. Insomma, dall’articolo d’uso corrente a quello scientifico e raro. 

Con questo breve riferimento – il tempo è tiranno – agli arabismi vorrei riflettere su un possibile e diverso approccio all’altro, a una conoscenza che poggi su altre basi rispetto a quelle che emergono spesso nella cultura europea, dove si radica e persiste un paradigma esclusivistico, secondo il quale le altre culture sono indotte alla secca alternativa tra assimilarsi o andare ad un confronto aspro, con la prospettiva, in questo secondo caso, dell’emarginazione e dell’esclusione. A questo va aggiunto un ulteriore elemento insito nella democrazia di massa, la quale non esclude, anzi contempla l’emarginazione dei dissenzienti rispetto agli orientamenti della maggioranza, come aveva ben compreso Tocqueville in La democrazia in America.


Tuttavia, la tentazione di emarginare chi non si omologa al corpo sociale ha una prima radice assai più antica. Quando si analizzano le motivazioni profonde dei conflitti fra i popoli, sia quelli che sfociano in guerre guerreggiate, sia quelli che portano a crisi e incomprensioni, spesso si trova una vera incomunicabilità fra paradigmi culturali differenti. Tali paradigmi poggiano sulla presentazione dell'altro popolo in termini di stereotipo, spesso di caricatura, come ha ben intuito Bergson ne Le due fonti della morale e della religione.

Uno dei grandi rimedi all’atteggiamento dello stereotipo consiste nello sforzo di conoscere le culture degli altri popoli attraverso contatti, scambi, rapporti diretti, ed anche attraverso lo studio attento ed approfondito, come ha detto prima la signora Camera D’Afflitto.

Quando sono capace di conoscere alcune espressioni ad alto livello di una cultura – un poeta, un pensatore –, posso magari non amarla, ma non posso più disprezzarla, né trattarla con spirito di sufficienza. Si determina in me, attraverso la mia autoformazione, una metamorfosi radicale e se qualcuno mi propone una lettura per stereotipi – generatori di intolleranza e di ridicolizzazione – la mia conoscenza, ma anche la mia riconoscenza mi spingono a reagire, perché so che in quella cultura c'è qualcosa che attiene all’essenza dell’umanità, ad un’umanità che condivido con l’altro. Ciò che vale nei confronti dell’altro uomo, come singolo, vale anche analogamente per il rapporto con l’altro popolo, con l’altra cultura, in un contrappunto continuo fra la trama generale, costituita dall’organicità sociale, e quella febbrile, costituita dalla singola persona.

Occorrerebbe, allora, che i programmi educativi, gli itinerari scolastici, fossero meno esclusivisti, meno provinciali, meno protesi a valorizzare i nostri valori soltanto, valori lodati sovente con spirito di rivalsa nei confronti di altre prospettive, di altre tradizioni. In conclusione, di fronte alle insidie e alle difficoltà del rapporto fra la cultura europea e le altre culture, bisogna adottare una metodica con una duplice articolazione: svolgere una netta autocritica della cultura europea, non già per crogiolarsi negli errori del passato, ma per affrontarli con coraggio.

È nel cuore della civilissima Europa – non dimentichiamolo –, nell'Europa di Goethe e di Beethoven, che è affiorato lo spirito di Auschwitz. Auschwitz come evento simbolico che riassume tutte le intolleranze possibili nei confronti di tutte le culture. Questo è il paradosso dell’Europa, ma è anche quello, ahimè, della democrazia.

Cosa significa tutto questo? Che dobbiamo semplicemente lasciarci andare e accettare il male come ineluttabile, proprio quando in Europa stanno rinascendo preoccupanti fatti di fondamentalismi? Credo, invece, che dobbiamo tutti assumerci il compito di operare, dall'interno della cultura europea, un discernimento autocritico, avendo ben chiaro il genuino senso dell’autocritica, che è veramente tale se consente di riprendere senza pregiudizi quello scambio di risorse e di doni, materiali e spirituali, che costituisce l’essenza del dialogo fra culture. Tutto consiste, in definitiva, nel capire come va tentata tale operazione autocritica, per non spegnere la vita e il dialogo, ma per stimolarli.

Posso solo, alla fine, suggerire alcune linee di azione: 1) un lavoro approfondito ed impegnativo di analisi, al fine di comprendere; 2) l’ampia diffusione degli esiti di tale sforzo, che devono quindi circolare ed essere il più possibile condivisi, perché possano fondare una cultura comune e un sentire comune, dove l'antico e il diverso sono creatori del nuovo.

Questa è la memoria futura.

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA. Prima di dare la parola al prossimo ed ultimo relatore, vorrei esprimere una considerazione. Un elemento che è emerso da tutti gli interventi è l’enorme potenziale di un efficace scambio universitario, una sorta di Erasmus – effettivo e non selettivo, come invece è adesso – mediterraneo. Queste sarebbero risorse molto ben investite, ed io spero che potremo arrivare ad includere una proposta di questo genere nella nostra risoluzione.

 


Spero anche che nella nostra prossima riunione potremo avere qualche notizia su una proposta italiana – o magari europea – di un’università o un istituto euromediterraneo, che faccia rete in modo paritetico tra gli istituti universitari delle due sponde. 

Su questo fronte so che c’è un ragionamento in corso presso il Governo italiano, e spero, a breve, in una proposta concreta.

Do ora la parola al professor Antonino Pellitteri, dell'Università di Palermo.

 

ANTONINO PELLITTERI, Università di Palermo. Ringrazio innanzitutto gli organizzatori di questa importante conferenza, l'onorevole Tana De Zulueta e coloro che hanno creduto all'importanza della presenza di esperti, che molto spesso, come diceva la collega che mi ha preceduto, sono tenuti ai margini di lavori di questo tipo. È la prima volta che accade, forse è un cambio di prospettiva, come diceva l'onorevole De Zulueta introducendo i lavori di questo convegno.

Sono siciliano, insegno Storia dei paesi islamici e islamistica all'università di Palermo, quindi mi occupo di Islam. Vorrei iniziare citando un hadith, un detto o fatto riferito al profeta, che ho imparato da subito, stando del mondo arabo e in particolare a Damasco, città che amo tantissimo: «Sii nel mondo come un forestiero o un viandante». È un detto che ho imparato molto presto, e ve ne spiego il motivo. Le prime volte che andavo prima al Cairo, poi a Damasco, e mi presentavo agli uffici dell’immigrazione per ottenere il permesso di soggiorno e l’estensione del soggiorno, guardando il mio passaporto mi dicevano: «Sei un siciliano, non uno straniero». Questa frase mi impressionò favorevolmente fin da subito: ero uno di loro. La mia definizione di occidentale, di straniero, non aveva più senso in quell’ambito.

Ho cominciato oltre trent’anni fa ad occuparmi di mondo islamico, e l'ho fatto sulla scia di letture che mi prospettavano un mondo lontano, fantasioso, fatto di esotismo: le lussurie del “viver turchesco”, di ottocentesca memoria, e tutto il resto. Con il passare del tempo, mi sono accorto, negli anni della maturazione, che c'era qualche altra cosa che mi intrigava; non soltanto queste letture, ma il fatto di riscontrare un rapporto di complicità tra la storia dell’Islam e le nostre storie (non parlo solo della Sicilia, ma di un più vasto arco di situazioni nel mondo euromediterraneo).

Ecco, allora, che l’Islam si connotava fin da subito non come episodio marginale. Nell’800, e fino agli inizi del ‘900, il dibattito dell’intellettualità siciliana è stato un dibattito molto importante. Amari, della cui nascita quest'anno ricorre il duecentesimo anniversario, aveva sottolineato il significato della particolare spiritualità della Sicilia, scrivendo il famoso Storia dei musulmani di Sicilia, per la prima volta tradotto in arabo – cosa molto importante – qualche anno fa, in Egitto. La Sicilia risulta come una metafora di questo rapporto.

Ricordo una notizia molto illuminante, sotto questo aspetto, che nei libri di storia non è riportata, e neppure nelle biografie dell'emiroAbd al-Qadir al-Jaza'iri, cioè Abd al Qader, ricordato come il capo della resistenza algerina all’aggressione francese del 1830. L’emiro Abd alQader, dalla Francia, nel 1852 si recava in Sicilia, per sua richiesta. La notizia ufficiale è del Giornale di Sicilia: «Giugno 1852. L’emiro Abd al Qader scende a Messina, chiede di visitare Taormina e Giarre».  Taormina, la famosa città conquistata dai Fatimidi e, dal nome del califfo Al Moez, diventata Almoezia. L’emiro, dunque, visita Taormina e, pieno di nostalgia, ricorda i versi di un grande poeta siciliano, forse il più grande poeta siciliano fino ad oggi, Ibn Hamdis, poeta siciliano, arabo e musulmano. Questo fa pensare a una dimensione dell’Islam che non è un episodio marginale.

Nella visione eurocentrica, oggi si pensa che l’Islam sia qualcosa di diverso, qualcosa che appartenga all’oriente. Niente di tutto questo. L’Islam non è un fenomeno orientale, se per orientale e per oriente si intende qualcosa di alieno rispetto a noi o all’occidente.

L’Islam, fin dal suo avvento, fin dalla conquista dei grandi territori dell’Asia e dell’Africa, si struttura come sistema in cui concorrono tante culture: non soltanto le religioni monoteistiche, ma anche aspetti delle culture non monoteistiche.


 

Per dirla in breve, l’Islam si struttura in maniera tale da formare un sistema che non è – come noi pensiamo – soltanto il rapporto fra politica e religione, fra sacro e profano. Questo è abbastanza superficiale. Tante altre culture sono un frammisto di sacro e profano, politica e religione, non è un fatto squisitamente islamico. Tuttavia, l’Islam va oltre questa unione raccogliendo e, in maniera originale, trasmettendo valori e idee di culture precedenti. Questa è la novità e l’originalità dell’Islam, ossia le modalità con cui trasmette questi saperi, non tanto il fatto di prendere da culture precedenti.

Non si può parlare dell’Islam senza tener conto anche dei cristiani, che del mondo dell’Islam fanno parte. Ecco perché parliamo di “sistema” Islam, che si struttura in questa maniera. Sarebbe difficile parlare di una Umma o di un Islam senza tener conto di elementi importanti, non soltanto nel vicino oriente, che riguardano il cristianesimo, l’ebraismo e quant’altro.

Questo mi sembra fondamentale per operare quel cambio di prospettive che qui si chiedeva: far che questa visione dell’Islam non sia una visione di altro, di diverso. Non è diverso, non è altro. Qualcuno l’ha definito l’altro occidente, a ragione. Bausani criticava l’orientalità dell’Islam: l’Islam non è orientale, è qualcosa che ci appartiene.

Pensare ad un’identità europea che non tenga conto di una specifica identità euromediterranea è assurdo, ma è assurdo anche pensare di marginalizzare, da questo specifico euromeditarraneo, l’elemento Islam, che è elemento fondante di questa visione unitaria. Se teniamo conto di questo, possiamo discutere di questo cambio di prospettive.

A questo punto, vorrei dare alcune notizie partendo dalla mia esperienza personale, palermitana; un’esperienza che, in questi ultimi tempi, è abbastanza attiva nel campo delle relazioni con le università arabe. In particolar modo, come molti sapranno, Palermo si è fatta interprete e patrocina un’iniziativa molto interessante, quella della fondazione di un’università italo-libica. Tale università raccoglie le tre università siciliane e università della Libia (al-Fatih di Tripoli, Garyunis di Bengasi e Sebha nel Fezzan).

È un’esperienza abbastanza importante, riconosciuta recentemente dal Ministero degli esteri italiano, che ci pone su un livello diverso di cooperazione con il mondo universitario e con l'accademia del mondo arabo. Questo non significa che noi non allargheremo il discorso alle altre università dei paesi arabi, con cui abbiamo già profonde relazioni. Il problema che abbiamo individuato è quello dell’alta formazione, che è il tema specifico, attraverso l'istituzione di master – ne è già attivo uno –, studi sui paesi arabi africani. Ne sono in progetto altri due, uno con la facoltà di medicina, l’altro con la facoltà di agraria sulla desertificazione, questioni che interessano sia l’Italia meridionale e la Sicilia sia il mondo arabo.

Credo che analoghe iniziative siano in corso in Spagna. La Junta de Andalusia, per esempio, ha anch’essa in cantiere una serie di progetti di questo tipo con il Marocco, ma anche con la Libia e con altre realtà del Mediterraneo.

Come diceva il Ministro Intini, sarebbe auspicabile che ci fosse un solo ponte, e non tanti ponti separati in Europa. Comunque, visto che in questo momento non c'è un solo ponte, cerchiamo almeno di coordinare quelli che si vanno costruendo.

Questione importante per noi è la visibilità, ma anche la diffusione e il rafforzamento dell’insegnamento dell’arabo e delle materie caratterizzanti la cultura islamica, la storia dei paesi musulmani, nelle nostre sedi.

Cito ancora la Junta de Andalusia, che recentemente ha firmato un progetto – mi sembra un esperimento importante – per cui l’arabo verrà insegnato nelle scuole, cosa che avviene anche in Sicilia, da tempo, ma senza un coordinamento istituzionale. Credo che questo progetto andrebbe perseguito, non soltanto per gli immigrati e perché ormai vi sono delle classi miste, ma perché la lingua araba e la cultura islamica hanno influenzato tanta parte della cultura dell’Italia meridionale e della Sicilia in particolare. La lingua araba è la lingua dei miei antenati.


Fondamentale, poi, è il discorso dello scambio degli studenti. Un progetto Erasmus con il Mediterraneo sarebbe ottimale; dovremmo studiare come organizzarlo, considerato che il progetto Erasmus con l'Europa non funziona benissimo. È necessario rivedere gli aspetti meno validi e capire se con il mondo arabo e con il mondo islamico si possano aprire tavoli di trattativa su questa tematica importante.

Il problema dello scambio degli studenti è fondamentale. Il giovane ha una forma mentis diversa rispetto a chi ha già una visione consolidata. Il confronto, il dialogo è su posizioni decisamente diverse, è su posizioni che possono cambiare da un momento all'altro; vi è maggiore apertura, disponibilità a capire e a comprendere. Quello dello scambio degli studenti, insomma, è un aspetto fondamentale. I nostri studenti che vanno nei pesi arabi attualmente lo fanno con grande difficoltà e fatica; e con fatica ancora maggiore studenti arabi vengono in Italia e in Europa. So che la Gran Bretagna e la Francia accolgono centinaia di studenti libici con grande facilità. L’Italia, invece, ha ancora qualche problema nel rilascio dei visti, come si diceva, ma anche nell’accoglienza e nell’organizzazione.

Nelle nostre università mancano i centri di accoglienza internazionali, che invece andrebbero costruiti, soprattutto nelle università – in Sicilia, nell’Italia meridionale, ma anche a Venezia e Genova – che ancora conservano per gli arabi una memoria e una coscienza collettiva di grande importanza, che è una realtà, non è solo un mito o un’immaginazione. 

 

TANA DE ZULUETA. Nel dare avvio al dibattito, comunico che ci sono cinque iscritti a parlare. Se ciascuno si limita a contenere il proprio intervento nei cinque minuti, i nostri relatori potranno anche rispondere.

 

Il primo iscritto a parlare è Bernard Deflesselles, membro dell’Assemblée Nationale della Francia. Ne ha facoltà.

 

BERNARD DEFLESSELLES, Assemblée Nationale della Francia. La ringrazio, Presidente. Stamani abbiamo ascoltato gli interventi di specialisti ed esperti, che ci hanno tratteggiato un interessante quadro dei nostri scambi e di quanto sia necessario compiere. Ma desidero rilevare che, forse, ci siamo soffermati troppo sulla storia e sull’autoflagellazione, mentre mi sembra che si debba andare oltre. A nulla giova rivisitare continuamente il passato, che ci appartiene, fa parte della storia delle nostre civiltà e delle nostre culture, mentre è necessario andare avanti. Il nostro compito qui nell’APEM, in Commissione cultura, è procedere, prendere spunti all'azione.

Ci chiediamo come intervenire in concreto, per ottenere questo riavvicinamento delle culture. Fernand Braudel diceva che, per spiegare, bisogna andare più indietro possibile. Siamo andati molto indietro e abbiamo rivisitato la nostra storia per spiegare il panorama attuale.

Ora, però, dobbiamo andare avanti. Il ruolo del Parlamento euromediterraneo, stabilito dalla Convenzione di Barcellona del 1995, che non funziona bene, consiste nel dare slancio e decidere concretamente alcuni interventi. Chiediamoci dunque cosa facciamo concretamente, a parte discutere, tenere interessanti conferenze e rivisitare il passato. Ecco la domanda da rivolgere a noi stessi, e a cui  rispondere in base al ruolo e al compito dell’APEM e della nostra Commissione cultura.

Possediamo uno strumento, sia pur modesto, che forse possiamo valorizzare: la Fondazione Anna Lindh. Ritengo che questo rappresenti il miglior strumento per vincere la guerra delle ignoranze, citata poc’anzi dal Vice Ministro Intini. Nella Fondazione Lindh lavorano circa venti persone di dieci nazionalità diverse. Questa è mescolanza di culture, comprensione e rispetto dell'altro. Cerchiamo dunque di valorizzare questo embrione di strumento che si trova ad Alessandria, di far sì che porti avanti la sua missione e la estenda.


Il 27 febbraio scorso si è adottata una risoluzione in Commissione cultura. Ho avuto la fortuna di guidare un gruppo di lavoro per conto del Presidente dell’APEM, per valutare come utilizzare la Fondazione Lindh migliorandone l’operato. Il 27 febbraio si è adottata all'unanimità questa risoluzione, poi fatta nostra il 27 marzo in sede di APEM, in riunione plenaria, e avremmo dovuto farne tesoro. Poi però abbiamo avanzato dei suggerimenti affinché l’APEM fosse meglio rappresentata nel Consiglio dei governatori, che decidono sugli statuti e sui fondi. Dovremmo essere maggiormente coinvolti se vogliamo aiutare questo nostro braccio armato – in senso culturale – e quindi partecipare alle discussioni, facendo in modo, ad esempio, che tre commissari della Commissione cultura siano rappresentanti in quel Consiglio.

Si era suggerita l’idea di designare per la nostra Commissione un relatore che seguisse l’andamento della Fondazione Lindh, per essere al corrente del lavoro svolto e delle nostre possibilità di intervento. Un altro suggerimento proposto alla Commissione europea consisteva nel tentativo di superare i vincoli del regolamento finanziario, che imbriglia troppo la fondazione, e impedisce il progredire dei suoi progetti.

Esistono grandi sforzi da compiere. Non tutti i paesi, infatti, hanno attualmente pagato la loro quota alla Fondazione. Anche su questo dobbiamo guardarci negli occhi, e adoperarci tutti. Si è compiuto uno sforzo anche in direzione delle nostre reti culturali: siamo 35 paesi, e, se 35 paesi compiono un grosso sforzo verso le loro reti associative e culturali, ne conseguirà un indubbio progresso, qualora ci si faccia valere in sede decisionale del Bureau dell’APEM, di Parlamento euromediterraneo e di Parlamento europeo. Esiste una serie di aspetti che abbiamo esaminato e proposto, rispetto ai quali bisogna passare alla fase di concretizzazione.

Certo, rappresentiamo un Parlamento in cui si realizza la democrazia parlamentare, senza fondi concreti e sufficienti influenze sui governi, e tuttavia forti del ruolo di parlamentari, ed è questo il momento opportuno per organizzarci, per capire profondamente cosa realizzare con l'aiuto del nostri esperti, per forzare il destino. È stata descritta una situazione assai complicata e difficile, quindi è adesso che bisogna intervenire in concreto. Il mio auspicio è che sia questa la strada da intraprendere, altrimenti continueremo ad agire come avviene da anni, facendo soliloqui sulle difficoltà, sulle incomprensioni, sulla storia, sul passato, su ciò che sia necessario fare o evitare. Personalmente, signora Presidente, la invito a raccogliere la bandiera della concretezza, affinché insieme riusciamo a influenzare i decisori e gli Stati ci forniscano i mezzi necessari a far funzionare i nostri limitati strumenti.

Questo costituisce il mio suggerimento a favore dell'azione.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie, monsieur Deflesselles. Siamo coinvolti e impegnati istituzionalmente in questo, e ci adopereremo con convinzione.

Farà senz'altro parte del lavoro di questa Commissione dare seguito anche al suo impegno, ma soprattutto, come evidenziato all'inizio, questo strumento della Commissione cultura rappresenta l'unica istituzione davvero euromediterranea, che, quindi, deve funzionare e si deve far conoscere.

È iscritto a parlare Ghanem Abu Rabie, membro dell’House of representatives della Giordania. Ne ha facoltà.

 

GHANEM ABU RABIE, House of representatives della Giordania. Nel nome di Allah, il clemente e misericordioso, sono onorato. Sono incaricato di parlare a nome del deputato Suleiman Abu Gaith. Onorevole De Zulueta, Presidente della Commissione cultura, formulo i miei auguri per la sua presidenza.

Sono evidenti fin da ora la sua vitalità, la sua attività e la sua voglia di lavorare. Onorevoli membri della Commissione cultura Euromed, onorevoli deputati, signore e signori, porgo a voi il saluto del Presidente del Parlamento giordano e del Presidente della Camera dei deputati, che formulano i loro auguri per il vostro sforzo, per il vostro lavoro in questa Commissione, alla luce dei successi e dei risultati ottenuti in passato, auspicando che la nuova Commissione prosegua segnando una tappa gloriosa nel futuro percorso culturale Euromed. Desidero esprimere il nostro profondo rispetto verso il vostro ospitale paese, che ha sempre stretto calorosi rapporti con il mondo intero, ma soprattutto con il mondo arabo. La civiltà e la cultura di questo paese hanno tanto dato al mondo contribuendo al progresso intellettuale ed esercitando per migliaia di anni un’influenza notevole nei vari paesi in ambito culturale, scientifico ed umano.

Ieri è stato citato lo scontro tra civiltà. Vorrei rettificare, sottolineando che le civiltà non possono scontrarsi, bensì trarre beneficio le une dalle altre, dialogare, incontrarsi e creare un turbinio di pensieri, a livello individuale e sociale.

La Giordania, sotto la saggia guida dei suoi governanti, ha sempre insistito sul messaggio di Amman, sulla tolleranza dell'Islam, guardando al dialogo interreligioso. Ribadisco quindi che non esistono scontri fra civiltà e che le future generazioni hanno bisogno di fratellanza e di pace, costruite sulla restituzione dei diritti ai legittimi proprietari.

Da Roma lanciamo un appello alla tolleranza, alla fratellanza e all'uguaglianza fra i popoli. Grazie per la cortese attenzione, nell’auspicio di ogni successo per questa Commissione, in modo da demandare alle generazioni future un messaggio di fratellanza e di rispetto dell'altro.

Ribadisco all'onorevole Presidente la necessità che l'idea di una Università Euromed venga realizzata, affinché si possa realmente contribuire alla cultura Euromed.

Grazie, e che la pace di Allah sia con voi tutti. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie. È iscritta a parlare l’onorevole Beatrice Patrie, membro del Parlamento europeo. Ne ha facoltà.

 

BEATRICE PATRIE, Parlamento europeo. Parlo a nome del Parlamento europeo. Vorrei approfittare di questa occasione innanzitutto per congratularmi ed augurare alla collega Tana De Zulueta ampio successo nella sua funzione.

Sicuramente riprenderà con grande dinamismo il testimone passatole dal senatore Greco, che si è impegnato molto per i lavori della Commissione cultura dell’APEM.

Vorrei rapidamente aggiungere alcune osservazioni riguardo i lavori di questa mattina e gli eccellenti contributi dei relatori. Quando ho letto l'ordine del giorno, mi sono spaventata nell’apprendere che avremmo dovuto ricercare una cultura euromediterranea comune, sorta di ricerca del Sacro Graal, della pietra filosofale. Ritengo che la relazione euromediterranea nella sua dimensione politica, economica, culturale ed umana, non sia una relazione scontata, ma rappresenti piuttosto l’espressione di una forte volontà politica e del nostro desiderio di raccogliere insieme alcune sfide con le quali il mondo globalizzato ci induce a confrontarci.

Riprendo una delle osservazioni di Pellitteri, che ricordava come i suoi avi parlassero arabo.

Ebbene, i miei avi europei non hanno mai parlato arabo, bensì gaelico, perché provengo da una regione francese segnata dai celti, matrice culturale che condividiamo anche con altri paesi del Mediterraneo, in particolare con gli spagnoli della Galizia.

Quindi, dobbiamo ricercare, piuttosto che una cultura comune nell’Euromediterraneo, una definizione di area culturale comune, per portare avanti un progetto politico comune in un territorio culturale comune, che raccolga i 25 paesi dell'Unione europea – domani 27 – e poi gli amici della sponda sud del Mediterraneo.

Vorrei poi esprimere una mia inquietudine, legata alla constatazione di come oggi il centro di gravità dell'Europa – è una preoccupazione, ma anche una gioia – si sia spostato verso l'est. Il Parlamento europeo, tra qualche settimana, assegnerà il premio Sakharov per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali ad un candidato dell'Europa orientale, anche se il primo ad aver ottenuto il massimo dei voti era un libanese.

Abbiamo ritenuto che, dopo la guerra in Libano, per il Parlamento europeo fosse importante assegnare questo premio ad un libanese, ma, come dicevo, il centro di gravità si è invece spostato verso est. Questo evidenzia l'importanza delle istituzioni del Processo di Barcellona, che sono il filo che tiene insieme questo progetto euromediterraneo, e, al di là delle critiche che spesso muoviamo al Processo di Barcellona, dobbiamo cercare di tenere saldo questo filo, soprattutto attraverso la dimensione culturale. 

Vorrei inoltre ricordare – anche perché è una questione di cui non abbiamo parlato questa mattina – che la diversità e l'espressione culturale comune di cui siamo alla ricerca dipendono fortemente dall'esercizio delle libertà fondamentali nei diversi paesi dai quali proveniamo. Queste libertà fondamentali, che comprendono la libertà di espressione, la libertà di stampa, il rispetto delle minoranze, come evidenziato questa mattina, offrono molto in termini di ricchezza e di espressione culturale.

L'espressione culturale si basa anche sulla capacità dei paesi di assicurare la giustizia sociale, e rappresenta anche un elemento essenziale della coesione sociale, in particolare per quanto riguarda le donne, che devono avere il giusto ruolo anche nel lavoro.

Non intendo affermare che il rispetto di tutte le libertà fondamentali debba rappresentare una premessa, una conditio sine qua non per le nostre relazioni, sebbene come partner euromediterranei si debba concordare una base democratica comune, bensì che la dimensione culturale debba essere al centro – e non conditio sine qua non – del dialogo politico euromediterraneo. 

Per terminare, vorrei aggiungere che, avendo conservato gli ordini del giorno dei Ministri degli affari esteri sin dall’inizio, da Barcellona, si constata che il dialogo, la questione culturale, il confronto tra le civiltà non sono mai stati al centro di questi ordini del giorno, giacché le conferenze euromediterranee dei Ministri degli affari esteri sono sempre state imperniate su preoccupazioni più europee che mediterranee, come la lotta contro il terrorismo, contro la droga, contro l’immigrazione illegale.

Si tratta di temi sicuramente importanti, di sfide che dobbiamo fronteggiare insieme, ma – ed è questa la mia proposta – bisognerebbe accordare un posto prioritario alla dimensione culturale, in quanto elemento del dialogo politico. Come assemblea euromediterranea, dobbiamo chiedere che il tema centrale della Conferenza euromediterranea dei Ministri degli esteri e anche dei Capi di Stato delle due sponde del Mediterraneo sia  costituito proprio dal dialogo tra le culture. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. L’onorevole Allam è stato stimolato dalle sue parole, quindi desidera rispondere. 

 

KHALED FOUAD ALLAM, Deputato. Volevo risponderle, perché ho l'impressione che da anni si ruoti attorno alla questione euromediterranea. Infatti è vero che c'è la Fondazione Lindh, ma si tratta di una fondazione debole, che non è ancora riuscita – forse vi riuscirà domani – ad incidere sul piano politico.

Al di là delle questioni culturali, quindi, esiste un vizio di forma, perché nel dibattere queste questioni si rileva un grande assente, ovvero la dimensione politica. Forse, qualche tempo fa, i politici avrebbero potuto imitare l’operato degli europei dopo la Seconda guerra mondiale, quando fu creato il Consiglio d’Europa a Strasburgo, organismo essenzialmente culturale, ma con la precipua funzione politica di incoraggiare ed esortare i governi di paesi combattutisi per anni a cambiare il percorso politico. Se, dunque, non arriveremo nei prossimi anni a creare una istituzione, di cui la politica ha bisogno – siamo un'assemblea parlamentare senza il carattere di una istituzione fissa –, che rappresenti uno spazio politico in cui affrontare anche gli scambi culturali, quindi un organismo simile al Consiglio Europa per tutto il Mediterraneo, renderemo la cultura una sorta di falsa coscienza delle grandi questioni che non si riescono a tradurre sul piano politico. Dobbiamo quindi riflettere sulla necessità di creare uno spazio politico che risponda alle aspettative delle due sponde del Mediterraneo. Potremmo ancora attendere dei secoli, ma, senza creare una volontà politica, non andremmo molto lontano. 

 

TANA DE ZULUETA. Lei ci ha lanciato una sfida, e Allam ce ne ha lanciato una ancora più grande.

È iscritto a parlare Khaled Alaboud, membro dell’Assemblea del popolo della Siria. Ne ha facoltà.

 

KHALED ALABOUD, Assemblea del popolo della Siria. Anzitutto, consentitemi di salutare e ringraziare il Presidente per questa meravigliosa gestione dei lavori, che reca una impronta particolare e aiuta a comprendere come intervenire a livello della cultura euromediterranea.

Onorevole Presidente, egregi e cari amici, vorrei innanzitutto protestare in modo civile riguardo all’ipotesi di una cultura univoca del bacino del mediterraneo.

Questa mia protesta è collegata sia alla produzione di una cultura che alla sua esportazione, perché il concetto si rivela difficile. Invito ad una cultura euromediterranea, basata sulla comprensione delle altre culture, senza adottarne una in particolare, ma comprendendole tutte in profondità.

È importante capire le varie culture presenti e anche come la cultura possa trasformarsi in ideologia. In un intervento è stato affermato che la cultura può trasformarsi in una ideologia, ma bisogna sottolineare che ciò può verificarsi qualora la cultura venga accerchiata, aggredita. In quel caso, le componenti principali di questa cultura, per una sorta di autodifesa, si indirizzano in modo aggressivo verso una sua trasformazione in ideologia.

Questo è un dilemma, una questione filosofica che è doveroso studiare. Non vorrei dilungarmi troppo, ma vorrei sapere chi abbia affermato che lo scontro di culture si basi sulla religione. Esiste infatti uno scontro fra civiltà, a livello sia regionale che mondiale, ma non basato sulla religione. Ritengo che altre ideologie vogliano fare della religione una componente dello scontro. Non mi riferisco a una sola religione, ma ribadisco che si assiste a un attacco contro le varie religioni, nell’intento di coinvolgerle in un progetto di scontro.

Pertanto, il progetto sembra uno scontro di civiltà. Sono contrario a uno scontro di civiltà, ma esiste uno scontro di culture, che sta oggi diventando uno scontro di ideologia.

Mi dispiace per essermi dilungato troppo e ringrazio per l’attenzione.

 

 

TANA DE ZULUETA. È iscritto a parlare Carlos Carnero, membro del Parlamento europeo. Ne ha facoltà.

 

CARLOS CARNERO, Parlamento europeo. Prima di tutto rivolgo i miei auguri alla Presidente di questa Commissione. Sono sicuro che il suo lavoro sarà importante per questo bacino mediterraneo nel quale tentiamo di trovare una comprensione reciproca e comune.

Esiste un termine che mi sembra molto importante, «multiculturalità». Se ne è parlato molto in Europa, ma bisognerebbe parlarne anche nella regione mediterranea.

Ci chiediamo se multiculturalità significhi, ad esempio, la presenza di tradizioni, religioni, storie diverse, o piuttosto una contrapposizione di principi e di valori. In questo secondo senso non condivido la multiculturalità, mentre concordo sull’esistenza della differenza, che non può rappresentare un ostacolo alla convergenza, bensì uno stimolo a trovare principi uguali per tutti noi. Condivido pertanto quanto affermato dal delegato della Siria sull’impossibilità di ridurre la questione culturale ad una questione religiosa, cui sono assolutamente contrario, soprattutto perché non si tratta di un dato realistico. In ampi settori dei paesi associati mediterranei la religione è molto importante, e qualcuno tenta di trasformarla in ideologia e di ridurre la cultura alla religione. Vorrei sottolineare ad esempio, Presidente, che lunedì prossimo il Comitato per l'alleanza di civilizzazione costituito per le Nazioni Unite esporrà un’importante relazione, cui dovremo porre grande attenzione.

In secondo luogo, come rilevava il mio collega spagnolo in un nostro dialogo privato, cultura non significa parlare solo di storia, ma anche di educazione, università, capacità dei paesi del sud di garantire una formazione e di ridurre la distanza digitale ed informatica.

Anche per questo concordo con la proposta di chiedere al Consiglio di promuovere una sessione monografica sulla cultura, intesa in senso più ampio come formazione, educazione, università. Questo anche per valutare, ad esempio, la possibilità di una formazione trasversale nelle università di tutto il Mediterraneo per quanto riguarda la tradizione a cui apparteniamo, della quale si parlava questa mattina quando sono entrato in questa sala in ritardo, a causa di un ritardo aereo, anch’esso parte della nostra cultura, e il signor Ovadia  stava parlando del 1492. Da questo punto bisogna andare avanti.

 

TANA DE ZULUETA. Predrag Matvejevic voleva rispondere al collega della Siria, e penso che abbia dell’altro materiale da esporre.

 

PREDRAG MATVEJEVIC’, Scrittore. Sarò breve. Vorrei citare tre frasi del testo distribuito, che non ho illustrato interamente, per quanto riguarda le culture del Mediterraneo. Non esiste una sola cultura del Mediterraneo, ma diverse all’interno di un unico Mediterraneo, rappresentate da caratteristiche simili ma differenti. Le similitudini sono dovute alla vicinanza, ad un mare in comune, e all’incontro sulle rive di nazioni e forme di espressioni simili. Le differenze sono segnate da origini, credenze, costumi e culture diverse. Né le differenze, né le similitudini sono costanti, cosicché talvolta prevalgono le prime, talvolta le seconde, mentre il resto è mitologia. Ebbene, questo riassume e formula una diversa idea di cultura non euromediterranea, ma intorno al Mediterraneo, quindi delle differenze che vi si sovrappongono e, a volte, vi si intrecciano. 

Un’ultima osservazione riguarda i libri sulla cultura e sulla multicultura, che sono molto numerosi, così come esistono premi e volumi dell’Unesco ed anche l’Unione Europea ha promosso iniziative e ampi dibattiti. Tuttavia, è ora necessario andare oltre, scegliere, partendo da una base non solida, sulla quale ci muoviamo con difficoltà, le modalità con le quali procedere. 

Un’altra osservazione deriva dalla mia lunga esperienza del Mediterraneo, per cui trenta anni fa ho iniziato un libro poi tradotto in tutte le lingue, in parte scritto in francese. C’è un avvertimento da lanciare, perché abbiamo la tendenza a considerare le particolarità di ciascuna cultura come valori, ma una particolarità non rappresenta sempre un valore. Ad esempio, il cannibalismo è una particolarità, ma certo non è un valore.

 

In questo consiste il gioco dell’ideologia, ovvero nel farci credere che questi siano valori, mentre sono solo particolarità affermate come valori. Siamo costantemente bombardati da queste particolarità che tentano di spacciarci come valori.

In questo rientrano anche le contraddizioni delle nostre religioni. Non dimentichiamo di aver avuto l’Inquisizione e prima ancora le crociate, i martiri, il controllo sui libri. Tutto questo esisteva anche nelle culture europee. So che molti dei miei amici arabi sono stigmatizzati dagli imām che vorrebbero imporre loro una diversa visione della cultura e della letteratura. Questo è un caso in cui una particolarità viene imposta come valore, ma bisogna stare attenti e diffidarne. 

 

TANA DE ZULUETA. Abbiamo ancora a disposizione dieci minuti. Quindi, se due oratori volessero prendere la parola, ne abbiamo il tempo. Invito poi gli altri a continuare il dibattito nel pomeriggio, nella sessione relativa alle politiche sull’immigrazione. Uno dei nostri relatori è assente, quindi avremo più tempo. Anche lì ci sono delle interessanti esperienze dirette da ascoltare. Poi apriremo la sessione relativa alla tutela dell’ambiente. 

È iscritto a parlare Mohamed Samir Abdellah, membro del Senato della Tunisia. Ne ha facoltà.

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. Mi scusi, Presidente De Zulueta, sono della Palestina e ho presentato da tempo una domanda di intervento, che nessuno ha citato.

 

TANA DE ZULUETA. Mi scusi, non avevo il suo nome.

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. Il mio nome è segnato. Avevo anche inviato un foglio grande con il nome. 

 

TANA DE ZULUETA. È segnato come ottavo nome sull’elenco. 

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. Sono il sesto, non l’ottavo. Tutto il problema dell’Euromed si riassume nello scontro israelo-palestinese. Ora, siccome desidero parlare di questo conflitto, la prego di darmi la parola.

 

TANA DE ZULUETA. Non ho nessuna difficoltà. Se lei preferisce parlare in questa sessione, va bene. Vuole lasciare la parola al suo collega tunisino e poi intervenire, o preferisce parlare subito? 

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. A Dio piacendo parlerò dopo di lui. 

 

TANA DE ZULUETA. Ha facoltà di parlare Mohamed Samir Abdellah, membro del Senato della Tunisia.

 

MOHAMED SAMIR ABDELLAH, Senato della Tunisia. Grazie, Presidente. Le vorrei esprimere sinceramente un ringraziamento e tutta la mia ammirazione per questa gestione così delicata. Grazie per i preziosi interventi che abbiamo potuto ascoltare questa mattina, caratterizzati da un approccio molto profondo.

Ritengo che la questione del dialogo tra civiltà e tra culture non sia mai stato all’ordine del giorno sino all’11 settembre. Prima esisteva una sorta di modus vivendi tra le varie civiltà e le varie culture mondiali, ma gli avvenimenti dell’11 settembre hanno rovesciato il tavolo, e abbiamo finito per parlare di scontro. La guerra al terrorismo è diventata un leitmotiv che consente di fare di tutto, esiste una confusione tra Islam e terrorismo, basti considerare le ultime dichiarazioni nelle quali il Presidente Bush ha ribadito la sua intenzione a lottare contro l’Islam fascista o il fascismo islamico. 

 

Non vorrei che questo nostro dialogo di civiltà e di culture si fermasse a livello teorico e rimanesse confinato in questa stanza. In quanto parlamentari, infatti, dobbiamo dare voce alle aspirazioni e alle preoccupazioni dei nostri elettori e dei ceti sociali che ci hanno votato. Il Congresso degli Stati Uniti, negli ultimi giorni, ha espresso la volontà di costruire un nuovo muro di Berlino al proprio confine con il Messico. Chiediamoci dunque se gli Stati Uniti pensino al dialogo erigendo un muro che costerà centinaia di milioni di dollari per bloccare l’immigrazione clandestina dal Messico.

Ritengo che, se accantoniamo le belle parole sulla convivenza, i Governi europei ragionino secondo la stessa logica. Alcuni Parlamenti europei riflettono la stessa ottica e il medesimo approccio, e costruiscono un muro per bloccare l’immigrazione clandestina guardando alla sponda mediterranea a sud con un approccio improntato alla paura e alla preoccupazione. Riscontriamo questo ogni volta che arriviamo in un aeroporto europeo, perché l’occidente controlla coloro che giungono dalla sponda sud.

Nell’aeroporto di Roissy si è verificato un piccolo di incidente, per cui è stata decisa l’espulsione di decine di impiegati che lavorano in questo aeroporto da decine di anni, per il solo motivo che sono di origine araba e islamici. Il Ministro Nicola Sarkozy ha ammesso che questa espulsione è improntata a una gestione iniqua. Questo rappresenta un dialogo tra sordi. Sono in gioco dei veri interessi, e non si evidenzia quel dialogo reale, che da tempo auspichiamo.

L’uomo di strada nel mondo arabo non crede ai bei discorsi che stiamo facendo, perché vede adottare due pesi e due misure, ovvero una duplice politica  scelta dai Governi europei e sostenuta dai loro Parlamenti. L’Europa e l’America invitano e richiamano alla democratizzazione il mondo arabo, ma poi, quando il popolo palestinese ha svolto elezioni democratiche senza precedenti, eleggendo Hamas come proprio rappresentante, la reazione dell’Europa e degli Stati Uniti si è tradotta nell’imposizione dell’embargo,  e quindi nella fame per il popolo palestinese.

 


La questione palestinese è stata dunque trasformata da questione di diritti violati a questione di elemosina, e tale realtà deve essere riconosciuta. In Libano esiste una storica esperienza di convivenza fra le varie confessioni, le varie religioni, i vari componenti della società libanese. Il Libano, ora, è minacciato da una vera guerra civile a causa dell’intromissione di interessi esteri.

Si può affermare lo stesso per la questione del dossier nucleare iraniano. Il popolo islamico non capisce perché l’Europa e gli Stati Uniti fomentino questo clamore intorno al dossier nucleare iraniano. Personalmente, sono favorevole all’energia nucleare, e non capisco questo clamore né perché nessuno parli delle armi nucleari di cui Israele già dispone.

Noi parlamentari tacciamo quando vediamo che i due terzi dei deputati del Parlamento palestinese sono ora nelle carceri israeliane. Chiediamoci perché tacciano i parlamentari constatando che la metà dei membri del Governo palestinese sono in carcere, se non perché esistono due pesi e due misure, quindi un linguaggio di interessi addolcito con il discorso della democrazia.

Per quanto riguarda la situazione in Tunisia, si parla di violazioni, dei salafiti presenti a livello del mondo arabo. La Tunisia, come sapete tutti, è l’unico stato arabo che vieti la poligamia e imponga che il divorzio venga sanzionato da una sentenza del tribunale in grado di tutelare i diritti del marito e della consorte. La società tunisina lotta contro la povertà, come ha riconosciuto persino l’ONU. Meno del 4 per cento della popolazione è sotto la soglia della povertà, anche se la Tunisia non ha risorse. Questo è stato riconosciuto nei rapporti di Davos, che hanno preso atto dei successi registrati in Tunisia e dei diritti di cui gode la donna tunisina. Però, nelle parole di alcuni parlamentari europei e persino di alcuni parlamentari arabi si riscontrano una sorta di aggressione contro la Tunisia e un mancato riconoscimento degli obiettivi raggiunti dalla Tunisia a livello di diritti umani.  Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Ha facoltà di parlare Hasan Khreishi, membro del Consiglio legislativo della Palestina.

 

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. Onorevole Presidente e onorevoli colleghi, lasciamo perdere i complimenti. Veniamo dalla Palestina dove ci sono uccisioni collettive a Gaza e arresti arbitrari, dove c’è il muro, e, come ha detto il mio collega tunisino, quarantuno deputati palestinesi ostaggi in carcere in Israele. Sono stato uno di questi arrestati, liberato dopo aver trascorso un periodo in prigione. Tutto questo nel silenzio assordante, il silenzio dei vicini, il silenzio dei partner Euromed. 

Veniamo dalla Palestina dove la cultura della violenza e dell’odio è prevalente, e responsabile di questa cultura della violenza è la forza occupante con le sue violazioni dei più elementari diritti umani. Avremmo auspicato di parlare con una sola lingua, la lingua della pace, la lingua della costruzione e dello sviluppo, ma la realtà è qui dinanzi ai nostri occhi. L’occupante ci impone una realtà ben diversa, come ha detto il collega tunisino: ci sono l’assedio e l’embargo imposti dagli americani, di cui il mondo intero è testimone, ma testimone silente. Il fatto è che da otto mesi abbiamo centosessantamila impiegati dell’amministrazione pubblica che non percepiscono i loro stipendi, oltre a duecentomila operai che da anni non riescono più a raggiungere i loro posti di lavoro dietro la cosiddetta linea verde. Tutto questo ha provocato un crollo drastico nei servizi sanitari, l’impossibilità di trasferire i nostri malati da Gaza oltre la linea verde, o nei paesi vicini, perché mancano soldi e  vaccini. Abbiamo settecentocinquantamila bambini palestinesi che sono per strada, perché i loro insegnanti sono in sciopero, dal momento che non percepiscono i loro stipendi.

Tutto questo, come evidenziato dal mio collega tunisino, perché abbiamo fatto la scelta della democrazia, e paghiamo questo prezzo perché abbiamo esercitato il nostro diritto democratico eleggendo i nostri leader. Con il dovuto rispetto verso Euromed e la Commissione politica, di cui sono vicepresidente, ringraziando per la posizione nei confronti dell’occupazione israeliana di Euromed, che ha inviato più di una lettera ai dirigenti israeliani per chiedere la liberazione degli arrestati, vi assicuro che come parlamentari abbiamo un ruolo che dobbiamo esercitare.

Si parla di terrorismo in Medioriente, ed anche gli europei condannano questo comportamento. Poco tempo fa, Solana è venuto nei territori palestinesi, ha visitato la regione, ha incontrato Liberman, personalità ben nota per il suo estremismo e per il suo razzismo, poiché incita alla cacciata degli arabi-israeliani e desidera inondare gli egiziani con il bombardamento della diga di Assuan. Nonostante questo, Solana ha invece rifiutato di incontrare i dirigenti del popolo palestinese eletti democraticamente.

D’altra parte, come vicepresidente del Consiglio legislativo palestinese dichiaro che stiamo cercando di andare avanti nonostante la nostra amara realtà. Insieme ai giovani palestinesi, abbiamo studiato le varie culture e le civiltà europee. Abbiamo un grande numero di studenti palestinesi che hanno studiato in Italia ed in Europa e, pertanto, abbiamo convissuto con le vostre culture. Purtroppo, però, mi rammarico per quanto abbiamo sentito dire sull’orientalismo. Gli europei e il mondo intero ci trattano con un approccio orientalistico romantico che è molto lontano dalla nostra realtà. Alcuni orientalisti americani ed europei hanno elaborato la realtà falsificandola, pertanto Hamas ha finito per ottenere la maggioranza, e assistiamo a questo embargo razzista, a un muro di separazione economica. 

Comprendiamo molto bene tutto questo, e affermiamo che l’orientalismo è uno dei nostri mali. Uno degli intervenuti ha sottolineato come ottantottomila bosniaci siano stati uccisi senza che nessuno ne  parlasse, laddove per le quattromila vittime provocate dall’attentato alle torri gemelle il mondo intero si è mosso. Solo negli ultimi due giorni abbiamo avuto ottantaquattro morti martiri e duecentoventi feriti. Nessuno ha condannato questa violenza, mentre, quando fu rapito un solo soldato israeliano in un’operazione militare, tutto il mondo si è mosso chiedendone la liberazione. Abbiamo diecimila prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui centoquaranta minorenni, ragazzi che hanno meno di sedici anni. Abbiamo cento donne palestinesi e cinque bambini nati in carcere. Di questo nessuno parla.

Parliamo di lingua, facciamo tanti bei discorsi, ma nessuno parla della realtà imposta ai nostri popoli del terzo mondo. Nessuno parla del linguaggio e della cultura della violenza e dell’egemonia. Speriamo che un giorno tutto questo cambi.

Si parla di scontro tra civiltà. In Palestina, il musulmano, il cristiano, ma anche i samaritani, che sono circa trecento persone, sono rappresentati nel Parlamento. In Palestina non si verificherà mai uno scontro tra religioni e tra confessioni. Si tratta invece di una lotta politica, dei nostri diritti violati. Tutto questo finirà quando cesserà l’occupazione. 

Esorto la vostra Commissione a garantire il sostegno materiale e politico alla Palestina. Qualcuno ha parlato della musica e conosco personalmente il musicista di cui si è parlato. Abbiamo promosso tante belle iniziative. Dunque, vi esorto a sostenere il popolo palestinese affinché l’occupazione possa terminare e si possa realizzare uno stato che pensi finalmente a sviluppare la cultura della pace in questo bacino mediterraneo.

Auspico che questa Commissione rivolga un appello per la liberazione dei vostri colleghi parlamentari rapiti dalle forze di occupazione – centoquaranta nostri deputati sono in carcere – affinché anche il Parlamento palestinese possa dare il suo contributo nella edificazione e nella costruzione di Euromed.

Ancora una volta rivolgo il mio cordiale ringraziamento ai parlamentari europei che sono venuti a visitarci di propria iniziativa, mentre il Parlamento Europeo si era impegnato a creare una commissione di inchiesta che potesse visitare i territori palestinesi e il Libano, in seguito all’adozione delle misure israeliane. Purtroppo a questa delegazione è stato impedito di visitare le nostre regioni: è stata sufficiente una telefonata dell’ambasciatore israeliano a Bruxelles per bloccare questa iniziativa del Parlamento Europeo. Sono dispiaciuto. Parliamo sempre di cultura, di democrazia, di trasparenza, ma sembra che solo la lingua della forza sia in grado di farsi sentire, a discapito della voce della pace.

Chiedo a tutti voi non di mettere un termine all’occupazione, ma di trovare una via per il dialogo culturale e politico, perché questa non è la strada adeguata per essere partner. Spero di ottenere una risposta sincera e pratica. 

 

TANA DE ZULUETA. Abbiamo superato il tempo. Comunque, ci sono altri quattro iscritti a parlare, ciascuno dei quali potrebbe parlare per due minuti, qualora desiderino tutti intervenire in questa sessione. 

Vorrei, signor Khreishi, rispondere al suo accorato appello e alle sue ragioni. Lei avrà certo ascoltato i saluti del Presidente Bertinotti, del Presidente Dini e del Vice Ministro Intini, che hanno sottolineato l’impegno del Parlamento e del Governo italiano per venire incontro a questa situazione. So che lei non considera questo sufficiente. Comunque, la ringraziamo per essere intervenuto nonostante la profonda difficoltà che esiste nel suo paese. Le assicuriamo che, se abbiamo parlato di cultura, non lo abbiamo fatto in quanto inconsapevoli dei problemi di altra portata di cui lei è adesso costretto ad occuparsi, ma solo perché era questo l’ordine del giorno. 

Passo ora la parola ai colleghi per due minuti ciascuno, sempre che intendano parlare in questa sessione. Se vogliono più di tempo, possiamo comunque riprendere nel pomeriggio. 

È iscritto a parlare Abdelkader Laassouli, membro della Camera dei rappresentanti del Marocco.

 

ABDELKADER LAASSOULI, Camera dei rappresentanti del Marocco. Sorelle e fratelli, anch’io dal Marocco vorrei portare il mio contributo, ma forse non potrò dire tutto, motivo per cui delego il mio collega a integrare successivamente il mio intervento. 

Consentitemi, signor Presidente, di formulare una primissima osservazione su una questione fondamentale. Vorrei chiedere cosa abbia fatto l’APEM per quanto riguarda il decollo economico, sociale o politico. Questo è un interrogativo di fondo. Abbiamo ascoltato molte proposte e molti discorsi, ma una sola proposta sarebbe più che sufficiente per discutere quanto è stato detto, cercando di individuare la questione di fondo.

Sarebbe stato più utile e più opportuno esprimere un giudizio sull’operato del Presidente e del Bureau precedenti per valutare quale siano gli aspetti che, tuttora, richiedono ancora un intervento, quale sia stato il bilancio di quanto ha fatto l’Assemblea e quante le decisioni  prese. 

 

Sono stati ripetuti più volte i termini «ignoranza» e «ignoranti», e si è parlato di rapporti tra popoli, scambi di civiltà e cultura, ma ora lo scontro ha una causa individuabile, che è l’aggressione contro i popoli. Le cause contribuiscono a creare questa animosità, questa aggressione.

(L’interprete si scusa perché l’intervento è in dialetto marocchino stretto, assicurando che si cercherà di rendere, per quanto possibile, il succo dell’intervento)

La causa dell’odio sono le guerre, come rilevato dal collega palestinese. Se risolviamo la questione del Medioriente, avremo la pace dinanzi a noi. 

Per quanto riguarda questa Commissione cultura,  ricordo che il dialogo fra civiltà non si limita alla conoscenza dell’altro. Il problema di fondo è politico, giacché riguarda cosa facciamo per l’altro. Anzitutto, è necessario non intervenire negli affari interni dell’altro, nella gestione del proprio paese. Bisogna insistere sui valori comuni e lavorare mano nella mano per mettere un termine all’occupazione di territori altrui nell’Euromed. È ora che il popolo palestinese possa ottenere i propri diritti legittimi.

Per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, la causa è la povertà nei paesi del sud. Non si può parlare di libera circolazione delle merci senza che ci sia anche una libera circolazione di persone. Bisogna arrivare ad una visione d’insieme. Esistono molti sfollati, molti rifugiati in Iraq, in Palestina, una lunga lista di persone costrette ad abbandonare il proprio paese. Bisogna adottare dei provvedimenti accettabili. 

Tutto questo richiede attenzione nel parlare di partenariato. Occorre una libera circolazione delle persone, affinché ci sia un’interazione tra i cittadini. I paesi del sud e dell’est del Mediterraneo hanno una situazione economica particolare con profonde trasformazioni, aspetto che ha indotto l’Europa a proporre un sostegno finanziario in questo periodo transitorio, e questo si è concretizzato nel programma Meda. Bisogna concordare un programma di collaborazione a livello legale e giuridico con uno scambio a livello istituzionale. 

In conclusione, per quanto riguarda il partenariato, il Marocco registra un aumento degli investimenti dal nord verso il sud, ma questo, purtroppo, non risponde alle aspettative, perché la proposta di creazione di una banca Euromed non ha ancora trovato riscontro. Il Marocco ha proposto di accogliere la sede di questa banca Euromed, e questo rappresenterebbe un segnale simbolico nei confronti dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. 

 

TANA DE ZULUETA. Mi auguro che su questo punto ci siano delle risposte a breve. 

Chiuderei qui la seduta antimeridiana. Quando ci ritroveremo nel pomeriggio, i tre iscritti rimasti potranno intervenire prima di iniziare i lavori sulle esperienze degli immigrati nelle nostre amministrazioni. 

Comunico che il pranzo si terrà nella sala accanto.

 

 (La seduta, sospesa alle ore 13,50, riprende alle ore 14,48).

 

TANA DE ZULUETA. Cari colleghi, illustri ospiti, avevo promesso di dedicare – prima di dare la parola ai nostri relatori – dieci minuti agli iscritti che, nella sessione di questa mattina, non hanno potuto intervenire.

È iscritta a parlare la signora Ibtsam Mikhail, membro dell’Assemblea del popolo dell’Egitto. Ne ha facoltà.

 

IBTSAM MIKHAIL, Assemblea del popolo dell’Egitto. Onorevole Presidente, in primo luogo mi congratulo con lei per la sua presidenza. Riponiamo grandi speranze nella sua maniera di guidare i lavori. Vorrei ringraziare anche il senatore Greco e gli altri colleghi.

Io rappresento qui l’Egitto, un paese che ama la pace – nella regione e nel mondo – e che aspira a trovare una soluzione durevole per i nostri problemi. Sappiamo che il dialogo culturale rappresenta il modo migliore per risolvere le difficoltà: esso dovrebbe mettere in luce le nostre ricchezze, portandoci a superare le differenze che ci separano. Dovremmo accomunare i nostri sforzi per costruire una civiltà mondiale che possa rafforzare le politiche di cooperazione a livello internazionale, a beneficio del benessere.

L’uomo è l’asse della cultura euromediterranea. Affinché questo processo non perda contenuto e importanza vorrei avanzare alcune proposte. In primo luogo, il partenariato deve puntare sull’educazione della società, sull’informazione e sulla tecnologia, così come avviene in altri ambiti.

Vorrei sottolineare anche le responsabilità delle ONG, delle fondazioni – come la Fondazione Euromediterranea “Anna Lindh” – e dei centri di ricerca, che sono importanti per definire i meccanismi di cooperazione tra i nostri paesi e che potrebbero contribuire ad aumentarne gli spazi, favorendo un maggiore avvicinamento tra noi. Anche la partecipazione popolare e la diffusione dello studio dell’arabo hanno la loro importanza. 

Chiediamo inoltre che vengano rivisti i curricula, sia nel mondo arabo, sia in Europa: devono essere depurati da quegli stereotipi che potrebbero rallentare il nostro cammino verso la cooperazione.

Dovremmo insistere su ciò che ci unisce, sulla cooperazione scientifica – specie fra università e centri di ricerca scientifica –, ed integrare i partner europei nei programmi di ricerca continentale. Anche i programmi educativi dovrebbero essere finanziati, attraverso il programma MEDA, dando la precedenza agli accordi diretti. Il nostro Parlamento si felicita della fondazione dell’Università Euromediterranea, a cui parteciperanno quattro Università egiziane. Pensiamo che la creazione di un fondo per la ricerca scientifica rafforzerebbe notevolmente la cooperazione euromediterranea, favorendo le ricerche comuni tra università europee ed arabe.

Per lavorare per un futuro migliore nel Mediterraneo proponiamo di creare programmi misti per la  formazione di giovani dirigenti, che siano in grado di favorire la cooperazione. Questo può avvenire, ad esempio, mediante federazioni che attuino i progetti comuni europei ed arabi, ed estendendo la disponibilità di borse di studio per chi lavora nell’ambito delle istituzioni europee. 

Vorrei inoltre sottolineare che l’Unesco ha riconosciuto l’importanza delle tecnologie dell’informazione. In un suo rapporto del 1996, intitolato “Nell’educazione un tesoro”, l’Unesco insiste infatti sul ruolo dell’educazione nel migliorare le possibilità di dialogo tra civiltà. Esso sottolinea l’importanza della formazione come attività umanitaria: essa favorisce innovazioni a livello di consapevolezza; contribuisce a rafforzare il rispetto reciproco, l’uguaglianza e l’equità; stimolando il rispetto per la diversità e rafforza i valori culturali comuni. Questo contribuirà certamente a consolidare l’edificio della cultura e della civiltà euromediterranea. 

 

TANA DE ZULUETA. Signora Ibtsam Mikhail, tra le molte questioni importanti che lei ha sollevato, c’è un argomento di cui non avevamo finora parlato: il tema delle nuove tecnologie delle comunicazioni e delle informazioni. Il Bureau ci ha incaricato di seguire questa questione. Dovremo sicuramente organizzare una sessione di lavori in cui approfondire quale possa essere il nostro contributo – e quale il ruolo di queste tecnologie – nel rafforzamento del dialogo. 

Vorrei intanto segnalare che la Camera dei deputati, dove vi trovate adesso, è impegnata in una iniziativa congiunta con le Nazioni Unite e l’Unione interparlamentare, proprio per promuovere il progetto – lanciato durante il World Summit on Information Society tenutosi a Tunisi – di rafforzamento della cooperazione parlamentare nel settore delle tecnologie delle informazioni, che credo possa interessare tutti i nostri Parlamenti. Avremo comunque occasione di parlarne nuovamente, perché questa conferenza si terrà a Roma nei giorni 3 e 4 marzo 2007, e vi parteciperanno molti parlamentari del mondo, forse anche qualcheduno dei presenti. Daremo dunque seguito a questa sua segnalazione. 

È iscritta a parlare la signora Ronit Tirosh, membro della Knesset. Ne ha facoltà.

 

RONIT TIROSH, Knesset. Vorrei ringraziarvi per l’ottima ospitalità. Prima di entrare nel merito della cultura euromediterranea, vorrei cercare di dare una breve risposta (va tenuto conto del fatto che non sto purtroppo usando la mia lingua madre, perché l’ebraico non è una lingua di lavoro). Vorrei ricordare al collega palestinese che Israele non vuole controllare più di un milione di arabi palestinesi. Stiamo cercando di ritirarci da alcuni territori, come da Gaza – lo stesso è accaduto anche in Libano – , però molti missili sono stati lanciati su diversi centri israeliani. Dopo che abbiamo lasciato il Libano, Hezbollah ha deciso di rapire dei nostri soldati, e da allora è molto difficile dare fiducia ad una leadership che sostiene di volere il compromesso, il dialogo e la pace, ma non si comporta di conseguenza. Anche se spero ancora che riusciremo a trovare una soluzione, perché entrambi i nostri paesi e i nostri popoli desiderano la pace. 

Dobbiamo crescere, come dei bambini che finiscono la scuola e poi vanno all’università. Vorrei che tutti potessero farlo, e che nessuno debba invece interrompere questo corso di studi per arruolarsi nell’esercito, anche perché è uno spreco di denaro per i nostri paesi.

Ci siamo ritirati da Gaza ed abbiamo anche cacciato delle famiglie ebraiche dalle loro case, per poter restituire questi territori. Questo ha creato anche un conflitto sociale all’interno del nostro paese, come tutti ben sanno. 

 

TANA DE ZULUETA. Dobbiamo cercare di evitare commenti di questo tipo, perché sono già stati lungamente espressi. Essi sono inoltre di pertinenza di una commissione politica: sarebbe quindi più opportuno svolgerli in quell’ambito. Cerchiamo di attenerci al nostro ordine del giorno. 

 

RONIT TIROSH, Knesset. Va bene.

Passo, allora, a parlare della cultura euromediterranea. Israele è uno Stato giovane. I nostri leader,alcuni anni fa, hanno deciso di considerare Israele un paese occidentale, e da allora abbiamo sempre adottato la cultura europea, il che significa che nelle nostre scuole studiamo Balzac, Shakespeare, Cechov, Dostoevskij. Non abbiamo studiato alcuni dei citati, perché in Europa non si parla di questo tipo di scrittori. Studiamo naturalmente anche autori israeliani. 


Ogni paese dove risiedono degli immigrati – e soprattutto là dove essi sono presenti nelle scuole – deve includere nei propri programmi scolastici alcuni scrittori di tutte quelle minoranze che sono rappresentate all’interno del suo territorio. Io stessa insegno arabo ed ho quindi imparato l’arabo e conosciuto il Corano; mi considero una moderata, proprio perché ho imparato a conoscere le culture delle minoranze e ho studiato la loro lingua. Quello che suggerisco è che, attraverso la conoscenza della cultura altrui, potremmo anche comprendere meglio i conflitti che esistono tra di noi. Poiché il mondo diventa sempre più globalizzato, senza frontiere, e le nostre società diventano sempre più cosmopolite, ogni Parlamento dei paesi dell’Euromediterraneo dovrebbe forse adottare delle leggi che introducano nei nostri programmi scolastici una parte della cultura delle minoranze presenti nel proprio territorio. Penso che questo ci aiuterebbe ad apprezzarci maggiormente a vicenda. 

 

TANA DE ZULUETA. È iscritto a parlare il signor Lahcen Hasnaoui, membro della Camera dei rappresentanti del Marocco. Ne ha facoltà.

 

LAHCEN HASNAOUI, Camera dei rappresentanti del Marocco. Prendendo spunto da quanto ha detto la collega che mi ha preceduto, mi complimento con lei e con i suoi colleghi, augurando a tutti successo.

Allo stesso modo ringrazio il senatore Greco per l’ottimo lavoro svolto a capo di questa Commissione e non posso tralasciare di ringraziare i relatori per i loro ottimi interventi, che ci sono stati di grande utilità. Vorrei inoltre dire che gli argomenti scelti per questa discussione sono di vitale importanza per l'avvenire della cooperazione euromediterranea e per colmare il divario tra nord e sud del Mediterraneo. Scambiare opinioni per giungere a un progetto comune, prendere iniziative per rafforzare gli scambi d’esperienze in campi quali l'istruzione, le nuove tecnologie, l'informazione e la comunicazione: tutto ciò è di estrema importanza. 

È vero che il divario tra paesi della sponda nord e paesi della sponda sud è molto ampio, è immenso. Uno dei principali motivi di questo squilibrio è l'alto tasso di analfabetismo presente nei nostri paesi, che non hanno potuto, per questo, agganciarsi ai grandi progressi tecnologici avvenuti a livello mondiale. Noi vogliamo uscire da questo tunnel, ma ciò non avverrà soltanto attraverso i pii desideri: occorre un appoggio diretto e concreto attraverso le strutture euromediterranee. L'istruzione e la formazione saranno certamente un grande veicolo per riuscire, un giorno, a scambiare esperienze anche in altri ambiti vitali per i nostri progressi e per giungere a un tenore di vita e di lavoro più alto, affinché le nostre capacità e i nostri talenti possano contribuire a un futuro comune di cui si avvantaggerebbero tutti i paesi, senza eccezione alcuna. Lo scambio di studenti sarebbe utilissimo per conseguire questo obiettivo: bisognerebbe agevolare l'ottenimento dei visti per gli studenti che intendono proseguire i propri studi all'estero. Questo è un aspetto che mi sembra importante riprendere dagli interventi precedenti. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie, signor Hasnaoui. Lei ha richiamato il tema dell’alfabetizzazione che è stato oggetto di discussione nella Commissione cultura e sul quale, spero, potremo tornare. Credo che lei sappia meglio di me che questo problema investe soprattutto la popolazione femminile: tutto quello che può essere fatto per superare questo handicap è benvenuto. 

È iscritto a parlare Aurelio Juri, membro dell’Assemblea nazionale della Slovenia. Ne ha facoltà.

 

AURELIO JURI, Assemblea nazionale della Slovenia. Grazie, Presidente. Mi associo ai complimenti e agli auguri alla nostra collega De Zulueta per la sua carica. Porto a tutti i saluti della Slovenia che, assieme all'Italia nordorientale, è un po’ la cerniera tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa.


Invito la nostra Commissione ad approvare, tra le sue conclusioni, anche un appello ai nostri Governi a muoversi in modo più concreto e rapido per la concretizzazione dell’idea, lanciata in questa sede, dell'Università del Mediterraneo.  Mi pare che i Governi o i Ministeri responsabili non abbiano ancora messo a punto un progetto concreto, un tavolo di lavoro comune con il mondo accademico – di cui abbiamo avuto oggi una confortante ed entusiasmante prova di grande intellettualità e progettualità – per definire i termini e i contenuti di questa Università. Il mio appello è quindi un invito ai nostri Governi, nella fattispecie ai Ministri per l'istruzione e per la scienza, a costituire un tavolo di lavoro con i rettori e gli accademici, per dare forma a questo progetto, indicando tempi, finanziamenti e trovando una proposta d'accordo. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Penso che dovremo farcene carico. Spero che ci potremo confrontare a Tunisi con una proposta dei Governi. Se non ci fosse, dovremo certamente avanzarne una nostra e attivarci in tal senso, dando un indirizzo ai Parlamenti da cui proveniamo. Credo che su questo punto ci sia un consenso vasto e che sia un obiettivo raggiungibile. 

Dichiaro chiusa la sessione antimeridiana per passare a quella pomeridiana.

 

Esperienze di politiche di integrazione degli immigrati nelle amministrazioni locali

 

TANA DE ZULUETA. L'oggetto di discussione della sessione pomeridiana, come voi sapete, è la questione dell’immigrazione. Vi ricordo che il nome completo della nostra Commissione è Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura e che abbiamo, pertanto, il mandato di parlare di migrazioni. La Commissione cultura se ne è occupata in passato audendo il Commissario europeo Frattini e ricevendo aggiornamenti puntuali sul lavoro in corso in sede di Unione Europea.

Poiché tra i temi portati alla nostra attenzione c'è proprio quello di conoscere e migliorare le politiche per l'integrazione dei migranti, abbiamo pensato che potesse essere interessante, approcciando il tema da tutt'altro punto di vista, guardare a qualche esempio – nell’esperienza italiana – di partecipazione degli stranieri nella vita politica e nell’organizzazione della società civile. Ci interessa capire quali siano gli obiettivi delle amministrazioni locali che hanno attivato forme di integrazione nella vita politica, quali siano i problemi esistenti e quali le lezioni apprese. In una successiva riunione potremmo vedere la questione anche dal punto di vista degli altri paesi membri.

Invito a prendere posto al tavolo l'assessore della Regione Toscana con delega per l'immigrazione, Gianni Salvadori. Speravamo nella presenza di Mahmoud Srour, assessore della Regione Abruzzo con delega per le relazioni con i paesi del Mediterraneo, cha ha dovuto, purtroppo, annullare la sua visita a Roma. Mahmoud Srour è un italiano di adozione, come chi vi parla, e avrebbe apportato l'esperienza di un siriano molto attivo nella vita politica italiana.

Invito al tavolo della Presidenza la signora Franca Eckert Coen, delegata del Sindaco di Roma alle politiche della multietnicità e dell'intercultura, nonché Aziz Darif, cittadino marocchino eletto consigliere aggiunto del Comune di Roma. 

Do la parola all'assessore della Regione Toscana con delega per l'immigrazione, Gianni Salvadori, ringraziandolo per la sua presenza.

 

GIANNI SALVADORI, Assessore della Regione Toscana con delega per l’immigrazione. Sono io a ringraziare per l'opportunità che mi viene offerta.

Per fare il quadro della situazione in Toscana, abbiamo ad oggi 247.000 migranti regolari, due terzi dei quali concentrati nelle città di Firenze e di Prato, il restante terzo nelle altre 8 Province della Toscana. Prevediamo che da qui al 2015 avremo circa 500.000 migranti regolari presenti nel territorio toscano. Ciò vuol dire che la popolazione toscana sarà composta dagli stessi 3,5 milioni di abitanti attuali, ma con una distribuzione completamente diversa al proprio interno; ciò ci imporrà, e ci sta imponendo, una serie di considerazioni importanti sul modello di società a cui dobbiamo tendere.

Noi vogliamo una società coesa e contemporaneamente plurale, dove non ci siano dualismi, che si fondi sul confronto e sul dialogo e che permetta quindi a tutti di sentirsi parte integrante della società stessa. In questo contesto sono fondamentali i nodi del rapporto con le istituzioni e quello della partecipazione politica, in quanto condizioni necessarie di una vera uguaglianza fra tutti i cittadini. Nei molti incontri che ho con loro, i migranti mi domandano perché, in tante occasioni, da parte delle istituzioni e dei partiti, c'è disattenzione nei loro confronti. C'è un motivo di fondo: questi migranti non votano e non sono oggetto di interesse diretto: occorre quindi generare questo interesse diretto.

Traccerò ora un quadro della nostra esperienza in termini di partecipazione alla vita politica e alla vita istituzionale della Regione, di Comuni e Province. Per come si è determinato, soprattutto negli ultimi 5 anni, nel nostro paese, esso è un quadro estremamente difficile.

Da ormai circa dieci anni abbiamo creato in 7 Comuni e in una Provincia la figura del consigliere aggiunto, vale a dire di una persona eletta in modo diretto dai cittadini migranti  residenti all'interno di un dato Comune. Questa figura ha un ruolo consultivo nei confronti del Consiglio comunale: partecipa senza diritto di voto ai momenti istituzionali – in alcuni di questi Comuni anche alle Commissioni – e percepisce un compenso legato alla sua presenza. In questo modo riesce a portare la propria opinione su tutti gli argomenti oggetto di attenzione da parte del Consiglio comunale.

Contemporaneamente sono state realizzate in 4 Comuni (tra cui i più importanti sono Livorno e Firenze) le Consulte comunali e in 2 Province le Consulte provinciali. Anch’esse hanno compiti consultivi e sono variamente composte da un numero minimo di circa 15 persone a un numero massimo di 25, elette direttamente dai cittadini migranti residenti nei Comuni e nelle Province. Nella generalità degli Statuti dei Comuni si fa riferimento alla partecipazione attiva dei migranti alla vita generale del Comune. Si tratta di un riferimento generale, talvolta con il rischio di mancata traduzione nell’azione specifica.

Voglio aggiungere qualcosa circa un’esperienza che abbiamo fatto qualche mese fa. In Toscana stiamo preparando una legge sui migranti – e non sull'immigrazione, perché vogliamo parlare di persone e non di fenomeni sociali – . Abbiamo costruito questa legge dialogando con il territorio e con le realtà in esso presenti: è la prima legge che in Toscana viene costruita attraverso la partecipazione diretta dei cittadini. Abbiamo svolto più di 72 assemblee, tutte svoltesi dopo le ore 21.00, che hanno visto la partecipazione di oltre 7.000 persone – sia cittadini italiani, sia migranti – le quali hanno discusso il merito della proposta di legge. Dobbiamo registrare come esperienza importante il fatto che i migranti hanno partecipato attivamente a questa costruzione, proponendo le loro opinioni, dialogando con costanza – talvolta fino a notte fonda – con tutti i partecipanti, mostrando un desiderio di prendere parte sicuramente non inferiore a quello dei cittadini italiani presenti agli incontri. Questo mi dà fiducia rispetto alle prospettive future, perché uno dei problemi che abbiamo registrato nelle esperienze che vi ho rapidamente illustrato è proprio legato all'esercizio del diritto di voto.

In Toscana hanno votato mediamente, per l'elezione del consigliere aggiunto o delle Consulte, tra il 12 e il 15 per cento dei migranti con diritto di voto. Il che ci porta a dire che occorre meditare attentamente sul rapporto tra migrante e diritto di voto, in relazione sia alle esperienze da cui proviene, sia al rapporto che ha con le Istituzioni nel territorio toscano. Dobbiamo quindi affrontare questo tema in maniera decisiva, perché vorremmo che i cittadini migranti fossero  realmente protagonisti nelle scelte che andiamo a compiere. Per fare questo credo si debba parlare di una cittadinanza vera (non più solamente legata ad un momento nel quale scatta la condizione di cittadino) e di un percorso che consenta di conoscere la società e di costruirla insieme; un percorso legato a quella che, un tempo, si chiamava educazione civica, mentre oggi si può parlare di diritti di cittadinanza. Credo che il concetto di integrazione sia un concetto che limita negativamente i nostri rapporti.

Quali sono i punti di debolezza che abbiamo registrato nelle esperienze sin qui condotte? Il primo, a cui ho già accennato, è la scarsa partecipazione al voto. Il secondo è un grande limite legato alla scarsa efficacia dell’intervento sia dei consiglieri, sia delle Consulte, che non hanno capacità di incidere. Tutto ciò genera anche scoraggiamento e diffidenza da parte di coloro che attivamente svolgono questa iniziativa. Ciò non deve però portarci ad esprimere pareri negativi rispetto a questa esperienza, perché sia il consigliere aggiunto, sia le Consulte hanno già di per sé determinato un rapporto diverso e positivo tra Istituzioni e cittadini migranti: ciò rappresenta un punto di forza. Su questo dobbiamo porre la nostra attenzione, in relazione a quel percorso di crescita rappresentato dalla costruzione della partecipazione politica e del rapporto tra istituzioni e cittadini. 

Altro aspetto positivo è rappresentato dal fatto che in questi anni di esperienza, secondo i nostri calcoli, più di 4.000 persone in tutta la Toscana abbiano preso contatto con le istituzioni. È un dato relativamente basso rispetto al numero complessivo dei migranti, ma rappresenta un motore importante  – all’interno delle varie comunità – per volgere in positivo il rapporto con le Istituzioni. 

Queste esperienze che, ripeto, hanno aspetti positivi e negativi, credo vadano superate. Occorre mantenerle per quelle che sono, ma la prospettiva deve essere il loro superamento attraverso l'esplicita affermazione del diritto di voto, alle elezioni amministrative, per i cittadini migranti residenti – poi si deciderà da quanto tempo – all'interno del nostro territorio, consentendo loro il pieno esercizio della cittadinanza di residenza. Verso questo obiettivo la strada principale sarebbe  una legge del Parlamento italiano che sancisca tali diritti in maniera esplicita. Nel caso in cui questa legge non dovesse essere approvata, in Toscana siamo determinati ad emanare una legge regionale che regoli il diritto di voto – per le sole elezioni regionali – per i cittadini migranti residenti in Toscana da un certo numero di anni, avendo noi capacità e competenza per decidere in materia.

Ritengo, e concludo, che questo sia il passaggio determinante per raggiungere la piena uguaglianza dei cittadini all'interno di una società di uguali. Senza di questo noi continueremmo sicuramente ad avere delle condizioni di disparità che non permetteranno la costruzione di quella società coesa e plurale alla quale tendiamo. Vi ringrazio.

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio l'assessore Salvadori. Credo che il suo ragionamento sia molto interessante e condivisibile e che impegni soprattutto noi, Parlamento nazionale. A dire la verità l'Italia ha ratificato la Convenzione di Strasburgo, non adottandone però quella clausola che prevede il diritto di voto ai cittadini stranieri da lungo tempo residenti. Credo sia giunto il momento di rimediare a questa omissione. L'esperienza di amministrazioni come quella Toscana dimostra che l'Italia è pronta a compiere un significativo passo in avanti in questa direzione.

Do la parola alla delegata del Sindaco di Roma alle politiche della multietnicità e dell’intercultura, Franca Eckert Coen, che spiegherà i motivi e l'impostazione di tali politiche da parte del Comune di Roma. La scelta di definirle in questo modo è abbastanza impegnativa: ritengo molto interessante conoscere le ragioni di questa impostazione. 

 

FRANCA ECKERT COEN, Delegata del Sindaco di Roma alle politiche della multietnicità e dell’intercultura. Buongiorno e grazie. Dopo cinque anni di lavoro al Comune di Roma mi sento oggi buttata nel grande mare Mediterraneo, con il rischio di affogare tra i vip europei.

Come diceva il Presidente questa mattina, penso che il ruolo degli Enti locali sia realmente molto importante, poiché sono a contatto con i cittadini e possono vedere bene quali siano i loro bisogni, per cercare di cooptarli, anche se poi, ovviamente, sono necessarie delle leggi. Spero che in questa Commissione sia possibile aiutarci, creando una rete territoriale che sia in condizione di fornire  suggerimenti che vengano ascoltati.

Come sappiamo, l’Italia è tra i paesi maggiormente interessati dal transito e dalla presenza degli stranieri. Il nostro paese ha comunque una percentuale di migranti ancora di molto inferiore a quelle del resto dell'Europa: abbiamo un tasso del 4,1 per cento che è minimo, se confrontato con il 5,6 per cento della Francia, o con il 7,8 della Spagna, o addirittura con l’8 per cento della Germania. Nelle scuole italiane i figli di immigrati costituiscono quest’anno il 4,8 per cento del totale degli studenti, mentre nel Regno Unito sono il 15 per cento e in Germania il 10 per cento.

In una ricerca recente, ameno nella sua formulazione generale, Roma – che ha una percentuale alta di migranti – è stata considerata, nonostante tutto, la città italiana con la più alta percentuale di creativi (24 per cento). Siamo molto impegnati nel cercare di passare dalla fase della tolleranza a quella della scoperta dei talenti. Seppur Roma goda, nel ritrovamento dei talenti tra i migranti, del primato italiano, l'Italia nel suo complesso si trova al trentaquattresimo posto, rispetto ai 39 paesi di cui sono disponibili i dati. 

Per quanto riguarda Roma e provincia, l’8 per cento di immigrati presenti nella città sale al 10 per cento nella provincia. Nel 2004 i nati con madre o padre straniero sono stati 3.411, su un totale di 25.900 nati; i matrimoni con almeno un genitore straniero sono stati 2.440, su un totale di 12.000. È interessante notare che i matrimoni con ambedue i genitori stranieri sono stati 1.069, mentre i matrimoni, per così dire, misti, in 1.031 casi sono stati tra la madre straniera ed un uomo italiano e solo in 349 casi tra un padre straniero e una donna italiana. Sappiamo che la madre – la donna – è importante nella catena di  trasmissione delle tradizioni ai figli: abbiamo dunque un grande lavoro da fare.

Roma è multietnica da sempre. Mi piace a tal proposito citare Cicerone: «Quanti dicono che si deve badare ai concittadini e non agli stranieri dissolvono l'universale società degli uomini e, distruggendo questa, si distrugge del tutto l'inclinazione a fare il bene, la generosità, la rettitudine e la giustizia». Sebbene sia quindi da sempre stata città multietnica, Roma ha ancora un atteggiamento di accoglienza di tipo caritatevole, inteso in termini di servizio sociale e non di  crescita sociale, culturale ed imprenditoriale. Questo modo di agire purtroppo non produce cambiamenti, crea sclerotizzazione e rischia di degenerare in omologazione e in scontro. Manca quindi un impegno serio e organizzato: la politica economica prevale ancora rispetto ad una politica della multietnicità e dell’intercultura. Con la presenza di 192 nazionalità diverse e un massiccio aumento dei vari culti, in particolare della fede musulmana, affrontare questo problema è importante, come abbiamo sentito dagli oratori questa mattina.

Siccome un dialogo può esservi solo laddove vi sia pari dignità, bisogna lavorare assiduamente sul diritto di voto e sul diritto di cittadinanza. A Roma, con l’elezione dei consiglieri aggiunti in Campidoglio e nei Municipi – per un totale di 23 –, abbiamo appunto cercato di dare voce politica autonoma ai non appartenenti all'Unione Europea. Trenta cittadini provenienti da paesi stranieri, questi non votati, hanno inoltre formato la Consulta delle comunità straniere. Pensiamo sia molto importante che questi due elementi convivano: i consiglieri aggiunti hanno la possibilità di intervenire nei Consigli comunali con mozioni e delibere, seppur senza diritto di voto; la Consulta serve come base per il rapporto con i cittadini stranieri. Naturalmente di questo parlerà il consigliere aggiunto.

Abbiamo creato inoltre la Consulta delle donne del mondo in politica, per la frangia dei più deboli, che si sono dimostrati essere le donne, appunto, e i minori. Per l'ottenimento della cittadinanza abbiamo dato vita ad un progetto intitolato Cittadini si diventa”; come sapete in Italia vige lo ius sanguinis che non permette di acquisire la cittadinanza alla nascita; la legge che la concede dopo dieci anni è, d’altra parte, vetusta. Abbiamo seguito un iter molto interessante; essendo però limitato il tempo a disposizione, risponderò in seguito ad eventuali domande in merito. Questo progetto è oggi esteso alla nazione con il G2. 

Si tratta dunque di prove generali, di provocazioni importanti per il Governo e per i legislatori, che potranno legiferare in conformità ai reali bisogni. Direi che se i beneficiari di queste azioni sono stati principalmente i diretti interessati, cioè i non appartenenti all'Unione Europea, queste esperienze sono state un’eccellente scuola anche per i dipendenti comunali, per gli operatori del settore – e per la popolazione tutta – : per un’elezione anomala come quella dei consiglieri aggiunti hanno imparato, ad esempio, le lingue straniere. Si sono posti, e risolti, problemi inerenti i canali per comunicare l’iniziativa, le lingue in cui farlo, la traduzione, ad esempio, dei passaporti cinesi. A questo sono seguiti corsi di formazione dei dipendenti comunali nei quali, per la prima volta, è comparsa la voce intercultura. 


Il lavoro importante che stiamo svolgendo sugli autoctoni – sui romani e sugli italiani – è di ben più ampia portata. Partendo dal presupposto che l'appartenenza etnica dell'individuo non è altro che una parte del proprio patrimonio culturale, cerchiamo di far prendere coscienza ai nostri concittadini e ai nostri natives che noi romani e noi italiani siamo tutti differenti per cultura, genere, appartenenza religiosa; stamattina si parlava della memoria: «noi conoscere noi». Abbiamo perciò firmato protocolli di intesa con le varie confessioni religiose, abbiamo creato una Consulta delle religioni e, con i laici, una Consulta della libertà del pensiero e della laicità delle Istituzioni, che sono stati esempi per altri Comuni d'Italia.  Credo che l’elemento fondamentale e unificante ne sia la laicità di base, che non si contrappone alla religione – laici sono stati sia i credenti, sia i non credenti –, ma si oppone al laicismo intollerante ed al clericalismo intollerante; al Dio che diventa idolo e all'idea che diventa ideologia; a coloro che credono, pretendono di avere l'unica verità. Dichiarare la laicità dello Stato e la libertà religiosa però non basta. Come dicevamo, per il dialogo necessitano pari dignità e pari opportunità, anche di status.

La legge sulla libertà religiosa in Italia non è stata ancora approvata, benché gli ultimi emendamenti la peggiorassero anziché migliorarla. Dal 1983, data del nuovo Concordato tra Chiesa e Stato, sono state approvate solo 6 intese, 2 sono state firmate e non approvate e 6 appena avviate, laddove in Italia ci sono 34 religioni che hanno facoltà di stringere tali intese, avendo figura giuridica. A Roma ce ne sono più di 20 – una di queste è propria quella musulmana –, 17 delle quali hanno firmato il protocollo di intesa con il Comune, dando vita alla Consulta delle religioni. 

Abbiamo così cercato di presentare in Campidoglio le religioni meno conosciute; abbiamo dato vita ad alcune pubblicazioni come Roma delle religioni (e non Roma della religione); abbiamo cercato di dotare ogni culto di luoghi idonei alla preghiera e alla trasmissione della tradizione; abbiamo creato ambienti non consacrati in luoghi pubblici per la meditazione e la preghiera: nei cimiteri, negli ospedali, nelle prigioni; abbiamo incontrato i premi Nobel: a questo proposito uscirà una pubblicazione del Campidoglio.

Concludendo, è importante che l'esperienza del dialogo interreligioso sia gestita da un Ente pubblico, più che dagli esponenti della religione di maggioranza. Quando parlo di dialogo interreligioso non parlo ovviamente di culto, ma di un dialogo basato sulla pari dignità e sulla pari possibilità, per ciascuno, di educare i figli secondo il proprio culto. Credo allora che quanto avviene in una città come Roma sia molto importante, anche perché essa si propone come città della pace e forse, per la sua storia, per la presenza della Città del Vaticano, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo è la più titolata ad esserlo, dopo Gerusalemme. In un’epoca in cui i fondamentalismi e il supermarket interreligioso hanno invaso gli spazi pubblici, sociali e politici è rimasto il bisogno di spiritualità. La rapidità delle comunicazione e la facilità dei viaggi hanno creato timori per possibili contaminazioni e meticciati. Paura che viene strumentalizzata da coloro che hanno interesse a far credere che le religioni siano un conflitto di civiltà. Questo diffuso senso di insicurezza, da cui nasce il bisogno del sacro, porta a maggior ragione l'immigrato a ricercare la propria sicurezza nelle tradizioni di origine: l’ebreo andava in giro con la Torah, il cristiano con la Bibbia, il musulmano con il Corano.

È importante che la tradizione mantenga quella sua insita, incessante e creativa vivacità; che permetta di permearsi delle usanze del paese di adozione; che non diventi invece tradizionalismo, che si ferma al passato e non si evolve. Nel film Il violinista sul tetto, il violinista diceva: “Tradition, tradition”, e intanto sotto di lui cambiava la vita. Dobbiamo aiutare, quindi, i diasporici ad approfondire – e a far acquisire ai loro figli – la conoscenza della propria origine e la corretta conoscenza del nostro paese, della nostra cultura, della lingua e delle genti. 

È inutile che mi ripeta, è già stato detto: il rispetto e la cultura degli altri, la conoscenza e la condivisione portano ad un incontro. Occorre tuttavia una pedagogia per il dialogo, il quale non può essere improvvisato. Bisogna più che altro insegnare a tutti a non avere paura: se si ha paura si diventa vulnerabili e aumentano i pregiudizi. Grazie.

 

(Applausi

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a Franca Eckert Coen. Anche da lei è stato interpellato il Parlamento: come suo rappresentante mi sento investita di questa questione. Possiamo dire che una risposta è già stata avviata, tanto che è in discussione una proposta di legge del Governo che cambia la legge sulla cittadinanza in Italia, che solo nel 1992 aveva portato a dieci anni, in controtendenza con il resto d'Europa, l'obbligo di residenza per i cittadini naturalizzati. La nuova legge dovrebbe abbassarlo questo periodo a cinque anni, avvicinandolo alla media Europea. Ci auguriamo anche di arrivare ad un percorso più trasparente e meno discrezionale. 

Do la parola al consigliere aggiunto del Comune di Roma, Aziz Darif. 

 

AZIZ DARIF, Consigliere aggiunto del Comune di Roma. Buonasera a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare l'onorevole De Zulueta e l'istituto Euromed per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo incontro importantissimo. In quanto politico debuttante, ho preparato il mio intervento.

In un mondo dai confini sempre più ampi e nel quale sono sempre più forti le correnti di emigrazione di massa, l'Italia – che fino a qualche decennio fa ha conosciuto direttamente la lacerante realtà dell’emigrazione – sta acquisendo un carattere multietnico ogni giorno più evidente. Tra le persone provenienti da paesi extracomunitari già regolarizzate e quelle la cui pratica è in corso di regolarizzazione, la cifra dei migranti presenti in Italia consta attualmente di oltre 2,5 milioni di unità, pari a più dell'11 per cento dei lavoratori residenti. È una realtà che Roma conosce bene: nella nostra città sono presenti circa 300.000 immigrati e la loro forza lavoro è stimata intorno alle 120.000 persone; le richieste di regolarizzazione sono state 104.000, pari a circa il 15 per cento del totale nazionale.

Roma ha manifestato un interesse serio nell'accoglienza di tutti noi stranieri, anzitutto creando la figura del consigliere aggiunto. Nel ricoprire tale ruolo ho la funzione di rappresentare le necessità della mia comunità – nel mio caso quella africana – e di esserne il portavoce. Mi occupo in primo luogo di garantire i diritti fondamentali dei cittadini stranieri a Roma e di assicurare ai lavoratori le migliori condizioni possibili. In secondo luogo, costituisco una sorta di ponte tra i vecchi romani e i nuovi, di origine straniera, e come tutti i cittadini esercito il diritto ad intervenire in ogni questione riguardante il governo della città.

Il futuro di Roma, o meglio del paese, è in effetti di tutti noi. Basta considerare che in quasi ogni classe delle scuole elementari romane è ormai consueta la presenza di bambini di origine asiatica, africana, sudamericana o dell'Europa orientale: bambini che spesso parlano correttamente l'italiano, o con lo stesso accento romano dei loro compagni; bambini che, con ogni probabilità, saranno i futuri professionisti, operai, artigiani e commercianti di Roma. I nostri figli saranno cittadini italiani, vivranno qui e contribuiranno più di noi al benessere collettivo. Con questa prospettiva sentiamo che si rafforza la necessità di essere parte dello Stato perché, come tutti i genitori, vorremmo essere partecipi della vita dei nostri figli, ad esempio potendo esprimere la nostra opinione per quanto riguarda la loro educazione. 

L'introduzione dei consiglieri aggiunti e l’istituzione di un comitato cittadino che rappresenta tutte le comunità straniere presenti in città segnano un contributo concreto. Il procedimento elettorale, scandito dal programma, porta infatti con sé una forte valenza civica, un nuovo senso di appartenenza delle persone che vengono chiamate alle urne, un nuovo legame che si crea tra il Campidoglio, i Municipi e i concittadini di origine straniera. Le proposte di iniziativa consiliare costituiscono un primo passo storico che Roma compie in questa direzione e che rientra perfettamente nel solco della sua tradizione e della sua identità. Roma è, agli occhi di tutti, una città del mondo, una città aperta − la cui civiltà è stata da sempre segnata dal contatto con le più differenti culture −, una città che accoglie, una città che, nella sua grandezza, ha come caratteristica distintiva la mancanza di quei ghetti etnici che, in altre realtà metropolitane, costituiscono purtroppo una tristissima barriera sociale e politica nel cammino delle comunità straniere verso un processo di piena partecipazione e condivisione alla vita di tutta la città.


Con l'elezione dei consiglieri aggiunti nel Consiglio comunale e nei Consigli municipali e con la costituzione del comitato cittadino per la rappresentanza delle comunità straniere, Roma lancia dunque un ulteriore, importante, segnale di apertura. In questa importante esperienza vi è il limite serio della mancanza del diritto di voto nella vita istituzionale, senza il quale siamo rimasti handicappati, perché non abbiamo avuto tutta la forza di cambiare ed essere decisivi. Adesso sarebbe importante aggiungere all’elevato valore simbolico dell'iniziativa un potere concreto: i cittadini stranieri devono poter votare rappresentanti che abbiano gli strumenti per far valere i loro diritti. 

Essendo la prima esperienza nella nostra storia, la figura del consigliere aggiunto è ancora sconosciuta, perciò i cittadini stranieri pensano a noi come ad una salvezza per tutti i problemi. Questo ci crea delle difficoltà: dobbiamo spiegare che siamo soltanto dei rappresentanti, senza poteri magici. 

Riguardo ai cittadini italiani, essi sono molto curiosi nel capire che ruolo abbiamo e per quale motivo sia stato creato un ruolo del genere. Per quanto riguarda le nostre attività, abbiamo per esempio presentato delle mozioni importanti nel Consiglio comunale a proposito del permesso di soggiorno, riferite alla legge ancora in vigore, che ha reso l'immigrato come una macchina che, per poter vivere a Roma − o in Italia −, dovrebbe funzionare per sempre. Abbiamo inoltre presentato in Campidoglio una delibera sulla cittadinanza, che questo Governo ha preso in considerazione. Per la prima volta è stata deliberata la creazione di un centro interculturale, o Casa dei popoli, dove italiani e stranieri possono incontrarsi per svolgere delle attività culturali, culinarie, artistiche e di altro tipo. Abbiamo anche partecipato e creato incontri di dialogo tra stranieri e di dialogo interreligioso, come diceva la delegata alla multietnicità del Comune di Roma, Franca Eckert Coen.

Per compiere un viaggio e per raggiungere una meta occorre muovere i primi passi: questo è un principio rimasto uguale per tutti a distanza di tempo. Occorre ricordare che la libertà e la democrazia o sono di tutti oppure sono un privilegio, e che per evitare il pericolo di una società divisa tra chi ha diritti e chi non ne ha, è necessario che ogni cittadino abbia pari dignità e che non si inverta il cammino della storia. 

Per tutto questo mi auguro allora che la nascita della figura del consigliere aggiunto non sia un punto di arrivo, ma la tappa iniziale di un processo complesso e fondamentale, che vorrei avesse un seguito a Roma e − mi auguro − a livello nazionale. 

 

(Applausi)

 

 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie signor Darif. La sua esperienza è molto importante per la piena conoscenza di questo tentativo di sperimentazione di inclusione, i suoi vantaggi e i suoi limiti. 

Do avvio al dibattito. Il primo iscritto a parlare è il signor Nicos Cleanthous, membro del Vouli Antiprosopon di Cipro. Ne ha facoltà.

 

NICOS CLEANTHOUS, Vouli Antiprosopon di Cipro. Onorevole Presidente, mi associo agli altri oratori congratulandomi con lei per l'ottima organizzazione di questa riunione. Le auguriamo ogni successo per l'avvenire. 

Cari colleghi, affrontare la questione dell'immigrazione nelle nostre città è e continua ad essere assolutamente necessario, in un tempo in cui l'intolleranza e la sfiducia verso i migranti − che pure sono parte di tutte le economie in crescita − portano a politiche più difensive nei confronti  dell'immigrazione e i migranti legali continuano ad essere emarginati nelle società ospitanti. Ciò detto, si può giungere alla conclusione che queste frizioni derivino sia da parte degli autoctoni, sia da parte dei migranti. Si può dire che l’immigrazione riguarda sia la vita sociale che il mercato del lavoro, poiché i migranti non sono dei meri lavoratori, ma spesso risiedono in un paese straniero insieme alle loro famiglie. Qualsiasi misura volta a integrare i migranti dovrebbe quindi occuparsi anche della loro istruzione, del loro accesso ai pubblici servizi ed alle istituzioni, nonché della conoscenza della lingua e della cultura altrui. 

A questo punto accenno in particolare alle donne migranti, un gruppo vulnerabile con condizioni, priorità e requisiti specifici. Pur rappresentando il 54 per cento della popolazione migrante, le donne sono spesso le meno integrate e le più emarginate, perché soffrono sia della discriminazione di genere che di discriminazione etnica. Dal punto di vista dell’Unione Europea l’immigrazione è trattata come una questione che richiede una pianificazione a lungo termine. La sfida non include oggi, tuttavia, soltanto la capacità di crescere in modo armonico con i migranti, ma anche il far sì che i cittadini dei paesi terzi che risiedono nell'Unione possano contribuire alla crescita economica dei loro paesi. 

Come Parlamenti nazionali dovremmo sostenere il piano d'azione di Rabat e contribuire a raggiungere un accordo politico sulle migrazioni che sia conforme ai principi di solidarietà e sviluppo collettivo, così da affrontare con efficacia la radice profonde delle migrazioni: la povertà.

Prima di concludere, consentitemi di riaffermare il deciso impegno della Repubblica di Cipro a difendere i diritti umani di tutti i migranti. Il mio paese − come tutti i paesi meridionali membri dell’Unione Europea − è sempre stato un esportatore di migranti, ma negli anni recenti si è trovato tra i paesi di destinazione dell’immigrazione. La nostra passata esperienza contribuisce a un più alto grado di sensibilità alle esigenze dei migranti legali che risiedono nel nostro paese.

Cipro ritiene che ci debba essere un’azione comune tra l'Unione Europea e i suoi partner. Dovremmo costruire un ambiente sano per i migranti che comprenda anche il loro benessere e la loro sicurezza. 

 

TANA DA ZULUETA. È iscritto a parlare il signor Agostinho Gonçalves dell'Assembleia da República del Portogallo. Ne ha facoltà.

 

AGOSTINHO GONÇALVES, Assembleia da República del Portogallo. Grazie, signora Presidente.

Bisogna cercare di vincere quelle barriere culturali, linguistiche e sociali tipiche di chi è straniero in una comunità.

Il primo ostacolo è rappresentato dalla lingua del paese dove vorrà lavorare: è fondamentale che questi cittadini dispongano di tale plusvalore per riuscire ad inserirsi nel mondo dove dovranno lavorare e dove potrebbero trovare delle ostilità. Ci sono, certo, persone disponibili, ma ci sono spesso anche discriminazioni rigide, severe, violente: alcuni rimangono vittime della propria fragilità. Se il migrante riesce a trovare delle opportunità, questo rappresenta un grande vantaggio; se tuttavia egli viene sfruttato come manodopera straniera, la situazione diventa molto difficile, in quanto si troverà in situazioni di lavoro in cui la sicurezza e l'igiene sono assolutamente ignorate, e non avrà diritto ad alcun tipo di compenso. Ebbene, in questi casi, se l'emigrante conosce la lingua del paese dove lavora, potrà difendersi; mentre nel caso in cui non la conosca in un’eventuale azione sociale o civile troverà grossi ostacoli a far valere i propri diritti. Questo riguarda tutta la questione dell’immigrazione. La nostra Commissione deve interessarsi di tutti i problemi dei migranti, in modo che essi possano avere delle informazioni e si possano concepire delle politiche di sostegno in materia di sanità, di educazione e di integrazione sociale. 

Per quanto riguarda l'istruzione, è fondamentale l'apprendimento della lingua scritta e parlata, insieme alla conoscenza della geografia, della storia e delle tradizioni del paese in cui l'immigrato intende vivere. Per quanto riguarda la salute è anche necessario l'accesso privilegiato a tutte le strutture sanitarie, nonché il diritto a godere di tutti i diritti degli altri cittadini. Per quanto riguarda l'abitazione, non bisogna praticare discriminazioni, ma anzi delle politiche urbane che favoriscano l’integrazione dei migranti. Anche nello sport la partecipazione ad attività sportive − insieme alla collettività locale − è un’attività molto stimolante.

Abbiamo quindi una strada da costruire per offrire vantaggi a tutti.


 

TANA DE ZULUETA. È iscritta a parlare l'onorevole Fatma Pehlivan, membro del Sénat del Belgio. Ne ha facoltà.

 

FATMA PEHLIVAN, Sénat del Belgio. Grazie, Presidente. Vorrei anzitutto ringraziare gli oratori per gli interessanti contributi. Anch’io sono responsabile per l’immigrazione nel mio paese: è interessante avere uno scambio di punti di vista tra persone che partecipano alla vita politica nazionale dei rispettivi, differenti, paesi. 

L’immigrazione è all'esame di molte Istituzioni, anche a livello europeo. Le realtà dell’immigrazione sono diverse, motivo per cui dobbiamo non soltanto sviluppare delle politiche per le migrazioni e per i lavoratori migranti, ma anche per coloro che vengono nei nostri paesi per lavorare su base temporanea, i quali a loro volta hanno una propria identità, un proprio passato ed una propria cultura: si tratta di nuovi cittadini, con nuovi diritti e nuovi doveri. Proprio per le diversità dei tipi di migranti è importante sviluppare una politica dell’immigrazione.

Nelle politiche dell’immigrazione bisogna sempre tenere conto dell'elemento principale, rappresentato dall'integrazione, come è stato compreso in molti paesi dell’Unione Europea. Integrazione significa poter partecipare attivamente nella società, senza essere emarginati e senza dover adottare le caratteristiche culturali della maggioranza. L'integrazione deve permettere la partecipazione di ciascuno in tutti i campi sociali, non soltanto all’interno di una società multiculturale in cui diversi gruppi etnici vivono fianco a fianco, ma anche attraverso l’interazione tra questi gruppi. Dobbiamo non soltanto riconoscere le differenze dell'altro, ma anche imparare a relazionarci con queste differenze, venendone arricchiti. 

I diversi pareri sull'integrazione culturale si ritrovano riflessi nelle diverse Istituzioni che lavorano in questo settore ed hanno un'influenza sull'integrazione delle religioni. È importante parlare dell'acquisizione della nazionalità e dei diritti di voto, perché anche l’assimilazione politica è fondamentale. Ne sorge una questione importante: l'integrazione può essere considerata una condizione per accordare particolari diritti, oppure accordando tali diritti si può stimolare l'integrazione?

È in realtà difficile distinguere in quali campi l'integrazione sia necessaria e quando l'identità personale debba essere sottolineata. La creazione di una società multiculturale rappresenta una sfida per il futuro: spesso gli immigrati vengono per restare e questo è un dato di fatto che dobbiamo accettare. Resta quindi ancora molto da fare per creare tale società: avere a che fare con la diversità non consente un atteggiamento discriminatorio, richiede al contrario un’apertura mentale. La società multiculturale deve essere più moderata e costruirla è compito sociale e politico di tutti i cittadini coinvolti. Dobbiamo favorire le relazioni fra le minoranze e la maggioranza − su una base di equità −, la comunicazione, l’interculturalità ed una maggiore partecipazione da parte delle minoranze. Dobbiamo creare un modello di cittadinanza multiculturale su una base di equità. 

 

TANA DE ZULUETA. È iscritto a parlare Mahmoud Karoui, membro della Camera dei deputati della Tunisia. Ne ha facoltà.

 

MAHMOUD KAROUI, Camera dei deputati della Tunisia. Questa mattina abbiamo audito parecchi oratori. Ho annotato qualche frase degli intervenuti che ci potrebbe servire per la discussione pomeridiana.

Il professor El Houssi ha detto stamani che bisogna creare uno spazio di rispetto euromediterraneo.

Il dottor Matvejevic’ ha detto che è meglio parlare di vicinato che non di partenariato: tutti sappiamo che è stato il Presidente del Consiglio Prodi a promuovere la politica di vicinato. Da qualche anno a questa parte notiamo però, purtroppo, che anche nella nostra lingua corrente di parlamentari euromediterranei, si parla molto più di politica − o di partenariato − euromediterranea, che non di vicinato euromeditarraneo. Questo è il punto al quale teneva il professor El Houssi.


Sono peraltro d'accordo con l'onorevole Deflesselles, che ritiene essere giunto il momento di raccogliere la bandiera della concretezza. Condivido questo parere perché da due anni si parla di migrazioni. Se ne è parlato in molti termini diversi: sfida migratoria, migrazioni positive,  migrazioni negative, migrazioni clandestine; si è parlato di quote, di migrazioni controllate, di ogni genere di migrazione. Oggi ascoltiamo di esperienze nelle strutture locali senz'altro importanti e rivelatrici di processi − o di politiche − di integrazione.

Propongo di soffermarci un po’, in questa Commissione, sui fattori delle migrazioni: a mio parere c'è un fattore cui si è accennato ma che non ha suscitato sufficiente riflessione. Si è parlato dei fattori positivi delle migrazioni, dei fattori di ritorno, dei fattori che possono trattenere le persone a casa loro: tutto ciò che si può ricondurre allo sviluppo economico delle regioni del Sud. Tutti sappiamo che esiste un divario di tipo economico ma − come lei ha detto, signora Presidente − a questo si aggiunge la povertà digitale: il divario digitale tra nord e Sud è tale da sfavorire lo sviluppo del Sud. Abbiamo parlato di trasferimenti tecnologici, del programma Erasmus, del numero di borse di studio concesse, dell’importanza di queste borse. Si è parlato anche di scambio di studenti, studiosi, universitari: tutto ciò a mio parere merita di essere maggiormente approfondito.

Perché la nostra Commissione sia costruttiva, propongo che essa scelga due temi da studiare, nel modo che i colleghi converranno di scegliere, magari con gruppi di lavoro di due o tre persone. Il primo punto che propongo riguarda gli scambi nel campo della ricerca e del trasferimento di nuova tecnologia; l’altro problema − che non è stato toccato, benché se ne parli da due anni − è la creazione dell'università euromediterranea, che dovrà rappresentare un grande spazio di dialogo culturale e di scambi interculturali. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei. Oggi abbiamo trattato l'argomento dal punto di vista degli arrivi, ma va considerato anche il punto di vista di chi parte. Recepiamo comunque la sua proposta, in modo da poter organizzare un’ulteriore riunione su questi aspetti, in maniera qualificata ed utile a tutti.

Ritengo che le migrazioni siano un fenomeno mondiale che merita un’attenzione − come lei dice − meno episodica e meno dettata da impulsi nazionali o di sicurezza. Si tratta di un fenomeno transnazionale, è la sfida del millennio: insieme dovremo non solo raggiungerne una buona comprensione, ma soprattutto elaborare delle buone politiche per affrontarla.

È iscritta a parlare Ibtsam Mikhail, membro dell’Assemblea del popolo dell’Egitto.

 

IBTSAM MIKHAIL, Assemblea del popolo dell’Egitto. Onorevole Presidente, signore e signori, l'emigrazione dai paesi meridionali dal Mediterraneo verso l'Europa − sia essa legale o illegale − è una delle caratteristiche più importanti del fenomeno migratorio a livello internazionale. C’è una situazione umanitaria che conosciamo da tempo: si tratta di persone alla ricerca di una situazione migliore o che fuggono da una situazione peggiore.

Gli Stati europei − la cui situazione economica non è così brillante come in passato − stanno frapponendo ostacoli all'ingresso dei migranti. Questo fa sì che i migranti che giungono in questi luoghi finiscano poi per vivere in ghetti. Le difficoltà affrontate nei paesi di arrivo rendono sempre più difficile la situazione dei migranti nei paesi europei. Tutti conosciamo queste difficoltà di integrazione nella società e nel mercato del lavoro. Il loro livello di formazione è sempre più basso e lontano dal livello di formazione richiesto; ciò porta a forme di sfruttamento illegale dei migranti. Il crescere delle difficoltà dei migranti impone ai paesi ricchi di impostare una politica globale di integrazione che tenga conto del futuro e dei problemi che queste ondate migratorie possono creare.  Bisognerebbe operare anche affinché questi emigranti godano del diritto alla residenza, e non vivano quindi in situazioni illegali.

Il problema dell'integrazione degli emigranti non è solo limitata ai paesi di arrivo: sappiamo che anche i paesi di partenza non sono all'altezza delle loro responsabilità. Uno dei principali problemi dei paesi di partenza è rappresentato dai pochi sforzi intrapresi per la formazione, per preparare le nuove generazioni in modo che siano adeguate alla situazione dei paesi di arrivo.

La soluzione dei problemi migratori deve essere affrontata a livello mondiale. Non basta infatti semplicemente insistere sulla necessità di integrazione: si deve condurre una vera e propria consultazione fra paesi esportatori e paesi importatori di migranti. Questa consultazione deve avvenire nell'ambito di convenzioni internazionali bilaterali. Nei paesi settentrionali, a causa dei cambiamenti economici in corso, si stanno assumendo invece iniziative unilaterali.

In secondo luogo va tenuto presente che i diritti dei migranti sono diritti umani: essi non devono essere discriminati per quanto riguarda l'alloggio, la formazione e su nessun altro terreno.

La soluzione non sarà definitiva se non faremo cessare le cause primarie dell’emigrazione: occorre prendere iniziative per ridurre i tassi di disoccupazione e per incentivare lo sviluppo nei paesi che necessitano di migliorare il proprio livello di vita.  

C'è poi un'altra domanda che si impone: fino a che punto si può contare sulla costituzione di un comitato in cui siano rappresentati tutti i migranti mediterranei nei paesi europei? Questo dovrebbe servire a creare contatti tra i migranti e le autorità competenti, così che essi possano rivolgersi agli Stati tramite questo comitato, che sarebbe organizzato sulle linee di quanto vi ho appena esposto.

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio la collega, che fa sempre delle proposte molto concrete e delle analisi molto precise.

Credo che questa Commissione condivida la sua valutazione sull'importanza di una regolamentazione a livello mondiale del fenomeno migratorio, che nessuno può risolvere unilateralmente; in questa sede noi possiamo avviare un primo abbozzo.

Come lei sa, Kofi Annan sperava nella costituzione di una agenzia ONU a ciò dedicata, ma non ha trovato il sostegno dei paesi membri. Ciononostante l'Assemblea generale delle Nazioni Unite  di quest'anno era dedicata alle questioni delle migrazioni e del lavoro. Credo che noi dobbiamo prenderne il testimone, approfondendo, come lei suggerisce, la questione.

È iscritto a parlare Hasan Khreishi, membro del Consiglio legislativo della Palestina. Ne ha facoltà.

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina. Signora Presidente, signore, signori, siamo consapevoli della gravità dei problemi connessi all’immigrazione, sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo.

L’emigrazione è solitamente volontaria ed è legata a situazioni economiche, sociali o politiche difficili. Noi però conosciamo una situazione davvero sui generis: assistiamo ad un’emigrazione di genere nuovo, un’emigrazione forzata, che la comunità internazionale conosce come il fenomeno dei profughi.

Esso esiste in regioni come la Palestina o Cipro. Noi palestinesi siamo stati espulsi nel ’48 − quando è stato creato lo stato di occupazione − e da allora viviamo in campi profughi. I palestinesi vivono dentro i territori palestinesi occupati: circa il 70 per cento nella Striscia di Gaza e il 35 per cento in Cisgiordania. Un  25 per cento dei palestinesi all'interno della linea verde sono anch’essi profughi, cui vanno aggiunti quelli che vivono, da profughi, nei paesi arabi.

Come si tratta la questione di questi profughi? Come Autorità nazionale palestinese, noi li consideriamo ospiti e riteniamo che la situazione vada risolta sulla base di due condizioni.

Occorre una soluzione politica dell'intera questione che imponga a chi ne è responsabile di farsi carico della propria responsabilità storica e morale per quanto riguarda la tragedia palestinese e l’occupazione israeliana. In secondo luogo, occorre considerare che Israele e la comunità internazionale sono i due responsabili. Vi sono risoluzioni ONU in merito sin dalla creazione dello Stato di Israele. La risoluzione n. 194 chiedeva, ad esempio, il ritorno dei profughi alle loro case e alle loro terre e prevedeva un compenso nel caso in cui tali case e terre fossero state confiscate. Gli abitanti autoctoni di quelle terre si sono trovati ad essere profughi in diaspora.

I politici devono quindi trovare una soluzione.


Quanto alle elezioni municipali e legislative, i nostri profughi non vi partecipano perché sono ancora sotto l'ombrello della UNRWA. Anche nei paesi arabi essi continuano purtroppo ad essere trattati in base alle leggi lì vigenti. Vi sono leggi che li trattano alla stessa stregua degli altri profughi, e ci sono paesi dove i palestinesi non sono trattati su un piano di uguaglianza. In Libano, ad esempio, i profughi palestinesi che vivono nei campi non possono lavorare: è impedito loro di esercitare più di 70 professioni. Come si fa a risolvere il problema? Li integriamo?

Parlando di memoria, possiamo integrare questa memoria nella società in cui vivono attualmente? Oppure dobbiamo aiutarli a tornare ai loro luoghi di origine? Stiamo parlando di territori in cui vive un gran numero di persone. Nel campo di Jenin, distrutto dalle forze di occupazione, 15.000 profughi palestinesi vivevano nella superficie di un solo chilometro quadrato. Nell'attuale campo di Hanoun 120.000 persone vivono in un chilometro quadrato e mezzo. Nella Striscia di Gaza una superficie totale di 300 chilometri quadrati è per metà controllata dalle forze di occupazione, mentre nell'altra metà vivono quasi 1,5 milioni di persone, senza servizi sanitari né d’altro genere, senza contare le stragi che subiscono continuamente. Mi chiedo come possiamo risolvere questa situazione attraverso l'integrazione, cui si è accennato: formando Commissioni oppure tornando alla legalità internazionale e insistendo sul fatto che il problema è un tutto indivisibile e non si può risolverne una parte, lasciando irrisolta l'altra?

Io ritengo che, nel mondo in cui viviamo, obbedire al dettato degli Stati Uniti voglia dire lasciare che siano la forza e la legge del taglione a tracciare la direzione del futuro mondiale.

C’è poi anche un altro aspetto: la collega israeliana ci ha detto che viene dall’Iraq. Perché non ci torna? Io che sono palestinese, perché non torno nella mia terra?

 

RONIT TIROSH, Knesset. Vorrei rispondere.

 

TANA DE ZULUETA. Non penso sia il caso di parlare di queste cose.

 

RONIT TIROSH, Knesset. Può chiedere al collega di non toccare temi politici? Altrimenti devo replicare: voglio sapere se intende risolvere il problema dei profughi o semplicemente usarli.

 

TANA DE ZULUETA. Ci sono anche altri iscritti a parlare.

Egli ha sollevato una domanda retorica, seppur da un punto di vista soggettivo. Anch’io sono figlia di profughi, se qualcuno di noi lo è, io lo sono: è una parte importante della nostra esperienza comune. Comunque, grazie.

È iscritta a parlare Martine Stein-Mergen, membro della Camera dei deputati del Lussemburgo. Ne ha facoltà.

 

MARTINE STEIN-MERGEN, Camera dei deputati del Lussemburgo. Signora Presidente, signore e signori, come gli altri oratori vorrei ringraziare la nostra nuova Presidente, per avere incluso il tema dell’immigrazione, in particolare con riferimento alle collettività locali. Ringrazio inoltre la Camera dei deputati per l'ospitalità.

Gli esempi relativi all’Italia mostrano come i paesi dell'UE abbiano riconosciuto la necessità dell’immigrazione per assicurare la creazione di una società della conoscenza, come previsto dal processo di Lisbona.

Il mio paese vive una situazione un po’ particolare, che potrebbe essere utile conoscere: oltre il 39 per cento della popolazione è costituita da stranieri. È previsto che tra una decina d'anni la popolazione autoctona verrà superata dalla popolazione straniera, con una crescita economica media del 3 per cento. Il fabbisogno di manodopera sarà tale che la manodopera non residente, che già attualmente è del 46 per cento, raggiungerà i livelli del 55 per cento nel 2055. Il nostro è un paese aperto alle altre popolazioni.

È evidente che questa situazione richiede una politica attiva dell’immigrazione, che permetta di reclutare il capitale umano necessario per lo sviluppo del nostro paese e, quindi, di integrare anche i migranti da paesi non europei. Questa politica deve essere accompagnata da una politica attiva di integrazione nella direzione della multiculturalità, come è già stato sottolineato. Non è sufficiente una semplice assimilazione − che già oggi è impossibile nel mio paese − affinché gli immigrati e le loro famiglie possano sentirsi realmente a casa loro.

Uno dei migliori stimoli a questa politica dell'integrazione mi sembra poter essere il facilitare la doppia nazionalità, come previsto da un progetto di legge attualmente all’esame della nostra Camera dei deputati. Questo porta a due vantaggi: acquisire la nazionalità del Lussemburgo migliorerà la qualità della vita della popolazione immigrata nel nostro paese, mentre il mantenimento della nazionalità di origine permetterà all’emigrante di continuare ad identificarsi con il suo paese. Vorrei anche osservare che nel mio paese i cittadini dei paesi terzi possono già votare alle elezioni comunali da ben tre anni. 

 

TANA DE ZULUETA. Questo era l'ultimo intervento. In questa sessione dei nostri lavori abbiamo voluto partire da un’esperienza diretta, concreta, come spero avremo occasione di conoscerne altre. Come ho detto al collega Karoui, abbiamo parlato dell’arrivo, ma si potrebbe parlare anche della partenza.

Nel preparare i nostri lavori futuri terremo conto dei vostri suggerimenti, delle idee che sono emerse ed eventualmente anche di quelle che potrete farci pervenire. 

Ringrazio i relatori per i loro interventi molto interessanti, utili e concreti. Spero che non saranno stati solo i colleghi ad ascoltarli, ma anche il Parlamento italiano. Grazie.

 

La tutela dell’ambiente marino nell’area mediterranea, anche alla luce delle recenti emergenze ambientali connesse alla crisi libanese

 

TANA DE ZULUETA. Per poter chiudere in orario i nostri lavori suggerirei di passare, senza soluzione di continuità, all'ultimo tema alla nostra attenzione: «La tutela dell’ambiente marino nell’area mediterranea, anche alla luce delle recenti emergenze ambientali connesse alla crisi libanese».

Di questo argomento ci ha investito il Bureau, in particolare per quanto riguarda un’esperienza drammatica e concreta avvenuta la scorsa estate nel corso del conflitto tra Israele e Libano: la cosiddetta marea nera e i gravi danni ambientali subiti dalla costa libanese, in seguito al bombardamento di un deposito di carburanti. Abbiamo pensato che, proprio partendo da un’esperienza concreta come il risultato della crisi libanese, avremmo potuto in primo luogo conoscere le attività e le azioni intraprese in quella sede. Mi dispiace tanto che i colleghi libanesi non abbiano potuto partecipare alla nostra riunione, poiché erano molto interessati a seguire questa questione. 

Relatore su questo argomento è il professor Silvestro Greco, Commissario straordinario dell'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare. Il professor Greco ci è sembrato un interlocutore importante per questo incontro, non solo per la sua competenza sul tema generale della protezione dell'ambiente marino e per la sua conoscenza degli strumenti offerti dalle convenzioni vigenti − che sono state ratificate dai nostri paesi membri −, ma soprattutto perché l’ICRAM, insieme all'Agenzia italiana per l'ambiente, ha messo in piedi una task force intervenuta in Libano, in risposta credo tempestiva all'appello lanciato dal Ministro dell'ambiente libanese in seguito alla crisi.

Ho considerato molto interessante questa esperienza perché buona parte dei paesi che hanno risposto all'appello del Ministro per l'ambiente appartiene al PEM. Molti paesi rivieraschi del Mediterraneo, ciascuno in modo diverso, hanno risposto all'appello e l’insieme di queste azioni internazionale è in corso di coordinamento da parte del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente. Abbiamo reso disponibile il documento, che potete trovare anche su internet, per avere degli aggiornamenti. 

Do ora la parola al Commissario straordinario dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (ICRAM), professor Silvestro Greco.

 

SILVESTRO GRECO, Commissario straordinario dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (ICRAM). Grazie anzitutto dell'invito. Ho ascoltato con grande attenzione gli interventi della giornata, che ritengo ovviamente importantissimi e che si legano al discorso che vi farò io. 

Io sono un tecnico, un biologo marino, sono nato come biologo della pesca, ho lavorato molto nel mar Mediterraneo, in particolare nel canale di Sicilia, proprio nell’ambito della gestione delle risorse, dello stock assessment. Questo costituisce solo uno dei grandi temi della politica del Mediterraneo, di questo mare che bagna tutte le nostre nazioni.

Attualmente abbiamo una serie di problemi.

Il primo di essi è rappresentato dal fatto che il 30 per cento del traffico mondiale di petrolio e prodotti petroliferi incide su circa lo 0,8 per cento delle acque di tutto il pianeta. Attualmente nel Mediterraneo ci sono 38 mg di catrame pelagico per metro quadro; per avere un termine di paragone, si pensi che il mare del Giappone ha 0,2 mg di petrolio-catrame pelagico per metro quadro.

La situazione venutasi a creare in seguito alla distruzione di serbatoi costieri in Libano si è inserita in un quadro globale del Mediterraneo di per sé già drammatico. Voglio ricordarvi che il Mediterraneo è a tutti gli effetti un piccolo oceano, come dimostrato dalla scoperta di alcune fosse che superano i 5000 metri di profondità, con una serie di scambi, attraverso lo Stretto di Gibilterra, che provocano un lentissimo ricambio della massa d'acqua in questo pur piccolo mare.

Da una parte abbiamo quindi una serie di problemi legati all'inquinamento, causati dal traffico marittimo e dal fatto che il 70 per cento della popolazione dei nostri paesi vive nella fascia costiera dei 50 chilometri che si affacciano sul mar Mediterraneo. L'80 per cento delle attività industriali, delle attività di trasformazione, delle attività antropiche inquinanti − con una immissione in mare di sostanze di tutti i tipi − si riflettono in questa strettissima fascia costiera. Come sapete, negli ultimi cinquant'anni abbiamo prodotto ventimila sostanze di sintesi, in precedenza estranee al nostro ecosistema marino. Queste ventimila sostanze di sintesi si ritrovano ormai nelle reti trofiche: il fitoplancton, lo zooplancton e la maggior parte dei pesci del Mediterraneo contengono queste sostanze. Si hanno quindi un inquinamento legato al petrolio, un inquinamento legato alla chimica di sintesi ed un problema di gestione integrata della fascia costiera mediterranea, che non trova interlocutori validi e nemmeno vede lo stesso impegno da parte di tutti i paesi rivieraschi.

D'altra parte l'episodio del Libano − che nulla ha a che vedere, ovviamente, con l’ecoecologia del Mediterraneo − ha innescato una crisi in una delle zone dove è presente anche un’area marina protetta. In Libano lo sversamento di questo gasolio da combustione ha ricoperto un'area di circa 20 miglia, si è depositato sul fondo e nel sottocosta tale deposito ha impedito e ad oggi ancora impedisce – anche se stiamo lavorando, e tra breve vi dirò cosa stiamo facendo – la captazione di acqua di mare per far funzionare la centrale elettrica. Insieme alle Capitanerie di porto italiane abbiamo per prima cosa recuperato tutto il prodotto petrolifero depositato sul fondo, attraverso un sistema di sorbone.

 

Il mio gruppo lavora da due giorni dopo il disastro. Inizialmente ci siamo appoggiati alla Siria, non potendo andare direttamente in Libano, considerato paese belligerante. Dalla Siria – che ringrazio per l'ospitalità – abbiamo svolto una prima analisi e quantificato il problema. Da allora ad oggi non ci siamo mai fermati, stiamo ancora lavorando, devo dire, nell’ambito di un rapporto mediterraneo legato al REMPEC, il Centro regionale per le emergenze petrolifere del programma delle Nazioni Unite.

L'esempio del Libano dimostra, in maniera inequivocabile, che i conflitti − che ovviamente generano morti, distruzioni e in occasione dei quali l'aspetto umano diventa prioritario −, in una fase di forte antropizzazione delle coste, cagionano ovviamente anche problemi ambientali. Per fortuna in questo caso si è trattato di un evento limitato − considerati lo spazio e le quantità−, ma esso avrebbe potuto anche verificarsi in altri siti. Come sapete, la maggior parte dei depositi di carburante nel Mediterraneo sono costieri e quindi, di fatto, direttamente collegati al fragile ecosistema marino, un ecosistema che dimostra, ormai senza ombra di dubbio, che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza mediterranea.

Qui si riscontra una contraddizione in termini e reale: mentre affermo che esiste un problema di emergenza Mediterraneo, se qualcuno di voi mi chiedesse qual è la situazione del Mediterraneo vi risponderei che non lo so. Gli studi di ricerca esistenti che si occupano del mare sono limitati solo ad alcune aree, poiché la limitatezza dei fondi disponibili costringe ad agire solo su aree puntiformi. Non abbiamo però un’idea dello stato di salute complessivo del mar Mediterraneo, così come non abbiamo un’idea precisa delle risorse della pesca, che sono risorse condivise, comuni. 

Le quantificazioni degli stock di pesce – ad esempio il pescespada o il tonno − nelle aree di pesca dei nostri paesi sono necessariamente imprecise perché tali aree non hanno confini geografici stabili. Nel Mediterraneo gli areali di distribuzione delle specie sono ampie: alcune specie sono presenti addirittura in tutti e 22 i paesi rivieraschi.

In questo quadro si colloca, tra l'altro, anche una diversità strutturale e politica. Come sapete tra i paesi rivieraschi vi sono cinque paesi comunitari che adottano alcune regole e 17 paesi non comunitari che ne adottano altre. In un bacino dove sarebbe quindi necessario avere un’autorità sovranazionale comune (anche per la gestione delle risorse ed in materia di inquinamento), noi non riusciamo a sviluppare percorsi comuni, se non attraverso le convenzioni. Penso, per esempio, alla Convenzione di Barcellona. In realtà − come ho sentito dire questa mattina, in riferimento ad altri casi − non siamo riusciti a creare un effettivo scambio, né una rete di istituti di ricerca che lavorino concretamente insieme per affrontare questi problemi. È ovvio, infatti, che la gestione delle risorse, dell'inquinamento e delle emergenze debba diventare condivisa e debba necessariamente essere affrontata su scala di bacino.

Pensate che quest'anno ad agosto, nel canale di Sicilia, abbiamo avuto una temperatura di 29 gradi sulla superficie del Mediterraneo, quando la norma ne prevede 24. Questo significa che anche nel Mediterraneo stiamo assistendo a cambiamenti climatici importanti, che si evidenziano ora perché i tempi di crisi in un bacino non sono tempi rapidi, ma molto lenti. Non riusciamo mai a comprendere i fenomeni nel momento in cui si verificano: ne abbiamo solamente dei segnali, come ad esempio il fatto che la temperatura superficiale notturna del Mediterraneo ad agosto è stata di 29 gradi. Un altro segnale che abbiamo avuto quest'anno è stata un’invasione di meduse nel mar Mediterraneo, come non accadeva da decenni: la ciclicità della loro presenza sta aumentando. Un altro dato è rappresentato dall’invasione delle nostre coste da parte di un’alga tropicale – la Ostreopsis – che crea numerosi problemi, sia dal punto di vista turistico e della balneazione, sia dal punto di vista della salute umana, poiché i pesci, che poi consumiamo, nutrendosi di essa ne veicolano il passaggio.

Esiste quindi tutta una serie di segnali di sofferenza del bacino mediterraneo, ai quali dobbiamo ancora rispondere collettivamente. Penso che questa sia la sede adatta per lanciare una proposta di questo tipo. Il mio Istituto centrale per la ricerca applicata al mare ed anche il Ministero dell'ambiente italiano sono disponibili, da subito, a tutte le relazioni con i paesi mediterranei che possano essere utili per promuovere, lanciare, creare momenti di riflessione scientifica, di scambi di esperienze, di contenuti ed anche di formazione. In ecologia non esistono le integrazioni: in ecologia esistono le interazioni.

Io ritengo che sia questa la chiave di volta che può forse essere applicata anche a temi diversi dall'inquinamento, e mi riferisco ai temi dei quali oggi vi siete occupati. 

Vi ringrazio. 

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA. Penso che questo nostro appuntamento potrà probabilmente essere foriero di ulteriori contatti e soprattutto di progetti di cooperazione, oltre a quello già in atto in Libano.


Esistono una serie di Convenzioni sul tema della tutela dell'ambiente marino, tra cui la più importante è quella di Barcellona. Poco tempo fa, il 6 settembre di quest'anno, la Commissione europea ha presentato una propria Comunicazione, con la quale si prendeva atto della sofferenza del mar Mediterraneo. In essa si faceva il punto delle politiche per la protezione e la pulizia del mar Mediterraneo e si poneva inoltre un obiettivo attraverso il progetto “Horizon 2020”, che segna una data entro la quale bisognerà avviare una serie di azioni. Nella stessa occasione − e credo che questo sia un aspetto importante − si è potuto fare il punto della situazione sul fatto che il declino del mar Mediterraneo interessa tutti i paesi rivieraschi, cioè più di 140 milioni di persone che risiedono sulle coste del Mediterraneo, così come interessa lo sviluppo a lungo termine di attività economiche, oltre che la sostenibilità ambientale e la perdita della biodiversità (questioni legate alla pesca ed al turismo).

Circa questa questione mi chiedevo se si sappia che la Convenzione ha attivato dei fondi, mettendoli a disposizione dei governi nazionali e di progetti bilaterali. Che tipo di azione permetterebbero di intraprendere? La Commissione ha constatato che, benché i rimedi siano conosciuti, poco si è fatto per adottarli, ed ascrive questa scarsezza di risultati ad una bassa priorità politica. Altrimenti il PEM, nel suo piccolo, può farsi carico di tentare di sensibilizzare i nostri parlamenti nazionali e di una debole cooperazione. In questa sede non parliamo d’altro che di cooperazione. Mi chiedevo se si potesse concretamente immaginare cosa fare anche in sede multilaterale e bilaterale. 

 

SILVESTRO GRECO, Commissario straordinario dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (ICRAM). Alcuni di questi programmi sono già in atto, ma fino ad oggi non siamo mai riusciti a varare un Piano mediterraneo che, partecipandovi tutti i soggetti, tenesse conto di tutte le realtà: abbiamo sempre dei dati mancanti. In un sistema di bacino così piccolo, la mancanza anche di un solo dato impedisce di capire il complesso, ad esempio, delle reti trofiche. Se non abbiamo idea di quali siano i vari livelli di reti trofiche, non possiamo capire in che modo l'aumento di una singola specie incida, per esempio, sulla pesca o sulle risorse, oppure in che modo i cambiamenti climatici intervengano a modificare le condizioni di temperatura o di salinità del bacino.

Esistono oggi una serie strumenti a mio avviso molto interessanti, dotati, tra l’altro, anche di una forte copertura economica. Penso, per esempio, al Programma mediterraneo SAP-BIO dell’UNEP, che ha una notevole dotazione finanziaria, ma anche ad alcune convenzioni che abbiamo sottoscritto. Penso al censimento delle praterie di Poseidone del Mediterraneo e ad altre convenzioni, come per esempio ACCOBAN, sulla conservazione e la difesa dei mammiferi marini nel Mediterraneo; penso a tutte le linee di finanziamento legate a vari centri regionali, ad esempio al RASPA di Tunisi sulle aree protette, e a tutte le derivazioni di queste convenzioni, che danno un forte input economico anche alla presentazione di progetti.

In questo si inserisce quella che a mio avviso è la chiave di volta del problema: la prospettiva di un’Unione Europea che venga stimolata ad allargare le maglie dei programmi di formazione. Il mondo della ricerca è attualmente strutturato in modo tale che, nel momento in cui si inserisce un paese mediterraneo, esso non viene avvantaggiato dall'Unione Europea, cosa che invece avviene quando si inserisce un paese del nord Europa, o un paese dell'est Europa.

A noi sembra doveroso e urgente che tutte le écoles di formazione di ricercatori, di scambio di ricercatori, siano invece finalizzate in direzione sud-sud, un sud cui di fatto l'Italia appartiene: io sono calabrese, sono nato nel sud di questa terra, e ho sempre avuto come dirimpettai il Nordafrica e la Grecia. Credo che la politica debba innescare dei meccanismi virtuosi anche in questo senso.

Ritengo che la politica sia anche un meccanismo di facilitazione dei rapporti. La comunità scientifica – cui appartengo − per definizione non ha pregiudizi o preconcetti: siamo ben contenti di avviare integrazioni culturali con gli altri paesi mediterranei, anche perché questo ci serve per comprendere i fenomeni.

 

 

TANA DE ZULUETA. Il primo iscritto a parlare è Aurelio Juri, membro dell’Assemblea Nazionale della Slovenia. Ne ha facoltà.

 

AURELIO JURI, Assemblea Nazionale della Slovenia. Signora Presidente, anche questa volta sarò molto breve.

La relazione del professor Greco mi ha entusiasmato perché ci allerta seriamente sul problema oggetto di discussione e ci invita a ragionare su politiche concertate e strategie comuni, non soltanto nel quadro dell'Unione Europea, ma in tutta l'area mediterranea. Si tratta di concertare politiche che vanno dalla progettazione territoriale alla tecnologia dei trasporti. Sappiamo che l'Unione Europea ha irrigidito le regole di trasporto, stabilendo anche quale tipo di sicurezza debbano assicurare i tanker, cosa che altri paesi non hanno ancora fatto.

Anche nell’Unione Europea ci sono però alcune contraddizioni. Benché se ne parli frequentemente, nessuna politica energetica comune viene attuata. Di recente c'è stata la polemica sui rigassificatori nell'Alto adriatico, che è ancora in corso: si devono fare oppure no? e dove vanno collocati? In parte la questione è stata risolta perché sia la Slovenia sia l’Italia sono state coinvolte nella valutazione di impatto ambientale.

Va poi ovviamente considerato − come notava il professor Greco− che esistono diverse tecnologie di pesca: talvolta assistiamo addirittura a conflitti o scontri fra pescatori. Anche in questo ambito sarebbe necessario un impegno comune dei paesi per creare consorzi di pesca in quelle aree che maggiormente risultano sensibili all'inquinamento ambientale. Penso che la nostra Commissione debba lanciare un appello in proposito ai nostri governi ed ai nostri parlamenti, e debba cominciare a ragionare in funzione di strategie di sviluppo comuni per tutti quei settori che possono incidere sulla qualità dell'ambiente.

 

TANA DE ZULUETA. È iscritta a parlare Rodoula Zissi, membro della Vouli ton Ellinon della Grecia. Ne ha facoltà.

 

RODOULA ZISSI, Vouli ton Ellinon della Grecia. Vi ringrazio. A nome della delegazione greca e del Parlamento greco desidero ringraziare dell’ospitalità e congratularmi per il successo di questo incontro.

Una volta si diceva che l’ambiente è un valore per la vita, è la cattedrale della vita e della qualità della nostra vita. Quindi dobbiamo muoverci: l’ambiente non ha limiti, non ha tempo; l’ambiente Euromed non ha limite alcuno, quindi, se vogliamo una solidarietà ambientale, dobbiamo muoverci  verso una democrazia dell’ambiente e trovare gli strumenti, progetti o altro, strumenti di cooperazione e sinergia. Soltanto una democrazia dell’ambiente può portare ad uno sviluppo sostenibile e alla pace nella nostra famiglia Euromed.

Devo formulare alcune proposte, ma vorrei riferire che le acque costiere dei mari chiusi sono più vulnerabili alle pressioni umane dell’oceano aperto. Quindi è necessario sapere che le acque costiere si rinnovano piuttosto velocemente, ci vogliono 80 anni per l’intero Mediterraneo, mentre il profilo verticale si completa in 250 anni. Perciò i problemi degli ecosistemi sono molto difficili; i problemi di inquinamento di origine industriale, urbano o navale sono di carattere piuttosto locale, anche se in alcuni rari casi possono essere di confine.

Le misure intraprese negli ultimi dieci anni hanno diminuito notevolmente la rilevanza dei problemi legati all’inquinamento e al risucchio nelle zone costiere, senza tuttavia eliminarli del tutto. È chiaro che assumere delle misure concrete, in modo integrato, interattivo e, come si diceva, sostenibile, per le zone costiere in tutta l’area Euromed è questione di alta priorità e non un’azione civile di importanza locale o regionale.

Ci sono alcuni progetti. Il mio paese, la Grecia, e altre nazioni del Mediterraneo hanno partecipato a diverse attività parallele e collegate nell’ambito del Piano di Azione del Mediterraneo dell’UNEP. Queste attività riguardavano un ampio raggio di azione, dal monitoraggio della qualità dell’inquinamento delle acque marine, in generale – il programma MedPol che conoscete –, a progetti di gestione per la protezione di specie marine a rischio. In Grecia abbiamo Kareta-Kareta e Monapus-Monapus in alcune regioni, e il programma SPA, oltre a progetti di gestione delle zone costiere. Ci sono state anche altre azioni. Possiamo utilizzare quelle azioni ora, come programma per lo sviluppo sostenibile delle zone costiere e delle isole, e background per una proposta di strumenti legali, un ambito speciale per lo sviluppo sostenibile delle zone costiere.

Quando ero Vice Ministro per l’ambiente, al tempo della Presidenza ellenica dell’UE, ci fu una conferenza internazionale ai vertici sulle zone costiere a Creta.

Quindi le proposte e le conclusioni sono di seguire una linea di finanziamenti e implementazioni. Prendiamo impegni precisi mirati a queste implementazioni: primo, elaborazione di progetti di sviluppo sostenibile delle zone costiere; secondo, protezione di zone costiere selezionate come riserve culturali naturali; terzo, azioni speciali in zone costiere selezionate, gestione integrata delle isole, progetti pilota per la gestione integrata di zone costiere e insulari.

Penso che dobbiamo mirare a garantire sinergie e complementarietà di tutte le specifiche politiche settoriali, in modo bilanciato, sostenibile e rispettoso dell’ambiente; promuovere gli interessi delle imprese Euromed coinvolte, garantendo al tempo stesso la protezione dell’ambiente marino e la gestione sostenibile delle risorse marine; sviluppare un’economia sostenibile legata al mare rispettando a pieno il patrimonio costiero e marino, riconoscendo, a questo scopo, il ruolo centrale di sani ecosistemi marini; trovare l’equilibrio critico tra le direttive della Comunità Europea e i pertinenti fora internazionali, l’IMO ad esempio, oltre che tra misure vincolanti di flessibilità e sussidiarietà. Ritengo che dobbiamo supportare adeguate sinergie e cooperazione con paesi terzi confinanti come contributo all’implementazione delle direttive europee Euromed da parte di quei paesi membri che non confinano con altri paesi membri; e naturalmente fornire un idoneo mix di  strumenti volti a promuovere l’implementazione soprattutto nelle aree più esterne dell’Unione, che danno un forte contributo alla sua dimensione marittima, salvaguardando al tempo stesso il principio della  proporzionalità.

Penso dunque che i progetti ci siano. Abbiamo le opportunità per tutto ciò, ma dobbiamo decidere, se vogliamo andare avanti – decidere tutti insieme nella famiglia Euromed –, di rendere operativi questi progetti; gli impegni ci sono per promuovere la sostenibilità in questa area. La sostenibilità è lo strumento per la pace e naturalmente per lo sviluppo.

Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. La ringrazio per il suo contributo: la sua esperienza di Ministro dell'ambiente può essere messa a frutto dalla nostra Assemblea.

È iscritta a parlare Ibtsam Mikhail, membro dell’Assemblea del popolo dell’Egitto. Ne ha facoltà.

 

IBTSAM MIKHAIL, Assemblea del popolo dell’Egitto. Sarò breve. Ho una serie di proposte che sarei lieta di elencare.

Vorrei fare appello a tutti i partner mediterranei perché si accomunino gli sforzi per creare un sistema di allerta rapida, in caso di catastrofi come terremoti ed uragani, che dovrebbe includere tutti i paesi membri. Penso si possa partire dai problemi già esistenti, analizzandoli e facendo tesoro dell'esperienza dei paesi che già dispongono di sistemi progrediti.

 

Dobbiamo attuare un piano di azione ambientale dell'Unione Europea che finanzi progetti per formare quadri ed operatori professionali in campo ambientale, così da consentire ai nostri paesi di attuare politiche ambientali, concertate anche con i paesi limitrofi del terzo mondo. Tutti i partner debbono operare per mettere in pratica le disposizioni della Convenzione di Barcellona e scambiare esperienze di sviluppo sostenibile. 

Vi è poi una responsabilità che spetta ai governi mediterranei: tutelare l'ambiente attraverso le disposizioni necessarie per proteggere le risorse naturali, senza sfruttarle fino all'esaurimento, e per tutelare il nostro ambiente affinché tutto sia incluso nei piani di sviluppo sociale ed economico. Nei bilanci di tutti i nostri paesi deve comparire la voce ambientale. A questo proposito va coordinato l'impegno dell'Assemblea parlamentare Euromed, così che vengano promulgate normative per affrontare i vari rischi ambientali esistenti.

 

TANA DE ZULUETA. In assenza della signora Ronit Tirosh, che si era iscritta a parlare, ha facoltà  di intervenire il consigliere dell'Ambasciata d'Israele, Elazar Cohen.

 

ELAZAR COHEN, Consigliere dell'Ambasciata d'Israele. esprimo il desiderio di Israele di collaborare alle iniziative nel settore ambientale.

Ora abbiamo tutti preso atto di questo documento sull'inquinamento ambientale: sappiamo cosa sia stato – purtroppo – all'origine di questo inquinamento costiero da petrolio, ma questo non è il luogo per analizzare tale aspetto del problema. Qui dobbiamo concentrarci su come scongiurare questo tipo di inquinamento e su come cooperare fra paesi per impedire queste azioni in futuro.

Questo è il mio piccolo contributo, signora Presidente, e spero che la sua decisione sarà in linea con ciò che io ho suggerito. 

 

TANA DE ZULUETA. Non so a cosa lei stesse facendo riferimento, ma il nostro lavoro è stato finora molto costruttivo.

Trasmetteremo tale richiesta al Bureau, per dare seguito a queste osservazioni su un disastro ambientale che, nella missione di recupero ed intervento, ha coinvolto molti paesi. Sulla costa libanese sono intervenuti parecchi paesi euromediterranei, insieme ad organizzazioni della società civile come Greenpeace e ad associazioni ambientaliste libanesi, in un tentativo comune di risolvere situazioni ambientali di potenzialmente estremo pericolo.

La questione della sede opportuna per intraprendere azioni legali non era un punto all'ordine del giorno, ma penso abbiate trovato utile includerlo, come utile è stata l'intera discussione, per il suo tentativo di sensibilizzare i Parlamenti affinché seguano più efficacemente l'agenda della cooperazione ambientale.

Quello in questione è stato un incidente fra i molti: qui ci occupiamo di norme generali.

È ora iscritta a parlare l'onorevole Beatrice Patrie, membro del Parlamento europeo. Ne ha facoltà.

 

BEATRICE PATRIE, Parlamento europeo. La ringrazio. In primo luogo mi congratulo con lei e con l’Ufficio di presidenza per aver collocato questo tema ambientale all’ordine del giorno della riunione odierna. È una delle espressioni di ciò che la nostra Assemblea e, più in generale, le Istituzioni euromediterranee possono produrre in concreto: una collaborazione, il sostegno a programmi comuni in materia di tutela ambientale e, per quanto ci riguarda oggi, in materia di tutela del nostro mare comune, il Mediterraneo.

A questo proposito suggerisco che in una delle prossime riunioni si possa trattare la questione ambientale come questione centrale, magari dedicando un’intera riunione della nostra Commissione al tema, perché chiaramente, a quest’ora tarda, un certo numero di colleghi ci ha abbandonato. 

Vorrei spendere due parole sulla questione specifica iscritta nel nostro ordine del giorno, anche alla luce delle recenti emergenze ambientali connesse alla crisi del Libano: la tutela dell’ambiente marino nel bacino mediterraneo. Credo che la questione sia l'inquinamento del litorale libanese, non a seguito di un disastro o di una calamità naturale, come ci ha detto il professor Greco. Questo inquinamento non deriva neppure da una crisi − non so bene cosa sia questa crisi libanese −: esso deriva, molto concretamente, dal bombardamento, il 13 e 15 luglio scorsi, della centrale elettrica di Jiyeh, che ha causato l'esplosione di serbatoi di idrocarburi sulle coste libanesi.

Contrariamente a quanto leggiamo nel rapporto degli esperti europei, incaricati del disinquinamento del litorale libanese, non si tratta di bombardamenti di origine misteriosa (in tale rapporto la loro origine non viene qualificata). Non si tratta quindi né di calamità naturale, né di bombardamenti fatti per opera dello Spirito Santo, né di una crisi: si tratta di una guerra, di bombe sganciate come una sorta di punizione collettiva nei confronti di un paese che la collega israeliana – di cui deploro l’assenza – ha definito territorio, ma che io invece definisco Stato sovrano.

In breve: è vero, c'è stato inquinamento ambientale in Libano, e non solo sulla costa, ma su centinaia di ettari di terra libanese (sui quali l'Unione Europea, nell'ambito dei suoi accordi di associazione, ha sostenuto finanziariamente parecchi programmi di sviluppo agricolo) che ora sono interamente inquinati e inadatti all’utilizzo agricolo, a causa dello spargimento di munizioni a frammentazione. Questo è il punto a cui siamo e questa è la posta in gioco con il disinquinamento, non solo del litorale libanese, ma anche della terra agricola del Libano.

Ne deduco che occorra mobilitare i Parlamenti delle due sponde del Mediterraneo per far convergere i fondi europei nel sostenere gli utili ed interessanti programmi ed obiettivi che ci ha esposto il professor Greco. Dal mio punto di vista, in materia di diritto internazionale vi è un principio molto semplice: chi inquina paga. Nella risoluzione adottata dal Parlamento europeo a seguito della guerra in Libano, abbiamo ribadito questo principio, trasformandolo un po’. Il caso in questione non è evidentemente di inquinamento industriale: abbiamo allora affermato che anche quando, a seguito di una guerra – sulle cui ragioni e responsabilità non mi soffermo –, dei territori sono interamente distrutti, ebbene, l'autore di queste distruzioni, che per estensione definisco l’inquinatore, ha una responsabilità economica e finanziaria di cui si deve far carico. Al Parlamento europeo abbiamo affermato, nel quadro molto specifico della guerra del Libano, il principio della responsabilità ambientale a seguito di guerre siffatte. 

 

TANA DE ZULUETA. È iscritto a parlare Hasan Khreishi, membro del Consiglio legislativo della Palestina. Ne ha facoltà.

 

HASAN KHREISHI, Consiglio legislativo della Palestina.Ritengo che quanto ha detto la collega del Parlamento europeo sia più che sufficiente. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Io ho esaurito l'elenco dei colleghi parlamentari che hanno chiesto di parlare. È qui presente la dottoressa Francesca Assennato, dell’Agenzia per l'ambiente, che voleva parlare proprio di un’esperienza diretta di collaborazione bilaterale ed ambientale con l'Algeria.

 

FRANCESCA ASSENNATO, APAT. Anzitutto voglio ringraziarvi per l’invito e per l'opportunità di parlare a questa Assemblea.

Vorrei sottolineare l'importante ruolo che questa Assemblea e la Commissione possono avere nei confronti della promozione e della prevenzione dei disastri, siano essi di origine naturale o, come nel caso del Libano, antropica. Questa questione è essenzialmente culturale e può quindi trovare importanti momenti utili alla soluzione dei problemi nei programmi di scambio e di sviluppo di una cultura comune.

In questo senso, anche da altri consessi internazionali viene l’indicazione di inserire gli elementi di riduzione dei rischi all’interno delle strategie politiche e delle agende politiche dei singoli paesi  e delle assemblee intergovernative. Questo ha delle conseguenze anche sull'esperienza di cooperazione fra singoli paesi, come quella che il nostro paese ha avviato con l'Algeria, e pone l'accento proprio sull'importanza della prevenzione e della preparazione alle emergenze.

Uno degli argomenti inseriti nel programma di collaborazione è proprio la predisposizione di strumenti per la gestione delle emergenze nell'ambito del Mediterraneo: uno scambio di esperienze e di know-how proprio su questo tema, che speriamo tutti possa essere promosso anche da parte di questa Commissione. 

 

TANA DE ZULUETA. Poiché non vi sono altri interventi, il professor Greco vorrebbe chiudere con qualche suo commento ed annotazione rispetto alle vostre osservazioni. Ne ha facoltà.

 

 

SILVESTRO GRECO, Commissario straordinario dell’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (ICRAM). Ho ascoltato con grande interesse i vostri interventi. Essi dimostrano – ed è un caso raro nel panorama internazionale – la forte capacità della polis qui presente di relazionarsi con i saperi. Normalmente la polis si spaventa di fronte ai saperi ed alla conoscenza, ha difficoltà a pensare di dover accettare la conoscenza scientifica per poi mediarla attraverso i meccanismi della polis e della politica.

Ovviamente io non sono un tecnico asettico, sono un uomo che vive la realtà del suo tempo, nato in un paese che certo non vede la guerra come un meccanismo di soluzione dei conflitti.

Da un punto di vista tecnico e scientifico, non si può però avere un approccio di political pollution, o di hysterical pollution, come l’ha definita un ecologo norvegese. Bisogna invece ragionare in termini di actual pollution, quindi in termini di numeri. E i numeri dicono, onorevoli parlamentari, che non siamo più in un tempo in cui si possa ancora parlare di sostenibilità. A mio avviso – e ormai la comunità scientifica mondiale ha le idee chiarissime su questo – noi siamo su un treno in corsa, diretto verso non si sa dove; siamo tutti dentro alle carrozze di questo treno, senza che nessuno si preoccupi di dove esso stia andando. Attualmente il problema ambientale planetario è di questo tipo.

I temi che voi avete centrato, anche a partire dal discorso energetico, necessitano sicuramente di una risposta. Noi stiamo parlando di costruire rigassificatori in zone dove già esistono centrali nucleari. Occorre calcolare contestualmente tutti i rischi, entro una logica in cui sia chiaro verso quale sviluppo stiamo andando, qual è l'obiettivo del nostro mondo, dove vuole arrivare il nostro pianeta, qual è la proiezione della comunità planetaria rispetto allo sviluppo ed alle risorse, alla gestione degli stock ittici, alla gestione dell’ecosistema marino.

Anche per non tediarvi con le rispettive sigle, non avevo citato in precedenza – cosa che ha invece fatto correttamente l’onorevole greca – tutta una serie di progetti, a molti dei quali ho partecipato personalmente: ad esempio, come referente nazionale del piano di azione mediterranea e nel centro regionale per le aree protette, eccetera.

Mi chiedo però quale sia, in questi progetti, l'effettiva presenza dei paesi rivieraschi al di fuori di quelli europei. Vi invito a visionare questi rapporti, a verificarne i numeri, ad esaminare le risorse destinate ai 5 paesi comunitari e quelle destinate agli altri. Dobbiamo entrare anche nel merito delle questioni: è vero che abbiamo lanciato una politica di ricerca mediterranea, anche sulla pesca – basti pensare al MEDITS (Mediterranean international trawl survey) –. Essa permette però di partecipare, di fatto, a soli sei paesi, mentre il resto dei paesi – che dispongono del 90 per cento delle risorse di pesca – non partecipa.

È quindi ovvio che dobbiamo veramente riuscire a stimolare nei nostri Governi questa disponibilità all'interazione, in particolare in una materia così delicata come quella ambientale. Io non sono un catastrofista, fermo restando però che dobbiamo realmente prendere ora alcune decisioni, in particolare su bacini così piccoli e così stressati come il bacino mediterraneo.

Concludo rispetto ad un intervento dell'onorevole egiziana: noi attualmente abbiamo gli strumenti per capire non già quando avverrà un terremoto, ma sicuramente quando nel Mediterraneo sta per verificarsi un maremoto. Di fatto, ed è stato dimostrato, le morti causate dal grande terremoto di inizio secolo tra la Sicilia e la Calabria, a Reggio, non sono state causate dal terremoto, ma dal maremoto. Anche il Mediterraneo ha infatti un rischio tzunami che viene sottovalutato. Attualmente abbiamo gli strumenti tecnologici per avvisare le popolazioni rivierasche, anche perché non siamo nella situazione sud-est asiatico: ormai ogni abitante delle zone del Mediterraneo ha mediamente uno o due telefoni, quindi basta un SMS per avvisare.

Di fatto non è partito ancora alcun piano, se non nella Conferenza di Parigi di quest'anno – Global Conference on Oceans, Coasts and Islands – dove c'è stato un primo tentativo. Anche la comunità internazionale dovrebbe spingere in questa direzione. La comunità scientifica è disponibile a farlo: è nella nostra natura.

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il professor Greco. Chiudiamo così l'ultima sessione della riunione della nostra Commissione. 

Ringrazio tutti per la partecipazione. Siamo molto onorati di avervi avuto qui alla Camera dei deputati.

Molti colleghi mi hanno chiesto la data del prossimo appuntamento. Se non vi sono obiezioni, come data per la nostra seconda riunione preparatoria in vista dell'Assemblea plenaria di Tunisi, proporrei lunedì 26 febbraio, probabilmente a Roma. Questa proposta vi verrà comunicata anche formalmente. 

 

(Applausi)

 

La seduta termina alle ore 17,30.


 

*In allegato la traduzione dal francese dell’intervento del deputato rumeno Alecsandre Stiucä, nel testo consegnato alla Presidenza

 

ALECSANDRE STIUCÄ, Deputato del Parlamento romeno. Signora presidente, colleghe e colleghi, signore, signori, sono onorato dell’invito a partecipare a questa seduta della Commissione unitamente ad altri illustri invitati. Innanzitutto mi permetta, signora presidente, di esprimere la mia soddisfazione e di ringraziare gli organizzatori di questa riunione per le magnifiche condizioni di ospitalità.

La migrazione, benché non sia un concetto nuovo, è un fenomeno attuale in Europa, un fenomeno nel quale sono coinvolti anche numerosi cittadini romeni. Devo mettere l'accento sul fatto che i motivi socio-economici sono quelli da contrastare con i provvedimenti che stiamo avviando. In questo particolare problema, non dobbiamo dimenticare le reazioni seguite alla direttiva Bolkestein, che mirava a regolamentare in maniera significativa, nell’area europea, il fenomeno della migrazione e della libera circolazione della manodopera. Non dobbiamo dimenticare che il disegno iniziale di tale proposta ha scontentato diversi Stati membri, i quali temevano una concorrenza illecita da parte delle imprese dell’est.

Nel contesto dei dibattiti sulla migrazione, tengo a precisare il fatto che la Romania si trova  anche in una situazione inedita e paradossale. Recenti studi evidenziano una penuria di manodopera in alcuni settori dell’economia, a causa della partenza di centomila romeni, fra i quali molti operai qualificati. Questa situazione si verifica sebbene le cifre macroeconomiche indichino un ritmo di crescita economica della Romania superiore alla media rilevata negli Stati circostanti.

Quanto all’integrazione degli immigrati con le popolazioni locali, la Romania vanta un’esperienza relativa all’integrazione di diversi studenti originari da paesi mediterranei, divenuti poi uomini d’affari o medici, che hanno messo su famiglia nel nostro paese o richiamato i loro parenti per ricomporre le famiglie.

Recentemente, la Romania si trova di fronte ad un flusso di immigrati provenienti dalla vicina Repubblica di Moldavia, fenomeno motivato parzialmente dall’imminente integrazione del mio paese nell’Unione Europea.

Rimarchevoli sono i recenti sviluppi in Spagna, come in Italia, dove ampie comunità romene hanno già ottenuto dei diritti politici ed elettorali. In questo momento, i cittadini romeni di Spagna danno vita ad un partito politico. Benché ufficialmente si parli di circa trecentomila romeni in Italia e, allo stesso tempo, approssimativamente di cinquecentomila in Spagna, in realtà il numero è di gran lunga superiore. Le O.N.G. romene parlano di circa un milione e mezzo di romeni in Italia e un milione in Spagna. In questi due paesi gli immigrati romeni tendono a costituire la principale minorità etnica.

Noi apprezziamo il fatto che gli Stati membri dell’Unione Europea abbiano aperto il mercato del lavoro ai cittadini romeni nonostante i pareri in merito non siano unanimi e permangano alcuni timori in qualche Stato dell’Unione Europea riguardo ai flussi di immigrati provenienti da Romania e Bulgaria.

Siamo fiduciosi che la Romania otterrà presto da tutti gli Stati membri della Unione Europea il diritto di libera circolazione della sua manodopera e, in questo ambito, le strutture governative e politiche nazionali lavorano per ottenere, a livello internazionale, gli accordi necessari ad affermare i vantaggi d’utilizzo della manodopera romena.  

Infatti, come è stato dimostrato prima, nell’Unione Europea un apporto di immigrati   determina una sensibile crescita economica del paese ospitante.

Per ritornare all’argomento della migrazione fra gli Stati partner euromediterranei, considero necessario lottare contro alcuni fattori che la determinano, quali la povertà ed altri fattori socio-economici, senza dimenticare gli aspetti dovuti ai fenomeni socio-politici violenti, che ne sono spesso alla base.

Ringrazio per l’attenzione.

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ASSEMBLEA PARLAMENTARE EURO-MEDITERRANEA

 

 

Commissione per la promozione della qualità della vita,

 gli scambi tra società civili e la cultura

 

ATTI

 

 

 

 

Lunedì, 26 febbraio 2007

Palazzo Montecitorio – Sala della Regina



 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Iniziamo i nostri lavori dando il benvenuto a tutti voi, illustri ospiti, sperando in una fruttuosa giornata di lavoro.

Darei subito la parola al Vicepresidente della Camera dei deputati, l’onorevole Carlo Leoni.

 

CARLO LEONI, Vicepresidente della Camera dei deputati. Cari colleghi e colleghe, illustri professori, gentili ospiti. Sono particolarmente lieto di aprire la seconda riunione, presso la Camera dei deputati, della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra le società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. 

Si tratta di un appuntamento di grande rilevanza che vede riuniti i parlamentari dei paesi membri dell’Unione Europea e dei paesi mediterranei aderenti alla dichiarazione di Barcellona in un progetto comune, volto a raccogliere insieme le sfide comuni del terzo millennio a partire dall’impegno per la pace e contro il terrorismo, ed a fare del bacino del Mediterraneo un’area di pace, di sicurezza, di stabilità. 

Siamo pienamente consapevoli del ruolo che i Parlamenti possono e debbono giocare nella costruzione di questo spazio.

L’Assemblea parlamentare euro-mediterranea costituisce infatti un’importante opportunità per passare ad una fase di progettualità politica, raccogliendo le sollecitazioni che provengono dalle diverse società civili che ognuno di noi rappresenta e che, pur nella differenza che le caratterizza, ci chiedono un maggiore impegno in direzione della pace, della lotta contro la povertà, del superamento delle disuguaglianze e di uno sviluppo che sia equo e rispettoso dell’ambiente. 

Si può affermare con assoluta convinzione che se finora la cooperazione parlamentare euro-mediterranea ha costituito uno dei motori del partenariato, oggi essa può essere in grado di imprimere una svolta decisiva. 

La Commissione qui riunita ha forse il compito più semplice e al tempo stesso più arduo, ovvero realizzare quel dialogo tra culture, civiltà e religioni, che rappresenta il prerequisito necessario per raggiungere gli obiettivi del partenariato e per sviluppare relazioni improntate alla fiducia e alla collaborazione reciproca. È un compito semplice, perché la cultura è per sua stessa definizione strumento di confronto, dialogo e comprensione reciproca, ma al tempo stesso arduo perché i conflitti, le sperequazioni e la deriva terroristica sembrano aver alzato barriere insuperabili e creato timori reciproci difficili da superare. Si tratta di una sfida importante a cui i parlamentari sono chiamati a rispondere con le armi della politica, una politica in grado di mobilitare le nostre società per dare impulso a quel progetto di pace, sicurezza, libertà, giustizia, eguaglianza e prosperità, rappresentato dal partenariato euro-mediterraneo che, oggi più che mai, costituisce una aspirazione condivisa dei nostri cittadini, del nord e del sud.  In questo contesto è fondamentale costruire ponti ideali tra le società, promuovere il dialogo e la comprensione reciproca e forgiare una volontà politica collettiva per affrontare gli squilibri mondiali. 

La Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dall’Assemblea parlamentare euro-mediterranea può svolgere una funzione importante di stimolo per riannodare legami antichi che da sempre hanno tenuto unite le due sponde del Mediterraneo e ne hanno fatto un ponte tra le civiltà. 

In un mondo sempre più globalizzato che tende ad annullare le differenze e ad impoverire i contenuti specifici delle diverse culture, è importante impegnarsi per recuperare e valorizzare le differenti identità culturali che rappresentano una ricchezza inestimabile della regione mediterranea. Non esistono gerarchie tra le culture, così come non ne esistono tra i popoli. Tutte le culture hanno pari dignità e una specificità che le rende uniche e non omologabili. 

 

Sono convinto che i lavori di oggi, dedicati al tema delle diversità culturali, alla prospettiva dell’istituzione di una Università del Mediterraneo, al ruolo dei Parlamenti di fronte al fenomeno della migrazione, alla tutela del mar Mediterraneo e alla proposta di un Parlamento dei giovani dell’area euro-mediterranee costituiranno un’occasione per tracciare quel percorso comune che rappresenta una speranza per le nuove generazioni e per il futuro di tutti noi.

Troppo spesso l’area mediterranea ha dato e dà notizia di sé per episodi tragici legati alla guerra e alla violenza. Sono tanti e troppi i lutti e le tragedie che insanguinano le sponde di quello che vorremmo un mare di pace e non di contrapposizioni, ancora troppe le ingiustizie e le lesioni di diritti civili e democratici.

La risposta a tutto questo non sta nello scontro di civiltà, nella pretesa di supremazia di una religione sulle altre, di una cultura sulle altre e di un modello politico economico da imporre con la forza o con il ricatto.  Noi siamo qui riuniti per dimostrare, ancora una volta, che la strada che porta alla prosperità e alla giustizia è una strada non violenta, è la via maestra del dialogo e della cooperazione tra i popoli.

L’impegno della vostra Commissione ha in questo senso un obiettivo e una responsabilità speciale: dimostrare con la forza dei fatti e delle idee che non ci si può e non ci si deve rassegnare alla logica dello scontro e della disgregazione, che è possibile attraverso il dialogo e il dibattito trovare punti di convergenza e formulare proposte condivise. 

È con questo spirito che rivolgo a tutti i presenti il più sentito benvenuto alla Camera dei deputati e i migliori auguri di buon lavoro. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il Vicepresidente Leoni. Proporrei un piccolo cambiamento nell’ordine dei lavori, con il permesso del Viceministro Intini, a cui do il benvenuto. Abbiamo qui presente, infatti, tra i nostri relatori il dottor Bouchenaki, direttore generale dell’International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property (ICCROM) dell’Unesco, il quale dovrebbe parlarci della Convenzione Unesco sulle differenze culturali. Egli, però, è in partenza per Gerusalemme per una missione che ci riguarda, dal momento che si tratta di una presa d’atto della situazione dei lavori, iniziati e poi sospesi, presso la moschea di Al Aqsa. L’ultima riunione del Bureau dell’APEM, che si è svolta questo mese a Tunisi, ha incaricato la nostra Commissione di approfondire tale questione ed eventualmente uscire con una presa di posizione per quanto riguarda le preoccupazioni sollevate. 

Farei quindi questo piccolo strappo all’ordine dei lavori, dando la parola, se il Viceministro Intini me lo consente, al dottor Bouchenaki, affinché possa riferirci velocemente i motivi di questa sua missione che potrebbero obbligarlo ad andarsene prima del punto, nell’ordine dei lavori, sul quale avrebbe preso la parola. Noi abbiamo, comunque, la sua relazione scritta sulla Convenzione Unesco.

 

MOUNIR BOUCHENAKI, Direttore generale dell’ICCROM. Grazie, Presidente. Onorevole Vicepresidente della Camera dei deputati, onorevole Viceministro degli affari esteri, eccellenti signore e signori, è un grande onore per me potermi rivolgere all’Assemblea parlamentare euro-mediterranea relativamente a quest’ambito, ovvero lo studio dei testi giuridici delle convenzioni internazionali sulla protezione e la promozione della diversità culturale. 

Mi trovo a Roma da qualche mese come direttore generale dell’ICCROM, un’istituzione intergovernativa creata nel 1956 e ospitata dal Governo italiano, per lo studio e la formazione nel campo della protezione e della conservazione del patrimonio culturale. 

Prima di venire a Roma, sono stato per 25 anni all’Unesco. Ho sempre lavorato nel campo del patrimonio culturale e, in quest’ambito, ho partecipato alla preparazione delle convenzioni internazionali, come quella sulla protezione del patrimonio subacqueo del 1999, quella del 2003 sulla protezione del patrimonio intangibile e l’ultima, che vi presenterò appena mi sarà possibile, per la promozione e protezione della diversità delle espressioni culturali. 

Avevo richiesto di poter dire qualche parola all’inizio perché ho ricevuto dall’onorevole Presidente De Zulueta, durante la scorsa settimana, una richiesta che riguarda un sito in pericolo, la città di Gerusalemme, iscritta nell’elenco del patrimonio mondiale e del patrimonio mondiale in pericolo.

L’Unesco, dal momento in cui questa città è stata iscritta, nel 1981, nell’elenco del patrimonio mondiale e anche, l’anno seguente, nell’elenco del patrimonio mondiale in pericolo, ha sempre inviato delle missioni tecniche per avere un rapporto sull’evoluzione dei lavori di restauro o di mantenimento propri della città vecchia, considerata come patrimonio culturale dell’umanità. 

Qualche settimana fa hanno avuto inizio i lavori di scavo nella zona ovest della città, presso la porta che si chiama dei Magrebini, Bab El-Maghariba. Questa era l’unica porta attraverso cui i turisti potevano accedere a quello che si chiama in arabo Haram El-Sharif, ovvero il luogo dove sono situate le due moschee sacre di Gerusalemme, una delle quali, quella con la famosa cupola dorata, è uno dei luoghi più sacri del mondo islamico. Gerusalemme è una città, come tutti sapete, che rappresenta un luogo santo sia per i cristiani che gli ebrei. Si tratta quindi di un sito religioso di grandissima importanza e ogni attività, secondo la Convenzione del 1972, deve essere presentata alla Commissione per il patrimonio mondiale e all’Unesco. Mi dispiace se sono passato alla lingua inglese. 

Gli ultimi lavori intrapresi dalle autorità israeliane vicino alla porta dei Magrebini hanno suscitato molte dispute e scontri. Il direttore generale dell’Unesco, Koïchiro Matsuura, è stato avvicinato da tutti gli Stati membri della regione e dal gruppo del ’77 e negli ultimi 15 giorni ha intrattenuto con essi vari contatti, tanto che sta per inviare una missione tecnica, presieduta da Francesco Bandarin, direttore del Centro per il patrimonio mondiale dell’Unesco. Alla missione parteciperà anche il Presidente dell’ICOMOS, International Council on Monuments and Sites ed io stesso, come membro dell’ICCROM che, analogamente all’ICOMOS, è un organo consultivo secondo la Convenzione del 1972 già citata.

L’obiettivo della missione è di natura tecnica, dal momento che ci recheremo sul sito e qui vedremo qual è la situazione, quali sono i lavori effettivamente intrapresi e quale impatto essi hanno, nonché quali accorgimenti bisogna mettere in atto per la protezione del sito. 

Questo è quanto volevo dirvi a titolo informativo, e questo è il motivo per cui ci tenevo ad introdurre uno dei punti iscritti all’ordine del giorno, ovvero «Contenuti e attuazione della Convenzione Unesco sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005».  Se me ne verrà data l’opportunità, sarei molto lieto, Presidente, di esporre rapidamente questa Convenzione, di fronte a questa assemblea di parlamentari, proprio perché ho lavorato per diversi anni con i colleghi all’Unesco per prepararne il testo. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Professor Bouchenaki, la sua presenza oggi è doppiamente utile. Mi auguro di poterla ascoltare  anche sulla Convenzione Unesco sulle differenze culturali. 

Intanto vorrei – avrei dovuto farlo subito, ma il tavolo non era al completo – dare il benvenuto al Viceministro Intini, e agli onorevoli Adkhil e Chorfi, Vicepresidenti della Commissione. 

Do ora la parola al Viceministro degli affari esteri, Ugo Intini. 

 

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Ringrazio il rappresentante dell’Unesco per averci informato di un tema che ci preoccupa moltissimo e che è di straordinaria attualità, un grande ostacolo alla ripresa del dialogo, al quale tanto teniamo, in Medioriente

In primo luogo, vorrei sottolineare l’importanza che l’Italia attribuisce al ruolo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea nella costruzione di un efficace partenariato che si avvicini agli interessi e alle aspettative delle nostre società civili.

 

Siamo tutti consapevoli che possiamo realizzare gli obiettivi che ci siamo posti undici anni fa a Barcellona, sfruttando in pieno quelle potenzialità del processo euromediterraneo che ci hanno consentito di continuare il nostro percorso verso la creazione di un’area di pace e di prosperità condivisa. 

In questa prospettiva penso che vadano privilegiate le linee di azione evidenziate dal programma quinquennale concordato al vertice di Barcellona e nell’ambito della recente Conferenza di Tampere. Mi riferisco, in particolare, al miglioramento dei metodi di lavoro del partenariato, allo sviluppo del nuovo volet, il quarto, sugli scambi umani e, quindi, sulle migrazioni, all’incremento della cooperazione finanziaria, con particolare attenzione al settore privato, al rafforzamento della cooperazione culturale, allo sviluppo di politiche condivise in tema di energia, trasporti e ambiente. 

Vorrei, a questo punto, soffermarmi su alcuni dei temi che sono oggetto di questa sessione. 

La necessità di promuovere il dialogo interculturale tra le due sponde, ormai, è un dato largamente acquisito e caratterizza, secondo un approccio ed una metodologia condivisa, le scelte operate dai trentasette paesi partners nell’ambito della politica europeo-mediterranea indirizzata al terzo volet.  Rafforzare i programmi settoriali già esistente a livello regionale, creare sinergie con iniziative varate da organismi internazionali ispirate da principi e filosofie affini, dotarsi di appositi strumenti istituzionali sono i tre assi strategici fondamentali intorno a cui ruota la nostra azione per lo sviluppo delle relazioni umane nel Mediterraneo, come sottolineato nell’ultima Conferenza ministeriale a Tampere, lo scorso anno. 

In questo contesto, l’attività promossa dalla Fondazione Euromediterranea Anna Lindh, da poco entrata nel secondo triennio di vita, riveste naturalmente un ruolo primario.

La Fondazione attraversa una fase di rinnovamento per un ricambio dei vertici direttivi ed anche per un processo di razionalizzazione delle reti nazionali, che vede l’Italia particolarmente impegnata a valorizzare le componenti più significative della società civile. Si tratta di un percorso che sortirà esiti positivi in una prospettiva a medio termine. L’azione della Fondazione, rivolta in primo luogo ai giovani, costituisce dunque un punto di riferimento importante e insostituibile ai fini del dialogo. 

L’altro fattore decisivo per la crescita della dimensione umana e culturale del partenariato è quello dell’istruzione, su cui è necessario investire una quota consistente delle risorse disponibili, come indicato nel piano di lavoro quinquennale approvato a Barcellona nel 2005. La cooperazione interuniversitaria, in questo ambito, ha conosciuto un forte incremento negli ultimi anni in parte grazie all’estensione del programma Tempus all’area Euromed, in parte grazie alle sollecitazioni ricevute dalla Conferenza di Catania, che ha stabilito il principio di creare uno spazio euro-mediterraneo di alta formazione e di ricerca. 

Su questo terreno è maturata, con una proposta tra l’altro presentata da una istituzione italiana, UNIMED, l’idea di creare una università euromediterranea. È un’iniziativa, per ora, ancora allo stato embrionale, ma degna della massima attenzione e che auspichiamo possa tradursi in un processo articolato, che potrebbe essere avviato in occasione della prima riunione dei Ministri Euromed dell’istruzione superiore e della ricerca, previsto nel mese di giugno in Egitto. 

La cooperazione migratoria fra l’Unione Europea e i partners mediterranei è, anch’essa, al centro della strategia di rilancio del processo euromediterraneo, al quale può apportare nuova linfa e valore aggiunto. Il programma quinquennale di Barcellona assegna, infatti, un ruolo centrale alla gestione dei flussi migratori basata sul principio dell’approccio globale e articolata nelle tre grandi tematiche della migrazione legale, della migrazione con sviluppo e della lotta all’immigrazione illegale.

In una logica di raccordo con le altre iniziative che coinvolgono anche i paesi dell’Africa subsahariana, dobbiamo perseguire l’obiettivo comune di una gestione ordinata dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo, a beneficio dei paesi di provenienza oltre che di quelli di destinazione, ma soprattutto degli stessi emigranti. 

Siamo, pertanto, impegnati nella preparazione della prima Conferenza ministeriale euromediterranea sulle migrazioni, prevista a novembre in Portogallo, per porre solide basi ad un percorso condiviso e costante nel tempo. 

Vorrei aggiungere qualcosa di più strettamente politico.  È urgente, abbiamo bisogno di un mare di pace per sviluppare la nostra iniziativa mediterranea, e la questione palestinese è la grande spina, è la madre di tutte le crisi del Medioriente, è un grande ostacolo ad un rapporto più profondo tra mondo occidentale e mondo arabo. Tale questione, dunque, è al centro dei nostri pensieri e dei nostri sforzi.  Con l’accordo di unità nazionale in Palestina, a noi sembra che ci sia stato uno sviluppo positivo, come è stato positivo l’incontro a tre tra Abu Mazen, Olmert e Condoleezza Rice. Ora, però, deve essere protagonista anche l’Europa. L’Europa è infatti credibile verso entrambi, verso il mondo arabo e verso Israele, è un honest broker, e quindi ritengo che, in queste settimane,  dobbiamo moltiplicare il nostro impegno affinché l’Europa faccia la sua parte. 

In questo mare di pace, vogliamo, dunque, costruire una partnership speciale fra le due sponde del Mediterraneo. Abbiamo bisogno, però, come è naturale, che ciascuna delle due sponde, innanzitutto, veda al suo interno un forte sviluppo della integrazione e della cooperazione. Nella sponda nord del Mediterraneo questa integrazione c’è. Ma, tra Algeria e Marocco, due paesi che ci sono molto amici, la frontiera è chiusa, e ci sono delle tensioni – com’è noto – originate dalla situazione del Sahara. Se tra Francia e Italia, da questa parte del Mediterraneo, ci fosse la frontiera chiusa, sarebbe un paradosso e non faremmo certo finta di non vederlo.  Penso, quindi, che, da parte dell’Europa, non si debba far finta di non vedere la situazione esistente fra Algeria e Marocco. La vediamo, ci preoccupiamo, sentiamo il dovere, da amici, di fare il possibile per superare questo contrasto, che è doloroso e anacronistico e può anche ostacolare la cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo. Pertanto, penso che si debba compiere uno sforzo per superare questo problema con soddisfazione di tutti. 

Vi ringrazio di essere qui, calorosamente, e vi auguro buon lavoro. 

 

(Applausi) 

 

Contenuti e attuazione della Convenzione UNESCO sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005.

Il ruolo della cultura e delle nuove tecnologie quali fattori di sviluppo e di conoscenza reciproca: scambio di vedute sulla istituzione di una Università euro-mediterranea.

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio il Viceministro Intini.

Saluto e ringrazio il Vicepresidente della Camera dei Deputati, Carlo Leoni, per la sua accoglienza, e lo invito a venire qui, al tavolo dei relatori, insieme a madame Marie-Paule Roudil, direttore della sezione culturale dell’Ufficio Unesco di Venezia, al professor Franco Rizzi, direttore generale dell’Unione delle Università del Mediterraneo (UNIMED), e a Roberto Carpano, coordinatore dell’Unità di supporto e gestione regionale del programma Euromed Heritage. 

Permettetemi di spendere due parole sul metodo di lavoro che desidero proporvi.

In primo luogo, vorrei comunicarvi – cosa che, sicuramente, già sapete – che nel corso della sua ultima riunione, il 10 febbraio, il Bureau dell’APEM ha stabilito il tema del dialogo fra le culture come tema centrale della nostra assemblea plenaria del 15 marzo. Questa scelta, come è ovvio, investe questa Commissione direttamente, e pertanto ci impegna. A questo fine spero che siano stati utili i lavori della nostra Commissione del 6 novembre, durante i quali ci siamo soffermati sulla definizione di una possibile nozione di cultura mediterranea e sul dialogo fra le culture. È mia intenzione, infatti, rafforzare e lavorare, nella giornata odierna, in continuità rispetto a quanto già svolto il 6 novembre scorso e naturalmente rispetto all’acquis precedente di questa Commissione. 

 

Spero che il programma di oggi e, in particolare, questa nostra prima sessione possano offrire alla nostra Commissione qualche valido spunto per approfondire la questione del dialogo fra le culture.

Ritengo, infatti, che la Convenzione Unesco sulla protezione e promozione delle diversità culturali sia potenzialmente uno strumento concreto, partendo proprio dalla premessa che il riconoscimento e il rispetto delle differenze culturali è necessario al dialogo, per realizzare tale dialogo.  In precedenza, il Bureau ci aveva anche fatto carico, oltre che del tema sul ruolo della cultura e delle nuove tecnologie quali fattori di sviluppo e di conoscenza reciproca, di quello relativo alla costituzione di una università euromediterranea.  Inoltre, ci è stato richiesto dallo stesso Bureau, nel corso dell’ultima riunione di Tunisi, il tema dell’organizzazione di un Parlamento euromediterraneo dei giovani, tema già in passato proposto da questa Commissione.

A queste tematiche, infine, si aggiungono quelle delle migrazioni e dell’ambiente, tutti e due già affrontati nella nostra riunione di novembre.

Il metodo di lavoro che vi propongo è, dunque, il seguente. In questa prima sessione affronteremo i temi più strettamente collegati alla cultura, che sarà anche il tema centrale dalla sessione di Tunisi, con i contributi dei relatori appena presentati.

Il confronto seguirà, successivamente, con altri due sessioni a tema, in modo da poter presentare, questo pomeriggio, una prima bozza di risoluzione che tenga conto di quanto emerso sia oggi che nel corso della riunione del 6 novembre.

Avvierei i nostri lavori, se madame Roudil è d’accordo, dando subito la parola al Direttore generale dell’ICCROM, Mounir Bouchenaki. 

 

MOUNIR BOUCHENAKI, Direttore generale dell’ICCROM. Onorevoli deputate e deputati, eccellenti signore e signori, è un grande onore per me parlare, oggi, di fronte a questa augusta Assemblea euro-mediterranea su un argomento di grande attualità: la Convenzione dell’Unesco sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali. 

La base culturale della Convenzione è stata affermata con risolutezza, in quanto essa si iscrive nella linea permanente dell’attività dell’Unesco a favore delle diversità culturali. La prima stesura della Convenzione, preparata già nel 2003 e, poi, successivamente nel 2004, si inseriva nei seguiti della famosa dichiarazione universale dell’Unesco sulla diversità culturale, già proclamata nel corso della Conferenza generale dell’Unesco del 2001.

Questa Dichiarazione non poteva, tuttavia, comportare vincoli giuridici. Quindi, poiché essa non aveva forza giuridica, gli Stati membri hanno chiesto al direttore generale dell’Unesco, Koïchiro Matsuura, e naturalmente all’Unesco stesso, di preparare una Convenzione internazionale, il cui obiettivo fosse, da un lato, il riconoscimento dei beni e dei servizi culturali quali portatori di identità, di valori e di significati, e quindi non valutabili alla stregua di merci o beni di consumo come altri; e dall’altro, l’adozione delle misure necessarie a proteggere e promuovere la diversità delle espressioni culturali, assicurando, allo stesso tempo, la libera circolazione delle idee e delle opere. 

Il lavoro dell’Unesco, quindi, si è inserito, con continuità, in questa scia che, del resto, è la stessa che segue dal suo incipit, nel 1945, tant’è che il preambolo della Convenzione richiama tutte le tappe che sono state, mano a mano, superate dall’Unesco con vari testi giuridici che, oggi,


costituiscono una sorta di corpus normativo per la protezione della cultura, per lo sviluppo culturale e per il dialogo fra le culture e le varie civiltà. Il progetto di Convenzione, quindi, si inserisce, in sede politica e culturale, nei seguiti della Conferenza mondiale che è stata elemento forte nella storia per riflettere sulla cultura. Abbiamo avuto la Conferenza Mondiacult in Messico nel 1982, la Conferenza intergovernativa sulle politiche culturali per lo sviluppo a Stoccolma nel 1998 e, da ultimo, la Dichiarazione già citata del 2001. Già questa Dichiarazione esprimeva l’urgenza di prevedere la diversità culturale, di prevederne la protezione nell’attuale processo di globalizzazione, agevolato dallo sviluppo rapido delle nuove tecnologie dell’informatica e della comunicazione. Se è vero, quindi, che è possibile creare un dialogo rinnovato tra culture e civiltà, è anche vero che esso costituisce una formidabile sfida per la diversità culturale.

Pertanto, non si può parlare di diversità culturale senza inserirla in questo ambito di interessi divergenti, il cui obiettivo è già a livello mondiale. Mi vorrei dunque soffermare su queste posizioni divergenti, facendo notare che alcuni fanno prevalere il fatto che la diversità culturale sia garantita dalla vasta gamma dell’offerta commerciale, ovvero che è il mercato che crea la diversità; altri sostengono, invece, che la diversità possa essere conservata soltanto con l’introduzione di politiche pubbliche a favore della cultura, tese a fare di questa un campo indipendente con imperativi distinti rispetto alle esigenze economiche e al determinismo tecnologico; altri, infine, ritengono che la diversità possa essere assicurata soltanto da una società civile mista.

I segnali, quindi, ci sono, e ci sono queste diverse posizioni. Questi segnali sono numerosi, tant’è che le logiche tecniche e commerciali, che presiedono questo slancio di beni e servizi culturali, purtroppo non generano necessariamente coesione sociale, né, tanto meno, la creatività fertile da parte di individui e società che, invece, potrebbero testimoniare una vera diversità di espressione e di contenuti. Anche il divario digitale è uno di questi segnali. Si assiste infatti alla creazione di una disparità di capacità di produzione e distribuzione dei prodotti culturali (dischi, libri, film, audiovisivi), in cui il divario aumenta non soltanto fra i paesi del nord e del sud, ma anche nell’insieme degli stessi paesi occidentali, al punto che, visibilmente, tale divario fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo non si attesta, necessariamente, nel campo delle industrie culturali.

L’idea della Convenzione dell’Unesco è, quindi, di assicurare il diritto dei singoli e dei gruppi di creare, diffondere e avere accesso all’attività, ai beni e ai servizi culturali, evitando che la protezione della diversità avvenga a spese dell'apertura alle altre culture. 

Questo significa anche riconoscere la natura specifica dei beni e dei servizi culturali, perché essi sono portatori di identità, di valori, di sensi, di significati, e, di conseguenza, bisogna definire uno spazio giuridico basato sulla dimensione culturale di tali beni e servizi, sino ad oggi retto, fondamentalmente, solo dagli accordi della organizzazione mondiale del commercio, l’OMC. 

Questa Convenzione, quindi, vuole dare uno status in sé alla cultura, in quanto bene pubblico comune, proprio come all'istruzione, all'informazione, alla salute e all'ambiente, tutti campi che dovrebbero costituire, come dice Armand Mattelart nel suo libro Diversità culturale e globalizzazione, delle eccezioni rispetto alla legge del libero scambio: tutto ciò cui i popoli hanno diritto prodotto in condizioni di equità e libertà, che è la definizione stessa del servizio pubblico, a prescindere da quella che è la situazione giuridica delle imprese che ne assicurano lo svolgimento. In questa direzione, nel 2003, la Conferenza generale dell'Unesco ha chiesto, per prima cosa, al direttore generale di mettere a punto una Convenzione, nota con il nome di Convenzione sulla protezione delle diversità dei contenuti culturali e delle espressioni artistiche. Già il tema, quindi, si è sviluppato nel corso dei negoziati sulla Convenzione stessa.


Il direttore generale, in primo luogo, ha costituito un gruppo di 15 esperti indipendenti, scelti in ragione delle loro varie specializzazioni – quindi antropologi, esperti di diritto internazionale, economia della cultura, filosofia – ed ha chiesto loro di redigere dei pareri e di elaborare una sorta di prima stesura-canovaccio della Convenzione.  Il comitato si è riunito, tra la fine del dicembre 2003 e la fine del maggio 2004, tre volte presso la sede dell'Unesco e, finalmente, nel luglio 2004, gli esperti sono riusciti a presentare un primo progetto della Convenzione. 

Contestualmente il direttore generale ha intrattenuto, come auspicato da alcuni Stati membri, consultazioni tra l'Unesco e l’OMC, l’OMPI (Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale), e l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo). Nel settembre 2004, finalmente, si riunisce la prima sessione intergovernativa che ha consentito uno scambio di opinioni sull'oggetto stesso della Convenzione, precisandone i termini sulla base del primo broglio. In questa riunione, è stato costituito un comitato di redazione con l’incarico di redigere, tenuto conto di un centinaio di emendamenti, inviati all'Unesco da vari paesi membri e dalla stessa Unione Europea, che in questa occasione parlava con una voce sola, una nuova versione della bozza della Convenzione. 

In seguito ai lavori del comitato di redazione, si è tenuta una seconda riunione intergovernativa, tra il 31 gennaio e il 12 febbraio 2005, dalla quale sono emersi due documenti di lavoro. Questo lavoro preparatorio ha condotto, infine, ad un testo sottoposto alla terza riunione intergovernativa, svoltasi nel 2005 tra la fine maggio e l’inizio di giugno. 

Questo è l'iter che ha consentito alla bozza di giungere fino all'ultima Assemblea generale dell'Unesco, la XXXIII, nell’ottobre 2005, nella quale si è approvato il testo. 

Vorrei sottolineare, brevemente, l'importanza di questo testo, nell'ambito della globalizzazione e del valore rappresentato, oggi, dalla protezione e promozione della diversità culturale. In primo luogo, la Convenzione riconosce il diritto di ciascuno Stato ad adottare, sul proprio territorio, ogni misura legislativa, regolamentare e finanziaria per proteggere e promuovere la diversità delle varie espressioni culturali. In questo modo essa cerca di sanare lo squilibrio esistente tra gli scambi internazionali e tenta di facilitare la creazione, la produzione, la distribuzione, o meglio, la diffusione delle varie espressioni culturali all’interno di tutti gli Stati del mondo e nell’ambito dei vari gruppi artistici. 

La Convenzione definisce – questo è il suo nucleo essenziale – diritti e obblighi in materia di cooperazione internazionale e si rivolge agli Stati membri perché rafforzino gli accordi di cooperazione a favore dello sviluppo e degli aspetti connessi alla protezione e alla promozione della diversità delle espressioni culturali.  Questo aspetto di cooperazione è quello che ha attirato maggiormente l’attenzione, in particolare, da parte di quei paesi che, nell'ambito dell'attuale processo di globalizzazione, si trovano spesso in situazioni alquanto aspre relativamente alla promozione delle loro stesse espressioni culturali.

Inoltre la Convenzione prevede un trattamento preferenziale per i paesi in via di sviluppo, in virtù del quale i paesi sviluppati facilitano i rapporti con i paesi in via di sviluppo, oppure accordano ad essi un adeguato trattamento preferenziale. 

In tutte le varie fasi del negoziato, e questo è riflesso anche nel testo, l'Unesco si è rivolta alla società civile e ai suoi rappresentanti, lavorando con una quindicina di ONG, fra cui il Comitato internazionale di coalizione per la diversità culturale e la Rete internazionale per la diversità culturale. Si è trattato di un lavoro molto importante per portare avanti il dibattito, tant'è che, nelle varie riunioni, abbiamo avuto una sorta di appropriazione del primo testo da parte delle ONG e un nuovo impegno verso la diversità culturale da parte delle organizzazioni professionali della cultura. 


Per quanto riguarda i meccanismi della Convenzione, ci siamo ispirati a convenzioni già funzionanti, caratterizzate da meccanismi snelli, leggeri, come, ad esempio, quella del 1972 sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale. Abbiamo creato tre sedi, ovvero la Conferenza degli Stati membri, il Comitato intergovernativo e il Segretariato dell'Unesco. 

Credo che la collega Marie-Paule Roudil, che ha lavorato, come sapete, prima presso l'Unesco e oggi come responsabile della sezione cultura dell'ufficio di Venezia, vi darà, in quanto giurista, ulteriori elementi informativi sul modus operandi, sul funzionamento di questa Convenzione. 

La Convenzione entrerà in vigore il 18 marzo 2007. Va quindi sottolineata la rapidità con la quale i vari Stati membri hanno già depositato i loro strumenti di ratifica. Ad oggi, essa è già stata firmata, o meglio, ratificata da 48 paesi, e da ultimo dall'Unione Europea che, come ho già detto, parlava con una voce unica in occasione della procedura di preparazione.

È, dunque, dal momento che ha vissuto una ratifica molto rapida, una vera e propria “prima” nella storia delle convenzioni dell'Unesco. Questo fa rilevare, quindi, il grande valore che gli Stati membri hanno conferito al testo di questa Convenzione e ai vari aspetti della protezione e della promozione della diversità dell'espressione culturale, e, soprattutto, alle possibilità offerte, grazie al disposto della Convenzione stessa, alla cooperazione internazionale a favore della diversità culturale. 

Grazie della vostra attenzione. 

 

TANA DE ZULUETA. Ringrazio e saluto il professor Bouchenaki. Saluto anche il Viceministro Intini.

Do la parola al Direttore della sezione culturale dell’Ufficio Unesco di Venezia, Marie-Paule Roudil.

 

MARIE-PAULE ROUDIL, Direttore della sezione culturale dell’Ufficio Unesco di Venezia. Grazie signora Presidente. Eccellenze, signore e signori, a nome del direttore generale dell'Unesco Koïchiro Matsuura, e a nome della nuova vice direttrice generale per la cultura Françoise Riviere, che è succeduta al direttore generale dell'ICCROM, che ci ha appena presentato la genesi della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, vorrei ringraziarvi per aver coinvolto la nostra organizzazione internazionale delle Nazioni Unite, l'Unesco, nei lavori della vostra Commissione. 

Sono molto lieta di questo incontro, perché si iscrive nella ormai prossima entrata in vigore della Convenzione dell'Unesco. 

Eccellenze, signore e signori, signora Presidente, questo seminario raccoglie non soltanto i rappresentanti dei diversi Stati e di organizzazioni internazionali, ma anche i rappresentanti di paesi della regione euromediterranea e anche i rappresentanti della società civile, e vorrei in particolare dare il benvenuto al Presidente della Coalizione per la diversità culturale italiana che, oltre ad essere una personalità di grande rilievo nella vita italiana, è anche un membro prestigioso della nostra comunità culturale. 

Questo seminario dimostra che, attraverso questa Convenzione, si è lavorato per dare un giusto ruolo alla società civile, in particolare agli artisti, ai creatori e ai professionisti della cultura, il cui impegno, in favore della promozione delle diversità delle espressioni culturali, è fondamentale.  È certo che questa Convenzione – vorrei rivolgermi ai rappresentanti dei paesi – che si presenta come una vera e propria sfida, è stata solo una prima tappa, dal momento che, proprio a nome dell'eccezione culturale, come si dice a livello europeo, l'Unesco è stata investita di questo testo e, di fatto, i rappresentanti dei Parlamenti europei sono venuti a Parigi, nella sede dell'Unesco, per



 

affidare, proprio ad una organizzazione delle Nazioni Unite che ha un mandato per la cultura, questa sfida che è la diversità culturale.  Si è trattato di qualcosa assolutamente eccezionale, poiché, effettivamente, il dibattito è stato molto vivace e appassionato. Nelle stanze delle Nazioni Unite ci sono spesso dei dibattiti molto vivaci, soprattutto in materia di conflitti – abbiamo parlato prima di Gerusalemme, della Palestina –, ma questo conflitto sulla diversità culturale ha dimostrato che il nostro mondo si sta evolvendo in maniera diversa, perché al centro di questo dibattito vi era la globalizzazione.

È inutile nascondere che ci sono state delle resistenze molto forti, da parte di paesi molto importanti della nostra comunità internazionale, come non si può neppure sminuire l’azione degli Stati Uniti d'America che, insieme ad altri paesi, si sono mostrati alquanto preoccupati di questa nostra strategia, di questo nostro approccio, tutto europeo. 

È chiaro che l'articolo 5.1 che permette agli Stati membri di essere sovrani nell’ambito della politica culturale nazionale, nel pieno rispetto delle decisioni dell’OMC, e quindi dell'organizzazione per il commercio, è una sfida economica. 

Concretamente, questo significa che in Egitto, Algeria, Slovenia, Slovacchia, Portogallo, Polonia, e tutti gli Stati membri, un Governo ha il diritto di adottare una legge – anche il Governo italiano ha questo diritto e di stabilire, ad esempio, di trasmettere sulle reti televisive nazionali una certa quota, il 60 o l’80 per cento, di film stranieri, oppure il 50 o 60 per cento di produzioni nazionali; o, ancora, che nel cinema più del 40-50 per cento dei film presentati al pubblico devono essere di produzione nazionale. Questa è dunque una vera e propria sfida.

Basta pensare, ad esempio, all’attrazione che abbiamo per alcune produzioni. Come rappresentante dell'Unesco, non voglio certo sottovalutare il ruolo di Hollywood, ma è una grande sfida per il paese affermare di avere il diritto di imporre delle produzioni nazionali o europee, che devono avere la meglio sugli schermi televisivi nazionali.

È anche una sfida economica, certo, ma, soprattutto, di capacità. Poiché è evidente che non tutti i 183 paesi della comunità internazionale dispongono dei mezzi per poter giustificare questi contingenti, la Convenzione, che entrerà in vigore a marzo, si pone come una sfida per la comunità internazionale dal momento che, per non fare della Convenzione lettera morta, è stato previsto anche un meccanismo di assistenza e di fondi. Nel momento della sua attuazione, sono dunque necessarie leggi e sostegni e, proprio con la sua entrata in vigore, sarà evidente, realmente, la sfida posta. Gli Stati membri potranno incontrarsi e l'Unesco non resterà inattiva; noi, con la nostra nuova vice direttrice generale, abbiamo organizzato un segretariato, e 48 paesi, tra cui l’Italia, hanno già ratificato la Convenzione, l'Unesco prenderà, infine, delle misure per assicurare la raccolta, lo scambio, l'analisi e la diffusione delle informazioni che ricopriranno un ruolo essenziale. 

Sulla base, dunque, dei rapporti forniti ogni quattro anni, noi potremo informare gli Stati membri relativamente alla protezione delle espressioni culturali, nonché stimolare un’analisi critica e un dialogo internazionale su questa questione fondamentale. 

È necessario, quindi, superare i divari tra il “tutto commerciale” e il “tutto culturale”. Questa nuova tappa dell’attuazione della Convenzione – come, del resto, quelle che hanno condotto alla sua elaborazione – si fonda sulla responsabilità di tutti gli Stati, della società civile e delle organizzazioni internazionali, e il seminario che voi avete organizzato oggi dimostra, in maniera esemplare, quanto questa responsabilità resti totale e condivisa.


 

 

Vorrei invitarla, signor Presidente, a esortare, nella risoluzione di questa sera, gli Stati membri a ratificare questa Convenzione – coloro, almeno, che non lo hanno ancora fatto –; e chiederei al Governo italiano, che ha avuto, ed ha sempre, uno ruolo di grande importanza nell'Unione Europea, di invitare tutti gli Stati a cooperare, in seno all’APEM, per la promozione della Convenzione, perché essa è uno strumento utile, non soltanto per andare verso il “tutto culturale”, ma anche per promuovere il dialogo tra le diverse aree geo-culturali. La Convenzione deve diventare lettera viva, non essere lettera morta. 

L'esistenza di un dialogo e di scambi tra individui, tra società o tra Stati, presuppone che le due parti si accettino e si rispettino reciprocamente. Per capirsi, è infatti importante creare un ambiente favorevole e avere dei riferimenti comuni e, in questa direzione, la Convenzione rappresenta uno strumento possibile. È quindi essenziale, soprattutto se si vuole rispondere alle inquietudini legate alle fratture, alle disuguaglianze, alle nuove ignoranze create nella società del sapere, proseguire un lavoro critico basato su un’analisi, un confronto, un'interpretazione delle parole e dei valori che sono all’origine della nostra umanità comune. 

Siamo convinti della necessità di un riconoscimento universale della pluralità e della pari dignità delle culture, e crediamo che un dialogo sostanziale, senza tabù né feticismi, sia il modo migliore per promuovere la comprensione reciproca ed evitare i malintesi storici. 

Credo, come già detto dal Vicepresidente della Camera, che il bacino del Mediterraneo, con il suo sud e il suo nord, sia propriamente una roccaforte di tale comprensione internazionale. L'incontro di oggi pone, in un certo senso, l'obiettivo di realizzare, nel Mediterraneo, l'unità all’interno della diversità. È in questi stessi termini che nel 1947 l'Organizzazione si prefiggeva questo compito, affinché «gli esseri umani non fossero prigionieri delle loro rispettive culture, ma potessero beneficiare dei tesori di una cultura universale, unica quanto varia». Sono parole del nostro primo direttore generale Julian Huxley del 1947. E quale cultura può trasmettersi e rivivere senza quella vitale apertura verso gli altri, che si esprime nel dialogo e nell’interazione?

Per questo, parlando della Dichiarazione universale sulla diversità culturale dell’Unesco, il direttore generale Koïchiro Matsuura ha ricordato che la ricchezza culturale del mondo è costituita dal dialogo delle sue diversità e, in questa Dichiarazione, per la prima volta, la diversità culturale è stata definita «patrimonio comune dell’umanità», un patrimonio che, in quanto frutto di un dialogo costante, dichiarato o implicito, non è immobile, ma sempre in evoluzione.

Pensare alla diversità delle culture non più in termini di differenze tra sistemi omogenei di identità e di credenze, ma in termini di legami rispettivi tra comunità e culture, è la condicio sine qua non della definizione di un’etica della diversità culturale a livello internazionale. 

Il mondo, certamente, è molto cambiato dal 1945, così come è cambiato il nostro lavoro. Tuttavia, esso continua a consistere nell’accompagnare e, possibilmente, anticipare le mutazioni del mondo, e, in questo senso, la linea direttrice della nostra azione è rimasta la stessa, dal momento che risponde ad un profondo bisogno dell’umanità, ovvero lavorare in favore dell’unità nella diversità elevando, nello spirito degli uomini, la difesa della pace. Questa lavoro instancabile, che presiede il nostro incontro, si basa sulla ricerca di un vero dialogo, nel senso che esso deriva da una profonda volontà interiore di apertura del proprio io agli altri.  Un tale dialogo richiede, da parte di ogni singolo individuo, il riconoscimento della presenza dell’altro in sé e l’accettazione ad esserne trasformati. Nel momento in cui pensiamo a tutti problemi di interazione e coabitazione presenti tra le comunità del sud e del nord, ci rendiamo conto di quanto questo sia complesso.


Oggi si parlerà anche dell’immigrazione che è, essenzialmente, al centro di questo problema del dialogo, ovvero la comprensione della cultura dell’altro che, a volte, può anche provocarci e portare, poiché abbiamo difficoltà ad accettarla, a gravi crisi. Questo dialogo non è scontato, dobbiamo sempre impegnarci a raggiungerlo. Il processo di globalizzazione, che stringe sempre più i legami tra le comunità e gli individui, fa del pluralismo culturale un imperativo etico che ci spinge a realizzare tutti gli sforzi possibili, affinché esso non sia minacciato. 

L’Unesco di Venezia, dove lavoro, ha un mandato non soltanto per la regione euro-mediterranea, ma anche per quella del sud-est europeo, potrei dunque parlare a lungo della Palestina, ma vorrei invece attirare la vostra attenzione sul fatto che l’euro-mediterraneo non è soltanto il sud del Mediterraneo, ma anche questa Europa del sud che comprende, fra gli altri, il Kosovo, con la sua spinosa questione. Tutte le questioni di cui parlerete oggi avranno un’influenza su questo tema e il dialogo, che svilupperete nell’ambito della vostra sede, deve aprirsi anche ad un dialogo con l’Europa del sud-est.

A Venezia lavoriamo molto su questo, poiché è impossibile parlare di sviluppo di relazioni mediterranee senza coinvolgere anche i paesi dei Balcani. In questa zona avvengono eventi rilevanti e la questione del futuro status del Kosovo è molto sensibile. Due settimane fa, ad esempio, ci sono state due vittime nella comunità albanese, pertanto, non possiamo restare insensibili alla questione posta dalla Convenzione e all’apertura del dialogo. In questo senso, la vostra riunione di oggi mi sembra, dunque, particolarmente pertinente. Non possiamo infatti accettare di assistere allo sviluppo di ingiustizie, non possiamo accettare di vedere che, ad un’ora da qui, la situazione è completamente diversa, ovvero si trova violenza, impossibilità di dibattere e dialogare con il sorriso e difficoltà nello stabilire e accettare la diversità dell’altro. 

Se vogliamo cercare l’unità nella diversità, dobbiamo tenere a mente le due condizioni essenziali che sono la diversità e il dialogo. Mi auguro che le vostre raccomandazioni potranno tenerne conto questa sera. 

Anche il dibattito di Tunisi non potrà certo accettare che l’euro-mediterraneo trascuri questa Europa ormai allargata. Inoltre, non è possibile trascurare un tale aspetto anche alla luce della possibile entrata della Turchia. 

A nome dell’Unesco, sappiate che l’ufficio di Venezia, un ufficio regionale – ringrazio il Governo italiano per il sostegno che ci offre –, contribuirà sempre alla costruzione di questo dialogo. 

Con una certa malinconia, e forse con un tocco di romanticismo, non posso non citare una poesia di Maulana Gialal al-Din Rumi, poeta persiano, che mi sembra riflettere propriamente questa ricerca del dialogo nella diversità: «Felice è il momento in cui saremo seduti nel palazzo, tu ed io, con due forme e due visi, ma con una sola anima. Tu ed io». Grazie e buon lavoro. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Roudil. Credo che la sua relazione sia un’ottima base, non solo per il lavoro odierno ma anche per il dibattito che si svolgerà a Tunisi.

Per quanto riguarda questa presidenza, non posso che sottoscrivere la sua richiesta che la Commissione si faccia portatrice di un lavoro di sprono alla ratifica di un strumento internazionale proprio della linea del nostro mandato. 

Darei, ora, la parola a Franco Rizzi, Direttore generale dell’Unione delle Università del Mediterraneo (UNIMED). Passeremo, dunque, a trattare la questione di una istituzione universitaria mediterranea sulla quale ci è stato richiesto, in varie occasioni, non solo di avviare discussioni, ma anche di giungere a delle proposte concrete. 


 

FRANCO RIZZI, Direttore Generale della Unione delle Università del Mediterraneo (UNIMED). Grazie Presidente. Desidero ringraziare l’Assemblea per avere invitato UNIMED, Unione delle Università del Mediterraneo, ad esporre il lavoro portato avanti da molti anni. UNIMED ha iniziato ad operare nel 1989, sono stati necessari due anni per costituire la rete che, ufficialmente nata nel 1991, grazie a Dio, continua ad esistere. Non è semplice e scontato che una rete di università continui il proprio lavoro, per cui ritengo che questo sia avvenuto per il fatto che essa risponde, veramente, a bisogni reali e, da questo punto di vista, l’Unione Europea ha in più occasioni richiamato all’attenzione l’importanza della formazione in generale e, in modo particolare, di quella universitaria. 

Già negli anni novanta, in occasione dell’assemblea della conferenza di Nicosia, dove si varò la politica mediterranea rinnovata, l’Unione Europea era alla ricerca di una politica che avesse una sua omogeneità nell’ambito del Mediterraneo.  Questo ovviamente si poneva poiché il rapporto tra il Mediterraneo del sud e l’Europa era stato di convergenza ma anche di frattura, e quindi non certo idilliaco. L’Unione Europea cercava, attraverso una serie di strumenti, di dare alla politica mediterranea una sua fisionomia chiara.

La Conferenza di Nicosia, nel 1990, è quella che, in qualche modo, ha dato, per la prima volta, questo largo spettro all’ipotesi di concepire una politica strutturata non solamente sul problema della sicurezza e dell’economia, ma anche su quello dell’istruzione, delle risorse umane e della formazione.  Il medesimo schema si ritroverà in quella, successiva, di Barcellona. Gli anni ‘90 significano per l’Unione Europea il lancio di una serie di programmi estremamente importanti. Basta pensare al programma Med-Campus con cui, per la prima volta, l’Unione Europea incoraggiò un’azione da parte delle università che, così, si misero insieme – una delle condizioni per poter accedere al finanziamento UE era quella di essere una piccola rete, ovvero 2-3 università della riva sud e 2-3 della riva nord.

In quegli anni, inoltre, accanto a Med-Campus, si vararono anche i programmi Med-Urbs, Med-Invest, Med-Media. Tutto questo mostrava come, ad un livello politico e non solo intellettuale, culturale o accademico, si capiva che bisognava dare importanza, relativamente al discorso sul Mediterraneo, alla formazione, alla cultura e alla comprensione delle differenze.  Questo processo non ha avuto immediatamente un’applicazione rapida. Tuttavia, il programma Med-Campus ha permesso, per la prima volta, uno scambio di studenti tra la riva nord e la riva sud, o, quantomeno, che studenti, provenienti da diversi paesi del sud del Mediterraneo come anche del nord, stessero insieme.  È un programma che ha investito le università e che, in maniera molto strana, a parte alcune problematiche interne di carattere amministrativo, è finito alla vigilia di Barcellona dove si disse che, creando qualcosa di diverso, bisognava superare e andare oltre questo programma. 

Ricordate che gli anni tra il 1990 e il 1995 sono sicuramente caratterizzati dalla grande euforia che lasciava credere che il Mediterraneo potesse essere un mare di pace e di benessere condiviso. Questa era la realtà storica in cui gran parte della società civile si riconosceva, come anche quella politica ed economica che, attraverso questa possibilità, vedeva l’opportunità di aumentare gli scambi commerciali.  Barcellona rappresenta quindi un salto di qualità, e, ancora oggi, non abbiamo piena percezione del suo significato, simbolico per alcuni versi e reale e concreto per altri.  A questo proposito, è sufficiente pensare che si è passati, nella storia dei rapporti tra la comunità europea e i paesi della riva sud del Mediterraneo, da un vocabolario che connotava i paesi della riva sud come paesi inizialmente in via di sviluppo, ad uno che li connota prima come paesi terzi e non comunitari, e poi, infine, come paesi partners.  È, sicuramente, un modo di definire un rapporto significativo da un punto di vista culturale, e non soltanto politico ed economico. 


 

In un certo senso, riflettendo bene, è come se l’Unione Europea avesse voluto chiudere, definitivamente, questa fase di rapporti coloniali e post-coloniali che aveva intrattenuto con i paesi della riva sud del Mediterraneo. 

Quindi, il quadro di riferimento, all’interno del quale nasce un’istituzione come UNIMED, è quello appena delineato, ovvero quello di una politica attenta ai processi delle società civili e di una Unione Europea pronta a mettere a disposizione risorse, proprio perché il problema della formazione è avvertito quale centrale nel Mediterraneo – da un punto di vista tecnico vi è infatti bisogno di trasferimenti di know-how da nord verso sud e viceversa, non esclusivamente in una direzione. Dobbiamo immaginare – voglio aggiungere – la possibilità di usare in qualche modo, soprattutto come spazio della parola, le università e l’insegnamento. Possiamo non essere d’accordo su tante cose riguardanti l’università ma, sicuramente, qui non si prendono le armi per esprimere le proprie idee.

Credo che questo sia un elemento centrale nel riconoscimento delle differenze e perché si banalizzi, in un certo senso, anche la vita degli uomini vedendo come i giovani, con i problemi che hanno, sia al nord che al sud, vivono. In questo momento sto leggendo un romanzo di Yasmina Khadra Les sirènes de Baghdad, nel quale viene descritto un villaggio dove vi sono giovani che non sanno cosa fare da mattina a sera, e quindi parlano; il luogo più importante di socializzazione è un caffè.

Ho pensato molte volte a questo fatto, ovvero a quanti giovani in diversi paesi dell’Italia, della Spagna, della Francia, e, in generale, dell’Europa, abbiano dei ritmi simili; a quante persone vivano questa tipologia di immaginario e a quante siano unite anche da esigenze e bisogni primari che contraddistinguono sia i giovani della riva nord che quelli della riva sud. Dobbiamo tenere presente tutto questo, altrimenti avremo sempre in mente la contrapposizione. Esistono, ovviamente, le diversità di idee, ma esiste anche questa alleanza, o questa possibile alleanza, tra realtà umane. 

Questo quadro di riferimento generale, politico e culturale, ha permesso la nascita di questa università. In quegli anni si parlava molto della possibilità di creare una università e si parlava, più precisamente, di università euro-araba. A Granada si è tentato di realizzare questo progetto e, in questa direzione, l’Unione Europea ha spinto molto. Si è visto, tuttavia, che era difficile poter immaginare di creare una università nel senso tradizionale del termine ovvero con il building, le facoltà, l’amministrazione, i professori. La prima domanda, ad esempio, era relativa a quali facoltà ed a quali tipi di insegnamento. Tutto questo era però talmente pesante, da un punto di vista finanziario ed economico, che si è lasciata cadere, infine, questa ipotesi. 

UNIMED nasce con una filosofia completamente diversa che, da sempre, caratterizza l’università. L’università è soprattutto mobilità del sapere e necessità di mettere insieme la ricchezza esistente. Anche in questo senso credo che sia necessario pensare positivamente. Quando si parla, infatti, di queste cose, delle università, si parla anche della ricchezza che le stesse rappresentano.

Lo sforzo, dunque, non è solamente quello di inventare una formula amministrativa – cosa possibile –, ma soprattutto quello di capire, culturalmente, che dobbiamo mettere insieme delle ricchezze e, poi, usarle.  A partire da questa intuizione, abbiamo costruito una rete – come ho già detto, abbiamo iniziato a lavorare nel 1989 –, oggi costituita da 74 università, che è autonoma e autosufficiente; non abbiamo infatti un finanziamento da parte di istituzioni, Governi o quant’altro, ma solo una quota versata, ovviamente, dalle università che così danno la possibilità, attraverso la ricchezza che possiedono, di mettere insieme questa ricchezza per poterla concretizzare in progetti. 


Vorrei soffermarmi, molto brevemente, sulla composizione degli organi dirigenti di UNIMED. Vi è un Presidente, che è il Rettore dell'Università di Roma “La Sapienza”; due vicepresidenti,Abderraouf Mahbouli, Rettore dell'Università degli Studi di Tunisi, e Juanito Camilleri, Rettore dell'Università di Malta; un direttore generale, rappresentato dalla mia persona; una Commissione di direzione che è allo stesso tempo un comitato scientifico costituito, ovviamente, dai due vicepresidenti citati e da David Aguilar Pena, Rettore dell'Università di Granata, Hafid Boutaleb, Rettore dell'università degli Studi di Rabat “Mohammed V”, Rami Hamdallah, Rettore dell’Università degli Studi “An-Najah” di Nablus, Massimo Giovannini, Rettore dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria, Abdelhamed Djekoune, Rettore dell'Università di Constantine in Algeria, Ayse Soysal, Rettore dell'università Bogaziçi di Istanbul e Ali Abdul Rahman, Rettore dell'Università del Cairo.  Questo consiglio di amministrazione, consiglio di direzione e nello stesso tempo comitato scientifico, dà inizio a tutto.

Vorrei ora soffermarmi su come funziona questa rete e sul perché ci candidiamo a trasformarla, in un certo senso e nelle possibilità concrete che ci saranno, in una università mediterranea.

Innanzitutto, non si tratta di costruire un'altra università, poiché ognuno resta nella propria e nel proprio paese. Una rete di questo genere risponde, per prima cosa, ai bisogni di formazione e noi, in questa direzione, abbiamo realizzato, nel corso della nostra attività, diverse cose. Il viceministro Intini ha richiamato nel corso del suo intervento lo spazio euromediterraneo dell'alta formazione, ebbene vorrei allora ricordare, a tale proposito, il Processo di Bologna, nel quale si denota uno sforzo di standardizzazione nelle modalità di rilascio dei titoli, ovvero il noto LMD (Licence, Master, Doctorat), che dovrebbe diventare il modello caratterizzante non solo l'insegnamento in Europa, ma anche nella riva sud del Mediterraneo. Ci sono paesi della riva sud del Mediterraneo, come ad esempio l’Algeria, con cui stiamo lavorando, che si occupa e si preoccupa di questa messa a livello del proprio insegnamento, come anche la Tunisia e il Marocco.

Ecco, dunque, la necessità di creare vasi comunicanti. In Europa, e in Italia in maniera specifica, sono almeno sei anni che questo tipo di sistema è già in vigore. È un sistema che non riguarda solo l'insegnamento, ma anche la strutturazione amministrativa di tale insegnamento. Ad esempio, in collaborazione con diverse università della riva sud del Mediterraneo, abbiamo già lavorato e stiamo lavorando alla creazione, sia per i professori che per il personale amministrativo, di guidelines al fine di poter rendere operativo questo processo. 

Altro elemento, a mio avviso, centrale in questo tipo di discorso, è il fatto che i paesi della riva sud del Mediterraneo insieme alle università della riva nord decidono, per esempio, dei percorsi formativi, come i master e questo comporta lo spostamento dei professori. Proprio questa è l'idea centrale su cui noi abbiamo chiesto anche di poter dare un contributo per la creazione di questa università del Mediterraneo, ovvero immaginare che il sapere non resti chiuso dentro una istituzione, ma abbia la possibilità di spostarsi e, così facendo, diventare mobile. Il sapere che diventa mobile significa flessibilità e possibilità di mettere insieme, ancora una volta, ricchezza per poter rispondere a dei bisogni.

Ricordo, ad esempio, fra le varie cose che abbiamo cercato di realizzare, e che stiamo portando avanti, la richiesta da parte del Governo giordano di istituire una scuola di alti studi per il management dell'acqua. In quel caso, non si trattava certo di creare una scuola nuova, era stata indicata un’università, che aveva già una base su cui costruire una specializzazione che potesse valere per tutta la regione. Questa specializzazione veniva costruita grazie al fatto che professori di diverse università del bacino del Mediterraneo, nord e sud, convogliassero qui il loro sapere per poter rispondere al bisogno emerso. Questa, evidentemente, è una prima tappa, ma è una tappa che domani può diventare qualcosa di più strutturato. Questo è il modo in cui lavoriamo.

 

 

Da questo punto di vista, credo che questo sia l’aspetto più importante. Ne abbiamo parlato molto anche con l'Università di Malta e con le altre università che sono pronte a percorrere questa nuova iniziativa, ovvero tentare di costruire una policentricità del sapere e permettere a una organizzazione, in un certo senso, molto tecnica per certi versi, di poter mobilitare tale policentricità  secondo i bisogni che le varie università presentano.  Proprio questo, a mio avviso – e concludo, poiché abbiamo anche distribuito un documento sulle varie attività che UNIMED ha svolto in quasi 20 anni – è anche molto importante, poiché ci troviamo alla vigilia dell’avvento di un elemento considerevole che trasformerà il problema dell'università nel Mediterraneo e cioè l'applicazione del programma Erasmus Mundus.

Erasmus Mundus è un programma dell'Unione Europea per la mobilità degli studenti, così come lo è stato il programma Erasmus per l'Europa. Possiamo dire che una parte dell'Europa, dei cittadini, della mentalità e della cultura di questa Europa è stata costruita  anche grazie a questo viaggiare dei giovani, a questo loro stare insieme.

Credo, dunque, che questo modello, se si ripeterà nel Mediterraneo, non potrà che essere portatore di una maggiore comprensione tra le sue due rive. 

Vi ringrazio. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie professor Rizzi, Su questo tema molti colleghi hanno già espresso dei punti di vista. Mi sembra, inoltre, che ci siano, fra i nostri colleghi, anche numerosi professori universitari. C'è una proposta concreta della Slovenia che sicuramente il collega Juri, se presente, o qualcuno per lui, vorrà illustrare. Se mi consente, onorevole Juri, chiudiamo le relazioni e apriamo il dibattito, perché su questa questione dell'università euro-mediterranea siamo chiamati a definire un percorso che io vi proporrò e che entrerà nella nostra proposta di risoluzione per il voto a Tunisi. È dunque molto importante raccogliere e far confluire tutte le proposte, che io non vedo esclusive, perché mi sembra di ricordare che la proposta slovena prevede anche un lavoro di rete.

Darei la parola, per l'ultima relazione, a Roberto Carpano, coordinatore dell'unità di supporto e la gestione regionale del programma Euromed Heritage. Credo che, qui, toccheremo anche la vexata quaestio delle risorse, perché se è vero che l'Unione Europea ha riconosciuto in principio l’importanza del dialogo culturale, nei fatti le risorse disponibili per il processo di Barcellona sono una parte, tuttora molto esigua, del bilancio dell'Unione. Su questo, ahimé, ci siamo soffermati in passato.

Do la parola al dottor Carpano. 

 

ROBERTO CARPANO, Coordinatore dell’Unità di supporto e la gestione regionale (RMSU) del programma Euromed Heritage. Signor Presidente, onorevoli, grazie per l'invito. Il mio nome è Roberto Carpano e sono attualmente il coordinatore della Regional Management and Support Unit, che è l’unità, voluta dalla Commissione europea, che gestisce il programma Euromed Heritage. L'unità ha base a Roma presso il Ministero per i beni e le attività culturali. 

Il mio intervento sarà sicuramente molto meno aulico rispetto a quello dei miei colleghi; cercherò di dare una chiave di lettura più concreta e più tangibile.

Vorrei affrontare tre punti, in primo luogo la situazione attuale nell'ambito di quelle che sono le allocazione per quanto concerne le risorse finanziarie; in secondo luogo il programma Euromed Heritage e la Fondazione Anna Lindh; e, infine, quelli che sono i risultati che il programma Euromed Heritage ha portato sia da un punto di vista tecnico che da quello politico. 


Penso che sia utile accendere il riflettore sulla fase in cui attualmente siamo, nel senso che ci troviamo all'inizio di quella che è la nuova programmazione 2007-2013, per quanto concerne le nuove prospettive finanziarie; siamo in una fase in cui il Parlamento europeo ha un ruolo crescente per quanto concerne la scelta e il ruolo di codecisione con la Commissione del consiglio e, più che altro, siamo in una fase in cui il termine cultura, inteso come patrimonio e come cultura nel senso proprio, incomincia ad avere un ruolo maggiore sia nelle convenzioni internazionali che nelle allocazioni per settore. Questo è un fatto estremamente positivo e nuovo, non rinvenibile in precedenza. 

Per riprendere quanto detto dall'onorevole Tana De Zulueta, sottolineo che la difficoltà consiste spesso nel fatto che vi è un passaggio debole nel transito di quelle che sono le enunciazioni e i principi ai fatti. Il programma Euromed Heritage, insieme all'Anna Lindh Foundation, è l'unico programma che traduce in termini operativi il terzo elemento del Processo di Barcellona. Stiamo quindi parlando, per il periodo 1995-2005, di 57 milioni di euro che, in termini percentuali, rappresentano solamente l'1 per cento di tutta la dotazione finanziaria di Med e, di fatto, a fronte dell’interesse enunciato, la sua trasformazione in allocazione di budget si ferma all'1 per cento. Si può così facilmente capire che può essere un ammontare grande se si paragona, per esempio, con altri programmi regionali, come sull'acqua o altro, che hanno allocazioni minori. Emerge quantomeno che c'è uno sbilanciamento forte fra le dichiarazioni di principio e i fatti. 

Di questi 57 milioni di euro, il programma Euromed Heritage ne vale 47 ed ha coinvolto, per il periodo 2001-2006, 400 partners: tra questi, il professor Rizzi con la UNIMED e Mounir Bouchenaki con l’ICCROM rappresentano due esempi di partner che hanno partecipato a uno dei progetti sicuramente più interessanti nell'ambito legislativo. 

Questo programma che, alla sua terza fase, ora finisce e per il quale se ne prospetta una nuova per l'anno prossimo, ad oggi, insieme all'Anna Lindh Foundation, è l'unico programma che nell’ambito del Cultural Heritage traduce in fatti sia le politiche che le visioni strategiche. 

Noi, come Regional Management and Support Unit, ci siamo mossi essenzialmente su un piano tecnico, per poi giungere invece ad un ruolo di decision making, ovvero maggiormente politico.  Quando siamo arrivati, tre anni e mezzo fa, la Siria – e questo mi sembra che sia un termine estremamente importante – era l'unico paese che nella cooperazione bilaterale, quindi tra l'Unione Europea e la Siria, aveva allocato 10 milioni di euro per il volet Cultural Heritage.

Di fatto, quello che emerge è una discrepanza, un divario estremamente forte, fra i principi enunciati e quelle che sono, poi, le allocazione di fatto. E, quantomeno, bisognerebbe riflettere sul fatto che, fra gli 11 ex paesi MEDA, la Siria era, e oggi ancora rimane, l'unico ad aver riconosciuto una allocazione finanziaria sul Cultural Heritage.

Inoltre, quando noi siamo arrivati, nel dicembre 2003, l’intera visibilità del programma era alquanto bassa, nel senso che se, per esempio, si fossero digitate su un motore di ricerca come Google le parole «Euromed Heritage», non ne sarebbe uscito nulla, se non nelle ultime posizioni. 

Ad oggi, invece, dopo tre anni e mezzo di lavoro, abbiamo conseguito qualche risultato, si tratta di risultati che, evidentemente, potremmo migliorare, ma che siamo, quantomeno, contenti di poter condividere con voi.  Fra questi, in primo luogo, mi riferisco ad una strategia euromediterranea nel settore dei beni culturali, che verrà applicata, nelle prossime prospettive finanziarie, nell'ambito della nuova politica di vicinato.

Si tratta di una strategia condivisa con i paesi della sponda sud. Abbiamo realizzato, infatti, alcuni focus group in Siria, Marocco, Israele ed Egitto e abbiamo consultato i ministeri e i direttori


generali della cultura della sponda sud. Infine, questa è stata presentata al Comitato Euromed del gennaio 2007. Si è fatto, quindi, un primissimo, anche se importante, passo avanti – in questo contesto l'Italia ha aiutato molto – si è posto un primo pilastro affinché nella programmazione futura 2007-2013 ci sia uno spazio crescente al Cultural Heritage.

La Commissione europea ha apprezzato il lavoro che la nostra unità e i progetti stessi hanno svolto, dunque il secondo risultato conseguito è l’Euromed Heritage 4, che dovrebbe essere lanciato per la fine di quest'anno. 

Tuttavia moltissimo rimane ancora da fare. Innanzitutto, la cosa più importante è che, se i Parlamenti dei paesi membri e il Parlamento europeo credono tutti, realmente, che il tema cultura sia rilevante, si cominci allora a dare una dimensione finanziaria a questa strategia – disponibile sul nostro sito web, ma anche, qui, in copia –, nel senso che in essa, che identifica essenzialmente tre settori, ovvero risorse umane, institutional building e rafforzamento del quadro legale, quello che manca è proprio la dimensione finanziaria. Si può, quindi, sicuramente parlare di quello che vorremmo e di quello che si potrebbe fare, ma ciò che è importante è avere delle risorse finanziarie, che, ad oggi, mancano.

Infine, sottolineo che i ministri della cultura, sia della sponda nord che della sponda sud, si sono incontrati, l’ultima volta, dieci anni fa a Rodi. Evidentemente, potrebbero essere cambiati come potrebbe darsi che ci siano alcuni temi nuovi, e se si vuole dare una sostanza, se cioè non ci si vuole fermare a quelle che sono delle enunciazioni di principio, è importante che, da parte sia dei Parlamenti che dei ministri stessi, ci sia un riconoscimento maggiore nonché una traduzione in fatti dei principi riportati dall’onorevole Tana de Zulueta, che condividiamo tutti quanti, come anche  dai miei relatori. Vi ringrazio per l’attenzione e per essere stato invitato. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, dottor Carpano.

Do la parola a madame Farkhonda Hassan, membro della Shura Assembly dell’Egitto.

 

FARKHONDA HASSAN, Membro della Shura Assembly dell’Egitto. Buongiorno e grazie, Presidente. Vorrei, innanzitutto, ringraziare di cuore la Camera ed il popolo italiano per l’accoglienza e l’ospitalità.

Siamo stati uno dei gruppi parlamentari più entusiasti della creazione della Fondazione Anna Lindh, ed in merito avevamo tante speranze. Ci rendiamo conto tuttavia che si deve ancora fare molto per raggiungere quanto speravamo e siamo felici di aver sentito, oggi, che c’è una specie di upgrading, di aggiornamento che ci fa sperare che le cose possano migliorare. Per parte nostra vogliamo ribadire, ancora una volta, la nostra volontà di dare un contributo, se i dirigenti di questa fondazione lo vorranno, affinché questa Istituzione possa finalmente funzionare. I molti progetti e le varie proposte che cercano di rafforzare questo dialogo e di tutelare le diversità culturali sono, tuttora, per così dire, in ordine sparso. Forse abbiamo bisogno di un po’ di coordinamento per tracciare una via maestra nella quale possano confluire tutte queste proposte.

Abbiamo bisogno di più ricerca che consenta di sondare ed individuare le esigenze e le richieste, perché, nei vari ambiti culturali, vi sono delle priorità. Forse la costruzione di un partenariato, fra i vari paesi, su un tema stabilito, potrebbe destare una certa attenzione da parte dei paesi coinvolti e, forse, potrebbe essere un avvio intelligente. Avrei una proposta al riguardo. In Egitto, nel deserto occidentale, abbiamo dei siti faraonici dove Alessandro Magno è stato incoronato, si tratta di un sito che richiede molta attenzione relativamente alle ricerche quivi operate e richiede restauro, dal momento che versa in completa decadenza. Credo che questo possa interessare più paesi, non solo l’Egitto e la Grecia.


Questo, ad esempio, potrebbe essere considerato un progetto che rientri sotto l’egida di un nuovo programma quale la Tutela del patrimonio comune nel Mediterraneo, dal momento che molti siti sono comuni e non riguardano esclusivamente un solo paese. La società dell’informazione, con l’uso della tecnologia, è un elemento davvero molto utile affinché si possa dare uno sviluppo nuovo alla ricerca, che non può e non deve limitarsi al patrimonio tangibile, ma, al contrario, implicare e coinvolgere quello intellettuale.

Per l’occasione, vorrei ribadire, Presidente, l’interesse dell’Egitto verso una tale ricerca culturale e nell’ambito della cultura. Abbiamo realizzato un museo, inaugurato dai presidenti Mubarak e Chirac un mese fa, per i beni culturali sommersi ad Abukir. Questa iniziativa toccherà altri paesi del nord e del sud del Mediterraneo. Suggerirei, quindi, lo sviluppo di un progetto, in un certo senso, di fratellanza o di gemellaggio tra i musei ed i centri culturali dei nostri paesi, attraverso progetti pratici, con attività e programmi cui possano partecipare i cittadini, ovvero progetti che non siano limitati allo scambio di visite tra dirigenti e leaders.

Infine, mi preme sottolineare che il principio di cui andiamo fieri e per il quale lavoriamo, ovvero la tutela delle diversità culturali, è una delle modalità più importanti per aiutare a superare la tensione culturale e politica nell’ambito del Mediterraneo. Questo porterà alla pace tanto ambita, pace che l’Egitto vuole come Governo e come popolo. La nostra first lady, Susanna Mubarak, è impegnata in prima linea su tale fronte.

In conclusione, vorrei ringraziare l’Unesco che tutela questo sforzo, questo progetto, non solo nella nostra area, ma in tutte le parti del mondo.

Grazie, Presidente, e grazie a tutti i colleghi per il cortese ascolto.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Hassan. Do la parola ad Aurelio Juri, membro della National Assembly della Slovenia.

 

AURELIO JURI, Membro della National Assembly della Slovenia. Grazie Presidente, un saluto da parte del parte del Parlamento sloveno a tutti i partecipanti. Volevo soltanto dare il mio contributo, più rappresentativo che altro, alla nostra idea dell’Università del Mediterraneo. Premetto che la Slovenia si prepara a presiedere, il prossimo anno, l’Unione Europea, puntando su due priorità, ovvero il dialogo interculturale e i mutamenti climatici e le politiche energetiche. Quindi, senz’altro, nei suoi sei mesi di presidenza, uno degli strumenti che la Slovenia intende impugnare sarà anche la Convenzione dell’Unesco, cui darà ampio spazio nella sua fase di Presidenza. In questo contesto si inserisce, ovviamente, anche il confronto, che apprezzo molto e che ha inizio, formalmente, oggi, con la proposta dell’UNIMED di ipotizzare una Università del Mediterraneo in una ottica di rete con quella già esistente.

Desidero informarvi che, a Tunisi, la Slovenia presenterà ufficialmente una sua proposta, che è integrativa, complementare e non esclusiva, poiché indica la creazione di uno strumento in più per rafforzare la crescita intellettuale di quest’area e quindi facilitare, anche, il dialogo fra le due sponde.

A Tunisi vi sarà la presentazione ufficiale di una proposta messa insieme da un gruppo di esperti sloveni provenienti dal mondo accademico, politico e della società civile che non nega il ruolo dell’UNIMED, anzi lo completa, e tende a confrontarsi sulle opportunità migliori per creare questa istituzione.

Ci rendiamo conto che il dialogo fra le due sponde del Mediterraneo, e soprattutto quello fra l’Europa ed il mondo islamico, a volte segna il passo appunto perché non vi sono, nei posti di maggiore responsabilità, intellettuali capaci di dialogare. Qui siamo mancanti tutti, su tutti i versanti. Quindi l’idea è quella, senz’altro, di creare una nuova generazione di intellettuali all’interno di quest’area, che sappiano dialogare e gestire meglio questo rapporto che, spesso e troppo spesso, è difficile.

 

Non mi addentrerò, oggi, sull’idea della Slovenia, ma vi invito, durante l’Assemblea di Tunisi, a prestare attenzione a questa nostra presentazione ufficiale. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, onorevole Juri. Anticipo qui, alla luce delle idee emerse fin qui oggi, come anche dal 6 novembre, l’idea di proporre al Bureau la costituzione di un gruppo di lavoro, così da poter, entro l’anno, stringere su un percorso condiviso per la nascita, finalmente effettiva, di una istituzione universitaria mediterranea. Uso la parola istituzione perché credo che l’onorevole Juri abbia ragione e che le due proposte siano potenzialmente e realmente complementari. Però ci vorrà un’istruttoria e vorrei, se siete d’accordo, concordare come proposta la creazione un gruppo di lavoro che stringa, in un tempo breve, su una proposta concreta da presentare alla sessione seguente quella di Tunisi di quest’anno.

Do ora la parola al signor Mahmoud Karoui, membro della Chambre des députés della Tunisia.

 

 

MAHMOUD KAROUI, Membro della Chambre des députés della Tunisia. Grazie, Presidente. Desidero in primo luogo ringraziarla dell’ospitalità in questo bel palazzo che ci accoglie e, inoltre, per la preparazione della nostra terza riunione che avrà luogo a Tunisi.

Vorrei soffermarmi sulle nuove tecnologie che sono all’ordine del giorno dei nostri lavori. Le nuove tecnologie, naturalmente, sono molteplici ma, per rimanere nell’ambito di quello che ci sta più a cuore, cioè il dialogo fra culture, penso che le nuove tecniche in materia di informatica, di informazione e comunicazione debbano, più delle altre, essere messe a disposizione degli abitanti della sponda nord e della sponda sud del Mediterraneo, proprio per facilitare il dialogo e il trasferimento, che è alla base stessa del dialogo, di quelle informazioni. Se non vi sono informazioni, se, cioè, vi è mancanza di informazioni, il dialogo viene meno.

Sappiamo anche che le nuove tecnologie hanno dato luogo a nuove idee, nuove concezioni della vita stessa e dell’economia, in particolare, dell’economia del sapere. Oggi, naturalmente, anche questo, Bouchenaki ne ha trattato poco fa parlando del digital divide ovvero della frattura digitale, si pone a livello di partenariato euro-mediterraneo.

Per colmare questa lacuna, questo digital divide, bisognerà quindi trovare una strategia atta a fornire, in uguale misura, gli strumenti agli abitanti della riva sud e della riva nord del Mediterraneo. Quindi nell’ambito di una rete ovvero di una rete culturale, di una rete universitaria, di studio, di ricerca od altra, è evidente che il dialogo e l’interscambio, se non tutti hanno i medesimi strumenti e mezzi, rischia di essere piuttosto limitato. Propongo, quindi, conformemente alle raccomandazioni emerse dal Vertice mondiale della informatica ed informazione che, come ricorderete, ha avuto luogo a Tunisi – la prima parte si è svolta a Ginevra con l’organizzazione dalle Nazioni Unite –  che noi, nella nostra qualità di partners euro-mediterranei, dobbiamo esercitare una pressione, a livello globale e mondiale, affinché questa mancanza di strumentazione possa essere colmata anche materialmente. Potremo anche spingere i nostri partners europei della riva nord ad investire in queste nuove tecnologie nella sponda sud che è creatrice di occupazione, anche di alto livello specialistico e, così facendo, si potrebbero diminuire i flussi migratori, ovvero avere una migrazione, se posso esprimermi, «in loco», nello stesso luogo.

Lei mi ha precorso, signor Presidente, parlando di università, io stesso, infatti, avrei voluto suggerire la creazione di un gruppo di lavoro sull’Università euro-mediterranea che possa avere il tempo di riflettere – lei stessa ha raccolto le diverse proposte dei nostri colleghi – sul nuovo tipo di


università da creare, ovvero una università in rete, come abbiamo ascoltato, oppure propriamente virtuale capace di favorire il dialogo, superando quindi il contatto fisico vero e proprio. Di certo le due cose non si escludono, si può avere anche una forma di complementarietà, ecco perché mi auguro che il gruppo di lavoro, incaricato di preparare i suoi risultati, tenga conto di questa complementarietà, cioè da una parte una rete più virtuale e, d’altra la necessità di un contatto fisico, poiché, sottolineo, la rete virtuale rimane pur sempre nel campo tecnico e sono piuttosto gli specialisti ed i tecnici che vi si interessano, a prescindere da scienza, medicina ed ingegneria.

Perché gli studenti delle due rive si conoscano, relativamente a quanto attiene alla civiltà ed alla cultura, non credo che si possa fare affidamento unicamente a delle letture, anche se utilissime, nell’ambito di una rete virtuale, ecco perché propongo che, forse, le due cose potrebbero andare insieme, ovvero da una parte la rete, l’università virtuale che agevola sicuramente il dialogo, e dall’altra una struttura fisica e reale, un’università vera e propria, in cui gli studenti possano incontrarsi.

Sono stato vice rettore d’università e vorrei animare questa idea, ne vorrei essere parte e vorrei essere incluso nel gruppo di lavoro. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei. Do la parola al signor Miroslav Mikolasik, membro del Parlamento europeo (Slovacchia).

 

MIROSLAV MIKOLASIK, Membro del Parlamento europeo (Slovacchia). Grazie, signor Presidente. Vorrei innanzitutto ringraziare l’Italia ed in particolare la Camera dei deputati, per averci accolto qui a Roma; penso che sia un segno di cooperazione e di amicizia di cui abbiamo tutti bisogno. In quanto membro del Parlamento europeo vorrei sottolineare alcuni elementi che mi sembrano importanti.

Come sapete, nel Parlamento europeo siede un nuovo Presidente, Hans-Gert Poettering, che ha preso funzione recentemente e sono lieto del fatto che abbia sottolineato molto il Processo di Barcellona, e tutti quei problemi di cui discutiamo qui nel nostro gruppo di lavoro, nell’Assemblea dell’APEM. Mi sembra un segno positivo che il Parlamento europeo attribuisca tanta importanza a questo processo. In qualità di membro della Commissione politica dell’APEM, vorrei anche sottolineare maggiormente, più di quanto non sia stato fatto oggi, alcune soluzioni politiche che possano risolvere i problemi tra la riva sud e la riva nord, in particolare, il problema del Medio Oriente, con riferimento al conflitto israelo-palestinese.

Ho molto apprezzato l’intervento di Bouchenaki che ha detto che, presto, la Convenzione dell’Unesco sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali entrerà in vigore. Si tratta di un segnale positivo, ovvero un segnale della vivacità e della qualità dei valori che noi promuoviamo in Europa ed anche nell’ambito dell’APEM.

Inoltre, ho molto apprezzato anche l’idea di mettere l’accento sulla cooperazione fra università, prestando maggiore attenzione ai giovani intellettuali che, sicuramente, rappresentano il futuro di questo dialogo e che, a lungo termine, porteranno una maggiore fiducia reciproca tra i popoli e le nazioni.

Infine, ho ascoltato con molto interesse l’intervento, di altissima qualità, della signora Roudil, in  particolare quando ha fatto riferimento non solo al problema dei paesi del Medio Oriente, ma anche a quelli di questa Europa allargata, più precisamente del sud-est dell’Europa, come il caso del Kosovo. Sono d’accordo infatti che sia necessario rendersi conto che, nella zona del Kosovo, c’è bisogno di una soluzione giusta ed equilibrata, una soluzione che porti degli elementi positivi e non


ulteriore elementi di tensione e conflitto. A questo proposito, la Slovacchia, per una coincidenza di eventi Presidente, in questo momento, del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha intenzione di dare un apporto positivo alla soluzione di questo conflitto nel pieno rispetto del popolo del Kosovo, ma anche nel pieno rispetto delle minoranze, non solo musulmane ma anche serbe, sempre tenendo conto del parere ufficiale della Serbia. Desideravo, dunque, attirare la vostra attenzione su questo grave problema ed invitare i colleghi presenti a riflettere e ad approfondire, nella ricerca di una soluzione positiva, questa questione. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie signor Mikolasik. Do ora la parola a Nicos Cleanthous, membro del Vouli Antiprosopon di Cipro.

 

NICOS CLEANTHOUS, Membro del Vouli Antiprosopon di Cipro. Grazie Presidente, anch’io mi unisco al coro di ringraziamenti per la vostra calorosa ospitalità. Patrimonio culturale, dialogo interculturale, impiego di nuove tecnologie fra i nuovi paesi del Mediterraneo sono elementi che protendono sia verso l’unità e la promozione della comprensione tra i vari popoli, sia verso la conservazione del patrimonio culturale dei popoli del Mediterraneo. L’ultimo obiettivo è la creazione di pace e stabilità in questa regione particolarmente travagliata. Non vi possono essere prospettive di migliorare la collaborazione culturale se ciò che costituisce il nostro patrimonio comune non è condiviso e conservato.

L’interrogativo è sui mezzi con cui possiamo raggiungere un tale obiettivo; studi comparati di storia, di letteratura, di religione, promozione della comprensione, tolleranza attraverso l’istruzione sono tutti elementi che possono portarci al suo conseguimento. Naturalmente, per far ciò, abbiamo bisogno di maggior collaborazione nel campo delle nuove tecnologie, così da ricevere e trasmettere le informazioni, così da ricevere e trasmettere cooperazione a livello europeo. Ecco perché accogliamo, con favore, l’idea di creare una Università euro-mediterranea, una iniziativa che riteniamo possa fornire il quadro per un coordinamento più efficace tra i vari soggetti interessati. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie, signor Cleanthous. Se c’è tempo, poiché la nostra Commissione, fra i propri mandati, dovrebbe anche avere quello dell’attivazione della società civile e, oggi, si è parlato del suo ruolo nella nascita e nella stesura della Convenzione dell’Unesco, vorrei dare la parola ad una rappresentante della Coalizione italiana per la diversità culturale che ha chiesto di intervenire.

 

SILVANA BUZZO, Segretario generale della Coalizione italiana per la diversità culturale. Sono Silvana Buzzo, Segretario Generale della Coalizione italiana per la diversità culturale. Vi porto i saluti di Ugo Gregoretti che ne è il Presidente e che ci ha lasciato poiché era in partenza. Vorrei ringraziare per l’invito e l’opportunità di partecipare a questa interessante assemblea. Ci sembra opportuno, in questo contesto, segnalare alcuni punti. Da una parte, come già annunciato e proposto da madame Roudil – che ci ha conosciuto e seguito da tempo –, sarebbe opportuno aiutare i paesi del Mediterraneo a ratificare la Convenzione Unesco per la promozione e la protezione della diversità culturale; dall’altra sarebbe necessario aiutare l’Unesco a dare attuazione alla Convenzione con un Segretariato forte ed autorevole, con un Osservatorio in grado di segnalare le minacce alla diversità nei luoghi dove queste si producono o si dovessero produrre, con uno strumento di arbitrariato che sia in grado di sostituire efficacemente quelli della OMC, troppo sbilanciati a favore del mercato.


L’ideale, naturalmente, sarebbe costituire un modello efficace di rapporto fra istituzioni e società civile per consentire una opportuna applicazione della Convenzione in ciascun paese e un modello di privato/pubblico che veda coinvolte tutte le coalizioni, già di fatto nate per questa funzione. Ci sembra che questi siano dei punti importanti. Noi, come Coalizione italiana, ci rendiamo disponibili a collaborare in tal senso.

Inoltre, ci sembra di estremo interesse la creazione di una Università euro-mediterranea e, qualora fosse possibile, ci interesserebbe partecipare attivamente alla sua costituzione dal momento che abbiamo, comunque, nel nostro progetto, una collaborazione ovvero la costruzione di una rete di collegamento capace di istituire, eventualmente, nuovi insegnamenti per favorire la diffusione e la circolazione della conoscenza delle diverse culture.

Vorrei aggiungere che la Coalizione italiana fa parte di un coordinamento europeo e di un coordinamento internazionale che, attualmente, collegano 36 paesi; si tratta di una rete di grande interesse che – lo sottolineo – è nata da una collaborazione attiva tra istituzioni e società civile. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Buzzo.

C’è la richiesta di un minuto di intervento, sull’università, da parte di Hassan. Dopo questo intervento, sospenderei la seduta per dare spazio al coffee-break, in modo da riprendere successivamente con la sessione sull'immigrazione. Ci sarà occasione, nel momento in cui discuteremo la bozza di risoluzione, di tornare sui temi affrontati. 

 

FARKHONDA HASSAN, Membro della Shura Assembly dell’Egitto.Noi avevamo una visione completamente diversa sull’Università Euro-Med. Dopo aver ascoltato il professor Rizzi, ci rendiamo conto che, dal punto di vista pratico, è difficile istituire una università nel senso tradizionale del termine. Tuttavia, non mi è del tutto chiara la differenza tra quanto è stato detto oggi e gli scambi esistenti di studenti e docenti, nel senso di un rafforzamento di questi programmi. Come lei ha detto, Presidente, questo richiede una Commissione ad hoc per approfondire ulteriormente la tematica. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Interrompiamo i lavori. Ci ritroviamo qui dopo il coffee-break e apriamo il nostro incontro sulle questioni dell'immigrazione. 

 

(La seduta, sospesa alle ore 11,55, è ripresa alle ore 12,25).

 

Flussi migratori nell’area del Mediterraneo e dell’Africa: iniziative comuni e ruolo dei Parlamenti.

 

TANA DE ZULUETA. Riprendiamo i nostri lavori che, secondo il programma, sono dedicati alla questione delle migrazioni e dei flussi migratori nell'area del Mediterraneo e dell’Africa.

Abbiamo il piacere di avere con noi, con due relazioni introduttive, la Viceministro degli affari esteri del Marocco, delegata alle comunità marocchine all'estero, Nouzha Chekrouni, e il Ministro della solidarietà sociale italiano, Paolo Ferrero. Dopo le due relazioni potremo dibattere questa questione. 

Aggiungo che, poiché nel corso della giornata discuteremo una bozza di relazione, possiamo proseguire nel pomeriggio – forse anche questa mattina – i temi sollevati nel corso della mattinata, perché tutto rientra nella nostra risoluzione. Pertanto, il dibattito rimane aperto. 


Do la parola al Viceministro degli affari esteri del Marocco delegato alle comunità marocchine all'estero, Nouzha Chekrouni. 

 

NOUZHA CHEKROUNI, Viceministro affari esteri del Marocco delegato alle comunità marocchine all'estero. Grazie, signora Presidente. Buongiorno a tutti. Innanzitutto, vorrei esprimere la gioia che provo nel partecipare a questa importantissima manifestazione e ringraziare la Presidente per avermi invitato a presentare il punto di vista del Marocco su una questione cruciale e vitale come le migrazioni. 

Quando si parla di Marocco e di Italia si parla certo di una zona dello spazio euro-mediterraneo, che, senza fare riferimento alla geografia e alla storia, è legato. Il Mediterraneo, culla dell'umanità, ha, tra i suoi fattori più importanti di collegamento, proprio i flussi migratori. È evidente che, oggi, uomini e donne sono al centro di questo ponte tra le due rive del Mediterraneo, eppure questo elemento, che dovrebbe essere un collegamento culturale ed economico – poiché gli uomini e le donne sono la vera ricchezza delle nostre società –, è spesso concepito come un problema.  La questione delle migrazioni è, infatti, considerata una problematica vera, tanto da essere trattata sotto il profilo della sicurezza, cosa che pone gravi sfide alla nostra società. Per questo motivo, dialogare su tale questione, in una sede parlamentare, è un buon modo per ristabilire lo scambio. Solo il dialogo, infatti, che è una virtù, ci permette di avvicinare i nostri punti di vista e di dare risposte reali a questioni spinose, ma comunque della massima importanza. 

Ebbene, oggi più che mai, ci appare necessario rafforzare la cooperazione tra la riva sud e la riva nord; siamo profondamente convinti che lo sviluppo della riva nord non può continuare ad avere successo, per ancora molto tempo, se continua ad ignorare quello della riva sud, poiché i due sviluppi sono legati dalla loro storia, dalla loro geografia, nonché dalla necessaria riflessione sul futuro comune. Quindi, al centro di questo riavvicinamento necessario, si pone realmente la questione dello sviluppo e della democratizzazione di questo spazio attraverso uno scambio equo ed equilibrato, capace, cioè, di tener conto delle specificità, ma anche consapevole del fatto che soltanto se esso è equilibrato può arricchire questi due universi.

Tra i vettori dinamici di tale riavvicinamento e di tale partenariato vi è, proprio, la migrazione. Vorrei parlarne ponendo l’accento, non sul lato problematico della immigrazione clandestina, ma piuttosto su quello che può darci in quanto società delle due sponde del Mediterraneo. Il Marocco è convinto che questa questione sia della massima importanza e che essa abbia un peso nella sua politica, poiché il Marocco non è più quello degli anni ‘60, ovvero un paese che forniva migranti, ma piuttosto un paese di transito e di accoglienza. A qualcuno può sembrare strano, ma è così.  A partire da questa nuova situazione gli uomini, data l'era della globalizzazione in cui la circolazione degli esseri umani non è sempre libera, hanno cercato altri mezzi per poter circolare liberamente – mi riferisco alle reti di traffico degli esseri umani. Sottolineo, però, che tale fenomeno risponde alle esigenze di coloro che vogliono vivere una nuova vita e sfuggire alla povertà, come nel caso del continente africano, ricco di gente che desidera sottrarsi ad essa. 

Il Marocco, a partire dall'entrata in vigore dell'accordo di Associazione, è impegnato in questo processo – che riteniamo irreversibile – di dialogo con l'Unione Europea in materia di immigrazione. Inoltre mi preme parlarvi dello sforzo comune che tende a creare un partenariato rafforzato che sottintende, a sua volta, una strategia globale ed equilibrata che ponga la persona umana al centro delle preoccupazioni. Se parlo di questo approccio e di questa strategia globale è semplicemente per evidenziare che, le strategie di sicurezza che hanno sempre cercato di strutturare questa questione della migrazione, sono inefficaci, per noi paesi del Mediterraneo, da sole; la sicurezza, trovandoci di fronte alle minacce del terrorismo, è sicuramente una sfida molto grave e, oggi, di grande rilevanza, tuttavia essa, da sola, non è sufficiente.


Noi diamo, pertanto, molta importanza ad una strategia globale, che tenga conto, innanzitutto, dello sviluppo perché, per agire sulla migrazione, in particolare quella clandestina, bisogna agire sulle cause dell'immigrazione stessa che – badatenon sono solo la povertà. Intendo dire che bisogna rimediare, certamente, a tale questione, ma anche e soprattutto sostenere gli sforzi di democratizzazione e di sviluppo così da offrire nuove possibilità ai migranti, anche perché, per il Marocco, questo sviluppo – a cui re Mohammed VI ha voluto dare una particolare importanza – rappresenta una fonte di ricchezza enorme, nel senso che il potenziale umano, per noi, è costituisce una leva di sviluppo e, pertanto, tendiamo a conservarlo. 

Quando si cerca di analizzare la situazione, ci rendiamo conto che lo spazio euro-mediterraneo si chiude alla migrazione della manodopera, però si apre a quella della materia grigia, la cosiddetta fuga dei cervelli, che impoverisce il nostro paese. Dobbiamo, quindi, renderci conto, insieme, che soltanto attraverso la solidarietà e dei programmi comuni potremo risolvere tale problema. E quando mi riferisco alla solidarietà, intendo una solidarietà strutturata, dietro la quale ci sia una vera volontà politica, da entrambe le parti, di promuovere programmi che possano regolarizzare i flussi migratori e tenere conto, in questa regolarizzazione, delle necessità dei paesi del sud come di quelli del nord.

È proprio in termini di interesse che queste questioni vanno, oggi, inquadrate. Noi abbiamo degli strumenti essenziali. Innanzitutto – sono lieta di parlarne –, c’è uno strumento nato qui a Roma nel 1990, ossia il dialogo “cinque più cinque” lanciato dalla Francia. Questo è un dialogo che permette l’incontro, a livello euro-mediterraneo, di cinque paesi del nord e cinque paesi del sud con l’obiettivo di dare delle risposte adeguate alle aspettative reciproche. Dal 2002, con la Conferenza ministeriale di Rabat, abbiamo messo in agenda diverse questioni. In particolare, dopo la Dichiarazione di Tunisi, la Conferenza di Rabat, appunto, si è posta il problema di come attuare gli obiettivi formulati e le azioni raccomandate.

Nella Conferenza di Rabat è stato proposto un programma di lavoro su due temi fondamentali: in primo luogo, il trattamento di flussi migratori attraverso una gestione concertata del movimento di persone; in secondo luogo, la lotta al traffico dei migranti, tema fondamentale poiché la tratta degli esseri umani è un attentato alla stessa dignità umana e, nelle nostre società, dove i più minacciati sono le donne e i bambini, dobbiamo quindi assumere delle azioni comuni per proteggerli. 

Penso che questo processo sia importante, ma è necessario farlo giungere ad uno stadio di maturità, ovvero va approfondito per passare dalla riflessione all’attuazione dei programmi.

In questo contesto, vorrei evidenziare un’altra emergenza che è quella dei naufragi che si verificano lungo le rive del Mediterraneo – in realtà non soltanto del Mediterraneo ma anche, della costa atlantica, tra la Mauritania e le isole delle Canarie –, rive che, attraverso la migrazione clandestina, sono diventate uno spazio di naufragi quotidiani, ovvero dei veri e propri circuiti di morte. Noi ci sentiamo coinvolti in questo problema e, per tale motivo, Spagna, Marocco e Francia hanno deciso di organizzare la Conferenza euro-africana di Rabat con il sostegno di tutti i paesi amici in Africa e in Europa, compresa l'Italia, dove era già stato organizzato un incontro sull'immigrazione.  Ebbene, questa Conferenza è stata la prima nel suo genere, perché ha riunito, allo stesso tempo, i paesi di partenza, quindi i paesi subsahariani, quelli di transito e quelli di accoglienza, quindi anche il Marocco come paese di transito, e i paesi europei come paesi di accoglienza, in evoluzione, a lungo termine, il cui obiettivo è giungere ad affrontare realmente la questione dell'emigrazione per poter mobilitare i mezzi materiali e logistici necessari a preservare i diritti e le dignità dei migranti.

È una prima tappa sulla strada di una azione che si iscrive in una dinamica nuova e che crea una visione pragmatica e una responsabilità condivisa – questo è il punto fondamentale – fra nord e sud. Penso, inoltre, che non dobbiamo dimenticare che, dall'altra parte dell'Europa, questo potenziale di migranti ha delle rivendicazioni; noi, in Marocco, prevediamo che, in futuro, il problema della cittadinanza sarà una rivendicazione fondamentale e lo è già, in alcuni Stati democratici, in cui l'uguaglianza tra cittadini è una questione fondamentale. Quindi, più cerchiamo di organizzare una migrazione regolare, più potremo avere una influenza su quella clandestina; più ci sarà un quadro di solidarietà per sostenere la democratizzazione dei paesi e la buona governance, attraverso progetti di sviluppo che possono creare posti di lavoro, più potremo agire sul problema della migrazione clandestina; più riconosceremo l'identità culturale e i diritti ai migranti nei paesi di accoglienza, al fine di una integrazione più profonda in questi paesi, più diminuiremo la chiusura e il problema dello scontro delle civiltà.

In fine – e concludo – penso che questa questione sia profondamente legata alla persona umana ed alla questione culturale. E proprio per questo, noi parlamentari, i decisori politici e la società civile, insieme, dobbiamo promuovere una cultura di pace, di condivisione, che non demonizzi l'altro, che non lo stigmatizza, ma che, invece, si apra allo scambio positivo, con l’obiettivo di conoscersi meglio e affrontare le sfide del millennio insieme. 

 

TANA DE ZULUETA. Nella nostra sessione di novembre, la parlamentare italiana di origine algerina ci ha parlato della cultura mediterranea, ricordandoci che il dialogo deve basarsi non solo su rispetto e conoscenza, ma anche sulla disponibilità di mettersi in discussione, quindi di cambiare. Questa è forse la sfida più grande di fronte a noi, ovvero l’evoluzione delle nostre società. 

Do ora la parola al Ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero.

 

PAOLO FERRERO, Ministro della solidarietà sociale. Grazie per l'invito. Credo che questa assemblea sia importante perché è assolutamente necessario avere più strumenti e luoghi dove poter svolgere un confronto fra le due sponde del Mediterraneo. Qualche mese fa, ad Al Jazeera, c’è stata la riunione del gruppo «cinque più cinque» e credo che questo di oggi sia un altro passaggio importante.

Intervengo su due punti che riguardano, il primo, il modo in cui il Governo italiano – che spero venerdì venga riconfermato nel suo pieno funzionamento – ha intenzione di modificare le leggi sull'immigrazione; il secondo, con quale idea di società.

La legge attuale, dal nostro punto di vista, non funziona, dal momento che, in realtà, rende molto complicato l'incontro legale tra domanda e offerta di lavoro, e tende a produrre una alta percentuale di clandestini, in particolare per due ragioni: in primo luogo perché i flussi di ingresso consentiti in Italia sono, ogni anno, inferiori alla necessità del mercato del lavoro italiano; in secondo luogo, a causa della presenza di meccanismi di ingresso regolare così complicati da rendere difficilissimo, per un migrante, il poterli seguire.

Per tali ragioni, pensiamo che il punto fondamentale di una nuova legge sia quello di trovare i canali e i meccanismi attraverso cui permettere l’incontro legale fra domanda e offerta di lavoro, e quindi, considerare l'immigrazione non un incidente di percorso, ma un fatto strutturale, dato sia dalla necessità, da parte di persone e popolazioni che vivono in condizioni di maggior povertà, di poter migliorare la propria condizione, sia dal bisogno, da parte delle economie cosiddette sviluppate, di avere manodopera aggiuntiva. In Italia, ad esempio, si calcola che siano necessarie, dato l'andamento demografico che vede un tasso di natalità molto basso – la percentuale di bambini per ogni donna è pari all’1,2 per cento – circa 250 mila persone l'anno, come condizione normale, per mantenere il livello della produzione dei servizi. L’immigrazione, quindi, risponde ad una doppia necessità, quella da parte dei paesi più poveri e quella da parte nostra.

Tra le principali modifiche, su cui stiamo lavorando, vi è in primo luogo, la costruzione di una pluralità di canali, attraverso cui poter entrare regolarmente in Italia, all'interno di flussi programmati di dimensioni realistiche rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. In particolare, stiamo pensando di sviluppare, in primo luogo, oltre alla chiamata diretta da parte delle imprese che è il meccanismo attuale, percorsi di formazione – ad esempio, c’è un accordo con il Marocco e se ne è chiuso uno con l’Egitto, relativi a percorsi di formazione in loco che diano luogo all’ingresso regolare in Italia; e, in secondo luogo, di riattivare il meccanismo dello sponsor, sia collettivo che individuale, ovvero avere istituzioni, organizzazioni imprenditoriali o individui che chiamano una persona in Italia, garantendo per lei, anche con una quota di denaro per il suo mantenimento nella fase di ricerca e inizio del lavoro.

Aggiungo inoltre che lo sponsor individuale permetterebbe di attivare la rete delle conoscenze, che normalmente è uno dei canali principali di organizzazione di flussi migratori, come canale legale, invece di consegnarla alla clandestinità. Prevediamo di avere, in più, l’autosponsorizzazione, cioè un migrante che possa depositare una quantità di denaro a garanzia del proprio mantenimento, per alcuni mesi in Italia, ed avere, così, il permesso di ingresso per la ricerca di lavoro, ovvero la possibilità che l'incontro tra domanda e offerta di lavoro avvenga direttamente sul mercato italiano, non solo, necessariamente, all'estero. Tutto questo all’interno di flussi e cifre realistiche. Inoltre, sempre in questo ambito, l’idea sarebbe anche quella di non avere ogni anno una nuova domanda, ma di costituire, invece, delle liste, a cui ci si iscrive e dalle quali si possa attingere, utilizzando una delle diverse forme di ingresso – magari anche programmando che, quel che non è possibile fare nel 2007, lo si possa fare nel 2008 e nel 2009, e cioè avendo una ragionevole previsione di quel che succede.

Non mi dilungo ulteriormente su questo punto, mi preme sottolineare però che il punto fondamentale sul quale stiamo lavorando è portare a legalità il principale elemento di clandestinità, ovvero le forme dell'ingresso.

La seconda modifica sui cui stiamo lavorando, nell’ambito di questa nuova legge, è l’estensione dei tempi di durata dei permessi di soggiorno, sostanzialmente raddoppiandoli, così da evitare burocrazia, ritardi e problemi vari.

Inoltre, vogliamo, come terza modifica, cercare di affrontare il tema dei minori non accompagnati – sono alcune migliaia all'anno –, prevedendo sia l’istituzione di un fondo, uno stanziamento, per seguire i minori non accompagnati, sia una modifica della legislazione che, attualmente, prevede che i minori non vengano espulsi fino a 18 anni – normalmente, poi, compiuti i 18 anni, questi vengono espulsi verso il proprio paese di origine. Prevediamo, dunque, di varare una norma che valuti, con molta attenzione, i percorsi concreti di inserimento e, quando questi vi siano, eviti l'espulsione. 

Come quarta questione, si prevede, in primo luogo, il voto agli immigrati, attivo e passivo, nelle elezioni amministrative, alle stesse condizioni degli immigrati comunitari, quindi, con una equiparazione fra immigrati extracomunitari ed immigrati comunitari; e, in secondo luogo, un significativo miglioramento dal punto di vista del trattamento dei diritti di difesa e del superamento del diritto, nei fatti, differenziato tra immigrati e cittadini italiani. Quest’ultimo è il capitolo, che stiamo ancora limando, sul superamento dei CPT e sul superamento di un diritto particolare per gli immigrati che, sostanzialmente, toglie il diritto alla difesa, superamento che, a nostro avviso, può essere ottenuto, riportando, nella giurisdizione ordinaria e, quindi, alla magistratura ordinaria e alla possibilità di difesa, il complesso delle questioni relative all’immigrazione.

Abbiamo, infine, due leggi, in corso di approvazione al Parlamento, una sull’ottenimento della cittadinanza italiana, che riduce dai dieci ai cinque anni il tempo per il suo conseguimento; e un'altra sui ricongiungimenti familiari, che non solo li facilita, ma ne amplia anche la platea.

Questo dunque è l’indirizzo della maggioranza relativamente alla modifica della normativa che, come capite, ha un punto decisivo nella costruzione di accordi multilaterali e bilaterali con i paesi, in particolare dall'area del Mediterraneo, per cercare di governare un fenomeno invece di non governarlo.

Quanto all'idea di integrazione e di inclusione sociale, sostanzialmente, lo schema su cui stiamo ragionando prevede di garantire diritti sociali identici fra lavoratori immigrati e italiani, quindi parità di diritti sociali; e di avere quei miglioramenti sui diritti civili citati poc’anzi. A questi penso che sia necessario aggiungere un terzo punto, presente nel programma del Governo, ovvero una legge sulla libertà religiosa in Italia che riconosca la pluralità delle confessioni religiose oggi presenti, e, ovviamente, abbia come schema che il riconoscimento delle diverse confessioni religiose, da parte dello Stato, si debba accompagnare al riconoscimento, da parte delle diverse confessioni religiose, dei valori fondanti la Costituzione italiana, ovvero l'eguaglianza, l'eguaglianza uomo-donna, i diritti civili, i valori fondamentali della democrazia.

L’idea è quindi di avere diritti sociali, diritti civili e riconoscimento della pluralità delle appartenenze di fede culturali come i tre pilastri su cui basare l'integrazione. Sopra questi tre pilastri, noi pensiamo – questa è la nostra idea – che sia necessario lavorare affinché vi sia un allargamento della conoscenza della lingua italiana, e che la conoscenza della lingua italiana diventi un diritto, ma anche un elemento assolutamente favorito per qualsiasi immigrato che risieda in Italia. Pensiamo, infatti, che solo la conoscenza della lingua permetta di far sì che il territorio diventi un possibile luogo di costruzione di relazioni e di comunità, e che solo la conoscenza della lingua ponga le condizioni per evitare i ghetti e le separazioni.

Riteniamo essenziale, quindi, non l’appartenenza a valori morali o a costumi – a me non interessa affatto se una persona abbia il velo oppure non lo abbia, è un suo problema –,  ma la conoscenza della lingua e l'accettazione dei valori fondanti la civile convivenza, ovvero la Costituzione; questi sono i due elementi fondamentali attorno a cui costruire i diritti sociali, civili e – con una legge sulla libertà religiosa – la possibilità di avere una pluralità culturale reale.

L'idea fondante è che l'immigrato non debba necessariamente costituirsi una comunità chiusa per pensare di potersi difendere all’interno di una società che vede come ostile, o percepisce come tale. Molte volte i fenomeni di costruzione comunitaria chiusa sono frutto di una difesa necessaria a far valere, come immigrato, i propri diritti o a garantirsi, in altra forma rispetto al diritto, la possibilità di sopravvivere civilmente nel nostro paese. Pensiamo che questo diritto debba essere garantito dallo Stato, sul piano civile, sociale e nell’ambito del pluralismo culturale, per permette di avere un processo in cui le identità culturali e di appartenenza siano una libera scelta, e non un obbligo da preservare in modo chiuso.

L'idea è di sviluppare un processo per cui domani a nessuno debba essere chiesto, così come oggi a nessuno verrebbe in mente di chiedere se si senta prima cattolico o prima italiano, se si senta prima musulmano, o prima italiano. Per raggiungere questo, credo che sia necessario che l'identità di partenza non sia obbligata ad essere chiusa, ma che in qualche modo si rompano i muri, i rischi dei ghetti, sia da una parte che dall'altra.

Questa, dunque, è l'idea del processo di integrazione. L'Italia, oggi, su 57-58 milioni di abitanti, ha 3 milioni di immigrati, e questo numero – per il tipo di natalità oggi presente in Italia – è destinato ad aumentare di circa 250-300 mila unità all'anno, quindi, nel giro di venti anni, il panorama del paese sarà diverso e, in particolare, tra i bambini e le giovani generazioni avremo una situazione di presenza molto forte, in particolare nel centro-nord del paese, di bambini immigrati, pertanto il realizzare delle politiche di integrazione, che non riproducano muri e separatezze, non è un favore agli immigrati, ma è una necessità per far sì che l'Italia possa avere un avvenire di civiltà nelle relazioni al suo interno.

 

TANA DE ZULUETA. Do la parola a Miloud Chorfi, membro dell’Assemblea nazionale popolare d’Algeria e Vicepresidente della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell'Apem.

 

MILOUD CHORFI, membro dell’Assemblea nazionale popolare d’Algeria e Vicepresidente della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell'Apem. Signora Presidente, nel nome di Allah, il clemente e misericordioso, egregia signora Presidente, onorevoli, signore e signori, il mio intervento verte sulla questione dell'emigrazione, visto che l’Algeria è interessata, in quanto paese di transito. Questo è un problema fortemente presente in Algeria, e, a causa dei problemi dovuti a questa emigrazione, abbiamo delle proposte all’Euro-Med. Ormai sappiamo bene che tra le cause di tale fenomeno così mutevole, vi sono i motivi economici e sociali, le catastrofi nazionali, i conflitti politici e militari.

Prima di discutere di questa questione, vorrei fare un brevissima precisazione a quanto detto dall'onorevole Ministro degli esteri, quando ha accennato al dissenso tra Algeria e Marocco, riguardo alla chiusura dei confini ed alla tensione tra i due paesi. Diciamo all'onorevole Ministro che non vi è tensione in questa regione, vi è, certamente, una questione in via di risoluzione, e l'Algeria rispetta tutte le risoluzioni prese dall’ONU in merito a questa area nota per la sua lotta di lunga data e per la sua forte identità lungo i secoli trascorsi.

Tornando alla questione delle emigrazioni, ringrazio, innanzitutto, l'onorevole Ministro per il suo valoroso e valido intervento, riguardo alla questione che viviamo nella nostra regione e che l’Algeria vive. E ringrazio, anche, l’onorevole Ministro Ferrero, per la sua ottima presentazione.

Se vogliamo parlare di questa questione umana, non possiamo escludere la globalizzazione, la quale incentiva ed incoraggia il libero movimento e la libera circolazione di capitali e servizi, mentre, ancora, non c'è la libera circolazione delle persone, e questo è un ostacolo a quel riavvicinamento, davvero unico, nella nostra storia. A fronte dei mezzi di comunicazione che travalicano i confini degli Stati, vi sono confini politici ancora ermetici a questa libera circolazione. Abbiamo bisogno di conoscerci, abbiamo bisogno di dialogare, bisogna quindi risolvere queste questioni, e la soluzione non può venire che dalla rinuncia ai tentativi di emarginazione e marginalizzazione dei paesi poveri.

Il continente africano è reso fragile – sappiamo bene che l’emigrazione è una emorragia –, bisogna agire affinché gli africani, insieme all’intera comunità internazionale, possano riprendere il controllo di questo fenomeno. Pertanto, lo sviluppo dei paesi africani è una scelta obbligata, ed è questa la politica della integrazione. L'Algeria ha sempre parlato, nell’ambito dei vari fori internazionali, dall’Euro-Med all’Unione africana, di questo diritto alla libertà di circolazione ed ha segnalato, ripetutamente, le problematiche dell'Africa resa così fragile, come anche l'urgenza di dedicare a questo, da parte di tutti, più attenzione. L’Organizzazione internazionale per le migrazione, nei suoi vari programmi di aiuti, dovrebbe prestare più attenzione al continente africano, affinché vengano aperti degli uffici regionali. Il tema dello sviluppo rimane al cuore di questa questione, ed è la condicio sine qua non a che gli immigrati possano tornare a casa e contribuire, anch’essi, allo sviluppo della loro società.  All’incontro di Barcellona, nel 1995, l'Algeria, avviando un programma di integrazione con i vari paesi europei, affinché vi fosse una integrazione dei lavoratori algerini nei paesi di arrivo, aveva sospeso e vietato l’invio di immigrati con programmi dell’ONU.

Dunque, vista la sua situazione strategica nel Mar Mediterraneo, ove rappresenta un punto d'incontro tra Africa ed Europa, ovvero un punto di accoglienza e un punto di transito, l’Algeria ha il diritto di avere una voce in capitolo nella gestione di questi flussi migratori. Mette, inoltre, tutti i dati in suo possesso a disposizione della comunità internazionale.

L'Algeria, sotto la saggia guida del nostro Presidente, si è sempre adoperata per consentire una gestione dell'emigrazione, sia tutelando i legami dell'emigrato con la sua terra natale, sia adoperandosi affinché venissero rispettati, nella terre di accoglienza, i suoi diritti. È sempre stata all'avanguardia in ogni progetto di cooperazione regionale, soprattutto sulla sponda nord-occidentale del Mediterraneo; ha avviato, inoltre, trattative bilaterali per la creazione di una banca-dati sui flussi migratori e per rafforzare le capacità delle sue istituzioni nella gestione del fenomeno migratorio, attraverso l’informazione, la formazione, lo scambio di esperienze e l’avviamento di programmi di training – come lo studio dell'impatto sulla salute pubblica o la creazione di posti di lavoro. Sul piano regionale, posso dire che l'Algeria è un partner indispensabile in ogni cantiere, in ogni workshop,in ogni progetto di cooperazione per la gestione della migrazione nel Mediterraneo occidentale.

Il nostro paese ha un'esperienza davvero ricca, che mette a disposizione della comunità internazionale, a livello di scambio con organizzazioni internazionali per le migrazioni. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Do la parola al Richard Hörcsik, membro della National Assembly dell’Ungheria.

 

RICHARD HÖRCSIK, Membro della National Assembly dell’Ungheria. Signor Presidente, rappresento il Parlamento ungherese e, a nome del mio Parlamento, vorrei intervenire su questo punto odierno all'ordine del giorno, ovvero sull'emigrazione.

Come saprà, l'Ungheria si trova in mezzo all'Europa centrale, e non ha confini con il Mar Mediterraneo, anzi, è ben lontana da questa regione.

Va detto, però, che i flussi migratori sono in primo piano nel mio paese, per questo l’Ungheria ha un grande interesse a che si trovi quanto prima una soluzione a tale fenomeno. Abbiamo una posizione geografica molto particolare, nel senso che, quanto ai flussi migratori, il mio paese si trova proprio all'incrocio tra le rotte di immigrazione, orientali e meridionali. Gli ultimi anni di esperienza migratoria ci hanno consentito di enucleare una serie di punti. In primo luogo, poiché non siamo in grado di arrestare il processo migratorio, è nostro interesse comune gestire, nel modo opportuno, questo fenomeno.

In questo senso non possiamo, dunque, fare differenza tra paese di partenza, paese di transito o paese di arrivo; ritengo, al contrario, che ci debba essere un interesse comune nel gestire i cosiddetti flussi migratori. Per tale ragione, il Parlamento ungherese sostiene a pieno la collaborazione, il dialogo, nonché il processo avviato alcuni anni fa dall'Unione Europea. Esso, inoltre, comprende i problemi migratori propri della parte ovest del Mediterraneo, ma evidenzia come sia necessario dare la stessa attenzione anche a quanto avviene nell'area orientale del Mediterraneo, in cui oggi operano le cosiddette rotte di migrazione del Mediterraneo orientale, con tutti i problemi sociali, economici e culturali già conosciuti dal Mediterraneo ovest.

Sarebbe un grave errore concentrare la propria attenzione, le proprie energie, i propri stanziamenti solo sulle rotte di migrazione dell'ovest, quando, invece, è necessario individuare i primi passi per una collaborazione, in questo campo, tra l'Unione Europea e i paesi africani, una collaborazione regionale – vorrei sottolineare questo termine – la cui base o quadro dovrebbe essere il Decimo Fondo di sviluppo europeo, aperto, se non sbaglio, dall’1 gennaio 2008. Credo che questo Fondo possa fornire le risorse per attuare la collaborazione cui facevo cenno.

 

Inoltre, sottolineo che, in materia di collaborazione, dobbiamo parlare in termini chiari. Quando si parla di piani di azione – piani di detenzione e prevenzione di flussi migratori – dobbiamo usare termini chiari, avere degli obiettivi ben definiti e inequivocabili per entrambe le sponde del Mediterraneo, affinché, fin dai paesi di partenza, ci sia una informazione corretta, una collaborazione tra le due sponde ed una politica operativa ovvero di giustizia e controllo di polizia più efficace. 

 

TANA DE ZULUETA. Do la parola a Farkhonda Hassan, membro della Shura Assembly dell’Egitto, che ha chiesto di intervenire su questo argomento.

 

FARKHONDA HASSAN, Membro della Shura Assembly dell’Egitto.Grazie, Presidente, cercherò di intervenire non solo per ricordare che c’è l’Egitto, ma anche per ricordare che ci sono delle donne che vorrebbero partecipare.

Signora Presidente, l'Egitto, fino alla metà del XX secolo era un paese che accoglieva emigrati dal nord del Mediterraneo; vivevamo in mezzo a comunità provenienti da molti paesi, tra cui, le più grandi erano, forse, la italiana e la greca. C’è, ora, la seconda e terza generazione di questi emigrati che vivono, tuttora, in Egitto.

Un grande numero di Egiziani di oggi sono di origine, per così dire, del nord del Mediterraneo, tuttavia la situazione economica e le condizioni economiche, che l’Egitto ha conosciuto negli ultimi 50-60 anni, hanno fatto sì che, progressivamente, il flusso fosse invertito ovvero, dopo l'emigrazione verso l'Egitto, si è avuta quella dall'Egitto. Non intendo, in questa sede, ribadire quanto già detto nell'ultima riunione, ma mi preme precisare che l'Egitto, attraverso l'emigrazione di forza lavoro – vi è una ministra che se ne occupa – ha avviato , con delle raccomandazioni che sono state fatte proprie, varie strategie. Ad esempio, ci sono dei progetti che, istruendo e spiegano agli emigranti le problematiche dell’emigrazione, interessano la presa di coscienza dei lavoratori maschi – che sono la maggior parte –, ovvero forniamo loro informazioni che non riescono ad avere se emigrano in modo illegale, e questo avviene su tutto il territorio egiziano.

Vi sono, inoltre, degli accordi, coi paesi di accoglienza, sulle modalità per organizzare l’emigrazione, di modo che, attraverso una consultazione permanente, vi sia sempre un accordo tra l’Egitto ed il paese di accoglienza. Abbiamo anche dei programmi di training per la formazione della manodopera poco qualificata, per sviluppare delle competenze di cui, nell’ambito della manodopera, hanno bisogno i paesi di accoglienza. Vorrei evidenziare il coordinamento su questo piano, tra l’Italia e l’Egitto, è molto attivo, anche perché l’Italia è uno dei paesi più “presi di mira”, per così dire, dai giovani egiziani alla ricerca di un lavoro all’estero. Questi esperimenti vanno avanti con altri paesi, ma, devo ammettere che, con l’Italia, grazie all’attenzione prestata da entrambe i paesi, la cooperazione è continuativa.

In conclusione, vorrei soffermare la vostra attenzione, ancora una volta, su quanto l’Egitto insista sugli sforzi affinché questo fenomeno venga governato, nel dovuto rispetto dei diritti umani, dei diritti dell’emigrato ma, nello stesso tempo, nel rispetto delle tradizioni, degli usi e delle leggi del paese di accoglienza. L’attenzione dell’Egitto, al riguardo, ha fatto sì che la questione venisse inserita nell’agenda di lavoro del Presidente Moubarak, nel corso della sua ultima visita di Stato in Italia. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Hassan. Do ora la parola a Béatrice Patrie, membro dal Parlamento europeo.

 

BEATRICE PATRIE, Membro del Parlamento europeo. Grazie signora Presidente, anch’io, come i colleghi precedenti, vorrei ringraziarla per averci accolto, ancora una volta, in questo Parlamento italiano di cui ormai siamo diventati degli abituée e, per noi, è sempre un grande piacere venire in visita qui, nella bellissima città di Roma. Vorrei anche ringraziare tutti i partecipanti, in particolare gli oratori e la signora Chekrouni di cui ho apprezzato la strategia e l’approccio globale, non dobbiamo mai smettere, infatti, di ripetere che i flussi migratori e la mobilità delle popolazioni devono essere oggetto di un approccio globale e non solo essere l’obiettivo della sicurezza.

Per questo, visto che rappresento in questa sede il Parlamento europeo, vorrei fare una specie di autocritica europea, perché so bene che in questo processo euro-mediterraneo, iniziato a Barcellona, è proprio l’Unione Europea che ha fissato gli ordini del giorno, le priorità, dando spesso al processo di dialogo euro-mediterraneo una connotazione concentrata sulla sicurezza, e facendo figurare, sugli ordini del giorno, lotta ai flussi migratori allo stesso livello di quella al terrorismo, alla moltiplicazione delle armi di distruzione di massa, al traffico degli stupefacenti.

Questo è intollerabile, dobbiamo ricordare che i flussi migratori, di fatto, sono un fenomeno verso il quale dobbiamo avere un approccio globale. Lo spazio euro-mediterraneo e l’Europa in particolare hanno conosciuto, ormai da secoli, importanti movimenti di popolazione.

Dal XIX secolo in Europa abbiamo conosciuto anche delle migrazioni intraeuropee ed in Francia abbiamo integrato ed accolto spagnoli, italiani, portoghesi e polacchi. Si sono avuti flussi migratori provenienti anche dall’altra riva del Mediterraneo, in particolare dai paesi del Maghreb, con i quali abbiamo legami storici ed umani molto forti. Ora, dobbiamo far fronte in Europa, ed insieme ai paesi della riva sud del Mediterraneo – che sono qui presenti –, ad una nuova forma di migrazione, ovvero quella proveniente dalla zona subsahariana; si tratta di un fenomeno nuovo che dobbiamo gestire, insieme, attraverso politiche e strumenti comuni. Anche in questo caso, in quanto rappresentante del Parlamento europeo, vorrei fare un’autocritica, da parte dell’Europa, perché non vorrei che, alla fine, l’Unione Europea utilizzasse il processo di partenariato euro-mediterraneo per spostare la questione della gestione dei flussi migratori, provenienti dalla regione subsahariana, alle frontiere dello spazio submediterraneo, invece che dell’Europa; per l’Europa, questa sarebbe una soluzione molto semplice, dal momento che rimanderebbe la responsabilità della gestione dei flussi migratori ai paesi limitrofi all’Africa subsahariana. L’Europa, al contrario, ed era questo che volevo sottolineare, deve assumersi pienamente le proprie responsabilità.

Nel quadro di un approccio globale dobbiamo, quindi, sviluppare un dialogo euro-mediterraneo e  aprire delle strade di migrazione legale, perché è soltanto la migrazione legale che permette di circoscrivere quella clandestina che è condannabile, non rispetto ai migranti stessi, ma rispetto ai trafficanti di esseri umani e lavoratori ed è, quindi, sotto questo aspetto, che va combattuta. Nel quadro del dialogo euro-mediterraneo dobbiamo basarci sugli strumenti a nostra disposizione; la signora ministra Chekrouni ha ricordato l’accordo di associazione che lega l’Unione Europea al suo paese, il Marocco, ma vorrei insistere anche sulla necessità di rafforzare, nell’ambito di questo quadro, la politica europea di vicinato che deve allargarsi anche allo spazio mediterraneo. Si tratta di un nuovo strumento, come sapete, di cui l’Europa ed i suoi partners hanno deciso di dotarsi e, nel quadro della politica di buon vicinato, bisogna rafforzare il processo di integrazione politica, economica, sociale e culturale.

Spesso la politica di vicinato comprende tutto, ad eccezione dell’integrazione totale nell’Unione Europea, ebbene, noi dobbiamo, al contrario, fondarci proprio su questa nuova dimensione rafforzata del partenariato, necessaria per avviare, insieme, un nuovo dialogo sulle questioni di cui discutiamo oggi e, in particolare, dobbiamo rafforzare la dimensione politica di tale partenariato; si è molto parlato, infatti, dei diritti degli emigranti – è una questione importante, certo –, ma, finché nei paesi di origine non vi saranno una democrazia solida, il rispetto dei diritti fondamentali, il rispetto dell’uguaglianza tra uomini e donne e la buona governance, non potremo mai avere questo approccio globale all’immigrazione che, invece, desideriamo.

Infine vorrei sottolineare la necessità di rafforzare, in materia di gestione dei flussi migratori, gli strumenti operativi e l’assistenza tecnica. Come già detto dal Vicepresidente Chorfi, dobbiamo intensificare la cooperazione tra le autorità nazionali incaricate non soltanto delle politiche di migrazione, ma anche delle politiche di asilo e di controllo delle frontiere.

In questo campo l’Europa ha lanciato un nuovo strumento operativo, Frontex, uno strumento di cooperazione tra le Autorità nazionali europee che, purtroppo, è ancora privo di mezzi, e che, sicuramente, bisogna rafforzare e porre in essere, realmente, nello spazio euro-mediterraneo. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Do la parola ad Abdelkader Laassouli, membro della Chambre des Représentants del Marocco.

 

ABDELKADER LAASSOULI, Membro della Chambre des Représentants del Marocco. Grazie Presidente, sorelle e fratelli. Anch’io, in quanto membro di questa Assemblea – sono membro deputato al Parlamento marocchino –, ho ascoltato una serie di relazioni davvero importanti, come lo scambio tra culture, l’emigrazione, l’ambiente, la mondializzazione e così via. Mi preme dire che, attraverso  questi argomenti, così come verificatosi nelle riunioni precedenti, a mio modo di vedere, si è parlato, ancora una volta, in generale, senza giungere ad un approccio pratico. Quanto allo scambio di culture, ci sono molte questioni che sono state sollevate dai relatori sulle quali dovremmo prendere posizione. Noi, come APEM, dobbiamo prendere una posizione riguardo a quanto sta accadendo oggi a Gerusalemme – la questione degli scavi, quella mediorientale e dei palestinesi –, in Iraq e nel Sahara occidentale, su cui, ribadisco, l’APEM deve prendere posizione, perché il Sahara occidentale è territorio marocchino.

Penso che quanto stiamo osservando oggi, ovvero la violenza dilagante e le notevoli difficoltà forse dovute alla mondializzazione – a Tunisi si è parlato di questo –, e di conseguenza il destino dell’umanità dipendano da queste problematiche legate alla mondializzazione del mondo odierno, un mondo unilaterale, con un solo polo, un mercato selvaggio, la ragione del più forte. Il mondo può accettare tutto questo? Noi vogliamo un mondo di fratellanza, basato sul dialogo fra le culture. Vediamo, relativamente a quanto sta accadendo nel mondo arabo, precisamente nel Medio Oriente, che c’è un dominio, un’egemonia sulle sue risorse naturali. Il mondo arabo è su un vulcano: e sulla questione dell’unione del Maghreb arabo si vedono tanti focolai, qui, accesi ed alimentati, ed una strategia che divide.

I problemi dunque sono tanti. Avrei auspicato, in questa sede, un approfondimento, e invece di dibattere sei questioni in sei ore, avrei preferito dedicare una riunione ad una tematica, così da poterne approfondire i vari aspetti per giungere a conclusioni pratiche. Auspico che la tappa tunisina sia una base per ripensare un po’ il nostro modo di lavorare, così da uscire con prese di posizione che siano al servizio e per il bene di tutti i nostri popoli. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Do ora la parola a Ibtisam Mikhail…

 

ABDELKADER LAASSOULI, Membro della Chambre des Représentants del Marocco. Volevo aggiungere che l’emigrazione è un fenomeno mondiale che non possiamo risolvere con un approccio di sicurezza. Quel che chiedo ai paesi del Nord è che ascoltino i paesi del Sud e che creino investimenti, in questi paesi, per limitare l’emigrazione. L’approccio di sicurezza non può assolutamente risolvere la questione.

Infine, vorrei sottolineare che tutti i paesi dovrebbero ratificare, firmare degli accordi, delle intese, affinché l’emigrazione venga regolamentata sulla base di accordi o quote concordate così da eliminare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Do ora la parola a Ibtisam Mikhail, membro della People’s Assembly dell’Egitto.

 

IBTISAM MIKHAIL, Membro della People’s Assembly dell’Egitto. Vi è un consenso quasi unanime nel riconoscere che l’emigrazione non è un problema destinato a svanire da un giorno all’altro; bisogna, dunque, guardare a tale questione non solo dal punto di vista della sicurezza o dell’economia, ma anche secondo un approccio multiplo, multilaterale, ovvero vedere come sia possibile risolverlo, nei suoi vari aspetti. In primo luogo, si potrebbe rafforzare la cooperazione economica, grazie ad un piano comune che consista nell’aumentare gli investimenti nei paesi del sud e dell’est del Mediterraneo.

 

In secondo luogo, potremmo adoperarci per risolvere le cause dell’emigrazione e la circolazione delle persone, partendo dal rispetto dei loro diritti, lottando contro e l’emarginazione e la discriminazione sul piano politico e sociale, nonché attuando leggi che tutelino i diritti dell’emigrato così come dettano le leggi internazionali.

In terzo luogo, si potrebbe rafforzare la concertazione tra i paesi di partenza e di arrivo dell’emigrazione. In fine, bisogna cercare di attuare, nell’ambito dei paesi del sud e dell’est del Mediterraneo, una politica demografica equilibrata, dato che l’aumento demografico rappresenta un fattore decisivo. Aggiungo che merita attenzione il ruolo che possono, o che potrebbero, svolgere i parlamentari nel tentare di risolvere il problema dell’emigrazione. Non vi è dubbio che essi siano responsabili; devono presentare il loro punto di vista ed il loro approccio per delineare una strategia parlamentare utile a ridurre le problematiche dell’emigrazione, a tutelare gli immigrati ed a creare un ambiente favorevole affinché tutto ciò sia applicato.

Dunque, dobbiamo chiedere ai parlamentari, nei vari forum internazionali, innanzitutto, di legiferare, così da tutelare, secondo gli accordi internazionali, i diritti dell’emigrato; in secondo luogo, di trattare la questione dell’emigrazione e della circolazione delle persone, partendo dalla base del rispetto dei diritti umani; in terzo luogo, di istituire o mettere in moto delle associazioni, che si prendano cura dello sviluppo, fra gli immigrati, dei quadri, affinché questi possano dare il loro contributo alla vita pubblica ed alla società civile; infine, di creare o consentire una partecipazione politica attraverso il voto, affinché ci sia la creazione di una parte politica che tratti, a nome loro, e che contribuisca non solo a trovare soluzioni, ma anche alla stesura di leggi che sviluppino quelli vigenti nei paesi di accoglienza.

Chiedo, signor Presidente, un ulteriore minuto per parlare – mi preme molto – di una lettera, inviatale, che riguardava una questione davvero importante. Se mi consente, vorrei leggerla: «Onorevole Presidente Tana de Zulueta, Presidente della Commissione Cultura dell’APEM, un caro saluto. Sono Ibtisam Mikhail, membro della Commissione cultura dell’Assemblea parlamentare Euro-Med, e sono parlamentare dell’Assemblea del Popolo d’Egitto. Sono membro che partecipa alla riunioni di codesta Commissione e torno a ribadire la proposta del dottor Ahmed Fathy Sorour, Presidente dell’Assemblea del Popolo d’Egitto, avanzata durante la sua partecipazione alla riunione allargata del Bureau dell’APEM, tenutasi a Tunisi il 10 febbraio del 2007, e che includeva i Presidenti dei Parlamenti d’Egitto, della Grecia, del Parlamento europeo ed i Presidenti delle tre Commissioni e della Commissione per i diritti della donna, riguardo gli scavi in corso, presso la Sacra Moschea al Aqsa a Gerusalemme, portati avanti da Israele. Quanto è accaduto ha suscitato le reazioni di riprovazione dei musulmani e di tutto il mondo; anche tra i cristiani copti d’Egitto, l’aggressione contro i luoghi santi di una qualunque religione è un fatto inaccettabile. La Moschea al Aqsa è un luogo sacro per i musulmani, pertanto è pericoloso che sia soggetto ad aggressione. Io, in quanto deputata copta cristiana, ribadisco l’importanza di questo rapporto.

Ora sono venuta a sapere che c’è stata una risposta a questa domanda ed è stata creata una Commissione per indagare su quanto sta accadendo, oggi, ad al Aqsa. Spero che questo rapporto venga aggiunto all’Assemblea plenaria dell’APEM nella prossima riunione che si terrà a Tunisi sulla base di quanto proposto dal dottor Ahmed Fathy Sorour, Presidente dell’Assemblea del Popolo. Distinti saluti».

Grazie, Presidente.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Mikhail. Come sa, prima di lei, il signor Abdelkader Laassouli aveva sollevato lo stesso problema. Coloro che erano presenti all’inizio dei nostri lavori sanno che abbiamo dato seguito alla richiesta del Presidente Sorour ed è venuto il direttore dell’ICCROM, che oggi stesso si è recato a Gerusalemme per una missione, cioè un incontro dell’Unesco, che ha come oggetto la conoscenza della situazione e la richiesta, al Governo israeliano, di riportare la gestione di questo sito, nonché della città antica di Gerusalemme e dei suoi luoghi sacri, all’interno dei percorsi definiti dalla Commissione dell’Unesco, condividendo le decisioni in quella sede. A questo fine, pensavo di inserire un paragrafo nella Risoluzione, che chiarisca questo nostro tentativo di dare una prima risposta alla richiesta del dottor Sorour e del Bureau, poiché il Bureau intero ci ha impegnato su questo delicato tema. Spero che questa possa essere una risposta soddisfacente per lei, signora Mikhail.

Ho tre altre persone iscritte a parlare, ma si è fatto tardi, e pregherei, dunque, coloro che hanno chiesto la parola di essere brevi nei loro interventi, altrimenti sarà penalizzata la possibilità di un break per il pranzo, sufficiente per tutti voi.

Hanno chiesto dunque di parlare due cittadini parlamentari del Marocco e Al-Jazi, della Giordania. Do dunque la parola ad Abdella Al-Jazi, iscritto per primo, pregandolo di tenere il suo intervento entro i pochi minuti stabiliti.

 

ABDELLA AL-JAZI, Membro della House of Representatives della Giordania. Sarà così a Dio piacendo. Grazie Presidente, grazie al Parlamento italiano per aver accolto questa riunione così importante. Grazie a lei Presidente, per l’ottima gestione di questa riunione.

C’è un consenso sul fatto che l’emigrazione non sia un problema destinato a risolversi in pochi giorni e le misure di sicurezza non potranno mettere un termine ai flussi migratori dal Sud verso il Nord. Ci saranno ulteriori barriere di fronte a questa immigrazione e questo non è possibile né auspicabile.

Se guardiamo ai flussi migratori, vediamo che 180 milioni di persone lavorano fuori dal loro paese d’origine, ovvero il 3% della popolazione mondiale, e questo nonostante il fatto che molti si adoperino per risolvere tale questione attraverso legislazioni o soluzioni militari – come il rimpatrio dell’emigrato – che non faranno altro che aumentare la tensione; non è possibile, a lungo termine, ipotizzare un arresto o una limitazione di tale fenomeno, senza prendere in considerazione uno sviluppo economico dei paesi dai quali gli immigrati partono.

Parliamo di emigrazione in quanto fenomeno che incide sulla nostra vita, nei suoi vari aspetti, quindi dobbiamo cercare di lavorare in chiave di sviluppo. Lo sviluppo finirà per far rimanere a casa gli emigranti, se gli emigranti non rimarranno a casa sceglieranno i paesi di emigrazione come nuova patria. Quindi la soluzione, torno a dire, è lo sviluppo dei paesi e il problema, pertanto, va affrontato alle radici, non curando solo i sintomi.

La Giordania, Presidente, ha subito, alla fine del secolo scorso ed all’inizio di questo, ondate di immigrazione nonostante le sue limitate risorse economiche e la scarsa superficie. Tuttavia, pur essendo stato difficile accogliere tutti questi emigrati, a causa della scarsità di risorse, lo abbiamo ugualmente fatto, perché questo è nostro dovere e, di fronte al dovere umano, cadono tutte le difficoltà e le barriere economiche. La Giordania, come paese, come Parlamento, non nega l’insediamento permanente agli immigrati, poiché negare il diritto a rimanere in Giordania significa, per i palestinesi rifugiati in Giordania, la rinuncia alla Palestina e, mi preme sottolineare che il diritto al ritorno è un diritto nazionale dei palestinesi. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Sono io che ringrazio lei.

Volevo proporre a tutti voi di riprendere i lavori alle 15.00. È prevista una sessione sull’ambiente, nella quale volevamo dare seguito ai temi già toccati nell’ambito dell’ultima sessione. Credo però che ci sarà tempo per continuare a parlare anche di questo tema, che è molto sentito da parte di molti dei nostri membri.

Se i colleghi sono d’accordo, possiamo interrompere qui – immagino che qualcuno abbia fame – e riprendere questo pomeriggio. Ringrazio tutti voi per i contributi e, ricordandovi che tutto questo sarà incorporato nella proposta di Risoluzione, ci rivediamo qui alle 15.

 

(La seduta, sospesa alle ore 13,40, è ripresa alle ore 15,15).

 

La tutela ambientale del mar Mediterraneo: attuazione data e prospettive future dell’intesa “Horizon 2020”, raggiunta a Il Cairo il 20 novembre 2006 dai Ministri dell’ambiente.

 

TANA DE ZULUETA. Do avvio alla seconda parte dei nostri lavori. In questa sessione intendevamo riprendere il tema ambientale, affrontato per la prima volta da questa Commissione nella seduta del 6 novembre in seguito al bombardamento di una raffineria a Beirut.

In quella sede ci siamo occupati della protezione del mare, argomento di pertinenza di questa Commissione, cui oggi diamo seguito con una relazione del ministro dell'ambiente e della tutela del territorio italiano Alfonso Pecoraro Scanio, cui do il benvenuto. 

Alla Conferenza del Cairo, il ministro Pecoraro Scanio ha partecipato al lancio del progetto Horizon 2020 di rilevante interesse per la Commissione, in particolare perché Italia ed Egitto ne sono promotori. 

 

MOHAMED ANSARI, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco. Il mio intervento era stato rinviato da questa mattina ed era previsto per l'inizio della sessione del pomeriggio, dunque vorrei prendere la parola. 

 

TANA DE ZULUETA. Non l’avevo dimenticato, ma intendevo proporre a lei e all’altro iscritto di intervenire alla fine della discussione ambientale. Nel frattempo avremo distribuito la bozza di risoluzione e si potrà avviare una discussione generale. 

Do la parola al ministro Pecoraro Scanio.

 

ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Ringrazio sia la Presidente, sia tutti i partecipanti, perché l'impegno del Governo italiano nell'ambito delle politiche del Mediterraneo è particolarmente deciso, inserito nelle priorità, e riteniamo che questa sia un’esigenza su cui debba investire anche l'Unione Europea. 

Ne ho infatti discusso insieme ai miei colleghi anche nel Consiglio dell'ambiente dell'Unione Europea in cui abbiamo rilanciato le politiche concernenti il mare. Tra gli elementi fondamentali, il primo è la centralità del mare Mediterraneo come luogo di rilevante interesse ambientale ma anche come luogo simbolo dell'incontro di culture, di tradizioni, di sviluppo delle civiltà,  per cui in l'Italia dibattere di politiche per il Mediterraneo – non solo a livello di Governo italiano ma anche di molte Regioni – implica trattare di politiche per l'ambiente e per la pace, e soprattutto di una particolare attenzione al deterioramento ambientale di questo mare. 

Ritengo opportuno ricordare come il Mediterraneo occupi solo lo 0,8 per cento dei mari del pianeta, ma sopporti il 30 per cento del traffico navale del mondo, dato che evidenzia la delicatezza dell'ecosistema del Mediterraneo. 

Il Mediterraneo presenta 38 mg per metro quadrato di catrame pelagico, ovvero di inquinamento da idrocarburi, laddove il mare del Giappone, che pure ha un forte traffico di petroliere, ne ha solo 0,2 mg per metro quadrato.

Fino al 2015, purtroppo l'Unione Europea permetterà l'ingresso nel Mediterraneo delle navi anche monoscafo, sebbene invece il doppio scafo sia un rilevante elemento di tutela. È quindi necessario lavorarci insieme. 

È innegabile dunque l'aumento dei traffici dai paesi del “Far Est” verso il Mediterraneo e l'uso del Mediterraneo come mare di transito, perché il 90 per cento  delle navi provenienti dalla Cina che entrano attraverso il canale di Suez, escono da Gibilterra per attraccare ai porti del nord Europa compiendo dunque l'intero percorso. Come rilevato in Egitto, si rivela quindi necessaria un'azione congiunta dei Governi, degli Stati, di tutti i paesi del Mediterraneo affinché le migliori tecnologie di controllo satellitare e di prevenzione dell'inquinamento del mare siano messe a disposizione per monitorare e limitare i danni che questo mare comune sta subendo.

È necessario elaborare piani comuni nel Mediterraneo per la gestione delle risorse rinnovabili nel rispetto e nella salvaguardia delle specie protette. Si tratta quindi di un grande problema di biodiversità, di mettere in rete i parchi del Mediterraneo, di avere una rete delle aree marine protette. 

Il Governo italiano accoglie favorevolmente la comunicazione della Commissione Europea del 5 settembre 2006 dedicata a una strategia ambientale per il Mediterraneo nella consapevolezza che l'Unione Europea debba fare la sua parte. Il 20 novembre, al Cairo, abbiamo siglato un accordo del Governo italiano con il Governo egiziano per lavorare al servizio di tutta la comunità del Mediterraneo, realizzando – non solo nell'ambito del programma Horizon 2020, ma all’interno di una serie di attività – quella sinergia fondamentale tra tutti i paesi che si affacciano su questo mare. L’Italia percepisce la responsabilità di essere il più grande paese membro dell'Unione Europea e del G8 della zona nord del Mediterraneo. Si riscontra anche un grande interesse della Francia, ma l’Italia è l'unico paese totalmente mediterraneo – privo di una parte atlantica – e ha un interesse strategico a lavorare in questa direzione. 

Riteniamo che la Banca mondiale e la Banca europea per gli investimenti debbano proseguire nella cooperazione nell'ambito del programma di assistenza tecnica per la protezione del Mediterraneo, il Metap, dotandolo di risorse finanziarie adeguate a contrastare il degrado ambientale.

Riteniamo che i Parlamenti possano svolgere un fondamentale ruolo di stimolo per attuare le misure previste da Horizon 2020 e soprattutto creare una cooperazione reciproca con lo scambio di best practices, cioè pratiche positive nella legislazione del settore. 

Dobbiamo cercare di rendere omogenee le leggi dei vari paesi, di avere un interscambio delle migliori tecnologie e anche un rafforzamento della cooperazione internazionale. 

Prevedo incontri in alcuni dei paesi dell'area del nord Africa, quindi la sponda sud del Mediterraneo, in cui l'Italia desidera coordinare le politiche di cooperazione già in atto, rendendole omogenee all’iniziativa di diffondere le fonti rinnovabili, consentendo ad esempio ai paesi del nord Africa l’utilizzo massimo dell'energia solare, sia nel fotovoltaico sia nel nuovo sistema di solare termodinamico, avviato dal premio Nobel Rubbia, lavorando a un miglior uso delle acque potabili. In seguito al cambiamento climatico, infatti, si riscontra una crescente desertificazione che riguarda non solo la parte sud del Mediterraneo ma anche i paesi della sponda nord. L'Italia fa parte della Convenzione sulla desertificazione ed è il primo suo contributore.

Ho partecipato a Bamako in Mali alla Conferenza contro la desertificazione, perché l'Italia intende cooperare per evitare che la crescita della desertificazione aggravi anche il grande tema, spesso sottovalutato, dei rifugiati climatici e dell’immigrazione derivante da fenomeni ambientali e dalla crescita della desertificazione. 

Come accennato dalla Presidente De Zulueta, durante la scorsa estate abbiamo avviato un'azione di cooperazione ambientale, provvedendo a inviare 2 navi italiane e finanziando, come paese, la pulizia dell’enorme marea nera lungo la costa libanese fino verso la costa siriana, dovuta a un bombardamento, stipulando accordi per realizzare possibilità di intervento in aree con problemi ambientali di particolare rilevanza. 

Ritengo quindi necessaria una cooperazione internazionale, e nella stessa drammatica vicenda della marea nera in Libano abbiamo beneficiato del sostegno tecnico e scientifico sia dell'autorità del Libano, sia dello stesso Stato di Israele, a dimostrazione di come per affrontare i problemi, anche in una delicata vicenda di guerra, gli scienziati, i tecnici e gli ambientalisti riescano a cooperare al di là delle difficoltà e delle tensioni del momento. Dobbiamo fare in modo che questo diventi un elemento forte di azione costante e continua. 

Il ruolo dei Parlamenti è dunque fondamentale. Prima di essere un ministro, sono un parlamentare e considero fondamentale che l'azione dei Governi sia stimolata dall'azione parlamentare, e che venga effettuata un'attività di monitoraggio, perché spesso, di fronte a tanti annunci, ci si dimentica di verificare lo stato di attuazione dei progetti, delle leggi, delle convenzioni internazionali.

In questo senso, è molto importante anche il rilancio della Convenzione di Barcellona, come sfida ad avere un quadro costante del problema Mediterraneo. Esiste quindi il problema del traffico delle navi, il grande tema degli scarichi gettati in un mare troppo spesso considerato una discarica e non una risorsa, e il grande tema – a me noto perché in passato sono stato ministro dell'agricoltura e della pesca – della difesa del patrimonio ittico, della conoscenza di come funziona il nostro mare.

Il Governo italiano ha stanziato risorse nella legge Finanziaria per realizzare uno studio approfondito sul mare. Ritengo utile che, poiché il mare non ha confini netti, questo studio possa essere condiviso, perché il processo di tropicalizzazione del Mediterraneo è in atto e il nostro mare si sta surriscaldando, abbiamo bisogno di conoscere meglio come si modifichi la catena trofica, la catena alimentare, le specie presenti nel Mediterraneo, per prevedere tali conseguenze, laddove volta per volta affrontiamo invece l'emergenza meduse, l'emergenza alghe tossiche, le emergenze ormai diffuse in tutto il nostro mare. 

Da questo punto di vista, l'altro grande impegno è ottenere una moratoria dell'utilizzo di portaerei per pescare tonno e altre specie dentro questo mare comune.

Non è accettabile che, di fronte al necessario senso di responsabilità, i paesi del Mediterraneo non siano in grado nemmeno di utilizzare gli accordi esistenti a livello internazionale per estendere in modo concordato le aree di competenza commerciale, così da bloccare l'ingresso di fattorie galleggianti che stanno mettendo a rischio la sopravvivenza degli stock di tonno in questo mare. 

Questo è un problema serio, esempio di come il disaccordo tra i paesi delle varie sponde nord e sud del Mediterraneo rischi di depauperare una risorsa comune. 

Esiste anche la disponibilità del Governo e del Parlamento italiano a rilanciare un forte progetto di impegno comune, perché questo mare possa diventare una grande area tutelata dal rischio del degrado del nostro pianeta, ovvero quel mare di benessere di qualità e di pace, che tutti i cittadini esigono. 

Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, ministro. Do la parola alla signora Farkhonda Hassan, membro della Shura Assembly dell'Egitto. 

 

FARKHONDA HASSAN, Membro della Shura Assembly dell'Egitto.  Grazie, Presidente. Prendo la parola perché mi sento responsabile. Come paesi mediterranei, infatti, siamo responsabili della tutela di questo mare, e di tutto quanto accade come inquinamento e pertanto vogliamo partecipare agli sforzi tesi a limitare questo danno e seguiamo con grande attenzione i vari progetti per tutelarne la salute. Uno dei progetti fondamentali è stato inaugurato il mese scorso al Cairo, e riguarda la gestione delle risorse ittiche del mare Mediterraneo, importante perché di grande impatto sulla salute di questo mare. 

Sono lieta che esista una linea molto precisa sul ruolo della donna nel gestire le risorse, ed è una delle poche volte in cui esso viene riconosciuto. Siamo anche ottimisti sull'applicazione di Horizon 2020, per quanto concerne l'inquinamento del Mediterraneo, perché questa iniziativa stabilisce una scala di priorità da adottare, sia per quanto riguarda la riduzione dell'inquinamento, sia per quanto concerne la costruzione delle capacità – a livello individuale ed istituzionale – dei paesi mediterranei. 

 

Siamo ancora più ottimisti constatando come il programma di lavoro abbia scadenze temporali prestabilite, che dimostrano serietà d'intenti. 

Riconosco però la mia preoccupazione per l’insufficiente stanziamento di fondi per di più limitati ad alcune zone, e per l’assenza di un meccanismo di coordinamento tra i vari progetti, che potrebbe indurre a disperdere gli sforzi e a sprecare le risorse. 

È necessario un accordo quadro globale tra i paesi mediterranei per organizzare la difesa del Mediterraneo nelle sue varie dimensioni – economiche, sociali, politiche e legislative – giacché ogni Stato ha le proprie leggi riguardanti l'ambiente. 

In Egitto, come in altri paesi mediterranei, il turismo è considerato importante fonte di reddito e il suo sviluppo richiede forti investimenti. Desideriamo quindi rispettare quanto stabilito a Barcellona, per valorizzare il ruolo del turismo come garanzia di posti di lavoro e di scambio culturale, pur insistendo sull’importanza della tutela dell'ambiente. 

L'Egitto sta vivendo un periodo storico, perché si stanno emendando 34 articoli costituzionali con il contributo di tutte le parti governative o non governative. Per la prima volta, verrà aggiunto un nuovo articolo alla Costituzione concernente la tutela dell'ambiente come diritto del cittadino.

La presenza di questo articolo per la prima volta nella Costituzione egiziana rappresenta un sostegno chiaro, di cui siamo orgogliosi fidando nella sua adozione con il Referendum popolare su questi emendamenti costituzionali previsto nel prossimo mese di aprile. 

Grazie, Presidente, per il cortese ascolto. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei, signora Hassan. Do la parola al signor Moshe Khalon, membro della Knesset d’Israele. 

 

MOSHE KHALON, Membro della Knesset d’Israele.Grazie, Presidente, mi unisco agli oratori precedenti nel ringraziare gli italiani per gli sforzi profusi nell'organizzazione di questa riunione. Ringraziamo per l'invito e ci auguriamo che i nostri lavori e il nostro dialogo siano fruttuosi. 

Sosteniamo l'iniziativa Horizon 2020 perché la costa del Mediterraneo è una preziosa risorsa naturale, condivisa da noi tutti, e svolge un ruolo fondamentale nella nostra cultura,  intervenendo sotto molteplici aspetti nella nostra vita. È necessario intervenire inserendo nelle nostre agende nazionali problemi quali i nefasti effetti causati dall’inquinamento.

Siamo oggi riuniti per valutare i criteri che ci permettano di affrontarli anche in base al ritmo moderno della cooperazione regionale e della protezione del mare, assicurando lo sviluppo della nostra regione.  

Ritengo che nostro compito precipuo sia accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica e il rispetto nei confronti di questo mare che ci offre tante opportunità. 

Per quanto riguarda la questione di Gerusalemme, non abbiamo niente da nascondere, e infatti abbiamo invitato una delegazione dell’Unesco per dimostrare come non sia nostra intenzione danneggiare la città santa, e come tale timore sia generato unicamente da provocazioni e falsità. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA. Oltre il tema dell’ambiente, è stata citata la questione sollevata in apertura dei lavori, ovvero la questione di Gerusalemme, sulla quale avremo occasione di ritornare.

Do la parola alla signora Beatrice Patrie, membro del Parlamento europeo.

 

BEATRICE PATRIE, Membro del Parlamento europeo. Grazie, Presidente. Vorrei congratularmi per la passione manifestata da tutti i colleghi per il comune patrimonio naturale del Mediterraneo. In particolare, condivido la dichiarazione del collega israeliano della Knesset che ha affermato come il Mediterraneo costituisca un patrimonio comune prezioso per tutti, e come richieda un rispetto assoluto proprio perché ci apporta tanto. 

È necessario sottolineare questa dichiarazione perché alcune delle aggressioni perpetrate a danno del Mediterraneo – l’inquinamento dovuto alle collisioni o alle perdite di alcune navi – sono accidentali, mentre altre purtroppo non sono tali. L’inquinamento che ha colpito la scorsa estate le coste libanesi a seguito del bombardamento del porto di Beirut non può essere considerato assimilabile ad altre forme di inquinamento.

Sono veramente lieta che il collega abbia espresso interesse per il rispetto del Mediterraneo, che vorrei si manifestasse anche in futuro, non soltanto per quanto riguarda le forme di inquinamento accidentali, ma anche disastri come quello verificatosi sulla costa libanese. 

Al ministro Pecoraro Scanio che ha affermato di aver seguito con attenzione per conto dell’Italia e del Consiglio europeo dei ministri dell’ambiente la questione della purificazione delle coste libanesi, vorrei chiedere precisazioni sull’impegno dell’Italia e dell’Europa in proposito. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie. Do la parola a Ibtisam Mikhail, membro della People’s Assembly dell’Egitto.

  

IBTISAM MIKHAIL, Membro della People’s Assembly dell’Egitto. Grazie, onorevole Presidente. In seguito alle numerose considerazioni, risulta indispensabile porre maggiore attenzione all’ambiente nell’area euro-mediterranea. Occorre pertanto realizzare un partenariato fattivo per individuare insieme soluzioni che intervengano alla radice del problema. 

A questo riguardo, invito i partners mediterranei ad impegnarsi nella creazione del cosiddetto “sistema di allarme preventivo” per reagire a eventuali terremoti, uragani o intemperie che possano colpire le coste dei nostri paesi.

È inoltre fondamentale attivare il programma europeo per finanziare i vari progetti per la tutela dell’ambiente nell’organizzazione e nella preparazione tecnico-amministrativa.

Auspico anche l’attuazione dell’accordo Horizon 2020raggiunto al Cairo e la realizzazione di quanto stabilito a Barcellona.

I Parlamenti dell’Euromed sono responsabili ed hanno il compito di predisporre leggi che stabiliscano linee guida e finanziamenti nei budget dei vari paesi per far fronte alle sfide ambientali.

Per coordinare gli impegni con l’APEM, servono leggi ambientali unificate o almeno omogenee per affrontare i problemi in modo uniforme. Come rilevato dalla collega egiziana, abbiamo in cantiere un fondamentale emendamento costituzionale che riconosce il diritto del cittadino ad un ambiente sano. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Poiché non vi sono altri iscritti a parlare, darei la parola al ministro Pecoraro Scanio, a cui è stata posta una domanda. 

 

ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Apprezzo le osservazioni volte al rispetto di accordi già siglati.

Prima di rispondere alla rappresentante del Parlamento europeo, vorrei aggiungere un particolare riferimento al turismo, cui accennava il rappresentante dell’Egitto.

Soprattutto nei paesi che stanno sviluppando nuove politiche turistiche, si rileva una difficoltà nell’affrontare un turismo che sia già sostenibile, ovvero usi i pannelli fotovoltaici o il pannello solare termico per riscaldare l’acqua nei nuovi edifici turistici, che adotti un meccanismo di riuso delle acque invece che un loro spreco. 

Disponiamo di molte risorse innovative ed occorre quindi richiamare alla responsabilità anche le stesse imprese private e i cittadini affinché si realizzino nuove norme e nuove tecnologie. 

 

Per quanto riguarda specificamente il nostro impegno in Libano, abbiamo operato e realizzato anche una pubblicazione sull’attività svolta, che la Presidente De Zulueta potrà fare avere a chi fosse interessato, e su richiesta del Governo libanese abbiamo dato disponibilità a coordinare una nuova stagione di iniziative, non appena arriverà la primavera e il tempo sarà più clemente, per proseguire l’azione di sostegno alla messa in sicurezza e alla pulizia lungo la costa. 

Da questo punto di vista, abbiamo il supporto dell’Unione Europea che ha stanziato anche alcuni fondi per risanare l’area. È utile – e noi italiani abbiamo proposto – che i beni ambientali e le aree che possono determinare rischi ambientali siano considerati, anche in occasione di conflitti armati, luoghi da tutelare come il patrimonio archeologico, storico e artistico. 

È necessario innovare non solo le costituzioni dei singoli paesi, ma anche le convenzioni internazionali che talvolta sottovalutano come l’ambiente rappresenti una delle vittime principali delle guerre. 

L’ultima considerazione riguarda i citati sistemi di allarme, per cui è molto importante coordinare le azioni dei vari paesi del Mediterraneo, perché l’evidente cambiamento climatico impone di migliorare i sistemi di allarme meteorologico. Siamo di fronte a fenomeni definiti in gergo «bombe d’acqua», ovvero rovesci temporaleschi molto forti, concentrati in aree molto piccole. Si ritiene necessario studiare una forma di coordinamento anche tra le protezioni civili dei vari paesi del Mediterraneo in modo da intervenire rapidamente. 

Questo sistema deve essere collegato anche ad una più incisiva azione per coordinare le iniziative contro gli incendi boschivi, poiché il patrimonio forestale rischia di essere ulteriormente danneggiato dal cambio climatico.

Questo allarme preventivo e i sistemi di controllo e monitoraggio possono essere utili anche per valutare le diverse forme di inquinamento.

Proprio in Egitto abbiamo diffuso una serie di dati sull’enorme presenza di mercurio e altre sostanze scaricati contro ogni normativa nelle acque del Mediterraneo, problema che non riguarda esclusivamente il mare, ma colpisce la catena alimentare, attraverso cui questi prodotti chimici giungono sino ai nostri piatti.

È  dunque fondamentale coordinare questi sistemi di allerta a livello internazionale tra i vari paesi dell’area Euromed. Vi ringrazio.

 

TANA DE ZULUETA. Grazie. Do la parola a Mohamed Ansari, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco.

MOHAMED ANSARI, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco. Grazie, onorevole Presidente, ringrazio lei e il Parlamento italiano per aver organizzato e ospitato questo importante incontro dell’Euromed.

Ho apprezzato molto quanto affermato dall’onorevole ministro dell’ambiente, e  vorrei aggiungere alcune considerazioni riguardanti i paesi del sud e l’immigrazione. Il problema principale è rappresentato dai limitati investimenti nel sud rispetto ai fondi disponibili nei paesi del nord.

Si rileva anche una fuga di cervelli in direzione sud-nord, nonostante i notevoli costi che i paesi del sud sostengono per formare la loro gioventù.

Occorre infine prestare attenzione alle vessazioni e ai maltrattamenti subiti dagli immigrati nei paesi di emigrazione, fenomeno che diffonde un’immagine negativa della società dei paesi del nord presso l’opinione pubblica dei paesi del sud. 

Constatiamo come i paesi del nord stiano adottando politiche più rigide per quanto riguarda la concessione di visti. Ciò coinvolge purtroppo anche gli intellettuali o gli studenti che cercano di avere accesso alle università o agli istituti di studi superiori nei paesi della sponda nord.

Questa mattina si è dibattuto dell’eventuale creazione di una università Euromed per superare questi problemi.

Auspico che queste ipotesi vengano prese in debita considerazione e discusse anche da un gruppo ristretto per definire proposte da dibattere nel nostro prossimo incontro a Tunisi. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie. Do la parola a Abdelkader Laassouli, membro della Chambre des Représentants del Marocco.  

 

ABDELKADER LAASSOULI, Membro della Chambre des Représentants del Marocco. Grazie, onorevole Presidente. Innanzitutto mi complimento per la gestione efficiente e molto soft di questi lavori. Ringrazio anche i colleghi, fratelli e sorelle italiane, per l’ottimo lavoro di segreteria. 

L’immigrazione crea problemi di inserimento e di rispetto dei diritti dell’immigrato. Vi è inoltre il fenomeno dell’immigrazione clandestina, che si tenta di limitare, ma con  esiti deludenti. I paesi della sponda sud non hanno i mezzi adeguati per controllare i propri confini terrestri e le coste. Per lottare contro questo fenomeno, occorrono quindi una strategia euro-africana che includa iniziative comuni tra i paesi confinanti per controllare i confini marittimi, un coordinamento di sicurezza con scambio di intelligence e di informazioni per smantellare le reti di immigrazione clandestina, opportune misure condivise dai vari paesi mediterranei per controllare i confini e nuove leggi per lottare efficacemente contro le reti di contrabbando, risolvere in modo equo la situazione di questi immigrati clandestini attraverso progetti che consentano loro di inserirsi nella società, riconsiderare il fenomeno dell’immigrazione con l’attuazione delle convenzioni e degli accordi. Verrebbe dunque fissata una quota di immigrati da accogliere nei paesi più avanzati del Mediterraneo.

Per vincere la lotta contro l’immigrazione clandestina, inoltre, è necessario valutarne profondamente i motivi e le cause, tra cui la povertà, la mancanza di prospettive, la crescita della disoccupazione. Occorre quindi una politica di sviluppo, che consenta la creazione di posti di lavoro e il rispetto dei diritti della persona.  Questa non deve essere una politica momentanea, bensì essere inserita nel quadro di una strategia a lungo termine, che abbia un effetto durevole attraverso un meccanismo di concessione di prestiti o finanziamenti.

Eliminare l’immigrazione clandestina richiede quindi uno sviluppo costante e duraturo che induca i cittadini a rimanere nei loro paesi di origine. 

L’accordo di Barcellona ha tracciato un quadro d’insieme che richiede una volontà politica e un impegno europeo.

Grazie per il cortese ascolto e che la pace e la benedizione di Allah siano con voi tutti. 

 

TANA DE ZULUETA. Grazie a lei. A questo punto potremmo passare ad una discussione tornando anche ai temi di questa mattina alla luce della bozza di risoluzione.

Vorrei sottoporre alla vostra attenzione 2 questioni di cui siamo stati investiti come Commissione Cultura. 

Durante l’ultima riunione del Bureau a Tunisi, è stato richiesto alla Commissione cultura di formulare una proposta sull’idea lanciata dalla collega del Parlamento europeo Hélène Flautre di costituire un’Assemblea parlamentare di giovani dell’area euro-mediterranea, sul modello già sperimentato dal Parlamento europeo.

La presidenza tedesca è molto interessata a dare seguito a questa idea e vorrebbe invitare la prima sessione a giugno a Berlino. In base all’accoglienza di un’idea originariamente nostra, ci è sembrato opportuno inserire una proposta nella bozza di risoluzione che è stata distribuita, ai paragrafi 32 e 33.

La formulazione che riteniamo appropriata è stata inserita nella risoluzione affinché possa essere sancita dall’assemblea dell’APEM a Tunisi il prossimo mese: «sollecito altrettanto l’attuazione già proposta dall’APEM di giornate dedicate agli incontri parlamentari dei giovani europei con una cadenza regolare sugli argomenti del programma euro-scuola. Gli studenti di paesi dell’Euromed saranno scelti dalle scuole e coordinati da un’organizzazione di esperti del settore conformemente ai principi di trasparenza e rappresentanza, dovranno avere un’età tra i 16 e i 18 anni, e non rientrare ancora nell’elettorato attivo o passivo dei loro paesi di appartenenza, prevedendone come caratteristica necessaria la conoscenza approfondita dell’inglese o del francese come lingue della riunione per poter approfondire e dibattere insieme temi particolarmente attuali ricadenti nell’ambito delle tre volet alla base della dichiarazione di Barcellona». 

 Alla fine del paragrafo 33, si auspica dunque che la presidenza tedesca dell’Unione Europea tenga conto di tali criteri, anche per quanto riguarda l’organizzazione della riunione del Parlamento euro-mediterraneo dei giovani, prevista dal 26 maggio al 3 giugno 2007 a Berlino. 

Sottopongo alla vostra approvazione un’ipotesi di regolamento, come chiestoci dal Bureau. Non voteremo oggi, ma è importante valutare l’eventuale consensus o considerare le osservazioni in tempo utile perché il 26 maggio è estremamente vicino.

Do la parola alla signora Beatrice Patrie, membro del Parlamento europeo.

 

BEATRICE PATRIE, Membro del Parlamento europeo. Intervengo per una questione di procedura ovvero di metodo. Le chiederei di fornirci alcune indicazioni sul metodo da seguire per la discussione, l’emendamento e l’adozione di questo progetto di risoluzione.

Abbiamo appena ricevuto il testo costituito da 14 pagine in francese, quindi dobbiamo prenderne visione in maniera approfondita per discuterne in seguito insieme ai nostri Parlamenti. Ne discuteremo prima nei rispettivi gruppi politici e poi, in quanto delegazione del Parlamento europeo, cercheremo di presentare emendamenti  accettati da tutti. 

Mi sembrerebbe ragionevole svolgere un primo dibattito di orientamento questo pomeriggio, ma poi tornare nei nostri Parlamenti per discuterne e proporre eventuali emendamenti.

Le chiederei quindi di indicarci un termine per la presentazione degli emendamenti prima di approvare la risoluzione a Tunisi. 

 

TANA DE ZULUETA. Lei ha perfettamente ragione, e questo doveva essere un dibattito di orientamento approfittando dell’odierna riunione.

Vorrei focalizzare la vostra attenzione su una questione a mio parere più urgente, ovvero la proposta del Parlamento Euromed dei giovani, mentre per tutto il resto propongo l’8 marzo come termine per la presentazione degli emendamenti. Sono consapevole della ristrettezza del termine, ma non si possono procrastinare i tempi perché dobbiamo essere pronti per il 15 marzo, giorno della plenaria a Tunisi. 

Proponevo di approfittare di questa occasione perché il tempo è estremamente limitato, ma nulla naturalmente verrà votato oggi. Si tratta unicamente di una discussione libera, in uno spirito costruttivo, non per giungere a un risultato definitivo.

Se lei ha alcune osservazioni sul Parlamento dei giovani – di cui oggi manca la propositrice – le accetteremo con piacere.

Per quanto riguarda i dettagli del Parlamento dei giovani, mi rimetto al Parlamento europeo, che ha un’esperienza diretta in questo campo, e alla presidenza tedesca che si è offerta di ospitare a Berlino la prima sessione. 

Vi chiediamo indicazioni per poter definire quanto presenteremo all’ufficio di presidenza a Tunisi. 

Do la parola a Mohamed Ansari, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco.

 


MOHAMED ANSARI, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco. Grazie, Presidente. Come rappresentanti del Marocco, accogliamo questa proposta, ma vorrei aggiungere un’osservazione in merito. Per il Parlamento dei giovani è stata proposta l’adozione delle lingue francese e inglese, ma ritengo che questo escluda una parte di nostri giovani che non conoscono ancora molto bene queste lingue. Pertanto, suggerirei di adottare nel Parlamento dei giovani le stesse lingue usate qui nell’APEM. 

 

TANA DE ZULUETA. Prendo atto della sua proposta, su cui credo intenda formulare un emendamento.

 

MOHAMED ANSARI, Membro della Chambre des Conseillers del Marocco. Sì.

 

 

TANA DE ZULUETA. Va bene. La lingua più diffusa nell'area mediterranea è in effetti l’arabo. In Europa, è molto più semplice lavorare con l'inglese e il francese, ma credo che uno sforzo debba essere fatto, se tale è la volontà di questa assemblea. 

Sempre per una questione di urgenza, vorrei valutare la possibilità di creare un logo per l'Assemblea parlamentare euromediterranea, ovvero un simbolo distinto da quello dell’Euromed, in modo che l'Assemblea abbia una sua rappresentazione simbolica efficace e facilmente riconoscibile. 

Tale obiettivo è condivisibile, ma richiede fondi per i grafici che si occupino del progetto.

In virtù della particolare natura e identità di questa Assemblea nata per dare seguito ad un progetto di pace e di dialogo, potrebbe essere opportuno seguire l’esempio del Parlamento europeo e bandire un concorso per giovani grafici in tutti i paesi Euromed per valutare proposte di logo.

Questa proposta è inserita nei due ultimi paragrafi – 69 e 70 – della risoluzione.

L'altro aspetto su cui sarebbe opportuno giungere oggi ad una decisione è la questione relativa all'Università euromediterranea.

Questa mattina abbiamo ascoltato gli interventi del collega Juri e del professor Rizzi che ha un'esperienza quasi ventennale all'interno di una rete universitaria euromediterranea, e  vi ho anticipato la mia proposta che questa Commissione suggerisca la costituzione di un gruppo di lavoro. Il regolamento dell'Assemblea prevede anche un secondo tipo di gruppo, quello di un comitato di redazione. Uno dei due potrebbe essere incaricato dal Bureau.

A tal fine, propongo di scrivere al Bureau una lettera prima dell'assemblea, per poter avviare in quella sede la costituzione dell'eventuale gruppo di lavoro, che suggerirei compatto, affinché lavori velocemente risolvendo la questione entro un anno. Proporrei dunque al Bureau la costituzione di un gruppo di lavoro di 6 membri,  prevedendone 2 appartenenti alla sponda nord, 1 del Parlamento europeo e 3 della sponda sud. Tra questi 6, la persona che guida il gruppo di lavoro sarà scelta dal Bureau.

Se la Commissione concorda, s’intende scrivere al Presidente APEM affinché il Bureau di Tunisi «valuti la possibilità di istituire un comitato di redazione o un gruppo di lavoro che definisca l'evolversi della questione dell'Università del mediterraneo, anche alla luce della riunione di giugno dei ministri dell'istruzione».

A giugno, al Cairo, si riuniranno infatti i ministri dell'istruzione dell’euro-mediterraneo, ottima sede in cui concretizzare questo progetto con il sostegno e il contributo dei Governi.

Do la parola a Beatrice Patrie, membro del Parlamento europeo.

 

BEATRICE PATRIE, Membro del Parlamento europeo. Concordo con l’iniziativa di creare un gruppo di lavoro ad hoc e anche di inviare una lettera all'ufficio di presidenza dell’APEM, ma nutro dubbi sulla composizione. Sebbene il gruppo debba essere ristretto, la composizione proposta non mi sembra salvaguardarne l'equilibrio.

L’APEM, infatti, ha 3 pilastri, ovvero 3 collegi che votano: Parlamento del nord, Parlamento del sud e Parlamento europeo. Mi sembrerebbe quindi opportuno realizzare un equilibrio tra questi 3 pilastri. Per non sfavorire gli uni rispetto agli altri, pur conservando un carattere ristretto, propongo di avere 8 membri, 4 del nord e 4 del sud. I 4 del nord sarebbero due del Parlamento europeo e 2 del Parlamento del nord, così avremo un riequilibrio sia a nord, sia tra nord e sud. 

 

TANA DE ZULUETA. Se lei preferisce una composizione di 8 membri, per quello che mi riguarda non ho nessuna obiezione, anzi ritengo che questo consentirebbe a tutti di essere rappresentati. La decisione tuttavia spetta al Bureau, all'Ufficio di presidenza. Nella lettera potrò però suggerire tale proposta. 

Do la parola a Miroslav Mikolasik, membro del Parlamento europeo (Slovacchia). 

 

 

MIROSLAV MIKOLASIK, Membro del Parlamento europeo (Slovacchia). In base allo spirito di quanto appena adottato, abbiamo stabilito di non moltiplicare eccessivamente il numero dei gruppi di lavoro.

Concordo con il Presidente De Zulueta sul fatto che con una lettera si interpelli il Bureau, ma non credo oggi si debba votare già su un gruppo di lavoro. Consiglierei di attendere l’incontro di Tunisi, e di lasciar maturare l'idea di un gruppo di lavoro.

Nell’Euromed a volte incontriamo difficoltà, che impediscono di progredire nella giusta direzione, in quanto già sono stati costituiti forse troppi gruppi di lavoro. Personalmente, ritengo più opportuno chiedere alla plenaria a Tunisi se debba costituirsi un gruppo di lavoro nel modo previsto già stasera nel corso della nostra riunione.

Sarebbe più cauto aspettare fra 3 settimane l'opinione dell'Assemblea plenaria, sondare la situazione e vedere come questa idea – che condivido e ritengo positiva perché sicuramente foriera di risultati – venga accolta. Grazie. 

Do la parola all’onorevole Aurelio Juri, membro della National Assembly della Slovenia. 

 

AURELIO JURI, membro della National Assembly della Slovenia. Considero giusto suggerire oggi all'Ufficio di presidenza questa iniziativa, sebbene ad approvarla sarà eventualmente l'assemblea. È fondamentale suggerire questo iter, perché vi sono 2  iniziative per le quali con il dottor Rizzi stiamo già cercando di individuare un compromesso, una soluzione, una proposta integrata. Probabilmente fino a Tunisi qualcosa si farà, ma è giusto che, da quel momento, esista un gruppo di 6 o 8 persone che vi lavori. Si avrà l’opportunità di ascoltare anche l'Assemblea, ma questo suggerimento può essere già proposto oggi. 

Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA. Poiché non ritengo appropriato inserire la proposta del gruppo di lavoro nella risoluzione, intendevo proporre unicamente di scrivere una lettera che desse conto della discussione di oggi al Bureau, suggerendo l'opportunità che quest'ultimo deliberasse autonomamente la costituzione di un gruppo di lavoro, tanto più se l'Assemblea concorda sui contenuti previsti nella risoluzione, ovvero sulle 2 proposte e sulla condivisione della creazione di un'istituzione, giungendo ad una complementarietà delle due proposte che sembravano raccogliere il consenso di questa Commissione. Si tratta semplicemente di una lettera che non è binding, ma un suggerimento al Bureau, come credo, onorevole Mikolasik, condivida anche  lei…

 

MIROSLAV MIKOLASIK, Membro del Parlamento europeo. Sì.

 

TANA DE ZULUETA. Bene, allora preparerò questa lettera. 

L’altra questione di cui fummo investiti dal Bureau concerneva i lavori di manutenzione alla Porta dei Magrebini a Gerusalemme, nella città vecchia, che conduce ad Al Haram al-Sharif.

Questi lavori hanno destato molta preoccupazione e indotto a manifestazioni, pertanto molti colleghi oggi ed anche al Bureau avevano chiesto attenzione da parte della Commissione.

Oggi abbiamo avuto una felice coincidenza. Uno dei nostri relatori, il professor Bouchenaki, è Presidente di un organo consulente dell'Unesco partito oggi su invito del Governo israeliano e su proposta del segretario generale dell'Unesco per Gerusalemme per un fact-finding mission.

Di questi sviluppi diamo atto nell’articolo 21 di questa risoluzione, che ovviamente non  voteremo oggi, ma cui ho accennato per rendervi conto del nostro tentativo di dare seguito alle indicazioni del Bureau con questo articolo 21: «Ricordando i principi fondamentali della Convenzione Unesco riguardante la protezione del patrimonio mondiale e naturale, e della Commissione riunitasi l'ultima volta a Vilnius nel 2005, ricorda la necessità di proteggere i siti iscritti nella lista del patrimonio mondiale in pericolo dell'Unesco situati nei territori interessati dai conflitti attualmente in corso, in particolare gli sviluppi recenti nella città vecchia di Gerusalemme, nel pieno rispetto delle comunità residenti e del diritto internazionale. In questo contesto, accoglie con favore la decisione del Direttore generale dell'Unesco di inviare una missione tecnica nella città vecchia di Gerusalemme».

Saremo informati di questa missione, che avviene su invito del Governo israeliano. Si tratta quindi di un’iniziativa unanimemente condivisa e spero soddisfacente per chi ha chiesto il nostro interessamento. 

 

ZUHAIRI AL-KHATEEB, Membro del Palestine National Council. Onorevole Presidente, desidero chiedere perché nel testo riguardante la questione degli scavi a Gerusalemme non venga citata la moschea di al-Aqsa, i cui scavi avvengono sotto la spianata della moschea, in suolo islamico. Vi prego pertanto di specificare nel testo tali scavi.

 

TANA DE ZULUETA. Le è possibile anche emendarlo, ma, se può limitare le sue preoccupazioni, potremmo aggiungere che si tratta di una missione tecnica nella città vecchia di Gerusalemme  (interruzione)  situazione per quanto concerne i lavori per l'accesso ad Al-Haram al-Sharif.

 

MOSHE KHALON, Membro della Knesset d’Israele. Signora Presidente, ritengo opportuno scrivere “la città vecchia di Gerusalemme”. In attesa che gli esperti dell'Unesco facciano ritorno dalla loro missione e magari ci segnalino eventualmente che non esiste nulla contro la vecchia moschea di Gerusalemme, “la città vecchia di Gerusalemme” è una dizione neutrale, che non pregiudica nessuna altra versione. 

 

ZUHAIRI AL-KHATEEB, Membro del Palestine National Council. Si riscontrano troppe manomissioni, troppi interventi, case distrutte, abitanti cacciati via da casa.

Gli stessi abitanti di Gerusalemme non riescono ad andare fino a casa e hanno bisogno di un visto di ingresso affinché le autorità israeliane consentano loro di accedere alle case. La questione di Gerusalemme è diversa. Quegli scavi toccano la moschea di al-Aqsa. 

 

TANA DE ZULUETA. Ritengo che si potrebbe fare un’ulteriore precisazione. Nella versione originale era scritto “per l'accesso ad al Haram al-Sharif”. Tuttavia, poiché manca il consenso, le propongo di formulare un eventuale emendamento al testo che dovremmo votare.

 

IBTISAM MIKHAIL, Membro della People’s Assembly dell’Egitto. Onorevole Presidente, abbiamo fatto riferimento ad aggressioni negli scavi e abbiamo specificato che sono contro la moschea di al- Aqsa.

La missione è affidata alla Commissione tecnica e riguarda proprio questo particolare. Vi prego di precisare nel rapporto proposto alla plenaria che questo intervento della Commissione tecnica fa seguito alla lettera del Presidente dell'Assemblea del popolo, Sorour. La missione della Commissione riguarda solo questo particolare, perché questa parte è stata aggiunta a causa dei successivi sviluppi. 

 

TANA DE ZULUETA. È stato aggiunto questo articolo 21, perché il Bureau all'unanimità ha chiesto alla Commissione di occuparsi della questione dei lavori – adesso sospesi – fuori dalla moschea al-Aqsa, ossia della rampa di accesso da ripristinare alla Porta dei Magrebini di Al Haram al-Sharif.

Certamente il proponente iniziale fu il Presidente Sorour, in quanto membro del Bureau, ma quest'ultimo all'unanimità ha chiesto a questa Commissione di occuparsene. La Commissione ha ritenuto di farlo con la stesura di questo comma 21, che tenta di aggiornarci sugli sviluppi, in particolare sul fatto che la comunità internazionale, attraverso l'organismo dell'Unesco, si sta interessando e farà un proprio sopralluogo, al termine del quale si deciderà eventualmente di prendere posizione.

È  anche possibile tuttavia che si giunga ad un accordo diretto tra le parti, e dunque tra i responsabili della gestione di Al Haram al-Sharif e le autorità municipali di Gerusalemme, ovvero il sindaco che ha avviato questi lavori di sbancamento. Pertanto, eviterei di toccare il testo, ma naturalmente l'assemblea è sovrana e, se i membri desiderano emendarlo, dovremo votare gli emendamenti a Tunisi ed essi dovranno quindi arrivare entro l'8 marzo. Abbiamo esaurito il programma di lavoro, pertanto lascio la parola a chi desideri svolgere ulteriori interventi. 

 

CHRISTIN HAGBERG, Membro del Riksdagen Svezia. Grazie, Presidente. Non ho capito il termine ultimo per presentare gli emendamenti al progetto di risoluzione.

 

TANA DE ZULUETA. Avevo proposto l'8 marzo come scadenza per la presentazione di eventuali emendamenti a questo testo. Naturalmente, tutti voi riceverete via mail, in inglese e francese, il testo della risoluzione. Questo renderà più semplice l'eventuale inoltro di emendamenti. 

In attesa di rivedervi a cena alla Camera dei Deputati, vorrei ringraziarvi perché ritengo che il nostro lavoro sia stato molto fattivo, molto concreto. Spero che, sulla base della discussione di oggi, la risoluzione rappresenti una risposta adeguata e uno strumento utile per continuare nel nostro comune impegno. 

Ringraziandovi ancora, dichiaro conclusa la seduta.

 

La seduta termina alle 16,40.


 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ASSEMBLEA PARLAMENTARE EURO-MEDITERRANEA

 

 

Commissione per la promozione della qualità della vita,

 gli scambi tra società civili e la cultura

 

ATTI

 

 

 

 

Lunedì, 29 – 30 ottobre 2007

Palazzo Montecitorio – Sala della Regina

 



La seduta inizia alle ore 15,15.

 

FAUSTO BERTINOTTI, Presidente della Camera dei deputati. Cari colleghe e colleghi, gentili ospiti, vi auguro una buona giornata. È con grande piacere che rivolgo a voi il più cordiale benvenuto alla terza riunione della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi umani e la cultura, ospitata dalla Camera dei deputati italiana con la presidenza della deputata Tana De Zulueta.

Sono lieto, in particolare, che in questa sede si stia contribuendo a valorizzare la cooperazione parlamentare e il dialogo con la società civile, partendo dall’ambito culturale, sociale ed umano del partenariato, che trova la sua ragione fondante proprio nel ravvicinamento, nel dialogo e nella comprensione tra i popoli. 

Il 18 giugno scorso al Cairo si sono riuniti per la prima volta i ministri dell’educazione superiore e della ricerca dei Paesi euro-mediterranei, dimostrando, attraverso idee e proposte, il ruolo guida che il pilastro culturale può svolgere per dare nuova linfa vitale alla dichiarazione di Barcellona e agli obiettivi di fondo che l’hanno ispirata. 

Credo si debba puntare molto sulle grandi potenzialità del partenariato euro-mediterraneo, che rappresenta un quadro unico di cooperazione globale e solidale, in grado di conseguire pace e stabilità nell’area del Mediterraneo, su basi di parità e di rispetto per le diversità storiche, religiose e culturali di ogni Paese. Non possiamo tuttavia nasconderci che abbiamo ancora davanti a noi ostacoli gravi che non è semplice superare, a cominciare dalla crisi israelo-palestinese. 

Si tratta di una ferita ancora aperta nel Mediterraneo e sempre più produttrice di drammi indicibili, il cui risanamento rappresenta una necessità storica per chi pensa che in questo tempo tormentato la pace rappresenti la priorità assoluta della politica. 

Del resto, è opinione largamente condivisa nella comunità internazionale che la possibilità di offrire una risposta organica e realmente efficace ai problemi dell’area mediterranea passi necessariamente attraverso il riconoscimento del diritto ad edificare e a far vivere il proprio Stato, sia al popolo palestinese, sia al popolo israeliano. 

Parimenti, la data del 2010 per realizzare un’area di prosperità e di libero scambio nel bacino del Mediterraneo sembra ancora un traguardo lontano da raggiungere. Oggi più che mai occorre, quindi, un supplemento di impegno e di disponibilità al lavoro comune per il rilancio della cooperazione tra i nostri popoli, che può prendere le mosse proprio dalle iniziative di diplomazia parlamentare come strumento istituzionale per diffondere i valori del confronto e della partecipazione democratica. 

Davanti al rischio terribile – e purtroppo non solamente astratto – di un conflitto di civiltà, i Parlamenti hanno la responsabilità di sviluppare le risorse del dialogo e dell’ascolto delle diversità. Proprio in questo quadro – come è stato sottolineato anche dalla raccomandazione della vostra Commissione, approvata nel corso della sessione plenaria di Tunisi, nel maggio scorso – occorre dare alla cultura un ruolo unificante nell’ambito delle politiche nazionali e regionali, a cominciare dai settori dell’educazione, della ricerca e dello sviluppo tecnologico. 

I lavori di queste due giornate, dedicati a temi di estremo rilievo ed attualità – quali il rapporto tra culture e media, la costruzione di un’università euro-mediterranea, l’iniziativa del parlamento euro-mediterraneo dei giovani, la tutela ambientale, i cambiamenti climatici e la lotta contro la desertificazione – offriranno senz’altro ulteriori conferme in questa direzione, anche alla luce della proclamazione del 2008 come anno europeo del dialogo interculturale.

È con questo spirito che ringrazio tutti voi per essere oggi qui presenti, rinnovando il mio sentito benvenuto a tutti voi qui alla Camera dei deputati e i miei migliori auguri di buon lavoro. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie, signor Presidente, per queste parole, a cui spero daremo seguito con un lavoro fruttuoso. La salutiamo.  

 

 

FAUSTO BERTINOTTI, Presidente della Camera dei deputati. Ancora grazie. Buona giornata e buon lavoro. 

Adozione dell’ordine del giorno e del resoconto della riunione precedente.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Cari colleghi, di nuovo benvenuti. Mentre vi do qualche notizia sui nostri lavori, invito ad accomodarsi alla presidenza i vicepresidenti e i relatori di questa sessione dei lavori della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi umani e la cultura.

Desidero in primo luogo associarmi alle parole di benvenuto del Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che vi ha dato un'indicazione dell'attenzione che il Parlamento italiano presta a questi lavori ed ai problemi e alle prospettive del processo di Barcellona. 

Questa è, infatti, la terza riunione della Commissione cultura ospitata a Roma dalla Camera dei deputati. È nostra intenzione proseguire il lavoro avviato nei nostri precedenti incontri tenendo conto di quanto previsto dalla raccomandazione approvata nel corso della sessione di Tunisi, nonché delle indicazioni date dalla presidenza e dal Bureau dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea (APEM), nella riunione di Atene del 18 maggio di quest’anno. 

Nell’individuazione dei temi del giorno, infatti, è stato considerato, in primo luogo, il mandato dato dal Bureau, con particolare riguardo ai temi del dialogo tra le culture e, nello specifico, del ruolo dei media in questo contesto, un argomento che non abbiamo fin qui approfondito.

Ci è stata segnalata anche la questione dei cambiamenti climatici, con riferimento alla lotta contro la desertificazione, al tema dell'accesso all’acqua come diritto umano universale e a quello dell’attività di prevenzione degli incendi. Quest’ultimo si è imposto in seguito ai gravissimi incendi che hanno devastato la nostra area quest’estate, su specifica richiesta della presidenza greca.

Vi è poi la proposta di istituire un’università euro-mediterranea, ed occorre dare seguito all’iniziativa del parlamento euro-mediterraneo dei giovani.

Queste due giornate saranno quindi dedicate, anche grazie al contributo dei relatori, allo sviluppo di una discussione su queste tematiche, in modo da poter preparare i documenti di indirizzo e la raccomandazione che saremo chiamati a formulare durante la sessione plenaria di Atene dell’anno prossimo.

Nella prossima riunione – che penso dovrebbe svolgersi all’inizio del mese di febbraio (la proposta è che si tenga lunedì 11 o lunedì 18: possiamo concordare la data insieme) – potremmo portare avanti il dibattito avviato in questa sede, sviluppando in quell’occasione anche gli altri temi di cui ci siamo occupati anche in modo dettagliato. Penso, ad esempio, alla questione dell’immigrazione che non abbiamo potuto inserire nell’ordine del giorno di questa nostra riunione.

A questo proposito vi ricordo che, nel mese di novembre, dovrebbe svolgersi a Lisbona la prima riunione dei ministri della nostra area euro-mediterranea competenti in tema di emigrazione: sarà un appuntamento molto importante, in occasione del quale il Bureau ha già chiesto a questa Commissione di farsi rappresentare dalla sua Presidenza.

Se non vi sono obiezioni, si intendono adottati sia questo ordine del giorno, sia il resoconto sommario della precedente riunione della Commissione cultura, svoltasi a Tunisi, che trovate all’interno del vostro fascicolo.

 


 

Comunicazioni della Presidente della Commissione cultura sugli esiti della Conferenza dei Ministri dell’educazione superiore e della ricerca dei Paesi euro-mediterranei del 18 giugno 2007.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Possiamo passare, dunque, al primo punto all’ordine del giorno, che prevede un mio brevissimo report sulla prima riunione dei ministri dell’educazione superiore e della ricerca dei Paesi euro-mediterranei, che si è svolta al Cairo, il 18 giugno 2007, ed alla quale ero stata delegata dal Bureau a partecipare a nome dell’APEM. Faccio notare che si è trattato della prima riunione dei ministri, ma anche che, per la prima volta, ad una riunione ministeriale è stato delegato un rappresentante dell’APEM: alla luce di questa esperienza, penso che questa nuova prassi possa essere molto utilmente seguita.

Questa prima riunione ha riconosciuto il ruolo cruciale dell’educazione per lo sviluppo politico, sociale ed economico della nostra area, e anche dell’importanza-chiave della ricerca, dell’innovazione e dello sviluppo delle risorse umane per la modernizzazione delle società dell’area euro-mediterranea. La Conferenza ha discusso della creazione di un’area euro-mediterranea per l’educazione e la ricerca ed ha trovato un accordo su una serie di azioni concrete per avvicinare i sistemi di alta educazione, per valorizzare e potenziare la partecipazione dei partner euro-mediterranei al programma Erasmus Mundus ed anche per aumentare il numero degli studenti dell’area che hanno accesso a questo programma. Nell’anno accademico 2007-2008, infatti, il programma prevede l’erogazione di 549 borse di studio a studenti MED, per un valore di circa 15 milioni di euro.

Questa mattina abbiamo svolto un gruppo di lavoro – anche questa è un’innovazione che abbiamo trovato estremamente positiva – proprio sulla questione dell’università euro-mediterranea. Poter partire dai lavori del Cairo e della precedente riunione – sempre in Egitto, ad Alessandria – del forum dei professori universitari euro-mediterranei, ci ha consentito di metterci al lavoro con una griglia di azioni e di obiettivi estremamente concreti. Nella nostra prossima riunione potremo portarvi un documento in merito, per sottoporlo alla vostra valutazione, il quale potrà fornire un contributo alla nostra futura raccomandazione. Questi sono i punti.

 

Le ripercussioni dei cambiamenti climatici e della desertificazione nel bacino del Mediterraneo, con particolare riferimento all’accesso all’acqua come diritto per tutti.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Prima di andare avanti, penso sarebbe bene che si accomodassero qui i vicepresidenti e i relatori di questa sessione, nella quale affronteremo le questioni dei cambiamenti climatici, della desertificazione e dell'accesso all’acqua. Invito dunque a raggiungermi alla presidenza il professor Pietro Laureano, il professor Mohammed El Faiz, il dottor Jose Antonio Prado, il collega Carlos Carnero Gonzalez, il vicepresidente Omar Adkhil e l’altro relatore, Ibtisam Mikhail.

Come vi dicevo, in questa sessione dedicata ai temi ambientali, abbiamo scelto di affrontare tre tematiche: le ripercussioni dei cambiamenti climatici e della desertificazione nel bacino del Mediterraneo, con particolare riferimento all’accesso all’acqua come diritto per tutti; la politica forestale mediterranea e la gestione degli incendi; l’attuazione del programma Horizon 2020 per la protezione e il disinquinamento del mar Mediterraneo, un argomento che abbiamo già discusso, con particolare riferimento al disastro ambientale avvenuto in Libano l'anno scorso.

Lascio ora la parola ai primi due relatori, i cui interventi verteranno sul tema dell'accesso alla risorsa acqua, con riferimento alla questione del cambiamento climatico.

 

 

 

 

 

Come sapete, l'Unione Europea ha adottato un’ambiziosa strategia di contenimento e mitigazione dei cambiamenti climatici, con l’obiettivo ambizioso della riduzione delle emissioni di CO2; nel quadro delle iniziative vi è anche l'impegno alla riduzione dell'impatto dei cambiamenti climatici. Nel campo della gestione delle risorse idriche, sembrava che la nostra area, in particolare l’area del Maghreb, fosse depositaria di saperi tradizionali, i quali si possono rivelare strumenti economici preziosi per una gestione sostenibile di quella risorsa sempre più preziosa che è l’acqua.

Do anzitutto la parola al professor Pietro Laureano.

 

PIETRO LAUREANO, Rappresentante italiano del Comitato tecnico-scientifico della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta contro la desertificazione (UNCCD) e Presidente dell’IPOGEA. Grazie, presidente. Vi ringrazio per questo invito. È per me un onore parlare davanti a questa Commissione.

Mi occupo per l’Italia di seguire i lavori della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione. Come voi sapete, durante la Conferenza di Rio sono state varate tre Convenzioni importanti: sulla biodiversità, sul cambiamento climatico e sulla desertificazione. La Convenzione sul cambiamento climatico ha varato gli accordi di Kyoto e si occupa soprattutto di misure di intervento globale, ossia di affrontare il problema del riscaldamento globale con misure a carattere generale.

La Convenzione sulla desertificazione si occupa invece principalmente delle azioni sul terreno, sul suolo e su quei microambienti che risultano fondamentali per la specie umana e per gli organismi viventi. Per mitigare i fenomeni di desertificazione, che comunque arriveranno e a cui dovunque dovremo far fronte,  tale Convenzione prevede azioni di lotta alla in gran parte basate sull’antica esperienza sviluppata nelle nostre aree, soprattutto nell’area euro-mediterranea. 

Nella storia dell’umanità ci sono sempre stati cambiamenti climatici. La geologia del pianeta è fatta di avvicendamenti e di situazioni diversificate, alcune più calde, altre più fredde. Possiamo dire che la cultura si è sviluppata proprio per far fronte a questi fenomeni, per combattere la casualità dei processi climatici e dell’esistenza. L’umanità ha realizzato la cultura per migliorare l’esistenza, nonché la bellezza e la qualità dell’ambiente euro-mediterraneo. 

Sappiamo oggi che il nostro pianeta è sempre più assetato. Lo chiamiamo pianeta Terra, ma dovremmo chiamarlo pianeta Acqua, perché la sua componente fondamentale è l’acqua, che costituisce una grande parte della massa di elementi esistente nel pianeta. L’acqua potabile, tuttavia, è pochissima: se paragoniamo tutta l’acqua esistente sul pianeta ad un recipiente di cinque litri, l’acqua bevibile è soltanto un piccolo cucchiaio, mentre quella disponibile (non congelata ai poli) è soltanto una goccia. L’acqua potabile è realmente poca e soprattutto mal distribuita.

L’ambiente euromediterraneo, nel tempo, si è organizzato per amministrare la risorsa acqua sin dalle epoche più antiche. Nell’immagine vedete il palazzo di Cnosso, a Creta, dove già 4.000 anni fa esistevano sistemi di raccolta di acqua piovana: il famoso labirinto di Creta era probabilmente un sistema per raccogliere l’acqua, drenarla, captarla e convogliarla. In quest’altra immagine vediamo le vasche aghlabide di Kairouan, che costituiscono dei monumenti della nostra cultura euromediterranea, funzionali alla raccolta dell’acqua: nella corte principale della grande moschea di Kairouan cui c’è un sistema di drenaggio e di captazione di acqua. Nell’immagine successiva vediamo Konia, in Turchia.

L’acqua, del resto, fa parte della tradizione religiosa e spirituale di tutta l’Europa e del Mediterraneo. L’acqua è fondamentale sia nella tradizione islamica (dice il Corano che «è fatto dall’acqua tutto ciò che è vita»), sia nella religione cristiana, tanto che il fonte battesimale è sempre presente in tutte le chiese. Si tratta quindi di una tradizione simbolica e spirituale che crea la grande architettura e i grandi monumenti che fanno parte della nostra storia e cultura.

 

 

 

La Moschea blu, a Istanbul, si riflette in uno specchio d’acqua, ma la cosa straordinaria di questa moschea – che diventa un monumento all’acqua – è che il suo modello è la cupola di Santa Sofia, un monumento a cavallo tra i culti pagani e la cristianità. Essa rappresenta la sophia, la conoscenza, la sapienza: è una grande cupola, ma è anche l’immagine del mondo, l’immagine della Terra, di questa nostra Terra in pericolo.

Dice una poetessa inglese, Emily Dickinson, che l'acqua è insegnata dalla sete: se vogliamo capire cosa sia l'acqua, dobbiamo andare nei Paesi della sete. Alle sponde del Mediterraneo vi sono luoghi dove sono fortemente presenti i problemi della sete e dei deserti. Il deserto insegna ed ha insegnato all'umanità a vivere con questi problemi ed ha impartito una lezione all’intero mondo mediterraneo.

In queste immagini vedete dei sassi che si spaccano per il calore (collasso), le dune che si formano per i venti e i paesaggi d’acqua nel cielo; come vedete, le nuvole hanno la stessa forma delle dune: è il vento a creare entrambe. 

Nella realtà del Mediterraneo l’umanità ha imparato dalle leggi della natura: è da questi princìpi sottili che è stata realizzata l'oasi. Essa è il risultato della capacità dell'uomo di creare un ambiente vivibile in una zona completamente arida: qui le palme vengono accuratamente coltivate, si cerca l'acqua scavando una depressione, la palma fa l’ombra e nasce così una piccola oasi, un’oasi-bambina protetta. Nel tempo, sono poi stati diffusi e portati avanti in tutto il mondo mediterraneo i grandi sistemi di habitat – con tecniche straordinarie e in situazioni assolutamente ostili – che hanno permesso di creare solidarietà, patti ed alleanze. Oggi abbiamo il problema dei conflitti per la mancanza di acqua, ma l'acqua, in passato, ha anche creato la  pace. È intorno alla risoluzione dei problemi connessi all'acqua che le società si sono alleate. Esse hanno dovuto necessariamente allearsi perché, senza risolvere insieme il problema dell'acqua, si soccombe. In questa immagine vedete due uomini che discutono, parlano, stringono patti intorno ad un sistema di raccolta d'acqua, che dà anche frescura.

Intorno all’acqua si creano anche simbolismi e spiritualità. Nell’immagine potete vedere il grafo di un sistema di raccolta d’acqua in un tappeto: vedete il sistema di ripartizione dell'acqua e di controllo delle quote, che è poi riprodotto nelle capigliature delle donne, laddove il corpo stesso dell'uomo parla del rapporto necessario fra strutture per la raccolta dell’acqua e sistema di organizzazione dello spazio, da un lato, e cosmo, cielo e spiritualità, dall’altro.

Noi oggi non chiediamo altro alle nostre città, ai nostri territori: chiediamo loro di andare verso la sostenibilità, verso un sistema di organizzazione armonica della produzione e della gestione delle risorse, che dobbiamo ritrovare nel nostro antico passato, quando queste risorse si amministravano armoniosamente.

Questa è un’immagine del paradiso egizio: per gli antichi egizi esso non era altro che un sistema di campi coltivati, con l'acqua che scorre, dove l'umanità poteva vivere in armonia e in simbiosi con la natura.

Ora vedete invece un affresco del Palazzo dei Bey di Constantine, in Algeria: anche questa è un’immagine che viene dal mondo islamico e che rappresenta la terra, il Mediterraneo – al centro c’è la Mecca – fatto di flussi d’acqua, di città che vivono intorno all’acqua, di gestione di questa risorsa.

Qui vedete un pozzo per sollevare l’acqua, realizzato con una tecnica tradizionale diffusa in tutto il Mediterraneo, che si chiama shaduf. Lo mostro per farvi vedere cosa succede quando queste tecniche non sono più utilizzate: come potete notare nelle immagini successive, la desertificazione prende rapidamente il sopravvento. Gli archeologi del futuro potranno dire che questa era una stele, un monumento, mentre era  qualcosa di funzionale a creare la fertilità.

Rapidamente vediamo quello che sta succedendo: vi mostrerò immagini, prese a soli venti anni di distanza, di luoghi dove prima c'era vita e fertilità e che stanno ora diventando di degrado e desertificazione.

 

 

 

 

 

La prima è un’immagine del sud d’Italia, risalente a qualche anno fa, mentre la seconda immagine mostra la situazione attuale di completo degrado.

La desertificazione è degrado dei suoli ed è diversa dal deserto. Mentre il deserto si è instaurato per motivi geologici, nell’arco di un tempo lunghissimo, che ha permesso alle specie di adattarsi e anche alle culture di elaborare tecniche e pratiche per sopravvivere, la desertificazione è, invece,  un evento di degrado violento e rapido, di fronte al quale le popolazioni non hanno la possibilità di adattarsi, ma possono solo fuggire. Le migrazioni saranno la grande piaga che affliggerà il Mediterraneo nei prossimi anni. In queste slide vedete l’atlante del Marocco, le foreste di cedro del Libano, i cedri bruciati e ridotti a legna da ardere: sono immagini drammatiche di quello che sta succedendo nei nostri territori.

Questa immagine si riferisce invece al sud d’Italia, dove gli olivi centenari, che fanno parte del paesaggio euro-mediterraneo, sono protetti da muri di pietra. Non sono fortificazioni, non servono per la guerra, ma servono per la vita: captano l’acqua e mantengono le gocce di umidità. L’olivo può così centellinare le gocce d’acqua e sopravvivere anche in momenti di stress. Questi olivi vengono trapiantati, a volte anche in nome delle leggi europee, che impongono la produttività agricola: poiché gli olivi centenari non danno produzione, si incentiva a piantare olivi giovani, piccoli, e si pagano i contadini per trapiantarli, tagliarli o venderli per i giardini.

Ecco un’altra immagine drammatica: potete vedere il teatro romano di Amman, assediato da una conurbazione sempre crescente. Una città che cresce significa desertificazione e cementificazione, perché la città impedisce alle acque di raggiungere le falde. In passato era diverso.

In quest’altra immagine vedete Petra, in Giordania: una città che era formata da giardini, da ipogei, da luoghi straordinari e che adesso è un luogo deserto.

Potete vedere un giardino di pietra, nel quale, anche dove non c’è acqua e non ci sono risorse, possono essere raccolte minime tracce di umidità. L’umidità, come vedete, durante la notte si raccoglie sulla pietra, filtra in questa prima vasca, in cui si raccoglie tra la sabbia, per poi finire in questo bacino. In questo modo, grazie all’intervento umano, il giardino può essere realizzato nella pietra. Così l’umanità protegge le altre specie e la vegetazione e può creare degli ambienti vivibili.

Ora vedete altre immagini di Petra. Questo monumento è chiamato Palace tomb. Alle opere degli antichi attribuiamo sempre il carattere di tombe e di mausolei. Certo, erano tali, ma forse erano anche qualcosa di più. La superficie che vedete qui a fianco, per esempio, era una cascata d’acqua: tutta Petra aveva sistemi di umidificazione, sistemi di trasporto dell’acqua, di captazione. Nell’immagine successiva potete vedere com’era Petra quando era vitale.

Oggi noi non sappiamo come restaurare Petra, che si sfalda ed è aggredita da venti carichi di sabbia. Non c’è un modo di restaurarla senza riportarvi la vita: gli alberi, le piante, i sistemi terrazzati e l’umidità stessa,  che proteggevano questo intero ecosistema.

Dobbiamo salvaguardare gli ecosistemi nella loro interezza e non dobbiamo più pensare ad una salvaguardia monumentale delle vestigia: dobbiamo salvaguardarle nella loro evoluzione, nel loro progresso, nel loro essere monumenti e, nello stesso tempo, nel loro essere utili.

Ora state vedendo come si raccoglieva l’acqua piovana, questa risorsa straordinaria, a Petra. Nel sistema euro-mediterraneo abbiamo una carenza enorme di acqua, però sprechiamo tutta l’acqua piovana, che continuiamo a disperdere. C’è un Nilo dei cieli – un fiume dei cieli –, dicevano gli egizi.

Questi erano i monumenti che, sin dalla preistoria, servivano alla raccolta dell’acqua.

Ecco i sassi di Matera. La città di Matera è un simbolo, da questo punto di vista, nel sud d’Italia: è una città interamente basata sui sistemi di raccolta di acqua. Sin dalla preistoria centinaia di migliaia di villaggi raccoglievano l’acqua piovana.


 

Questo che vedete è uno dei villaggi preistorici che sono diffusi in tutta l’Europa: ce ne sono in Spagna, in Germania, nel sud d’Italia e, naturalmente, nel nord Africa. Questi villaggi raccoglievano l’acqua piovana e la utilizzavano poi per fertilizzare i campi, così come, per tanto tempo, hanno fatto gli agricoltori in tutto il mondo mediterraneo.

 

Le strutture che vedete ora sono cisterne di captazione d’acqua: ne esistono ancora. Ora ne vedete un esempio presente a Firenze: una cisterna monumentalizzata, con all’interno anche delle statue, rappresentanti la dea dell’acqua e della vita.

A Paestum vi sono altri monumenti all’acqua, sistemi di raccolta e di condensazione.

Queste sono le grotte dei sassi di Matera: notate che la caverna rappresenta la terra madre, che viene fecondata dai raggi di luce del sole; nel fondo della caverna il connubio tra sole e terra crea la condensazione dell’acqua. L’acqua si condensa – non c’è bisogno neanche di acqua piovana, ma solo di umidità – e si crea la vita. Un simbolo della vita: dalla pietra si può raccogliere l’acqua. È un simbolo che diventa, oggi, utile e necessario.

Questo è il sistema di drenaggio in Africa, che comprende  gli impluvi, ossia i bacini dei grandi fiumi in Africa.

Osservando questa mappa, vi renderete conto che nel futuro i conflitti sorgeranno intorno a questi sistemi, che dividono l'Africa per bacini fluviali. Noi continuiamo a fare una politica che tenta di risolvere il problema dell'acqua costruendo grandi dighe sui bacini fluviali. Le grandi dighe creeranno però solo conflitti, perché spezzano i flussi dell'acqua rispetto alle divisioni degli Stati.

Il riscaldamento climatico provocherà il collasso di questo sistema idrografico; è stato calcolato – come vedete in queste immagini – che per un aumento di soli quattro gradi di caldo, la quantità d'acqua diminuirà del 25, del 50, fino al 75 per cento, andando dalla situazione che vedete qui – dove sono in rosso le aree di crisi – alla situazione che vedete nell'immagine successiva. Possiamo lavorare su questo fenomeno riutilizzando tutti quei micro-metodi che avevano permesso all'umanità di far fronte a questi fenomeni.

Qui vedete il sistema dei terrazzamenti.

Con le Nazioni Unite stiamo inventariando, attraverso un centro che abbiamo creato a Firenze, tutte queste tecniche, diffuse sul territorio, da noi considerate non come monumenti, ma come strumenti di grandissimo valore per la salvaguardia del paesaggio e degli ecosistemi.

Descrivo rapidamente le immagini contenute in queste schede, che si riferiscono alle tecniche su cui bisogna continuare a lavorare. Vedete come, anche in città, bisogna ripensare l'urbanistica: da una pianificazione di tipo orizzontale della città sul territorio dobbiamo pensare ad una pianificazione di tipo verticale, stratificata.

Il ciclo dell'acqua è un ciclo nell’atmosfera, nel suolo ed anche nel sottosuolo, e nella slide vedete tutte le tecniche tradizionali che possono essere utilizzate per raccogliere l’acqua: dall'atmosfera al suolo, al sottosuolo.

Le nostre città devono essere ripensate in senso tridimensionale: occorre raccogliere l'acqua sui terrazzi, creare tetti-giardini sui terrazzi – le coperture vegetali – ripascere i suoli, rialimentare le falde, creare aree verdi nelle città ed anche lavorare nella gestione e nella manutenzione del sottosuolo. Queste tecniche possono essere riutilizzate.

In questa immagine vedete un quartiere che è stato realizzato in Europa, le cui abitazioni sono organizzate con dei giardini e delle aree verdi funzionali alla raccolta dell'acqua.

Tutta la tecnologia più avanzata deve essere utilizzata insieme alla tradizione per creare l’innovazione del futuro, per creare delle soluzioni adattate.


In quest’altra immagine vedete dei pannelli fotovoltaici che sono stati uniti allo shaduf. In tutto il mondo si stanno sperimentando queste nuove pratiche, che vanno dal risparmio di acqua, anche nelle toilette, alla costruzione di cisterne di captazione (con 2.500, 5.000 euro si possono fare cisterne di raccolta di acqua piovana per dare l’acqua in Africa).

 

Qui si può vedere il restauro di cisterne a tetto, nel sud d’Italia, mentre qui siamo in Tunisia, dove gli olivi possono essere alimentati con l'acqua realizzando delle tasche di pietra intorno agli alberi stessi.

L'agricoltura continua a consumare il 70 per cento di acqua potabile, il che è uno scandalo, sapendo che un miliardo di persone non hanno accesso all’acqua e che vi sono bambini che muoiono per la mancanza di acqua potabile. L'agricoltura deve funzionare con acqua riciclata. Noi buttiamo via l'acqua delle città, che dovremmo invece utilizzare per alimentare l'agricoltura.

Tutte queste pratiche devono creare una nuova educazione, una nuova tecnologia. Dobbiamo inventariare tutte le nostre conoscenze, che sono le conoscenze dei luoghi, o quelle che hanno permesso di creare tutto quello che noi oggi apprezziamo nella nostra storia e nella nostra civiltà, come i nostri monumenti, i nostri ecosistemi e il nostro paesaggio, che sono di qualità perché l'umanità ha lavorato in armonia con le risorse naturali.

Dobbiamo riprendere questo processo positivo perché ogni goccia d'acqua è preziosa e non dobbiamo sprecarla. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie a lei, professor Laureano.

Do ora la parola al professor Mohamed El Faiz, che insegna storia economica all'università Cadi Ayyad di Marrakech ed è autore di un libro dal titolo Les maîtres de l’eau (I maestri dell'acqua).

 

MOHAMMED EL FAIZ, Professore di storia economica all’Università Cadi Ayyad di Marrakech. In primo luogo ringrazio la presidente per avermi invitato a svolgere il mio intervento sul cambiamento climatico, le sfide dell’acqua e lo sviluppo sostenibile in Marocco.

Dirò innanzitutto che l’acqua ha avuto in passato – e continua ad avere ai nostri giorni – una tale importanza che la sua storia ci permette di capire le società e la loro origine, la loro evoluzione e la loro morte. Sappiamo bene che la mancanza d’acqua, come ha detto poc’anzi Pietro Laureano, può anche essere responsabile della scomparsa delle società e delle civiltà. 

Vorrei anche dire che la questione dell’acqua – o l’analisi della storia dell’acqua – può costituire anche un importante elemento del dialogo tra civiltà e tra culture. Due anni fa ho pubblicato un’opera, in Francia, appunto sui maîtres de l’eau, sui padroni dell’acqua, che dimostra fino a che punto la civiltà dell’Islam – che oggi è demonizzata e deprecata – sia stata un elemento fondamentale nella costruzione della civiltà e della cultura dell’acqua nel Mediterraneo. 

Penso che lo studio dell’acqua e della sua storia ci offra, ad un tempo, elementi che ci permettono di capire i problemi di oggi ed altri che invece ci permettono di stabilire un legame tra le varie civiltà, così tornando al dialogo e alla coesistenza tra le culture, anziché trovarci dentro a quello scontro tra civiltà, di cui si è parlato qualche anno fa. 

Il tema del cambiamento climatico può essere di difficile trattazione nei dieci minuti che mi sono stati assegnati. Vi presenterò quindi un esempio concreto di una società, di un Paese e di una città in cui vivo da anni e presso la cui università insegno, ossia Marrakech, una città nota a tutti perché è diventata la capitale turistica del Marocco. 


Prendo le mosse da questo esempio, perché oggi, piuttosto che parlare di cambiamento climatico in generale e in teoria, mi sembra importante vedere invece come, nel contesto di un dato Paese o di una data città, contraddistinti dall’aridità del clima, talune politiche nel campo della gestione dell’acqua hanno creato dei problemi tali da minacciare addirittura il futuro di quella città. 

Nell’immagine potete vedere Marrakech, una città situata nel Marocco meridionale. Qui avete una veduta dei Giardini dell’Agdal, costruiti nel 1100, la cui superficie, di 500 ettari, è grande come la stessa città di Marrakech. Ve ne voglio parlare perché qui vediamo la padronanza, il dominio dell’acqua: due grandi bacini innaffiano i giardini che sono serviti a fornire alla città prodotti alimentari, frutta e verdura durante tutti i secoli dello sviluppo di Marrakech. 

 

In questa slide vediamo una mappa della città di Marrakech dove sono riportati tutti i progetti di assetto idrico, tutti essenzialmente fondati sulla tecnica delle grandi dighe e dei grandi bacini, diffusa in tutto il mondo. Ebbene, io penso che il problema dell’acqua ci imponga oggi di rompere con questa visione dell’assetto idrico e della valorizzazione, perché dall'800 in avanti le grandi dighe sono state costruite essenzialmente in una logica tecnica: gli ingegneri e le società che le costruivano pensavano che, per risolvere il problema dell’acqua, bastasse avere la tecnica. Così facendo si sono accantonate tutte le questioni di ordine sociale, umano e culturale.

Oggi mi sembra invece importantissimo – non ci torno sopra perché ne ho già parlato in vari testi ed articoli – arrivare a rompere con la visione tecnocratica dell’acqua. L'acqua non può essere analizzata solo in termini tecnici, bisogna anzi trattarne sul piano sociale ed umano. La questione dell'acqua è così importante e vitale che sarebbe un peccato lasciarla nelle mani soltanto degli ingegneri e dei tecnici. Oggi tutti si devono immischiare, perché l'acqua è essenziale per la vita. Senz’acqua non si vive e su questo siamo tutti d'accordo. 

State ora vedendo tutti i progetti di assetto idrico attorno alla città di Marrakech, che avranno grosse conseguenze, e di cui tratterò tra breve. 

In merito al cambiamento climatico è evidente che Marrakech si trova in una zona arida e semiarida, dove cadono meno di 300 millimetri di pioggia in un anno, cioè quanto cade in pochi minuti in Europa. C’è tutto il problema della deforestazione, di cui parlava Laureano, e della sparizione degli interessanti e caratteristici alberi di argan. 

Analizzando le precipitazioni intorno alla città di Marrakech, si  può notare come viviamo in un clima arido e semiarido, dove le siccità sono sempre più frequenti, da una ventina di anni in qua.

Negli investimenti in questa regione e in molti Paesi – prendo l’esempio di Marrakech, ma si potrebbe dire lo stesso per tanti altri Paesi arabi o del terzo mondo con lo stesso clima arido o semiarido di Marrakech – si vedono bene i limiti della politica delle grandi dighe che, come si vede nelle statistiche sul loro apporto, non hanno affatto risolto il problema del fabbisogno idrico.

Di anno in anno, come vedete, c'è sempre un punto negativo e si scende al di sotto del livello del soddisfacimento del fabbisogno, anche per le grandi dighe che alimentavano Marrakech e il perimetro irriguo attorno ad essa.

In questa carta si vede apparire qualcosa di molto interessante: si vede una specie di peluria di canali di irrigazione e di progetti di assetto. In verde sono segnati i progetti di assetto moderno con le dighe. Quello che è meno verde corrisponde al vecchio, preesistente sistema tradizionale di irrigazione, che non è stato tenuto presente nei progetti di assetto idrico moderni, i quali – è importante notarlo – funzionano come se sul territorio non vi fosse nessuna memoria, nessuna storia. C’è sempre qualcuno che elabora un progetto sui tavoli d’architetto nel proprio studio, senza mai andare sul posto per vedere se quei progetti corrispondono ad un bisogno o come saranno accolti dalla popolazione. Non c’è nessuna analisi del punto di vista della popolazione, che è quindi assolutamente avulsa da questi progetti di assetto idrico, che costano miliardi di dollari.


In questa immagine vediamo uno dei sistemi che hanno fatto la storia di Marrakech, città costruita dopo l'anno mille, nel 1071, da una dinastia venuta dal Sahara, gli Almoravidi, i quali hanno costruito un impero che si estendeva sulla Spagna, sul Marocco e su una parte dell'Africa.

Al tempo stesso, dall’Andalusia musulmana ci è giunta una tecnica partita dall'oriente antico, dalla Persia, dalla Mesopotamia: la tecnica delle gallerie di drenaggio sotterraneo, le khettara, che esistono anche in Algeria. Esse costituiscono un sistema davvero diffuso nel mondo, grazie all’Islam. È con l'Islam che questa tecnica, dall'Oriente, è giunta fino all'Occidente musulmano. Questa tecnica tradizionale, questo retaggio, questo patrimonio tradizionale, esisteva a Marrakech prima che cominciassero le sistemazioni moderne.

Potete vedere i canali di irrigazione, 5.000 chilometri di rete idrica nella città o intorno ad essa: un lavoro enorme che si è protratto per cinque o sei secoli di crescita della città.

Ci sono poi le khettara: 500 gallerie di drenaggio sotterraneo. Se le mettiamo una in fila all’altra, esse raggiungono i 900 chilometri di lunghezza.

Nella slide vediamo una mappa. Confrontate la foto aerea risalente a quando c’erano soltanto gli edifici moderni, con quella in cui si vedono bene tutti i canali di irrigazione, ossia queste gallerie sotterranee di drenaggio, le khettara: alcune strade hanno cominciato a tagliarle e lo stesso è accaduto con altre costruzioni: a causa dell’urbanizzazione, nel giro di 25 anni – dal 1975 in poi – questa rete di 900 chilometri ha cessato di funzionare. Questo è avvenuto anche perché nel mondo arabo e musulmano – nel quale tali gallerie di drenaggio sotterraneo si trovano ovunque – non c’è alcuna legislazione a tutela di questo patrimonio. Ci sono gallerie di drenaggio sotterranee che hanno richiesto milioni di ore e di giorni di lavoro e che sono veri e propri monumenti straordinari (ne parlo nel mio libro I padroni dell’acqua), per realizzare i quali  bisognava essere ingegneri, calcolare le inclinazioni, le pendenze e svolgere un lavoro di geometria e di ingegneria.

Tutti questi monumenti non sono contemplati da alcun testo legislativo: non si trova neanche una parola a salvaguardia di queste gallerie, mentre nelle città arabe ci sono delle fontane che, a differenza delle gallerie che le alimentano, sono tutelate.

Molto vicino a noi, in Afghanistan, è in corso «la guerra delle grotte o delle caverne», come tutti l’avete sentita definire. Non si tratta di grotte o caverne così come ne parlavano i giornali, ma di gallerie di drenaggio sotterranee, le khettara dell’Afghanistan, che sono crollate davanti a noi, sotto i bombardamenti. Sono state scoperte tecniche per far saltare per aria queste gallerie dal cielo ed esse sono state minate e distrutte. Oggi queste tecniche, seppur vengano chiamate tradizionali, in realtà fanno tuttora vivere numerose popolazioni, che ancora sono aggrappate al loro territorio – nonostante i problemi e la mancanza di mezzi – e che continuano a tutelare il paesaggio. Ebbene, quelle tecniche sono sparite sotto i nostri occhi negli ultimi 20-25 anni, senza che ce ne accorgessimo, senza che neanche i media facessero una battaglia per la loro tutela.

In totale c’erano 638 khettara. In queste immagini vedete la città-giardino di Marrakech e lo schema della città-giardino nella tradizione araba. È un geografo del 1100 che ci mostra come le città si sviluppavano nel mondo arabo, dove gli ingegneri e gli urbanisti musulmani davano grande importanza ai giardini, che venivano costruiti prima della città: ecco perché tutti i viaggiatori che hanno visto le città dell’Iran, della Siria, del Maghreb, dell’Andalusia, le descrivevano come dei cubi soffocati dalla vegetazione, dalla verzura.

Ora vedete un’immagine che il geografo al-Qazwini, iraniano, ha disegnato nel ‘200: al centro si trova la città pre-islamica e, intorno ad essa, Medina, la grande città islamica. Ancora attorno, ci sono gli orti e i coltivi. Questo schema coincide perfettamente con le mie analisi della città di Marrakech, dove si trovano due grandi giardini: l’Agdal, con i suoi due grandi bacini, e la Menara, con un grande bacino. Da quel periodo abbiamo ereditato due grandi giardini, la cui superficie complessiva è equivalente a quella della città. L’urbanistica araba curava quindi l’equilibrio tra il minerale e il vegetale. Se osserviamo l’evoluzione di Marrakech abbiamo un giardino di 500 ettari (che c’è sempre) e la Menara di 100 ettari, per una superficie complessiva di 600 ettari, pari a quella della Medina.


Ora state vedendo l'immagine della città fino all'800. Ho ricostituito questa carta a partire dalle indicazioni di un commerciante francese che fece una ricognizione a cavallo di Marrakech nel 1818.

Come state vedendo, già nel 1986 era sparito tutto: la città giardino è stata spezzata e frantumata dall'urbanizzazione ed anche il palmeto di Marrakech è stato urbanizzato già a partire dai progetti del 1988: un palmeto che costituiva un ecosistema, un capolavoro (a nord dell'atlante non ci sono palmeti) nato attorno a quella città, di 16.000 ettari, con 100.000 palme.

Ora potete vedere come, sotto l'impulso dell'urbanizzazione, gli spazi verdi e la vegetazione arretrano: è un problema che complica ulteriormente gli effetti della siccità e dei cambiamenti climatici.

Al contempo la domanda d'acqua sta crescendo. Nella slide, in rosso vedete Marrakech, che è già sotto stress idrico: in termini di risorse idriche sotterranee, ogni anno la falda, a causa dell'eccesso di sfruttamento, scende di un metro. Questo è pericolosissimo per il futuro e, nel contempo, oggi assistiamo ad un conflitto nell'ambito degli usi dell'acqua. Prima c'era un conflitto tra urbano e rurale, mentre oggi è all’interno della dimensione urbana che, a causa del turismo, emergono nuovi bisogni di lusso e nuovi conflitti sull’acqua.

Oggi, per esempio, per rispondere alle nuove esigenze, si programmano una decina di campi da golf in una città sahariana come Marrakech, dove la siccità è un elemento di fondo e dove solo grazie alla padronanza dell'acqua si è potuta creare la città e farne crescere i giardini.

In quella regione – come del resto in molte città del mondo, sia arabe, sia non arabe – c’è una popolazione di circa 3 milioni di abitanti. Benché la popolazione rurale sia di circa un milione di abitanti – con 136.000 famiglie rurali e 74.000 aziende agricole –, oggi le scelte si fanno fuori dalla campagna: i problemi della città si risolvono prelevando l’acqua che dovrebbe andare all'agricoltura e usandola per il golf. Siccome manca una società civile che tuteli questi contadini, si prende loro l’acqua senza problemi. Di conseguenza sorge il conflitto, che c'è in molti Paesi, sull’uso non agricolo dell'acqua destinata alla sussistenza, cioè a produrre le derrate agricole.

L'acqua per usi agricoli non va vista soltanto come un’acqua che produce cereali. C'è chi si chiede che bisogno ci sia di lavorare tutto l'anno, ora che, grazie al mercato, importiamo i cereali dall'estero, ma bisogna capire che l'ambiente contadino rurale tutela il paesaggio: come già ha mostrato il dottor Laureano, esso è un elemento fondamentale per lottare contro la desertificazione e impedire al deserto di risalire.

Oggi il Sahara, se non si coltivano le oasi, risalirà ancora. Tutti quei contadini e quei sahariani che lavorano per impedirlo dovrebbero avere la Legion d’Onore, perché, nonostante gli effetti climatici e nonostante la durezza della loro vita, sono sempre là e continuano a difendere il paesaggio.

Oggi, nei nostri Paesi, la scelta, la lotta è tra acque urbane ed acque agricole, ossia tra acqua dei campi da golf e acqua dei contadini.

In quest’immagine vedete bene come l'urbanizzazione si è accelerata a Marrakech, da dieci anni a questa parte: si vedono bene l'oliveto e gli edifici che spuntano.

Ecco cos’è l'urbanizzazione di oggi: la più grande tra le calamità esistenti per le nostre città, per i nostri Paesi. Il problema è come ottenere lo sviluppo e la crescita conservando il patrimonio culturale. Oggi abbiamo un retaggio importantissimo nei Paesi arabi e in nord Africa, nonché una cultura dell’acqua caratterizzata da saperi ancestrali, che sarebbe bello poter recuperare. 

Come ho detto, la rivoluzione tecnico-scientifica di oggi può essere un’importante leva per politiche di rinnovo e valorizzazione dell’ingegneria idrica. Prima di lanciarci in quest’impresa, però, occorre però fare un inventario delle risorse idriche esistenti in quei Paesi: bisogna far presto, perché il movimento va accelerandosi. 

Vivo a Marrakech da circa un quarto di secolo – da quando nacque la facoltà – e ho visto come si è evoluta la città. Ebbene, prima che i difensori del patrimonio culturale inizino a farsi sentire, il patrimonio è già sparito.

 

Questa mattina si è parlato di dialogo tra culture e di riavvicinamento tra le civiltà. Penso che, quando avremo bisogno di questa cultura, essa non ci sarà più, a meno che non facciamo presto nel fare l’inventario e far evolvere le normative, affinché un patrimonio come quello delle khettara – che rappresenta milioni di ore di lavoro, ma anche un grande patrimonio di ingegneria – sia difeso almeno come grande patrimonio nazionale. 

Non penso che possa realizzarsi lo sviluppo di Paesi come i nostri, i Paesi arabi, se non riusciamo ad avere una visione intelligente della tradizione del nostro patrimonio. Il nostro problema è che abbiamo lasciato la nostra tradizione e il nostro retaggio a degli analfabeti, che l’hanno così degradato che, poi, per gente più intelligente, è stato facile fare uso dell’Islam per insozzare l’immagine di questa civiltà che, secondo me, ha dato molto al Mediterraneo.

Non si può isolare l’Islam dall’occidente: l’Islam fa parte dell’occidente. Prendiamo un qualsiasi ambito delle scienze, della cultura, della musica, o della cultura culinaria: si trovano i punti di congiunzione e le passerelle tra le civiltà e, nonostante le guerre di religione, ci sono stati sempre prestiti e scambi tra civiltà e culture. Il problema per noi, oggi, nel Mediterraneo, sta nel ritrovare la lingua del dialogo e della coesistenza. 

Qui faccio una raccomandazione per l’anno venturo: lavoriamo soprattutto sui nostri sistemi educativi e scolastici. Nei miei lavori ho notato che ci sono gli storici delle scienze e delle tecniche da una parte, mentre il sistema educativo è dall’altra parte. Oggi, nonostante tutto quello che è stato scritto, nonostante le mostre sulle culture arabe fatte all’Istituto del mondo arabo qualche anno fa, onestamente non vedo tutto ciò tradotto nei manuali scolastici, tenuto conto che in fondo sono i ragazzi quelli su cui bisogna lavorare.

Se oggi c’è un lavoro da fare – e si può farlo, non è difficile – esso consiste nel tradurre tutte quelle realizzazioni o quelle storie che sono stato scritte, ovunque nel mondo, nei manuali scolastici, in modo da creare una generazione che non sia cresciuta tra i rumori degli scoppi delle bombe, ma che cresca invece nell’amore e nell’apertura verso gli altri.

Penso che questo potrà costituire l’alternativa rispetto al nostro tempo, che non è né migliore, né peggiore rispetto agli altri secoli, anche se oggi abbiamo la fortuna, con le nuove tecnologie, di poter recuperare un po’ il ritardo e di andare avanti in questo dialogo e in questa convivenza tra civiltà del Mediterraneo. Vi ringrazio.

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie a lei, professor El Faiz, per la sua presentazione molto interessante [interruzione audio]

 

FARKHANDA HASSAN, membro dell’Assemblea della Shura dell’Egitto. Grazie, presidente.

Mi rivolgo a voi in quanto membro dell’Assemblea consultiva dell’Egitto, la Shura, che è il secondo ramo del Parlamento egiziano. Sono direttamente interessata ai cambiamenti climatici dovuti alle alterazioni del clima, a cui dobbiamo far fronte. Gli aspetti da valutare sono diversi: ora abbiamo un bisogno urgente di un maggior numero di studi, e soprattutto di studi che siano in grado di tracciare degli scenari e delle alternative possibili per ognuna delle nostre regioni esposte al pericolo, nel Mediterraneo. Occorre tracciare delle politiche, delle strategie nazionali e regionali per reagire in base a queste alternative.

Quanto mi preme dire in questa nostra riunione è che i colleghi parlamentari debbono prestare la massima attenzione alla necessità di potenziamento delle risorse umane delle nostre società. Bisogna reagire ai cambiamenti climatici, che oramai sono una realtà: è impossibile tornare indietro, perché ormai il danno è stato fatto e non possiamo far altro che cercare di convivere con questa nuova realtà che ci è stata imposta.


La società umana deve adattarsi, il che vuol dire che, riguardo ai progetti delle infrastrutture, ci dobbiamo muovere – questo riguarda anche i Parlamenti – nell’ambito delle tecnologie; per esempio, per la tutela delle coste dobbiamo avere una gestione precisa delle risorse idriche.

Cosa possiamo fare, poi, riguardo alle ondate di caldo che colpiscono l'Europa? Sono stati fatti vari studi, tra i quali non c’è però, purtroppo, alcun nesso che ne renda fruibili i risultati, anche se vari aspetti si compenetrano e interagiscono. Essi hanno degli impatti sociali e politici e tutto questo rappresenta un ostacolo. Dobbiamo conoscere meglio e più da vicino questi problemi e, soprattutto, i fattori che rappresentano pressioni sociali, economiche, istituzionali e politiche. Tra essi ci sono la povertà, la mancata disponibilità e il mancato accesso all’acqua, la sicurezza alimentare, le guerre, i conflitti – come il caso della nostra regione del Medio Oriente – e gli effetti dirompenti della mondializzazione economica sui nostri Paesi. Non è possibile far fronte ai loro effetti negativi, se non attraverso un’unica visione d’insieme che contempli questi vari aspetti e queste varie dimensioni, per dare una risposta sensata complementare integrata: in questo entriamo in gioco noi parlamentari.  

Infine, signor Presidente, vorrei accennare alla questione dell’acqua.

L’acqua è la vita. Essa era sacra già nell’Egitto antico, laddove il Nilo era un fiume sacro. Questo è tuttora presente nel DNA degli egiziani, che valorizzano e salutano con favore la risoluzione storica del novembre 2006, presa dal Consiglio dei diritti umani, secondo cui il diritto all'acqua è uno dei diritti umani.

Sosteniamo e approviamo tutti gli sforzi tesi a ribadire l'uguaglianza totale, per quanto riguarda il diritto all'accesso all’acqua potabile, e siamo contrari a qualsiasi tentativo di privatizzazione delle risorse idriche o di imposizione di un prezzo. L’acqua non deve avere un prezzo. Il settore privato sta facendo dei tentativi per mettere le mani sulle risorse idriche nei Paesi in via di sviluppo. In quanto parlamentari, noi seguiamo l’operato del Governo, al quale vogliamo far comprendere che esso non è libero di prendere le misure che ritiene: ci opponiamo in maniera forte e chiara alla privatizzazione dell’acqua, che comporterebbe un danno notevole. Noi parlamentari dobbiamo seguire da vicino le politiche dei nostri Governi, con saggezza e con fermezza.

Dobbiamo seguire da vicino la politica dell’acqua, che deve consentire ad ogni cittadino di poter accedere a questa risorsa come a uno dei suoi diritti umani. Dobbiamo seguire anche le politiche economiche collegate all’acqua, affinché il costo dell’accesso ad essa sia alla portata del povero, prima che del ricco, nelle nostre società. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie. Do la parola all’onorevole Eduar Mecarbne della Siria 

 

EDUAR MECARBNE, membro dell’Assemblea del popolo della Siria.Grazie, signor presidente. Mi rivolgo a voi in qualità di membro dell’Assemblea del popolo della Siria.

Seguendo da vicino i cambiamenti climatici, questo punto è divenuto il primo nell’agenda dei lavori dei Paesi arabi e nel Mediterraneo. La responsabilità dei politici è grande, se non garantiscono l’accesso all’acqua, a sostegno dei progetti regionali MEDA. Noi chiediamo, pertanto, l’avviamento di nuovi programmi per l’acqua e il rafforzamento dei programmi precedenti, per fornire una maggiore garanzia della qualità e della varietà dei prodotti. Dobbiamo lavorare nella lotta contro la desertificazione e per garantire l’accesso all’acqua e il suo utilizzo razionale, con ricorso alle nuove tecnologie. Chiediamo all’Europa di aiutare i Paesi meno abbienti, affinché possano usufruire nel modo migliore delle loro risorse idriche. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all’onorevole Nicos Cleanthous di Cipro. 

 


NICOS CLEANTHOUS, membro del Vouli Antiprosopon di Cipro. Grazie, signor presidente.

Cari colleghi, la connessione tra i due fenomeni ambientali – quello del cambiamento climatico e quello della desertificazione – è purtroppo una realtà, nella regione mediterranea: essa rappresenta una delle crisi più gravi che l’intera umanità stia affrontando. Si tratta di sfide che esigono un’azione globale e collettiva. La progressiva diminuzione delle piogge, con effetti devastanti sulla vegetazione di superficie, sulle falde acquifere, sulla flora e sulla fauna, tutto questo è in connessione con il cambiamento climatico, il che comporta un progressivo aumento delle temperature, che arreca effetti ambientali disastrosi. I due fenomeni, insieme agli incendi disastrosi che abbiamo conosciuto nei mesi estivi, hanno deteriorato la situazione.

È essenziale che le nostre azioni, in tutti questi settori, siano combinate tra loro per ottenere i migliori risultati possibili. Devono essere elaborate molte misure ed iniziative collettive per raggiungere gli obiettivi definiti dai vari strumenti internazionali. Di essi fanno parte l’impegno assunto dai Paesi colpiti dall’avanzata del deserto africano verso i Paesi della sponda nord, soprattutto nell’area mediterranea. Il surriscaldamento del pianeta e la carenza di acqua piovana colpiscono non solo i Paesi già esposti a questo problema, ma ormai anche i nostri stessi Paesi del bacino mediterraneo.

L’accesso all'acqua dovrebbe essere consentito a tutti. La sopravvivenza e il benessere della nostra gente, nonché la prosperità delle nostre economie, dipendono dall’ottenibilità delle risorse naturali. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all’onorevole Omar Adkhil.

 

OMAR ADKHIL, membro della Camera dei consiglieri del Marocco e Vicepresidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie, presidente, nel nome di Allah il clemente e il misericordioso.

Oggi giorno molti Paesi in via di sviluppo vivono il problema drammatico dell'acqua, ma nel Maghreb i Paesi che confinano con il grande Sahara hanno il problema della siccità, perché ci sono poche piogge. Negli ultimi otto o nove anni, praticamente non c'è stata acqua, in questi Paesi, e pertanto in queste zone il primo problema è che non ci sono acque sotterranee sufficienti.

Non voglio dilungarmi e non è il caso di ripetere quanto hanno detto gli egregi professori prima di me, ma occorre tracciare una linea di condotta per il futuro immediato e per il futuro lontano, se vogliamo risolvere i problemi di questa nostra area. Grazie. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all'onorevole Salim Zaccur della Siria. 

 

MUHAMMAD SALIM ZACCUR, membro dell’Assemblea del popolo della Siria. Grazie, presidente. Ringrazio il professor Laureano e il signor El Faiz.

Noi tutti conosciamo bene l'importanza dell'acqua, per la vita, e l'importanza dell'albero, delle foreste. Ovviamente il nostro Mediterraneo paga un prezzo alto, per quanto riguarda la situazione difficile dopo i vasti incendi ed è pertanto importante un rimboschimento dopo gli incendi, soprattutto ricorrendo a specie più resistenti agli incendi.

Avrei una raccomandazione da rivolgere a questa riunione: occorre avviare un comitato scientifico che possa, in futuro, fare degli studi per diffondere il sapere disponibile, per un uso più razionale dell'acqua, per l'istituzione di un fondo che possa aiutare nella raccolta e nella conservazione dell'acqua piovana, in armonia con quanto detto prima il dottor El Faiz. 

 


TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie. Do la parola a Nicos Cleanthous per una breve integrazione.

 

NICOS CLEANTHOUS, membro del Vouli Antiprosopon di Cipro. Signor presidente, avevo chiesto la parola per errore. In realtà intendo intervenire sull’argomento successivo.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all’onorevole Guibal, della Francia.

 

JEAN CLAUDE GUIBAL, membro dell’Assemblea nazionale della Francia. Ho preso la parola semplicemente per dire che sono completamente d’accordo con quanto è stato detto dai precedenti oratori, tuttavia con alcune riserve. L’acqua è una fonte di vita. Come si può gestire una risorsa rara, con il prezzo o con i vincoli? Bisogna scegliere tra questi due modelli, il prezzo o i vincoli. E questo per rispondere alla prima oratrice, che era la rappresentante del Parlamento egiziano.

Per quanto riguarda il riscaldamento globale è difficile, anche se fondamentale, sapere qual è l'apporto della responsabilità umana nel riscaldamento globale, perché, per il resto, si sa bene che, da 13 miliardi di anni, cioè da quando la vita è comparsa sulla terra, ci sono state delle fasi di glaciazione, altre di riscaldamento, e che anche in epoche più recenti ci sono stati dei periodi di glaciazione.

Sappiamo pertanto che il clima della terra ha un proprio andamento, anche se oggi è fondamentale cercare di capire come possiamo adattarci a questa evoluzione e, allo stesso tempo, cercare di individuare qual è la responsabilità delle attività umane in questa evoluzione, sempre per poter adattare tale attività al cambiamento in corso, senza contribuire ulteriormente al riscaldamento climatico. 

Questo per dire che occorre essere estremamente prudenti e che occorre una grande volontà, ma senza eccedere nel catastrofismo passionale e appassionato, che non ci porterebbe a compiere le scelte più efficaci. 

Che sia causato per gran parte dall’attività umana o meno, il riscaldamento globale implica in ogni caso un reale cambiamento dei modelli di sviluppo, sia sul piano economico, sia su quello culturale. Quando ho detto che non bisogna eccedere con il catastrofismo è perché questa può essere un’occasione storica per riprendere alcuni metodi e pratiche di vita tradizionali, pur continuando ad utilizzare delle tecnologie moderne assolutamente utili. 

Mi scuso per aver fatto questa piccola irruzione e vi ringrazio. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie a lei. Do ora la parola alla signora Patrie del Parlamento europeo. 

 

BEATRICE PATRIE, delegata del Parlamento europeo. Grazie, signora presidente.

Dato il ritardo con cui sono arrivata, vi chiedo scusa se ripeterò qualcosa che è già stato detto, ma sarò comunque rapida. Volevo parlare appunto della questione dell’acqua. 

Per quanto mi riguarda, vorrei sottolineare la dimensione politica dell’acqua, della questione dell’appropriazione delle fonti e delle risorse idriche. Sappiamo che in alcune regioni, in particolare nel Medio Oriente, le risorse idriche sono una posta in gioco di tipo politico. Sul piccolo territorio di Sheba, senza voler aprire un difficile dibattito, sappiamo esserci alcune fonti che i Paesi rivieraschi ormai da anni sono in lotta per ottenere.

Sottolineo questo aspetto politico per cui la nostra Assemblea, in una dichiarazione, in una risoluzione o in un altro tipo di testo dovrebbe affermare che le risorse idriche non dovrebbero mai essere – so che forse è una dichiarazione un po’ eccessiva – oggetto di questioni politiche, in nessuna regione del mondo. 

 

L’altro aspetto che volevo sottolineare – non so se gli eminenti esperti ne hanno già parlato – è la questione dell’agricoltura. Perché ci sono alcuni tipi di agricoltura che sono estremamente dispendiosi. Quando si coltiva la banana, ad esempio, a volte senza reali necessità, come avviene in alcuni Paesi, si spreca moltissima acqua. Allo stesso modo, quando si danno alcune sovvenzioni, come nel caso dei Paesi dell’Europa che, per esempio, sovvenziona la cultura del mais, ebbene noi sappiamo che il mais, in alcune regioni, richiede un innaffiamento molto cospicuo, motivo per cui si spreca molta acqua. Ebbene, da entrambe le parti del Mediterraneo siamo dunque responsabili, sia che si tratti di banane, sia che si tratti di mais.

Per questo motivo, come Assemblea euro-mediterranea e come struttura euro-mediterranea noi dovremmo affermare dei princìpi orientativi anche nel campo agricolo. Sono dei problemi complessi, certamente, ma la gestione dell'acqua è legata anche alla gestione delle colture. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola all'onorevole Pasqualina Napolitano.

 

PASQUALINA NAPOLITANO, membro dell’APEM. Signor presidente, vorrei intervenire solo su un aspetto che non è stato analizzato, ma che è stato nominato adesso da Beatrice Patrie: si tratta di un aspetto che stiamo affrontando anche nell'Assemblea euro-latinoamericana e che riguarda l'uso dei bio-carburanti e delle monoculture messe in campo sia in America latina, sia in Africa, al fine della produzione di energia. Questo fenomeno va affrontato in modo serio.

È stato già fatto un lavoro dalle Nazioni Unite, che ha però messo in guardia dall’estendere a tappeto l’esperienza di queste colture. Ad occhio nudo, vedo senz’altro – mi collego al discorso della collega Patrie – che tutte queste coltivazioni necessitano di grandissima quantità d’acqua e, in secondo luogo, riportano l’Africa e alcuni altri Paesi dell'America latina, che dovrebbero essere aiutati in un diverso sviluppo, ad essere di nuovo condannati a monoculture che non serviranno mai a risolvere i problemi alimentari delle popolazioni, ma porteranno di nuovo a rifornire, attraverso questi nuovi carburanti, le auto del mondo sviluppato.

Credo che questo sia un elemento esplosivo. D’altra parte l'aumento del prezzo dei cereali, che già si sta affacciando sui mercati, è dovuto al fatto che questa politica su larga scala produce un aumento dei prezzi dei generi alimentari.

Credo che questa sia una questione politica e, nello stesso tempo, scientifica, molto seria che forse anche la nostra Assemblea dovrebbe approfondire, perché riguarda l’uso di una risorsa fondamentale quale l’acqua. È un discorso che si collega anche a quello delle diverse fonti energetiche, che sicuramente si sta facendo sia in Europa, sia in altre parti del mondo, ma anche a quello dei vari carburanti alternativi a quelli derivanti da materie prime fossili. La strada non può essere solo una, non può essere solo il nucleare o solamente la coltivazione.

Se i colleghi dei Paesi partner fossero interessati, sarebbe interessante approfondire questo aspetto, realizzando una ricerca, nella dimensione mediterranea, sulle fonti alternative di energia – anche legata all'uso della risorsa acqua – ed anche prevedendo una collaborazione, che potrebbe essere di grande interesse. 

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Non ci sono altre richieste di intervento in questa fase, ma io sono sicura che, nel momento in cui ci accingeremo a preparare una raccomandazione che tenga conto di questo dibattito, ci saranno sicuramente ulteriori contributi.

Ci stiamo avventurando,  oserei dire,  su di un terreno di cruciale importanza – e credo che sia molto opportuno farlo –  che è anche oggetto di grande attenzione, non solo da parte della nostra Assemblea. Penso al recente rapporto – lo dico all'onorevole Napolitano – dello svizzero Jean Ziegler alle Nazioni Unite, che ha sollevato questo problema.

Se siete d'accordo, chiuderei questa fase della nostra discussione.

 

La politica forestale mediterranea e la gestione degli incendi.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Passiamo al tema della politica forestale mediterranea e della gestione degli incendi.

Do la parola al dottor Jose Antonio Prado, Direttore della divisione della FAO per la gestione forestale, perché tenga la sua relazione, che dovrebbe avere una durata indicativa di circa dieci minuti. 

 

JOSE ANTONIO PRADO, Direttore della Divisione della FAO per la gestione forestale. Signor presidente, onorevoli parlamentari, è un grande onore essere ospite di questa autorevole Camera dei rappresentanti per parlare di un argomento così drammatico per noi e per il nostro ambiente. Di questo vorrei ringraziarvi, a nome mio personale e della FAO. Permettetemi di continuare il mio intervento utilizzando un’altra lingua, che mi è più familiare.

Come ogni estate, anche quest’anno gli incendi boschivi hanno provocato gravi danni ai Paesi dell’Europa meridionale, con la perdita di decine di vite umane e di circa 250.000 ettari di bosco andati in fumo soltanto in Grecia. Sfortunatamente, questa rappresenta solo una piccola tessera del mosaico, perché a livello globale, ogni anno circa 350 milioni di ettari vanno in fumo, compresa una proporzione significativa di foreste e di boschi. Stiamo parlando di circa 3 miliardi di ettari di foreste che sono state bruciate negli ultimi dieci anni.

Secondo uno studio della FAO, la regione più colpita è l’Africa subsahariana: questo dato allarmante comprende gli incendi appiccati intenzionalmente, per fini leciti, come ad esempio per le tecniche di coltura su terreno bruciato o i pascoli ottenuti per bruciatura. Alcuni ecosistemi, infatti, dipendono anche dal fuoco, quale componente vitale dei loro cicli di vita. Ciononostante, è stato dimostrato che la frequenza, la gravità e il numero di questi incendi distruttivi sono aumentati negli ultimi dieci anni; il cambiamento climatico dovrebbe ulteriormente aggravare la situazione negli anni a venire, anzi questo problema esiste già ora: l’impatto del cambiamento climatico è già evidente negli incendi boschivi.

A parte il costo economico e in vite umane, gli incendi distruttivi hanno un impatto ambientale terribile sulla diversità biologica, sui terreni e sulle acque, sulla capacità di immagazzinamento del carbonio, sui prodotti forestali, sull’ecoturismo e su altre funzioni ricreative delle foreste. Allo stesso tempo, producono enormi quantità di gas a effetto serra e contribuiscono così, in maniera significativa, al riscaldamento globale.

Secondo attuali stime, 5 miliardi di tonnellate di biomassa vanno bruciate ogni anno: esse rilasciano 3,5 miliardi di tonnellate di CO2 e di altri gas nell’aria.

La regione mediterranea partecipa notevolmente a questo problema globale, in quanto ogni anno più di 50.000 incendi bruciano da 600.000 a 800.000 ettari di boschi. Il numero di incendi e le aree danneggiate sono più che raddoppiati negli ultimi trent’anni.

Quest’anno è stata la volta della Grecia, mentre lo scorso anno sono stati colpiti Spagna e Portogallo. Purtroppo l’elenco è lungo, perché ogni Paese nel Mediterraneo ha sofferto le conseguenze di incendi devastanti, negli ultimi decenni. Tutto questo ha comportato enormi perdite sociali, economiche e ambientali. Ogni anno decine di persone perdono la loro vita e migliaia perdono casa, macchinari, animali. In molti casi, perdono i loro mezzi di sussistenza. Quindi, i costi economici per i Paesi si calcolano in miliardi di euro.

Gli incendi boschivi – riconosciuti come una componente dell’ecosistema mediterraneo – che in passatosi si verificavano solo talvolta, stanno invece diventando sempre più invasivi e gli ecosistemi non hanno il tempo o le capacità sufficienti per riprendersi.


 

Dopo incendi ripetuti, gli alberi dominanti, le querce o i pini, perdono e vengono sostituiti da una copertura vegetale di scarso valore, e in molti casi, la fase successiva, è la desertificazione, con enormi danni ambientali. A causa di questa situazione, molti ecosistemi mediterranei sono particolarmente a rischio.

Gli incendi boschivi nella zona del Mediterraneo sono in genere prodotti dalle attività umane: più del 95 per cento sono infatti provocati dall'uomo, con un alto tasso di intenzionalità. Alcuni Paesi indicano che un terzo dei loro incendi sono di natura dolosa. Le cause all'origine di questo problema, crescente e ricorrente, sono molto complesse e sono collegate ai profondi cambiamenti socio-economici ed a debolezze di tipo organizzativo, giuridico e politico. Come ha detto il professor El Faiz, del Marocco, negli ultimi decenni i Paesi del Mediterraneo hanno sperimentato, come anche l’Europa, dei profondi cambiamenti socio-economici, con un chiaro impatto sul loro panorama. Il mosaico tradizionale degli utilizzi delle terre – la maggior parte delle quali veniva coltivata – sta invece lasciando il posto a zone forestali non gestite, abbandonate, che facilitano la propagazione di ampi incendi.

Allo stesso tempo c'è una crescente presenza di visitatori nei boschi. Gli agricoltori stanno invecchiando, ma continuano ad utilizzare le tecniche tradizionali di gestione dei pascoli e dell'agricoltura, anche se le condizioni non sono più le stesse. C'è molta biomassa che si accumula e c'è poca gente che è in grado di reagire prontamente agli incendi.

La gente poi ha più risorse, c'è una maggiore richiesta di seconde case vicine alla natura – il professore ha parlato anche del golf – e tutto ciò provoca forti pressioni sui boschi e le foreste e anche un’interfaccia città-natura ad alto rischio.

Il cambiamento di destinazione d'uso è anche una causa importante degli incendi boschivi. D'altra parte, i Paesi mediterranei hanno sviluppato una forza notevole per combattere gli incendi boschivi. Ogni anno ben 50.000 pompieri e centinaia di aeroplani ed elicotteri vengono impiegati per spengere gli incendi ma, sfortunatamente, tutte queste risorse non sono sufficienti e infatti il problema sta chiaramente aumentando.

Dopo l'ondata devastante di incendi degli ultimi decenni i politici hanno concentrato gli sforzi sullo spegnimento degli incendi e quindi sull’acquisizione di flotte di aerei, elicotteri ed altre attrezzature, senza però considerare tutti gli elementi per una gestione integrata degli incendi boschivi. Molti Paesi, infatti, non hanno sviluppato delle strategie di prevenzione adeguate, delle politiche di comunicazione o dei sistemi di rilevamento. In altri casi esistono queste politiche, queste strategie, ma non c'è poi la capacità, o la volontà, di applicarle. I Paesi dovrebbero quindi cercare di sviluppare delle politiche, nella pianificazione della destinazione d'uso, per valutare i rischi di incendi e incoraggiare delle azioni, con il coinvolgimento delle comunità, soprattutto in questa interfaccia città-natura.

Ci vorrebbe anche una maggiore partecipazione coordinata, da parte delle amministrazioni pubbliche, delle autorità locali, degli agricoltori, dei proprietari terrieri, proprio per le attività di prevenzione degli incendi. Sono importanti anche gli aspetti organizzativi e legali, perché ci sono molti Paesi che devono rivedere le loro legislazioni e le loro strutture operative proprio in materia di incendi. Non voglio dare l’idea che la capacità di spegnere gli incendi non sia importante, perché lo è, ma quanto devono spendere i Paesi, per controllare il problema sul fronte dello spegnimento? I Paesi mediterranei spendono miliardi di euro ogni anno, ma i risultati dimostrano che non si tratta di una buona strategia. Di conseguenza, i vari Paesi devono cambiare le loro strategie, in modo da avere una distribuzione più bilanciata degli sforzi e delle risorse nel processo di gestione degli incendi. 


In breve, è importante combattere gli incendi – e la cooperazione internazionale può servire a minimizzare i danni – però la prevenzione degli incendi, ossia agire prima che essi scoppino, è il modo migliore per proteggere i mezzi di sussistenza e l’ambiente. Considerando che la causa principale degli incendi è l’uomo, è evidente che sono necessari maggiori investimenti nelle campagne di sensibilizzazione e nello sviluppo di approcci che prevedano il coinvolgimento della comunità per la gestione degli incendi. 

Per concludere, vorrei parlarvi brevemente del lavoro della FAO in relazione agli incendi boschivi. Negli ultimi due anni la FAO, in collaborazione con i Paesi e altri partner internazionali, ha sviluppato una strategia internazionale di gestione degli incendi, per accrescere la cooperazione, diffondere le conoscenze e aumentare l’accesso alle informazioni e alle risorse. 

La strategia comprende delle linee-guida volontarie, riconosciute a livello mondiale, per la gestione degli incendi. Queste linee-guida sono state preparate da un’ampia gamma di partecipanti di tutte le regioni. Nel maggio 2007, a Siviglia, è stata lanciata anche l’alleanza per la gestione degli incendi, affinché queste linee guida potessero entrare in azione a livello nazionale e locale, in modo da poter aumentare la cooperazione internazionale nella gestione degli incendi. La FAO invita tutte le organizzazioni mediterranee che si interessano degli incendi boschivi ad unirsi a questa iniziativa. 

La FAO sta anche sviluppando le capacità, a livello regionale e nazionale, nel settore delle strategie per combattere gli incendi, per la sensibilizzazione pubblica, per la formazione dei pompieri e per favorire la gestione degli incendi con il coinvolgimento delle comunità. Stiamo promuovendo anche dei piani di gestione degli incendi transfrontalieri per i Paesi africani, che sono particolarmente a rischio.

Un programma simile è stato sviluppato anche per l’America latina, laddove la maggior parte dei Paesi si sono uniti a quest’iniziativa, soprattutto per la prevenzione degli incendi transfrontalieri.

Queste iniziative, però, possono essere considerate solo dei primi passi in quella che dovrebbe essere una risposta globale al crescente rischio di incendi che molti Paesi nel mondo stanno affrontando. Le foreste sono troppo importanti per la sopravvivenza del pianeta: per questo motivo possiamo e dobbiamo agire subito per prevenire e mettere fine alla minaccia globale costituita dagli incendi boschivi. Grazie.

 

(Applausi)

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio, dottor Prado.

Do ora la parola all’onorevole Eduar Mecarbne della Siria.

 

EDUAR MECARBNE, membro dell’Assemblea del popolo della Siria. Grazie, presidente.

Per quanto concerne le politiche dei Paesi mediterranei riguardo all’aumento delle superfici verdi e delle superfici forestali, c’è un problema, perché non c'è collaborazione tra i Paesi del nord e quelli del sud. I Paesi europei mediterranei cercano di domare gli incendi, mentre nei nostri Paesi noi non riusciamo a farlo: sarebbe bene avere dei centri regionali di lotta contro gli incendi.

È importante aumentare il numero di borse di studio e di scambi nell’instaurare un simile programma,  cui guardano con molte speranze i nostri giovani in Siria.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Non ci sono altri iscritti a parlare in questa fase.

Do quindi la parola al dottor Prado per un’integrazione del suo intervento.  


 

JOSE ANTONIO PRADO, Direttore della Divisione della FAO per la gestione forestale. Signora presidente, vorrei soltanto fare un piccolo commento su quanto è stato detto dal rappresentante della Siria. La FAO, con il sostegno della cooperazione italiana, ha dato avvio ad un progetto importante, proprio in Siria, nel campo della gestione degli incendi; speriamo che questo possa dare un contributo per potenziare le tecniche nel campo della gestione degli incendi, nei prossimi anni.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Prima di passare all’ultimo punto all’ordine del giorno, che riguarda l’attuazione al programma Horizon 2020, ricordo ai presenti che l’inclusione di questo tema nella nostra discussione fu chiesto della presidenza della nostra Assemblea, che ci ha così investito di una richiesta pesante, ossia di affrontare una discussione sulla lotta agli incendi, oltre ad un semplice discorso di repressione degli incendi, ma soprattutto ad una visione eco o socio-sistemica di questo fenomeno.

Come ha detto il dottor Prado, nella situazione in cui certe tradizioni di gestione del fuoco vengono portate avanti, il contesto ambientale e sociale non è più quello di prima e pertanto certe tecniche, che potevano essere sostenibili in un contesto di forte presenza demografica e con maggiori precipitazioni, non lo sono più nel contesto attuale. Pertanto la questione ha una valenza molto collegata ai due primi interventi di oggi. 

 

Attuazione data al programma “Horizon 2020” per il Mare Mediterraneo.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Passiamo al punto riguardante l’attuazione data al programma “Horizon 2020” per il Mare Mediterraneo.

Prima di dare la parola ai nostri due rapporteur circa la questione della protezione dell’ambiente marino, specifico che affrontiamo questo argomento in seguito ad una discussione, già partita un anno fa,  in seguito al disastro ambientale causato dal bombardamento di depositi di carburante nella guerra in Libano: chiediamo maggiore attenzione, da parte della nostra Assemblea, alla necessità della cooperazione mediterranea nella protezione del mare, un argomento ripreso dalla Conferenza dei ministri dell’ambiente al Cairo, che ha avuto l’approvazione da parte della Commissione europea e del programma Horizon 2020

Per dar seguito all’attenzione della nostra Assemblea a questi temi, abbiamo nominato due relatori: l’onorevole Ibtsam Mikhail e l’onorevole Carlos Carnero Gonzalez.

Do la parola all’onorevole Ibtsam Mikhail. 

 

IBTSAM MIKHAIL, membro dell’Assemblea del Popolo dell’Egitto. Signora presidente, la ringrazio per avermi scelto, quale membro rappresentativo dell’Assemblea del popolo d’Egitto, e con il collega del Parlamento europeo, il dottor Carnero, come relatore su questo argomento davvero importante.

 Anche a seguito di tutti gli interventi che abbiamo ascoltato, siamo ben consapevoli che i cambiamenti climatici rappresentano uno dei fattori più importanti nella crescita o nella scomparsa delle civiltà, perché, a seconda di quali siano le condizioni ambientali, tali cambiamenti possono diventare favorevoli alla vita – a quel punto la civiltà progredisce e cresce – oppure diventare negativi ed avere un effetto dirompente, come la scomparsa della civiltà. Nel mondo, più del 60 per cento delle catastrofi naturali derivano dai cambiamenti climatici: penso a esondazioni, siccità e desertificazione. Per il XXI secolo i Governi debbono edificare delle capacità difensive, per reagire di fronte alle catastrofi ambientali, non più…


 

[interruzione audio dovuta a problemi tecnici. Segue il coffee break]

 

La seduta, sospesa alle ore 17,10, riprende alle ore 17,40.

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Cari colleghi, il sistema audio è stato ripristinato e possiamo pertanto riprendere i nostri lavori nel punto in cui siamo stati interrotti.

Do nuovamente la parola all’onorevole Ibtsam Mikhail affinché continui la sua relazione.

 

IBTSAM MIKHAIL, membro dell’Assemblea del popolo dell’Egitto. Signore e signori, le questioni ambientali svolgono un ruolo importante, per quanto riguarda la collaborazione euro-mediterranea. A dimostrazione di ciò si sono tenute varie conferenze dei ministri dell'ambiente, che hanno dato luogo alla Dichiarazione di Barcellona nel 1995.

La prima conferenza si è tenuta ad Helsinki nel 1997, per avviare il programma regionale Euromed per l'ambiente (SMAP). La seconda conferenza si è tenuta nel 2002, ad Atene, per avviare una strategia euro-mediterranea e dare una dimensione ambientale alla cooperazione regionale. Il Cairo è stato onorato dalla terza conferenza, che si è tenuta il 20 novembre dell'anno scorso e che ha avviato il piano di lavoro o l’iniziativa nota come Horizon 2020, per i prossimi cinque anni.

Questa iniziativa è davvero il primo passo per liberare la regione euro-mediterranea dalle varie forme di inquinamento.

[ nuova interruzione dovuta a problemi tecnici]

 

TANA DE ZULUETA, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Signore e signori, è con vivo rammarico che vi informo che siamo costretti, per cause tecniche concernenti il sistema elettrico, a interrompere a questo punto il nostro incontro odierno.

Con l'occasione vi informo che torneremo ad incontrarci domani mattina alle ore 8,15, riprendendo i nostri lavori dall'intervento di Ibtsam Mikhail.

 

La seduta termina alle ore 17,45.

 


 

La seduta inizia alle ore 8,35.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Questa mattina – Inshallah – il sistema, essendo stato potenziato, non dovrebbe dare problemi.

Siccome l’onorevole Carlos Carnero non è ancora arrivato, proporrei alla signora Ibtsam Mikhail di chiudere la relazione che aveva iniziato ieri sera, nella speranza che nel frattempo arrivi l’altro relatore. Nel caso non dovesse arrivare, procederemo con gli altri due punti all’ordine del giorno, riguardanti il Parlamento euro-mediterraneo dei giovani e le proposte per la definizione di un logo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea (APEM). 

Do la parola all’onorevole Ibtsam Mikhail. 

 

IBTSAM MIKHAIL, Assemblea del Popolo d’Egitto. Signore e signori, concluderò il discorso avviato ieri sera, sperando che non ci siano ulteriori interruzioni di corrente. Forse i propositi erano troppo forti e duri. 

Il 20 novembre scorso la città del Cairo ha ospitato la terza Conferenza per l’ambiente, che si è avviata con l’approvazione del piano Horizon 2020 per i prossimi cinque anni. Questa iniziativa è da considerarsi come il primo passo per attuare il nostro scopo di liberare il Mediterraneo dalle varie forme di inquinamento, in quanto consentirà di lanciare progetti concreti. Questo piano rappresenta anche una parte importante della politica dell’Unione Europea per risolvere le questioni ambientali del Mediterraneo. 

Si tratta di un’iniziativa creata in collaborazione con le organizzazioni internazionali, le ONG e gli istituti finanziari internazionali; essa, d’altro canto, cerca di relazionarsi con le mancanze e le lacune manifestatesi nei tentativi passati di tutela del Mediterraneo, per quanto riguarda le varie forme di aggressione all’ambiente. Questa è stata dunque, finora, l’iniziativa più completa nel settore. 

Gli studi internazionali dimostrano che la regione mediterranea sarà quella che maggiormente risentirà dell’aumento della temperatura nel XXI secolo; questo fenomeno, accanto alla riduzione delle piogge, porterà ad una grandissima carenza di acqua. Gli studi hanno indicato che si avranno siccità ciclica, ondate di incendi di foreste e un cambiamento nella flora naturale delle varie zone, con una grave perdita nel settore agricolo; essi hanno anche dimostrato che tra il 14 e il 38 per cento degli abitanti del Mediterraneo vivono in aree che risentiranno di una grandissima carenza d’acqua che, a sua volta, inciderà sull’irrigazione e sull’agricoltura. Concorderete con me sul fatto che uno degli effetti più dirompenti dei cambiamenti climatici, sul piano mondiale, sarà la ridotta disponibilità di acqua causata del surriscaldamento e dallo scioglimento dei ghiacciai, che necessariamente inciderà sulla quantità di acqua potabile disponibile pro capite. Considerato che l’acqua è un prodotto vitale per l’essere umano ed è un importante elemento costituente delle sue attività, dobbiamo renderci conto che ciò comporterà la necessità di rivedere tutta la nostra pianificazione futura.

Questo effetto inciderà persino sui conflitti. Sapete molto bene quante guerre sono state causate dall’acqua, che invece non deve diventare una carta politica: sapete molto bene come per l’acqua, in passato, sono state combattute molte guerre, alcune civiltà sono scomparse e delle tribù nomadi si sono spostate, causando ulteriori guerre con i loro spostamenti.


Considerato tutto questo, dobbiamo lavorare mano nella mano per garantire una disponibilità minima di acqua potabile per i nostri popoli; facendolo, tuteleremo anche i nostri mari e i nostri fiumi, e lotteremo contro l’erosione e contro gli incendi delle foreste. Tutto questo richiede un impegno comune preventivo, anche per proteggere la nostra regione dagli effetti dirompenti che porteranno i cambiamenti climatici; è dunque importante che ci sia una cooperazione per limitarne l’impatto. 

In secondo luogo, occorre che ogni Stato mediterraneo cominci a varare delle leggi speciali che tutelino l’ambiente dall’inquinamento – dell’aria, del suolo e dell’acqua – risultante dai cambiamenti climatici. Tutto questo non sarà possibile se non forniremo delle garanzie per attuare questi scopi: in questo sta il nostro ruolo in quanto parlamentari, quando legiferiamo per garantire la sicurezza e la stabilità nel bacino mediterraneo.

Parlando di cambiamenti climatici, vorrei accennare brevissimamente agli sforzi dell’Egitto in questo ambito. Da molto tempo l’Egitto si è impegnato in questa lotta: abbiamo avviato molti studi e molte ricerche e nel 1982 abbiamo creato l’Istituto per gli affari ambientali e per i cambiamenti climatici. L’Egitto è stato inoltre protagonista della convenzioni onusiana sul clima del 5 giugno 1992 ed ha quindi cercato di essere all’altezza delle proprie responsabilità.

Il fenomeno dei cambiamenti climatici comporta dei pericoli ed ha ormai surclassato gli altri problemi ambientali, superando i confini dei Paesi ed essendo ormai diventato un problema mondiale. In base al rapporto del panel intergovernativo sui cambiamenti climatici tenutosi nel 1995, l’Egitto è uno dei Paesi che pagano il tributo più alto a causa dei cambiamenti climatici. Da quella data l’Egitto è diventato, in questo settore, uno dei protagonisti più attivi sulla scena araba e sulla scena africana. Sono stati firmati molti accordi e molti protocolli attinenti la tutela dell’ambiente, in generale, e del Mediterraneo, in particolare, ma l’iniziativa Horizon 2020 – con i suoi scopi ben precisi, con un piano di lavoro articolato e con un’agenda temporale accurata – rappresenta un nuovo inizio, ossia il passo nella direzione giusta a sostegno del partenariato euro-mediterraneo per quanto riguarda l’ambiente nel Mediterraneo. 

La dichiarazione del Cairo che è stata pubblicata a seguito della terza Conferenza ministeriale per l’ambiente ha dunque creato un meccanismo particolare per attuare tutto questo: i finanziamenti sono forniti anche attraverso una compartecipazione dei Paesi coinvolti, oltre che dalla Banca europea di investimenti e dalla Banca mondiale. Sono inoltre stati stabiliti dei progetti ambientali che hanno la precedenza su altri e che contemplano anche la partecipazione di ONG della società civile e degli imprenditori. 

Vorrei accennare al ruolo della comunità internazionale e al ruolo dell’Egitto nel fornire il sostegno finanziario e tecnico, importante per accrescere e aumentare il ruolo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Questi sforzi devono essere implementati monitorando i successivi cambiamenti climatici, ovvero devono essere prese le misure necessarie per interagire con gli effetti verificati nel tempo.

In terzo luogo, è necessario facilitare l’attuazione dei progetti di ricerca comuni con i Paesi più avanzati per quanto riguarda la lotta ai cambiamenti climatici e per porre fine ai loro effetti.

Infine, si deve imparare dalla collaborazione con le organizzazioni internazionali e trarre profitto dal sostegno internazionale per quanto riguarda le reazioni da avere anche sul piano interno, in ognuno dei Paesi coinvolti.

Concludendo, mi preme accennare al nostro compito nella lotta contro questo pericolo incombente, a seguito dei cambiamenti climatici, soprattutto nella nostra regione mediterranea. Questo richiede a noi tutti una collaborazione per limitare gli effetti e per cercare di creare un ambiente sano, una vita dignitosa per i nostri popoli, cosa che non è possibile senza rispondere alle minime esigenze di acqua potabile per tutti. Spero che questa riunione porti dei frutti positivi.


 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola al nostro secondo relatore in tema di protezione del mar Mediterraneo, in particolare del programma Horizon 2020, l’onorevole Carlos Carnero, membro del Parlamento europeo.

 

CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Grazie, presidente. Prima di tutto, vorrei complimentarmi con la Camera dei Deputati e con il Senato per aver organizzato così bene questa riunione della commissione cultura a Roma. Vorrei inoltre sottolineare il mio accordo con tutto quello che ha detto la mia co-rapporteur, la signora Mikhail.

Credo che se c’è una cosa che tutti abbiamo in comune nel Mediterraneo, questa è la lotta per preservare il nostro ambiente e per salvare il pianeta. È evidente che tale questione stabilisce un rapporto diretto fra il piano multilaterale e quello bilaterale, non solamente per quanto riguarda l’inquinamento del mare e delle coste, ma anche in materia di lotta contro la povertà e in merito alla necessità di stabilire un welfare state che consenta uno sviluppo sostenibile, che ancora non esiste nel Mediterraneo. Dobbiamo, infatti, essere chiari: la situazione dell’ambiente e l’inquinamento della nostra regione hanno un rapporto diretto con la povertà e con la carenza di sviluppo.

Ci si potrebbe chiedere se, prima del 2005, il processo di Barcellona abbia realizzato ciò che avrebbe dovuto realizzare per quanto riguarda l’ambiente: era in atto un processo complessivo di lotta contro l’inquinamento e per preservare l’ambiente? Credo che la risposta sia assolutamente negativa, con riferimento al periodo precedente al 2005. Sono stati realizzati molto interventi, ma per quanto riguarda l’ambiente, l’insufficienza era evidente.

Se, viceversa, ponessi la stessa domanda per quanto riguarda il periodo successivo al 2005, la risposta sarebbe affermativa, a dimostrazione della nostra capacità di approfondimento politico e di ampliamento del raggio di azione, che si sono manifestate dopo l’adozione del programma Horizon2020, nel corso del summit straordinario di Barcellona nel 2005, avvenuto a seguito di una comunicazione della Commissione e anche di una dichiarazione di un piano di lavoro del Consiglio euro-mediterraneo, che aveva tenuto la sua riunione al Cairo.

Adesso abbiamo questa prova della capacità del processo di Barcellona di sviluppare se stesso, per quanto riguarda un nuovo capitolo, importantissimo sia per il nord, sia per il sud, non solo per la regione mediterranea, ma anche per tutti i Paesi che hanno assunto la lotta contro il cambiamento climatico come una priorità assoluta dei politici e delle democrazie.

Credo che siamo giunti ad un punto molto interessante, perché nel 2005 abbiamo fissato l’iniziativa Horizon 2020 ed ora abbiamo avuto una decisione del Consiglio Euromed ed anche una comunicazione della Commissione. Siamo cioè alla vigilia dell’inizio vero e proprio di questo lavoro: il 2008 sarà un anno chiave per vedere se Horizon 2020 andrà avanti o meno, se cioè saremo capaci di agire per raggiungere tutti gli obiettivi già fissati e per superarli. Abbiamo anche strumenti come lo steering committee, che ha tenuto la sua prima riunione nel mese di giugno di quest’anno.

Horizon 2020 identifica quattro grandi azioni e tre problemi essenziali; questi ultimi sono i rifiuti urbani, l’acqua non potabile e le emissioni industriali, e sono responsabili dell’80 per cento dell’inquinamento del Mediterraneo.

Si pone però la questione se sia sufficiente lottare contro questi problemi o se invece ve ne siano altri più importanti. Ovviamente, credo che ve ne siano di più importanti, che ancora non sono stati inclusi in Horizon 2020; esso, per esempio, non comprende un obiettivo chiaro per quanto riguarda uno dei problemi più importanti che abbiamo sulle coste del Mediterraneo, legato alla salvaguardia dell’ambiente, ossia quello dell’urbanizzazione selvaggia, del wild housing. Occorre essere chiari: una quantità straordinariamente grande delle nostre coste è urbanizzata in maniera selvaggia e inaccettabile. Si pensi che il 90 per cento delle coste del Mediterraneo è edificato.


Due giorni fa, ad esempio, il Governo spagnolo ha annunciato il suo sforzo nel fare un cleaning up del wild housing su 700 chilometri della costa spagnola. Questo fenomeno è direttamente legato all’inesistenza di un modello di sviluppo sostenibile ed anche di un modello di turismo sostenibile. Non bisogna dimenticare che il turismo è oggi, nel Mediterraneo, uno dei settori economici più importanti: esso deve svilupparsi, ma ovviamente sempre in maniera sostenibile.

Accanto a questi tre problemi identificati da Horizon 2020, bisognerebbe, allora, introdurne altri. Ho già parlato del progetto di deurbanizzazione delle coste. Aggiungo la questione del trasporto marino di olio o sostanze a rischio o, addirittura, inquinanti.

C’è poi un’altra cosa che mi sembra centrale: abbiamo identificato problemi, misure e obiettivi generali, ma non abbiamo ancora identificato i target quantitativi per lavorare. Penso, ad esempio, a quanto è stato scritto nella comunicazione della Commissione europea, dove si fa riferimento solo al raggiungimento di un buono status ambientale. Se non esplichiamo questa definizione, perderemo di vista quello che si deve realizzare davvero.

Allo stesso tempo, bisogna dire anche che siamo ancora nella prima fase di Horizon 2020: occorre lottare contro tutti i problemi che sono stati citati fino ad ora, certo, ma essi sono parte di una problematica complessiva più importante, riguardante sia il cambiamento climatico, sia il mantenimento della biodiversità. Il Mediterraneo è coinvolto nei fenomeni connessi al cambiamento climatico, ma fino ad adesso non ha avuto la capacità di agire per contrastarlo.

Le conseguenze del cambiamento climatico sono assolutamente certe nel Mediterraneo e solo politici irrazionali e irresponsabili possono dire che il cambiamento climatico non rappresenta la priorità. Qualche giorno fa ho sentito una persona, nel mio Paese, che affermava questo. È incredibile! L’aumento della temperatura, la desertificazione, gli incendi sono così importanti nel Mediterraneo che la presenza del cambiamento climatico è evidente.

Che cosa dobbiamo fare, allora, per affrontare questa situazione e per sviluppare Horizon 2020? Abbiamo la comunicazione della Commissione e abbiamo definito gli obiettivi, ma non solo. Abbiamo, ad esempio, la Convenzione di Barcellona. È necessario che la nostra commissione faccia un appello chiaro e forte a quei Paesi che ancora non l’hanno ratificata, poiché che, ad oggi, solo due degli strumenti giuridici da essa previsti sono entrati in vigore, il che è inaccettabile .

È certamente positivo che l’Unione Europea, nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo, svolga questo lavoro con i propri partner: andiamo pure ad investire, andiamo a lavorare; tuttavia, bisogna avere anche senso di responsabilità, lo dico chiaramente: non si può accettare oltre che da parte di certi Paesi non sia ancora stata ratificata la Convenzione di Barcellona. Bisogna farlo subito! 

Questo concerne l’attuazione pubblica, legata agli strumenti di Horizon 2020 connessi alla capacità di agire. Trovo che le attività previste da Horizon 2020 siano corrette: si tratta di progetti per ridurre le emissioni più significative di inquinamento (le emissioni industriali, i rifiuti urbani e tutte quelle altre forme che rappresentano l’80 per cento dell’inquinamento del Mediterraneo); per sviluppare la capacità delle amministrazioni locali di mettere a punto politiche ambientali; per varare leggi ambientali a livello nazionale; per impiegare gli studi della Commissione in merito ai temi ambientali nel Mediterraneo e mettere a punto degli indicatori per controllare il conseguimento degli obiettivi di Horizon 2020.

C’è la necessità di stabilire obiettivi quantitativi, benchmarking, per sapere dove si deve arrivare; e di delineare progetti – bilaterali o multilaterali – rapportati direttamente al welfare state, alla sua costruzione (laddove esso non esista) e ai servizi pubblici essenziali come, ad esempio, l’acqua. 

Un’altra questione che si pone è se il finanziamento di Horizon 2020 sia sufficiente. Non lo so, ma credo sinceramente di no: bisognerebbe incrementarlo, sia per via diretta (Unione Europea e partner), ma anche per mezzo di altri agenti che possano partecipare in questo senso. 


In ogni caso, credo che, dovendosi tenere ora un incontro dello steering group, che ha tenuto la sua prima riunione a giugno, si potrebbe chiedere che esso sia aperto anche alla presidenza di questa commissione. Credo che lei, presidente, dovrebbe essere invitata a partecipare, nella maniera più conveniente, ai lavori di questo steering group. Bisogna rendere accessibile anche ai Parlamenti il lavoro svolto dai Governi, poiché questi ultimi sono i responsabili della ratifica della Convenzione di Barcellona e anche di fare quelle leggi che saranno assolutamente necessarie per dare una reale influenza e presenza a Horizon 2020. 

Per questo motivo, credo che il lavoro di questa commissione per quanto riguarda Horizon 2020 dovrebbe essere svolto in due tappe. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla comunicazione della Commissione europea concernente la riunione della Conferenza euro-mediterranea che si terrà a Lisbona il 5 e 6 novembre prossimi. Ebbene, ai punti 26) e 27) si parla chiaramente di Horizon 2020, specificando che il 2008 sarà assolutamente l’anno chiave per questo progetto, anche dicendo che sotto la presidenza francese dell’Unione si terrà una riunione dei ministri euro-mediterranei sulla questione dell’acqua.

Se il 2008 sarà un anno chiave, si potrebbe attendere l’Assemblea plenaria che si terrà in Grecia a marzo per fare una valutazione più approfondita di Horizon 2020, attuando anche una sottolineatura degli obiettivi che noi parlamentari consideriamo più importanti; in seguito, nell’assemblea che si terrà nel 2009, potremmo dare una valutazione finale, considerando l’esperienza di Horizon 2020 con riferimento al 2007 e soprattutto al 2008, evidenziando alcune raccomandazioni in considerazione dell’esperienza acquisita. 

Questo è il mio messaggio politico, signora presidente; mi fermo qui.

Per la prima volta, il partenariato euro-mediterraneo ha uno strumento chiaro per lottare in favore dell’ambiente e ciò costituisce una prova evidente che il partenariato euro-mediterraneo non è morto. Esso ha, certo, delle insufficienze, ma ha anche la capacità di sviluppare se stesso facendo fronte ai problemi dei cittadini come quello dell’ambiente nel Mediterraneo.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie, onorevole Carnero.

Credo che adesso sia del tutto chiaro a questa commissione il motivo per cui è importante ed innovativo il nostro coinvolgimento nel seguito e nel monitoraggio di questo nuovo strumento. Credo sia particolarmente importante che ciò avvenga in un’assemblea in cui sono rappresentati praticamente tutti i Paesi rivieraschi del Mediterraneo e non solo quelli dell’Unione Europea, perché se questo strumento avrà efficacia, questo avverrà nella misura in cui riusciremo a coinvolgere tutti e ad essere tutti partecipi.

Credo che alcuni eventi recenti – ne cito uno, che è venuto all’attenzione della nostra assemblea: il danno fortissimo all’ambiente marittimo del Libano causato dal bombardamento dei depositi di carburante – abbiano risvegliato l’attenzione dei legislatori e dell’opinione pubblica su quanto sia importante una cooperazione internazionale nella protezione della nostra risorsa marittima.

Do ora la parola al primo iscritto a parlare, l’onorevole Mecarbne della Siria. 

 

EDUAR MECARBNE, Assemblea del Popolo della Siria. Grazie, presidente.

L’iniziativa Horizon 2020 è ancora lontana dalle sponde orientali del Mediterraneo, perché le istituzioni finanziarie e internazionali e le autorità siriane non hanno ricevuto alcun aiuto per discutere le questioni ambientali che minacciano le coste siriane, come le acque reflue, che rappresentano una fonte grave di inquinamento.

Chiediamo o auspichiamo che l’agenda temporale includa anche le coste siriane nella prima tranche dell’iniziativa, ossia per la prima tappa fino al 2013. Grazie. 


 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Su questo punto, onorevole Carnero, lei ha informazioni che possono essere utili al nostro collega della Siria? In caso contrario ci aggiorniamo a quando saremo in grado di rispondere a questa sollecitazione. 

 

CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Quello che posso dire è che credo che la Siria sia coinvolta, come tutti i Paesi partner, nell’Horizon 2020. Come ho detto, per quanto riguarda il finanziamento, esso ovviamente non è sufficiente: si è parlato di una quantità importante di risorse, che però non è al livello dell’entità del problema ambientale nel Mediterraneo. Si dovrebbe, inoltre, essere in grado di ottenere altri contributi dalle istituzioni internazionali e si dovrebbe chiedere alla Banca europea per gli investimenti di fare tutto il necessario per procedere con il finanziamento di questa iniziativa.

Credo che nessun Paese possa essere estromesso da questa iniziativa, per quanto riguarda sia il finanziamento, sia la decisione politica; se c’è qualche problema per quanto riguarda la partecipazione della Siria, occorre confermare che la Siria fa parte di questa regione, che essa è coinvolta nel problema dell’inquinamento ambientale e che – non va dimenticato – la Siria si trova accanto al Libano, della cui catastrofe ecologica si è parlato in precedenza.

Il Segretariato mi fa giungere una nota nella quale mi dà il suo consenso in merito ai progetti specificatamente finanziati per la Siria: questo mi ha detto il Segretariato ed io ve lo riferisco. C’è però, soprattutto, il messaggio politico di solidarietà, per cui nessuno, per nessuna ragione politica, può essere escluso da questo finanziamento e dal progetto Horizon 2020.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola all’onorevole Mikhail per una replica.

 

IBTSAM MIKHAIL, Assemblea del Popolo d’Egitto. Grazie, presidente.

In risposta alla sollecitazione del collega, vorrei dire che la Siria ha firmato l’accordo Horizon 2020, per cui è suo diritto trarre giovamento e profitto da quanto prevede questo accordo.

Avrei una proposta. Ora è possibile, per i vari Paesi, far partecipare partner non governativi e non ufficiali, come imprenditori ed espressioni della società civile, attraverso la creazione di un’unità per questi due settori, che possono lavorare con la Commissione europea per l’ambiente, la quale può fare tesoro del loro contributo. Soprattutto il finanziamento è molto importante, a questo riguardo.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. In effetti, tra i punti elencati dalla Commissione, vi è appunto il coinvolgimento delle organizzazioni non governative. Proprio in Libano abbiamo avuto un esempio concreto del loro coinvolgimento attivo, che è stato molto importante ed efficace, sia nella fase di presa di conoscenza dell’ampiezza del disastro, sia nella fase di recupero dell’ambiente marino. Questo è pertanto un punto importante.

Penso che la Commissione non avrà difficoltà ad integrare le indicazioni dei nostri relatori, anche per quanto riguarda l’organizzazione temporale del lavoro, su cui la Commissione può intervenire anzitutto con una prima indicazione nella raccomandazione di marzo, cui poi dare un seguito, considerato che questo progetto Horizon 2020 è solo all’inizio.


Credo che sarebbe importante anche tentare di dare seguito all’ipotesi di una partecipazione parlamentare allo steering group, a cui lei ha fatto cenno; aggiungerei che, forse, una delle cose che mancano alla Commissione europea – una segnalazione in merito era stata fatta a questa commissione l’anno scorso – sono gli strumenti di valutazione, ossia una vera conoscenza dello stato di salute del Mediterraneo. A questo fine, noi possiamo forse tentare di capire quello che manca e quello che potrebbe essere rafforzato in termini di istituti di ricerca e di monitoraggio.

Do nuovamente la parola all’onorevole Carnero.

 

CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Mi scuso, signora presidente, vorrei intervenire di nuovo brevemente per proporre una questione che ho tralasciato nel mio primo intervento.

Considerato che redigeremo un rapporto in due tappe, potremmo organizzare, fra marzo 2008 e marzo 2009, una riunione specifica di questa commissione che preveda un’audizione di esperti di Horizon 2020 per quanto riguarda i punti rimasti non particolarmente chiari, come ad esempio quello che lei ha segnalato poco fa, ossia la situazione ambientale del Mediterraneo, non inteso solamente come mare.

Questo, infatti, è il problema di Horizon 2020, ossia che si parla soprattutto del mare, mentre si dovrebbe parlare anche delle conseguenze dell’inquinamento sulle coste, sull’area terrestre e aerea e delle conseguenze sulla popolazione in rapporto diretto con la povertà e lo sviluppo economico.

Un quarto punto che mi sembra importantissimo è quello del turismo, che ho già sottolineato nel mio intervento.

Non si potrebbe dunque organizzare, presidente, un’audizione con quattro o cinque degli esperti – come quelli della qualità che abbiamo avuto ieri, per esempio, riguardo all’acqua – fra marzo 2008 e marzo 2009?

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Certamente, la sua è una proposta a cui dare seguito.

L’onorevole Karoui ha chiesto la parola.

 

MAHMOUD KAROUI, Camera dei deputati della Tunisia. Grazie presidente, mi limito a sostenere la proposta fatta dal relatore Carnero per allargare un po’ gli obiettivi e andare oltre il solo mare Mediterraneo.

Ci sono due indicatori importanti che non ricevono l’attenzione necessaria a monte: il mantenimento delle diversità e i cambiamenti climatici. Le soluzioni dei problemi – mi riferisco, in particolare, ad incendi e inondazioni – si cercano a valle, ma occorre farlo a monte.

Tre settimane fa in Tunisia abbiamo avuto un problema di allagamenti e inondazioni: un fenomeno particolare che non si verificava da più di un secolo. In due ore abbiamo avuto quasi la metà di tutte le precipitazioni annuali di pioggia, il che ha naturalmente causato delle inondazioni. Ciò può avvenire in Tunisia, ma può benissimo avvenire anche in un altro Paese che si affaccia sul Mediterraneo, quindi bisognerebbe forse inserire anche questo aspetto, a monte, nel programma Horizon 2020.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie. Se non vi sono altre richieste di intervento – poiché abbiamo una road map ben definita e, mi auguro, anche utile da seguire – se siete d’accordo, passerei ora agli altri due punti dell’ordine del giorno di ieri, che erano rimasti ancora da esplorare.


Il primo di questi punti era il seguito da dare all’iniziativa del Parlamento euro-mediterraneo dei giovani. Come ricorderete, la nostra commissione, nella raccomandazione approvata a Tunisi, ha espresso alcuni indirizzi su questo tema, che si trovano ai paragrafi 26 e 27 della raccomandazione. Nel 2006 la commissione cultura ha votato una risoluzione che aveva invitato ad organizzare quanto prima le giornate del Parlamento dei giovani dell’area euro-mediterranea, tenendo conto di quello che era stato fatto nell’ambito del programma Euroscuola. Ciò significa che avevamo avuto l’idea già da prima.

Successivamente, dal 26 maggio al 3 giugno dell’anno in corso, è stata organizzata dalla presidenza tedesca dell’Unione Europea la prima riunione dell’Euromed Youth Parliament, a cui hanno partecipato circa 100 studenti provenienti dall’area euro-mediterranea, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, che hanno discusso i temi attinenti alle tre volée del partenariato.

È stata giudicata un’esperienza positiva, tanto che si è pensato di istituzionalizzare questo appuntamento. Risulta, dunque, che per dare seguito a questa iniziativa siano state formulate alcune proposte per il 2008, tra cui quella del Marocco – a cui dovrebbe spettare la sede della prossima riunione,per alternanza con la sponda nord – del Parlamento europeo e dalla Fondazione Mediterraneo per l’Italia. Le decisioni finali su modalità, forma e luogo della prossima riunione sono comunque, allo stato dell’arte, ancora aperte. Penso che in questa sede, se lo riterrete utile, possiamo offrire un contributo, considerato che la stessa presidenza tedesca ha precisato che l’iniziativa di quest’anno era un progetto pilota, che potrà essere modificato e integrato, ad esempio, per quanto riguarda i criteri di scelta dei partecipanti o con altri suggerimenti. 

Ha chiesto di parlare l’onorevole Ansari. 

 

MOHAMED ANSARI, Camera dei Consiglieri del Marocco. Grazie, presidente.

Per quanto riguarda, in particolare, gli orientamenti emersi a Tunisi nel 2006, la raccomandazione di questa commissione cultura è stata di dedicare una giornata al Parlamento dei giovani.

Si è già tenuta la prima riunione, come ha ricordato la presidente. Il Marocco ha un ruolo leader in questo campo poiché, da svariati anni, ha un Parlamento dei giovani, a cui partecipa un numero di giovani uguale al numero dei parlamentari; si tratta soprattutto di studenti e alunni delle nostre scuole e dei nostri istituti. 

Debbo dire che è in atto una discussione sui problemi che si vivono in Marocco e sul ruolo del legislatore. Ovviamente, noi riteniamo che questa esperienza abbia un aspetto interessante e che possa essere utile per l’esperienza del Parlamento dei giovani Euromed.

È utile che ci sia un’istituzione permanente: questo consentirà a noi tutti di formare i nostri giovani a diventare protagonisti nei loro Paesi e nei loro Parlamenti. Il giovane sarà così consapevole e sarà a contatto con le problematiche importanti che anche noi stiamo discutendo, per quanto riguarda l’ambiente, la cultura, le civiltà eccetera. 

In questo modo sarà più facile per i giovani ­– e cioè per gli uomini di domani – seguire da vicino e in un modo intenso i problemi che stiamo vivendo, partendo dall’esperienza del Parlamento dei giovani mentre sono ancora all’inizio del loro percorso lavorativo, nei loro Paesi. Suggerirei, quindi, di presentare una raccomandazione in merito e di stilare un calendario temporale affinché questa esperienza diventi una realtà. 

Dobbiamo cercare di partire da quei Paesi che hanno già un Parlamento dei giovani, affinché gli altri Paesi seguano a loro volta questa esperienza. Le riunioni a venire dovrebbero inoltre tenersi, alternatamene, in uno dei Paesi del sud o del nord, per passare così dalle parole agli atti.

 


TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Mi sembra che la posizione della Commissione espressa nella raccomandazione di Tunisi e il sostegno dell’Assemblea ad una perpetuazione dell’esperimento siano stati confermati.

Prima di passare alla questione dei media, vorrei affrontare l’altro punto all’ordine del giorno, che riguarda le idee per la definizione del logo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Come tutti sappiamo, infatti, il bureau dell’APEM ha delegato la commissione a formulare delle proposte in tal senso. Nella raccomandazione di Tunisi, al paragrafo 65, abbiamo espresso quali ideali, secondo noi, dovrebbe esprimere il logo (che sostituirà quello attualmente in uso, ossia quello del partenariato governativo): la pace, il dialogo, il rispetto e la comprensione tra civiltà.

In tale raccomandazione si proponeva la possibilità di indire un concorso tra studenti delle discipline artistiche, in analogia a quanto avvenuto per il cinquantenario del Trattato europeo. Abbiamo però verificato, in questi mesi, che tale ipotesi è difficile da realizzare, perché mancano i fondi, considerato che organizzare un concorso simile richiederebbe un’organizzazione logistica notevole.

Partendo dagli ideali, potremmo dunque decidere in questa sede – mi era venuta quest’idea – di chiedere a un artista rappresentativo della nostra area, e siamo aperti a suggerimenti, di preparare uno schizzo, a partire dal quale potremmo chiedere agli uffici tecnici e agli organi del Parlamento europeo e delle Assemblee dei Paesi membri di elaborare un logo.

Non cerchiamo certo un nuovo Picasso, ma dallo schizzo di un artista, un concetto potrebbe essere trasposto in un simbolo grafico, in maniera efficace ed originale. Se volete, potete fare mente locale anche agli artisti dell’area di vostra conoscenza e possiamo riaggiornarci su questo punto alla riunione di febbraio. 

Se siete d’accordo e non ci sono obiezioni, passerei ora agli altri punti all’ordine del giorno di oggi.

Ha chiesto la parola l’onorevole Ansari.

 

MOHAMED ANSARI, Camera dei Consiglieri del Marocco. Grazie, presidente.

Per quanto riguarda questo punto in particolare, ricordo che, all’inizio della primissima riunione di questa commissione, ci fu un lunghissimo dibattito proprio a riguardo di questo tema. Il logo dell’APEM che era stato proposto allora venne poi approvato, nel corso di una delle riunioni tenutesi qui in Italia, proprio agli inizi, più di due anni fa. Vorremmo sapere per quale motivo si voglia cambiare questo logo – che è presente in tutti gli stampati – con uno nuovo. Il logo dovrebbe dare corpo di per sé ad idee che vengono dai Paesi del sud e dai Paesi del nord.

Presidente, come lei ha detto, si potrebbe chiedere un contributo esterno; sappiamo che non ci sono possibilità finanziarie, ma possiamo chiedere ad un esperto di suggerire uno schizzo da poi sviluppare,  previa approvazione.

Suggerisco che ci siano due esperti, uno della sponda sud ed una della sponda nord, ciascuno con la propria visione, in modo che si confrontino per concordarle o magari fonderle, affinché la proposta non sia cioè limitata ad una sola parte, ma che, anzi, prenda in considerazione le particolarità e le specificità delle culture sia del nord, sia del sud del Mediterraneo.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Io ho ereditato questa questione. Sebbene il logo in uso mi piaccia, esso è il logo dell’organizzazione intergovernativa e c’era il desiderio di un simbolo parlamentare.


 

L’Assemblea fece delle proposte – non fui io a farle – che però non vennero giudicate adatte, forse perché un po’ pesanti. Io non ho proposto esperti, bensì un artista e credo che l’arte non abbia frontiere. L’idea di un artista voleva farci uscire dagli schemi delle burocrazie, dato che un artista può rappresentare un concetto. Potrebbe essere sia una donna, sia un uomo, anche se, a mio avviso, sarebbe bello se fosse una donna giovane della riva sud del Mediterraneo, ma possiamo vedere. Era un’idea molto libera, per vedere se possiamo sbloccare, con l’ausilio dell’arte, una discussione che si trascina da troppo tempo.

 

EDUAR MECARBNE, Assemblea del Popolo della Siria. Signor presidente, suggerisco un cerchio all’interno del quale inserire il nome del Parlamento in varie lingue, compreso l’arabo, e dentro il quale disegnare i confini del mar Mediterraneo; all’interno del bacino potrebbero esservi le ombre di navi fenicie che circolano nel Mediterraneo, come simbolo di pace e di comunicazione.

Un artista siriano potrebbe presentare questa bozza, per ottenere la vostra approvazione.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola a Farkhanda Hassan.

 

FARKHANDA HASSAN, Shura dell’Egitto. Credo che ora, in questa riunione, non possiamo immaginare il logo artisticamente: lasciamo questo lavoro agli artisti e mettiamoci invece d’accordo sui parametri che devono essere visibili nel logo.

Suggerisco che il logo esprima l’idea per cui, il partenariato tra i Paesi del nord e quelli del sud del Mediterraneo permette loro di andare tutti nella medesima direzione e non in due direzioni opposte, come indica il logo attuale.

 

CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Sono d’accordo con la sua proposta: il Parlamento Euromed deve avere un logo che lo rappresenta e che non può essere lo stesso del partenariato governativo Euromed: i Parlamenti che partecipano a questa partnership devono avere un proprio logo. Penso al Parlamento europeo ed all’Unione Europea: quest’ultima ha infatti la sua bandiera con le dodici stelle, mentre Parlamento europeo ha prodotto il proprio logo che in qualche modo rappresenta, configura un’assemblea, il popolo e quindi la gente.

Mi sembra una buona idea, anche se non credo che saremo ora in grado, in questa riunione, di trovare l’artista. In realtà non so bene come si possa organizzare questa cosa, da un punto di vista tecnico, ma sicuramente potremmo parlare con l’ufficio di presidenza del Parlamento europeo per vedere come hanno fatto loro e se noi, con il nostro bilancio, saremmo o meno in grado di organizzarci allo stesso modo. Potremmo chiedere a vari artisti – da Siria, Germania, Italia, Lussemburgo e così via – di prendere parte ad una specie di percorso, alla fine del quale si dovrebbe scegliere l’opera più adatta. Bisognerebbe anche dare un piccolo finanziamento a questi artisti, perché anch’essi hanno bisogno del denaro per mangiare e per essere quindi in grado, poi, di produrre opere d’arte.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Do ora la parola a Muhammad Salim Zaccur.


 

MUHAMMAD SALIM ZACCUR, Assemblea del Popolo della Siria. Signor presidente, io propongo a questa assemblea di indire un concorso, perché credo sia la modalità migliore per arrivare ad una decisione. Evidentemente, per ridurre i costi di un simile concorso, ogni Parlamento del Mediterraneo dovrebbe forse presentare un artista e il concorso sarebbe tra un gruppo di artisti che rappresentino i vari Paesi. Poi l’assemblea nominerebbe un comitato, deputato a scegliere il logo più indicato. Così avremmo ridotto i costi per la creazione del logo.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola a Ibtisam Mikhail.

 

IBTISAM MIKHAIL, Assemblea del Popolo dell’Egitto. Signor presidente, ritengo che la questione sia molto più semplice, perché l’arte non ha confini. Come diceva lei all’inizio del suo intervento, basterebbe un artista che prenda in considerazione i vari princìpi intrinseci a questo partenariato euro-mediterraneo ovvero i criteri che ne esprimono lo spirito.

La questione è molto semplice e non richiede un finanziamento per la strutturazione di tutte queste dinamiche.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Se siete d’accordo, tenteremo di trovare una sintesi di tutti questi suggerimenti per l’incontro di febbraio.

Se siete d’accordo passerei, adesso, al seguente punto all’ordine del giorno: «Dialogo tra culture e media». Questo era uno dei punti contenuti nella nostra raccomandazione, votata dall’assemblea, sul ruolo dei media nel dialogo fra le culture. Ci sembrava interessante approfondire il ruolo della televisione satellitare quale nuovo ponte tra società e culture nei Paesi dell’area euro-mediterranea.

Prima di dare la parola ai nostri relatori, dovremmo cambiare l’organizzazione del tavolo e possiamo pertanto fare una pausa.

 

La seduta, sospesa alle ore 9,35, riprende alle ore 9,45.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Affronteremo ora il capitolo del dialogo tra culture e media. In merito a questo punto dell’ordine del giorno abbiamo previsto vari relatori. Proporrei di consentire alla dottoressa Donatella Della Ratta, autrice del libro Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio, di farci una relazione introduttiva, dopodichè darei la parola a Samir Khader, Senior producer di Al Jazeera, a Giancarlo Licata, responsabile del programma Mediterraneo della nostra RAI e al dottor Najdat Ismael Anzour, regista siriano, con la speranza che arrivi, considerati  i problemi riscontrati con gli aerei. 

Do la parola alla dottoressa Donatella Della Ratta. 

 

DONATELLA DELLA RATTA, Autrice del libro Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio. Grazie, onorevole De Zulueta. Ringrazio per l’invito e sono veramente onorata di essere qui.

Se me lo consentirete, svolgerò un intervento leggermente più lungo del previsto, di circa due minuti, perché alcune delle considerazioni della collega Jihad Fakhreddine della PARC – purtroppo assente per motivi di forza maggiore – su sua preghiera sono entrate a far parte della mia relazione.


Vorrei partire da una domanda riguardante il tema su cui ci è stato chiesto di riflettere, ovvero se la televisione satellitare possa essere un nuovo ponte tra società e culture dei Paesi dell’area euro-mediterranea: esiste una cultura dell’immagine che possa aiutare a migliorare il dialogo tra le culture attraverso le immagini? Ovvero esiste o è possibile un dialogo tra le culture che sia – scusate il gioco di parole –  media-mediato,? 

Vorrei tentare di rispondere a queste domande partendo da un dato che ci viene dal Pan Arab Research Center (PARC), una società con base a Dubai che studia l’audience dei canali arabi e che lavora in tandem con la Gallup, una società americana di opinion poll, che sicuramente conoscete.

Nel 2002 la Gallup fece un’indagine, insieme alla PARC, sugli spettatori televisivi dei canali arabi di nove Paesi arabi. Occorre premettere il ritmo di crescita dei nuovi canali televisivi arabi è di circa tre canali al mese: oggi sono oltre 400, mentre a quell’epoca erano un po’ di meno, anche se pur sempre una cifra considerevole, considerato che parliamo di offerta satellitare gratuita, ricevibile da qualsiasi parabola in qualsiasi casa araba fornita di satellite. I risultati di tale indagine mostrarono che gli spettatori dei canali di intrattenimento – noi non li conosciamo, ma ce ne sono tantissimi e di molto famosi nel mondo arabo – che fanno programmi più simili ai nostri programmi occidentali (intrattenimento, varietà, reality show, con interazioni via SMS), dichiaravano che i valori occidentali sono incompatibili e fortemente opposti a quelli della cultura arabo-islamica.

Le persone che guardavano programmi più vicini ai moduli occidentali erano quindi, in realtà, le più fortemente ostili a un incontro con le culture occidentali, mentre gli spettatori del canale del Samir Khader erano quelli che, sorprendentemente, almeno per noi occidentali, si dimostravano più aperti al dialogo con l’Occidente, più informati e più capaci di distinguere tra politiche occidentali e culture occidentali. Parlo degli spettatori di Al Jazeera, dei canali all news, ossia di quelli che per noi sarebbero invece i canali che incitano all’odio e alla violenza contro l’Occidente. 

Questo semplicissimo e banalissimo esempio basterebbe da solo, a mio parere, a rovesciare gran parte della strategia di media diplomacy che è stata messa in atto dagli Stati Uniti nell’ultimo periodo: una strategia che si basa sull’idea molto semplice secondo cui le immagini televisive siano forse le migliori ambasciatrici di una cultura e che quindi il dialogo tra culture si possa ridurre a un’interazione tra immagini, a un’interazione media-mediata (scusatemi di nuovo per il gioco di parole). Vorrei fare una riflessione su questo, per poi tornare all’interazione attraverso i media, al fine di comprendere se essa possa bastare per risolvere il problema della comprensione e del dialogo tra le culture. 

Come dicevo, oggi nel mondo arabo ci troviamo di fronte ad un’offerta satellitare sconfinata di oltre 400 canali, con un ritmo di crescita di tre canali nuovi al mese, compresi canali che offrono reality show, intrattenimento, soap opera, religione, cultura, all news eccetera, con un’offerta complessiva molto vasta.

La popolazione è per oltre il 60 per cento giovane e ci dovremo quindi chiedere cosa guarda questa popolazione. Non vorrei parlare di Al Jazeera – come mi accade sempre di dover fare – perché, per fortuna, per una volta c’è una persona – il collega Samir Khader – che lavora dentro ad Al Jazeera  da quando la rete è nata e potrà farlo al posto mio; vorrei però soltanto dire che sarebbe il caso, soprattutto partendo da luoghi istituzionali come questo, di cominciare a considerare Al Jazeera – dopo ormai undici anni dalla sua nascita – come un soggetto televisivo globale, importante, anche per la mediazione culturale e per far passare dei messaggi alle audience arabe. Occorre smettere di considerarlo come un agente politico, religioso eccetera, ed iniziare a considerarlo come un vero e proprio soggetto televisivo con una propria dignità di esistenza. Tra l’altro, non sono io a dirlo: secondo una ricerca di due anni fa, Al Jazeera era il quinto marchio più famoso nel mondo. 


 

Noi dovremmo invece analizzare quello che c’è in questo universo di 400 canali televisivi arabi e quello che arriva al popolo televisivo arabo attraverso quest’offerta, di cui non sappiamo niente. Ad esempio, le soap opera realizzate dal qui presente collega siriano Najdat Anzour, spesso trasmesse su canali libanesi, affrontano anche temi piuttosto scottanti di attualità. L’ultima parla, ad esempio, della reazione arabo-islamica alla pubblicazione delle vignette contro il profeta Maometto uscite su giornali danesi. Noi non conosciamo niente di questo universo e sarebbe perciò il caso di cominciare a rivolgerci anche a questa offerta.

Riconoscere la complessità e la pluralità dell’offerta televisiva araba è utile e necessario, a mio parere, per la nostra Europa, per costruire una strategia di media diplomacy diretta al mondo arabo che si sia un po’ più sana e corretta rispetto a quella messa in atto dall’America che, come tutti sapete, ha lanciato un canale televisivo in lingua araba (Al Hurra), che è stato abbastanza  fallimentare.

Fino ad ora, la strategia europea di comunicazione verso il mondo arabo si è basata, a mio parere, su due grandi misunderstanding, su due grandi fraintendimenti: la negazione, da una parte, e il monoculturalismo, dall’altra. 

Mi riferisco, anzitutto, alla negazione dei soggetti televisivi arabi. Ciò si manifesta nel fatto stesso che noi, qui in Occidente, continuiamo a considerare reti come Al Jazeera quali reti militanti e propagandistiche, e continuiamo a negare l’esistenza di questi canali in quanto soggetti professionali con pari dignità dei nostri; e nel fatto che, appunto, apriamo canali in lingua araba – l’America l’ha fatto ed anche noi lo stiamo facendo – invece di rafforzare la comunicazione ai popoli arabi attraverso i loro canali, già accreditatisi nel mondo arabo. Ciò rappresenta, a mio parere, la negazione di un soggetto importante e costituisce un errore, da parte degli europei.

L’altro errore molto grave che stiamo facendo consiste nel costruire un’offerta monoculturale.

Vedo che i singoli Stati europei – l’Italia anzitutto, che ha aperto RAI Med ormai tantissimi anni fa,  ma anche la Francia, che apre France 24, Deutsche Welle che apre il servizio in arabo, la BBC Arabic che lancia tra pochissimo il suo canale in arabo, per non parlare di Russia Today, anch’essa in lingua araba – vedo strategie di singoli Stati europei che si rivolgono direttamente al mondo arabo per fare «propaganda»; vedo ripetersi una situazione simile a quella che si sviluppò in Medio Oriente oltre settant’anni fa, negli anni ‘30, quando la nostra radio, all’epoca del regime fascista, Radio Bari, per prima lanciò un servizio in lingua araba diretta al Medio Oriente, soprattutto per conquistare le audience dell’Egitto – evidentemente cercando di sottrarle all’influenza inglese – e fare propaganda politica.

Come Radio Bari lanciò il suo servizio in lingua araba, seguita da BBC Arabic, Montecarlo Moyen Orient e Voice of America, oggi ogni singolo Stato si rivolge al Medio Oriente con la propria strategia nazionale. Sono però passati settant’anni: stiamo parlando di quando i mass media arabi non esistevano, mentre adesso non solo esistono, ma esistono a diritto e si sono guadagnati un posto d’onore nell’offerta globale.

Penso perciò che questo sia un grandissimo errore e che sia stato fatto un passo indietro, perché ricordo, all’epoca, quando io feci la mia tesi di laurea nel 1998, c’era nell’aria il progetto di Euromed TV, lanciato e appoggiato da Massimo Fichera, che era un progetto multiculturale, mentre adesso vedo l’assenza di progetti multiculturali da parte dell’Europa e penso che questo, se mi consentite, sia un errore.


 

A questo punto vorrei citare il collega Jihad Fakhreddine, che non c’è, il quale ci dice, dall’alto della sua esperienza di analista dell’audience araba, che tutte queste reti europee – France 24, Deutsche Welle eccetera – con dei servizi in lingua araba hanno il 2,3 per cento di share in Medio Oriente e non sono accreditate quanto Al Jazeera, perché vengono percepite come reti che mandano un messaggio chiaro e diretto di propaganda dello Stato-nazione verso le audience arabe. Forse – dice Fakhreddine – sarà diverso per la BBC, perché la BBC capitalizza un’esperienza di ormai 75 anni di presenza in Medio Oriente. Per quanto riguarda l’Italia – e qui lo cito – afferma: «L’Italia poteva essere in una posizione unica per un fruttuoso impegno comunicativo con gli arabi. Sebbene un tempo fosse stato un Paese colonialista, è stato sempre un colonialista part-time piuttosto che full-time, come Francia e Regno Unito. Gli arabi non hanno attitudini apprensive verso gli italiani».

Egli si chiede poi perché l’Italia non abbia capitalizzato quest’esperienza ed aggiunge che i sondaggi della Gallup mostrano che le attitudini degli arabi nei confronti dell’Europa sono più soft di quelle che essi hanno nei confronti dell’America. Questo potrebbe essere un buon punto d’ingresso (entry point) per comunicare con gli arabi, ma noi europei non abbiamo ancora iniziato a farlo. Il mio collega si chiede infatti perché ci sia un vuoto comunicativo da parte dell’Europa, ossia  una serie di canali monoculturali che comunicano i singoli Stati, piuttosto che comunicare l’Europa: questo vuoto comunicativo andrebbe in qualche modo riempito, a mio parere, con una strategia multiculturale.

Vorrei chiudere l’intervento tornando alla domanda da cui siamo partiti, se cioè possa bastare il dialogo fra le culture media-mediate, ossia il dialogo fra immagini televisive: in un mondo in cui, dopo l’11 settembre, noi abbiamo tutti paura di andare in Medio Oriente e gli arabi non possono venire in Occidente per problemi di visto; in un mondo in cui la conoscenza diretta è sempre più scarsa, sempre più sporadica, è possibile che l’unica conoscenza passi attraverso le immagini?

La conoscenza può certo passare attraverso le immagini, perché non si può conoscere tutto in maniera immediata, ma a questo va affiancata una strategia di comunicazione attraverso la cultura, le istituzioni, la società eccetera. Per questo io sono molto felice che a seguire ci sia una discussione sull’eventualità di un’università euro-mediterranea: perché penso che l’istruzione sia un punto fondamentale e che non possiamo lasciare alla televisione il ruolo di comunicare e formare, né il dialogo tra le culture, perché la televisione non è chiamata al dialogo interculturale, tanto meno di questi tempi, quando essa è chiamata, per lo più, ad essere un business, come io vedo analizzando il panorama globale.

Mi auguro quindi che si possa fare anche un’università euro-mediterranea e che nel suo ambito possa nascere una facoltà di media comparati, perché è venuta l’ora, secondo me, di studiare i media come studiamo le letterature comparate, cioè affiancandoli. È infatti vero che, da una parte, c’è una tendenza unificatrice di schemi economici e di modelli produttivi propria della globalizzazione, ma è anche vero, d’altra parte, che ci sono dei sostrati culturali, economici, religiosi e linguistici che, come il mondo arabo, sono diversi e unici. È quindi giusto studiare i media del mondo arabo con altri elementi rispetto a quelli con cui studiamo i media occidentali.

Mi auguro perciò che in questa università ci sia una facoltà di media comparati dove si possano formare professionisti abituati al dialogo tra le culture fin dalla loro formazione universitaria.


Aggiungo, in chiusura, un invito a spegnere qualche volta la televisione e a fare un po’ di viaggi, il che aiuta. Io vengo da un periodo passato in Siria: vi posso assicurare che di questo Paese noi abbiamo un’immagine totalmente errata, più che di ogni altro Paese del Medio Oriente, almeno tra quelli che io ho visitato. La Siria che vediamo descritta dalla nostra televisione italiana è un Paese brutto, sporco e cattivo, chiuso, integralista e fondamentalista. Non c’è però nulla di più lontano da questa immagina televisiva della realtà siriana: si tratta di un Paese assolutamente diverso da come viene ritratto dalla nostra televisione. Invito perciò chi qui fra noi è giornalista a prendersi ogni tanto la responsabilità di essere mediatore per le persone che non possono viaggiare e andarci direttamente e per le quali la conoscenza di questi Paesi può avvenire solamente attraverso lo schermo. Grazie.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie a lei, dottoressa Della Ratta. Lei ci ha offerto un giro di orizzonte veramente molto interessante. La nostra commissione si occupa di cultura, ma è la prima volta che si occupa di televisione. Ha voluto farlo oggi per mettere a fuoco l’esistente anche al di fuori dell’ambito delle istituzioni, che è il nostro normale terreno di azione.

Do ora la parola a Samir Khader, senior producer diAl Jazeera, frequentemente citato dalla relazione introduttiva.

 

SAMIR KHADER, Senior producer di Al Jazeera, Doha. Vorrei premettere che ho parlato col mio manager in merito alla scelta della lingua nella quale mi sarei espresso e, siccome non parlo solo agli arabi, ma ci sono anche gli europei, vi parlerò in inglese, perché voi siete l’obiettivo, il target, del mio intervento.

Non voglio risalire indietro nella storia e parlarvi di quando è stata creata Al Jazeera, ma vorrei ricordare che il primo novembre, cioè tra due giorni, festeggeremo il nostro undicesimo compleanno: rispetto ai canali dei grossi media d’Europa e dell’America settentrionale siamo dunque ancora dei bambini, sullo scenario internazionale dei media.

Non vogliamo dire di aver raggiunto il massimo livello di professionalità, ma nondimeno Al Jazeera, quando è stata creata, aveva un unico obiettivo primario: marcare la differenza e farsi voce di chi voce non aveva. Ci siamo riusciti? Non lo so, lascio a voi il giudizio, ma occorre dire che all’epoca – parlo del 1996 – se un arabo voleva sapere cosa stesse succedendo nel suo Paese o nella sua regione, doveva cercare il canale di Montecarlo, la BBC o quant’altro, quindi dei media al di fuori della sua regione e del mondo arabo stesso. Abbiamo quindi cercato di riconquistare l’audience, il pubblico arabo con un media arabo. Ci siamo riusciti, anche se non al 100 per cento, ma solo in parte.

In ogni caso, Al Jazeera  si è presentata all’epoca come un fenomeno. Abbiamo fatto una sorta di rivoluzione ed altri media – radio e televisioni – ci hanno poi seguito (alcuni finanziati dagli stessi Governi) e sono più o meno riusciti a copiare il modello di Al Jazeera.

Prima del 1996 era difficile trovare dei veri e propri dibattiti televisivi, perché tutti i canali esistenti erano controllati dai Governi. Oggi, invece, ognuno è libero di scegliere il canale che desidera, tanto che, sempre più spesso, anche su altri canali si vedono i programmi trasmessi da Al Jazeera. Si tratta di un’espressione di libertà, sebbene ancora incompleta. 

La mia Al Jazeera, quella che io presento, è stata creata da arabi per gli arabi, anzitutto per promuovere il dialogo fra gli arabi. A noi non interessava il mondo al di fuori della realtà araba. Questo è il motivo per cui abbiamo creato un altro canale, Al Jazeera in inglese. Prima di tutto, però, abbiamo pensato che quello di cui avevamo bisogno era il dialogo tra di noi: ci sembrava inutile cercare di parlare con altre culture, se non avessimo prima intrecciato questo dialogo tra noi. Se si guarda alla situazione ed alla storia araba, si nota infatti una totale mancanza di dialogo; proprio per questo il nostro primo obiettivo era impegnarci in un dialogo tra di noi, per poi aprirci al mondo esterno.


 

Naturalmente, Al Jazeera è diventata famosa proprio per aver aperto questa porta verso gli altri, per aver mostrato al pubblico qualcosa di diverso dagli stereotipi che aveva ereditato dai libri di storia, dai programmi scolastici e dalla propaganda che era abituato a ricevere dai nostri media. Per questo motivo, quando abbiamo incominciato, ci siamo concentrati nell’invio di nostri corrispondenti in Europa, in America, in Estremo Oriente, oltre ad avere i nostri giornalisti e i nostri corrispondenti in quei Paesi del mondo arabo dove c’era la disponibilità a farci lavorare. 

Ebbene, abbiamo cercato di mostrare al pubblico arabo che esiste un’altra realtà e che il mondo che i nostri antenati e i nostri Governi avevano creato, che la storia che ci aveva tramandato e che avevamo letto nei libri di storia era un mondo immobile e difficile da cambiare, ma che almeno avremmo potuto fare dei buchi per guardare attraverso di essi la vera realtà, nonché per vedere quali fossero i movimenti e le condizioni sociali anche fuori, in Europa e in America. 

Ci si accusa di non colmare il divario con gli altri, ma anzi di approfondirlo; come ci si diceva che aprendoci agli altri avremmo potuto contribuire a una migliore comprensione. Questo è vero, ma va considerato che questo divario potrebbe anche allargarsi, perché quando ci si espone agli altri, lo si fa in prima persona e noi siamo assolutamente arabi e siamo anche molto orgogliosi del nostro patrimonio, della nostra cultura, tant’è che abbiamo un termine speciale per definire chi arabo non è.

A mio avviso Al Jazeera ha contribuito a colmare questo divario nei confronti dell’Occidente più prossimo a noi, ovvero dell’Europa. Ogni volta che su un nostro canale si svolge un dibattito per esplorare la mancanza di unità tra gli arabi, l’Europa viene portata come esempio contrario. Voi siete ora 27 Paesi, quindi più di tutti i Paesi arabi, siete diversi tra di voi – forse avete la religione come unico elemento che vi unisce, ma anche in questo caso ci sono divisioni tra ortodossi, cattolici e via dicendo, per cui non mi sembra il collante vero e proprio – ma, dopo tanti anni di conflitti, di guerre e di differenze, siete riusciti, come Paesi europei, ad arrivare a un minimo comune denominatore che si chiama Unione Europea. Perché noi arabi no?

Noi usiamo quindi l’Europa come un esempio, ma chi ci ascolta? Qualcuno ci ascolta? Temo che ancora non ci ascolti nessuno, non ancora. 

Quanto al colmare il divario tra le culture, questo è molto, molto difficile. Non vi dirò che siamo riusciti in questo campo, perché noi arabi e la nostra società stiamo vivendo una crisi di identità, anche se forse qualcuno non sarà d’accordo con me, e lo accetto. Noi arabi non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, dove vogliamo arrivare, cosa vogliamo fare e difficilmente riusciamo a fare una distinzione tra la nostra identità nazionale in quanto arabi e la nostra religione di appartenenza, l’Islam. Noi guardiamo sempre alla nostra storia ed impariamo molto da essa, soprattutto a scuola, ma tendiamo ad impararne solo gli aspetti positivi, come il fatto che nel passato siamo stati una grande nazione. Sentiamo dire solo le cose belle e, benché ci siano stati anche dei fallimenti e delle cose andate storte, di ciò non impariamo mai nulla. Nel mondo arabo noi amiamo guardare l’altro e cercarne i difetti.

Per questo, dal 1996, cioè da quando abbiamo inaugurato il nostro canale, la nostra idea è stata proprio quella di promuovere la differenza di opinioni, di dare spazio alla possibilità che entrambi gli interlocutori possano avere parzialmente ragione, che non ci sia chi ha assolutamente ragione e chi sbaglia totalmente. Ancora oggi, però, se guardaste uno dei programmi più famosi – e ancora oggi, mi pare, più seguiti – di Al Jazeera, che si intitola Direzioni opposte, vedreste due ospiti che strillano l’uno addosso all’altro, l’uno contro l’altro. Noi lo chiamiamo, appunto, Direzioni opposte, il che vuol dire l’uno contro l’altro. Perché devono gridare l’uno contro l’altro, perché si


devono insultare? Ebbene, questa è la cultura che ci è propria ed è ciò che alla gente piace, perché è l’espressione di qualcosa che è radicato dentro di noi, dentro la nostra identità araba, cioè l’idea che se qualcuno strilla contro l’altro, se strilla più forte, questo significa che è più forte dell’altro, che con le grida sta dando dimostrazione agli altri di avere ragione. Non credo che quando questo programma finirà potremo dire di avere ottenuto qualcosa: il programma fa anzi talmente parte della nostra cultura che non finirà mai.

Ci sono poi anche altri programmi che sono specchio della nostra cultura. Ce n’è uno, per esempio, in cui il presentatore gioca con una penna e fa domande; quando fa la domanda comincia già a dare la risposta, il che significa che non dà neppure il tempo all’intervistato di provare a rispondere. Alla fine accusa l’intervistato di aver detto delle stupidaggini e afferma di non essere d’accordo, dopodichè spiega come stanno veramente le cose. Anche lo stesso moderatore o, per meglio dire, quello che dovrebbe essere il moderatore – perché da noi manca proprio l’idea stessa del moderatore – diventa così protagonista dello spettacolo, anzi è lo spettacolo.

Che tipo di dialogo pensate quindi che ci possa essere tra più persone? Se tra noi il dialogo è così, immaginatevi il nostro dialogo con l’Occidente.

Secondo me, negli ultimi duemila anni, risalendo lungo la storia, c’è sempre stato uno scambio di cultura tra nord e sud: con i Califfati dei Turchi, con gli Stati arabi da parte dell’Andalusia e della Spagna ed anche all’epoca del colonialismo che veniva dal nord. Oggi, però, paradossalmente, con i nuovi mezzi di comunicazione, con internet, con i cellulari e coi satelliti questi scambi si sono quasi interrotti. Questo è accaduto perché noi abbiamo voluto che accadesse. Il problema è adesso come ritornare al passato, come cercare di nuovo di realizzare questo scambio tra culture, tra di noi. Per ora non credo che siamo pronti a farlo: forse voi siete pronti, ma noi ancora no. Noi siamo ancora agganciati a questi stereotipi e vi posso assicurare che questo vale per la maggior parte degli arabi.

Noi siamo peraltro visti dall’Occidente come qualcosa di male, perché negli ultimi dieci anni, per tutti i problemi che si sono avuti nella regione, ci è stata messa addosso questa etichetta di «male», di «cattivi»: per l’Occidente noi arabi siamo i terroristi del XXI secolo. Cosa possiamo fare per superare quest’idea? Stiamo cercando di farlo. Non so se lo stiate facendo anche voi. So che state cercando di creare canali che parlano arabo, rivolti agli arabi, ma mi sembra che fino ad ora non sia stato fatto nulla di veramente concreto. Esiste una soluzione? C’è sicuramente, ma non so quando la troveremo.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Ringrazio il signor Khader. Al Jazeera ha di nuovo dimostrato di avere il coraggio della sincerità. È sempre molto stimolante ascoltare le vostre opinioni, anche perché questo ci apre nuove prospettive che, almeno noi di parte europea, non avevamo ancora potuto vedere.

Do ora la parola a Giancarlo Licata.

 

GIANCARLO LICATA, Responsabile della trasmissione televisiva Mediterraneo. Innanzitutto vi ringrazio per l’invito.

Considerato che il mestiere che faccio non vuol dare mai nulla per scontato, cercherò di parlare della mia esperienza fornendo anche dei dati che potrebbero apparire assolutamente conosciuti a chi vive in Italia, ma che ritengo possano essere importanti per capire il contesto.

Vi parlerò oggi di Mediterraneo, che è una trasmissione televisiva settimanale – ma è anche un progetto – che va in onda su RAI3 (in Italia), oltre che su RAI Med – ne parleremo più avanti – e su RAI International, coprendo praticamente tutto il mondo. La RAI è la concessionaria del servizio pubblico in Italia, ha 11.000 dipendenti, tre canali televisivi analogici, tre canali radiofonici e una quindicina di canali satellitari; è impegnata nel digitale terrestre e trasmette 24 ore su 24.


Mediterraneo ha preso avvio 15 anni fa con un’idea di fondo: realizzare un prodotto che non fosse soltanto italiano e che non rispecchiasse solo ed esclusivamente le nostre idee. Questo avveniva nel 1993, quando la situazione era compromessa dalla guerra nella ex Jugoslavia, quando il Libano ancora era in piena guerra civile, quando ancora non c’erano le speranze di Barcellona e quando ancora lo scacchiere mediorientale era pieno di problemi. In quel momento abbiamo pensato che fosse giusto ragionare con gli altri per realizzare insieme qualcosa.

Certamente non è stato facile, anche perché si è andati avanti per anni percorrendo due sole strade, quelle dell’incontro e dello scontro. Penso all’incontro del passato, del mare dei commerci e delle culture, ed allo scontro di oggi, fra civiltà contrapposte, fra religioni che non dialogano. Noi cercavamo allora di superare questa empasse, ed abbiamo voluto farlo portando avanti una terza via nostra – che poi è anche quella del convegno di oggi – che è quella del dialogo, mettendoci insieme per ragionare insieme su qualcosa.

Da che cosa potevamo partire? Intanto dal riconoscimento delle identità altrui e della nostra identità e, quindi, dal rispetto reciproco. Guardando alle nostre diverse identità come a risorse per la crescita, abbiamo cercato un’identità culturale comune, che ci permettesse di lavorare insieme, di fare insieme un pezzo di cammino.

Il fine ultimo, la nostra grande speranza, era di arrivare ad un’identità intermedia. Si tratta certamente di belle parole, ma abbiamo dovuto domandarci come raggiungere concretamente questo obiettivo, considerate le barriere fisiche esistenti, oltre a quelle invisibili. Abbiamo dovuto partire da una considerazione di fondo su quello che c’era: l’economia, la politica e la comunicazione.

L’economia, spesso, arriva prima della politica, anche per un bisogno comune a singole persone, e riesce anche a far crescere la democrazia in determinati Paesi: grammo dopo grammo, senza grande spettacolarità, ma con una continuità assolutamente importante. La politica, spesso, arriva invece tardi, ed ha bisogno delle sue mediazioni e di assimilare determinati atti. Ragionare su un prodotto comune diventava così ogni giorno più difficile.

Siamo però riusciti a superare l’ostacolo, anche grazie alla Conferenza permanente degli operatori dell’audiovisivo del Mediterraneo (COPEAM), che in questi anni ha fatto un lavoro eccezionale, mettendo insieme e facendo ragionare le singole realtà televisive. All’interno della COPEAM è nata l’edizione internazionale di Mediterraneo (fra l’altro, ho portato anche un brevissimo filmato – dura poco più di tre minuti – perché parlare di televisione è bello ma vederla è secondo me più interessante). La COPEAM ci ha messo insieme, in tanti, e ci ha costretti a ragionare ed a lavorare insieme. Ebbene, oggi Mediterraneo è, come dicevo all’inizio, un progetto: c’è un lavoro comune, noi lavoriamo insieme ai colleghi di France 3 – da dodici anni nella stessa redazione – e insieme abbiamo chiesto l’aiuto di altri, che sono arrivati: sono arrivate la televisione spagnola e quella algerina, che sta facendo un lavoro assolutamente importante. Mediterraneo è infatti l’unica trasmissione occidentale che è stata scelta dal circuito dell’Arab States Broadcasting Union (ASBU), il circuito televisivo che raggruppa le televisioni dei Paesi aderenti alla Lega araba. La televisione algerina  ne realizza l’edizione araba, che viene diffusa nel circuito dell’ASBU.

Il nostro lavoro preparatorio, che è durato anni, ci ha quindi portato ad una conquista comune, cioè a realizzare un prodotto che, pur perdendo ovviamente in termini di identità nazionali – perché veniva e viene fatto da giornalisti occidentali e arabi e perché vi inseriamo sia servizi nostri, sia servizi delle televisioni greca (un altro dei nostri partner), algerina, spagnola e francese – è omogeneo e rispetta non solo le varie identità culturali, ma anche i diversi modi in cui certi argomenti vengono affrontati.

A questo punto, se siete d’accordo, vorrei vedere lo spot, per poi andare avanti con la seconda parte del mio intervento.

 (Viene proiettato lo spot.)


Vi racconterò io lo spot, perché non si sente bene l’audio.

Come vi dicevo, nel video vedete le tre televisioni che ragionano insieme su un progetto comune. Ora state vedendo Mediterraneo, mentre più avanti, nello spot, vedremo RAI Med. Quest’ultima rappresenta un tentativo che portiamo avanti dal 2001. Si tratta di un canale satellitare che copre l’Europa e il bacino del Mediterraneo e che trasmette in italiano e in arabo dalle 21,00 alle 24,00. Lo realizziamo – anche perché siamo gli stessi – con lo stesso rispetto che mettiamo nella realizzazione di Mediterraneo. È un canale soltanto italiano, ma che cerca di capire che cosa avvenga dall’altra parte del mare e che utilizza soltanto il linguaggio giornalistico.

Certo, si sarebbe potuto fare di più, ma intanto è importante, secondo me, che in questi sei anni di messa in onda abbiamo cercato di far capire che non solo vogliamo un rapporto con il mondo arabo, ma che cerchiamo di costruirlo su qualcosa di utile come la comunicazione 

Nel video che viene proiettato vedrete tra poco degli spezzoni delle cinque edizioni di Mediterraneo (italiana, greca, francese, spagnola e araba), che vanno in onda mostrando le varie realtà.

In questi anni abbiamo cercato di realizzare i reportage di Mediterraneo portando avanti una lettura particolare, fatta di storie. Per raccontare la guerra, è stato per noi più importante mostrare una bambina palestinese davanti alla casa distrutta dall’ennesimo bombardamento, piuttosto che fare il contrario. Abbiamo raccontato tante storie: dei pescatori che hanno il mare inquinato e non possono più pescare; delle donne che hanno perduto il padre, il marito, il figlio; dei grandi progetti che si stanno facendo, anche grazie all’abilità dei singoli; dei ragazzi che in una piazza di Beirut pensavano di poter fermare la guerra con delle candele in mano; di popoli che non hanno voce e che forse non l’avranno. Insomma, come diceva il collega di Al Jazeera, abbiamo cercato di dare voce a chi in questi anni non ha avuto voce, e sono tanti. 

Dopo l’11 settembre ci siamo imbattuti in una realtà completamente diversa. L’11 settembre, per il settore dei media del Mediterraneo, ha dato anche dei risultati che io definirei senz’altro positivi, perché le televisioni arabe non sottoposte al controllo dei Governi hanno iniziato a modificare i meccanismi mediatici, come abbiamo già sentito. La televisione è entrata con le telecamere dentro la guerra ed ha cambiato il sistema complessivo. Le televisioni globali (CNN e BBC) oggi non riescono più a raccontare con autorevolezza il mondo arabo e le televisioni non sottoposte ai Governi (Al Jazeera, Abu Dhabi TV, Al Arabiya) sono invece considerate scomode, sia all’interno, sia all’esterno, perché, da un lato, diventano megafono di messaggi precisi ma, dall’altro, danno voce a chi non ha avuto voce, e non soltanto alla singola persona, bensì anche a chi si trova fuori dai singoli Paesi, come gli esiliati politici e i commentatori internazionali. Questo rappresenta, secondo me, una crescita complessiva del sistema informativo internazionale. 

Il mondo arabo ha quindi dovuto fare i conti – visto da me come occidentale – con queste televisioni indipendenti e anche con realtà, piccole quanto vogliamo, come quella di RAI Med o come ANSAMed, che mi permetto di citare alla presenza del vicedirettore dell’ANSA, la più grande agenzia in Italia ed una delle più grandi del mondo. ANSAMed ha realizzato con l’agenzia quello che noi abbiamo cercato di realizzare con la televisione, mettendo insieme la sua fortissima rete presente nel Mediterraneo. Oggi, ogni giorno, vengono mandate in rete tra le 100 e le 150 notizie che non passano dai circuiti tradizionali: è una cosa straordinaria, perché noi abbiamo così a disposizione una serie di informazioni che, fino a qualche anno fa, nemmeno ci sognavamo di poter avere. Più informazione abbiamo, maggiore è la libertà di scelta e maggiore è la nostra libertà di giornalisti di portare avanti certi discorsi. 

Chiaramente tutto questo dà fastidio, così come lo è sempre la stampa libera, o almeno quella più libera. In quel caso si va incontro alla censura, che secondo me è una cosa assolutamente stupida, perché non serve a niente, in un mondo globale, censurare dei siti internet, come è avvenuto ed avviene in alcuni Paesi.


Ci sono però anche giornalisti che sono stati uccisi. Vi riporto un dato risalente a due giorni fa: da gennaio ad oggi sono stati uccisi 95 giornalisti, 48 dei quali soltanto in Iraq, mentre l’anno scorso ne sono stati uccisi 107.

C’è poi un’altra cosa che ci deve far preoccupare. In Iraq un’agenzia ha denunciato la presenza di manifesti, davanti ad alcune moschee, che giudicano come «infedele» un singolo giornalista, su cui esiste una taglia di 10.000 dollari, da consegnare vivo o morto.

Questo ci deve far pensare, ci deve far capire quanto sia importante oggi il ruolo dell’informazione, quanto lo è stato e quanto lo sarà. Questo vale certamente in Libano, per esempio, dove sono stati uccisi il direttore e un’opinionista di uno dei più grandi giornali di Beirut. Mi riferisco all’importanza che oggi può assumere l’informazione complessiva, globale, senza steccati, che cerchi di raccontare quello che deve esser fatto e ciò che avviene, senza barriere ideologiche. 

Vorrei aprire un piccolo, piccolissimo spaccato anche sulla radio, di cui nessuno parla. Secondo un’indagine recente della COPEAM, in tredici Stati della sponda sud, dove si registra la presenza di 47 milioni di apparecchi televisivi su una popolazione di 245 milioni di abitanti, si registrano anche 45 milioni di apparecchi radiofonici. L’apparecchio radiofonico, rispetto a quello televisivo, ha un’utenza maggiore, sia perché può arrivare ovunque – la radio si sente dappertutto –, sia perché determinati popoli di tradizione orale seguono più la radio che la televisione.

Con questi numeri voglio essenzialmente dire che oggi siamo alla presenza di una possibile, bella e importante rivoluzione, dal punto di vista mediatico. Una rivoluzione che non è soltanto portata avanti dai grandi circuiti internazionali come possono essere la RAI, Al Jazeera e altre televisioni, ma anche da singole persone, da piccole professionalità come i registi dei documentari, che stanno raccontando, in questi anni, i loro Paesi, senza essere sottoposti alla censura; e che chiedono spazio anche nelle televisioni occidentali, per farci conoscere – senza censura e senza essere sottoposti a determinati vincoli – quello che avviene in determinati Paesi della sponda sud del Mediterraneo. 

Stanno avvenendo delle cose straordinarie, che purtroppo non raggiungono i nostri circuiti perché contraddicono lo stereotipo; come si diceva prima, poiché la Siria deve essere guardata in un certo modo, ci si dimenticare che può essere guardata anche in un altro modo.

Negli anni ‘60 e ‘70 in Italia c’era il terrorismo delle Brigate rosse, ma certamente l’Italia non era un Paese di terroristi. Chi ci avesse guardato come un Paese di terroristi, avrebbe fatto un errore, anzitutto concettuale. 

Poiché ho già superati i dieci minuti, termino qui il mio intervento, ritornando a quanto dicevo  all’inizio, parlando di una «identità intermedia»: questo è l’obiettivo che abbiamo cercato di raggiungere con Mediterraneo, con la nostra informazione, con lo scambio e la ricerca importante di linguaggi comuni; abbiamo cercato di farlo anche utilizzando le troupe miste, cioè fatte di giornalisti italiani o della televisione araba, lavorando insieme, mettendoci insieme per fare quello che io chiamo «formazione sul campo», per conoscerci e per capire quali fossero le possibilità di arrivare ad un linguaggio comune.

Abbiamo guardato al futuro, alle nuove generazioni, e abbiamo cercato di diventare un laboratorio, un luogo da rispettare perché libero e senza barriere ideologiche, operando un confronto e inseguendo una maturazione, evitando le colonizzazioni, percorrendo un percorso che ha cercato di superare le identità nazionali per crearne una più ampia su ciò che unisce, mettendo da parte, per quanto si è potuto, ciò che divide.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Do ora la parola per l’ultimo intervento di questa fase dei lavori a Najdat Ismael Anzour, regista siriano, a cui do il benvenuto.


 

NAJDAT ISMAEL ANZOUR, Regista (Siria). Buongiorno a tutti. Vorrei iniziare dall’ultimo punto dell’intervento del dottor Khader di Al Jazeera. Per un attimo ho sentito che alcuni dei suoi propositi erano un po’ avvilenti, soprattutto quando ha detto che noi non siamo tuttora pronti a dialogare con l’Occidente. Dialogheremo, sicuramente.

Permettetemi di presentare alcune idee come mio contributo per il dialogo futuro. Credo che la crisi del dialogo tra noi e l’Occidente nasca da una mancata fiducia degli uni negli altri. Nei nostri Paesi noi guardiamo all’Occidente come colonizzatore.

In quanto regista arabo, siriano, ho presentato una serie di prodotti televisivi che hanno riscosso successo nel mondo arabo e con i quali abbiamo cambiato la visione delle cose tipica dello spettatore arabo tradizionale. Oltre al prodotto egiziano classico, ora c’è anche il nostro prodotto, che è competitivo – per elaborare questo nostro modello abbiamo fatto uso anche delle soap opera occidentali –  e ci fa onore. Ora il dramma televisivo siriano è un prodotto che riscuote molto successo ed è un prodotto esportabile. Riscontriamo un risultato positivo, c’è un’interazione con questi sceneggiati siriani. Il segreto sta nel fatto che noi trattiamo argomenti importanti, che toccano il cuore della società araba. Il siriano ha sempre un senso di appartenenza araba, non si limita alla Siria solamente: da qui nasce la caratteristica che è stata il punto di forza dei serial siriani, con tutto il rispetto dovuto agli altri sceneggiati realizzati in altri Paesi arabi.

Nell’ultimo periodo ha attirato la mia attenzione, in quanto artista, il fatto che in Siria veniamo accusati di essere terroristi. Ho cominciato allora a fare delle ricerche su questo argomento e ho finito per individuare alcuni termini, alcuni vocaboli, per relazionarmi a questo nuovo appellativo che ci è stato accollato. Ho trovato che la migliore soluzione fosse tornare alle radici del terrorismo e in brevissimo tempo ho trovato che ci sono due tipi di terrorismo.

Anzitutto il terrorismo estremista, che ha motivazioni varie e numerosissime – religiose, politiche eccetera – ed è riconducibile ad un sentimento di frustrazione e di fallimento avvertito dai cittadini arabi, i cui diritti sono stati violati e che sanno come le situazioni politiche attuali non consentano loro di riprendere tali diritti. Per questo il cittadino arabo si sente frustrato e, quando qualcuno gli promette che potrà entrare in paradiso, se si farà esplodere contro quelle persone e quei regimi che gli vengono dipinti come i suoi nemici, diventa, piano, piano, un veicolo di diffusione di quelle idee, estranee alla nostra società, e che nulla hanno a che vedere con essa, dato che, come ben sapete, l’Islam è una religione che invita alla coesistenza.

C’è poi un altro tipo di terrorismo, quello dello Stato, che è esercitato nei nostri confronti e che rappresenta la nuova forma del colonialismo, un neo-colonialismo. Noi moderati ci troviamo pertanto tra l’incudine e il martello: vorremmo dialogare con l’Occidente, ma non riusciamo a trovare il modo per esprimerci.

Mi sono così trovato ad essere parte integrante di questo dramma, ed ho realizzato un primo sceneggiato ambientato in un centro dove degli arabi sono stati vittime di attentati terroristici. L’impatto di questi avvenimenti sulle famiglie del circondario, dove tutti consideravano l’Arabia Saudita come un Paese arabo, quindi come un Paese sicuro. Era una sorta  di «America», per i Paesi arabi, perché è Terra santa, perché ci sono la Mecca e Medina, ma anche perché sono un Paese ricco, nel quale ogni cittadino arabo può ottenere un contratto di lavoro, può contribuire a dare una svolta alla propria vita e costruire un proprio futuro.

Questo è l’esatto contrario di quanto è accaduto ad un gran numero di cittadini arabi che vivevano in un compound, in Arabia Saudita, dove ci sono stati degli attacchi. L’anno scorso ho quindi realizzato un serial, dal titolo Il rinnegato, che trattava del terrorismo nelle sue varie forme. Abbiamo trattato il tema degli attentati di Londra attraverso la famiglia araba siriana che vive a Londra, affrontando così il tema dell’impatto di questo attentato sui musulmani in Occidente. Abbiamo parlato degli attentati in Marocco, in Siria, in Libano e in Iraq; attentati che, come sapete e come vedete sugli schermi dei vostri televisori, si hanno ogni giorno.


Abbiamo cercato di mediare, di dare una lettura oggettiva, per andare alle radici del fenomeno. Il problema non sta nel serial televisivo, ma è politico: l’Occidente sta cercando di accusare la Siria di essere un Paese terrorista, ma io vivo a Damasco e vedo fratellanza e coesistenza. In nessuna città del mondo si può vedere una moschea, una sinagoga ed una chiesa nella stessa strada. Si tratta di un pregiudizio, perché non abbiamo alcun astio nei confronti delle altre religioni. I miei amici sono per la maggior parte cristiani e molte delle persone con cui lavoriamo appartengono a varie confessioni religiose, ma non sentiamo una differenza tra gli appartenenti alle varie confessioni. Solo di recente abbiamo iniziato a sentire queste accuse e  purtroppo molte stazioni arabe di informazione contribuiscono a gettare olio sul fuoco dell’odio e della divisione tra appartenenti a diverse religioni.

Mi trovo qui a Roma per dare un contributo a questa vostra riunione e ieri mi è stato possibile dare l’annuncio che verrà girato un prodotto cinematografico sull’occupazione italiana in Libia. Credo che ogni Paese abbia il diritto di rivisitare la propria storia, per lenire le proprie ferite e per dare una mano all’altro per superare questa fase.

Non mi dilungo ulteriormente e concludo dicendo che noi rivendichiamo il dialogo, ma sulla base del rispetto reciproco e sulla base della costruzione della fiducia tra noi e l’altro.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio e le rinnovo il nostro benvenuto.

Ci sono parecchi iscritti a parlare e abbiamo un po’ di tempo per farlo. Credo che gli argomenti siano importanti e che tutti ci tocchino in modo diverso.

Ha chiesto la parola l’onorevole Mecarbne e, dopo di lui, l’onorevole Järvi dell’Estonia. Prego, onorevole Mecarbne.

 

EDUAR MECARBNE, Assemblea del Popolo della Siria. Grazie, presidente.

Il bacino del Mediterraneo deve ricevere un’attenzione particolare, per superare la crisi attuale, conseguente all’aggressione israeliana contro i Paesi arabi. Questo deve essere alla base di una soluzione equa e giusta ed è quanto chiede la Siria. Per aumentare le possibilità di pace occorre  restituire alla Siria il Golan occupato. In autunno ci sarà una conferenza di pace e noi chiediamo che il problema del Golan venga discusso.

Il ruolo dei media e delle televisioni satellitari è molto importante. Essi svolgono un ruolo molto importante nell’alimentare il fuoco, nel dare voce ai persecutori. Inoltre, vi sono dei finanziamenti esteri che cercano di non consentire loro di avere voce in capitolo.

Chiediamo che ci si adoperi per una pace giusta ed equa, affinché i media possano svolgere un ruolo giusto, che rispetti le civiltà e le particolarità di tutti i popoli.

Grazie per il cortese ascolto. 

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie a lei. Do ora la parola all’onorevole Järvi. 

 

RAIVO JÄRVI, Riigikogu dell’Estonia. Grazie, presidente.

In ragione della mia esperienza e del mio background vorrei fare alcune osservazioni. Prima di fare il parlamentare, sono stato un giornalista – sono stato nel mondo dei media per 25 anni – un illustratore e un disegnatore di cartoni animati.

Ricorderete l’evento delle famose vignette danesi. Quando ciò si è verificato sono rimasto sorpreso; addirittura ci scherzavamo sopra, ne facevamo delle barzellette, senza rendercene conto. In Europa siamo abituati a scherzare su noi stessi ed a prenderci in giro. Il mio collega sa di una vignetta che prende in giro e ridicolizza tutti i Vangeli. Siamo quindi abituati a quello che ha invece scatenato una lunga serie di reazioni negative nel mondo arabo.


 

Noi dobbiamo sentire la nostra responsabilità in quanto uomini politici, per fare in modo che non si cavalchino queste correnti, dato che possono esserci dei giovani che se ne sentono maggiormente offesi e che poi reagiscono. In fondo è una questione di buon gusto. È vero che non deve esserci censura e che il Governo non può controllare i media, i quali devono essere liberi, ma in una delle vignette svedesi, se non sbaglio, il profeta Maometto è stato raffigurato come un cane: qui siamo veramente al limite del buon gusto, anzi scadiamo nel cattivo gusto.

Spesso si parla, anche a livello politico, dell’attuazione dell’insegnamento e dell’esistenza di varie religioni. Ebbene, credo che anche a livello scolastico questo sia un settore significativo.

Ad esempio, io ho fatto un programma sulla vita del profeta Maometto, da cui si evinceva che l’Islam è una religione ancora molto attuale. Oppure, pensiamo agli scavi sotto la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, che è proprio il luogo in cui le tre grandi religioni si sono riconosciute (Mosè, Abramo, Gesù e Maometto). Bisogna quindi sottolineare questo aspetto di tolleranza.

Il problema è però che Maometto è vissuto nel XII secolo, mentre oggi l’Islam, come religione sta attraversando una fase integralista, così come ha fatto il cristianesimo. Ricorderete tutti Girolamo Savonarola, che non mi sembra abbia fatto una propaganda particolarmente rosea e positiva per la cristianità. Occorre quindi capire, da parte di tutti, cosa vada fatto da parte europea e cosa dall’altra costa del Mediterraneo. 

Voglio concludere ricordando un film di quando ero bambino, nel quale su chiedeva ad uno scolaro di scrivere un tema sulla felicità. Questo scolaro scrisse una sola frase: «La felicità è quando si è capiti».

 

OMAR ADKHIL, Chambre des Conseillers, vicepresidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola alla signora Farkhanda Hassan dell’Egitto. 

 

FARKHANDA HASSAN, Shura dell’Egitto. Signor presidente, c’è sempre stato un dialogo tranquillo e pacato tra le sponde sud e nord del Mediterraneo; ci sono state addirittura un’interazione ed un’influenza reciproca tra le varie culture, l’una verso l’altra.

Quanto sta accadendo da poco e quanto è accaduto negli anni recenti ha però disturbato questo dialogo pacato. Tutto questo non è altro che il risultato del gioco politico che vuole egemonizzare la regione, controllandone le fonti di energia (il petrolio), oppure per imporre alcuni regimi politici. Tutti questi sono fattori che hanno fatto deragliare il treno del dialogo. Ora non c’è dialogo ma aggressione ed aggressività e tutti i media sono stati mobilitati. Sia la carta stampata, sia l’audiovisivo sono diventati strumenti di questa guerra, per caricare ancora di più questo astio, questo odio, secondo il principio del dividi et impera.

La religione, che è la carta vincente nel mondo arabo, è stata così utilizzata da costoro in un modo molto indiretto e molto duttile. Essi conoscono molto bene l’impatto della religione in questa regione del mondo e, per stuzzicare la religione, si è fatto ricorso alle vignette.

L’Islam è però tolleranza – di cui è intriso il nostro animo – e i musulmani non hanno voluto rispondere allo stesso modo, anche se sarebbe stato molto facile. Noi riteniamo che la figura di Cristo sia sacra e non consentiremmo mai di rispondere allo stesso modo sulla figura di Cristo, anzi lamentiamo quanto fanno alcune società cristiane che producono dei filmati e delle pellicole che feriscono il sentimento riguardante la personalità di Cristo. 

C’è però un pericolo incombente, se tutto dovesse proseguire con questo trend, se cioè questa sfida che utilizza la religione dovesse continuare. Noi non sappiamo per quanto tempo potremmo tenere sotto controllo le reazioni. Pertanto siamo molto felici di poter includere questo punto nel nostro ordine del giorno e chiedo con forza che la Fondazione Anna Lindh svolga un compito a


questo riguardo e studi come sia possibile trattare la questione «media e dialogo culturale», dandoci un risultato di questo studio nella nostra prossima riunione, al fine di tracciare un programma realistico che possa aiutarci a ripristinare un dialogo pacato. Non certo per fondere tutte le culture le une nelle altre, perché credo che, sebbene tutti noi vogliamo il dialogo e lo scambio dei punti di vista per imparare ciascuno dal punto di vista altrui, ognuno di noi sia orgoglioso della propria cultura e voglia salvaguardare le proprie specificità e caratteristiche. Grazie.

 

OMAR ADKHIL, Chambre des Conseillers, vicepresidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola all’onorevole Ibtisam Mikhail dell’Egitto. 

 

IBTISAM MIKHAIL, Assemblea del Popolo dell’Egitto. Mi preme anzitutto chiarire, in quanto deputata copta, che anche in Egitto – come ha detto il collega siriano – siamo orgogliosi del fatto che una chiesa possa trovarsi accanto ad una moschea. Il popolo egiziano è un tessuto unico, fatto di una lunga storia di fratellanza e di carità. Non accettiamo assolutamente alcuna offesa ai simboli religiosi, in nome della libertà di espressione di culto. 

Suggerirei di istituire un canale televisivo euro-mediterraneo, finanziato da imprenditori, con una strategia mediatica per trovare dei punti di accordo e di incontro tra le culture del nord e del sud, per discutere le varie questioni e presentare le culture altrui attraverso un programma che sia un ponte con gli arabi;  per superare tutti i pregiudizi, al fine di attuare e realizzare la pace tra le culture e le religioni; per diffondere la conoscenza dell’altrui religione, degli altri popoli e della loro storia; per sostenere la discussione continua; per avviare un dialogo organizzato e coordinato tra i vari circoli culturali, lontano dalla politica; per rafforzare gli aspetti culturali comuni ed incoraggiare le iniziative miranti a sradicare il razzismo, la paura e il rifiuto dell’altro.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio, onorevole Mikhail. Do ora la parola all’onorevole Geringer De Oedenberg, del Parlamento europeo.

 

LIDIA GERINGER DE OEDENBERG, Parlamento europeo (POLONIA). Grazie, presidente.

Vorrei ricordarvi che, all’inizio, la rete Euronews, aveva anch’essa dei programmi in arabo e che è stato proposto di rifarli, proprio per facilitare il dialogo interculturale: è importante sostenere questa iniziativa.

Prima di essere parlamentare, ho lavorato per molto tempo per la televisione di Stato polacca, dove sono stata anche direttrice della programmazione. Vorrei fare un’osservazione per quanto riguarda Al Jazeera. Poiché si parla di dialogo interculturale – tenuto conto che l’anno prossimo sarà l’anno europeo del dialogo interculturale – ritengo che sarebbe interessante sapere se Al Jazeera presenta anche dei programmi sulla cultura europea, per esempio sulla musica e sul teatro;  e se ci sono degli scambi tra Al Jazeera e le reti televisive pubbliche europee oppure se avete in programma questo tipo di iniziative e, nel caso, come vengono o verranno finanziate. Vorrei chiederle anche, per quanto riguarda il vostro bilancio, in che modo è finanziata Al Jazeera: si tratta di soldi pubblici o privati? Ci sono degli sponsor? C’è pubblicità?

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Penso che prima di rispondere alle domande, sia opportuno raccogliere gli altri contributi ed interventi.

Do la parola all’onorevole Salim Zaccur.


 

MUHAMMAD SALIM ZACCUR, Assemblea del Popolo della Siria. Grazie, presidente.

Mentre si parlava del ruolo dei media e di Al Jazeera, ho sentito accennare alla cultura ed a come gli arabi guardano ai popoli europei. Evidentemente mi preme chiarire che noi, in quanto popolo arabo, serbiamo molto affetto e rispetto per tutti i popoli, ed evidentemente anche per i popoli euro-mediterranei. Gli errori dei Governi non incidono su questi sentimenti di affetto e di rispetto per i popoli, almeno non per noi in Siria. In quanto parlamentari, conosciamo molto bene la cultura del nostro popolo, ed è questo che succede in Siria nei confronti dei popoli arabi, mediterranei e persino nei confronti del popolo americano. La politica non incide dunque su questo nostro sentire verso i popoli.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all’onorevole Beatrice Patrie.

 

BEATRICE PATRIE, Parlamento europeo (FRANCIA). Grazie a tutti gli oratori per gli interventi molto interessanti, che chiariscono un dibattito complesso.

Vorrei ripetere alcuni dei punti che sono stati sollevati riguardo all’importanza della strategia mediatica, di cui siamo tutti consapevoli.

C’è stato un evento che, sul piano mediatico europeo, ha rappresentato una rottura rispetto al passato, ossia la guerra contro il Libano (non quella dell’estate scorsa, bensì quella del 2006).

Ebbene, fino a quel momento le guerre che erano state riportate dai media europei, erano state viste in maniera unilaterale. Ad esempio, la guerra in Iraq era stata presentata solo parzialmente, perché non c’erano media di entrambe le parti del conflitto. Nell’estate del 2006, invece, quando in Europa abbiamo visto la guerra del Libano, lo abbiamo fatto attraverso i media di entrambe le parti, israeliana e libanese. È stata una vera novità, che ha avuto un’influenza notevole sul conflitto, perché gli israeliani hanno perso innanzitutto la guerra dei media, e questo è stato, per loro, l’inizio di una sconfitta che poi è diventata politica e militare.

La prima sconfitta che hanno subito è stata dunque quella mediatica, che è avvenuta progressivamente. Molto rapidamente vi ricordo quello che si è visto sui media francesi, per esempio. All’inizio del conflitto c’era uno squilibrio evidente nei punti di vista, con tutto il rispetto che ho per i giornalisti presenti. Gli israeliani erano presentati come giovani militari molto vicini ai nostri standard occidentali, che dovevano abbandonare il loro Paese per andare a combattere una guerra che non avevano scelto. Mentre dalla parte libanese si vedeva, di fatto, un’immagine di popolazione araba meno simpatica, attraverso i militanti di Hezbollaheccetera.

Pian, piano, col passare dei giorni, c’è poi stata una rottura. A partire dal massacro di Cana – quando in televisione abbiamo visto famiglie e bambini massacrati o feriti e, poi, l’esodo delle popolazioni cristiane libanesi per le strade – c’è stata un’inversione nel trattamento mediatico del conflitto ed anche una conseguente inversione nell’opinione pubblica francese ed europea, che ha iniziato a giudicare diversamente il conflitto. La questione ha iniziato a non apparire più così semplice come era stata fatta apparire inizialmente.

Questo è stato per me estremamente interessante da osservare, proprio perché ha rappresentato una rottura nel trattamento mediatico degli eventi. Questo ci conferma l’idea che sia assolutamente necessario avere una strategia mediatica per instaurare un dialogo tra le due sponde del Mediterraneo. Spesso io viaggio nei Paesi arabi e nel Medio Oriente e vi assicuro che le popolazioni di quei Paesi non sanno fare una differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti, perché di noi viene loro sempre trasmessa la sola immagine di occidentali: in quanto europei, abbiamo difficoltà a far capir loro che non siamo americani e non condividiamo necessariamente i punti di vista dell’Amministrazione americana o di Bush.


Ebbene, questo è un discorso che è difficile da far capire ai nostri interlocutori. Abbiamo difficoltà a trasmettere un’immagine diversa di noi stessi, a comunicare con loro sulle politiche che portiamo avanti. Anche recentemente sono stata in un Paese del Mashreq e mi sono scontrata con la difficoltà di far capire quale sia la nostra politica europea di vicinato. Ho incontrato molti mass media che mi aspettavano alla fine di ogni riunione e mi chiedevano cosa avessimo intenzione di imporre loro con la nostra politica di vicinato, se con i nostri standard europei in materia di omosessualità intendessimo imporre loro l’omosessualità. Ho avuto delle difficoltà a spiegare che non era proprio quello il caso, che la nostra politica europea di vicinato, come gli altri processi europei, non è dettata dalla volontà di imporre dei valori occidentali. Quindi anche noi europei abbiamo difficoltà a dimostrare ciò che siamo realmente.

Per concludere, vorrei dire anche che sono d’accordo con quanto ha detto la collega polacca, perché sono a favore di un media europeo, Euronews, che trasmetta anche dei programmi in arabo. Purtroppo al momento questo non avviene più, ma ciò non corrisponde alle nostre necessità di comunicare come Europa, e non quindi come singoli Paesi (Francia, Italia, Estonia eccetera).

L’Unione Europea deve secondo me dotarsi di un mezzo di comunicazione per comunicare con la sponda sud del Mediterraneo, anche se c’è una difficoltà reale, condivisa da tutti i mass media, che ha a che fare con il fatto che i treni che arrivano in orario non interessano a nessuno, perché ad interessare sono i treni che deragliano e quelli che hanno grossi ritardi.

Se vogliamo dare un’immagine più positiva gli uni agli altri, incontriamo delle difficoltà, perché quello che interessa soprattutto – non so se solo ai mass media o anche alle popolazioni che guardano la televisione – sono i conflitti e la violenza, mentre le immagini positive e ciò di cui parlava la collega polacca – la musica, la cultura – non penso che interessino. Questo è un grosso problema.

Vorrei parlare anche della necessità assoluta di assicurare la libertà di stampa, che è uno degli obiettivi del partenariato euro-mediterraneo. Non è un’accusa che sto formulando nei confronti dei nostri partner del sud, perché anche noi in Europa abbiamo avuto e abbiamo tuttora dei problemi di libertà di stampa. In Francia, per esempio, la stampa è libera solo da poco tempo, considerato che  anche dopo la seconda guerra mondiale c’era un Ministero che controllava i messaggi mediatici. Questo è quindi è un problema che conosciamo bene, ma per comunicare veramente bisogna avere l’assoluta libertà di stampa.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola all’onorevole Zeynep Dagi, della Turchia. 

 

ZEYNEP DAGI, Grande Assemblea nazionale della Turchia. Signor presidente, vorrei fare un paio di osservazioni su Al Jazeera.

Come tutti sappiamo,Al Jazeera è un canale molto seguito, che rispecchia una trasformazione intervenuta nel Medio Oriente. Come è stato detto, il suo sviluppo dimostra un grande dinamismo, perché essa richiede una società più aperta e più democratica. Attraverso Al Jazeera io ho l’occasione di vedere cosa succede in Medio Oriente, dove vivo, considerato che la Turchia fa parte della regione mediorientale, mentre finora non avevo avuto la possibilità di apprendere notizie in merito agli sviluppi intervenuti nella regione. 

Grazie ad Al Jazeera posso quindi aprire la mia mente e vedere i miei vicini. Mi ha molto colpito la presentazione che è stata fatta su Al Jazeera e per questo voglio ringraziare il relatore.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Le chiedo di presentarsi, per favore, poiché non conosco il suo nome.


 

FAHIMA ARUS, Assemblea del Popolo della Siria. Signor presidente, sono Fahima Arus della Siria. I media hanno un ruolo molto importante per diffondere la cultura della pace e della coesistenza e per rafforzare i legami di amicizia tra i popoli. La pace e la coesistenza sono il mezzo per dare stabilità, mentre la stabilità permette lo sviluppo. Il bombardamento dei depositi di carburante in Libano è stato un esempio eloquente del legame tra ambiente e pace. Lo stesso vale per quanto succede in Iraq.

Per questo invitiamo i rappresentanti dei Paesi presenti a mettere i rispettivi ministeri dell’informazione di fronte alle loro responsabilità, perché dicano la verità e si adoperino per un maggiore coordinamento e una maggiore difesa del diritto ad un ambiente sano e del diritto all’istruzione.

Ribadendo quanto ha detto il signor Najdat Anzour, invitiamo tutti a visitare la Siria, per vedere da vicino la realtà che vivono Damasco e la Siria, il Paese della pace e della tranquillità, il vero Paese di incontro tra tutte le civiltà.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola all’onorevole Guibal.

 

JEAN CLAUDE GUIBAL, Assemblea nazionale della Francia. Grazie, presidente.

Stiamo parlando delle relazioni tra i sistemi di comunicazione e della politica di dialogo tra le culture e vorrei dunque fare anch’io alcune osservazioni di tipo semantico, perché gli strumenti determinano anche i contenuti dei messaggi che vengono convogliati: sono un po’ come le parole, come la forma che dà il senso.

In questo campo dobbiamo affrontare alcune ambiguità. Una per tutte: l’Assemblea, così come il dialogo, viene qualificata «euro-mediterranea». Questo ci fa pensare che l’Europa non si consideri mediterranea e che quindi, piuttosto che un dialogo tra riva sud e riva nord del Mediterraneo, il termine euro-mediterraneo copra qualcos’altro, e precisamente un dialogo tra l’Europa e l’Islam. Non è però la stessa cosa, perché tra l’Islam della riva sud e le altre religioni della riva nord c’è uno zoccolo di civiltà comune. Questa reticenza dell’Europa ad affermarsi come mediterranea, mi sembra possa rischiare di provocare alcuni malintesi. Com’è stato detto prima, del resto, in Medio Oriente l’Europa è spesso percepita come appartenente allo stesso mondo degli Stati Uniti, anche quando in politica estera ha delle posizioni diverse rispetto a questi ultimi.

L’Occidente a confronto con l’Islam non è il nostro tema: noi ci occupiamo dell’identità euro-mediterranea e del dialogo tra i Paesi che si trovano sul bacino del Mediterraneo.

Prima il signor Khader ha detto che quando si parla di dialogo, si parla sempre di quello che è scomparso, perché quando le cose esistono, si vivono e non se ne parla. I mezzi di comunicazione che utilizziamo oggi, però – la televisione innanzitutto, ma anche internet, che è ancor più moderno, anche se è un po’ più a margine in questo discorso – sono, appunto, mezzi di comunicazione e non di dialogo.

Nel Mediterraneo c’è stato un dialogo, c’è stata una fecondazione incrociata delle culture nate su questo bacino che, sfiorandosi o scontrandosi o cooperando, hanno comunque sempre intrattenuto una forma di dialogo che oggi, invece, mi sembra essere stata sostituita da una comunicazione, spesso univoca, dell’«Io penso questo, punto e basta».

Penso sia, invece, importante ristabilire delle forme di dialogo tra le identità. Ne abbiamo parlato: sono all’origine, ma sono anche evolutive – io sono molto legato, per esempio, all’identità mediterranea: mi sento mediterraneo, mi sento del sud, dell’est e del nord del Mediterraneo.


Che cos’è l’identità mediterranea e come la si può definire? In che modo le diverse forme di cultura, nate da religioni diverse, ma anche da atteggiamenti diversi e latitudini diverse, partecipano all’identità mediterranea? Attraverso il dialogo vogliamo rafforzare le culture o vogliamo, piuttosto, avvicinarle? Facciamo solo un piccolo esempio: io sono sindaco di Mentone, una città transfrontaliera, e ogni volta che vado dall’altra parte della frontiera, in Italia, invito gli italiani ad essere sempre più italiani, così come noi cercheremo di essere sempre più francesi. Solo così potremo arricchirci nel nostro dialogo locale.

Ci stiamo evolvendo in questo senso, da una parte e dell’altra del Mediterraneo? Ho piuttosto l’impressione che ognuno voglia che l’altro sia come sé, ma questo è rischioso, perché così facendo si entra in un campo assolutamente illegittimo. Non conosco troppo bene il mondo musulmano, ma ho l’impressione che questo atteggiamento provochi delle reazioni negative rispetto alla modernità così come viene definita dall’Occidente. Forse non è però questo il tema delle relazioni euro-mediterranee.

Questo era quanto volevo condividere con voi.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do la parola a Carlos Carnero del Parlamento europeo.

 

CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Signor presidente, sono d’accordo, in primo luogo, con quanto ha detto Beatrice Patrie, in particolare quando si è riferita alla libertà di informazione e di espressione, un diritto fondamentale che deve essere rispettato ovunque, sia sulla sponda nord, sia sulla sponda sud del Mediterraneo.

Non sono invece d’accordo con l’idea secondo cui la maggioranza degli europei riterrebbe che gli abitanti della sponda meridionale del Mediterraneo siano persone «non giuste», per così dire. Secondo me, la maggior parte dei nostri cittadini ritiene invece che siano dei buoni popoli e che non  siano affatto responsabili delle violenze o degli integralismi. Va anzi sottolineato che nei Paesi colpiti da attacchi terroristici – pensate al mio, la Spagna – esiste una relazione molto positiva con tali popoli: anche dopo questi attentati così brutali non c’è stata nessuna esplosione di razzismo, nessuna reazione razzista, è anzi vero il contrario.

Questo sentimento è molto importante e va sviluppato: su di esso, su questa stragrande maggioranza di persone senza pregiudizi nei confronti dei popoli del sud, dobbiamo lavorare nel futuro. I media hanno un ruolo da svolgere in questo, anche se non così palese: secondo me i contenuti dei media del nord – giornali, stampa, televisione e così via – danno chiaramente una buona informazione, una cronaca di quello sta succedendo, di ciò che è successo in Iraq. Parlo di buona informazione, cioè di informazione obiettiva.

Uno degli obiettivi che ci dobbiamo prefiggere e dobbiamo raggiungere è quello di introdurre temi mediterranei come informazione utile nei media europei. Ad esempio, se il processo Euromed non è così ben conosciuto dalla popolazione europea, forse questo accade anche perché gli stessi media non sono informati puntualmente al riguardo: questo è un dato di fatto.

Abbiamo Euronews; benissimo, ma questa è solo una piccola quantità di notizie dei nostri rispettivi Paesi.

Un’altra cosa per me importante è l’informazione dal sud al sud. Al nord abbiamo questo tipo di informazione, perché quando viene trasmesso un telegiornale in Italia, vi si parla dell’Unione Europea, di Spagna, Regno Unito, Germania eccetera. Si danno cioè le notizie – positive o negative che siano – su quanto accade negli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Mi chiedo se la televisione marocchina trasmetta notizie su ciò che sta accadendo negli altri Paesi vicini del Maghreb o del Mashreq, a est e ad ovest.


Bisognerebbe, per esempio, chiedere alla Commissione europea di mantenere, sviluppare e migliorare i programmi esistenti più importanti, sia per la televisione, sia per il cinema. Per esempio, so bene che in Tunisia, in Marocco, in Algeria e in Siria c’è il cinema, naturalmente, ma io non posso certo vedere questi film in Spagna. Sarebbe veramente una buona notizia se un film proveniente da questi Paesi venisse trasmesso e proiettato in Spagna. È quindi utile vedere i film altrui, scambiare informazioni, ma sarebbe utile anche aderire al programma Alleanza tra civiltà. Non lo dico tanto perchè è un programma congiunto Spagna-Turchia, quanto perché esso può essere un veicolo di comprensione reciproca tra gli europei e il mondo arabo, e quindi tra popoli tutti del Mediterraneo.

Concluderò dicendo che la mia impostazione nei confronti della situazione è un po’ più rosea. Forse vedo le cose in maniera troppo ottimista e positiva – forse a volte esagero col mio ottimismo – ma la situazione non mi sembra così grigia.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Forse i vostri media in Spagna sono eccezionali. 

Do ora la parola ad Abdel Hamid della Siria. 

 

ABDEL HAMID AL-GHUBARI, Assemblea del Popolo della Siria. Signora presidente, onorevoli signore e signori, l’informazione leale ed impegnata, in questo mondo odierno, con le varie tecnologie esistenti, con la velocità delle informazioni da un continente all’altro, tutto questo ha un effetto immediato sulla vita dei popoli, delle culture e delle civiltà. Penso alla cooperazione positiva nei vari ambiti della vita culturale, economica, sociale e politica.

Noi, in quanto membri dei Parlamenti euro-mediterranei, auspichiamo un canale televisivo dedicato a discutere le questioni che verranno fatte proprie dall’Assemblea parlamentare euro-mediterranea, che invita a risolvere le questioni inerenti ambiente, cultura, acqua, cultura della coesistenza, cooperazione e dialogo. 

Dobbiamo seguire la politica economica, affinché ci siano una razionalizzazione della cultura dell’acqua ed una lotta alla desertificazione nei Paesi euro-mediterranei.

Infine ringrazio la dottoressa Della Ratta, che ha fatto un discorso così sensato, parlando della Siria: la Siria della civiltà, della coesistenza e della sicurezza. Grazie per il cortese ascolto. 

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola per l’ultimo intervento a Mohamed Ansari del Marocco. 

 

MOHAMED ANSARI, Camera dei Consiglieri del Marocco. Grazie ancora una volta.

Prima di tutto dovrei ringraziare lei, signora presidente, per avere incluso i media tra i temi discussi oggi, perché è davvero un argomento stimolante ed importante allo stesso tempo.

Le proposte che sono state presentate da parte dei professionisti del settore sono contributi davvero stimolanti e ricchi di dati e di informazioni. Auspico di poter ascoltare, in uno dei nostri prossimi incontri, ulteriori esperti da entrambi i media, che analizzino l’impatto dei programmi televisivi e satellitari – considerato che i media satellitari, soprattutto occidentali, riscuotono ormai molta attenzione – sulla vita quotidiana dei popoli euro-mediterranei, al fine di sapere quanto essi possano contribuire a comprendere l’altro, soprattutto per quanto riguarda i popoli della sponda meridionale.

Come non parlare, poi, di Al Jazeera, che ha avviato – e le siamo grati – questa politica di avvicinamento che consente a tutti i popoli e a tutti i cittadini del Maghreb di conoscere esattamente quanto sta accadendo nella loro regione, più di quanto non venga fatto dai media ufficiali. Questo sta accadendo a discapito delle reti nazionali della sponda meridionale, dove c’è un’élite con una grandissima influenza sull’attualità politica, culturale ed economica dei nostri Paesi.


Auspichiamo altresì che le stazioni televisive della sponda nord – i media occidentali – si rivolgano ai popoli del sud in modo immediato, con immediatezza, per presentare i problemi in una modalità ad essi accessibile, affinché questi popoli possano seguire e comprendere quanto stanno dicendo questi media occidentali, così da far avvicinare le due sponde, nord e sud, e da avvicinare i nostri punti di vista, creando una comune via percorribile. Nella sponda sud è infatti diffuso l’analfabetismo e non è possibile rivolgersi a tali popoli con un discorso elitario.

I media nazionali, per esempio, non discutono i temi connessi al problema drammatico dell’emigrazione. Quando dico «emigrazione», intendo riferirmi a quella dei poveri, la maggior parte dei quali ritiene che la sponda nord sia il paradiso. È dunque importante, in questo, il ruolo che i media possono svolgere per spiegare com’è la situazione al nord e com’è al sud. Speriamo che questo punto possa riscuotere qualche attenzione nei nostri prossimi incontri.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Grazie a tutti per i contributi forniti. Ci sono stati idee e suggerimenti che spero potremo riportare in un documento della commissione. I nostri relatori sono stati interpellati da molti e vorrei dare loro la possibilità di rispondere.

Do la parola, nell’ordine, a Samir Khader, a cui sono state rivolte diverse domande, e, a seguire, a Donatella Della Rata, Giancarlo Licata e Najdat Anzour, qualora desiderassero rispondere per un paio di minuti.

 

SAMIR KHADER, Senior Producer di Al Jazeera, Doha. Cercherò di rispondere ad alcuni degli interrogativi sollevati e cercherò di rispondere nella stessa lingua con cui mi sono stati rivolti.

Comincerò dalla domanda sulla musica. Naturalmente nel nostro canale parliamo molto di questo, siamo anzi il secondo canale mondiale per numero di corrispondenti nel mondo (ne abbiamo 72 sparsi per tutto il globo: in Europa, America, Asia e Africa); questi corrispondenti raccontano quello che succede politicamente e che interessa al mondo arabo, ma non solo, perché circa metà del loro lavoro riguarda il comparto culturale, quindi la musica, la società e lo stile di vita. Naturalmente cerchiamo di far vedere al nostro pubblico che esistono un mondo e una cultura diversi dai suoi e pertanto compriamo sempre anche avvenimenti artistici, musicali e quant’altro.

La risposta più difficile riguarda l’aspetto dei finanziamenti e del bilancio. Io non sono il direttore generale e non so quindi dare una risposta puntuale, tuttavia so che il bilancio della mia televisione è finanziato per più del 50 per cento dai proventi della pubblicità, mentre il restante 50 per cento arriva dal Governo del Qatar. Se questo abbia un’influenza sulla nostra politica editoriale è un interrogativo che ci poniamo sempre, ma io ritengo che non sia assolutamente così. È proprio come per la BBC, che non è certo influenzata dal fatto che il Governo è il suo contribuente.

A volte – abbiamo visto accadere questo con Greg Dike – il Governo interviene per zittire. Addirittura abbiamo visto che il Governo britannico è intervenuto per zittire la direzione della BBC, ma da noi non è mai capitato. Siamo indipendenti, magari un giorno non lo saremo più – mi auguro di no – ma per ora è così. Io sono il direttore del canale dell’informazione, lavoro ad Al Jazeera da dieci anni e non ho mai ricevuto alcuna pressione, ordine o ingiunzione da parte di alcun responsabile del Governo del Qatar, in riferimento a quanto trasmettiamo.

Mi è poi stato chiesto delle nostre collaborazioni. Certo, abbiamo firmato vari contratti e accordi di collaborazione con emittenti europee, anche se naturalmente non con le autorità pubbliche, bensì con servizi mediatici del Paese in questione, per effettuare scambi –ne abbiamo già fatto qualcuno – di informazioni, di film, di know how edi materiale.


C’è poi stata un’altra domanda – non so se fosse diretta a me personalmente – in merito alla doppia copertura degli avvenimenti della guerra in Libano. Ho seguito i canali americani, inglesi e francesi, ma soprattutto i canali arabi, e non credo che la guerra in Libano abbia segnato questa rottura, questa svolta. Sono stato in Francia per anni, e lì ho seguito la televisione francese. Quando si verificano grandi avvenimenti, quelli che noi definiamo breaking news, in Francia all’inizio si va coi piedi di piombo, pian, piano, e poi, se il tema resta attuale, si apre il dossier. In Francia c’è sempre una certa affinità tra il francese medio, il Governo e il Libano: diciamo che c’è un canale di relazioni particolare. Non voglio generalizzare perché, naturalmente, il Libano è in una situazione eccezionale, soprattutto quando si tratta di cristiano-libanesi: quando si vedono dei profughi, degli sfollati, se si dice «rifugiati libanesi» nessuno presta attenzione, ma se si tratta di rifugiati cristiani, allora l’attenzione si desta.

Naturalmente, poi, l’attenzione cambia anche se si è alleati di americani, francesi o russi. Quando si tratta del Libano in Francia c’è comunque un’attenzione speciale. Mi è quindi sembrato curioso sentir dire che questa doppia copertura informativa della guerra in Libano ha rappresentato una svolta, una rottura, un cambiamento.

Venendo al tema dell’identità mediterranea, essa esiste, anche se bisogna un po’ andarla a cercare. Provate a mettere insieme nello stesso crogiolo un italiano, un francese, uno spagnolo e poi anche un egiziano, un marocchino, un tunisino e un siriano: vedrete cosa ne esce.

Gli scambi con noi si sono fatti anche tramite gli scontri. Che si sia trattato di scontri o incontri pacifici, si è pur sempre trattato di scambi. Oggi questi scambi si sono invece un po’ fermati perché, come è stato detto giustamente, la comunicazione e il dialogo sono due cose differenti. Mi è stato chiesto se abbiamo bisogno del dialogo; certo, ne abbiamo bisogno. 

Qualcuno ha poi domandato se l’informazione nel mondo arabo sia un’informazione elitaria. Noi di Al Jazeera cerchiamo di distanziarci dall’informazione per i pochi colti e molti dei nostri programmi si rivolgono all’uomo della strada: utilizziamo un lessico molto semplificato perché c’è un alto tasso di analfabetismo, in presenza del quale non è possibile pensare allo sviluppo della democrazia e dei diritti umani. I nostri Governi dovrebbero innanzitutto mobilitarsi per lottare contro l’analfabetismo.

La metà della società araba è fatta di donne, che ne sono assenti e marginalizzate. Non basta guardare alle poche donne che occupano posizioni di comando, perché si tratta di eccezioni: esse sono arrivate dove sono perché sono molto valide, non perché lo Stato abbia dato loro una mano.

Abbiamo il problema della donna ed abbiamo il problema dell’analfabetismo e finché avremo questi due problemi, non avrà senso parlare di libertà e di democrazia. Il nostro compito, di noi media, è di lavorare affinché i Paesi arabi legiferino per lottare contro la marginalizzazione della donna e contro l’analfabetismo. È importante che la donna possa prendere la parola, anche se non ha un ruolo nel suo Paese; noi cerchiamo di dare spazio a queste donne, affinché facciano presente questo problema. Purtroppo sì, è vero, l’informazione araba è un’informazione elitaria.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Invito i nostri altri relatori a prendere la parola, prima del coffee break. Do la parola a Najdat Ismael Anzour.

 

NAJDAT ISMAEL ANZOUR, Regista (SIRIA). Ancora una volta grazie. Non avrei nulla da aggiungere a tutte le cose importanti che sono state dette. Tutto richiederebbe un’ulteriore discussione per poter giungere a un punto di arrivo e per passare dalle parole agli atti. Il problema del mondo arabo è che c’è una grande differenza, a mio modo di vedere, tra il dire cosa non va e il parlare chiaro. Il problema dei nostri media è che, purtroppo, non parlano chiaro e forte, mentre noi cerchiamo di mettere in luce i nostri problemi per costruire un futuro migliore.


 

Oggi ci preme che l’Europa apra le proprie braccia alla sponda meridionale e orientale del Mediterraneo, affinché ci sia un dialogo che ci consenta di presentare le nostre opere e i nostri lavori nelle vostre televisioni.

L’onorevole ha detto prima che non sa nulla del cinema arabo o del cinema del Medio Oriente: abbiamo dei lavori che cerchiamo di portare avanti con grandi criteri di qualità e speriamo che queste opere possano vedere un giorno la luce. Ad esempio, c’è la settimana degli sceneggiati arabi per presentare le nostre opere e anche per parlare dei problemi dei produttori e dei registi arabi, per offrire uno squarcio sulla vita quotidiana che non è presente oggi nei media

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola alla dottoressa Donatella Della Ratta. 

 

DONATELLA DELLA RATTA, Autrice del libro Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio. Ho ascoltato tutti gli interventi con molto interesse. Devo dire che, da parte araba, mi sembra siano sul tappeto, oltre alla questione dei media e della cultura, anche delle questioni politiche aperte. Penso che se tali questioni politiche ancora aperte con il Medio Oriente non si risolveranno – è stato citato il Golan, ma c’è soprattutto la questione israelo-palestinese, che rimane una ferita aperta – non possiamo parlare di media e di rapporti con il mondo arabo.

Per quanto riguarda Euronews mi permetto di fare due considerazioni. La prima riguarda un problema di distribuzione. È vero che il servizio arabo è stato rifinanziato e riattivato, ma ahimè Euronews è distribuito sulla piattaforma di ORBIT, che chiunque sa essere una piattaforma a pagamento con scarsissimo seguito. Tra l’altro, si tratta di una piattaforma con un’offerta principalmente in francese e in inglese e che quindi non necessita una traduzione in arabo. Mai scelta fu più infelice di fare una traduzione in arabo di Euronews mettendola su ORBIT. Euronews dovrebbe invece essere messa sul satellite gratuito, se proprio vogliamo rivolgerci a loro. C’è dunque prima di tutto un problema di distribuzione: è inutile rifinanziare dei media se alla fine è sbagliato il canale. 

Il secondo problema è di produzione, nel senso che non si può pensare di fare un media europeo se la produzione non è congiunta. Se guardo Euronews, che è una comunicazione di tanti pezzettini, uno in fila all’altro, anch’io che sono europea e mi sento tale non riesco a trovarne il senso, figuriamoci un arabo. Mi chiedo, infatti, perché un arabo dovrebbe guardarlo. 

Per questo motivo citavo il progetto di Euromed TV, abbandonato dieci anni fa. Esso era un canale che nasceva come canale multilingue (anche l’avere una lingua dopo l’altra in successione lineare mi sembra una cosa sbagliata), mentre quella era una trasmissione multilingue, che certo costa molto di più, ma chiediamoci francamente – questa è una nota a margine su una questione di produzione televisiva – : come si può competere con canali come Al Jazeera che hanno budget di oltre 60 milioni di dollari all’anno, facendo i nostri piccoli canali con 2 milioni di euro all’anno?

In passato, sono stata coinvolta nella creazione di un canale di uno Stato europeo – non voglio dire quale – diretto al Medio Oriente. Ho successivamente abbandonato il progetto, a causa delle divergenze emerse, nel senso che non si può pensare di fare un canale rivolto al mondo arabo con una visione mediterranea, acquistando qua e là nei mercati, o tagliuzzando quello che produce e scarta, ad esempio, National Geographic, per poi riconfezionare tali scarti e farne la traduzione in arabo. Cerchiamo di avere un’onestà intellettuale e di avere rispetto della nostra storia. Gli inglesi hanno inventato la televisione! Non si può fare una televisione che competa con Al Jazeera – che ha una professionalità e un budget notevoli – pensando di tagliuzzare e riconfezionare dei programmi.


La televisione euro-mediterranea se si fa, si deve fare seriamente: anziché fare tanti piccoli pezzi, se ne fa uno fatto bene. Dico questo anche come persona che lavora dentro la televisione, perché non penso che si possa fare una televisione puntando sulle acquisition. Una televisione euro-mediterranea non punta sulle acquisition, ma sulla production in house, oppure su un network di produttori indipendenti, ma fa in ogni caso produzione e non acquisizione.

Mi dispiace non condividere l’ottimismo del mio collega spagnolo, anche se devo dire che ha ragione per quanto riguarda quanto bene la popolazione spagnola abbia reagito agli attentati: anch’io ne sono stata impressionata. Ricordo d’aver fatto una mostra, subito dopo gli attentati, al Museo di arte contemporanea di Barcellona, che si chiamava «Occidente visto da Oriente» – di cui porteremo un pezzo a Roma: chi ne ha l’occasione, potrà vedere un po’ di musalsalat siriane, ma anche programmi egiziani, marocchini e programmi di tutto il mondo arabo tradotti in italiano – la risposta alla quale, da parte della gente, era stata grandiosa.

Io ho fiducia nella popolazione, ma non ho fiducia nei media perché ne faccio parte e ne conosco i meccanismi interni. Il collega ha detto giustamente che i nostri media non possono essere controllati dai Governi. A mio avviso, però, può e deve esserci una carta etica condivisa. Dovremmo insomma trovare un modo affinchè ci siano dei principi condivisi, altrimenti, come è stato detto, la comunicazione parla del treno che arriva in ritardo e, purtroppo, non si tratta di un treno. 

 

TANA DE ZULUETA. Do la parola a Giancarlo Licata. 

 

GIANCARLO LICATA, Responsabile della trasmissione televisiva «Mediterraneo». Sarò brevissimo. A mio avviso gli ascoltatori sono certamente migliori di chi decide i programmi.

I problemi dell’informazione, come abbiamo visto, sono tre.

Anzitutto, i grandi avvenimenti sono seguiti in maniera professionale e obiettiva dalla grande televisione, mentre gli eventi regionali non sono seguiti con la stessa attenzione.

In secondo luogo, non si presta attenzione a quel che avviene in alcuni Paesi del Mediterraneo, dove la televisione è carente. Mi riferisco in maniera particolare a quello che è avvenuto in alcuni Stati come il Marocco, dove c’è un codice di famiglia assolutamente straordinario di cui nel mondo occidentale non si è però saputo nulla. Allo stesso tempo, mi riferisco a quello che avviene nel mondo della cultura e che qui non trova spazio: c’è quindi uno spazio enorme da coprire.

Il terzo pilastro concerne i problemi comuni. Avete parlato ieri di clima e di inquinamento. Il presidente del Senato ha ricordato ieri che il Mediterraneo è diventato nuovamente scenario di un grande momento di traffici internazionali, da Suez a Gibilterra. Questo è vero, ma ci siamo chiesti quanto inquinano questi traffici? Quali sono le risposte delle singole regioni a questi traffici? Posso dirvi che c’è uno studio secondo cui ogni anno le superpetroliere che puliscono le loro stive da Suez a Gibilterra riversano nel Mediterraneo un volume di inquinamento pari a cinquanta volte quello provocato dalla superpetroliera Erika. Questo è un problema comune che dovremo affrontare e anche su questo l’informazione può avere un ruolo. 

Per quanto riguarda infine Euromed, questo è sempre stato un grande sogno. Purtroppo i sogni devono tradursi in budget e in consigli di amministrazione. Ciò non è avvenuto, perché i budget erano elevatissimi e i consigli di amministrazione dovevano avere 27 persone con uguale potere decisionale. Capite bene che non si tratta di una cosa molto semplice.

Credo molto di più nei rapporti bilaterali, che possono poi allargarsi e diventare gruppi di tre, quattro, cinque persone, e diventare televisioni fatte di persone che si mettono insieme per ragionare. Questo è, del resto, quello che abbiamo cercato di fare in questi anni. 

 


TANA DE ZULUETA. Grazie a tutti voi. Chiuderei qui questa sessione dei lavori.

Ci fermeremo ora per un coffee-break di dieci minuti, in modo da riprendere i lavori che riguardano l’unica istituzione Euromed esistente, ovvero la Fondazione Anna Lindh.

 

La seduta, sospesa alle ore 11,50, riprende alle ore 12,15.

 

Attività della Fondazione Anna Lindh (FAL) e interrelazioni con l’APEM.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Riprendiamo i nostri lavori. 

È sempre difficile svolgere il compito dell’ultima sessione di lavoro. Il nostro programma, a questo punto, prevede un approfondimento sul tema dell’attività della Fondazione Anna Lindh e le interrelazioni con l’APEM. Come ho detto prima, la fondazione è per noi un soggetto estremamente importante, che seguiamo con attenzione sin da quando la commissione è stata creata, in quanto si tratta dell’unica istituzione euro-mediterranea esistente e tra i compiti di questa commissione c’è giustappunto l’incarico di seguire lo svolgimento delle sue attività. 

Ricordo che sul punto ha operato un gruppo di lavoro ad hoc, presieduto dal deputato Bernard Deflesselles dalla Francia, che ha espresso alcuni indirizzi, poi recepiti nella raccomandazione della commissione cultura approvata nel corso della sessione plenaria di Bruxelles nel 2006. Questo documento è ora in distribuzione. 

Da allora, come sappiamo, sono cambiate alcune cose nell’organizzazione della fondazione e sono ora in discussione alcune modifiche relative, in particolare, allo Statuto della stessa. 

Do ora la parola al direttore della Fondazione Anna Lindh, ambasciatore Lucio Guerrato e, a seguire, al Ministro plenipotenziario Cosimo Risi, del Ministero italiano degli Affari esteri, che ci aggiorneranno su questi nuovi sviluppi.

 

LUCIO GUERRATO, Direttore della Fondazione Anna Lindh. Molte grazie, presidente.

Per chiarire un po’ quello che sto per dire, penso di dover spendere trenta secondi per spiegare non tanto cosa sono, ma cosa faccio. A seguito di una divisione del board of governors del consiglio di amministrazione della fondazione si è deciso di mutare la politica della stessa fondazione, cambiando anche il suo presidente. Io sono quindi stato incaricato con questo compito, che ha la durata limitativa di un anno, non prolungabile, per mia scelta personale. 

Dovrete considerare l’esame che mi accingo a fare come un esame svolto dall’esterno. Sono un auditor, un valutatore e, nello stesso tempo, ho assunto l’incarico di fare alcune proposte al board of governors sul futuro della fondazione, che sono state finora accettate. 

Qualcuno, prima di iniziare la nostra discussione, esprimendo un sentimento che ho sentito ribadire più volte, mi diceva di essere deluso dalla Fondazione Anna Lindh e di avere nutrito grandi aspettative che sono poi andate deluse. Quando ho domandato che cosa ci si aspettasse esattamente, il discorso si è però imbrogliato ed è diventato più difficile. 

Nel primo periodo di vita della fondazione, infatti, il mio predecessore si è essenzialmente limitato ad eseguire quanto previsto negli statuti della fondazione. Se voi consultate tali statuti, all’articolo 2.2. trovate scritto che la fondazione promuove dibattiti sui media, dà il suo sostegno ad eventi di diversa natura e promuove le attività del processo di Barcellona. Questo è quanto previsto dallo statuto, quanto è stato in gran parte fatto e quanto ha deluso. Perché ha deluso?

Ho cominciato il mio lavoro cercando di capire che cosa la gente si aspettasse effettivamente dalla Fondazione Anna Lindh. Ho esaminato l’atto di nascita della fondazione ed ho capito che essa è nata dal connubio tra due elementi: una dichiarazione retorica e una presa di coscienza.


La dichiarazione retorica consiste del cosiddetto terzo pilastro della dichiarazione di Barcellona. La definisco retorica non perché io consideri quanto è stato detto come una frase vuota e senza senso, ma perché il terzo pilastro di Barcellona non ha nessuno strumento di esecuzione. Voi sapete che, mentre il primo pilastro (dialogo politico) ha un suo strumento esecutivo e lo stesso vale per il secondo pilastro (elemento economico e finanziario), che dispone dello strumento degli accordi di associazione, il terzo pilastro resta sospeso nel vuoto. Ogni cosa che non disponga di uno strumento di esecuzione può essere considerato una dichiarazione di carattere retorico.

Con il tempo c’è però stata una presa di coscienza, determinata soprattutto da avvenimenti precisi come gli atti di terrorismo, l’11 settembre, la crisi e la scoperta che, in fondo, quello che perturbava il bel progetto di Barcellona, non erano solo elementi di ordine economico – come abbiamo ritenuto in principio, deducendo che bisognava migliorare la situazione economica – ma anche elementi culturali, che sfuggivano alla valutazione materiale.

L’elemento retorico iniziale, accompagnato da questa presa di coscienza, si è quindi concretizzato in quella creazione ad hoc, limitata e con un carattere ben preciso, che è la Fondazione Anna Lindh. Il DNA della fondazione è di carattere non strettamente culturale – vedremo poi cosa significa «culturale» – ma di carattere politico, perché la fondazione è stata creata da un organismo politico, in seguito ad un certo numero di circostanze di ordine politico e soprattutto per eseguire un certo tipo di politica.

Il sentimento di insoddisfazione generica viene quindi da questo iato iniziale: ci si aspettava che si facesse qualche cosa per risolvere una situazione di crisi di ordine politico, mentre in realtà la fondazione si è limitata a fare della piccola amministrazione, finanziando progetti sparpagliati a destra e a sinistra.

La prima volta che mi sono presentato di fronte al board of governors ho chiesto loro che cosa volessero. Mi è stato risposto che si voleva cambiare e che, principalmente, si voleva visibilità: «un’azione che sia visibile, chiara e che dimostri», il che mi è stato ripetuto anche fuori da quest’aula. Ora, è facile a dirsi «visibilità ed azione», ma quali?

Quello che manca ed è mancato sin dall’inizio della fondazione, ossia il vero problema di fronte a questa ambizione o a queste esigenze, più o meno sentite, è che non esiste ciò che in termini militari si chiama «dottrina d’impiego». La dottrina d’impiego dice che cosa bisogna fare per ottenere un risultato. Bisogna definire un problema, scegliere il terreno sul quale battersi ed utilizzare al massimo quello che si ha. Questa è una cosa importante per la fondazione, perché non vi nascondo che i mezzi tecnici, umani e finanziari che essa ha a disposizione sono relativamente limitati e personalmente non mi aspetto che possano aumentare in maniera particolarmente elevata, nel prossimo futuro.

Vengo ora alla definizione del problema. Già nel nome della fondazione «per il dialogo delle culture» c’è un’ambiguità. In realtà le culture hanno sempre dialogato e possono sempre dialogare. Chi non dialoga sono gli individui, ed è questo il problema principale. Perché gli individui che condividono una cultura non dialogano, non vogliono dialogare oppure rifiutano gli altri individui o le altre culture? Il problema è ben conosciuto, ed è quello dell’identità culturale, che ha due aspetti principali: uno positivo ed uno negativo.

L’aspetto positivo dell’identità culturale, definito dai sociologi, è il sentimento di appartenenza ad un insieme di elementi di ordine e di natura diversi, che vanno da quelli religiosi a quelli strettamente culturali, conoscitivi e così via.

Nello stesso tempo, l’identità culturale provoca un sentimento di diversità. Noi siamo cioè qualche cosa rispetto ad altri.


Questi due aspetti coesistono nello stesso sistema. Cos’è che, a un certo punto, fa cambiare una cultura o una visione dell’altro, delle relazioni e della coesistenza  da un aspetto positivo ad uno negativo? È la cultura stessa? Non credo o, almeno, secondo la mia analisi non è questo il caso. Sono altri elementi a farlo, esterni alla cultura, che impiegano gli elementi culturali per trasformare l’attitudine, la percezione e la volontà nei riguardi degli altri. Questi elementi sono di natura essenzialmente politica o sono veicolati da elementi politici o da leaderd’opinione o da pressioni e, quindi, da elementi esterni alla cultura che però utilizzano la cultura. Per questo dicevo che la Fondazione Anna Lindh ha una valenza politica, perché il terreno su cui si deve battere non è tanto quello culturale.

Non so se avete mai assistito ad un dibattito tra religiosi di diverse confessioni: non si trattano questioni etiche e, ancor meno, si trattano questioni teologiche, rispetto alle quali ognuno resta sui suoi punti. Si tratta sulla tolleranza reciproca, si discute sulla discussione, non sull’elemento fondamentale della discussione, perché non c’è niente da discutere. Quello che si discute sono le attitudini diverse e quindi il conflitto, che è un elemento potenziale, continuo nelle culture, e che deve essere gestito. A gestirlo sono i politici, non tanto gli uomini di cultura, che sono invece utilizzati. Se il conflitto è un elemento potenziale della diversità culturale, la gestione del conflitto non dipende tanto, come dicevo prima, dalla religione o dalla cultura, ma dalle istituzioni politiche, dall’attitudine e dai mass media.

Questo dà un elemento del terreno su cui ci si deve battere. Quello che ci interessa, quello che dovrebbe, a mio parere, interessare alla Fondazione Anna Lindh non è tanto fare una manifestazione culturale per mostrarne la cultura di un Paese in un altro Paese, bensì andare a toccare le persone, gli elementi e le circostanze che influenzano una certa interpretazione culturale.

A quel punto, per la fondazione ci sono due vie possibili da seguire: la base culturale e la parte superiore che si sovrappone alla cultura e, cioè, la parte politica.

Quanto alla base, la Fondazione Anna Lindh, per delle ragioni che non sono mai riuscito ad interpretare – non sono mai riuscito a capire chi fosse il padre di questa struttura particolare – come voi sapete è basata su trentasette strutture nazionali (national networks), entro cui abbiamo oggi circa 1.600 membri. Se quindi vogliamo intervenire a questo livello, la fondazione è relativamente poco interessata alla manifestazione pubblica o a partecipare alla tale o alla tal’altra manifestazione, esposizione o attività culturale. Lo scopo della fondazione è di far lavorare la base affinché espanda, essa stessa il messaggio della fondazione.

Noi non possiamo esser presenti, come fondazione, e con i mezzi che abbiamo, in 37 Paesi, per una popolazione totale di 700 milioni di abitanti. Noi possiamo solamente aiutare quelli che sono presenti e quindi le nostre strutture – il nostro réseau – devono essere potenziate, rafforzate e messe in condizioni di poter agire. Per questo, anche se ciò non è scritto negli statuti, ho proposto – ed è stato accettato – che una parte dei fondi della fondazione non vadano direttamente ad operazioni, ma vadano allo strumento delle fondazioni, cioè ai réseau e ai membri dei réseau.

Abbiamo fatto un’inchiesta sui réseau – perché, quando si dice réseau, e ancor più quando dico 37 réseau e 1600 membri, si immagina qualcosa di importante – che ci ha permesso di scoprire che, in realtà, solamente un terzo di essi funziona correttamente, mentre due terzi non funzionano, sia per difficoltà del capo del réseau a trovare i fondi, sia perché manca una politica di animazione. Nel bilancio del prossimo anno abbiamo stanziato dei fondi per il sostegno dei réseau e firmeremo degli accordi con i capi dei réseau a cui daremo dei fondi, creando una sorta di cahier de charge, una sorta di lista di cose che dovrà fare e dovrà eseguire, perché senza il réseau la Fondazione Anna Lindh non è altro che un piccolo organismo che finanzia progetti, simile a molti altri che già esistono e, in tal caso, non vedo perché essa dovrebbe continuare a prendersi in carico delle spese di amministrazione quando altri possono fare la stessa cosa. Quello che noi facciamo coi réseau, non lo fa però nessun altro. Là sta l’interesse della Fondazione Anna Lindh, al livello base.


La Fondazione Anna Lindh è però qualcosa di diverso da un organismo non governativo qualsiasi, è un organismo che, come dicevo prima, ha una valenza politica ed è stato creato da un organo politico ed ha o può avere un dialogo con gli organi politici. Io ho quindi proposto al board of governors di fare della Fondazione Anna Lindh, dapprima, una sorta di – è un po’difficile da definire – «osservatorio della coesistenza».

A monte e a valle della politica esistono una serie di elementi immateriali che determinano le scelte di attitudine nei riguardi dell’altro: è il discorso politico sull’identità. Questi elementi non sono fissi nel tempo: sappiamo tutti che sono invece variabili. Il nostro compito è di esaminare e cercare di scoprire come questi elementi variano nel tempo e come possono determinare e condizionare alcune decisioni politiche. È un lavoro che la fondazione non può certamente fare da sola, con la struttura attuale; abbiamo quindi preso contatti e stiamo discutendo con degli istituti universitari che si occupano di questi elementi e di queste evoluzioni sociologiche all’interno della società euro-mediterranea. Con loro identificheremo un certo numero di parametri che possano essere interessanti a tale riguardo, faremo un sito sulla fondazione, vi raccoglieremo tutti gli articoli che riguardano il tema di cui ci occupiamo (il materiale esiste in gran parte, ma è materiale scientifico ristretto a un certo numero di lettori, che esce su riviste universitarie specializzate, che i politici non hanno il tempo di leggere, né sarebbe loro compito farlo). Quindi starà a noi, alla fondazione prima di tutto, raccogliere il materiale, far fare delle analisi specifiche laddove manchino e successivamente presentare i risultati in un rapporto annuale che – lo abbiamo convenuto col board of governors – sarà presentato al Consiglio dei ministri una volta all’anno.

Non sarà quindi un rapporto politico, ma un rapporto sullo stato della coesistenza, su quale sia effettivamente la volontà o l’attitudine della base della società euro-mediterranea ad accettare, rifiutare o sostenere l’evoluzione a cui essa dovrebbe essere destinata secondo il progetto di Barcellona: integrarsi progressivamente e cooperare.

Nessuno può dirlo attualmente, perché le analisi sono parziali e limitate. Noi non daremo certamente una risposta definitiva, ma daremo del materiale soprattutto a chi – e per questo il nostro interlocutore alto è la politica – deve prendere delle decisioni che influenzeranno il futuro.

Parlando della strategia, questo è il campo d’azione che, secondo me, dovrebbe avere la fondazione nei prossimi anni: agire in basso, cioè sostenere i réseau che agiscono sul terreno; to show the flag, se così posso dire; e agire verso l’alto, indirizzandosi agli organi politici, che dovrebbero essere i primi destinatari delle sue riflessioni e delle sue analisi.

Completerò questa parte dell’intervento con un’ultima aggiunta. Noi avremo una riunione con tutti i membri dei 37 networks a fine mese. Proporrò loro anche una maniera di esprimersi sulla stessa problematica che è osservata, in maniera più neutra e scientifica, dagli istituti, perché mi sembra particolarmente interessante poter avere, su un certo tipo di evoluzione, allo stesso tempo, il parere degli osservatori scientifici e quello della nostra base, cioè dei 1500 membri del network, che avranno anch’essi il loro apporto da dare.

Mi fermo qui, perché penso di aver superato i minuti a mia disposizione. Ad ogni modo, non ho frasi conclusive perché, come ho già detto, la mia è solamente un’analisi obiettiva, non un pezzo di oratoria. Mi limito quindi a chiudere, avendovi dato tutti gli elementi di giudizio su quello che può essere il futuro della fondazione.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Grazie, ambasciatore Guerrato. Il suo intervento è sicuramente stato molto utile per noi.

Do ora la parola al Ministro plenipotenziario Cosimo Risi e saluto il viceministro degli affari esteri dell’Italia, Ugo Intini, che ci ha raggiunto ed è adesso al nostro tavolo.

 


COSIMO RISI, Ministro plenipotenziario (Ministero italiano affari esteri). Lucio Guerrato ha disegnato un panorama molto chiaro della fondazione, mentre io vorrei fornire un quadro della fondazione che verrà o, meglio, che stiamo preparando.

Ricordava Lucio che la fondazione è giovane, è del 2005, ma possiamo dire che essa è entrata in difficoltà già nel 2005, pochi mesi dopo la sua nascita, soffrendo di una malattia precoce per un corpo molto giovane. Tale malattia precoce è stata determinata da varie circostanze. Ho trovato nel board of governors una strana, singolare coincidenza di intendimenti, per cui tutti e 37 sono stati d’accordo nel voler voltare pagina al più presto, rendendosi conto che la fondazione è l’unico organo autenticamente euro-mediterraneo esistente, l’unico organo in cui siedono, a pari titolo, rappresentanti di tutti i Paesi del partenariato. Essa è un organo con una vocazione specifica – anche retorica, sono d’accordo con Guerrato sull’aggettivo – al dialogo tra le culture, quindi a coprire il cosiddetto terzo volée della dichiarazione di Barcellona.

Ho parlato di voltare pagina in una direzione diversa. Il board ha adottato delle modifiche importanti allo statuto della fondazione, che vi vorrei sintetizzare. Anzitutto, avremo un vertice duale – come è oggi di moda dire – costituito da un presidente (che rappresenterà la fondazione nei rapporti esterni, una sorta di suo rappresentante politico) e un direttore esecutivo. Avremo poi un consiglio consuntivo, che sarà un organo solo parzialmente nuovo, composto da dodici saggi, ossia dodici personalità di chiara fama, sei provenienti dal nord e sei dal sud. Avremo poi, probabilmente, un nuovo board of governors, perché l’attuale scade il 31 dicembre 2007, si è dato da solo una proroga di un anno, fino al 31 dicembre 2008, ma la previsione per il futuro è che il board non abbia più trentasette rappresentanti quali sono attualmente, in numero corrispondente a quello dei Paesi partner, ma ne abbia un numero minore: si parla di venti membri del board, di cui, al solito, dieci della sponda nord e dieci della sponda sud. Ciò significa che, mentre il sud avrà un rappresentante per Paese, il nord dovrà fare un sacrificio e vedrà dimagrire la propria rappresentanza: invece di avere ventisette Stati membri – oltre alla Commissione, che è osservatore permanente – dovremo ridurne il numero a dieci. Alcuni Stati membri non avranno quindi il seggio nel board, oppure lo avranno a rotazione o con altri sistemi, che valuteremo.

Quale principio ci ha ispirati nella modifica dello statuto? Innanzitutto il desiderio di reagire allo stato di inefficienza della fondazione e di dare visibilità al suo operato ma, soprattutto, un principio a cui siamo molto affezionati, sia come italiani, sia – penso – come persone che amano il partenariato euro-mediterraneo: il cosiddetto principio, con parola inglese, di co-ownership, ossia di partecipazione piena di tutti all’operato della fondazione.

Il vero peccato originario della fondazione – che poi riflette il peccato originario del partenariato – è infatti che si è trattato di un’operazione, in teoria, fra pari, ma di fatto a forte guida europea, per una serie di motivi perfettamente comprensibili, e senza alcunché di malizioso.

La presidenza del partenariato è la stessa del consiglio dell’Unione Europea, quindi non viene mai esercitata da un Paese del sud. Il segretariato del partenariato è esercitato dalla Commissione, che è un’istituzione europea. Le riunioni del partenariato, tranne alcune, si fanno o a Bruxelles, che è un luogo neutro per eccellenza, oppure nelle capitali dei Paesi membri dell’Unione Europea. La prossima riunione dei Ministri degli esteri, il 5 e il 6 di novembre, si terrà per esempio a Lisbona, perché il Portogallo ha attualmente la presidenza di turno dell’Unione europea.

È impossibile o difficile tenere riunioni ministeriali nella parte sud del partenariato ed è stato finora difficile, se non impossibile, avere un segretariato congiunto o avere una presidenza che potesse ruotare tra il nord e il sud. Questo segno, questo marchio, si è trasferito dal partenariato alla fondazione, perché è vero che la fondazione ha sede ad Alessandria, in Egitto, ma è pur vero anche che fino ad ora ha avuto solo due direttori, entrambi provenienti dai Paesi europei; ed è pur vero, per


esempio, che le reti nazionali cui Guerrato faceva riferimento sono sì trentasette ma, mentre la maggior parte di quelle europee è attiva, alcune reti della sponda sud non lo sono affatto. Mi pare di sapere, ad esempio, che la rete palestinese è stata appena costituita e vive una vita difficile, come d’altronde è comprensibile, data la situazione del Paese.

Per di più i fondi che arrivano alla fondazione sono, per la maggior parte, di provenienza europea: o dati direttamente dagli Stati membri, oppure dati dalla Commissione, sul bilancio comunitario. Questa serie di motivi spiega quindi perché il principio di base della co-ownership, di fatto, non venga applicato come dovrebbe. Cerchiamo invece di applicarlo nella modifica dello statuto.

Che cosa vogliamo fare di nuovo? Anzitutto vorremmo stabilire un criterio di alternanza geografica. Se il presidente della fondazione viene dal nord, il direttore deve venire dal sud, e viceversa. Ambedue avranno ciascuno un mandato di tre anni e quindi ogni tre anni, in teoria, cambieremo la squadra.

Siamo in cerca del presidente, e non rivelo alcun segreto nel dirvi che ci sono attualmente in lizza soltanto due candidati: un esponente del Regno del Marocco ed un esponente della Repubblica di Tunisia, perché i candidati presidenti sono candidati proposti dai Paesi di provenienza. A meno di fenomeni imprevedibili il prossimo presidente dovrebbe quindi essere espressione della sponda sud. Naturalmente, il direttore sarà espressione della sponda nord. Questo avverrà nella prima fase della nuova fondazione, che si aprirà nella primavera 2008. 

Scegliere un presidente non è un’operazione facile, perché bisogna scegliere una personalità di rilievo che possa rappresentare adeguatamente e appropriatamente la fondazione nei rapporti esterni. Non basta predeterminare la sua provenienza geografica: occorre che questo presidente possa rappresentare la sintesi delle varie anime politiche e culturali del partenariato. Posso sintetizzare quattro di queste anime o correnti di pensiero: quella europea, quella araba, quella israeliana e quella turca. Trovare un presidente di questo tipo, di questa caratura, che sia espressione delle quattro correnti non è un’impresa facile, né scontata. È un’impresa a cui si accingono i ministri degli esteri nella riunione di cui dicevo prima il 5 novembre. Speriamo che la loro scelta sia saggia e che quindi, avuto il nome del presidente, il board of governors possa procedere poi ad esaminare le candidature a direttore e a nominare il direttore. 

Vorrei concludere questa esposizione esprimendo una speranza: ci sono molte idee in Europa, soprattutto su cosa fare nel Mediterraneo, su cosa fare con il Mediterraneo. C’è questa idea francese, di cui si parla molto, dell’Unione del Mediterraneo o Unione mediterranea; c’è poi un’idea italiana per rivedere il dialogo cinque più cinque; e ci sono varie altre opzioni sul tappeto.

Quello che però mi pare importante è che l’argomento Mediterraneo sia nell’agenda delle diplomazie e stia tornando ad essere al centro della loro attenzione, non soltanto come crisi da risolvere, quindi come preoccupazione, ma anche come argomento per sviluppare una forma di cooperazione.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Darei ora la parola ai nostri relatori, che si accingono a preparare per la commissione un documento, un rapporto che potrà essere un contributo da includere nella nostra raccomandazione, dopo una discussione, a febbraio.

Do la parola all’onorevole Jean Claude Guibal dell’Assemblea nazionale francese. 

 


JEAN CLAUDE GUIBAL, Assemblea nazionale della Francia. Grazie, presidente.

Per quanto mi riguarda, sostituisco Bernard Deflesselles che è l’autore, insieme all’onorevole Karoui, della relazione della commissione di cui si parlava prima. Lo sguardo che posso avere sulla Fondazione Anna Lindh è quindi necessariamente nuovo e forse le mie parole saranno un po’ temerarie e non necessariamente fedeli a quella che è la realtà della fondazione di cui avremo bisogno. Apprezzo molto il lavoro effettuato da Lucio Guerrato e anche le sue previsioni, illustrate in questa relazione così forte, così interessante, sulle condizioni  e le azioni necessarie per poter salvare la Fondazione Anna Lindh.

La visione che ho, a grandi linee, è che la FAL, una delle creazioni del processo di Barcellona, a causa della sua malattia infantile, per così dire, rappresenti l’illustrazione della mancanza di slancio del processo di Barcellona stesso. Il fatto che siano state adottate delle terapie per dare nuova vita a questo processo, secondo me, non è un segnale incoraggiante, ma è stato indispensabile per proseguire una dinamica che non si è potuta sviluppare bene, a causa, forse, dello scontro israelo-palestinese.

Vorrei anche aggiungere che, a mio parere, la fondazione soffre, come è già stato detto, ma lo ripeto, di alcuni difetti congeniti, quale la difficoltà nella definizione degli obiettivi, di cui abbiamo parlato prima.

A cosa serve concretamente il dialogo delle culture? Il direttore operativo precedente e, oggi, Guerrato – che non è stato nominatocome direttore stabile, bensì pro tempore – ci hanno posto questa domanda: qual è l’obiettivo? Che cosa vogliamo fare? Verso cosa si deve dirigere la fondazione?

Certamente possiamo trovare una strada senza sapere quale sia la nostra destinazione, ma forse sarebbe meglio cercare di andare là dove vogliamo andare.

Più concretamente posso dire che la Fondazione Anna Lindh mi sembra stia correndo il rischio di affondare, se non riuscirà a superare quattro contraddizioni (mi limiterò a queste quattro per essere rapido, perché ho soltanto cinque minuti per parlare).

Anzitutto lo scarto tra gli obiettivi ed i mezzi. Gli obiettivi sono molto ambiziosi e fortunatamente sono smisurati, anche se giustificati dal campo di azione del terzo pilastro di Barcellona, che riguarda la cultura, il dialogo culturale e il partenariato. Per poter esplorare in maniera ambiziosa questo vasto campo d’azione, visto che abbiamo detto che non ci sono obiettivi operativi, sono disponibili 10,4 milioni di euro in tre anni, che è troppo poco.

Se la Commissione e gli Stati che, tra i 37, partecipano a nutrire il bilancio della fondazione non fanno uno sforzo supplementare e non si rendono conto della sfida rappresentata dal Mediterraneo per tutti i Paesi – sia musulmani, sia europei – che vivono lungo le sue rive  e per tutti coloro che sono interessati dalla sua evoluzione.

Temo allora che la fondazione, non solo avrà sofferto di malattie infantili, ma rimarrà handicappata a vita. Questo per dire che è necessario un bilancio all’altezza delle ambizioni e degli obiettivi, senza che la commissione si sostituisca ad altri, diventando un istituto culturale che duplica il lavoro di altre organizzazioni, cosa che non è affatto auspicabile.

La seconda contraddizione riguarda il fatto di voler animare delle società civili attraverso le loro entità culturali che, per definizione, hanno una vocazione critica, e di far pilotare questo processo da una struttura di natura ufficiale che, a sua volta, è pilotata da un consiglio che, in un modo o nell’altro, esprime le posizioni degli Stati e dei Governi. Far animare un ente culturale a vocazione critica e civile da un organismo che invece dipende dagli Stati significa mettere insieme acqua e fuoco: la cosa non può riuscire, se i membri delle reti sono poco attivi oppure sono, anche solo in parte, frustrati.


A livello degli Stati e dei Governi, si auspica poi di avere visibilità, ma senza troppi costi dal punto di vista della critica, mentre dalla parte delle reti si auspica di poter beneficiare delle risorse per poter realizzare gli obiettivi che legittimamente si considerano propri. È quindi chiara la contraddizione, sulla quale è inutile dilungarsi, tra la cultura ufficiale, da una parte, e la vita e la vocazione di ente od entità culturale della società civile, dall’altra.

Ebbene, per poter mettere insieme questi due estremi e poter riuscire ad ottenere qualcosa, bisogna dar prova di grande creatività. Non ritorno sulle proposte che sono state presentate dai precedenti oratori e che delineano, fortunatamente, un futuro più dinamico per la Fondazione Anna Lindh.

La terza contraddizione concerne la volontà degli Stati e dei Governi di portare avanti delle azioni affinché la fondazione sia più visibile ed identificabile. Allo stesso tempo, c’è la volontà delle reti che questa visibilità non sia in contraddizione con le loro azioni di fondo, con le questioni di merito, più sostenibili, che la fondazione potrebbe realizzare sul piano culturale.

C’è poi una quarta contraddizione che, come direbbero gli italiani – ma anch’io voglio usare questo termine – è più retorica.

La fondazione deve forse ricercare un dialogo attraverso il consenso su dei valori comuni, evitando quindi di affrontare le questioni che disturbano. Oppure la fondazione ha piuttosto la vocazione metodologica ad organizzare una controversia pacifica su dei temi che non possono disturbare? Dico questo perché prima abbiamo parlato dell’identità mediterranea. È vero, non ci sono molte relazioni tra la Spagna, il Libano, la Francia, l’Italia, la Tunisia, il Marocco eccetera. Detto ciò, non possiamo allora parlare di identità europea, perché allora quali relazioni esistono tra i lettoni, i portoghesi, i greci, i turchi eccetera? Questo senza considerare che gli uni e gli altri fanno comunque parte dell’Unione europea.

Volevo soltanto attirare la vostra attenzione sul fatto che, per quanto mi riguarda, penso ci sia un’identità mediterranea, che si basa su uno zoccolo di civiltà sul quale si sono poi sviluppate culture che si sono differenziate. Questo zoccolo di civiltà ha però una preferenza: come è stato detto da uno degli oratori dell’altra sessione, esso ha una preferenza per la controversia, si urla per dare a se stessi la sensazione di esistere e poi si trovano delle soluzioni.

Se però non si trasforma il conflitto potenziale in dibattito, rinunciamo ad un modo di esprimerci e ad un modo di essere. Questa è per me una delle questioni che la fondazione dovrebbe analizzare, per capire se esiste per aiutare dei conflitti potenziali a tradursi nella ricerca feconda di soluzioni, oppure se esiste semplicemente per dire che su temi di poca importanza siamo tutti d’accordo. Non vorrei cioè che la fondazione, alla fine, diventasse un’istituzione-alibi, una struttura vuota che serve da alibi per dire che esistono delle relazioni tra il nord e il sud, tra l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo.

Termino con due osservazioni, perché mi sono dilungato troppo.

Innanzitutto, il consiglio di amministrazione della fondazione, indipendentemente dalla riduzione del numero dei membri, dovrebbe essere composto anche da personalità indipendenti, proposte dagli Stati, piuttosto che soltanto dai rappresentanti degli Stati.

In secondo luogo l’Assemblea parlamentare euro-mediterranea dovrebbe essere coinvolta, come già lo è oggi, nel seguito dei lavori della fondazione, non per esercitare un controllo parlamentare, ma piuttosto per essere utile come bussola politica, perché il parlamentare è felice quando può esprimersi liberamente.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Do la parola all’onorevole Karoui che, per oggi, ha l’ultima parola su questo tema.  


 

MAHMOUD KAROUI, Camera dei Deputati della Tunisia. Signor presidente, non mi prolungherò perché da quando siamo stati nominati nel 2006 relatori della commissione nel consiglio di amministrazione, in realtà non abbiamo mai assistito a un consiglio di amministrazione, quindi ve lo dico immediatamente, non abbiamo molto da riferirvi. Voglio essere chiaro sin dall’inizio.

Detto ciò, vorrei comunque condividere con voi alcune osservazioni per migliorare il futuro della fondazione.

Ringrazio gli oratori Guerrato e Risi per averci chiarito bene qual è la situazione dello statuto, perché una volta che le regole del gioco sono chiare, si può andare avanti.

Svolgerò alcune osservazioni sulla formazione delle reti e sui capi delle reti.

Anzitutto, nel gruppo di lavoro creato per studiare la relazione tra la fondazione e l’APEM, ho potuto notare che, alla fine delle riunioni, la responsabile della FAL diceva sempre che, se vogliamo completare le reti, bisogna completare le ONG eccetera. Il lavoro era quindi ancora insufficiente e questo spiega perché il risultato non era scontato. Anche perché, a volte, avevamo delle ONG senza alcuna relazione con il nostro tipo di politica.

In secondo luogo, per il futuro bisognerebbe aggiornare le liste delle ONG ed anche il sito della fondazione perché, se si va a visitarlo, si nota che c’è un grande ritardo nel riportare gli eventi a venire. Anche i programmi devono essere meglio focalizzati: non dobbiamo prevederne tanti per poi avere problemi nel finanziarli; è meglio limitarsi a due, tre assi principali, stabilire dei criteri per coloro che vogliono avere dei finanziamenti per lavorare ad un progetto e poi assicurare una certa continuità nel finanziamento.

Un’ultima osservazione. Dovremmo trovare un mezzo più efficace e più razionale anche per garantire l’informazione tra la fondazione e la nostra commissione.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio. Il fatto che lei abbia conosciuto questo percorso un po’ difficile dell’istituzione, le dà naturalmente un punto di vista molto prezioso per noi.

Sono iscritti a parlare l’onorevole Mecarbne e l’onorevole Patrie.

 

EDUAR MECARBNE, Assemblea del Popolo della Siria. Vorrei parlare a proposito dell’università euro-mediterranea: posso farlo?

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. C’è già stato un gruppo di lavoro su questa questione. Forse è meglio rimandare a dopo, quando affronteremo le «varie ed eventuali». Le darò allora la parola in merito.

 

BEATRICE PATRIE, Parlamento europeo (FRANCIA). Rapidamente, perché siamo un po’ in ritardo. Vorrei congratularmi, in particolare, con Guerrato, per il lavoro che ha svolto in così poco tempo nella Fondazione Anna Lindh. Sono inoltre perfettamente d’accordo con la sua visione, secondo cui la fondazione ha per obiettivo il rispondere ad una problematica politica, prima che culturale. La cultura, infatti, è una dimensione della sfera politica, come sappiamo.

Vorrei insistere anche sulla dimensione europea della fondazione. Nel nuovo ufficio di presidenza ci saranno soltanto venti membri: dieci dei paesi del nord e dieci dei paesi del sud. È stata criticata anche la presenza della Commissione Europea, per rappresentare la dimensione europea all’interno della fondazione, ma resta il fatto che l’Unione Europea, in quanto tale, è uno dei pilastri


del processo euro-mediterraneo. Non sono d’accordo con quanto detto anche dal Presidente della Repubblica francese, secondo cui il partenariato Euromed dovrebbe riassumersi in un parteneriato tra gli Stati del sud e gli Stati del nord che si affacciano sul Mediterraneo, abbandonando di conseguenza la Polonia e gli altri Paesi che sembrerebbero non avere interesse nel processo Euromed. L’Unione Europea è composta da 27 Paesi ed è un’unità indivisibile, che vuole sviluppare, in quanto Unione Europea, un partenariato con i Paesi del sud del Mediterraneo, motivo per cui non bisogna assolutamente «indebolire» questa dimensione europea del partenariato, tanto meno attraverso la Fondazione Anna Lindh. 

Vi pongo questa domanda: come può essere rappresentata l’Unione Europea in seno agli organi decisionali della fondazione? È la commissione l’organo più indicato oppure dobbiamo scegliere altre opzioni? Come farlo? 

Pongo un’altra domanda pratica. Finora il regolamento della fondazione le ha imposto di rispettare le disposizioni europee in materia di bilancio e di finanziamenti. Ebbene, queste procedure sono certo trasparenti e rigorose, ma sono al tempo stesso molto rigide. Chiedo allora, in particolare all’ambasciatore Guerrato, se siano state previste delle soluzioni, affinché la fondazione possa funzionare, sempre in maniera trasparente, ma anche in maniera più elastica. 

Per quanto riguarda la dimensione europea, in passato abbiamo molto sottolineato la dimensione parlamentare di questo parteneriato. Oggi abbiamo dei rappresentanti nel Consiglio di amministrazione della FAL, un rappresentante dei Paesi del nord e un rappresentante dei Paesi del sud, ma manca un rappresentante del Parlamento europeo, che invece vorrei venisse coinvolto. 

Pongo un’ultima domanda. Si è molto sentito parlare del fatto che la sede di Alessandria d’Egitto rappresenti un ostacolo per il funzionamento di questa fondazione, non perché Alessandria si trovi in Egitto, ma perché non è la capitale politico-amministrativa del Paese. Vorrei pertanto sapere se l’ambasciatore Guerrato può risponderci in proposito. 

 

        TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Do ora la parola per la replica all’ambasciatore Guerrato e al Ministro plenipotenziario Risi.

 

LUCIO GUERRATO, Direttore della Fondazione Anna Lindh. Interverrò molto brevemente.

Per quanto riguarda l’applicazione del regolamento comunitario alla fondazione, tutto è possibile, soltanto perché si tratta di un organo indipendente, che ha un proprio statuto e che risponde soltanto alle regole di buona gestione finanziaria. Tuttavia la Commissione concede un certo importo alla fondazione, in virtù di un contratto, in base al quale la Commissione presenta alcune norme che io ritengo perfettamente accettabili e molto semplici. Si tratta semplicemente di norme sui contratti pubblici, per cui non si possono fare donazioni che superino un certo importo. 

Quello che mi sembra piuttosto complesso, dal punto di vista della gestione, è che in modo ingiustificato la fondazione, magari dietro pressione della commissione, ha fatto proprie altre norme per darsi sicurezza, diciamo così. Vi faccio un esempio, magari sciocco, ma significativo. Per il mio compito, io vengo pagato sulla base delle norme della commissione, mentre ci sono altre norme sulle gare che sono molto complicate e che io vorrei semplificare, tant’è che presenterò un nuovo capitolato specifico su queste norme, in occasione della prossima riunione.

Tutto è possibile e tutto può quindi essere semplificato. Ho già eliminato alcune regole perché non erano confacenti, ed anzi vi confesso un piccolo imbroglio giuridico: io ricevo certi fondi dalla Commissione, che sottostanno a delle regole, mentre ne ricevo altri senza regole. Tutti i fondi confluiscono in un unico bilancio e se quindi io fossi disonesto, potrei dire che spendo il denaro degli Stati membri e quindi seguo le regole, oppure no, a seconda delle mie intenzioni. Per una buona gestione amministrativa utilizzo invece tutti i fondi seguendo le stesse regole amministrative.


Per quanto concerne il Parlamento europeo, molto bene, non c’è problema: vorrei esservi anzi invitato come Fondazione Anna Lindh, così da poter fare un po’ di azione divulgativa, perché noi abbiamo sicuramente bisogno di un sostegno politico e il Parlamento europeo può darcelo.

Si è poi parlato di soldi, ma noi non abbiamo poi bisogno di tutti questi finanziamenti, di tutti questi fondi. Vorrei però comunque che il Parlamento europeo iscrivesse nel suo bilancio un importo minimo, simbolico, a favore della Fondazione Anna Lindh, non fosse altro che per ricordarne l’esistenza in vita: non parlo di somme enormi, basterebbero 1.000 euro, ma sarebbero importanti per dimostrare l’interesse del Parlamento europeo verso la fondazione. 

La questione della sede ad Alessandria d’Egitto è squisitamente politica e su questo cedo volentieri la parola al mio collega, seduto accanto a me. 

 

COSIMO RISI, Ministro plenipotenziario (Ministero affari esteri italiano). Neppure io posso esprimermi sul fatto della sede. Siamo tutti consapevoli che Alessandria presenta qualche difficoltà per chi ci vive, però la decisione di stabilire lì la sede fu presa a livello politico e se si volesse rimetterla in discussione, lo si potrebbe fare solo con un’altra decisione politica. Per quanto io ne sappia, l’argomento non è per ora in agenda: non stiamo discutendo di cambiare la sede, né ora, né per il prossimo futuro.

Forse nella mia esposizione ho fatto un po’ di confusione, parlando degli organi che verranno, anche perché ne parlo così spesso da dare per scontato che tutti conoscano il tema. La rappresentanza dell’Unione si deve ridurre nel prossimo board of governors che entrerà in funzione il primo gennaio 2009. Abbiamo quindi oltre un anno per discutere su come fare, se cioè effettivamente ridurre il numero dei rappresentanti e come effettuare il dimagrimento, attraverso quale dieta. 

C’è una proposta svedese sul tappeto, che dice che i membri dell’Unione dovranno ridursi a dieci, e che tra questi dieci alcuni Stati avranno il seggio fisso: quelli che contribuiranno in maniera significativa al bilancio della fondazione, che cioè verseranno nelle sue casse almeno 500.000 euro. Gli Stati membri che contribuiranno al di sotto di questa soglia, oppure non contribuiranno affatto, avranno un seggio a rotazione. Non si sa come dovrebbe avvenire la rotazione, se per ordine alfabetico o per sorteggio. 

Questo stesso criterio di dimagrimento non si potrebbe applicare al sud, perché il sud non è organizzato in un’organizzazione come l’Unione Europea: ne fanno parte i singoli Stati, rappresentati in quanto tali. Il sud avrebbe quindi una rappresentanza piena, a prescindere dal contributo finanziario, mentre la rappresentanza dell’Unione vi sarebbe collegata. 

Naturalmente sto facendo delle speculazioni, perché abbiamo ancora un anno per discutere e può darsi che non si trovi il consenso sulla formula del dimagrimento e che quindi rimarremo sempre in 37. Di sicuro questo numero è poco felice, perché siamo troppi, ci riuniamo con difficoltà e i dibattiti fatalmente ne risentono.

Mentre il consiglio consultivo è sempre stato in numero ridotto – anche oggi c’è un comitato consultivo che ha solo 12 membri – e in futuro così rimarrà – anche se si chiamerà in maniera diversa. Si pone tuttavia il problema, per l’Unione Europea, di ridurre il numero della sua rappresentanza in seno alla fondazione. 

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Ha chiesto la parola l’onorevole Carnero.

Faccio notare che avevamo chiuso il dibattito, ma se lo desidera, può intervenire, perché credo sia una cosa importante per tutti. 

 


CARLOS CARNERO GONZALEZ, Parlamento europeo (SPAGNA). Grazie, presidente. Vorrei fare soltanto un’osservazione che mi sembra importante. Non è dal bilancio della Commissione europea che viene finanziata la Fondazione Anna Lindh, quanto piuttosto dal bilancio dell’Unione Europea. Tengo a precisarlo, perché uno dei direttori chiede al Parlamento europeo di includere nel suo bilancio, come istituzione, un finanziamento per la fondazione. Ciò non è corretto in quanto il Parlamento europeo è un’autorità di bilancio che, con il Consiglio, adotta il bilancio dell’Unione Europea. Solo allora potremmo cercare di aumentare, nella misura del possibile, il bilancio della fondazione. 

Permettetemi un’altra osservazione. Abbiamo ancora un anno per parlare del regolamento della Fondazione Anna Lindh e sono certo che i nostri relatori seguiranno con grande attenzione questo sviluppo. 

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Su quest’ultimo punto vorrei fare un chiarimento: Jean Claude Guibal a Mahmoud Karoui non hanno un ruolo istituzionale all’interno della Fondazione Anna Lindh, ma sono i due relatori della commissione cultura dell’APEM. Sono due perché l’Assemblea e le sue Commissioni, per tradizione, nominano sempre due relatori, uno del sud e uno del nord.

Oggi, quindi, abbiamo due squadre: in una l’Europa è rappresentata da un parlamentare europeo, nell’altra da un parlamentare nazionale. Mi sembra che questa diverrà una prassi, magari invertendo in futuro, tanto che il relatore della fondazione sarà un parlamentare europeo e viceversa.

Proseguiremo ora i nostri lavori affrontando la questione dell’università euro-mediterranea.

 

Comunicazioni del Presidente sulla prima riunione del Gruppo di lavoro sull’istituzione di una Università euro-mediterranea.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Vorrei comunicare ai membri della commissione che abbiamo svolto la prima riunione del gruppo di lavoro sulla creazione di una università euro-mediterranea, riunione che si è svolta ieri mattina presso la Camera dei deputati.

Abbiamo svolto un lavoro molto utile, nel corso di questa riunione, e i due relatori potranno preparare un documento che illustri la situazione a venire alla luce di quanto vi ho già indicato durante la prima riunione dei ministri dell’istruzione e della scienza al Cairo in cui la proposta – che peraltro aveva già ottenuto il plauso della nostra assemblea – di realizzare questa università euro-mediterranea ha ricevuto il sostegno dei Governi.

Oggi formalizziamo questa nostra decisione attraverso un documento preparato dai nostri due relatori, che vi sarà sottoposto in occasione della prossima riunione della commissione. 

Su questo punto ha chiesto di parlare l’onorevole Mecarbne a cui do la parola. 

 

EDUAR MECARBNE, Assemblea del Popolo della Siria. Grazie, presidente.

Per quanto riguarda l’università Euromed, preciso che il suo scopo è quello di rafforzare le diversità culturali, religiose e di civiltà, nonché gettare le basi di un futuro comune e avvicinare le due sponde del Mediterraneo, avvicinando docenti, discenti e ricercatori. Pertanto, invitiamo professori e ricercatori del sud e dell’est del Mediterraneo affinché partecipino a questa università che riteniamo riceverà studenti arabi che si fidano dell’università europea e delle loro esperienze didattiche. Questo a tutela di tutti i Paesi del Mediterraneo dai quali essi provengono. 

 


TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. La ringrazio.

Prima di chiudere i nostri lavori, vorrei dare la parola al viceministro degli affari esteri del Governo italiano, Ugo Intini, che intende commentare le due questioni di cui abbiamo appena parlato, ovvero la Fondazione Anna Lindh e l’Università euro-mediterranea. 

 

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Grazie, presidente. In effetti, i rapporti culturali tra le due sponde del Mediterraneo sono decisivi per il futuro dell’umanità. Si potrebbe dire che è esagerato, ma io ritengo che sia così, perché evitare lo scontro tra opposte civilizzazioni e opposte religioni è esattamente l’obiettivo principale che ci si deve porre in questo momento.

Per raggiungerlo, ovviamente, si deve capire che non c’è uno scontro fra opposte civilizzazioni, poiché queste, per definizione, non si scontrano e non fanno guerre. Esiste, invece, uno scontro tra opposte ignoranze: l’ignoranza da parte nostra del mondo arabo e da parte del mondo arabo nei nostri confronti. Pertanto, la guerra contro le opposte ignoranze è esattamente l’obiettivo che istituzioni come questa stanno portando avanti. 

A tal proposito, vorrei ringraziare gli amici spagnoli, perché contro le opposte ignoranze è stato un passaggio molto utile e bello il convegno di Cordoba, dove tanti secoli fa vivevano in pace arabi, ebrei e cristiani. Per questo motivo, Cordoba rappresentava un faro di civiltà, come ad esempio la Sicilia. 

Sono, dunque, molto contento di rivolgere un saluto ai parlamentari, ai relatori e agli altri rappresentanti istituzionali oggi presenti in questa giornata dedicata all’approfondimento dei temi di interesse della commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi umani e la cultura. Al termine, firmeremo l’accordo tra la Fondazione euromediterranea Anna Lindh e l’università di Roma 3 per la creazione della prima cattedra Fondazione Anna Lindh presso l’ateneo romano. 

Vorrei sottolineare l’importanza che l’Italia attribuisce al ruolo dell’Assemblea parlamentare euromediterranea nella costruzione di un efficace parteneriato, avvicinandolo agli interessi e alle aspettative delle nostre società civili. Siamo tutti consapevoli delle grandi potenzialità del parteneriato e crediamo che gli ambiziosi obiettivi rivolti alla creazione di un’area di pace e di prosperità condivisa nel Mediterraneo, che ci siamo posti 12 anni fa a Barcellona, potranno essere pienamente raggiunti. 

L’evento di oggi si colloca in una fase in cui il Mediterraneo ha riacquistato una forte centralità nell’agenda delle diplomazie dei Paesi della regione. Le idee in discussione sulla proposta francese di dare vita ad una unione del Mediterraneo e la proposta italiana di allargare il dialogo a cinque Paesi più cinque sono la testimonianza di questo ritrovato interesse. 

Il parteneriato euromediterraneo continuerà in ogni caso ad essere lo strumento chiave della cooperazione mediterranea e la sua azione sta anch’essa traendo beneficio da questo recupero di interesse per una regione la cui stabilizzazione politica e il cui sviluppo economico sono una sorta di crocevia strategico per l’Italia e per l’Europa intera. 

La Conferenza euromediterranea dei ministri degli esteri che si svolgerà il 5 e 6 novembre a Lisbona rappresenta il momento principale di sintesi delle ultime iniziative concordate nell’ambito del parteneriato. I ministri discuteranno l’attuale evoluzione del processo di pace arabo-israeliano e la situazione politica in Medio Oriente, secondo una tradizione che rende il parteneriato l’unico foro internazionale dove tutti i Paesi mediterranei hanno insieme un costruttivo dialogo politico su questi temi. 

L’elemento di maggiore novità della presidenza portoghese è lo svolgimento, nella seconda metà di novembre, della prima Conferenza ministeriale euromediterranea in materia migratoria, che può portare nuova linfa e valore aggiunto al processo di Barcellona.


Il programma quinquennale del parteneriato assegna, infatti, un ruolo centrale alla gestione dei flussi migratori, basata sul principio di approccio globale e articolato nelle tre grandi tematiche della migrazione legale, della migrazione con sviluppo, della lotta all’immigrazione illegale. Il parteneriato si configura, quindi, come il foro più appropriato per affrontare queste questioni che richiedono una strategia condivisa di risposta rapida ed efficace.

In un contesto più vicino all’occasione di oggi, vorrei ricordare la decisione del Consiglio del Parlamento europeo di dichiarare il 2008 anno euromediterraneo per il dialogo interculturale e la convocazione in Grecia, nel primo semestre 2008, della Conferenza euromediterranea dei ministri della cultura, incaricata di fissare le principali linee di indirizzo.

Strumento importante di questo dialogo è la Fondazione Anna Lindh, istituita nel 2005 con lo scopo di promuovere i valori della tolleranza e della cultura attraverso il rafforzamento dei contatti tra le società civili dei Paesi del Mediterraneo. Ho ascoltato con attenzione quello che è stato detto finora sulla fondazione, che è stata al centro della vostra iniziativa. La fondazione si trova – lo si sa – in una fase delicata, speriamo di rilancio e di rinnovamento, caratterizzata dalle recenti modifiche al suo statuto per la nomina dei nuovi vertici. 

Alla Conferenza di Lisbona, i ministri degli esteri indicheranno il nuovo presidente della fondazione, che il board governance nominerà insieme al nuovo direttore. L’attuale direttore, l’ambasciatore Guerrato, che ringrazio e saluto per l’opera di risanamento che sta svolgendo, lascerà l’incarico nella prossima primavera dopo aver lanciato la campagna «1001 iniziative» per il 2008, anno euromediterraneo del dialogo interculturale. Una campagna da cui ci attendiamo la consacrazione della fondazione di Alessandria come luogo elettivo dell’integrazione culturale.

Vorrei spendere una parola proprio su Alessandria e sulla sua biblioteca che ha un direttore di grande vision, il quale ha ben chiaro che se Alessandria era anticamente il pharos, può essere anche oggi un faro di cultura, un faro che irradia alle due sponde del mediterraneo una cultura comune che ha grandi radici storiche comuni. 

La biblioteca di Alessandria è una miniera a cielo aperto di cultura che, probabilmente, dovrebbe essere valorizzata e sfruttata maggiormente. Ad esempio, manca un supporto televisivo che faccia conoscere qual è la grande produzione culturale che c’è in questa biblioteca. Ebbene, io penso che bisognerà creare gli strumenti per far sì che si sappia ciò che di buono e utile si fa nella biblioteca di Alessandria.  

A margine di questa assemblea, il direttore dell’università di Roma 3 e il direttore della Fondazione Anna Lindh, come ricordavo all’inizio, firmeranno l’accordo che istituisce la prima cattedra Fondazione Anna Lindh presso un ateneo dell’area euromediterranea. Siamo lieti che una università italiana faccia da modello a una pratica che andrebbe estesa ad altre università.

Le cattedre Jean Monnet insegnano l’integrazione europea ai cittadini europei; le cattedre Anna Lindh possono insegnare l’integrazione euromediterranea ai cittadini euromediterranei. L’obiettivo è, in definitiva, comune: abituare i docenti e gli studenti a conoscersi senza pregiudizi, né deformazioni ideologiche, ma armati soltanto della curiosità di sapere. 

La dichiarazione de Il Cairo sull’istruzione superiore apre una nuova strada che l’Italia intende percorrere con coerenza. È significativo il fatto che la cattedra Anna Lindh si inserisce nel master sull’integrazione euromediterranea, anch’esso una novità, che l’università Roma 3 avvierà nell’anno 2008-2009. La dichiarazione de Il Cairo ha pure messo in rilievo la necessità di una più attiva partecipazione dei Paesi partner mediterranei al programma Erasmus, Mundus e di un ulteriore consolidamento del programma Tempus. 

Il progetto di università euromediterranea figura anch’esso nell’agenda della Conferenza di Lisbona e sarà certamente sviluppato durante la presidenza slovena. Il presidente dell’università euromediterranea è il rettore, d’altronde, della più grande università italiana, La Sapienza di Roma; egli mi ha parlato dei suoi progetti che sono molto interessanti e che sono seguiti dal rettore e dal suo staff in modo appassionato.


Vorrei concludere dicendo che sono convinto che oggi possiamo guardare, dunque, con ragionevole ottimismo alle prospettive di integrazione euromediterranea. Auguro nuovamente a tutti buon lavoro nel segno del parteneriato.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Invito il rettore dell’Università degli studi di Roma 3, professor Guido Fabiani, a prendere posto qui al mio fianco per la firma degli accordi di cooperazione culturale tra la sua università e la Fondazione Anna Lindh.

 

GUIDO FABIANI, Rettore dell’Università degli studi di Roma 3. Desidero spendere due parole per motivare questo atto importante, come è stato già ricordato dall’onorevole Intini. 

Ci apprestiamo a firmare un accordo di collaborazione culturale e scientifica con la Fondazione euromediterranea Anna Lindh per il dialogo tra le culture. Questo accordo di collaborazione culturale e scientifica prevede la costituzione di una cattedra Anna Lindh che si inserisce organicamente all’interno di una attività formativa dell’Università Roma 3, una attività di master di II livello sulla integrazione euromediterranea. Sono molto orgoglioso, in qualità di rettore di questa università, di firmare una collaborazione con una istituzione di tale importanza culturale e internazionale.

L’università di Roma 3 è fortemente impegnata sul piano dell’integrazione tra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo, come è fortemente impegnata nel portare avanti un’attività di conoscenza reciproca tra i popoli del Mediterraneo, nella convinzione che l’attività di conoscenza sia il supporto di base per rendere possibile la convivenza e la tolleranza tra i popoli. 

Come università, crediamo che nel bagaglio formativo dei nostri studenti debba esservi, appunto, una componente di questo tipo, che mira a favorire l’integrazione tra i popoli. Questo mi sembra un atto di grande importanza che va in questa direzione.

Voglio, pertanto, ringraziare il direttore della fondazione, Lucio Guerrato, e il Ministro plenipotenziario, Cosimo Risi, poiché tutto questo procede anche perché il ministero degli affari esteri, con la sezione cooperazione internazionale, ha fortemente supportato questo incontro e questa realizzazione.

 

TANA DE ZULUETA, Camera dei Deputati, Presidente della Commissione cultura dell’APEM. Avendo concluso i nostri lavori, nel ringraziare tutti i presenti, propongo che la prossima riunione della commissione si svolga lunedì 11 febbraio 2008. Se ciò non fosse possibile per motivi di calendario delle nostre Assemblee, propongo di svolgerla lunedì 18 febbraio, in tempo utile, comunque, per la sessione di marzo ad Atene dell’APEM.

Nel ringraziare ancora tutti presenti per l’ampia partecipazione, ricordo che l’ultimo appuntamento di oggi prevede una colazione conclusiva presso la Sala Gialla, in fondo al corridoio. 

Grazie di nuovo per il lavoro straordinario che avete svolto. 

 

La seduta termina alle ore 14,10.



ASSEMBLEA PARLAMENTARE

EURO-MEDITERRANEA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

raccomandazione

 

 

 

presentata, a nome della Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura

 

dal Presidente on. Tana de Zulueta

 

Adottata a Tunisi il 17 marzo 2007

 

 



 

 

 

La Commissione per la promozione della qualità della vita, gli scambi tra società civili e la cultura dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea,

 

a) viste le conclusioni dell’VIII Conferenza euro-mediterranea dei Ministri degli Affari esteri, svoltasi a Tampere il 27-28 novembre 2006, che ha opportunamente riaffermato l’importanza del dialogo interculturale, ribadendo l’impegno dei Paesi membri dell’Unione ad aumentare in modo significativo i finanziamenti destinati all’istruzione ed alla formazione nella regione mediterranea attraverso i programmi di assistenza, i piani di azione per i partner mediterranei nonché lo Strumento europeo di vicinato e partenariato;

 

 b) vista la Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, approvata il 20 ottobre 2005  dalla XXXIII Conferenza generale dell’UNESCO, ed attualmente in vigore a livello internazionale, volta a tradurre in termini normativi alcuni principi proclamati nella Dichiarazione universale adottata in ambito UNESCO,

 

c) vista la decisione comunitaria 1983/2006/CE, che ha individuato il 2008 come l’anno europeo del dialogo interculturale,

 

d) visto il rapporto “Alliance des civilisations” del Gruppo ad Alto livello delle Nazioni Unite, presentato il 13 novembre 2006,

 

e) vista la comunicazione della Commissione europea, presentata il 5 settembre 2006, dedicata a una strategia ambientale per il Mediterraneo e la comunicazione del 7 giugno 2006 riguardante la futura politica marittima per l’Unione,

 

f) vista la Dichiarazione del Cairo, adottata a conclusione della Conferenza dei ministri euro-mediterranei dell’ambiente che ha avuto luogo il 20 e 21 novembre 2006,

 

g) visto il rapporto presentato il 1° febbraio 2007 dagli esperti del gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) a Parigi,

 

h) vista la Convenzione internazionale sui diritti di tutti i migranti lavoratori e dei membri delle loro famiglie adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1990, che mira all’inserimento dei lavoratori migranti;

 

i) vista la Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale adottata nel 1992 dai paesi membri del Consiglio d'Europa;

 

l) viste, in particolare, le comunicazioni della Commissione europea, rispettivamente, del 30 novembre 2006 riguardante “L’approccio globale della questione delle migrazioni un anno dopo: verso una politica globale europea in materia di migrazioni”, del 1° settembre 2005 che reca “Un’agenda comune per l’integrazione. Quadro per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi nell’Unione europea” e del 6 aprile 2005 che istituisce “Un programma quadro sulla solidarietà e gestione dei flussi migratori per il periodo 2007-2013”;

 

m) visti i testi adottati dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ed in particolare, la risoluzione 1437 del 2005 “Immigrazione ed integrazione: una sfida e un’opportunità per l’Europa”, la risoluzione 1768 del 2006 “Immagine dei richiedenti asilo, degli immigrati e dei rifugiati nei media”, la risoluzione 1478 del 2006 “Integrazione delle donne immigrate in Europa”, la risoluzione 1462 del 2005 “Politica di co-sviluppo quale misura positiva per gestire i flussi migratori”  ed infine, la Dichiarazione di Varsavia e il Piano di Azione adottati dai Capi di Stato e di Governo dei paesi membri del CdE nel 2005;

 

n) viste le risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU, in materia di migrazioni internazionali e sviluppo, e di protezione dei migranti, nonchè le risoluzioni 58/190 e 58/208 in base alle quali è stato deciso di promuovere un Dialogo di Alto livello dell’Assemblea Generale dell’ONU sulle migrazioni internazionali;

 

o) visto il programma delle Presidenze di turno della UE per i prossimi diciotto mesi in cui si evidenzia l’intenzione “to focus on integration and intercultural dialogue” ed auspicato un ruolo costante di stimolo da parte dei Parlamenti nel dare attuazione concreta a tale principio,

 

p) tenuto conto di quanto emerso nel corso delle riunioni della Commissione che hanno avuto luogo a Roma il 6 novembre 2006 ed il 26 febbraio 2007,

 

q) tenuto altresì conto degli indirizzi espressi dal Bureau dell’APEM con riferimento all’attività della Commissione Cultura ed agli ambiti tematici da approfondire maggiormente,

 

r) richiamate le risultanze delle ultime riunioni dei rappresentanti dei Governi dei Paesi delle due sponde del Mediterraneo sui temi dell’ambiente, della cultura ed educazione e dei flussi migratori,

 

s) ricordato come la Dichiarazione di Barcellona ed il suo programma di lavoro pongano l’accento sull’importanza del dialogo interculturale e interreligioso, sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa ai fini della conoscenza e della comprensione reciproca tra culture, sull’importanza dello sviluppo delle risorse umane nel settore della cultura tra cui gli scambi culturali, la conoscenza di altre lingue, l’attuazione di programmi educativi e culturali rispettosi delle identità culturali,

 


in relazione al dialogo tra le culture e le civiltà e la promozione delle diversità culturali:

 

1. evidenzia come il dialogo tra culture, tra civiltà e religioni rappresenti una priorità assoluta, da valorizzare in primo luogo nella direzione di una sempre maggiore conoscenza e sviluppo delle relazioni culturali improntate alla fiducia e alla collaborazione reciproca,

 

2. riafferma la diversità come fattore di crescita e di ricchezza ed auspica un lavoro comune e condiviso tra i Parlamenti delle due sponde del Mediterraneo che consenta di restituire al Mediterraneo quel ruolo di ponte tra civiltà che gli è proprio per vocazione storica e geografica,

 

3. pone in evidenza come non esista una sola cultura del Mediterraneo, ma diverse culture all’interno di un unico Mediterraneo, rappresentate da caratteristiche simili ma differenti,

 

4. ricorda che la diversità e l’espressione culturale comune dipendono fortemente dall’esercizio delle libertà fondamentali nei diversi Paesi di provenienza, che comprendono la libertà di espressione, la libertà di stampa, il rispetto delle minoranze, offrono molto in termini di ricchezza e di espressione culturale. L’espressione culturale si basa anche sulla capacità dei Paesi di assicurare la giustizia sociale, e rappresenta altresì un elemento essenziale della coesione sociale, in particolare per quanto riguarda le donne, che devono avere il giusto ruolo anche nel lavoro,

 

5. condivide il concetto ampio di “cultura” definito nel Preambolo della Dichiarazione universale sulla diversità culturale del 2001 adottata in ambito UNESCO, che si estende fino ad includere l’insieme delle caratteristiche distintive che in un gruppo sociale o in una società concernono le sfere spirituale, materiale, intellettuale ed emozionale, per cui la cultura, oltre ai tradizionali campi delle arti e della letteratura, comprende modi di vista comuni, sistemi valoriali, tradizioni e credenze,

 

 6. richiama  i contenuti della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità culturali adottata dalla XXXIII Conferenza generale dell’UNESCO il 20 ottobre 2005 che, in attuazione degli artt. 8-11 della Dichiarazione universale sulla diversità culturale del 2001, sostiene il riconoscimento del carattere peculiare dei beni e dei servizi nel campo della cultura, che, in quanto veicoli di identità, di valori e di significati, non possono essere considerati alla stregua di beni di consumo ordinari,

 

7. auspica che i Paesi dell’euro-med ratifichino e diano pieno seguito agli interventi previsti dalla Convenzione UNESCO del 2005, che stabilisce tra l’altro che l’UNESCO contribuirà a facilitare la raccolta, l’analisi e la diffusione delle informazioni, statistiche e buone pratiche in merito alla diversità delle espressioni culturali e darà vita ad una banca dati sulle varie organizzazioni governative, private o no-profit, operanti nel campo delle espressioni culturali. Sollecita quindi un ruolo propulsivo dei Parlamenti dei Paesi dell’euro-med nella fase di attuazione ed applicazione concreta della Convenzione; ricorda inoltre che il 21 maggio è la giornata mondiale della diversità culturale e auspica che i parlamenti e le istituzioni euro-mediterranee si facciano parti attive di questa celebrazione,

 

8. ritiene che la diffusione e la condivisione della cultura può giocare un ruolo centrale per prevenire il terrorismo, e isolarlo dalla società,

 

9. sostiene l’iniziativa “Alleanza delle Civiltà”, co-promossa dalla Turchia e dalla Spagna sotto l’egida del Segretario generale delle Nazioni Unite, le cui finalità si integrano pienamente con gli obiettivi e le aspirazioni del Partenariato euro-mediterraneo,

 

10. ribadisce la centralità di un fecondo confronto tra le diverse confessioni radicate nell’area mediterranea, basato sul rispetto delle differenze,

 

11. accoglie e sostiene gli strumenti a disposizione del dialogo interculturale, in primo luogo, la Fondazione  euromediterranea “Anna Lindh”, la richiamata Convenzione dell’UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, i programmi Euromed per il dialogo interculturale, nonché il “Programma Mediterraneo” promosso dall’UNESCO,

 

12. sottolinea l’importanza di rafforzare e valorizzare il ruolo del patrimonio culturale mediterraneo affinché esso diventi sempre più strumento di dialogo e motore di sviluppo economico e sociale per i Paesi dell'area euro-mediterranea, sottolinea inoltre che il dialogo interculturale deve essere una priorità permanente e visibile per l’unione Europea e una priorità orizzontale per tutti i suoi principali programmi e la nuova politica di vicinato,

 

13. evidenzia in tale ambito la necessità di un ruolo fortemente incisivo  -  anche prevedendo incontri periodici - dei Ministri della Cultura dei Paesi dell’area euro-mediterranea, chiamati a svolgere una fondamentale funzione di stimolo e sollecitazione in tutte le sedi a ciò preposte, per fare in modo che il settore culturale costituisca una delle priorità fondamentali nella fase dell’allocazione e della negoziazione dei finanziamenti, incorporando l’ambito culturale tra le priorità settoriali delle agende di cooperazione a livello sia nazionale sia regionale,

 

14. condivide, in tale quadro, gli obiettivi individuati nel documento “Strategia per lo sviluppo del patrimonio culturale euro-mediterraneo: le priorità dei paesi mediterranei (2007–2013)”, presentato al Comitato Euro-med nel gennaio 2007 e sviluppato nell’ambito del programma Euromed Heritage,  tra cui la necessità di un rafforzamento legislativo ed istituzionale e l’esigenza di prevedere maggiori forme di informazione ai cittadini relativamente ai progetti culturali,

 

15. ricordati i principi fondamentali della Convention UNESCO di Parigi del 1972 concernenti la protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (L’Aia, 14 maggio 1954)  e le decisioni del Comitato per il patrimonio mondiale nella sua ultima sessione à Vilnius 2006, richiama la necessità di salvaguardare i siti inseriti nell’elenco del patrimonio mondiale e nell’elenco del patrimonio mondiale in pericolo dell’UNESCO, che si trovano nei territori interessati dai conflitti attualmente in essere, con particolare riguardo alla Città vecchia di Gerusalemme, nel pieno rispetto delle comunità ivi residenti e del diritto internazionale; in tale contesto accoglie con favore la decisione del Direttore generale dell’UNESCO Koichiro Matsuura di inviare una commissione tecnica nella Città Vecchia di Gerusalemme; accogli altresì il Rapporto elaborato dall’UNESCO il 12 marzo 2007 al termine della missione,

 

16. ribadisce in particolare la necessità di legami più intensi e regolari con la Fondazione Anna Lindh, come pure la necessità della nomina di relatori nell’ambito della nostra Commissione incaricati di seguire i lavori della Fondazione; sottolinea l’esigenza che Governi e Parlamenti pongano un particolare impegno – viste le priorità del prossimo biennio - sui temi della gioventù, dei media e dell’istruzione, anche con riferimento alla cooperazione fra scuole, università e centri di ricerca scientifica, 

 

17. evidenzia il ruolo di facilitatore del dialogo nel Mediterraneo che possono svolgere programmi quale Erasmus mundus ed Euromed gioventù, ed il nuovo programma Gioventù in azione, che vanno sempre più incentivati ed ampliati, e sottolinea al contempo l’opportunità di una sempre maggiore estensione del programma TEMPUS ai Paesi euro-mediterranei, invitando i governi euro-mediterranei ad attuare le raccomandazioni del Vertrice mondiale sulla Società dell’informazione tenutosi a Tunisi nel novembre 2005 sotto l’egida dell’ONU,

 

18. sottolinea l’importanza di un ruolo attivo dei Parlamenti in sede di attuazione delle proposte concrete contenute nel Programma di lavoro della Commissione del 12 aprile 2005, con particolare riguardo ai campi dell’istruzione, della formazione professionale e del miglioramento della mobilità nell’istruzione superiore, nonché per realizzare l’obiettivo di eliminare l’analfabetismo nella regione entro il 2015,

 

19. sottolinea l’interesse e l’efficacia delle politiche di cooperazione decentrate con autorità locali e ONG nella lotta all’analfabetismo, per l’istruzione, e sollecita un rafforzamento di questo aspetto del partenariato tra l’Unione Europea e i paesi firmatari,

 

20. ribadisce il suo accordo con il contenuto della relazione “Alliance des civilisations” del Gruppo ad Alto livello delle Nazioni Unite, e esorta a inserire nei rispettivi programmi scolastici contenuti letterari e storici propri delle altre culture, oltreché alla diffusione della lingua araba nelle università europee,

 

21. sottolinea il ruolo dei governi dei paesi partner euro-mediterranei nell’assicurare la possibilità di un più ampio accesso a Internet nelle scuole, in quanto strumento utile a rafforzare la conoscenza reciproca,

 

22. accoglie favorevolmente le conclusioni della riunione dei Ministri degli esteri dei Paesi euro-med di Tampere (2006) ed invita i Parlamenti a svolgere un ruolo compartecipe e di indirizzo in tale ambito; a consolidare lo sforzo di tutti i paesi della regione euro-mediterranea per raggiungere gli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo in tutti i settori connessi all’istruzione e alla società dell’informazione, alle donne, alla salute,

 

23. sollecita i Ministri dell’istruzione superiore e ricerca dei Paesi euro-med, anche in vista della riunione prevista nel giugno di quest’anno, a portare avanti il percorso avviato con le tre Conferenze di Catania per la creazione di uno spazio euro-mediterraneo di alta formazione e ricerca,

 

24. auspicata quindi la realizzazione, in tempi rapidi, di uno spazio di cultura ed istruzione euro-mediterranea, anche in considerazione del ruolo che potrebbe svolgere una Università euro-mediterranea attraverso l’insegnamento di materie e percorsi di studio  che consentano l’integrazione dei saperi, fondamentale per un reale dialogo tra culture, valorizzando altresì gli importanti network già operanti,

 

25. ritiene quindi opportuno che nell’ambito dell’APEM si segua da vicino questo percorso, anche al fine di poter giungere alla definizione di proposte concrete e condivise tra Governi, Parlamenti e società civile per la creazione di una Università euro-mediterranea,

 

26. sollecita inoltre la realizzazione, già proposta dall’APEM,  di giornate dedicate agli incontri parlamentari  dei giovani euro-mediterranei, con cadenze regolari e sul modello del programma EuroScola, in cui riunire studenti dei Paesi euro-med – selezionati attraverso l’ausilio delle scuole ed il coordinamento di organizzazioni esperte nel settore, sulla base dei principi della trasparenza e della rappresentatività – di età compresa tra i  16 ed i 18 anni (che non hanno quindi ancora diritti di voto attivo e passivo), affinché possano approfondire e discutere insieme tematiche di particolare attualità rientranti nell’ambito dei tre campiche sono alla base della Dichiarazione di Barcellona;  le lingue di lavoro possono essere le tre lingue di lavoro dell’APEM,

 

27. si rallegra dell’organizzazione, da parte della presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione Europea, del Parlamento euro-mediterraneo dei giovani, che si terrà a Berlino dal 26 maggio al 3 giugno 2007, prendendo atto altresì del fatto che la Presidenza tedesca ritiene che questa iniziativa sia un progetto pilota; raccomanda che la Presidenza tedesca si ispiri a criteri analoghi a quelli menzionati al paragrafo 26,

 


 

   sul tema della tutela ambientale:

28. ribadisce la centralità del Mare Mediterraneo nel suo duplice significato di elemento-simbolo che accomuna popoli e culture diverse e di risorsa ambientale da tutelare,

29. esprime preoccupazione per il crescente deterioramento dell’equilibrio ambientale del bacino del Mediterraneo e ritiene che occorra dar maggior impulso al varo di politiche ambientali in tutta la regione, giacché si tratta di un elemento fondamentale di qualsiasi politica di sviluppo sostenibile,

30. accoglie favorevolmente la decisione assunta a Barcellona dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi euro-mediterranei, il 27 e 28 novembre 2005, in occasione delle celebrazioni per il decennale della Dichiarazione, di lanciare l’iniziativa Horizon, con cui i Paesi della regione si impegnano ad incrementare gli sforzi per ridurre in maniera significativa l’inquinamento del mar Mediterraneo entro il 2020,

31. accoglie favorevolmente la comunicazione della Commissione europea, presentata il 5 settembre 2006, dedicata a una strategia ambientale per il Mediterraneo e pone l’accento sulla necessità di dotare tale strategia di risorse finanziarie adeguate, nell’ambito della politica europea di vicinato,

32. accoglie favorevolmente la decisione adottata dal Consiglio europeo, la quale sottolinea la determinazione dell’UE a fare dell’Europa un’economia ad alto rendimento energetico e a basso tasso d’emissione di gas a effetto serra e decide che, fino alla conclusione di un accordo mondiale globale per il post 2012, l’UE si assume, in modo indipendente, il fermo impegno di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, entro il 2020, di almeno il 20% rispetto al 1990,

33. si compiace dei risultati della riunione dei Ministri dell’ambiente della regione euro-mediterranea, svoltasi al Cairo il 20 novembre 2006, nell’ambito della quale si è registrato un sostanziale accordo sulle maggiori priorità da realizzare nell’ambito del programma Horizon 2020 ed è stata definita una road map di azioni concreta da intraprendere fino al 2013,

34. richiama l’attenzione sulla necessità di giungere altresì ad un accordo in materia di controllo del traffico navale e del trasporto dei rifiuti tossici, al fine di regolamentarli in modo rigoroso e vincolante per tutti i Paesi del bacino del Mediterraneo,

35. segnala altresì la necessità di affrontare tali interventi includendo anche il Mar Nero e di sostenere la società civile europea attraverso l’incoraggiamento alla creazione di reti permanenti di partenariato,

36. chiede che la Banca Mondiale e la Banca Europea per gli Investimenti proseguano la cooperazione nell’ambito del Programma di assistenza tecnica per la protezione dell’ambiente nel Mediterraneo (METAP), dotando tale programma di risorse finanziarie adeguate a contrastare il degrado ambientale,

37. ritiene che i Parlamenti possano svolgere un importante ruolo di stimolo nell’attuazione delle misure previste da Horizon 2020, in particolare attraverso forme di cooperazione reciproca, lo scambio di best practices sulla legislazione del settore e l’adozione di misure di sensibilizzazione “istituzionale” sui temi dell’ambiente,

38. sottolinea come, per poter rispondere ai crescenti segnali di sofferenza del mar Mediterraneo ed alla necessità di una risposta su scala di bacino, è fondamentale un forte impegno di Governi e Parlamenti di tutti i Paesi dell’area per dare attuazione concreta a strategie di sviluppo comuni in tutti quei settori che possono incidere sulla qualità dell'ambiente (ivi inclusa la pesca),

39. accoglie favorevolmentele attività riguardanti il Piano d’azione per il mar Baltico, nella convinzione che le regioni baltiche e mediterranee possano operare insieme per la tutela e il risanamento dell’ambiente marino rafforzando le sinergie in ambiti comuni quali la gestione delle zone costiere, l’eliminazione dei punti neri dell’inquinamento, la tutela della biodiversità  e la promozione di una pesca sostenibile,

40. invita i Parlamenti dei Paesi aderenti alla Dichiarazione di Barcellona a sviluppare un dialogo in materia di protezione ambientale dell’ambiente marino, anche a livello bilaterale e multilaterale, al fine di stimolare i rispettivi Governi ad implementare gli impegni internazionali sottoscritti,

41. propone che l’Assemblea Parlamentare euro-mediterranea svolga un ruolo di monitoraggio sulla realizzazione degli obiettivi fissati da Horizon 2020, in particolare attraverso la nomina dei  relatoriin seno alla Commissione cultura,

42. chiede che, spento l’interesse dei media, non si dimentichi l’emergenza ambientale creatasi nella costa libanese a seguito del conflitto con Israele e, vengano applicate tutte le misure di salvaguardia previste in primo luogo nel rapporto dell’UNEP del 25 agosto 2006 per superare l’emergenza ambientale nell’area. L’APEM conferma la sua opposizione ad ogni azione volontaria di carattere militare che possa comportare un inquinamento del nostro mare comune,

 

 sul tema delle migrazioni:

 

43. sottolinea l’obbligo da parte di tutti gli Stati di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali per tutti i migranti e le loro famiglie e ribadisce i principi contenuti nel diritto internazionale in vigore,

 

44. ritiene che la migrazione internazionale sia una componente chiave del processo di globalizzazione e che rappresenti un prezioso potenziale per la crescita e lo sviluppo sia per i Paesi di arrivo che di partenza,

 

45. evidenzia che la dimensione globale delle migrazioni internazionali richiede dialogo e cooperazione tra i vari Paesi al fine di migliorare la comprensione del fenomeno migratorio e per individuare i mezzi ed i modi appropriati per massimizzare gli effetti positivi e ridurre quelli negativi,

 

46. condivide pienamente l’esigenza, ribadita nel rapporto “Alliance des Civilisations” del Gruppo ad Alto livello delle Nazioni Unite, di una politica delle migrazioni coordinata e dinamica tra i Paesi di origine, di transito e di destinazione ed in pieno accordo con le regole sui diritti umani, il diritto internazionale umanitario e gli accordi internazionali per la protezione dei rifugiati,

 

47. sottolinea come il concetto di integrazione miri ad assicurare la coesione sociale attraverso il riconoscimento della diversità nella reciprocità e richiama l'importanza dell'acquisizione della nazionalità e della cittadinanza civile quali strumenti per facilitare l'integrazione positiva anche alla luce delle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del dicembre 2006 che  hanno ribadito l'obiettivo di offrire ai cittadini di paesi terzi residenti da tempo nell'Unione la possibilità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro nel quale vivono,

 

48. riconosce che gli Stati membri dell’UE hanno realizzato progressi nello sviluppo di politiche nazionali d'integrazione, ma che persistono ancora ostacoli al pieno accesso ai sistemi educativi, sociali e lavorativi, e che il problema della conoscenza della lingua del paese ospitante è spesso il primo ostacolo che si frappone ad una buona integrazione,

 

49. incoraggia quindi i Parlamenti e i Governi dei paesi di arrivo ad adottare politiche mirate all’insegnamento della lingua del paese ospite agli immigrati evitando così processi di emarginazione e favorendo una vera integrazione degli immigrati e il loro attivo contributo alla comunità che li ha accolti,

 

50. considera essenziale il ruolo delle autorità locali e regionali le cui responsabilità, in particolare nei settori dell'edilizia urbana e abitativa e dell'istruzione, hanno conseguenze dirette sul processo di integrazione, prevedendo, tra l’altro, la possibilità di promuovere gemellaggi tra città o comunità,

 

51. invita i Parlamenti a sollecitare i rispettivi governi a firmare gli strumenti giuridici internazionali sui migranti ed in particolare la Convenzione internazionale sui diritti di tutti i migranti lavoratori e dei membri delle loro famiglie adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1990,

 

52.    sottolinea l’importanza dell’esistenza, in tutti i paesi, di una legislazione volta a facilitare il ritorno degli immigranti, tenuto conto che le conoscenze e l’esperienza acquisite dagli immigranti possono contribuire allo sviluppo di efficaci politiche di aiuto per i loro paesi di origine,

 

53. invita i Parlamenti a prevedere l’attribuzione del diritto di voto attivo e passivo ai cittadini stranieri nelle elezioni amministrative, in tempi ragionevoli, al fine di dare agli immigrati regolari uno spazio legittimo nella costruzione sociale del paese di accoglienza, e sollecita i Paesi membri del Consiglio d’Europa che non l’abbiano ancora fatto a ratificare e a dare piena attuazione alla Convenzione di Strasburgo del 1992,

 

54. invita i Parlamenti a sostenere, pertanto, l’attuazione di politiche migratorie dirette alla salvaguardia dei diritti fondamentali degli immigrati e all’integrazione sociale e politica di questi, così come sottolineato dal Dialogo di Alto livello dell’ONU sulle migrazioni e lo sviluppo,

 

55. sottolinea che una politica coerente in materia di immigrazione deve essere accompagnata da una politica di integrazione che preveda, fra l'altro, un'integrazione regolare nel mercato del lavoro, il diritto all'istruzione e alla formazione, l'accesso ai servizi sociali e sanitari nonché la partecipazione degli immigrati alla vita sociale, culturale e politica. Inoltre, tale politica d’integrazione richiede che anche gli stessi immigranti si impegnino a raggiungere gli obiettivi sopra indicati,

 

 

56. invita i Parlamenti e i Governi euro-med a porre l'accento sulla promozione dell'integrazione e sul riconoscimento della diversità varando campagne di informazione e di sensibilizzazione per una migliore comprensione delle migrazioni mettendo in risalto i contributi positivi degli  immigrati nelle società di accoglienza,

 

57. invita i media a trasmettere un’informazione corretta sulle questioni dell’immigrazioni evitando la diffusione di immagini false e stereotipi negativi degli immigrati ed a valorizzare il ruolo dei media a livello locale come mezzo per promuovere l’integrazione e accettazione degli immigrati nelle comunità in cui vivono,

 

58. sollecita i Governi euro-mediterranei ad agevolare e ad umanizzare le condizioni di concessione dei visti in particolare per favorire gli scambi culturali e i programmi di studio,

 

59. invita i Parlamenti ed i Governi a promuovere l’integrazione delle donne immigrate a garantire la protezione dei loro diritti a promuovere e attuare piena eguaglianza tra i sessi come un diritto umano  fondamentale,

 

60. chiede l'adozione di un approccio improntato ai principi di partenariato e di co-gestione dei flussi migratori,

 

61. prende atto della decisione del Consiglio che istituisce il Fondo europeo per l'integrazione di cittadini di paesi terzi per il periodo 2007-2013 ed auspica il potenziamento dei finanziamenti destinati alle politiche migratorie, con particolare riferimento alle misure per l’inserimento,

 

62. invita i Parlamenti e i Governi euro-mediterranei a promuovere lo sviluppo economico della sponda sud, come pure il trasferimento di tecnologie, incoraggiando gli investimenti che creano occupazione, così da meglio governare e organizzare il flusso migratorio,

 

63. sottolinea i costi umani dell’immigrazione illegale, così come le derivanti minacce per la sicurezza, pur riconoscendo i benefici di un’emigrazione controllata e legale per i paesi d’accoglienza, in termini di crescita economica, e per i paesi d’origine, come risultato delle rimesse dei migranti, 

 

64. richiama ad una cooperazione rafforzata tra tutti i paesi delle due sponde del Mediterraneo al fine di lottare contro l’immigrazione illegale, il traffico di esseri umani e le attività delle organizzazioni criminali che ne sono la causa, e di promuovere politiche più energiche per lo sviluppo e la stabilità dell’Africa, in modo da sradicare i problemi umanitari che provocano i vasti movimenti di popolazione, eliminando così la causa principale dell’immigrazione illegale,

 

65. ritiene infine che sarebbe opportuno stabilire un logo dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea, facilmente identificabile e sostitutivo di quello attualmente utilizzato per il Partenariato euro-mediterraneo, che ne simboleggi l’ideale di pace, di dialogo, di rispetto e di comprensione tra le civiltà,

66. al fine di rendere tale scelta condivisa e più vicina al sentire delle giovani generazioni, e nello stesso tempo per far conoscere l’attività dell’APEM a un vasto pubblico, propone di indire un concorso nelle scuole medie e negli istituti secondari di secondo grado ad indirizzo artistico o discipline correlate dei Paesi euro-mediterranei, con modalità analoghe a quelle utilizzate per la selezione del logo del Cinquantenario dei Trattati di Roma,

67. incarica il suo Presidente di far sì che tale raccomandazione sia seguita dai Presidenti dei Parlamenti membri del Processo di Barcellona, dalla conferenza ministeriale euro-mediterranea, dalla Commissione europea, dai Governo dei paesi membri del Processo di Barcellona così come dalle istituzioni interessate.