Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento ambiente
Titolo: La nozione di rifiuto nel diritto cpmunitario e nel diritto nazionale
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 23
Data: 02/10/2006
Descrittori:
RECUPERO E RICICLAGGIO   RIFIUTI E MATERIALE DI SCARTO
SMALTIMENTO DI RIFIUTI     
Organi della Camera: VIII-Ambiente, territorio e lavori pubblici


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 

 

 

SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

 

La nozione di rifiuto nel diritto comunitario e nel diritto nazionale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 23

 

 

2 ottobre 2006


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento Ambiente

 

Consiglieri

Enrico Seta (2286)

Maria Schinina’ (5157)

Documentaristi

Wanda Lautizi (4220)

Claudio Dardi (3651)

Segretari

Rosanna Santini (9253)

 

I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

File: AM0024

 


INDICE

Schede di lettura

§      LA NOZIONE DI RIFIUTO   3

§      La normativa previgente: l’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002  3

§      L’ applicazione dell’art. 14  4

§      L’interpretazione giurisprudenziale  6

§      La nuova definizione recata dal d.lgs. n. 152/2006  6

§      La procedura di infrazione comunitaria.8

Normativa di riferimento

Normativa comunitaria

§      Dir. 75/442/CEE del 15 luglio 1975.  Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti. (art. 1)15

§      Dir. 2006/12/CE del 5 aprile 2006.  Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti. (art. 1)16

Normativa nazionale

§      D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio. (art. 6)19

§      D.L. 8 luglio 2002, n. 138. Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate.  (art. 14)23

§      D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Norme in materia ambientale. (art. 183)25

Giurisprudenza

Normativa comunitaria

§      SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Quinta Sezione) 15 giugno 2000  35

§      SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Sesta Sezione) 18 aprile 2002  57

§      ORDINANZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Terza Sezione) 15 gennaio 2004  70

§      SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Seconda Sezione) 11 novembre 2004  84

§      SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Terza Sezione) 8 settembre 2005  98

Normativa nazionale

§      Consiglio di Stato, sede giurisdizionale, sezione quinta, sentenza n. 674 del 2004  Errore. Il segnalibro non è definito.

§      CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503  138

§      CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del 13 maggio 2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836  142

§      Cassazione Penale, sez. III, 1 giugno 2005, n. 20499  152

§      CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. III, 16/01/2006 (Ud. 14/12/2005), Ordinanza n. 1414  163

§      Corte cost. (Ord.) 14 luglio 2006, n. 288  176

Dottrina

§      Delega ambientale: prima censura della Commissione Ue  di Paola Ficco  191

§      Ambiente e sicurezza n. 6, 21 marzo 2006 – Vincenzo Paone Alla Corte Costituzionale l’ultima parola sulla nozione di rifiuto?  195

§      Ambiente e sicurezza n. 14, 18 luglio 2006 – Pasquale Giampietro Nuova nozione di rifiuto e sottoprodotto più conforme ai canoni comunitari200

§      Ambiente e sviluppo n. 8, agosto 2006 – Stefano Maglia Nozione di rifiuto, materie prime secondarie e sottoprodotti: ancora norme poco chiare e poco “europee”207

§      Ambiente e sviluppo n. 8, agosto 2006 – Vincenzo Paone La nozione di rifiuto al vaglio della Corte Costituzionale: ancora sull’ordinanza “Rubino”211

 

 


Schede di lettura

 


 

LA NOZIONE DI RIFIUTO

 

La normativa previgente: l’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002

Con l’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002[1] è stata fornita l’interpretazione autentica della nozione di “rifiuto” recata dall'art. 6, comma 1, lett. a), del decreto Ronchi. Tale interpretazione è stata data a seguito di una serie di sequestri operati dalle forze dell’ordine (e convalidati dalla magistratura[2]) di carichi di rottami ferrosi destinati alle acciaierie per assenza della documentazione prescritta dal d.lgs. n. 22 del 1997 – cd. decreto Ronchi – per il trasporto di rifiuti. Tali provvedimenti erano stati adottati sulla base dell’assunto che tali materiali avessero natura di rifiuti e non di materie prime secondarie.

L’art. 14 del citato decreto-legge ha così stabilito i significati normativi da attribuirsi alle seguenti espressioni:

a) “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22;

b) “abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) “abbia l'obbligo di disfarsi”: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del d. lgs. n. 22.

Il citato art. 14 ha precisato, inoltre, che non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni per l’esclusione dal novero dei rifiuti:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22.

Sostanzialmente, l’art. 14 ha voluto dare soluzione al complesso problema dei “residui di produzione o di consumo” riutilizzati in un processo produttivo, di quelle sostanze cioè che hanno caratteristiche merceologiche tali da renderle assimilabili alle materie prime (che infatti vanno a sostituire). Tali sostanze (dette anche “materiali riciclabili”) non possono essere facilmente identificate attraverso la normativa (e la stessa giurisprudenza) comunitaria. Una considerazione restrittiva di questa problematica (tesa a sottoporre, nell’incertezza, tali sostanze alla restrittiva disciplina dei rifiuti) rischia di rendere onerosi processi produttivi che invece possono essere caratterizzati da positivi effetti ambientali, in quanto possono favorire operazioni di riciclaggio e diminuire i quantitativi complessivi avviati allo smaltimento in discarica.

L’ applicazione dell’art. 14

Il 16 ottobre 2002 - per la prima volta dall'entrata in vigore della legge n. 178 del 2002 di conversione del citato decreto - un giudice, trovandosi ad affrontare alcune problematiche concernenti la citata interpretazione autentica della nozione di rifiuto, ha ritenuto di dovere disapplicare l’articolo 14[3]. Tale disposizione è stata in particolare ritenuta in contrasto con la normativa comunitaria in materia (dettata dalla direttiva 75/442/CE e, più in particolare, dal regolamento 259/93/CE, relativo alla spedizione ed al trasporto dei rifiuti all'interno della Comunità Europea), che a suo tempo avrebbe fornito una nozione unitaria di rifiuto e che deve essere necessariamente applicata, senza limitazioni, in tutti gli Stati membri.

Quasi contestualmente la Corte di Cassazione ha avallato l’inapplicabilità dell’art. 14, ritenendo necessaria l’interpretazione conforme a quanto sancito da un regolamento comunitario e da alcune sentenze della Corte europea[4].

Con la sentenza n. 674 del 19 febbraio 2004, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha inaugurato un differente indirizzo giurisprudenziale, riformando la precedente sentenza del TAR Friuli[5], nella quale si riteneva insufficiente - per l’esclusione dal regime normativo sui rifiuti - il riutilizzo in un processo produttivo, per la scomparsa nell’ordinamento della nozione di “materia prima secondaria”. Il Consiglio di Stato ha ritenuto non esatto che tale nozione sia scomparsa dall’ordinamento, posto che, proprio con l’articolo 14 del decreto legge n. 138 del 2002 - il legislatore ha inteso confermare una disciplina (peraltro già ricavabile – secondo il Consiglio di Stato - dalla normativa previgente) volta a distinguere (e a escludere) dalla nozione di rifiuto quei “beni, sostanze e materiali residui di produzione che possano essere e siano effettivamente e oggettivamente reimpiegati nello stesso o in diverso ciclo produttivo, e ciò sia che si renda necessario, ovvero che non sia necessario, un qualche trattamento preventivo, purché non si tratti di una delle operazioni di trasformazione di cui all’allegato C del decreto legislativo n. 22 del 1997”.

Con la sentenza 11 novembre 2004 (C-457/02) la Corte europea di Giustizia ha giudicato incompatibile l’interpretazione recata dall’art. 14 del DL n. 138 con la nozione comunitaria di rifiuto.

Successivamente, la Corte di cassazione – Sez. III penale si è più volte pronunciata in materia (in particolare con le sentenze n. 9503 del 15 marzo 2005, n. 17836 del 13 maggio 2005[6] e n. 20499 del 1° giugno 2005) e ha affermato l’impossibilità per il giudice nazionale di disapplicare l’art. 14.

In particolare, nella sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005, la Corte argomenta che “essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come norma di interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando - come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia infra ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che «una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso»; ed «analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni»”.

Nella recente ordinanza 16 gennaio 2006, n. 1414, la III Sezione penale della Corte di cassazione, intervenendo nuovamente in materia, ha affermato che “l’unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi”. In proposito, si segnala peraltro l’ordinanza del 14 luglio 2006, n. 288, con la quale la Corte costituzionale, investita da vari giudici della questione di legittimità costituzionale del citato articolo 14, ha ordinato la restituzione degli atti ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce della nuova disciplina recata dall’articolo 183 del “codice ambientale” (su cui infra).

Si segnala che, a livello comunitario, è intervenuta la direttiva 2006/12/CE, adottata il 5 aprile 2006 ed entrata in vigore lo scorso 17 maggio, che ha abrogato la precedente direttiva 75/442/CEE. Tale direttiva reca, all'art. 1, paragrafo 1, lettera a), una definizione di «rifiuto» che si differenzia dalla precedente solo per una limitata variante linguistica (sostituzione della locuzione «abbia deciso … di disfarsi» con l'altra «abbia l'intenzione … di disfarsi»).

L’interpretazione giurisprudenziale

Nel merito della nozione di rifiuto, la Corte – nella medesima sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005 – ha sottolineato che “occorre essenzialmente distinguere tra «residuo di produzione», che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e «sottoprodotto», che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442, nella sua versione originaria, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un «sottoprodotto» in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma «certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione»".

 

In sintesi, sembra che la definizione delle nozioni di “recupero”, ”smaltimento”, “residui di produzione e di consumo”, “materia prima secondaria”, “sottoprodotto”, “disfarsi” risultino decisive al fine di annettere a un materiale la natura di “rifiuto” e che inoltre la definizione di ognuno di questi termini in connessione con gli altri può determinare effetti diversi a seconda del tipo di connessione instaurata.

 

La nuova definizione recata dal d.lgs. n. 152/2006

L’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, che provvede a sostituire l’articolo 6 del decreto Ronchi, reca una serie di definizioni volte a superare il lungo contenzioso scaturito dall’art. 14 del DL n. 138, che risulta abrogato dall’art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152. Il citato art. 183 definisce, infatti:

§         rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi;

§         sottoprodotto: i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla Parte quarta del decreto i sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest’ultimo fine, per trasformazione preliminare s’intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo. L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive;

§         materia prima secondaria: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181;

§         materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche:

1)   i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche Ceca, Aisi, Caef, Uni, Euro o ad altre specifiche nazionali e internazionali, individuate entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive, non avente natura regolamentare;

2)   i rottami o scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche di cui al numero 1). I fornitori e produttori di materia prima secondaria per attività siderurgiche appartenenti a Paesi esteri presentano domanda di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, ai sensi dell’articolo 212, comma 12, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al numero 1);

 

Si segnala che quest’ultima definizione riproduce quella introdotta dalla legge delega n. 308/2004.

 

Procedure di contenzioso in sede comunitaria (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea).

Il 23 giugno 2005 la Commissione ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia (Procedura 2002/2213, causa C-263/05)  ritenendo che la normativa nazionale violi la direttiva 75/442/CEE sui rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE.

In particolare, la Commissione sostiene che l’articolo 14 del decreto legge n. 138 dell’8 luglio 2002 (convertito in legge n. 178 dell’8 agosto 2002) sia in contrasto con gli obblighi derivanti dall’articolo 1(a) della direttiva citata poiché prevede l’esclusione dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 22 del 1997 (che ha trasposto nell’ordinamento nazionale la direttiva 75/442/CEE come modificata), di:

·         sostanze o oggetti destinati alle operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti non esplicitamente elencate agli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/97, e

·         beni, sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle elencate all’allegato C del decreto legislativo n. 22/97.

Secondo la Commissione, il sistema delineato dal legislatore italiano, nel quale la nozione di rifiuto viene fatta dipendere tassativamente da tali condizioni, escluderebbe da una possibile qualificazione come rifiuti, e di conseguenza dall'assoggettabilità alla normativa sulla gestione dei rifiuti medesimi, tutti quei materiali, sostanze o beni interessati dall'allegato A che il detentore avvii, sottoponga o intenda destinare ad operazioni di smaltimento non elencate all'allegato B del decreto legislativo n. 22/97 o ad operazioni di recupero non elencate al suo allegato.

La Commissione è del parere che una siffatta esclusione costituisca un'indebita restrizione della nozione di rifiuto, e quindi dell'ambito d'applicazione della normativa italiana sulla gestione dei rifiuti. Di fatto, l'interpretazione prospettata dal legislatore italiano avrebbe per effetto una limitazione dell'applicazione delle disposizioni della direttiva alle sole fattispecie identificate dalla normativa italiana, escludendone altre non prevedibili a priori che potrebbero invece esservi assoggettate ed in relazione alle quali un'interpretazione estensiva della nozione di rifiuto si renderebbe necessaria. Ciò si pone in contrasto colle disposizioni della direttiva, che non possono essere derogate da una norma di diritto interno.

Si segnala peraltro che il citato articolo 14 del D.L. n. 138 dell’8 luglio 2002 (conv. in L. n. 178 dell’8 agosto 2002) è stato abrogato dall’articolo 264 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152

 

Il 13 dicembre 2005 la Commissione ha inviato all’Italia un parere motivato (procedura d’infrazione 2005/4051) per violazione del diritto comunitario con riferimento alla deroga alle disposizioni sulla gestione dei rifiuti di cui all’allegato I della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE.

Secondo la Commissione l’Italia è venuta meno agli obblighi previsti dalla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 in quanto:

-          ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi da 25 a 27 e comma 29 della legge 308 del 15 dicembre 2004, alcune sostanze o oggetti, che ai sensi della direttiva 75/442 sono da considerarsi rifiuti, vengono sottratte all’ambito della legislazione italiana sui rifiuti;

-          sono state adottate disposizioni volte a restringere l’ambito di applicazione della direttiva 75/442 in Italia, con riferimento alla definizione di rifiuto di cui all’articolo 1, lettera a) della medesima direttiva.

 

Il 3 luglio 2006 la Commissione ha deciso di deferire l'Italia dinanzi alla Corte di giustizia europea.

 

 

 


Normativa di riferimento


Normativa comunitaria


Dir. 75/442/CEE del 15 luglio 1975.
Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti. (art. 1)

 

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(1) Pubblicata nella G.U.C.E. 25 luglio 1975, n. L 194. Entrata in vigore il 18 luglio 1975.

(2) Termine di recepimento: 18 luglio 1977. Vedi L. 9 febbraio 1982, n. 42; L. 22 febbraio 1994, n. 146; D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915.

(3) La presente direttiva è stata abrogata dall'articolo 20 della direttiva 2006/12/CE.

 

 

Articolo 1

 

[Ai sensi della presente direttiva, si intende per:

a) "rifiuto": qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.

La Commissione, conformemente alla procedura di cui all'articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura (5).

b) "produttore": la persona la cui attività ha prodotto rifiuti ("produttore iniziale") e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti;

c) "detentore": il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene;

d) "gestione": la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni nonchè il controllo delle discariche dopo la loro chiusura;

e) "smaltimento": tutte le operazioni previste nell'allegato II A;

f) "ricupero": tutte le operazioni previste nell'allegato II B;

g) "raccolta": l'operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto (6).] (7).

 

(omissis)

 

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(5) L'elenco è riportato nell'allegato alla decisione 94/3/CEE.

(6) Articolo così sostituito dall'articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 91/156/CEE, a decorrere dal 25 marzo 1991. Si veda anche l'articolo 2 della stessa.

(7) Abrogato dall'articolo 20 della direttiva 2006/12/CE.


Dir. 2006/12/CE del 5 aprile 2006.
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti. (art. 1)

 

 

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(1) Pubblicata nella G.U.U.E. 27 aprile 2006, n. L 114. Entrata in vigore il 17 maggio 2006.

(2) Testo rilevante ai fini del SEE.

 

 

Articolo 1

 

1. Ai sensi della presente direttiva, si intende per:

 

a) «rifiuto»: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi;

 

b) «produttore»: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti («produttore iniziale») e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti;

 

c) «detentore»: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene;

 

d) «gestione»: la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche dopo la loro chiusura;

 

e) «smaltimento»: tutte le operazioni previste nell'allegato II A;

 

f) «recupero»: tutte le operazioni previste nell'allegato II B;

 

g) «raccolta»: l'operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto.

 

2. Ai fini del paragrafo 1, lettera a), la Commissione, conformemente alla procedura di cui all'articolo 18, paragrafo 3, prepara un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I. Questo elenco è oggetto di un riesame periodico e, se necessario, è riveduto secondo la stessa procedura.

(omissis)


Normativa nazionale


D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22.
Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio. (art. 6)

 

 

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 15 febbraio 1997, n. 38, S.O.

(3) Il presente decreto è stato abrogato dall'art. 264, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Vedi, anche, le altre disposizioni di cui al comma 1, lett, i) e o) dello stesso art. 264.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- Ministero dei trasporti e della navigazione: Circ. 22 dicembre 1997, n. 138/97;

- Ministero dell'ambiente: Circ. 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98; Circ. 5 maggio 1999, n. 3402/V/MIN; Circ. 14 dicembre 1999, n. 4204/V; Circ. 28 luglio 2000, n. UL/2000/10103;

- Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio: Circ. 18 giugno 2003, n. 3934/ALBO/Pres.;

- Ministero dell'economia e delle finanze: Ris. 11 giugno 2002, n. 180/E; Ris. 23 gennaio 2004, n. 5/E;

- Ministero delle finanze: Circ. 7 maggio 1998, n. 119/E; Circ. 11 maggio 1998, n. 122/E; Circ. 26 giugno 1998, n. 168/E; Circ. 17 febbraio 2000, n. 25/E; Nota 31 marzo 2000, n. 190.

 

(omissis)

 

6.  Definizioni.

 

[1. Ai fini del presente decreto si intende per:

 

a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi (15);

 

 

b) produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione dei rifiuti;

 

 

c) detentore: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene;

 

 

d) gestione: la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura;

 

 

e) raccolta: l'operazione di prelievo, di cernita e di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto;

 

 

f) raccolta differenziata: la raccolta idonea a raggruppare i rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee (16);

 

 

g) smaltimento: le operazioni previste nell'allegato B;

 

 

h) recupero: le operazioni previste nell'allegato C;

 

 

i) luogo di produzione dei rifiuti: uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all'interno di un'area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali originano i rifiuti;

 

 

l) stoccaggio: le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali di cui al punto R13 dell'allegato C;

 

 

m) deposito temporaneo: il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti alle seguenti condizioni:

 

1) i rifiuti depositati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 ppm né policlorobifenile, policlorotrifenili in quantità superiore a 25 ppm;

 

2) i rifiuti pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno bimestrale indipendentemente dalle quantità in deposito, ovvero, in alternativa, quando il quantitativo di rifiuti pericolosi in deposito raggiunge i 10 metri cubi; il termine di durata del deposito temporaneo è di un anno se il quantitativo di rifiuti in deposito non supera i 10 metri cubi nell'anno o se, indipendentemente dalle quantità, il deposito temporaneo è effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori (17);

 

3) i rifiuti non pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno trimestrale indipendentemente dalle quantità in deposito, ovvero, in alternativa, quando il quantitativo di rifiuti non pericolosi in deposito raggiunge i 20 metri cubi; il termine di durata del deposito temporaneo è di un anno se il quantitativo di rifiuti in deposito non supera i 20 metri cubi nell'anno o se, indipendentemente dalle quantità, il deposito temporaneo è effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori (18);

 

4) il deposito temporaneo deve essere effettuato per tipi omogenei e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;

 

5) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura dei rifiuti pericolosi;

 

6) deve essere data notizia alla Provincia del deposito temporaneo di rifiuti pericolosi (19);

 

n) bonifica: ogni intervento di rimozione della fonte inquinante e di quanto dalla stessa contaminato fino al raggiungimento dei valori limite conformi all'utilizzo previsto dell'area;

 

 

o) messa in sicurezza: ogni intervento per il contenimento o isolamento definitivo della fonte inquinante rispetto alle matrici ambientali circostanti;

 

 

p) combustibile da rifiuti: il combustibile ricavato dai rifiuti urbani mediante trattamento finalizzato all'eliminazione delle sostanze pericolose per la combustione ed a garantire un adeguato potere calorico, e che possieda caratteristiche specificate con apposite norme tecniche;

 

 

q) composti da rifiuti: prodotto ottenuto dal compostaggio della frazione organica dei rifiuti urbani nel rispetto di apposite norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria, e in particolare a definirne i gradi di qualità;

 

 

q-bis) materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche: rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonché i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra menzionate (20);

 

 

q-ter) organizzatore del servizio di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti: l'impresa che effettua il servizio di gestione dei rifiuti, prodotti anche da terzi, e di bonifica dei siti inquinati ricorrendo e coordinando anche altre imprese, in possesso dei requisiti di legge, per lo svolgimento di singole parti del servizio medesimo. L'impresa che intende svolgere l'attività di organizzazione della gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti deve essere iscritta nelle categorie di intermediazione dei rifiuti e bonifica dei siti dell'Albo previsto dall'articolo 30, nonché nella categoria delle opere generali di bonifica e protezione ambientale stabilite dall'allegato A annesso al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34 (21)] (22).

 

(omissis)

 

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(15)  Vedi, anche, l'art. 4, comma 21, L. 9 dicembre 1998, n. 426. Per l'interpretazione autentica della definizione di «rifiuto» di cui alla presente lettera vedi l'art. 14, D.L. 8 luglio 2002, n. 138.

(16)  Lettera così modificata dall'art. 12, comma 1, L. 23 marzo 2001, n. 93.

(17)  Numero così sostituito dall'art. 1, D.Lgs. 8 novembre 1997, n. 389 (Gazz. Uff. 8 novembre 1997, n. 261).

(18)  Numero così sostituito dall'art. 1, D.Lgs. 8 novembre 1997, n. 389 (Gazz. Uff. 8 novembre 1997, n. 261).

(19)  Numero soppresso dall'art. 1, D.Lgs. 8 novembre 1997, n. 389 (Gazz. Uff. 8 novembre 1997, n. 261).

(20)  Lettera aggiunta dall'art. 1, comma 29, L. 15 dicembre 2004, n. 308.

(21)  Lettera aggiunta dall'art. 1, comma 29, L. 15 dicembre 2004, n. 308.

(22) Il presente decreto è stato abrogato dall'art. 264, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Vedi, anche, le altre disposizioni di cui al comma 1, lett. i) e o) dello stesso art. 264.


D.L. 8 luglio 2002, n. 138.
Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate.  (art. 14)

 

 

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 8 luglio 2002, n. 158 e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 8 agosto 2002, n. 178 (Gazz. Uff. 10 agosto 2002, n. 187, S.O.), entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

(2)  Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:

- E.N.P.A.L.S., Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo: Circ. 3 aprile 2003, n. 17; Circ. 17 giugno 2003, n. 20;

- I.N.A.I.L. (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro): Nota 10 settembre 2002;

- I.N.P.D.A.P. (Istituto nazionale previdenza dipendenti amministrazione pubblica): Nota 7 aprile 2004, n. 11;

- Ministero dell'economia e delle finanze: Nota 8 luglio 2002, n. 02070842; Circ. 22 luglio 2002, n. 5/DPF; Circ. 24 luglio 2002, n. 59/E; Ris. 25 luglio 2002, n. 249/E; Circ. 6 agosto 2002, n. 66/E; Circ. 7 agosto 2002, n. 6/DPF; Nota 7 agosto 2002, n. 20806648; Circ. 13 agosto 2002, n. 68/E; Circ. 2 settembre 2002, n. 73/E; Ris. 13 settembre 2002, n. 303/E; Ris. 22 gennaio 2003, n. 13/E; Ris. 28 gennaio 2003, n. 16/E; Nota 31 gennaio 2003, n. 445/V/AGT; Ris. 11 febbraio 2003, n. 30/E; Circ. 3 giugno 2003, n. 32/E; Ris. 8 luglio 2003, n. 148/E; Circ. 10 luglio 2003, n. 38/E; Ris. 5 agosto 2004, n. 110/E; Circ. 4 marzo 2005, n. 8/E;

- Ministero dell'interno: Circ. 6 ottobre 2003, n. F.L.29/2003;

- Ministero delle politiche agricole e forestali: Circ. 23 dicembre 2002.

 

(omissis)

 

14.  Interpretazione autentica della definizione di «rifiuto» di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22.

 

[1. Le parole: «si disfi», «abbia deciso» o «abbia l'obbligo di disfarsi» di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato: «decreto legislativo n. 22», si interpretano come segue:

 

a) «si disfi»: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22;

 

 

b) «abbia deciso»: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni;

 

 

c) «abbia l'obbligo di disfarsi»: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22.

 

2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni (102):

 

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

 

 

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subìto un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22] (103).

 

(omissis)

 

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(102)  Alinea così modificato dalla legge di conversione 8 agosto 2002, n. 178.

(103)  Articolo abrogato dall'art. 264, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.


D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
Norme in materia ambientale. (art. 183)

 

 

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(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 14 aprile 2006, n. 88, S.O.

(omissis)

183. Definizioni.

 

1. Ai fini della parte quarta del presente decreto e fatte salve le ulteriori definizioni contenute nelle disposizioni speciali, si intende per:

 

a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi:

 

b) produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti cioè il produttore iniziale e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti;

 

c) detentore: il produttore dei rifiuti o il soggetto che li detiene;

 

d) gestione: la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche dopo la chiusura;

 

e) raccolta: l'operazione di prelievo, di cernita o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto;

 

f) raccolta differenziata: la raccolta idonea, secondo criteri di economicità, efficacia, trasparenza ed efficienza, a raggruppare i rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee, al momento della raccolta o, per la frazione organica umida, anche al momento del trattamento, nonché a raggruppare i rifiuti di imballaggio separatamente dagli altri rifiuti urbani, a condizione che tutti i rifiuti sopra indicati siano effettivamente destinati al recupero;

 

g) smaltimento: ogni operazione finalizzata a sottrarre definitivamente una sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito economico e/o di raccolta e, in particolare, le operazioni previste nell'Allegato B alla parte quarta del presente decreto;

 

h) recupero: le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, combustibili o prodotti, attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici, incluse la cernita o la selezione, e, in particolare, le operazioni previste nell'Allegato C alla parte quarta del presente decreto;

 

i) luogo di produzione dei rifiuti: uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all'interno di un'area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali sono originati i rifiuti;

 

l) stoccaggio: le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'Allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali di cui al punto R13 dell'Allegato C alla medesima parte quarta;

 

m) deposito temporaneo: il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, alle seguenti condizioni:

 

1) i rifiuti depositati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 parti per milione (ppm), né policlorobifenile e policlorotrifenili in quantità superiore a 25 parti per milione (ppm);

 

2) i rifiuti pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo le seguenti modalità alternative, a scelta del produttore;

 

2.1) con cadenza almeno bimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito;

 

oppure

 

2.2) quando il quantitativo di rifiuti pericolosi in deposito raggiunga i 10 metri cubi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi i 10 metri cubi l'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;

 

oppure

 

2.3) limitatamente al deposito temporaneo effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori, entro il termine di durata massima di un anno, indipendentemente dalle quantità;

 

3) i rifiuti non pericolosi devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo le seguenti modalità alternative, a scelta del produttore;

 

3.1) con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito;

 

oppure

 

3.2) quando il quantitativo di rifiuti non pericolosi in deposito raggiunga i 20 metri cubi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi i 20 metri cubi l'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;

 

oppure

 

3.3) limitatamente al deposito temporaneo effettuato in stabilimenti localizzati nelle isole minori, entro il termine di durata massima di un anno, indipendentemente dalle quantità;

 

4) il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;

 

5) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura dei rifiuti pericolosi;

 

n) sottoprodotto: i prodotti dell'attività dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest'ultimo fine, per trasformazione preliminare s'intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L'utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell'impianto dove avviene l'effettivo utilizzo. L'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive;

 

o) frazione umida: rifiuto organico putrescibile ad alto tenore di umidità, proveniente da raccolta differenziata o selezione o trattamento dei rifiuti urbani;

 

p) frazione secca: rifiuto a bassa putrescibilità e a basso tenore di umidità proveniente da raccolta differenziata o selezione o trattamento dei rifiuti urbani, avente un rilevante con tenuto energetico:

 

q) materia prima secondaria: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell'articolo 181;

 

r) combustibile da rifiuti (CDR): il combustibile classificabile, sulla base delle norme tecniche UNI 9903-1 e successive modifiche ed integrazioni, come RDF di qualità normale, che è recuperato dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi mediante trattamenti finalizzati a garantire un potere calorifico adeguato al suo utilizzo, nonché a ridurre e controllare:

 

1) il rischio ambientale e sanitario;

 

2) la presenza di materiale metallico, vetri, inerti, materiale putrescibile e il contenuto di umidità;

 

3) la presenza di sostanze pericolose, in particolare ai fini della combustione;

 

s) combustibile da rifiuti di qualità elevata (CDR-Q): il combustibile classificabile, sulla base delle norme tecniche UNI 9903-1 e successive modifiche ed integrazioni, come RDF di qualità elevata, cui si applica l'articolo 229 (9);

 

t) compost da rifiuti: prodotto ottenuto dal compostaggio della frazione organica dei rifiuti urbani nel rispetto di apposite norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità;

 

u) materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche la cui utilizzazione è certa e non eventuale:

 

1) rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero completo e rispondenti a specifiche Ceca, Aisi, Caef, Uni, Euro o ad altre specifiche nazionali e internazionali, individuate entro centottanta giorni dall'entrata in vigore della parte quarta del presente decreto con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive, non avente natura regolamentare;

 

2) i rottami o scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche di cui al numero 1). I fornitori e produttori di materia prima secondaria per attività siderurgiche appartenenti a Paesi esteri presentano domanda di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, ai sensi dell'articolo 212, comma 12, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al numero 1);

 

v) gestore del servizio di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti: l'impresa che effettua il servizio di gestione dei rifiuti, prodotti anche da terzi, e di bonifica dei siti inquinati ricorrendo, coordinandole, anche ad altre imprese, in possesso dei requisiti di legge, per lo svolgimento di singole parti del servizio medesimo. L'impresa che intende svolgere l'attività di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti deve essere iscritta nelle categorie di intermediazione dei rifiuti e bonifica dei siti dell'Albo di cui all'articolo 212 nonché nella categoria delle opere generali di bonifica e protezione ambientale stabilite dall'Allegato A annesso al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34;

 

z) emissioni: qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell'atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico;

 

aa) scarichi idrici: qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione;

 

bb) inquinamento atmosferico: ogni modifica atmosferica dovuta all'introduzione nell'aria di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell'ambiente;

 

cc) gestione integrata dei rifiuti: il complesso delle attività volte ad ottimizzare la gestione dei rifiuti, ivi compresa l'attività di spazzamento delle strade, come definita alla lettera d);

 

dd) spazzamento delle strade: modalità di raccolta dei rifiuti su strada.

 

(omissis)

 

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(9) Vedi, anche, il D.M. 2 maggio 2006.


Giurisprudenza


Normativa comunitaria


SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Quinta Sezione)
15 giugno 2000

«Ambiente - Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE - Nozione di rifiuto»

Nei procedimenti riuniti C-418/97 e C-419/97,

aventi ad oggetto domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, a norma dell'art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE), dal Nederlandse Raad van State (Paesi Bassi) nelle cause dinanzi ad esso pendente tra

ARCO Chemie Nederland Ltd

e

Minister van Volkshuisvesting, Ruimtelijke Ordening en Milieubeheer (C-418/97),

e tra

e

Vereniging Dorpsbelang Hees,

Stichting Werkgroep Weurt+,

Vereniging Stedelijk Leefmilieu Nijmegen

e

Directeur van de dienst Milieu en Water van de provincie Gelderland,

con l'intervento di:

Elektriciteitsproductiemaatschappij Oost- en Noord-Nederland NV (Epon) (C-419/97),

domande vertenti sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32),

LA CORTE (Quinta Sezione),

composta dai signori D.A.O. Edward, presidente di sezione, J.C. Moitinho de Almeida, L. Sevón (relatore), C. Gulmann e J.-P. Puissochet, giudici,

avvocato generale: S. Alber


cancelliere: signora D. Louterman-Hubeau, amministratore principale

viste le osservazioni scritte presentate:

- per la Elektriciteitsproductiemaatschappij Oost- en Noord-Nederland NV (Epon) dagli avv.ti H. J. Breeman e J. van den Brande, del foro di Rotterdam;

- per il governo olandese dal signor J.G. Lammers, consigliere giuridico supplente presso il Ministero degli Affari esteri, in qualità di agente;

- per il governo danese dal signor Peter Biering, capodivisione presso il Ministero degli Affari esteri, in qualità di agente;

- per il governo tedesco dal signor Ernst Röder, Ministerialrat presso il Ministero federale dell'Economia, in qualità di agente;

- per il governo austriaco dalla signora Christine Stix-Hackl, Gesandte presso il Ministero federale degli Affari esteri, in qualità di agente;

- per il governo del Regno Unito dalla signora S. Ridley, del Treasury Solicitor's Department, in qualità di agente, assistita dall'avv. Derrick Wyatt, QC;

- per la Commissione delle Comunità europee dalla signora L. Ström e dal signor H. van Vliet, membri del servizio giuridico, in qualità di agenti,

vista la relazione d'udienza,

sentite le osservazioni orali dell'Elektriciteitsproductiemaatschappij Oost- en Noord-Nederland NV (Epon), rappresentata dall'avv. J. van den Brande; della Vereniging Dorpsbeland Hees, rappresentata dalla signora G. C. van Zijll de Jong-Lodenstein, mandataria ad litem; della Stichting Werkgroep Weurt+ e della Vereniging Stedelijk Leefmilieu Nijmegen, rappresentate dal signor F. Scheffer, giureconsulto del foro di Deventer; del governo olandese, rappresentato dal signor M. A. Fierstra, capo del dipartimento del diritto europeo presso il ministro degli Affari esteri, in qualità di agente; del governo tedesco, rappresentato dal signor C.-D. Quassowski, Regierungsdirektor presso il Ministero federale dell'Economia, in qualità di agente; del governo del Regno Unito, rappresentato dall'avv. D. Wyatt, e della Commissione, rappresentata dal signor H. van Vliet, all'udienza del 22 aprile 1999,

sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza dell'8 giugno 1999,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1.

Con due ordinanze 25 novembre 1997, giunte alla Corte l'11 dicembre seguente, il Nederlandse Raad van State (Consiglio di Stato dei Paesi Bassi) ha sollevato in ciascuna causa, a norma dell'art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE), due questioni pregiudiziali sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva»).

2.

Le questioni sono sorte nell'ambito di ricorsi proposti avverso provvedimenti amministrativi relativi a sostanze destinate ad essere utilizzate come combustibile nell'industria cementiera o per produrre energia elettrica, in ordine alle quali il giudice a quo si domanda se si tratti di materie prime ovvero di rifiuti ai sensi della direttiva.

La normativa comunitaria in materia

3.

L'art. 1 della direttiva contiene le definizioni seguenti:

«a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.

La Commissione, conformemente alla procedura di cui all'articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura;

b) produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti (produttore iniziale) e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti;

c) detentore: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene;

d) gestione: la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche dopo la loro chiusura;

e) smaltimento: tutte le operazioni previste nell'allegato II A;

f) ricupero: tutte le operazioni previste nell'allegato II B;

g) raccolta: l'operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto».

4.

L'allegato I della direttiva, intitolato «Categorie di rifiuti», elenca 16 categorie di rifiuti. L'ultima categoria, la Q 16, contiene la definizione seguente:

«Qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».

5.

Con decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1 a) della direttiva 75/442 (GU 1994, L 5, pag. 15), la Commissione ha preparato un elenco armonizzato e non esauriente di rifiuti, noto come «catalogo europeo dei rifiuti».

6.

L'art. 3, n. 1, della direttiva dispone quanto segue:

«Gli Stati membri adottano le misure appropriate per promuovere:

a) in primo luogo la prevenzione o la riduzione della produzione e della nocività dei rifiuti (...)

(...)

b) in secondo luogo:

- il ricupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo o ogni altra azione intesa a ottenere materie prime secondarie

o

- l'uso dei rifiuti come fonte di energia».

7.

L'art. 4 della direttiva prevede che gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano ricuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente.

8.

Gli allegati II A e II B della direttiva precisano cosa si deve intendere per smaltimento o ricupero dei rifiuti.

9.

L'allegato II A della direttiva indica che esso è volto a ricapitolare le operazioni di smaltimento dei rifiuti così come esse sono effettuate in pratica. Tale allegato contiene i seguenti tipi di categorie:

«D 1 Deposito sul o nel suolo (ad esempio, messa in discarica, ecc.)

D 2 Trattamento in ambiente terrestre (ad esempio biodegradazione di rifiuti liquidi o di fanghi nei suoli, ecc.)

(...)

D 4 Lagunaggio (ad esempio scarico di rifiuti liquidi o di fanghi in pozzi, stagni o bacini, ecc.)

(...)

D 10 Incenerimento a terra».

10.

L'allegato II B della direttiva precisa che esso è volto a ricapitolare le operazioni di ricupero così come esse sono effettuate in pratica. Esso contiene in particolare le categorie seguenti:

«R 1 Ricupero o rigenerazione dei solventi

R 2 Riciclo o ricupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi

(...)

R 9 Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre energia».

Fatti e questioni pregiudiziali

Causa C-418/97

11.

La ARCO Chemie Nederland Ltd (in prosieguo: la «ARCO») ha chiesto al Minister van Volkshuisvesting, Ruimtelijke Ordening en Milieubeheer (ministro dei Lavori Pubblici, dell'assetto territoriale e dell'ambiente; in prosieguo: l'"autorità competente") un'autorizzazione per l'esportazione in Belgio di 15 000 000 kg di «LUWA-bottoms». Benché la ARCO consideri e dichiari che i LUWA-bottoms non sono rifiuti, essa ha non di meno chiesto la detta autorizzazione per l'eventualità in cui l'autorità competente non li considerasse nello stesso modo.

12.

Tali sostanze sono uno dei prodotti derivati dal processo di fabbricazione utilizzato dalla ARCO. Oltre all'ossido di propilene e all'alcool butilico terziario, tale processo di fabbricazione genera un flusso di idrocarburi contenenti molibdeno. Il molibdeno proviene dai catalizzatori utilizzati per produrre ossido di propilene. Il molibdeno viene estratto dal flusso di idrocarburi in un impianto specifico, il cui processo genera la sostanza che la ARCO qualifica come LUWA-bottoms. I LUWA-bottoms, che hanno un valore calorico compreso tra i 25 e 28 MJ/kg, sono destinati ad essere utilizzati come combustibili nell'industria cementiera.

13.

Con provvedimento 3 febbraio 1995 l'autorità competente ha dichiarato di non opporsi alla progettata esportazione dei detti «rifiuti» sino al 1° febbraio 1996. Avverso detto provvedimento la ARCO ha presentato un reclamo dinanzi la medesima autorità. Con provvedimento 20 luglio 1995 la detta autorità ha respinto il reclamo dichiarandolo infondato. Pertanto la ARCO ha proposto un ricorso avverso quest'ultimo provvedimento dinanzi al giudice a quo.

14.

Quest'ultimo si domanda se il trasferimento di LUWA-bottoms in Belgio rientri nell'ambito d'applicazione del regolamento (CEE) del Consiglio 1° febbraio 1993, n. 259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio (GU L 30, pag. 1). A tal fine occorrerebbe quindi stabilire se tale sostanza costituisca un rifiuto ai sensi della direttiva.

15.

Il Nederlandse Raad van State ha rilevato, verificando la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 1, lett. a), della direttiva, che l'allegato I contiene una categoria Q 16 in cui rientra qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri in un'altra delle categorie contenute nel medesimo allegato. Per quanto riguarda l'obbligo relativo al fatto di «disfarsi» di un oggetto, il detto giudice si domanda se tale obbligo possa essere considerato assolto con riferimento al fatto che i LUWA-bottoms sono soggetti ad una delle operazioni elencate nell'allegato II B della direttiva essendo destinati all'utilizzo come combustibile.

16.

Il giudice a quo si domanda altresì quale sia la rilevanza, per stabilire se l'uso di LUWA-bottoms come combustibile equivalga a disfarsene, dei criteri da esso applicati nell'ambito della giurisprudenza relativa all'Afvalstoffenwet (legge olandese sui rifiuti) ed alla Wet chemische afvalstoffen (legge olandese sui rifiuti chimici) secondo la quale non viene considerato rifiuto una sostanza risultante da un processo di fabbricazione e che possa essere utilizzata come combustibile in modo responsabile dal punto di vista della tutela ambientale senza trattamenti supplementari.

17.

Il Nederlandse Raad van State si interroga altresì sulla rilevanza di criteri inizialmente formulati nell'Indicatief Meerjarenprogramma Chemische Afvalstoffen 1985-1989 (programma pluriannuale indicativo per i rifiuti chimici 1985-1989) che sono poi stati richiamati nella lettera 18 maggio 1994 dall'autorità competente al presidente della seconda camera degli Staten-Generaal (il Parlamento). Stando a tali criteri, una sostanza può non essere considerata un rifiuto solo se:

- le sostanze di cui trattasi vengono direttamente fornite dalla persona che le ha prodotte,

- ad un'altra persona la quale, senza la benché minima preparazione (che modifichi la natura, le proprietà, o la composizione delle sostanze) le utilizza al 100% in un processo di fabbricazione o raffinazione, ad esempio per sostituire le materie prime utilizzate sino ad allora, ma

- senza che tale uso possa essere equiparato ad un sistema correntemente in uso per lo smaltimento dei rifiuti.

18.

A questo proposito esso osserva che siccome l'espressione «smaltimento dei rifiuti» in diritto nazionale ricomprende sia lo smaltimento finale sia il ricupero dei rifiuti ai sensi della direttiva, l'uso di LUWA-bottoms come combustibile ai sensi del punto R 9 dell'allegato II B della direttiva equivarrebbe comunque sempre all'atto di disfarsene.

19.

Infine il Nederlandse Raad van State ha osservato che nel provvedimento impugnato l'autorità competente aveva considerato rilevante il fatto che si trattasse di un residuo.

20.

Alla luce di tali considerazioni il Nederlandse Raad van State ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se dalla semplice circostanza che viene eseguita su LUWA-bottoms un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva 75/442/CEE discenda che l'operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze e che pertanto esse vanno considerate rifiuti ai sensi della direttiva citata.

2) In caso di soluzione negativa della prima questione, se la soluzione della questione se l'uso di LUWA-bottoms come combustibile sia riconducibile al concetto di disfarsene dipenda dalla circostanza che:

a) i LUWA-bottoms siano, secondo la comune considerazione, un rifiuto, con particolare rilevanza del fatto che essi possano essere recuperati come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale senza subire trasformazioni radicali;

b) l'uso dei medesimi come combustibile possa essere equiparato ad un sistema correntemente in uso di recupero dei rifiuti;

c) si tratti dell'uso di un prodotto principale o secondario (cioè un residuo)».

Causa C-419/97

21.

Il 25 gennaio 1993 la Elektriciteitsproductiemaatschappij Oost- en Noord- Nederland NV (Epon) (società per azioni per la produzione dell'energia elettrica dei Paesi Bassi orientali settentrionali; in prosieguo: la «Epon») chiedeva, in applicazione del combinato disposto della Hinderwet (legge relativa agli impianti pericolosi insalubri e molesti) della Wet inzake de luchtverontreiniging (legge sull'inquinamento atmosferico) e della Wet geluidhinder (legge sull'inquinamento acustico), l'autorizzazione per la modifica del funzionamento della sua centrale elettrica Gelderland, situata in Nimega (Paesi Bassi).

22.

La domanda riguardava un progetto per l'uso di residui di legna, forniti sotto forma di trucioli, provenienti dal settore edilizio. Dopo trasformazione in polvere di legno i trucioli dovevano essere utilizzati come combustibile per generare energia elettrica.

23.

La domanda non qualificava tali sostanze come rifiuti e non era volta ad ottenere un'autorizzazione in forza della legge sui rifiuti.

24.

Con provvedimento 11 febbraio 1994 i Gedeputeerde Staten van Gelderland rilasciavano alla Epon la richiesta autorizzazione per la trasformazione.

25.

In forza di tale autorizzazione, nell'impianto è vietato procedere all'incinerazione o allo scarico dei rifiuti, ovvero consentirne la penetrazione nel suolo o nella falda freatica a meno che non sia stata inoltrata una domanda concernente tali attività.

26.

Il punto 2.1 dell'autorizzazione esige che le specifiche di qualità («condizioni di accettazione») dei trucioli di legno vengano convenute con i fornitori e approvate dal direttore dell'amministrazione dell'ambiente e delle acque (in prosieguo: il «direttore»).

27.

Con lettera 17 luglio 1995 la Epon ha sottoposto le dette specifiche al direttore, il quale le ha approvate con lettera 18 luglio 1995.

28.

Il punto c) delle condizioni di accettazione prevede quanto segue:

«I trucioli di legno non devono contenere sabbia né vernice, pietra, vetro, plastica, tessuto, fibre o metallo.

Un container di trucioli di legno può contenere:

- non più del 20% di pannelli truciolari;

- non più del 10% di pannelli di fibre pressati.

Fermi restando i succitati requisiti di qualità si possono accettare, in misura limitata, traversine, legno stagionato in acqua e legno trattato con creosoto».

29.

La Vereniging Dorpsbelang Hees e a. hanno presentato reclami avverso il provvedimento di approvazione 18 luglio 1995. Il direttore li ha dichiarati irricevibili o infondati, e pertanto la Vereniging Dorpsbelang Hees e a. hanno adito il giudice a quo.

30.

Le ricorrenti nella causa principale affermano che le condizioni di accettazione consentono fra l'altro l'accettazione del legno contenente sostanze cancerogene, diossine o materiali che sprigionino diossine nel corso della combustione. Esse sottolineano in particolare che il trattamento del legno non ne consente la sottrazione alla qualifica di «rifiuti», perché potrebbe contenere sostanze come vernice, mezzi di impregnazione, colla, plastica e solventi.

31.

L'esame del ricorso necessita l'esame della conformità delle specifiche di qualità dei trucioli di legno («condizioni di accettazione») approvate con provvedimento 18 luglio 1995, all'autorizzazione di trasformazione 11 febbraio 1994.

32.

Per motivi analoghi a quelli citati nell'ambito della causa C-418/97, il Nederlandse Raad van State ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se dalla semplice circostanza che viene eseguita su trucioli di legno un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva 75/442/CEE discenda che l'operazione consiste nel disfarsi di tali sostanze e che pertanto esse vanno considerate rifiuti ai sensi della direttiva citata.

2) In caso di soluzione negativa della prima questione, se la soluzione della questione se l'uso di trucioli di legno come combustibile sia riconducibile al concetto di disfarsene dipenda dalla circostanza che:

a) con riferimento ai residui di legno risultanti da attività di costruzione o di demolizione da cui si ricavano i trucioli di legno, già in una fase anteriore a quella dell'uso come combustibile vengano compiute operazioni che possono essere considerate come un disfarsi dei rifiuti,cioè operazioni che servono a rendere possibile un riutilizzo dei rifiuti come materiale combustibile, vale a dire operazioni di riciclaggio.

In tal caso, se un'operazione volta a consentire il riutilizzo di un rifiuto, (cioè un'operazione di riciclaggio) debba considerarsi come un'operazione per il recupero di un rifiuto soltanto se tale operazione è espressamente menzionata nell'allegato II B della direttiva 75/442 oppure anche quando tale operazione è analoga ad un'operazione menzionata nel detto allegato;

b) i trucioli di legno costituiscono, secondo la comune considerazione, un rifiuto, con particolare rilevanza del fatto che tali sostanze possano essere recuperate come combustibili senza subire radicali trasformazioni e in modo compatibile con esigenze di tutela ambientale;

c) il loro uso come materiale combustibile sia paragonabile ad una modalità corrente di ricupero dei rifiuti».

33.

Con ordinanza del Presidente della Corte 23 gennaio 1998 le cause sono state riunite, conformemente all'art. 43 del regolamento di procedura, ai fini della fase scritta del procedimento, della trattazione orale e della sentenza.

Giudizio della Corte

34.

Anzitutto va ricordato che in forza dell'art. 1, lett. a), della direttiva, dev'essere considerato rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I, di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.

35.

La categoria Q 16 dell'allegato I costituisce però una categoria residuale nella quale può essere classificata qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle altre categorie.

36.

Ne consegue che l'ambito d'applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26).

37.

Conformemente alla giurisprudenza della Corte tale termine va interpretato tenendo conto delle finalità della direttiva (v., in particolare, sentenza 28 marzo 1990, cause riunite C-206/88 e C-207/88, Vessoso e Zanetti, Racc. pag. I-1461, punto 12).

38.

Il terzo 'considerando della direttiva 75/442 precisa a questo proposito che «ogni regolamento in materia di smaltimento dei rifiuti deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti».

39.

Occorre del resto sottolineare che, ai sensi dell'art. 130 R, n. 2, del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 174, n. 2 CE), la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata sui principi, in particolare, della precauzione e dell'azione preventiva.

40.

Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo.

41.

Va infine precisato che, in mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario (in tal senso vedansi le sentenze 21 settembre 1983, cause riunite 205/82-215/82, Deutsche Milchkontor e a., Racc. pag. 2633, punti 17-25 e 35-39; 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punti 17-21; 8 febbraio 1996, causa C-212/94, FMC e a., Racc. pag. I-389, punti 49-51).

42.

Potrebbe pregiudicare l'efficacia dell'art. 130 R del Trattato e della direttiva l'uso, da parte del legislatore nazionale, di modalità di prova come le presunzioni juris et de jure che abbiano l'effetto di restringere l'ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che rispondono alla definizione del termine «rifiuti» ai sensi della direttiva.

43.

Le questioni sollevate dal giudice a quo vanno pertanto esaminate alla luce di tali considerazioni.

La prima questione nelle due cause

44.

Con la prima questione nelle due cause il giudice a quo domanda se dal semplice fatto che su una sostanza come i LUWA-bottoms o i trucioli di legno venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva discenda che l'operazione consiste nel disfarsene ed occorra pertanto considerare la detta sostanza come un rifiuto ai sensi della medesima direttiva.

45.

Tutte le parti che hanno presentato osservazioni alla Corte propongono una soluzione negativa di tale questione. Gli allegati II A e II B descriverebbero i metodi di smaltimento e riutilizzo delle sostanze. Tuttavia non tutte le sostanze trattate con tali metodi sarebbero necessariamente rifiuti.

46.

Anzitutto, come è stato ricordato al punto 36 della presente sentenza, dal tenore letterale dell'art. 1, lett. a), della direttiva, si desume che l'ambito d'applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi».

47.

Risulta poi più in particolare dall'art. 4 e dagli allegati II A e II B della direttiva che tale termine ricomprende segnatamente lo smaltimento e il ricupero di una sostanza o di un oggetto.

48.

Come precisato dalla nota che precede le diverse categorie elencate negli allegati II A e II B, questi ultimi sono volti a ricapitolare le operazioni di smaltimento e di ricupero così come esse sono effettuate in pratica.

49.

Tuttavia dal fatto che nei detti allegati vengano descritti metodi di smaltimento o di ricupero dei rifiuti non consegue necessariamente che qualunque sostanza trattata con uno di tali metodi debba essere considerata un rifiuto.

50.

Infatti, benché le descrizioni di taluni dei metodi facciano riferimento esplicito a rifiuti, altre sono invece formulate in termini più astratti, potendo quindi essere applicate a materie prime che non sono rifiuti. Pertanto la categoria R 9 dell'allegato II B, dal titolo «Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre energia», può essere applicata alla nafta, al gas o al cherosene, mentre la categoria R 10, denominata «Spandimento sul suolo a beneficio dell'agricoltura o dell'ecologia», può essere applicata ai fertilizzanti sintetici.

51.

Si deve pertanto risolvere la prima questione sollevata nelle due cause nel senso che dal semplice fatto che su una sostanza come i LUWA-bottoms o i trucioli di legno venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva non discende che l'operazione consiste nel disfarsene e che pertanto la detta sostanza va considerata un rifiuto ai sensi della direttiva.

La seconda questione sollevata nelle due cause

52.

La seconda questione nelle due cause riguarda altresì la definizione del termine «disfarsi», al fine di stabilire se una sostanza particolare sia un rifiuto.

53.

Tale questione è suddivisa in tre parti. Le seconde questioni, sub a) e b), nella causa C-418/97 e, sub b) e c), nella causa C-4189/98 riguardano sostanzialmente le modalità d'uso di una sostanza, e saranno pertanto trattate congiuntamente. La seconda questione, sub c), nella causa C-418/97 verte sulle modalità di produzione della sostanza. Infine la seconda questione, sub a), nella causa C419/97, riguarda le operazioni di riciclaggio.

Sulle seconde questioni, sub a) e sub b), nella causa C-418/97 e, sub b) e c), nella causa C-419/97

54.

Con le seconde questioni, sub a), nella causa C418/97 e, sub b), nella causa C-419/97, il giudice a quo domanda in sostanza se per stabilire se l'uso come combustibile di una sostanza come i LUWA-bottoms o i trucioli di legno sia riconducibile al concetto di disfarsene, occorra prendere in considerazione il fatto che tali sostanze vengono comunemente considerate un rifiuto ovvero il fatto che le sostanze medesime possono essere riutilizzate come combustibile in modo conforme alle esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali.

55.

Con le seconde questioni, sub b), nella causa C-418/97 e, sub c), nella causa C-419/97, il giudice a quo domanda se, per stabilire se l'uso come combustibile di una sostanza come i LUWA-bottoms o i trucioli di legno sia riconducibile al concetto di disfarsene, occorra accertare se tale uso come combustibile possa essere paragonato ad una modalità corrente di ricupero dei rifiuti.

56.

La ARCO ritiene che il fatto che una sostanza venga ricuperata in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza subire trasformazioni radicali sia un elemento importante per dimostrare che la detta sostanza non è un rifiuto. Essa precisa che i LUWA-bottoms, il cui valore calorico è paragonabile a quello delle miscele di carbone di prima qualità, possono essere utilizzati al 100% come combustibile senza che vengano loro applicati trattamenti supplementari. L'uso dei medesimi nell'industria cementiera costituisce una scelta responsabile dal punto di vista delle esigenze di tutela ambientale perché in tal caso il molibdeno non deteriora l'ambiente ma nel corso del processo viene immediatamente e integralmente immobilizzato e incorporato nel cemento.

57.

Non occorrerebbe invece far ricorso al criterio dell'analogia tra l'uso e una modalità corrente di ricupero dei rifiuti.

58.

La Epon ritiene altresì che le sostanze destinate ad essere utilizzate in un processo produttivo identico o analogo a quello cui sono sottoposte le materie prime primarie non debbano in nessun caso essere considerate come rifiuti, purché l'utilizzo avvenga in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale, cioè, rispetto all'uso nelle materie prime primarie, l'uso della sostanza di cui trattasi non abbia maggiori incidenze negative sulla salute delle persone e sull'ambiente.

59.

Essa ritiene del resto che il riferimento alla categoria R 9 dell'allegato II B («Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre l'energia») non sia rilevante poiché, vista la definizione ampia della detta categoria, non può essere utilizzato come criterio di distinzione in ordine alla questione se si tratti di un rifiuto.

60.

I governi danese e austriaco nonché la Commissione ritengono che tali elementi siano inconferenti e che la nozione di rifiuto non dipenda dalla trasformazione cui è sottoposto l'oggetto o la sostanza. La Commissione precisa del resto che non vi è motivo di fare riferimento al modo in cui un rifiuto viene inteso secondo la comune considerazione perché altrimenti i concetti potrebbero variare a seconda degli Stati membri.

61.

Secondo il governo tedesco un sottoprodotto ottenuto da un processo di produzione che non sia previsto, in via principale o accessoria, per produrre tale sostanza non rientra nella nozione di rifiuto quando può essere utilizzato rispettando l'ambiente senza altre trasformazioni. Se la sostanza ha un valore di mercato positivo, ciò significa che laproduzione della medesima costituiva perlomeno una destinazione secondaria e il fabbricante non vuole disfarsene nel senso giuridico conferito alla nozione di rifiuto.

62.

Il governo del Regno Unito ritiene che una sostanza che possa essere utilizzata come combustibile per produrre energia in un determinato processo, analogamente a qualunque altro combustibile che non provenga da rifiuti e senza che vengano presi provvedimenti speciali per la tutela della salute pubblica o dell'ambiente, non è un rifiuto solo perché risulta dalle categorie specifiche di rifiuti elencate nell'allegato I della direttiva, in combinato disposto con la decisione 94/3, che tale sostanza presenta le caratteristiche tipiche di un rifiuto.

63.

Il governo olandese ritiene che occorra decidere caso per caso, dopo un'analisi delle circostanze, se una sostanza utilizzata in un processo di produzione industriale sia un rifiuto ai sensi della normativa comunitaria ovvero una materia prima secondaria. In particolare occorrerebbe esaminare le modalità d'uso della sostanza, la provenienza e la natura o composizione della medesima.

64.

Come è stato ricordato supra, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto definita, conformemente all'art. 1, lett. a), della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell'oggetto o della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene.

65.

Così come la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso che esclude le sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v. citata sentenza Vessoso e Zanetti, punto 9) essa non va neppure intesa nel senso che esclude le sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzo come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali.

66.

L'impatto ambientale della trasformazione di tale sostanza non incide infatti sulla qualifica come rifiuto. Un combustibile ordinario può essere bruciato in spregio delle norme di tutela ambientale senza divenire un rifiuto per tal motivo, mentre sostanze di cui ci si disfa possono essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali pur continuando ad essere qualificate come rifiuti.

67.

Come la Corte ha del resto precisato al punto 30 della citata sentenza Inter-Environnement Wallonie, nulla nella direttiva indica che essa non riguarda le operazioni di smaltimento o di ricupero che fanno parte di un processo di produzione industriale qualora risulti che non costituiscono un pericolo per la salute dell'uomo o per l'ambiente.

68.

Il fatto che talune sostanze possano essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali èsenz'altro importante per stabilire se l'uso come combustibile debba essere autorizzato, agevolato o per decidere della severità del controllo da attuare.

69.

Analogamente, quand'anche il metodo di trattamento di una sostanza non abbia incidenza sulla natura di rifiuto della medesima, non si può però escludere che tale metodo venga considerato un indizio dell'esistenza di un rifiuto. Se infatti l'uso di una sostanza come combustibile costituisce una modalità corrente di ricupero dei rifiuti tale utilizzo può costituire un elemento che consente di accertare che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha l'intenzione o l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva.

70.

In mancanza di disposizioni comunitarie specifiche relative alla prova dell'esistenza di un rifiuto, spetta al giudice nazionale applicare le norme in materia del proprio ordinamento giuridico in modo da non pregiudicare la finalità e l'efficacia della direttiva.

71.

Quanto al modo in cui un rifiuto viene comunemente considerato, si deve rilevare che neppure tale elemento è adeguato, alla luce del tenore letterale della nozione di rifiuto di cui all'art. 1, lett. a), della direttiva, ma può anch'esso costituire un indizio dell'esistenza di un rifiuto.

72.

Si deve pertanto risolvere la seconda questione, sub a) e b), nella causa C-418/97 e, sub b) e c), nella causa C-419/97, nel senso che, per stabilire se l'uso come combustibile di una sostanza come i LUWA-bottoms o i trucioli di legno sia riconducibile al concetto di disfarsene, il fatto che tali sostanze possano essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali non è rilevante.

73.

Il fatto che tale uso come combustibile costituisca una modalità corrente di ricupero dei rifiuti e che tali sostanze vengano comunemente considerate rifiuti, possono essere considerati come indizi del fatto che il detentore delle medesime se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva. L'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

La seconda questione, sub c), nella causa C-418/97

74.

Con la seconda questione, sub c), nella causa C-418/97, il giudice a quo domanda in sostanza se, per stabilire se l'uso dei LUWA-bottoms come combustibile sia riconducibile al concetto di disfarsene, occorra accertare se si tratti dell'uso di un prodotto principale o secondario (cioè un residuo).

75.

Secondo la ARCO e la Epon non si può ritenere che l'uso di una sostanza come combustibile sia riconducibile al concetto di disfarsene facendo unicamente riferimentoalla provenienza della sostanza stessa. La Epon aggiunge che dal momento in cui le materie prime secondarie possono essere utilizzate in un processo di produzione identico o analogo a quello per cui vengono utilizzate le materie prime primarie, esse non possono essere considerate rifiuti.

76.

Il governo danese ritiene che il processo di produzione precedente non sia decisivo per stabilire se una sostanza costituisca o no un rifiuto. Un prodotto principale non è di norma un rifiuto ma potrebbe esserlo in talune situazioni, come ad esempio se il detto prodotto non corrisponde ai requisiti di qualità interni dell'impresa e viene ritenuto preferibile disfarsene.

77.

Secondo il governo tedesco si deve ritenere che il detentore di una sostanza ha deciso di disfarsene qualora quest'ultima sia ottenuta da un processo di produzione che non è volto, in via principale o accessoria, alla produzione di tale sostanza. Come prevede la legge tedesca, occorrerebbe tener conto a questo proposito dell'opinione del produttore e dell'uso corrente. Tuttavia, conformemente a quanto tale governo ha dichiarato nell'ambito della questione precedente, occorrerebbe altresì prendere in considerazione la questione se un sottoprodotto possa essere utilizzato nel rispetto delle esigenze di tutela ambientale e senza altre trasformazioni.

78.

Il governo del Regno Unito aggiunge che i residui di produzione che possono costituire sottoprodotti utili ed essere utilizzati come materia prima senza trasformazioni supplementari e nello stesso modo di qualunque altra materia prima non proveniente da rifiuti fanno parte del circuito commerciale e non costituiscono rifiuti.

79.

Secondo il governo olandese la provenienza della sostanza o dell'oggetto costituisce uno dei diversi elementi da prendere in considerazione per stabilire se si tratti un rifiuto.

80.

Il governo austriaco ritiene altresì che il fatto che una sostanza sia prodotta da un'impresa il cui obbiettivo non è la produzione di tale sostanza, vada segnatamente preso in considerazione. Osserva che i LUWA-bottoms non sono né un prodotto principale né un prodotto secondario, bensì un rifiuto ottenuto dalla trasformazione di un flusso di particelle.

81.

Infine, secondo la Commissione, il fatto che una sostanza sia un sottoprodotto (un residuo) di un processo di produzione imperniato sull'ottenimento di un altro prodotto costituisce un'indicazione della possibilità che si tratti di un rifiuto ai sensi della direttiva.

82.

Come si è osservato supra al punto 51 della presente sentenza, dal fatto che su una sostanza venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva, quale l'uso come combustibile, non discende che l'operazione consiste nel disfarsene e che quindi tale sostanza va considerata un rifiuto ai sensi della direttiva.

83.

Talune circostanze possono invece costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva.

84.

Ciò si verifica in particolare se la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di utilizzarlo come combustibile.

85.

Infatti l'uso di una sostanza quali i LUWA-bottoms come combustibile, in sostituzione di combustibile ordinario, è un elemento che può far ritenere che l'utente di tale sostanza se ne disfa vuoi perché intende farlo vuoi perché ne ha l'obbligo.

86.

Può altresì essere considerato un indizio il fatto che la sostanza è un residuo per cui non è utilizzabile in nessun altro uso se non lo smaltimento. Tale circostanza può far ritenere che il detentore della sostanza l'abbia acquistata unicamente allo scopo di disfarsene vuoi perché intende farlo vuoi perché ne ha l'obbligo, per esempio sulla scorta di un accordo concluso con il produttore della sostanza o con un altro detentore.

87.

Ciò vale anche nel caso in cui la sostanza sia un residuo la cui composizione non è idonea per l'uso che ne viene fatto ovvero se tale uso debba avvenire in condizioni particolari di prudenza a causa della pericolosità per l'ambiente della sua composizione.

88.

Ne consegue che occorre risolvere la seconda questione, sub c), nella causa C-418/97, nel senso che il fatto che una sostanza utilizzata come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un'altra sostanza, che non sia ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della sostanza non sia idonea per l'uso che ne viene fatto o tale uso debba avvenire in particolari condizioni di precauzione per l'ambiente possono essere considerati indizi del fatto che il detentore della sostanza stessa se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva. L'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

La seconda questione, sub a), nella causa C-419/97

89.

Con la seconda questione, sub a), nella causa C-419/97, il giudice a quo domanda se l'uso di trucioli di legno come combustibile sia riconducibile al concetto di disfarsene qualora sui rifiuti, provenienti dal settore edilizio, da cui sono stati ricavati i trucioli, già in una fase anteriore a quella dell'uso come combustibile vengano compiute operazioni che possono essere considerate come equivalenti a disfarsene, cioè operazioni volte a rendere possibile un riutilizzo dei rifiuti come combustibile (operazioni di riciclaggio) e, in tal caso, se tale operazione possa essere considerata come un'operazione per il ricupero di un rifiuto soltanto se è espressamente menzionata nell'allegato II B della direttiva oppure anche quando tale operazione sia analoga ad un'operazione menzionata nel detto allegato.

90.

Secondo le ricorrenti nella causa principale il legno utilizzato dalla Epon come combustibile è impregnato di sostanze altamente tossiche e dovrebbe essere trattato come i rifiuti pericolosi. Il fatto che tale legno venga trasformato in trucioli e questi ultimi vengano ridotti in polvere non modifica in alcun modo la natura e la composizione della sostanza, che conserva gli agenti tossici.

91.

La Epon ritiene che una sostanza che sia stata oggetto di un'operazione di riciclaggio non vada considerata un rifiuto qualora venga utilizzata in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale, cioè qualora, rispetto all'uso di una materia prima primaria, l'uso della citata sostanza non abbia incidenze più sfavorevoli per la salute delle persone e per l'ambiente.

92.

Per quanto riguarda la seconda parte della questione, la Epon osserva che l'elenco di cui all'allegato II B della direttiva non è esauriente e che nuovi metodi di riciclaggio devono poter essere presi in considerazione. Essa indica tuttavia che i rifiuti provenienti dal settore edilizio sono già stati oggetto di un riciclaggio contemplato nella categoria R 2 dell'allegato II B della direttiva, e cioè «Riciclo o ricupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi».

93.

I governi che hanno presentato osservazioni nonché la Commissione ritengono sostanzialmente che il fatto che i rifiuti di cui trattasi nella causa principale siano stati oggetto di previe operazioni di cernita e di trasformazione in trucioli non sia sufficiente per far loro perdere la caratteristica di rifiuti. Siffatte operazioni non costituirebbero un'operazione di ricupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva bensì un semplice trattamento preliminare dei rifiuti. Una sostanza perderebbe le caratteristiche di rifiuto unicamente se sia stata oggetto di un'operazione di ricupero completo ai sensi dell'allegato II B della direttiva, cioè se possa essere trattata nello stesso modo di una materia prima ovvero, come nel caso di specie, se il potenziale materiale o energetico del rifiuto è stato utilizzato nella combustione.

94.

A questo proposito va rilevato anzitutto che, anche se un rifiuto è stato oggetto di un'operazione di ricupero completo la quale comporti che la sostanza di cui trattasi ha acquisito le stesse proprietà e caratteristiche di una materia prima, cionondimeno tale sostanza può essere considerata un rifiuto se, conformemente alla definizione di cui all'art. 1, lett. a) della direttiva, il detentore della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene.

95.

Il fatto che la sostanza sia il risultato di un'operazione di ricupero completo ai sensi dell'allegato II B della direttiva costituisce solamente uno degli elementi che vanno presi in considerazione per stabilire se si tratti di un rifiuto, ma non consente di per sé di trarne una conclusione definitiva.

96.

Se un'operazione di ricupero completo non priva necessariamente un oggetto della qualifica di rifiuto, ciò vale a maggior ragione per una semplice operazione di cernita o di trattamento preliminare di tali oggetti, come la trasformazione in trucioli di residui di legno impregnati di sostanze tossiche ovvero la riduzione dei trucioli in polvere dilegno, che non depurando il legno delle sostanze tossiche che lo impregnano non ha l'effetto di trasformare i detti oggetti in un prodotto analogo ad una materia prima, con le medesime caratteristiche e utilizzabile nelle stesse condizioni di tutela ambientale.

97.

Si deve pertanto risolvere la seconda questione, sub a), nella causa C-419/97, nel senso che il fatto che una sostanza sia il risultato di un'operazione di ricupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva costituisce solo uno degli elementi che vanno presi in considerazione per stabilire se tale sostanza sia ancora un rifiuto, ma non consente di per sé di trarne una conclusione definitiva. L'esistenza di un rifiuto deve essere accertata sulla scorta del complesso delle circostanze, alla luce della definizione di cui all'art. 1, lett. a), della direttiva, cioè del fatto che il detentore della sostanza se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

Sulle spese

98.

Le spese sostenute dai governi olandese, danese, tedesco, austriaco e da quello del Regno Unito, nonché dalla Commissione, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non sono ripetibili. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi pronunciarsi sulle spese.

Per questi motivi,

LA CORTE (Quinta Sezione),

pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Raad van State dei Paesi Bassi con ordinanze 25 novembre 1997, dichiara:

Nella causa C-418/97

1) Dal semplice fatto che su una sostanza come i LUWA-bottoms venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva del Consiglio 15 giugno 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, non discende che l'operazione consiste nel disfarsene e che pertanto la detta sostanza va considerata un rifiuto ai sensi della direttiva.

2) Per stabilire se l'uso come combustibile di una sostanza come i LUWA-bottoms sia riconducibile al concetto di disfarsene, il fatto che tali sostanze possano essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali non è rilevante.

Il fatto che tale uso come combustibile costituisca una modalità corrente di ricupero dei rifiuti e che tali sostanze vengano comunemente considerate rifiuti, possono essere considerati come indizi del fatto che il detentore delle medesime se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156. L'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della detta direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

Il fatto che una sostanza utilizzata come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un'altra sostanza, che non sia ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della sostanza non sia idonea per l'uso che ne viene fatto o tale uso debba avvenire in particolari condizioni di precauzione per l'ambiente possono essere considerati indizi del fatto che il detentore della sostanza stessa se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva. L'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

Causa C-419/97

1) Dal semplice fatto che su una sostanza come i trucioli di legno venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156, non discende che l'operazione consiste nel disfarsene e che pertanto la detta sostanza va considerata un rifiuto ai sensi della direttiva.

2) Il fatto che una sostanza sia il risultato di un'operazione di ricupero ai sensi dell'allegato II B della detta direttiva costituisce solo uno degli elementi che vanno presi in considerazione per stabilire se tale sostanza sia ancora un rifiuto, ma non consente di per sé di trarne una conclusione definitiva. L'esistenza di un rifiuto deve essere accertata sulla scorta del complesso delle circostanze, alla luce della definizione di cui all'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156, cioè del fatto che il detentore della sostanza se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

Per stabilire se l'uso come combustibile di una sostanza come i trucioli di legno sia riconducibile al concetto di disfarsene, il fatto che tali sostanze possano essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali non è rilevante.

Il fatto che tale uso come combustibile costituisca una modalità corrente di ricupero dei rifiuti e che tali sostanze vengano comunemente considerate rifiuti, possono essere considerati come indizi del fatto che il detentore delle medesime se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156. L'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va però accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia.

Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 15 giugno 2000.


SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Sesta Sezione)
18 aprile 2002

«Ravvicinamento delle legislazioni - Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE - Nozione di rifiuto - Residuo di produzione - Cava - Deposito - Utilizzo di rifiuti - Assenza di pericolo per la salute e per l'ambiente - Possibilità di recupero»

Nel procedimento C-9/00,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell'art. 234 CE, dal Korkein hallinto-oikeus (Finlandia), nella causa dinanzi ad esso pendente tra

Palin Granit Oy,

Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus,

e

Lounais-Suomen ympäristökeskus,

domanda vertente sull'interpretazione dell'art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32),

LA CORTE (Sesta Sezione),

composta dalla sig.ra F. Macken, presidente di sezione, dai sigg. J.-P. Puissochet (relatore), R. Schintgen, V. Skouris e J.N. Cunha Rodrigues, giudici,

avvocato generale: F.G. Jacobs


cancelliere: R. Grass

viste le osservazioni scritte presentate:

- per il Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, dal sig. J. Keskitalo, direttore del controllo sanitario, e dalla sig.ra L. Suonkanta, capo degli affari economici;

- per il governo finlandese, dalla sig.ra E. Bygglin, in qualità di agente;

- per la Commissione delle Comunità europee, dal sig. H. Støvlbaek, in qualità di agente, assistito dalla sig.ra E. Savia, avocat,

vista la relazione del giudice relatore,

sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 17 gennaio 2002,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1.

Con ordinanza 31 dicembre 1999, giunta alla Corte il 13 gennaio 2000, il Korkein hallinto-oikeus (Corte amministrativa suprema) ha sollevato, a norma dell'art. 234 del Trattato CE, una questione pregiudiziale principale e quattro questioni secondarie, vertenti sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»).

2.

Tali questioni sono state poste nell'ambito di un ricorso contro un'autorizzazione ambientale rilasciata dal Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus (Consiglio del consorzio intercomunale di Vehmassalo; in prosieguo: il «Consiglio del consorzio») all'impresa Palin Granit Oy (in prosieguo: la «Palin Granit») per lo sfruttamento di una cava di granito. Dalla legislazione finlandese emerge in effetti che il rilascio di un'autorizzazione ambientale relativa ad una discarica non è di competenza delle autorità comunali, così che l'esito della causa principale dipende dal fatto che i detriti derivanti dallo sfruttamento della cava vadano considerati o meno rifiuti.

Normativa comunitaria

3.

L'art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442 definisce il rifiuto come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».

4.

L'art. 1, lett. c), della stessa direttiva definisce «detentore» il «produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».

5.

L'allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», menziona, al punto Q 11, i «[r]esidui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime (ad esempio residui provenienti da attività minerarie o petrolifere, ecc.)» e, al punto Q 16, «[q]ualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».

6.

L'art. 1, lett. a), comma 2, della direttiva 75/442 affida alla Commissione il compito di compilare «un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I». In virtù di tale disposizione, con la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1, a) della direttiva 75/442 (GU 1994, L 5, pag. 15), la Commissione ha emanato un «catalogo europeo dei rifiuti» (in prosieguo: il «CER»), nel quale figurano in particolare i «[r]ifiuti derivanti dalla prospezione, l'estrazione, il trattamento e l'ulteriore lavorazione di minerali e materiali di cava». La nota introduttiva all'allegato della decisione 94/3 precisa che tale elenco «si applica a tutti i rifiuti, siano essi destinati allo smaltimento o al recupero» e che esso è «un elenco armonizzato, non esaustivo, di rifiuti e sarà pertanto oggetto di periodica revisione», ma che tuttavia, «un materiale figurante nel catalogo non è in tutte le circostanze un rifiuto, ma solo quando esso soddisfa la definizione di rifiuto».

7.

Gli artt. 9 e 10 della direttiva 75/442 precisano che tutti gli stabilimenti o imprese, che effettuano operazioni di smaltimento dei rifiuti elencate nell'allegato II A o operazioni che comportano una possibilità di recupero dei rifiuti elencate nell'allegato II B della stessa direttiva, debbono ottenere l'autorizzazione dell'autorità competente.

8.

Tra le operazioni di smaltimento elencate all'allegato II A della direttiva 75/442 figurano, al punto D 1, il «[d]eposito sul o nel suolo (ad esempio, messa in discarica, ecc.)», al punto D 12, il «[d]eposito permanente (ad esempio sistemazione di contenitori in una miniera, ecc.)» e al punto D 15 il «[d]eposito preliminare ad una delle operazioni di cui al presente allegato, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti». Tra le operazioni di recupero di cui all'allegato II B della direttiva figura, al punto R 13, la «[m]essa in riserva di materiali per sottoporli a una delle operazioni che figurano nel presente allegato, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nei luoghi in cui sono prodotti».

9.

Una dispensa dall'autorizzazione è tuttavia prevista dall'art. 11 della direttiva 75/442, il cui n. 1 così recita:

«(...) possono essere dispensati dall'autorizzazione di cui all'articolo 9 o all'articolo 10:

a) gli stabilimenti o le imprese che provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi di produzione

e

b) gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti.

Tale dispensa si può concedere solo:

- qualora le autorità competenti abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l'attività può essere dispensata dall'autorizzazione

e

- qualora i tipi o le quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di recupero siano tali da rispettare le condizioni imposte all'articolo 4».

10.

Tali «condizioni imposte dall'articolo 4» della direttiva 75/442 consistono nell'assenza di pericolo per la salute dell'uomo e nell'assenza di pregiudizio per l'ambiente.

Normativa nazionale

11.

La direttiva 75/442 è stata recepita nella legislazione finlandese con la legge (1072/1993), sui rifiuti, che mira a prevenire la produzione di rifiuti, limitare la loro pericolosità e promuovere il loro recupero.

12.

L'art. 3, comma 1, punto 1, di tale legge definisce rifiuto «qualsiasi prodotto o sostanza di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Questa definizione è completata da un elenco di sostanze o prodotti classificati come rifiuti, inclusa nell'allegato I del decreto (1390/1993), sui rifiuti. Tra le 16 categorie contenute nell'elenco, la categoria Q 11 riguarda i residui derivanti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime, quali i residui provenienti da attività minerarie o petrolifere.

13.

L'art. 3, comma 1, punti 10 e 11, della legge (1072/1993) definisce il recupero «qualsiasi attività che mira a recuperare o utilizzare la sostanza o l'energia contenuta nei rifiuti» e lo smaltimento «qualsiasi attività che mira a neutralizzare o mettere in deposito definitivamente i rifiuti».

14.

Ai sensi dell'art. 1 del decreto (1390/1993), le disposizioni della legge (1072/1993) in materia di autorizzazione al deposito di rifiuti non sono applicabili all'utilizzo o al trattamento sul luogo d'estrazione di rifiuti naturali non pericolosi derivanti dall'estrazione di sostanze contenute nel terreno.

15.

La decisione del Ministro dell'ambiente (867/1996), adottata a norma della legge (1072/1993), e recante un elenco dei rifiuti più comuni e dei rifiuti nocivi, include i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dall'arricchimento o da altri trattamenti dei minerali, nonché dalla trasformazione delle pietre e dalla produzione di ghiaia. Risulta dall'introduzione di tale elenco che la terminologia ivi utilizzata si fonda sul CER e che l'elenco ha un mero valore indicativo. Un prodotto o una sostanza compreso nell'elenco è un rifiuto solo quando presenta le caratteristiche di cui all'art. 3, comma 1, punto 1, della legge (1072/1993).

16.

Secondo l'art. 5 della legge (735/1991) sulla procedura di autorizzazione ambientale, come modificata dalla legge (61/1995), l'autorità competente a rilasciare un'autorizzazione ambientale è o l'autorità municipale, o il Centro regionale per l'ambiente. L'art. 1, comma 1, del decreto (772/1992) sulla procedura di autorizzazione ambientale, come modificato dal decreto (62/1995), che elenca le domande per le quali è competente il Centro regionale per l'ambiente, include al punto 14 le domande d'autorizzazione ambientale relative alle discariche.

Causa principale

17.

Il 25 novembre 1994 la Palin Granit ha richiesto al Consiglio del consorzio un'autorizzazione ambientale per installare una cava di granito. Tale domanda includeva un piano di gestione dei detriti e menzionava la possibilità di recuperarli utilizzandoli come ghiaia o materiale di riporto. Nella domanda si comunicava inoltre che i detriti derivanti dallo sfruttamento, per un quantitativo di circa 50 000 m3all'anno, pari a circa il 65-80% del volume globale estratto, sarebbero stati depositati in un'area adiacente. Il Consiglio del consorzio ha rilasciato all'impresa un'autorizzazione ambientale temporanea soggetta a varie condizioni per soddisfare il requisito del minor impatto dannoso dello sfruttamento nei confronti della popolazione e dell'ambiente.

18.

Il Turun ja Porin lääninhallitus (amministrazione provinciale di Turku e Pori) si è rivolto al Turun ja Porin lääninoikeus (Tribunale amministrativo provinciale di Turku e Pori), il quale ha ritenuto che i detriti erano da considerarsi rifiuti ai sensi della legge (1072/1993) e che la loro area di deposito era una discarica ai sensi della decisione del Consiglio dei ministri (861/1997) sulle discariche. Constatato che la legislazione finlandese attribuisce la competenza a rilasciare autorizzazioni ambientali relative alle discariche al Lounais-Suomen ympäristökeskus (Centro regionale per l'ambiente per la Finlandia sudoccidentale), il lääninoikeus ha annullato per incompetenza la decisione del Consiglio del consorzio.

19.

La Palin Granit e il Consiglio del consorzio hanno presentato ricorso dinanzi al Korkein hallinto-oikeus contestando la qualificazione di rifiuto data ai detriti. La Palin Granit ha sottolineato che i rifiuti, la cui composizione restava la stessa della roccia originaria dalla quale erano estratti, venivano depositati per brevi periodi, in vista di un ulteriore utilizzo, senza necessità di alcuna misura di recupero, e che essi non comportavano alcun pericolo per la salute delle persone o per l'ambiente. Da questo punto di vista i rifiuti si distinguerebbero dai sottoprodotti dell'attività mineraria che, nonostante il loro carattere nocivo, non sono stati qualificati come rifiuti da parte della normativa e della giurisprudenza nazionali. Inoltre, a norma dell'art. 1, n. 2, comma 1, del decreto (1390/1993), i rifiuti del terreno non pericolosi e trattati sul luogo d'estrazione rientrerebbero nella sfera di applicazione della legge (555/1981) sulle sostanze contenute nel terreno, e non in quella della normativa sui rifiuti.

20.

Al contrario il Centro per l'ambiente, condividendo l'opinione del Ministro dell'ambiente, ha sostenuto che i detriti dovevano essere considerati rifiuti, finché non fosse stata presentata una prova del loro riutilizzo.

21.

Al fine di individuare l'autorità competente a rilasciare alla Palin Granit l'autorizzazione ambientale richiesta, il Korkein hallinto-oikeus ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«Se i detriti derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra vadano considerati rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, tenuto conto delle circostanze illustrate infra alle lett. a)-d).

a) Quale rilevanza occupi nell'ambito delle valutazioni soprammenzionate il fatto che i detriti vengano depositati, in attesa di un ulteriore utilizzo, su un'area contigua al luogo di estrazione. Se in generale sia rilevante la circostanza chei detriti vengano depositati sul luogo di estrazione, su un'area contigua al medesimo o più lontano.

b) Quale rilevanza vada attribuita al fatto che siffatti detriti, quanto alla loro composizione minerale, sono del tutto identici alla roccia da cui sono estratti e che gli stessi non cambiano di stato fisico qualunque siano la durata ed il modo di conservazione.

c) Quale rilevanza vada attribuita al fatto che i detriti non sono pericolosi rispetto alla sanità pubblica ed all'ambiente. In quale misura, su un piano generale, vada attribuita importanza ad eventuali incidenze dei detriti sulla salute e sull'ambiente al fine di stabilire se il detrito sia un rifiuto.

d) Quale rilevanza vada riconosciuta al fatto che sussiste la volontà di portar via i detriti, in tutto o in parte, dall'area di deposito ai fini di un loro utilizzo, ad esempio, come materiale di riporto e per la costruzione di frangiflutti e che i detriti possono essere recuperati tali e quali senza che sia necessario procedere al loro riguardo ad operazioni di trasformazione o equivalenti. In quale misura, al riguardo, occorra riconoscere importanza, da un lato, al grado di certezza dei progetti del detentore dei detriti in merito al loro recupero e, dall'altro, al tempo di concretizzazione dei medesimi, dopo che i detriti siano stati rimossi dall'area di deposito».

Sulla questione principale

22.

L'art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442 definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». L'allegato I della direttiva ed il CER specificano ed illustrano tale definizione, proponendo elenchi di sostanze ed oggetti che possono essere qualificati come rifiuti. Tali elenchi hanno tuttavia solo carattere indicativo e la qualificazione di rifiuti dipende soprattutto, come giustamente sottolinea la Commissione, dal comportamento del detentore, a seconda che egli voglia disfarsi o meno delle sostanze in oggetto. Di conseguenza l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26).

23.

Il verbo «disfarsi» deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442 che, ai sensi del terzo 'considerando', è la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell'azione preventiva. Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo (v. sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti da 36 a 40).

24.

Nello caso specifico, la questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva 75/442 ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 73, 88 e 97).

25.

La direttiva 75/442 non propone alcun criterio per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una sostanza o di un determinato oggetto. Tuttavia la Corte, più volte interrogata sulla qualificazione di rifiuto da attribuire o meno a diverse sostanze, ha fornito alcune indicazioni che possono permettere di individuare la volontà del detentore. E' alla luce di tali elementi, tenendo anche presenti le finalità della direttiva 75/442, che bisogna analizzare la qualificazione dei detriti e valutare se essi appartengano alla categoria dei residui provenienti dall'estrazione delle materie prime, di cui al punto Q 11 dell'allegato I della direttiva 75/442.

26.

La Commissione considera le operazioni di smaltimento e recupero di una sostanza o di un oggetto alla stregua di manifestazioni della volontà di «disfarsene» ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. In effetti, a suo parere, gli artt. 4, 8, 9, 10 e 12 della direttiva 75/442 qualificherebbero tali operazioni come modalità di trattamento dei rifiuti. Tra tali operazioni figurano il deposito sul o nel suolo, come la messa in discarica (punto D 1 dell'allegato II A) e il deposito preliminare ad un'altra operazione di smaltimento (punto D 15 dell'allegato II A), il deposito preliminare ad un'operazione di recupero (punto R 13 dell'allegato II B). I detriti, ammassati nel luogo di estrazione o nel luogo di deposito, sarebbero pertanto oggetto di un'operazione di smaltimento o di recupero.

27.

Tuttavia la distinzione tra operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti e il trattamento di altri prodotti è spesso difficile da cogliere. Così la Corte ha già statuito che dalla circostanza che su una sostanza venga eseguita un'operazione menzionata nell'allegato II B della direttiva 75/442 non discende che l'operazione consista nel disfarsene e che quindi tale sostanza vada considerata rifiuto (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 82). L'esecuzione di un'operazione menzionata nell'allegato II A o nell'allegato II B della direttiva 75/442 non permette dunque, di per sé, di qualificare una sostanza come rifiuto.

28.

Il Consiglio del consorzio e la Palin Granit sostengono che il luogo di deposito dei detriti provenienti dallo sfruttamento di una cava non costituisce una discarica, bensì un deposito di materiali riutilizzabili, qualora tali detriti siano suscettibili di essere utilizzati per lavori di riporto o per la costruzione di porti e frangiflutti.

29.

Questo argomento non può bastare per escludere che i detriti siano considerati rifiuti. In effetti, nella sentenza 28 marzo 1990, cause riunite C-206/88 e C-207/88, Vessoso e Zanetti (Racc. pag. I-1461, punto 9), la Corte ha definito la nozione di rifiuto come comprensiva delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico. Nella sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi e a. (Racc. pag. I-3561, punto 52), la Corte ha specificato che il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442 intende riferirsi a tutti glioggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo.

30.

Quindi né il fatto che alcuni detriti siano oggetto di un'operazione di trattamento prevista dalla direttiva 75/442, né la circostanza che essi siano riutilizzabili consentono di stabilire se tali detriti siano o meno rifiuti ai sensi della direttiva 75/442.

31.

Altre considerazioni risultano invece più rilevanti.

32.

Nei punti da 83 a 87 della citata sentenza ARCO Chemie Nederland e a., la Corte ha sottolineato l'importanza di verificare se la sostanza sia un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore. Come la Commissione osserva, nella causa principale, la produzione di detriti non è lo scopo primario della Palin Granit. Essi vengono prodotti solo in via accessoria e l'impresa cerca di limitarne la quantità. Orbene, per comune esperienza, un rifiuto è ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e che non è il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente.

33.

Di conseguenza risulta evidente che detriti provenienti dall'attività estrattiva, che non si configurano come produzione principale derivante dallo sfruttamento di una cava di granito, rientrano, in via di principio, nella categoria dei «[r]esidui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime» di cui al punto Q 11 dell'allegato I della direttiva 75/442.

34.

A tale interpretazione potrebbe essere opposto l'argomento che un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi» ai sensi dell'art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.

35.

Un'analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442. In effetti non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti.

36.

Tuttavia, tenuto conto dell'obbligo, ricordato al punto 23 della presente sentenza, di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di unamateria prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione.

37.

Appare quindi evidente che, oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un'ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto.

38.

Nella causa principale il governo finlandese evidenzia giustamente che le uniche modalità prevedibili di riutilizzo dei detriti nella loro forma esistente, ad esempio per lavori di riporto o per la costruzione di porti e frangiflutti, necessitano, nella maggior parte dei casi, di operazioni di deposito che possono avere una certa durata, rappresentare un intralcio per chi sfrutta la cava ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l'ambiente che la direttiva 75/442 mira specificamente a limitare. Il riutilizzo, quindi, non è sicuro ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché i detriti possono essere considerati solo «residui provenienti dall'estrazione», di cui l'imprenditore ha «deciso o [ha] l'obbligo di disfarsi», ai sensi della direttiva 75/442, e che quindi rientrano nella categoria di cui al punto Q 11 dell'allegato I della suddetta direttiva.

39.

Occorre quindi risolvere la questione principale del giudice del rinvio dichiarando che il detentore di detriti derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un possibile utilizzo, si disfa o ha deciso di disfarsi di tali detriti i quali devono, di conseguenza, essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442.

Sulle questioni secondarie sub a)-d)

40.

Per quanto concerne la questione secondaria sub d), è opportuno segnalare che la Corte vi ha già risposto nel contesto dell'esame della questione principale. In effetti, l'incertezza relativa ai progetti di utilizzo dei detriti, nonché l'impossibilità di riutilizzarne l'integralità, permettono di qualificare come rifiuti l'insieme di questi detriti, e non solo quelli che non sarebbero oggetto di un progetto di recupero.

41.

In ogni caso, ai sensi dell'art. 11 della direttiva 75/442, le autorità nazionali conservano il potere di emanare norme che prevedano dispense dall'autorizzazione e di rilasciare dispense di tal genere per le operazioni di smaltimento e recupero di determinati rifiuti, e i giudici nazionali possono assicurare il rispetto di tali norme in conformità alle finalità della direttiva 75/442.

42.

Per quanto riguarda la questione secondaria sub a) occorre segnalare che, tenuto conto della soluzione data alla questione principale, il luogo di deposito dei detriti, sia chesi trovi presso il luogo d'estrazione, oppure su di un terreno situato nei pressi, oppure più lontano, non ha alcuna incidenza sulla qualificazione di questi rifiuti come detriti. Allo stesso modo, le condizioni e la durata del deposito dei materiali non danno, di per sé, alcuna indicazione in ordine al valore che essi hanno per l'impresa, né sui vantaggi che essa potrà derivarne. Tali elementi non permettono di stabilire se il detentore dei materiali abbia meno l'intenzione di disfarsene.

43.

Per quanto concerne la questione secondaria sub b), è opportuno ricordare che, al punto 87 della citata sentenza ARCO Chemie Nederland e a., la Corte ha considerato come indizio del fatto che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, il fatto che la sostanza sia un residuo di produzione la cui composizione non è idonea all'utilizzo che ne viene fatto ovvero che tale utilizzo debba avvenire in condizioni particolari di prudenza a causa della pericolosità per l'ambiente della sua composizione.

44.

Per quanto riguarda i detriti, la circostanza che essi abbiano la stessa composizione dei blocchi di pietra estratti dalla cava e che non cambino il loro stato fisico potrebbe quindi renderli adatti all'utilizzo che se ne possa fare. Tuttavia tale argomentazione sarebbe decisiva solo nel caso in cui venisse riutilizzata la totalità dei detriti. Non si può contestare che il valore commerciale dei blocchi di pietra dipende dalla loro dimensione, dalla loro forma e dalla loro possibilità di utilizzo nel settore edile; tutte qualità che, nonostante l'identità della loro composizione, i detriti non presentano. Pertanto tali detriti non sono altro che residui di produzione.

45.

Peraltro il rischio di danno all'ambiente generato da detriti inutilizzati non viene attenuato da questa identità di composizione minerale, in quanto essa non esclude le operazioni di deposito di questi materiali, che hanno effetti sull'ambiente.

46.

Ad ogni modo, anche qualora una sostanza venga sottoposta ad una operazione di completo recupero ed acquisisca in tal modo le medesime proprietà e caratteristiche di una materia prima, essa può comunque essere considerata un rifiuto se, in conformità alla definizione di cui all'art. 1, lett a), della direttiva 75/442, il suo detentore se ne disfa o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsene.

47.

Per quanto riguarda il quesito secondario sub c), occorre rilevare che neppure il fatto che i detriti non comportano pericoli per la sanità pubblica e per l'ambiente costituisce un elemento valido per escludere la qualificazione di rifiuto.

48.

In effetti bisogna innanzitutto rilevare che la direttiva 75/442, relativa ai rifiuti, è completata dalla direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 377, pag. 20), il che implica che la nozione di rifiuto non deriva dalla pericolosità delle sostanze.

49.

Inoltre, anche supponendo che i detriti non comportino, per via della loro composizione, un pericolo per la sanità pubblica o per l'ambiente, il loro accumulo ènecessariamente fonte di inconvenienti e danni per l'ambiente, dal momento che il loro riutilizzo completo non è né immediato né tanto meno sempre prevedibile.

50.

Infine, l'assenza di pericolosità della sostanza in questione non è un criterio decisivo per valutare la volontà del relativo detentore al suo riguardo.

51.

Bisogna quindi risolvere le questioni secondarie poste dal giudice del rinvio dichiarando che il luogo di deposito dei detriti, la loro composizione nonché il fatto, considerato per ipotesi accertato, che essi non comportino reali pericoli per la sanità pubblica o per l'ambiente, non sono criteri adeguati per conferire o negare loro la qualifica di rifiuto.

Sulle spese

52.

Le spese sostenute dal governo finlandese e dalla Commissione, i quali hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.

Per questi motivi,

LA CORTE (Sesta Sezione)

pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Korkein hallinto-oikeus con ordinanza 31 dicembre 1999, dichiara:

1) Il detentore di detriti derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un possibile utilizzo, si disfa o ha deciso di disfarsi di tali detriti i quali devono, di conseguenza, essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti.

2) Il luogo di deposito, la loro composizione nonché il fatto, considerato in ipotesi accertato, che essi non comportino reali pericoli per la sanità pubblica o per l'ambiente, non sono criteri adeguati per conferire o negare loro la qualifica di rifiuto.

Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 18 aprile 2002.


ORDINANZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Terza Sezione)
15 gennaio 2004

«Art. 104, n. 3, del regolamento di procedura - Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE - Gestione dei rifiuti - Nozione di rifiuto - Coke da petrolio»

Nel procedimento C-235/02,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell'art. 234 CE, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Gela nel procedimento penale dinanzi ad esso pendente contro

Marco Antonio Saetti

e

Andrea Frediani,

domanda vertente sull'interpretazione degli artt. 1, lett. a) ed f), 2, n. 1, lett. b), e 4 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32),

LA CORTE (Terza Sezione),

composta dal sig. C. Gulmann, facente funzione di presidente della Terza Sezione, dal sig. J.-P. Puissochet (relatore) e dalla sig.ra F. Macken, giudici,

avvocato generale: sig.ra Kokott

cancelliere: sig. R. Grass

informato il giudice del rinvio dell'intenzione della Corte di statuire con ordinanza motivata in conformità all'art. 104, n. 3, del regolamento di procedura,

invitati gli interessati di cui all'art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia a presentare le loro eventuali osservazioni in merito,

sentito l'avvocato generale,

ha emesso la seguente

 

 

Ordinanza

1.

Con ordinanza 19 giugno 2002, pervenuta in cancelleria il 26 giugno seguente, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Gela ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, quattro questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione degli artt. 1, lett. a) ed f), 2, n. 1, lett. b), e 4 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»).

2.

Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di un procedimento penale a carico dei sigg. Saetti e Frediani, rispettivamente direttore ed ex direttore della raffineria di petrolio di Gela gestita dall'AGIP Petroli SpA, accusati in particolare di non avere rispettato la legislazione italiana in materia di rifiuti.

Ambito giuridico

La normativa comunitaria

3.

L'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442 definisce il rifiuto come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».

4.

L'allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», menziona in particolare, al suo punto Q 8, i «[r]esidui di processi industriali (ad esempio scorie, residui di distillazione, ecc.)» e, al suo punto Q 16, «[q]ualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».

5.

L'art. 1, lett. a), secondo comma, della direttiva 75/442 affida alla Commissione delle Comunità europee il compito di compilare «un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all'allegato I». Tale è l'oggetto della decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 226, pag. 3). Tale elenco è stato modificato dalle decisioni della Commissione 16 e 22 gennaio 2001 e del Consiglio 23 luglio 2001, rispettivamente 2001/118/CE, 2001/119/CE e 2001/573/CE (GU L 47, pagg. 1 e 32, e L 203, pag. 18), ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2002. Vi figurano, al capitolo 05, sezione 01, i «rifiuti della raffinazione del petrolio». La detta sezione enumera diversi tipi di rifiuti ed include una posizione 05 01 99 intitolata «rifiuti non specificati altrimenti». La nota preliminare dell'elenco precisa che si tratta di un elenco armonizzato che verrà rivisto periodicamente, ma che, tuttavia, «l'inclusione di un determinato materiale nell'elenco non significa che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442».

6.

L'art. 1, lett. c), della direttiva 75/442 definisce il «detentore» come il «produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».

7.

L'art. 1, lett. d), della detta direttiva definisce la «gestione» dei rifiuti come «la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche dopo la loro chiusura».

8.

L'art. 1, lett. e) ed f), della direttiva 75/442 definisce lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, nei suoi allegato II A e II B. Tali allegati sono stati adattati al progresso scientifico e tecnico dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135, pag. 32). Tra le operazioni di recupero enumerate all'allegato II B figura, al punto R 1, l'«[u]tilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia».

9.

L'art. 2 della direttiva 75/442 così dispone:

«1. Sono esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva:

a) gli effluenti gassosi emessi nell'atmosfera;

b) qualora già contemplati da altra normativa:

(...)

ii) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave;

(...)

2. Disposizioni specifiche particolari o complementari a quelle della presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti possono essere fissate da direttive particolari».

10.

L'art. 3, n. 1, della direttiva 75/442 dispone in particolare che gli Stati membri adottano le misure appropriate per promuovere il recupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo o ogni altra azione intesa a ottenere materie prime secondarie. L'art. 4 della stessa direttiva precisa che gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e in particolare senza creare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo e per la fauna e la flora, e senza danneggiare il paesaggio.

11.

Gli artt. 9 e 10 della direttiva 75/442 precisano che tutti gli stabilimenti o imprese che effettuano operazioni di smaltimento dei rifiuti od operazioni dirette ad un possibile recupero dei rifiuti devono ottenere un'autorizzazione dall'autorità competente.

12.

Una dispensa dall'autorizzazione è tuttavia prevista, a determinate condizioni, dall'art. 11 della direttiva 75/442.

La normativa nazionale

13.

La direttiva 75/442 è stata recepita nell'ordinamento italiano con il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (GURI 15 febbraio 1997, Supplemento ordinario, n. 38), ulteriormente modificato dal decreto legislativo 8 novembre 1997, n. 389 (GURI 8 novembre 1997, n. 261; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97»).

14.

Il decreto legislativo n. 22/97 definisce i rifiuti in maniera identica alla direttiva 75/442. Per la gestione di certi tipi di rifiuti esso esige un'autorizzazione amministrativa. In certi casi, la mancanza di autorizzazione è sanzionata penalmente.

15.

Dopo l'avvio dei procedimenti oggetto della causa principale, è intervenuto il decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, recante disposizioni urgenti per l'individuazione della disciplina relativa all'utilizzazione del coke da petrolio (pet-coke) negli impianti di combustione (GURI 8 marzo 2002, n. 57). Tale testo, da un lato, ha escluso il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso industriale dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 22/97 e, dall'altro, ha disciplinato il suo utilizzo negli impianti di combustione secondo le modalità seguenti:

«1. Negli impianti di combustione con potenza termica nominale, per singolo focolare, uguale o superiore a 50 MW, è consentito l'uso del coke da petrolio con contenuto di zolfo non superiore al 3 per cento in massa.

2. L'uso del coke da petrolio nel luogo di produzione è consentito (...) [anche se il tenore di zolfo è superiore al 3%].

3. Negli impianti in cui durante il processo produttivo i composti dello zolfo siano fissati o combinati in percentuale non inferiore al 60 per cento con il prodotto ottenuto è consentito l'uso del coke da petrolio con contenuto di zolfo non superiore al 6 per cento in massa.

4. E' in ogni caso vietato l'utilizzo del coke da petrolio nei forni per la produzione della calce impiegata nell'industria alimentare».

16.

Lo stesso decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, è stato modificato dalla legge 6 maggio 2002, n. 82, recante conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, recante disposizioni urgenti per l'individuazione della disciplina relativa all'utilizzazione del coke da petrolio (pet-coke) negli impianti di combustione (GURI 7 maggio 2002, n. 105). In tale occasione, è stato precisato che il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo era escluso dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 22/97. L'art. 2, secondo comma, del detto decreto legge, citato al punto precedente della presente ordinanza, è stato completato come segue:

«[L]'uso del coke da petrolio è consentito nel luogo di produzione anche per processi di combustione mirati a produrre energia elettrica o termica con finalità non funzionali ai processi propri della raffineria, purché le emissioni rientrino nei limiti stabiliti dalle disposizioni in materia».

Controversia principale e questioni pregiudiziali

17.

In seguito a denunce riguardanti l'attività della raffineria di petrolio di Gela, il pubblico ministero presso il Tribunale di Gela ha disposto una perizia tecnica nello stabilimento. Detta perizia tecnica ha accertato che la raffineria utilizzava il coke da petrolio, risultante dalla raffinazione del petrolio grezzo, come combustibile per la centrale di cogenerazione di vapore e di elettricità, in cui la maggior parte dell'energia prodotta è utilizzata per la stessa raffineria, ma le cui eccedenze di produzione elettrica vengono vendute ad altre industrie o alla società elettrica ENEL SpA.

18.

Il pubblico ministero ha ritenuto che il coke da petrolio costituisse un rifiuto soggetto al decreto legislativo n. 22/97 e, poiché questo era depositato ed utilizzato senza l'autorizzazione amministrativa prescritta da tale norma, ha accusato i sigg. Saetti e Frediani del reato di inosservanza delle prescrizioni relative a tale autorizzazione. Per di più, il pubblico ministero ha ottenuto dal Giudice per le indagini preliminari il sequestro dei due depositi di coke da petrolio che alimentano la centrale di cogenerazione della raffineria.

19.

Poiché, dopo l'entrata in vigore del decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, menzionato al punto 15 della presente ordinanza, l'utilizzo del coke da petrolio è autorizzato a determinate condizioni dalla nuova normativa italiana, il pubblico ministero ha posto fine al sequestro.

20.

Per quanto riguarda la conduzione dei procedimenti dopo l'entrata in vigore del detto decreto legge e della legge 6 maggio 2002, n. 82, menzionata al punto 16 della presente ordinanza, il Giudice per le indagini preliminari si chiede, in sostanza, se le autorità italiane avessero il potere di escludere dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 22/97 il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso industriale e per l'attività delle raffinerie di petrolio, tenuto conto della direttiva 75/442. Il Giudice per le indagini preliminari è particolarmente incline a pensare che il coke da petrolio costituisca un rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 e che, in assenza di una normativa comunitaria relativa al coke da petrolio, quale quella prevista dall'art. 2, n. 1, lett. b), della detta direttiva, le autorità nazionali non potessero escluderlo dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 22/97, adottato per il recepimento della detta direttiva.

21.

Alla luce di queste circostanze il Giudice per le indagini preliminari ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se il coke da petrolio rientri nella nozione di rifiuto fornita dall'art. 1 della direttiva 75/442;

2) se il suo utilizzo come combustibile costituisca attività di recupero a norma dell'art. 1 della direttiva 75/442;

3) se il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo rientri tra le categorie di rifiuti escludibili da uno Stato membro dall'applicazione della normativa comunitaria sui rifiuti, previa specifica regolamentazione a norma dell'art. 2 della direttiva 75/442;

4) se la sua utilizzabilità nel luogo di produzione anche nei processi di combustione mirati a produrre energia elettrica o termica con finalità non funzionali ai processi propri della raffineria, purché le emissioni rientrino nei limiti stabiliti dalle disposizioni in materia, anche se il suo contenuto di zolfo superi il 3% in massa, rappresenti una misura necessaria e sufficiente per assicurare che tale rifiuto sia recuperato senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti e metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente a norma dell'art. 4 della direttiva 75/442».

Sulla ricevibilità

22.

I sigg. Saetti e Frediani sostengono innanzi tutto che il procedimento nell'ambito del quale è intervenuto il Giudice per le indagini preliminari non è un procedimento di carattere giurisdizionale che permetta il rinvio alla Corte in via pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 CE. Secondo loro, il procedimento penale ha tale carattere solo a partire dal rinvio a giudizio, salvo casi particolari non rilevanti nella fattispecie.

23.

Tale argomento va respinto. La Corte ha giudicato in maniera costante che il giudice istruttore penale o il magistrato che esercita l'attività di istruzione penale costituiscono giurisdizioni ai sensi dell'art. 234 CE, chiamate a statuire in maniera indipendente e secondo diritto sulle cause per le quali la legge attribuisce loro la competenza, nell'ambito di un procedimento destinato a terminare con una decisione di carattere giurisdizionale (v., in particolare, sentenze 24 aprile 1980, causa 65/79, Chatain, Racc. pag. 1345, e 11 giugno 1987, causa 14/86, Pretore di Salò/X, Racc. pag. 2545, punto 7).

24.

I sigg. Saetti e Frediani fanno valere, in secondo luogo, che l'interpretazione del diritto comunitario richiesta alla Corte è inutile in quanto, dopo l'intervento del decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, e della legge 6 maggio 2002, n. 82, essi non sono più penalmente perseguibili secondo il diritto nazionale per i fatti che hanno dato luogo al procedimento principale. Orbene, qualunque possa essere l'interpretazione del diritto comunitario, la direttiva 75/442 non sarebbe opponibile in quanto tale a un soggetto e non potrebbe, di per sé, servire da fondamento diretto a procedimenti penali. Questi dovrebbero quindi, in ogni caso, essere archiviati e l'interpretazione della direttiva non avrebbe alcuna incidenza. Anche per tale ragione il rinvio alla Corte sarebbe irricevibile.

25.

Tale argomento va ugualmente respinto. E' vero che una direttiva di per sé non può creare obblighi a carico di un soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso (v., in particolare, sentenza 14 settembre 2000, causa C-343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I-6659, punto 20). Allo stesso modo, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., in particolare, sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 26 settembre 1996, causa C-168/95, Arcaro, Racc. pag. I-4705, punto 37).

26.

Nella fattispecie, da un lato, è tuttavia pacifico che, all'epoca dell'accertamento dei fatti all'origine dei procedimenti penali a carico dei sigg. Saetti e Frediani, tali fatti potevano, eventualmente, costituire reati punibili penalmente. Orbene, non spetta alla Corte interpretare o applicare il diritto nazionale al fine di determinare le conseguenze dell'intervento posteriore di norme nazionali in forza delle quali tali fatti non costituiscono più reati (v., in tal senso, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I-3561, punti 42 e 43).

27.

D'altro lato, dall'ordinanza di rinvio risulta che, secondo l'interpretazione che la Corte darà della direttiva 75/442, i procedimenti in causa potrebbero portare incidentalmente ad un rinvio dinanzi alla Corte costituzionale, finalizzato ad un giudizio di legittimità sulle norme nazionali.

28.

A tale proposito occorre ricordare che spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità della decisione giurisdizionale da pronunciare, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale al fine di poter pronunciare la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono sull'interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in linea di principio, è tenuta a statuire (v. sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman, Racc. pag. I-4921, punto 59).

29.

Benché la Corte abbia anche giudicato che, in ipotesi eccezionali, le spetta esaminare le condizioni in cui è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza, essa ha precisato che può rifiutare di pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale solo qualora risulti manifestamente che l'interpretazione del diritto comunitario richiesta non ha alcuna relazione con la realtà o con l'oggetto della causa principale, oppure qualora il problema sia di natura teorica, oppure nel caso in cui la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v. sentenza 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099, punto 39). Tale caso non ricorre nella fattispecie.

30.

Le questioni pregiudiziali sono pertanto ricevibili.

Sulle questioni pregiudiziali

31.

In considerazione del fatto che la risposta alle questioni proposte può essere facilmente dedotta dalla giurisprudenza, la Corte, in conformità all'art. 104, n. 3, del suo regolamento di procedura, ha informato il giudice del rinvio circa la sua intenzione di pronunciarsi con ordinanza motivata e ha invitato gli interessati indicati dall'art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia a presentare le loro eventuali osservazioni in merito. I sigg. Saetti e Frediani, i governi italiano e svedese nonché la Commissione hanno dichiarato di non riscontrare inconvenienti nel ricorso a tale procedura.

Sulla prima questione

32.

Con tale questione il giudice del rinvio chiede se il coke da petrolio costituisca un rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442.

33.

Il campo di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi», utilizzato all'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. La Corte ha precisato che l'esecuzione di un'operazione menzionata negli allegati II A o II B della direttiva 75/442 non permette, di per sé, di qualificare una sostanza o un oggetto come rifiuto e che, inversamente, la nozione di rifiuto non esclude le sostanze ed oggetti suscettibili di riutilizzo economico. Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442 dev'essere infatti applicato a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, recupero o riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533, punti 22, 27 e 29; in prosieguo: la «sentenza Palin Granit»).

34.

Talune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore di una sostanza o di un oggetto se ne disfa ovvero ha deciso o ha l'obbligo di disfarsene ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. Ciò si verifica in particolare se la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punto 84). La Corte ha così precisato che detriti derivanti dalla coltivazione di una cava di granito, che non si configurano come la produzione principale ricercata dall'esercente, costituiscono, in linea di principio, rifiuti (sentenza Palin Granit, punti 32 e 33).

35.

Può essere pertanto ammessa un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi» ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o mettere in commercio a condizioni ad essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un'analisi del genere non contrasta infatti con le finalità della direttiva 75/442, poiché non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (sentenza Palin Granit, punti 34 e 35).

36.

Tuttavia, tenuto conto dell'obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, al fine di limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere il ricorso a tale argomentazione relativa ai sottoprodotti alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nell'ambito del processo di produzione (sentenza Palin Granit, punto 36).

37.

Con il criterio del riconoscimento o meno della natura di residuo di produzione riguardo ad una certa sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un'ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (sentenza Palin Granit, punto 37).

38.

E' così che la Corte ha giudicato che detriti costituenti residui derivanti dallo sfruttamento di una miniera, utilizzati legalmente senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario riempimento delle gallerie della miniera, non possono essere considerati come sostanze di cui il gestore si disfi o abbia intenzione di disfarsi poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale, a condizione tuttavia che fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzazione effettiva delle dette sostanze (sentenza 11 settembre 2003, causa C-114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I-8725, punti 36-39 e 43).

39.

Altri indizi dell'esistenza di un rifiuto, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, risultano eventualmente dal fatto che il metodo di trattamento della sostanza di cui trattasi costituisce una modalità corrente di trattamento dei rifiuti o che la società considera la detta sostanza un rifiuto e dal fatto che, ove si tratti di un residuo di produzione, questo può essere sottoposto solo ad un utilizzo che comporti la sua scomparsa o dev'essere utilizzato nel rispetto di particolari condizioni di precauzione per l'ambiente (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 69-72, 86 e 87).

40.

Tali elementi non sono tuttavia necessariamente determinanti e l'esistenza effettiva di un rifiuto va accertata alla luce dell'insieme delle circostanze, tenendo conto delle finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 88).

41.

Trattandosi di coke da petrolio prodotto ed utilizzato in una raffineria di petrolio, occorre tenere conto delle indicazioni provenienti dal documento pubblicato dalla Commissione in attuazione dell'art. 16, n. 2, della direttiva del Consiglio 24 settembre 1996, 96/61/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (GU L 257, pag. 26), che riguarda lo scambio di informazioni tra gli Stati membri e le industrie interessate sulle migliori tecniche disponibili di sfruttamento per raggiungere un livello generale elevato di protezione dell'ambiente nel suo complesso, sulle relative prescrizioni in materia di controllo e sui relativi sviluppi nel campo della raffinazione del petrolio e del gas, documento comunemente designato con il nome di BREF, nonché dell'insieme delle condizioni esistenti nella raffineria interessata, la cui verifica spetta eventualmente al giudice al quale è stata sottoposta la controversia.

42.

Il coke da petrolio, composto di carbone solido e di quantità variabili di impurità, che costituisce una delle numerose sostanze derivanti dal processo di raffinazione del petrolio, è, secondo le osservazioni presentate dai sigg. Saetti e Frediani, volontariamente prodotto nella raffineria di Gela, tenuto conto delle caratteristiche del petrolio grezzo che vi è trattato. Da parte sua, il BREF indica, in particolare, che «il coke da petrolio viene ampiamente utilizzato come combustibile nei cementifici ed in siderurgia. Esso può essere anche utilizzato come combustibile nelle centrali elettriche se il suo contenuto di zolfo è sufficientemente basso. Il coke è utilizzabile anche in altri modi, come materia prima per la fabbricazione di prodotti a base di carbone e di grafite».

43.

Risulta peraltro dagli atti che il coke da petrolio viene utilizzato a Gela come componente principale del combustibile usato per far funzionare la centrale integrata di cogenerazione che soddisfa il fabbisogno di vapore e di elettricità della raffineria. Poiché l'elettricità generata è superiore al consumo della raffineria, tenuto conto del volume di vapore prodotto simultaneamente, l'eccedenza viene venduta ad altre industrie o ad una società elettrica.

44.

Tali condizioni di produzione e di utilizzo, se risultano presenti, permettono di escludere la definizione di rifiuto, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442.

45.

In primo luogo, in presenza delle dette condizioni, il coke da petrolio non può essere qualificato come residuo di produzione, nel senso di cui al punto 34 della presente ordinanza. Infatti, la produzione di coke appare allora come il risultato di una scelta tecnica (il coke da petrolio non sarebbe necessariamente prodotto nelle operazioni di raffinazione) in vista del ricorso ad un preciso combustibile, il cui costo di produzione è verosimilmente meno elevato del costo di altri combustibili che potrebbero venire usati per la generazione di vapore e di elettricità in misura corrispondente al fabbisogno della raffineria. Anche se, così come sostiene una controparte dei sigg. Saetti e Frediani nel procedimento principale, il coke da petrolio in questione è il risultato automatico di una tecnica che genera in parallelo altre sostanze petrolifere, il cui ottenimento costituirebbe l'obiettivo prioritario della direzione, occorre tenere conto che, poiché l'utilizzo dell'insieme della produzione di coke è certo ed effettuato essenzialmente per gli stessi tipi di uso di quelli di tali altre sostanze, il detto coke da petrolio è a sua volta un prodotto petrolifero fabbricato in quanto tale e non un residuo di produzione. A tale proposito, nella causa principale, sembra pacifico in base agli atti trasmessi alla Corte che il coke da petrolio è integralmente utilizzato in maniera certa come combustibile nel processo di produzione, in quanto le eccedenze di energia elettrica che ne risultano vengono esse stesse integralmente vendute.

46.

In secondo luogo, relativamente agli elementi addotti al punto 39 della presente ordinanza, il fatto che il coke da petrolio venga utilizzato come combustibile per la produzione di energia, utilizzo che corrisponde ad una modalità corrente di recupero dei rifiuti, non può essere rilevante, poiché lo scopo di una raffineria è precisamente quello di produrre diversi tipi di combustibile a partire dal petrolio grezzo. Inoltre, non sono rilevanti nemmeno gli eventuali indizi collegati, da un lato, all'assenza di un utilizzo diverso da quello comportante la scomparsa della sostanza in questione (indizio in questo caso non confermato, poiché il coke da petrolio può essere utilizzato come materia prima per la fabbricazione di prodotti a base di carbone e di grafite) e, dall'altro, alla circostanza che il suo impiego debba avvenire in particolari condizioni di precauzione per l'ambiente (indizio confermato nella fattispecie), poiché tali indizi si applicano ai residui di produzione e il coke da petrolio prodotto ed utilizzato alle condizioni precedentemente indicate non corrisponde a tale qualificazione, come risulta dal punto precedente della presente ordinanza. Relativamente all'indizio che sarebbe collegato al fatto che la società considera il coke da petrolio un rifiuto, anche ipotizzando che risulti accertato, esso sarebbe insufficiente, da solo, tenuto conto delle altre circostanze addotte fin qui, per dedurne che il coke da petrolio in questione sia un rifiuto. La conclusione sarebbe diversa solo se, accogliendo la richiesta dell'opinione pubblica, la direzione della raffineria rinunciasse all'utilizzo del coke da petrolio o vi fosse obbligata da un provvedimento legale. In una tale ipotesi, si dovrebbe infatti ritenere che il detentore del coke da petrolio se ne disfarebbe o avrebbe l'intenzione o l'obbligo di disfarsene.

47.

Occorre quindi rispondere alla prima questione dichiarando che il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442.

Sulla seconda, terza e quarta questione

48.

Al giudice del rinvio sarebbero utili le risposte a tali questioni solo se il coke da petrolio di cui trattasi nella causa principale dovesse considerarsi un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Orbene, ciò non risulta essere il caso, tenuto conto delle indicazioni fornite dall'ordinanza di rinvio e delle osservazioni sottoposte alla Corte, che hanno condotto alla risposta alla prima questione. Non occorre dunque rispondere alla seconda, terza e quarta questione.

Sulle spese

49.

Le spese sostenute dai governi italiano, austriaco e svedese, nonché dalla Commissione, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.

Per questi motivi,

LA CORTE (Terza Sezione),

pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Gela con ordinanza 19 giugno 2002, dichiara:

Il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE.

Lussemburgo, 15 gennaio 2004

Il cancelliere


SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Seconda Sezione)
11 novembre 2004

«Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di rifiuti – Residui di produzione o di consumo idonei alla riutilizzazione – Rottami ferrosi»

Nel procedimento C-457/02,

avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Tribunale penale di Terni con ordinanza 20 novembre 2002, pervenuta in cancelleria il 18 dicembre 2002, nel procedimento penale a carico di

Antonio Niselli,

 

LA CORTE (Seconda Sezione),

 

composta dai sigg. C.W.A. Timmermans, presidente di sezione, C. Gulmann e J.‑P. Puissochet (relatore), giudici,

avvocato generale: sig.ra J. Kokott,

cancelliere: sig.ra M. Múgica Arzamendi, amministratore principale,

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 6 maggio 2004,

considerate le osservazioni presentate:

per il sig. Niselli, dagli avv.ti L. Mattrella e E. Morigi;

per il governo italiano, dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. M. Fiorilli, avvocato dello Stato;

per il governo austriaco, dal sig. E. Riedl, in qualità di agente;

per la Commissione delle Comunità europee, dai sigg. M. Kostantidinis e R. Amorosi, in qualità di agenti, assistiti dall'avv. G. Bambara,

sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 10 giugno 2004,

ha pronunciato la seguente

 

 

 

Sentenza

 

1

La domanda di pronuncia pregiudiziale in esame verte sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 47), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32), nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»).

2

Tale domanda è stata presentata nel corso di un procedimento penale promosso nei confronti del sig. Niselli, imputato del reato consistente nell’aver svolto un’attività di gestione di rifiuti senza previa autorizzazione della competente autorità.

 

Contesto normativo

La normativa comunitaria

3

La direttiva 75/442 mira a ravvicinare le legislazioni nazionali per quanto riguarda la gestione dei rifiuti.

4

L’art. 1, lett. a), primo comma, di tale direttiva definisce il rifiuto come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».

5

L’allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», menziona segnatamente, al punto Q 1, i «[r]esidui di produzione o di consumo in appresso non specificati», al punto Q 14, i «[p]rodotti di cui il detentore non si serve più (ad esempio articoli messi fra gli scarti dall’agricoltura, dalle famiglie, dagli uffici, dai negozi, dalle officine, ecc.)» e, al punto Q 16, «[q]ualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».

6

L’art. 1, lett. a), secondo comma, della direttiva 75/442 ha affidato alla Commissione delle Comunità europee il compito di stabilire «un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I» (in prosieguo: l’«elenco dei rifiuti»). Un elenco del genere è oggetto della decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 226, pag. 3). Tale elenco è stato modificato più volte e in particolare, da ultimo, dalla decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (GU L 203, pag. 18). L’elenco dei rifiuti è entrato in vigore il 1° gennaio 2002. Rientrano nel capitolo 17 di tale elenco i «rifiuti delle operazioni di costruzione e demolizione (compreso il terreno proveniente da siti contaminati)». La voce 17 04 di tale capitolo enumera vari tipi di rifiuti metallici. La nota introduttiva all’elenco dei rifiuti precisa che esso è un elenco armonizzato che sarà periodicamente rivisto ma che, tuttavia, «l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non significa che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442/CEE».

7

L’art. 1, lett. b), della detta direttiva definisce il «produttore» come «la persona la cui attività ha prodotto rifiuti (“produttore iniziale”) e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti».

8

Quanto al «detentore», esso è definito all’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442 come il «produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».

9

L’art. 1, lett. d), della citata direttiva definisce la «gestione» dei rifiuti come «la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni nonché il controllo delle discariche dopo la loro chiusura».

10

L’art. 1, lett. e) e f), definisce lo «smaltimento» ed il «ricupero» dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, nell’allegato II A e nell’allegato II B. Tali allegati sono stati adattati al progresso scientifico e tecnico con decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135, pag. 32). Tra le operazioni di recupero elencate nell’allegato II B figurano, al punto R 4, il «[r]iciclo/recupero dei metalli o dei composti metallici» e, al punto R 13, la «[m]essa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni [indicate nel suddetto allegato] (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)»

11

L’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva 75/442 dispone, tra l’altro, che gli Stati membri adottano le misure appropriate per promuovere il recupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo e ogni altra azione intesa a ottenere materie prime secondarie.

12

L’art. 4 della medesima direttiva dispone che gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente, in particolare senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo e per la fauna e la flora, e senza danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse. Tale articolo precisa che gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti.

13

Gli artt. 9 e 10 della direttiva 75/442 dispongono che tutti gli stabilimenti o imprese che effettuano operazioni di smaltimento dei rifiuti o operazioni di recupero dei rifiuti devono ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente.

14

Una dispensa dall’autorizzazione è tuttavia prevista, a determinate condizioni, all’art. 11 della direttiva 75/442.

La normativa nazionale

15

La direttiva 75/442 è stata trasposta in diritto italiano con il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione delle direttive 91/156/CEE, sui rifiuti, 91/689/CEE, sui rifiuti pericolosi, e 94/62/CE, sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla GURI n. 38 del 15 febbraio 1997), ulteriormente modificato dal decreto legislativo 8 novembre 1997, n. 389 (GURI n. 261 dell’8 novembre 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97»).

16

L’art. 6, n. 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97 definisce il «rifiuto» come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». L’allegato A dello stesso decreto legislativo riprende l’elenco delle «categorie di rifiuti» contenuto nell’allegato I della direttiva 75/442. Peraltro, gli allegati B, C e D del decreto legislativo n. 22/97 elencano rispettivamente le operazioni di smaltimento e le operazioni di recupero dei rifiuti, analogamente a quanto fanno gli allegati II A e II B della direttiva 75/442, nonché i rifiuti pericolosi ai sensi dell’art. 1, n. 4, della direttiva 91/689.

17

Per la gestione di taluni tipi di rifiuti, il decreto legislativo n. 22/97 esige un’autorizzazione amministrativa. In tal caso, il difetto di autorizzazione è sanzionato penalmente.

18

Successivamente all’avvio del procedimento penale oggetto della causa principale è stato emanato il decreto legge 8 luglio 2002, n. 138 (GURI n. 158 dell’8 luglio 2002), convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178 (GURI n. 187 del 10 agosto 2002; in prosieguo: il «decreto legge n. 138/02»).

19

L’art. 14 di tale decreto legge reca un’«interpretazione autentica» della definizione di «rifiuto» ai sensi del decreto legislativo n. 22/97, secondo la quale:

«1.     Le parole “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi” di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo [n. 22/97], e successive modificazioni (…), si interpretano come segue:

a)

“si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo [n. 22/97];

b)

“abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo [n. 22/97], sostanze, materiali o beni;

c)

“abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del decreto legislativo [n. 22/97].

2.      Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a)

se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;

b)

se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo [n. 22/97]».

 

I fatti e le questioni pregiudiziali

20

Il sig. Niselli, legale responsabile della società ILFER SpA, è imputato del reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata. Un semirimorchio della ILFER SpA era stato infatti sequestrato dai carabinieri perché trasportava rottami ferrosi sprovvisto del modulo d’identificazione dei rifiuti previsto dal decreto legislativo n. 22/97. Era inoltre emerso che il semirimorchio non era iscritto all’albo nazionale delle imprese di gestione dei rifiuti, come previsto dallo stesso decreto legislativo.

21

Secondo una perizia presentata nel corso del procedimento, i materiali posti sotto sequestro provenivano dalla demolizione di macchinari e di automezzi o dalla raccolta di oggetti di scarto. Essi avevano come caratteristiche comuni la matrice ferrosa, sia unica sia in lega con altri metalli, e il fatto di essere contaminati in parte da sostanze di natura organica quali vernici, grassi o fibre. Essi derivavano da diversi cicli tecnologici, dai quali erano stati estromessi perché non più utilizzabili in tali cicli.

22

Dovendo decidere del seguito del procedimento penale dopo l’entrata in vigore del decreto legge n. 138/02, il Tribunale penale di Terni si interroga in sostanza in merito all’«interpretazione autentica» della nozione di rifiuto fornita dall’art. 14 del decreto legge n. 138/02, che potrebbe essere in contrasto con la direttiva 75/442. Secondo tale interpretazione, i fatti addebitati al sig. Niselli non costituirebbero più reato in quanto i rottami ferrosi posti sotto sequestro erano destinati al riutilizzo e quindi non potrebbero più essere qualificati come rifiuti. Tuttavia, nell’ipotesi in cui tale interpretazione fosse incompatibile con la direttiva 75/442, il procedimento penale dovrebbe proseguire sulla base dell’imputazione formulata.

23

Il Tribunale penale di Terni, pur precisando che la Commissione ha promosso contro la Repubblica italiana un procedimento per inadempimento degli obblighi ad essa imposti dalla direttiva 75/442, ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.     Se è possibile che la nozione di rifiuto dipenda tassativamente dalla seguente condizione: che le parole: “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi”, recepite in Italia dall’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo [n. 22/97], siano interpretate come segue:

a)

“si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo [n. 22/97];

b)

“abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo [n. 22/97], sostanze, materiali o beni;

c)

“abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del decreto legislativo [n. 22/97];

2.      Se è possibile che tassativamente non ricorre la nozione di rifiuto per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a)

se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;

b)

se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22/97 vigente in Italia (che ha trasposto pedissequamente l’allegato II B alla direttiva 91/156/CEE)».

 

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla ricevibilità

24

Il governo italiano sostiene, da un lato, che l’interpretazione del diritto comunitario domandata alla Corte è inutile, in quanto le difficoltà interpretative evocate dal giudice del rinvio non sono ravvisabili nella giurisprudenza italiana.

25

Il governo italiano afferma, d’altro lato, che le questioni pregiudiziali sono irricevibili, in quanto il giudice del rinvio propone in realtà alla Corte di pronunciarsi sull’inadempimento contestato alla Repubblica italiana nell’ambito del procedimento avviato dalla Commissione e richiamato nell’ordinanza di rinvio.

26

Questi due argomenti vanno disattesi. Spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono sull’interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire. La Corte può rifiutare di pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale solo qualora risulti manifestamente che l’interpretazione del diritto comunitario o l’esame della validità di una norma comunitaria richiesti da tale giudice non hanno alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale oppure qualora il problema sia di natura ipotetica, oppure ancora nel caso in cui la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v., in particolare, sentenza 13 marzo 2001, causa C‑379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I‑2099, punti 38 e 39).

27

Tale ipotesi, tuttavia, non ricorre nella fattispecie. Da una parte, risulta dagli atti che le questioni sottoposte alla Corte hanno un nesso diretto con l’oggetto del procedimento pendente dinanzi al Tribunale penale di Terni. D’altra parte, il fatto che la Commissione abbia promosso contro la Repubblica italiana un procedimento per inadempimento degli obblighi ad essa imposti dalla direttiva 75/442 non priva affatto le questioni pregiudiziali del loro oggetto.

28

La Commissione, senza mettere in discussione il rinvio alla Corte, afferma dal canto suo nelle osservazioni scritte che il giudice nazionale – nel caso in cui la Corte dichiarasse la non conformità rispetto alla detta direttiva dell’art. 14 del decreto legge n. 138/02, il quale escluderebbe la responsabilità penale dell’interessato – non potrà far riferimento alla direttiva 75/442 per affermare o aggravare la responsabilità penale del sig. Niselli.

29

In proposito, occorre ricordare che una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso (v., in particolare, sentenza 14 settembre 2000, causa C‑343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I-6659, punto 20). Analogamente, una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., segnatamente, sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 26 settembre 1996, causa C‑168/95, Arcaro, Racc. pag. I‑4705, punto 37).

30

Tuttavia, nella fattispecie è pacifico che, all’epoca dei fatti che hanno dato luogo al procedimento penale a carico del sig. Niselli, tali fatti potevano, se del caso, integrare gli estremi di infrazioni sanzionate penalmente. Ciò considerato, non vi è motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio della legalità delle pene per l’applicazione della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C‑304/94, C‑330/94, C‑342/94 e C‑224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I‑3561, punto 43).

31

La domanda di pronuncia pregiudiziale è pertanto ricevibile.

Nel merito

Sulla prima questione

32

Con la prima questione, il giudice del rinvio domanda in sostanza se i termini «si disfi», «abbia deciso» o «abbia l’obbligo di disfarsi», utilizzati dall’art. 1 lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ricomprendano tassativamente i casi in cui, rispettivamente, in modo diretto o indiretto, il detentore di una sostanza o di un materiale lo destini o lo sottoponga a un’operazione di smaltimento o di recupero prevista dagli allegati II A e II B della stessa direttiva, mediante rinvio alla legislazione italiana, oppure abbia la volontà o l’obbligo di farlo in forza di una legge, di un provvedimento delle pubbliche autorità o in ragione della natura stessa della sostanza o del materiale di cui trattasi, oppure in ragione del fatto che i medesimi rientrano nell’elenco dei rifiuti pericolosi.

33

L’ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo «disfarsi». Esso deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo ‘considerando’, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell’art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I‑3533; in prosieguo: la «sentenza Palin Granit», punti 22 e 23).

34

Tuttavia, la direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C‑418/97 e C‑419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I‑4475, punto 41).

35

Stando all’interpretazione della nozione di rifiuto esposta dal giudice del rinvio, la destinazione ad operazioni di smaltimento e di recupero di una sostanza o di un materiale è considerata la manifestazione dell’atto, dell’intento o dell’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442.

36

Orbene, allorché definisce l’azione di disfarsi di una sostanza o di un materiale soltanto a partire dall’esecuzione di un’operazione di smaltimento o di recupero menzionata agli allegati II A e II B della direttiva 75/442, tale interpretazione subordina la qualifica come rifiuto ad un’operazione che, a sua volta, può essere qualificata come smaltimento o recupero solo ove applicata ad un rifiuto. Quest’interpretazione non contribuisce pertanto minimamente a precisare la nozione di rifiuto.

37

In proposito, occorre ricordare che dal fatto che su una sostanza venga eseguita un’operazione menzionata negli allegati II A o II B della direttiva 75/442 non discende necessariamente che l’operazione consista nel disfarsene e che quindi tale sostanza vada considerata rifiuto (sentenza Palin Granit cit., punto 27). In effetti, se l’interpretazione di cui trattasi fosse applicata nel senso che ogni sostanza o materiale oggetto di uno dei tipi di operazioni menzionati agli allegati II A e II B della direttiva 75/442 deve essere qualificato come rifiuto, essa condurrebbe a qualificare come tali sostanze o materiali che non lo sono ai sensi della detta direttiva. Ad esempio, stando a questa interpretazione, della nafta utilizzata come combustibile costituirebbe sempre un rifiuto, in quanto sarebbe soggetta, al momento della combustione, all’operazione rientrante nella categoria R 1 dell’allegato II B alla direttiva 75/442.

38

Ma soprattutto, qualora l’interpretazione esposta dal giudice a quo fosse applicata nel senso che una sostanza o un materiale di cui ci si disfi in un modo diverso da quelli menzionati negli allegati II A e II B alla direttiva 75/442 non costituisce un rifiuto, essa restringerebbe anche la nozione di rifiuto quale risulta dall’art. 1, lett. a), primo comma, della detta direttiva. Infatti, una sostanza o un materiale non soggetto a obbligo di smaltimento o di recupero e di cui il detentore si disfi mediante semplice abbandono, senza sottoporlo ad un’operazione del genere, non verrebbe qualificato come rifiuto, mentre lo sarebbe ai sensi della direttiva 75/442.

39

Il fatto che l’abbandono di un rifiuto non possa essere considerato una modalità di smaltimento dello stesso risulta in particolare dall’art. 4, secondo comma, della direttiva 75/442, ai sensi del quale «gli Stati membri adottano […] le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti». Questa disposizione ben distingue l’abbandono dallo smaltimento. Ne deriva che l’abbandono e lo smaltimento di un materiale o di una sostanza costituiscono due tra i vari modi di disfarsene ai sensi dell’art. 1, primo comma, lett. a), della direttiva 75/442.

40

La prima questione dev’essere pertanto risolta dichiarando che la definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442 non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionate negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l’intenzione o l’obbligo di destinarli a siffatte operazioni.

Sulla seconda questione

41

Con la seconda questione, il giudice del rinvio domanda in sostanza se possano essere esclusi dalla nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442 i residui di produzione o di consumo che possano essere o siano riutilizzati nel medesimo ciclo produttivo o di consumo, oppure in un ciclo analogo o diverso, senza subire alcun trattamento preventivo e senza recare pregiudizio all’ambiente, oppure dopo aver subito un trattamento preventivo senza che tuttavia si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22/97, che ha testualmente trasposto in diritto interno l’allegato II B della direttiva 75/442.

42

Come sottolinea il governo italiano, l’interpretazione oggetto della seconda questione mira ad escludere dalla nozione di rifiuto, a determinate condizioni, i residui di produzione o di consumo idonei ad essere riutilizzati.

43

Come la Corte ha dichiarato, il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione costituisce, in via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione o di un obbligo di disfarsene ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 (v. sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 84). La stessa valutazione si impone per quanto riguarda i residui di consumo.

44

Può tuttavia ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un’analisi del genere non contrasta infatti con le finalità della direttiva 75/442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, cit., punti 34 e 35).

45

Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuti, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura, il ricorso a tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, dev’essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione, e avvenga nel corso del processo di produzione (sentenza Palin Granit, cit., punto 36).

46

Oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (sentenza Palin Granit, cit, punto 37).

47

Risulta da quanto precede che è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione (v. sentenza 11 settembre 2003, causa C‑114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I‑8725).

48

Tuttavia, quest’ultima analisi non è valida per quanto riguarda i residui di consumo, che non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo.

49

Un’analisi simile non può essere accolta nemmeno per quanto riguarda rifiuti del genere che non possono essere qualificati come beni d’occasione riutilizzati in maniera certa e comparabile, senza previa trasformazione.

50

Orbene, secondo l’interpretazione risultante da una disposizione quale l’art. 14 del decreto legge n. 138/02, affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica come rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva 75/442.

51

Un’interpretazione del genere si risolve manifestamente nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442.

52

In proposito, materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti. Stando alle spiegazioni del sig. Niselli, i materiali in discussione sono stati successivamente sottoposti a cernita ed eventualmente a taluni trattamenti, e costituiscono una materia prima secondaria destinata alla siderurgia. In un tale contesto essi devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici, finché cioè non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi precedenti, essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati, poiché il detto processo di trasformazione non è terminato. Viceversa, fatto salvo il caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto non può essere fissato ad uno stadio industriale o commerciale successivo alla loro trasformazione in prodotti siderurgici poiché, a partire da tale momento, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie (v., per il caso particolare dei rifiuti di imballaggio riciclati, sentenza 19 giugno 2003, causa C‑444/00, Mayer Parry Recycling, Racc. pag. I‑6163, punti 61‑75).

53

La seconda questione dev’essere pertanto risolta dichiarando che la nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442 non dev’essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva.

 

Sulle spese

54

Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute per presentare osservazioni alla Corte, diverse da quelle delle dette parti, non possono dar luogo a rifusione.

 

 

 

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:

1)

La definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionati negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l’intenzione o l’obbligo di destinarli a siffatte operazioni.

2)

La nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non dev’essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva.

 

Firme


SENTENZA DELLA CORTE di GIUSTIZIA EUROPEA (Terza Sezione)
8 settembre 2005

«Inadempimento di uno Stato – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di rifiuti – Direttive 85/337/CEE e 97/11/CE – Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati – Direttiva 80/68/CEE – Protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose – Direttiva 91/271/CEE – Trattamento delle acque reflue urbane – Direttiva 91/676/CEE – Protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole – Inquinamento provocato da un’azienda suinicola»

Nella causa C-416/02,

avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 19 novembre 2002,

Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. G. Valero Jordana, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,

ricorrente,

sostenuta da:

Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, rappresentato dal sig. K. Manji, successivamente dalla sig.ra C. White, in qualità di agenti, assistiti dal sig. D. Wyatt, QC, con domicilio eletto in Lussemburgo,

interveniente,

contro

Regno di Spagna, rappresentato dalla sig.ra N. Díaz Abad, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,

convenuto,

LA CORTE (Terza Sezione),

composta dal sig. A. Rosas, presidente di sezione, dai sigg. J.‑P. Puissochet (relatore), S. von Bahr, U. Lõhmus e A. Ó Caoimh, giudici,

avvocato generale: sig.ra C. Stix-Hackl

cancelliere: sig.ra M. M. Ferreira, amministratore principale,

vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 15 dicembre 2004,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 12 maggio 2005,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1       Con il ricorso in esame, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che:

–       non avendo adottato i provvedimenti necessari per conformarsi agli obblighi ad esso incombenti in forza degli artt. 4, 9 e 13 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»);

–       non avendo adottato i provvedimenti necessari per garantire che i rifiuti provenienti dall’azienda suinicola sita in località detta «El Pago de la Media Legua» siano smaltiti o ricuperati senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente, avendo consentito a tale azienda di svolgere la propria attività senza l’autorizzazione richiesta dalla detta direttiva e non avendo effettuato i controlli periodici necessari per tali aziende;

–       non avendo effettuato, prima della realizzazione o della modifica di tale progetto, la valutazione dell’impatto, violando le disposizioni degli artt. 2 e 4, n. 2, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (GU L 175, pag. 40; in prosieguo: la «direttiva 85/337, nella versione iniziale»), o violando le disposizioni di questa direttiva come modificata dalla direttiva del Consiglio 3 marzo 1997, 97/11/CE (GU L 73, pag. 5; in prosieguo: la «direttiva 85/337»);

–       non avendo compiuto gli studi idrogeologici necessari nella zona interessata dall’inquinamento in conformità alle disposizioni degli artt. 3, lett. b), 5, n. 1, e 7 della direttiva del Consiglio 17 dicembre 1979, 80/68/CEE, concernente la protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose (GU 1980, L 20, pag. 43);

–       non avendo provveduto affinché le acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera siano sottoposte al trattamento previsto dall’art. 5, n. 2, della direttiva del Consiglio 21 maggio 1991, 91/271/CEE, concernente il trattamento delle acque reflue urbane (GU L 135, pag. 40), ossia ad un trattamento più rigoroso di quello descritto all’art. 4 di tale direttiva;

–       non avendo designato come zona vulnerabile la Rambla de Mojácar, in violazione delle disposizioni dell’art. 3, nn. 1, 2 e 4, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/676/CEE, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole (GU L 375, pag. 1),

il Regno di Spagna non ha adempiuto gli obblighi ad esso incombenti in forza delle dette direttive.

 Contesto normativo

 La normativa sui rifiuti

 La normativa comunitaria

2       L’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442 definisce il rifiuto come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».

3       Il secondo comma dello stesso art. 1, lett. a), affida alla Commissione il compito di preparare un «elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I». Con decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, punto a) della direttiva 75/442 (GU 1994, L 5, pag. 15), la Commissione ha emanato un «catalogo europeo dei rifiuti», nel quale compaiono in particolare, tra i «rifiuti provenienti da produzione (…) in agricoltura», le «feci animali, urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito». La nota introduttiva che compare nell’allegato alla detta decisione precisa che tale catalogo dei rifiuti non è «esaustivo», che «un materiale figurante nel catalogo non è in tutte le circostanze un rifiuto», «ma solo quando esso soddisfa la definizione di rifiuto».

4       L’art. 1, lett. c), della stessa direttiva definisce il detentore come «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».

5       L’art. 2 della direttiva 75/442 dispone quanto segue:

«1. Sono esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva:

a)      gli effluenti gassosi emessi nell’atmosfera;

b)      qualora già contemplati da altra normativa:

         (…)

         iii) le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali e non pericolose utilizzate nell’attività agricola;

         (…)

2.      Disposizioni specifiche particolari o complementari a quelle della presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti possono essere fissate da direttive particolari».

6       L’art. 4 della detta direttiva prevede quanto segue:

«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano ricuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e in particolare:

–      senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo e per la fauna e la flora;

–      senza causare inconvenienti da rumori od odori;

–      senza danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse.

Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti».

7       Secondo l’art. 9 della stessa direttiva, ai fini, tra l’altro, dell’applicazione del detto art. 4, tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano le operazioni di smaltimento dei rifiuti elencate nell’allegato II A debbono ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente, autorizzazione riguardante, in particolare, i tipi ed i quantitativi di rifiuti, i requisiti tecnici, le precauzioni da prendere in materia di sicurezza, il luogo di smaltimento, il metodo di trattamento.

8       A norma dell’art. 13 della direttiva 75/442:

«Gli stabilimenti o le imprese che effettuano le operazioni previste agli articoli 9‑12 sono sottoposti a adeguati controlli periodici da parte delle autorità competenti».

 La normativa nazionale

9       L’art. 2, n. 2, della legge 21 aprile 1998, n. 10, sui rifiuti (BOE 22 aprile 1998) dispone che «la presente legge si applica a titolo suppletivo alle materie da essa elencate in prosieguo con riferimento agli aspetti che essa disciplina espressamente attraverso la sua regolamentazione specifica:

(…)

b)      l’eliminazione e la trasformazione delle carogne d’animali e dei rifiuti d’origine animale, come questa materia è regolata dal regio decreto 17 dicembre 1993, n. 2224, sulle norme sanitarie relative all’eliminazione e alla trasformazione delle carogne d’animali e dei rifiuti d’origine animale ed alla protezione contro gli agenti patogeni negli alimenti per animali (…)

c)      i rifiuti provenienti dalle installazioni agricole e di allevamenti di bestiame, costituiti da materie fecali e da altre sostanze naturali non nocive, utilizzati nell’ambito delle attività agricole, come questa materia è regolata dal regio decreto 16 febbraio 1996, n. 261, relativo alla protezione delle acque contro l’inquinamento da nitrati derivanti da produzioni agricole, e dalla disciplina che il governo è competente ad adottare in conformità alla quinta disposizione addizionale

(…)».

10     La detta quinta disposizione addizionale prevede che l’uso come fertilizzanti agricoli dei rifiuti di cui all’art. 2, n. 2, lett. c), sarà soggetto alla disciplina che il governo emanerà a questo scopo ed alle norme supplementari che saranno adottate, all’occorrenza, dalle regioni autonome. Secondo la stessa disposizione addizionale, tale disciplina fisserà il tipo e la quantità di rifiuti che potranno essere utilizzati come fertilizzanti nonché le condizioni in presenza delle quali l’attività non sarà soggetta ad autorizzazione e disporrà che quest’attività dovrà essere svolta senza mettere in pericolo la salute umana e senza utilizzare procedimenti o metodi che possano nuocere all’ambiente, e in particolare provocare l’inquinamento delle acque.

11     In forza della delega risultante dalla medesima quinta disposizione addizionale, il governo spagnolo ha adottato il regio decreto 3 marzo 2000, n. 324, che fissa la normativa di base sullo sfruttamento razionale degli impianti di allevamento suino (BOE 8 marzo 2000). L’art. 5, parte B, lett. b), di tale regio decreto prevede che la gestione degli effluenti d’allevamento provenienti da aziende suinicole possa essere effettuata, in particolare, attraverso il ricupero come fertilizzanti organici minerali: in tale caso gli allevamenti devono essere dotati di «fosse di stoccaggio di colaticcio, tramezzate ed impermeabilizzate in maniera naturale o artificiale, che prevengano il rischio di filtrazione e di inquinamento delle acque superficiali e sotterranee, garantendo l’assenza di perdite per straripamento o per instabilità geotecnica e la cui dimensione sia sufficiente per stoccare la produzione di almeno tre mesi per consentirne una gestione appropriata».

12     Ai sensi della prima disposizione aggiuntiva della legge n. 10/1998, il controllo sul ricupero del colaticcio, nelle zone non dichiarate passibili di inquinamento da nitrati in applicazione del regio decreto 16 febbraio 1996, n. 261, relativo alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole (BOE 16 febbraio 1996), non può essere effettuato sulla base del regio decreto n. 324/2000.

13     La normativa in materia di rifiuti adottata dalla Giunta dell’Andalusia esclude dal suo ambito di applicazione i rifiuti organici provenienti da attività agricole o di allevamento.

 La normativa sulla valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti

 La normativa comunitaria

14     L’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337, nella versione iniziale, disponeva quanto segue:

«Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, i progetti per i quali si prevede un impatto ambientale importante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, formino oggetto di una valutazione del loro impatto.

Detti progetti sono definiti nell’articolo 4».

15     Ai sensi dell’art. 4, n. 2, della detta direttiva, «[i] progetti appartenenti alle classi elencate nell’allegato II formano oggetto di una valutazione ai sensi degli articoli da 5 a 10 quando gli Stati membri ritengono che le loro caratteristiche lo richiedano». Il detto allegato II, punto 1, lett. f), menziona gli impianti che possono ospitare suini.

16     In forza dell’art. 4, n. 1, della direttiva 85/337, «i progetti elencati nell’allegato I sono sottoposti a valutazione a norma degli articoli da 5 a 10».

17     Il detto allegato I, punto 17, lett. b), menziona gli impianti per l’allevamento intensivo di suini con più di 3 000 posti per suini da produzione (di oltre 30 kg) e lo stesso punto, lett. c), include gli impianti che dispongono di più di 900 posti per scrofe.

18     L’art. 4, n. 2, della direttiva 85/337 prevede che gli Stati membri determinano, per i progetti elencati all’allegato II di tale direttiva, in base ad un esame svolto caso per caso o sulla base delle soglie o dei criteri fissati dallo Stato membro, «se il progetto debba essere sottoposto a valutazione a norma degli articoli da 5 a 10». Il n. 3 del medesimo art. 4 precisa che, «nell’esaminare caso per caso o nel fissare soglie o criteri ai fini del paragrafo 2, si tiene conto dei relativi criteri di selezione riportati nell’allegato III».

19     L’allegato II, punto 1, lett. e), della direttiva 85/337 riguarda gli «[i]mpianti di allevamento intensivo di animali (progetti non contemplati nell’allegato I)» e il punto 13 dello stesso allegato menziona «[m]odifiche o estensioni di progetti di cui all’allegato I o all’allegato II già autorizzati, realizzati o in fase di realizzazione, che possono avere notevoli ripercussioni negative sull’ambiente». La direttiva 85/337 doveva essere recepita dagli Stati membri entro il 14 marzo 1999.

 La normativa nazionale

20     La Giunta dell’Andalusia ha adottato la legge 18 maggio 1994, n. 7, sulla tutela dell’ambiente, il cui allegato II, punto 11, dispone che gli stabilimenti per la stabulazione permanente di suini contenenti più di 100 scrofe da allevamento e 500 suini da ingrasso sono soggetti ad un procedimento che prevede la redazione di una relazione sulla valutazione ambientale.

 La normativa sulla protezione delle acque sotterranee

 La normativa comunitaria

21     L’art. 3 della direttiva 80/68 così recita:

«Gli Stati membri prendono le misure necessarie per:

(…)

b)      limitare l’immissione nelle acque sotterranee di sostanze dell’elenco II, al fine di evitare il loro inquinamento da parte di tali sostanze».

22     Il detto elenco II, punto 3, menziona le «sostanze che hanno un effetto nocivo sul sapore e/o sull’odore delle acque sotterranee (…)».

23     L’art. 5 della direttiva 80/68 prevede, in particolare, che gli Stati membri sottopongano a indagine preventiva gli scarichi delle sostanze di cui all’elenco II e possano rilasciare un’autorizzazione a condizione che siano osservate tutte le precauzioni tecniche che permettono di evitare l’inquinamento delle acque sotterranee provocato da tali sostanze.

24     In virtù dell’art. 7 della detta direttiva, «le indagini preliminari di cui agli articoli 4 e 5 devono comprendere uno studio delle condizioni idrogeologiche della zona in questione e dell’eventuale capacità depurativa del suolo e del sottosuolo, dei rischi di inquinamento e di alterazione della qualità delle acque sotterranee da parte dello scarico, e stabilire se, dal punto di vista dell’ambiente, lo scarico in tali acque costituisce una soluzione adeguata».

 La normativa nazionale

25     Nell’ambito della causa in esame non è stato portato a conoscenza della Corte alcun testo normativo che abbia lo scopo specifico di recepire la direttiva 80/68.

 La normativa sul trattamento delle acque reflue urbane

 La normativa comunitaria

26     L’art. 5, n. 1, della direttiva 91/271 prevede che, «[p]er conseguire gli scopi di cui al paragrafo 2, gli Stati membri individuano, entro il 31 dicembre 1993, le aree sensibili secondo i criteri stabiliti nell’allegato II», tra i quali rientrano l’eutrofizzazione [allegato II, parte A, lett. a)], una determinata concentrazione di nitrati [allegato II, parte A, lett. b)] e la necessità di un trattamento complementare al fine di conformarsi alle prescrizioni delle direttive del Consiglio [allegato II, parte A, lett. c)].

27     Il n. 2 del detto art. 5 precisa che gli Stati membri provvedono affinché le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico in aree sensibili, ad un trattamento più spinto di quello descritto all’articolo 4 al più tardi entro il 31 dicembre 1998 per tutti gli scarichi provenienti da agglomerati con oltre 10 000 abitanti equivalenti (in prosieguo: «a.e.»).

 La normativa nazionale

28     In Spagna le autorità competenti in materia di trattamento delle acque reflue sono le autorità municipali. Tuttavia lo Stato è competente, per il tramite delle Confederaciones Hidrográficas (confederazioni idrografiche; enti pubblici incaricati della gestione delle acque interne), in materia di autorizzazioni allo scarico e al riutilizzo delle acque reflue depurate.

29     Il regio decreto legislativo 28 dicembre 1995, n. 11, che stabilisce le norme in materia di trattamento delle acque reflue urbane (BOE 30 dicembre 1995), è stato attuato con il regio decreto 15 marzo 1996, n. 509 (BOE 29 marzo 1996), parzialmente modificato dal regio decreto 2 ottobre 1998, n. 2116 (BOE 20 ottobre 1998).

 La normativa relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole

 La normativa comunitaria

30     L’art. 3, n. 1, della direttiva 91/676 dispone che «[l]e acque inquinate e quelle che potrebbero essere inquinate se non si interviene ai sensi dell’articolo 5 sono individuate dagli Stati membri conformemente ai criteri di cui all’allegato I».

31     Il n. 2 del detto art. 3 stabilisce che, entro un periodo di due anni a decorrere dalla notifica della direttiva 91/676, avvenuta il 19 dicembre 1991, «gli Stati membri designano come zone vulnerabili tutte le zone note del loro territorio che scaricano nelle acque individuate in conformità del paragrafo 1 e che concorrono all’inquinamento. Essi notificano tale prima designazione alla Commissione entro sei mesi».

32     In conformità al n. 4 dello stesso articolo, «[g]li Stati membri riesaminano e, se necessario, opportunamente rivedono o completano le designazioni di zone vulnerabili almeno ogni quattro anni, per tener conto di cambiamenti e fattori imprevisti al momento della precedente designazione. Entro sei mesi essi notificano alla Commissione ogni revisione o aggiunta concernente le designazioni».

33     L’art. 4 della direttiva 91/676 dispone tra l’altro, per tutti i tipi di acque e al fine di stabilire un livello generale di protezione dall’inquinamento, che gli Stati membri provvedono, entro due anni dalla notifica di tale direttiva, a fissare un codice o più codici di buona pratica agricola applicabili a discrezione degli agricoltori.

34     A norma dell’art. 5 della stessa direttiva, gli Stati membri fissano programmi d’azione per quanto riguarda le zone vulnerabili designate. Tali programmi contengono misure obbligatorie, tra le quali figurano in particolare le misure prescritte nel codice o nei codici di buona pratica agricola nonché le misure di cui all’allegato III della direttiva 91/676. Le misure di cui tratta quest’ultimo allegato riguardano segnatamente i periodi in cui è proibita l’applicazione al terreno di determinati tipi di fertilizzanti, la capacità dei depositi per effluenti di allevamento, le procedure di applicazione al terreno ed il quantitativo massimo di effluente di allevamento contenente azoto che può essere sparso.

 La normativa nazionale

35     Il Regno di Spagna ha recepito nel suo ordinamento giuridico la direttiva 91/676 mediante il regio decreto 16 febbraio 1996, n. 261 (BOE 16 febbraio 1996).

36     La Giunta dell’Andalusia, con decreto 15 dicembre 1998, n. 261, ha designato le zone vulnerabili all’inquinamento delle acque provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole nel territorio della Comunità autonoma dell’Andalusia. Tale decreto non include la Rambla de Mojácar.

 Il procedimento precontenzioso

37     Lo stabilimento per l’allevamento di suini sito in località detta «El Pago de la Media Legua», nel territorio del comune di Vera (provincia d’Almería) e sulla strada che collega tale comune al comune di Garrucha, vicino al fiume Antas, è in attività dal 1976.

38     Nel 2000 alla Commissione è stata presentata una denuncia, registrata con il n.  2000/4044, relativa al funzionamento di tale allevamento. Essa, con lettera 6 aprile 2000, ha chiesto alle autorità spagnole, da una parte, di presentare le loro osservazioni sui fatti denunciati, ossia gli scarichi non controllati nell’ambiente di rifiuti provenienti dallo stabilimento in questione e, dall’altra, di fornirle informazioni sulle condizioni di applicazione delle varie normative comunitarie pertinenti.

39     Con lettera 24 agosto 2000, le autorità spagnole hanno risposto che la direttiva 75/442 non era necessariamente applicabile al colaticcio proveniente da allevamenti, dato che l’utilizzo di tale colaticcio come fertilizzante nei dintorni dell’allevamento poteva farlo escludere dalla qualifica di rifiuto ai sensi della detta direttiva. Quanto all’applicazione della direttiva 85/337, tali autorità hanno sottolineato che «la legge n. 7/1994 prevedeva che tutte le aziende suinicole, a prescindere dalla loro ubicazione, fossero soggette a misure di protezione dell’ambiente». Nella stessa lettera si indicava che l’allevamento controverso non disponeva ancora dell’autorizzazione municipale e che, fin dal maggio 1999, le autorità locali avevano richiesto al proprietario dell’allevamento, fino a quel momento senza successo, i documenti per redigere una relazione ambientale, necessaria per la concessione dell’autorizzazione. Le autorità spagnole hanno inoltre affermato che il colaticcio non conteneva sostanze pericolose e che quindi la direttiva 80/68 non era applicabile, né lo era la direttiva 91/271, in mancanza di una denuncia relativa a scarichi che potessero colpire la laguna costiera. Per quanto riguarda, infine, la direttiva 91/676, le dette autorità hanno sostenuto che né tale direttiva né il decreto n. 261/1996 consentivano di ritenere che la zona in questione fosse vulnerabile, dato che l’ente competente non aveva concluso per l’esistenza di nitrati, ma solamente proposto l’inclusione di tale zona nel programma di sorveglianza di tutta la zona costiera della provincia di Almería.

40     Nell’ottobre 2000 le autorità spagnole hanno trasmesso alla Commissione vari documenti, tra cui una relazione del 5 luglio 2000 sulla situazione dell’azienda in esame, realizzata dalla società Tecnoma su richiesta della Confederación Hidrográfica del Sur (confederazione idrografica per il sud), nonché documenti relativi alla procedura da seguire per il rilascio dell’autorizzazione allo scarico dei rifiuti dell’azienda, recanti le date 14 agosto 1998 e 2 luglio 1999.

41     Dopo aver ricevuto, nel settembre 2000, nuove informazioni sulla situazione dell’azienda in questione da parte dei denuncianti, e ritenendo che nel caso di specie le autorità spagnole avessero violato le direttive 75/442, 85/337, anche nella versione iniziale, 80/68, 91/271 e 91/676, il 18 gennaio 2001 la Commissione ha inviato al Regno di Spagna una lettera di diffida.

42     In occasione di una riunione bilaterale con i servizi della Commissione tenutasi il 21 e il 22 maggio 2001, le autorità spagnole hanno informato la Commissione che, a seguito di un’ispezione, il 18 aprile 2001 esse avevano emanato un parere sfavorevole all’autorizzazione dell’azienda in questione e avevano richiesto al comune di Vera di adottare i provvedimenti necessari alla chiusura di tale azienda, in mancanza dei quali avrebbe potuto intervenire la stessa Giunta dell’Andalusia.

43     Con lettera 20 giugno 2001 le autorità spagnole hanno risposto alla lettera di diffida. Esse hanno ribadito di ritenere inapplicabile la direttiva 85/337 ed hanno precisato, per quanto riguarda la direttiva 85/337, che era stata redatta una relazione ambientale sfavorevole all’ampliamento dell’azienda controversa e che esse avevano preteso dalle competenti autorità locali che adottassero provvedimenti per chiudere tale azienda. Per quanto concerne la direttiva 80/68, esse hanno affermato che le acque sotterranee asseritamente affette coincidevano con una precisa zona della falda acquifera di utilità limitata, molto vicina alla costa e che non era affatto destinata ad un uso per il quale è rilevante la qualità, di modo che tale zona era stata studiata meno, anche se la Comisaría de Aguas del Sur (autorità responsabile della gestione delle acque nel sud del paese) era stata informata della necessità di realizzare uno studio idrogeologico per valutare i rischi di eventuali future alterazioni della qualità delle acque. Per quanto riguarda la direttiva 91/271, le autorità spagnole hanno riconosciuto che essa era stata trasgredita, ma che l’inquinamento della laguna costiera dell’Antas non era dovuto all’azienda suinicola, bensì allo scarico delle acque reflue della popolazione del comune di Vera. Per quanto attiene alla direttiva 91/676, le stesse autorità hanno ritenuto che essa fosse rispettata, pur indicando che uno studio generale dell’inquinamento da nitrati a livello nazionale potrebbe consentire, se del caso, di designare nuove zone vulnerabili.

44     Ritenendo che tali risposte rimanessero insoddisfacenti, la Commissione, con lettera 26 luglio 2001, ha inviato al Regno di Spagna un parere motivato, intimandogli di adottare le misure necessarie per conformarsi ai suoi obblighi entro due mesi a decorrere dalla notifica di tale parere.

45     Con lettera 4 ottobre 2001 le autorità spagnole hanno trasmesso alla Commissione una relazione redatta dalla Giunta dell’Andalusia, comunicando che l’8 agosto 2001 era stato avviato un procedimento di sanzione a carico dell’azienda in questione.

46     La Commissione, ritenendo che il Regno di Spagna non avesse ancora adottato i provvedimenti necessari per conformarsi ai suoi obblighi, ha proposto il ricorso in esame.

47     Il Regno di Spagna chiede che il detto ricorso sia respinto e che la Commissione sia condannata alle spese.

48     Con ordinanza 5 maggio 2003 del presidente della Corte, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord è stato ammesso ad intervenire a sostegno delle conclusioni della Commissione, in particolare per quanto riguarda gli artt. 4, 9 e 13 della direttiva 75/442.

 Sul ricorso

49     Ai fini dell’esame del presente ricorso occorre innanzi tutto analizzare le censure vertenti sulla violazione delle direttive 91/271 e 91/676, che riguardano l’insieme della zona geografica in cui è ubicato l’allevamento in questione, poi le censure relative alla violazione della direttiva 85/337, anche nella sua versione iniziale, con cui la Commissione mette in discussione le condizioni nelle quali sono stati realizzati la costruzione e l’ampliamento di tale allevamento e, infine, le censure relative al fatto che le carogne ed il colaticcio provenienti dal detto stabilimento siano scaricati nell’ambiente in violazione delle direttive 75/442 e 80/68.

 Sulla direttiva 91/271

50     Con la censura vertente sulla violazione della direttiva 91/271, la Commissione fa valere la violazione di tale direttiva per due motivi. Essa afferma, da una parte, che il fiume Antas avrebbe dovuto essere interamente incluso nelle aree sensibili individuate dalla Comunità autonoma di Andalusia in applicazione dell’art. 5, n. 1, della detta direttiva e, dall’altra, che le acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera avrebbero di conseguenza dovuto essere oggetto di un trattamento più rigoroso del trattamento secondario di cui al n. 2 dello stesso articolo.

51     Per quanto riguarda la prima parte della censura, vertente sulla designazione del fiume Antas quale area sensibile, occorre in primo luogo ricordare che, nella sentenza 15 maggio 2003, causa C‑419/01, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑4947), la Corte ha già dichiarato che, non avendo proceduto all’individuazione di varie aree sensibili del suo territorio, il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 5 della direttiva 91/271. Nel corso del procedimento che ha dato origine a tale sentenza, come emerge dai suoi punti 14 e 20, la Commissione aveva riconosciuto che la Comunità autonoma di Andalusia aveva designato le aree sensibili che la riguardano, ne aveva pubblicato i nomi nel suo bollettino ufficiale e ne aveva informato la Commissione; inoltre, il governo spagnolo aveva rilevato che la Commissione aveva riconosciuto che tale Comunità autonoma, in particolare, aveva designato le aree sensibili situate nelle sue acque costiere. Di conseguenza, l’inadempimento constatato all’epoca dalla Corte, al punto 23 della detta sentenza, verteva sulla mancata designazione delle aree sensibili rientranti nella sfera di competenza di altre Comunità autonome, ad esclusione, in particolare, delle aree sensibili appartenenti alla Comunità autonoma d’Andalusia.

52     Tuttavia, il fatto che nella citata sentenza Commissione/Spagna la Corte abbia dichiarato che la carenza nella designazione delle aree sensibili non riguardava la Comunità autonoma di Andalusia non osta all’esame della censura vertente sulla violazione della direttiva 91/271. Tale censura è infatti fondata su elementi di cui la Commissione non era a conoscenza all’epoca della fase precontenziosa del procedimento che precedette il ricorso alla Corte in questa causa, elementi provenienti da una relazione redatta per conto della Commissione dalla società ERM nel gennaio 2000, in data posteriore a quella del parere motivato nella stessa causa. Quindi la Commissione, in base a tale relazione sul controllo delle aree sensibili e vulnerabili in Spagna, poteva benissimo rilevare che sussistevano talune carenze nell’attuazione della direttiva 91/271 ed avviare, su tale base, una nuova azione per inadempimento.

53     In secondo luogo, dalla detta relazione – di cui il governo spagnolo, sotto questo profilo, non ha contestato il contenuto – si evince che le acque del fiume Antas sono soggette ad eutrofizzazione, presentano un elevato tenore di nitrati e, tenuto conto della vicinanza di alberghi e centri turistici, ricevono notevoli quantitativi di nutrienti. Orbene, tali criteri si annoverano tra quelli che, in forza dell’allegato II della direttiva 91/271, gli Stati membri devono prendere in considerazione per procedere all’individuazione delle aree sensibili. Peraltro, la Commissione ha indicato, senza che il governo spagnolo contestasse tale affermazione, che le autorità spagnole hanno proposto di designare il detto fiume quale sito di importanza comunitaria nella rete Natura 2000, considerata la presenza di tartarughe «testudo graeca» nelle sue acque. Ora, siffatto elemento, pur se non menzionato tra i criteri riportati al detto allegato II, rappresenta un’ulteriore prova del particolare interesse alla tutela dell’ambiente idrico in questione dallo scarico di acque reflue urbane trattate in modo insufficiente.

54     Il governo spagnolo replica che la Rambla del fiume Antas non è costituita da acque libere naturali, bensì da correnti sotterranee che non potrebbero, in mancanza di luce, essere soggette a sviluppo di alghe e quindi a eutrofizzazione. Tuttavia, anche se si considerasse esatta tale affermazione, essa non osterebbe all’individuazione di tale area quale area sensibile ai sensi della direttiva 91/271. Infatti, da una parte, l’allegato II di tale direttiva dispone che le aree sensibili possono essere costituite da un «sistema idrico» e non richiede quindi che l’ambiente idrico sia costituito da acque libere. Dall’altra, lo stesso allegato menziona altri criteri, oltre a quello dell’eutrofizzazione, segnatamente l’elevata concentrazione di nitrati, per determinare se un’area vada considerata sensibile.

55     Il fiume Antas doveva quindi essere interamente individuato quale area sensibile dalle autorità spagnole.

56     Pertanto la prima parte della censura è fondata.

57     Per quanto riguarda la seconda parte della censura, vertente sul requisito di un trattamento più rigoroso del trattamento secondario, come previsto dall’art. 5, n. 2, della direttiva 91/271, di cui dovrebbero formare oggetto le acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera, occorre rilevare che, da un lato, il governo spagnolo non contesta il fatto che tali acque subiscano solo un trattamento primario.

58     Dall’altro, dai dati prodotti dalla Commissione nella replica si evince che, contrariamente a quanto sostiene il governo spagnolo, considerata la popolazione permanente del comune di Vera – stimata nell’ordine di circa 8 000 abitanti – e il notevole afflusso turistico estivo che interessa la regione in esame, il detto agglomerato presenta un a.e. superiore a 10 000. Dato che le acque reflue urbane di tale agglomerato sono scaricate in un’area che, come detto, avrebbe dovuto essere individuata quale area sensibile, le autorità spagnole dovevano provvedere affinché tali acque, prima di essere scaricate nella detta area, fossero sottoposte, prima del 31 dicembre 1998, ad un trattamento più rigoroso di quello descritto all’art. 4 della direttiva 91/271, ossia ad un trattamento più rigoroso di un trattamento secondario.

59     L’argomento del governo spagnolo vertente sul fatto che il termine fissato dalla direttiva 91/271 per gli agglomerati con un numero di a.e. compreso tra 2 000 e 15 000 scade solo il 31 dicembre 2005 non può essere accolto, anche se si ritenesse che l’agglomerato di Vera rientri in tale categoria. L’art. 3, nn. 1 e 2, della detta direttiva fissa infatti tale termine per la realizzazione di reti fognarie e per l’attuazione di un trattamento secondario solo per gli scarichi di acque reflue urbane di tale categoria di agglomerati effettuati fuori dalle aree sensibili. Il detto termine non è quindi in nessun caso applicabile agli scarichi di acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera.

60     Quanto alla circostanza, fatta valere dal governo spagnolo, che la società che gestisce l’impianto di trattamento non avrebbe fornito talune informazioni vertenti su uno studio analitico delle acque reflue in esame, essa non rimette in discussione la constatazione che tali acque non sono sottoposte al trattamento prescritto dalla direttiva 91/271. D’altronde il governo spagnolo, avendo indicato, nella controreplica, che l’impianto di trattamento del comune di Vera, costruito nel 1993, sarebbe stato concepito per essere in grado di soddisfare adeguatamente, nel 2011, i requisiti della normativa in materia di scarichi nelle aree sensibili, ha ammesso che tali requisiti non erano soddisfatti alla data fissata nel parere motivato.

61     Pertanto, la seconda parte della censura è fondata. Le conclusioni del ricorso fondate sulla violazione della direttiva 91/271 devono quindi essere accolte.

 Sulla direttiva 91/676

62     Il governo spagnolo sostiene che la censura vertente sulla violazione della direttiva 91/676 è irricevibile sotto due profili. Da una parte, tale censura non sarebbe stata menzionata nel parere motivato e la Commissione non potrebbe quindi sollevarla per la prima volta dinanzi alla Corte. Dall’altra, la Commissione avrebbe già avviato, con il n.  2002/2009, un altro procedimento d’infrazione per inadempimento della detta direttiva, inviando al Regno di Spagna una lettera di diffida riguardante anche la Rambla de Mojácar. Orbene, il principio ne bis in idem, che sarebbe applicabile ai procedimenti per inadempimento, vieterebbe che due azioni per inadempimento vengano avviate contro uno Stato per la stessa infrazione del diritto comunitario.

63     Per quanto concerne il primo punto, l’argomento del governo spagnolo può solo essere respinto. Dall’insieme degli atti del fascicolo, in particolare dalla lettera di diffida e dal parere motivato inviati al detto Stato membro, risulta infatti che la violazione della direttiva 91/676 costituisce una delle censure che la Commissione ha fatto valere fin dalla fase precontenziosa del procedimento. L’oggetto della controversia è stato così chiaramente circoscritto ed il governo spagnolo è stato messo in condizione di presentare le sue osservazioni e di preparare la propria difesa (v., in questo senso, sentenza 15 dicembre 1982, causa 211/81, Commissione/Danimarca, Racc. pag. 4547, punti 8 e 9). Tale censura figurava quindi nel parere motivato, pur non essendo espressamente menzionata nella parte finale del detto parere, ed è stata presentata in termini analoghi ed abbastanza precisi nel ricorso (v., in questo senso, sentenza Commissione/Danimarca, cit., punti 14 e 15).

64     La censura, quindi, non è irricevibile dopo questa prima analisi.

65     Quanto al secondo punto, anche ritenendo che il principio ne bis in idem si applichi ai procedimenti per inadempimento, è sufficiente constatare che, nella causa in esame, tale circostanza non influisce sulla ricevibilità della censura. Infatti, se la Corte dichiarasse fondata tale censura, l’unica conseguenza dell’argomento del governo spagnolo sarebbe che la Commissione dovrebbe eventualmente rinunciare al procedimento per inadempimento avviato con il n. 2002/2009, nella parte in cui tale procedimento riguarda la designazione della Rambla de Mojácar quale area vulnerabile.

66     Pertanto la censura non è irricevibile dopo questa seconda analisi.

67     Nel merito, la Commissione sostiene a buon diritto che le autorità spagnole, dichiarando la laguna del fiume Antas area sensibile ai fini della direttiva 91/271, hanno riconosciuto lo stato di eutrofizzazione delle acque della regione in questione ed il loro alto contenuto di nitrati, come rivelava la relazione della società ERM relativa al controllo delle aree sensibili e vulnerabili in Spagna. D’altronde, nel controricorso il governo spagnolo ammette che il contenuto di nitrati di tali acque, che costituisce uno dei criteri di designazione delle aree vulnerabili di cui all’allegato 1 della direttiva 91/676, è superiore a 50 mg per litro.

68     Per giustificare la mancata designazione della Rambla de Mojácar quale area vulnerabile, il governo spagnolo afferma che il criterio per la designazione stabilito dall’art. 1 della detta direttiva, relativo al fatto che la presenza di nitrati dovrebbe provenire dall’attività agricola, non è soddisfatto.

69     Questo argomento non può però essere accolto. Come la Corte ha già dichiarato, infatti, affinché talune acque siano considerate «inquinate», ai sensi, in particolare, dell’art. 3, n. 1, della direttiva 91/676, e sia obbligatoria la loro designazione come zone vulnerabili, in applicazione dell’art. 3, n. 2, della detta direttiva, non è necessario che i composti azotati di origine agricola contribuiscano in modo esclusivo all’inquinamento, ma basta che essi vi contribuiscano significativamente (v., in questo senso, sentenza 29 aprile 1999, causa C‑293/97, Standley e a., Racc. pag. I‑2603, punti 30 e 35).

70     Nella controreplica, il governo spagnolo afferma che la designazione della Rambla de Mojácar quale area vulnerabile non presenterebbe alcun interesse nel contesto della causa in esame, dato che tale area formerebbe un settore idrogeologico diverso da quello della Rambla del fiume Antas, che è l’unico interessato da questo ricorso. Tuttavia tale argomento non è fondato. La mancata designazione della Rambla de Mojácar quale area vulnerabile ai sensi della direttiva 91/676 è infatti fatta valere dalla Commissione quale censura distinta da quella vertente sulla mancata individuazione della Rambla del fiume Antas quale area sensibile a norma della direttiva 91/271. Contrariamente a quanto sostiene il governo spagnolo, il ricorso non verte solo sulla Rambla del fiume Antas. Per lo stesso motivo, l’argomento del governo spagnolo secondo cui i dati tratti da una pubblicazione dell’Instituto Geológico y Minero de España riguarderebbero l’unità idrogeologica del Bajo Almanzora, che non corrisponderebbe all’area considerata nel procedimento d’infrazione, deve essere respinto.

71     Quanto all’obiezione del governo spagnolo relativa al fatto che i dati contenuti nella relazione predisposta dalla società ERM non presenterebbero lo stesso grado di affidabilità di quelli raccolti per conto della Giunta dell’Andalusia, essa non è idonea a dimostrare che l’inquinamento da nitrati non è dovuto all’attività agricola.

72     Infine, il governo spagnolo sostiene inutilmente che, se si dividono gli apporti di fertilizzanti per la superficie dei terreni sui quali viene applicato il colaticcio, il contenuto di nitrati è nettamente inferiore a 170 kg per ettaro, soglia stabilita dall’allegato III, n. 2, della direttiva 91/676. La censura non verte, infatti, sulla circostanza che l’azienda suinicola in questione applica il colaticcio in violazione della direttiva 91/676, bensì sul fatto che il Regno di Spagna non ha designato la Rambla de Mojácar quale area vulnerabile. Pertanto questo argomento del governo spagnolo è inconferente e deve essere respinto.

73     Ebbene, nella fattispecie, per quel che riguarda l’unità idrogeologica 06.06 (Bajo Almanzora), il governo spagnolo non ha addotto alcun dato preciso che consenta di rimettere in discussione l’asserzione della Commissione secondo cui l’apporto delle fonti agricole all’inquinamento da nitrati è significativo.

74     Da quanto precede risulta che la censura vertente sulla violazione della direttiva 91/676 è fondata.

 Sulla direttiva 85/337

75     La Commissione rileva che l’azienda suinicola non è stata assoggettata, prima della sua costruzione, anteriore al 14 marzo 1999, data limite per il recepimento della direttiva 85/337, o prima del suo ampliamento, che sarebbe successivo a tale data, a valutazione del suo impatto ambientale, in violazione degli artt. 2 e 4, n. 2, della direttiva 85/337, anche nella sua versione iniziale.

76     Il governo spagnolo sostiene che la Commissione non ha precisato se l’inadempimento riguardava l’una o l’altra versione di tale direttiva e che, di conseguenza, la censura è irricevibile. In subordine, esso ritiene che tale censura sia infondata. Nella replica, la Commissione ha indicato che l’azienda in questione è stata creata prima dell’entrata in vigore della direttiva 85/337 e che quindi tale direttiva, nella versione iniziale, è l’unica applicabile alla fattispecie.

77     A tale riguardo, in primo luogo, occorre rilevare che tale azienda suinicola è stata creata nel 1976 e che la Commissione non ha contestato questo dato. Orbene, in tale periodo nessuna disposizione di diritto comunitario obbligava le autorità spagnole a valutare l’impatto ambientale della detta azienda. Il termine per il recepimento della direttiva 85/337, nella versione iniziale, è scaduto il 3 luglio 1988 e la Corte ha statuito che tale direttiva non poteva obbligare gli Stati membri ad effettuare valutazioni dell’impatto ambientale di progetti, anche assoggettati ad autorizzazione, ma realizzati prima di tale data (v., in questo senso, sentenza 11 agosto 1995, causa, C‑431/92, Commissione/Germania, Racc. pag. I‑2189, punto 32, per quanto riguarda progetti la cui domanda di autorizzazione è stata presentata dopo il 3 luglio 1988).

78     In secondo luogo, dagli atti di causa risulta che, dopo il 14 marzo 1999, data di scadenza del termine per il recepimento della direttiva 85/337, l’allevamento in questione è stato oggetto di una nuova procedura di autorizzazione, a norma della legge n. 7/1994. Tale legge prevede che la concessione dell’autorizzazione agli allevamenti di suini con più di 100 scrofe da allevamento e 500 suini da ingrasso – categoria cui appartiene il detto allevamento, che consta di circa 2 800 capi – è subordinata alla realizzazione di una relazione sulla valutazione ambientale.

79     Orbene, la Commissione non ha dimostrato in che modo le autorità spagnole, nello svolgimento di tale nuova procedura di autorizzazione e prima del 26 settembre 2001, data di scadenza del termine fissato nel parere motivato, avrebbero violato la direttiva 85/337.

80     Le autorità spagnole si sono infatti conformate alla regola in base alla quale la valutazione ambientale è d’obbligo, anche per progetti realizzati prima della scadenza del termine per il recepimento della direttiva 85/337, se tali progetti sono stati autorizzati senza essere stati preceduti da siffatta valutazione e sono oggetto di un nuovo procedimento di autorizzazione avviato dopo tale data (v., in questo senso, per quanto riguarda la direttiva 85/337 nella versione iniziale, sentenza 18 giugno 1998, causa C‑81/96, Gedeputeerde Staten van Noord-Holland, Racc. pag. I‑3923, punti 23 e 25, a proposito di progetti autorizzati prima del 3 luglio 1988 ma non preceduti da una valutazione ambientale e oggetto di un nuovo procedimento di autorizzazione avviato dopo quest’ultima data).

81     Da un lato, dai documenti versati nel fascicolo emerge che le autorità spagnole, a norma della legge n. 7/1994 – la cui conformità alla direttiva 85/337 non è contestata dalla Commissione –, hanno avviato un procedimento di valutazione ambientale che consente di verificare se l’allevamento in questione poteva essere autorizzato e se la sua situazione amministrativa poteva eventualmente essere sanata. Nel maggio 1999, le dette autorità hanno infatti chiesto al proprietario di tale allevamento gli elementi per predisporre una relazione ambientale. Tale relazione è stata redatta nel luglio 2000 dalla società Tecnoma, su richiesta della Confederación Hidrográfica del Sur, e trasmessa alla Commissione nell’ottobre 2000.

82     Dall’altro, le autorità spagnole hanno proceduto ad un’ispezione dell’allevamento in questione e hanno deciso, visto il risultato negativo di tale ispezione, che non era possibile autorizzare il detto stabilimento. Il 18 aprile 2001 le stesse autorità hanno quindi emesso un parere sfavorevole alla concessione dell’autorizzazione a tale allevamento e hanno chiesto al comune di Vera di adottare i provvedimenti necessari per chiuderlo. Infine, l’8 agosto 2001 è stata avviata una procedura di sanzione a carico della persona che dirige lo stabilimento in esame.

83     Pertanto, le autorità spagnole hanno attuato correttamente l’obbligo di valutazione ambientale previsto dalla legge n. 7/1994. Di conseguenza, l’inadempimento del diritto comunitario lamentato dalla Commissione a tale riguardo non è fondato.

84     Da quanto precede risulta che la censura vertente sul fatto che il Regno di Spagna avrebbe violato gli artt. 2 e 4, n. 2, della direttiva 85/337, anche nella sua versione iniziale, deve essere respinta senza che sia necessario esaminare l’eccezione di irricevibilità sollevata dal governo spagnolo.

 Sulla direttiva 75/442

85     La Commissione sostiene che l’azienda in questione produce rifiuti in grande quantità, in particolare colaticcio e carogne, e che tali rifiuti, in mancanza di una normativa comunitaria specifica relativa alla loro gestione, sono disciplinati dalla direttiva 75/442. Ebbene, tale azienda opererebbe senza l’autorizzazione richiesta ai sensi dell’art. 9 di tale direttiva e i detti rifiuti, come riconosciuto dalle stesse autorità spagnole, verrebbero scaricati senza controlli sui terreni vicini, in spregio agli obblighi in materia di ricupero o smaltimento oggetto dell’art. 4 della stessa direttiva. Infine, la detta azienda non sarebbe stata oggetto di alcun adeguato controllo periodico da parte delle competenti autorità, in violazione dell’art. 13 della detta direttiva.

86     A tale riguardo occorre ricordare che l’ambito di applicazione della nozione di «rifiuto», ai sensi della direttiva 75/442, dipende dal significato del termine «disfarsi», di cui all’art. 1, lett. a), primo comma, della detta direttiva (v. sentenza 18 dicembre 1997, causa C‑129/96, Inter‑Environnement Wallonie, Racc. pag. I‑7411, punto 26).

87     In determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Non vi è, in tal caso, alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni della detta direttiva, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che, dal punto di vista economico, hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti, a condizione che tale riutilizzo non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione (v. sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I‑3533, punti 34-36).

88     La Corte ha così giudicato che detriti o sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera sfuggono alla qualifica di rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 quando il detentore li utilizzi legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie sufficienti sull’identificazione e sull’utilizzazione effettiva di queste sostanze (v., in questo senso, sentenza 11 settembre 2003, causa C‑114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I‑8725, punto 43). La Corte ha anche dichiarato che non costituisce un rifiuto ai sensi della detta direttiva il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie (ordinanza 15 gennaio 2004, causa C‑235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I‑1005, punto 47).

89     Come afferma giustamente il governo del Regno Unito nella sua memoria di intervento, gli effluenti di allevamento possono, alle medesime condizioni, sfuggire alla qualifica di rifiuti, se vengono utilizzati come fertilizzanti dei terreni nell’ambito di una pratica legale di spargimento su terreni ben individuati e se lo stoccaggio del quale sono oggetto è limitato alle esigenze di queste operazioni di spargimento.

90     Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non occorre limitare quest’analisi agli effluenti d’allevamento utilizzati come fertilizzanti sui terreni che appartengono allo stesso stabilimento agricolo che li ha prodotti. Infatti, come la Corte ha già giudicato, una sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta (v., in questo senso, ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 47).

91     Per contro, l’analisi che permette di considerare, in determinate situazioni, che un residuo di produzione non è un rifiuto ma un sottoprodotto o una materia prima riutilizzabile nella continuità del processo di produzione non può essere applicata alle carogne di animali da allevamento qualora questi animali siano morti nell’allevamento e non siano stati abbattuti ai fini del consumo umano.

92     Queste carogne non possono, infatti, per norma generale, essere riutilizzate ai fini dell’alimentazione umana. Esse sono considerate dalla normativa comunitaria, in particolare dalla direttiva del Consiglio 27 novembre 1990, 90/667/CEE, che stabilisce le norme sanitarie per l’eliminazione, la trasformazione e l’immissione sul mercato dei rifiuti di origine animale e la protezione dagli agenti patogeni degli alimenti per animali di origine animale o a base di pesce e che modifica la direttiva 90/425/CEE [(GU L 363, pag. 51); la direttiva 90/667 è stata abrogata, dopo la data fissata nel parere motivato, dall’art. 37 del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 3 ottobre 2002, n. 1774, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (GU L 273, pag. 1)], come «rifiuti di origine animale» e, inoltre, come rifiuti che rientrano nella categoria dei «materiali ad alto rischio», che devono essere trasformati presso impianti riconosciuti dagli Stati membri o eliminati mediante incinerazione o sotterramento. La stessa direttiva 90/667 prevede che tali materiali possano essere utilizzati per l’alimentazione di animali che non sono destinati al consumo umano, ma soltanto in virtù di autorizzazioni rilasciate dagli Stati membri e sotto la vigilanza veterinaria delle autorità competenti.

93     In nessun caso le carogne di animali morti nell’azienda in questione possono pertanto essere utilizzate in condizioni che permetterebbero di sottrarle alla qualifica di rifiuti ai sensi della direttiva 75/442. Il detentore di tali carogne ha certamente l’obbligo di disfarsene, con la conseguenza che tali materiali vanno considerati rifiuti.

94     Nella fattispecie, per quanto riguarda, in primo luogo, il colaticcio prodotto dall’allevamento, dai documenti del fascicolo risulta che tale colaticcio viene utilizzato come fertilizzante agricolo e applicato a tal fine a terreni ben individuati. Esso viene immagazzinato in una fossa in attesa dello spandimento. La persona che dirige lo stabilimento in esame non cerca quindi di disfarsene, cosicché tale colaticcio non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442.

95     La circostanza che nel catalogo europeo dei rifiuti, tra i «rifiuti provenienti da produzione (…) in agricoltura», compaiano le «feci animali, urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito», non è tale da porre nuovamente in dubbio questa conclusione. Tale menzione generica degli effluenti d’allevamento non prende infatti in considerazione le condizioni in cui i detti effluenti vengono utilizzati e che sono determinanti ai fini dell’analisi della nozione di rifiuto. D’altra parte, la nota introduttiva che compare nell’allegato del catalogo europeo dei rifiuti specifica che esso non è «esaustivo» e che «un materiale figurante nel catalogo non è in tutte le circostanze un rifiuto», «ma solo quando esso soddisfa la definizione di rifiuto».

96     Per quanto riguarda l’argomento della Commissione secondo cui il codice di buone pratiche agricole adottato dalla Giunta dell’Andalusia nella fattispecie non sarebbe rispettato, come non lo sarebbero i quantitativi massimi per lo spandimento fissati all’allegato III della direttiva 91/676, esso non influisce sulla qualificazione del colaticcio alla luce della direttiva 75/442. Il fatto che le pratiche di spandimento per quanto riguarda l’allevamento in questione non siano del tutto conformi a tale codice di buone pratiche agricole e alla direttiva 91/676 potrebbe configurare un inadempimento degli obblighi derivanti da quest’ultima direttiva, ma non dimostra che il colaticcio sia scaricato senza controlli nell’ambiente a condizioni che consentano di considerarlo un rifiuto.

97     Dato che la Commissione non ha fatto valere la violazione della direttiva 91/676 sotto questo profilo, ma si è limitata a lamentare un inadempimento della direttiva 75/442, la censura relativa alla violazione di quest’ultima deve essere respinta nella parte in cui si riferisce al colaticcio.

98     Per quanto riguarda, in secondo luogo, le carogne di cui è stata accertata la presenza nell’allevamento in esame e che devono essere considerate rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come indicato al punto 94 della presente sentenza, il governo spagnolo sostiene nondimeno che tali carogne sarebbero «già coperte da un’altra normativa» e sarebbero pertanto escluse dall’ambito di applicazione di tale direttiva, in conformità all’art. 2, n. 1, lett. b), sub iii), della medesima.

99     La Corte ha già giudicato che tale nozione di «altra normativa» può comprendere sia una normativa comunitaria, sia una normativa nazionale che contempli una categoria di rifiuti menzionata all’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva 75/442, a condizione che tale normativa, nazionale o comunitaria, riguardi la gestione dei detti rifiuti in quanto tali e porti ad un livello di protezione dell’ambiente almeno equivalente a quello previsto dalla detta direttiva (v. sentenza AvestaPolarit Chrome, cit., punto 61).

100   Orbene, senza che sia necessario pronunciarsi, in questa causa, sulle critiche mosse dalla Commissione in sede di udienza nei confronti della citata sentenza AvestaPolarit Chrome, si può osservare che, per quanto riguarda le carogne in esame, il legislatore comunitario ha adottato un’«altra normativa» comunitaria diversa dalla direttiva 75/442, ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. b), di tale direttiva.

101   La direttiva 90/667 riguarda infatti, in particolare, la gestione di tali carogne come rifiuti. Essa fissa norme precise applicabili alla detta categoria di rifiuti, prescrivendo in particolare che essi siano sottoposti a trasformazione presso stabilimenti riconosciuti o eliminati mediante incinerazione o sotterramento. Essa definisce, ad esempio, le ipotesi in cui tali rifiuti, se non possono essere trasformati, devono essere inceneriti o sotterrati. Precisa così, all’art. 3, n. 2, che tali rifiuti possono essere inceneriti o sotterrati, in particolare, se «la quantità e la distanza non giustifichino la raccolta dei rifiuti» e che «[q]ueste carogne o rifiuti devono essere sotterrati in un terreno adeguato per evitare contaminazioni delle falde freatiche o danni all’ambiente e ad una profondità sufficiente ad impedire a carnivori di accedervi. Prima del sotterramento, i rifiuti o le carogne devono essere cosparsi, se necessario, con un opportuno disinfettante autorizzato dall’autorità competente». La stessa direttiva stabilisce anche i controlli e le ispezioni che devono essere effettuati dagli Stati membri e dispone, all’art. 12, che esperti veterinari della Commissione possono, in determinati casi, eseguire ispezioni in loco, in collaborazione con le autorità nazionali. Il regolamento n. 1774/2002, adottato in seguito alla crisi sanitaria detta della «mucca pazza» ed entrato in vigore dopo la scadenza del termine fissato nel parere motivato, stabilisce prescrizioni ancora più precise in ordine al magazzinaggio, al trattamento e all’incenerimento dei rifiuti di origine animale.

102   Le disposizioni della direttiva 90/667 disciplinano l’impatto ambientale del trattamento delle carogne e, grazie al loro grado di precisione, impongono un livello di protezione dell’ambiente almeno equivalente a quello prescritto dalla direttiva 75/442. Esse costituiscono pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione nella sua replica, un’«altra normativa» che disciplina questa categoria di rifiuti e che permette di considerare che tale categoria è esclusa dall’ambito di applicazione della detta direttiva, senza che sia necessario valutare se anche la normativa nazionale invocata dal governo spagnolo sia costitutiva di simile «altra normativa».

103   La direttiva 75/442 non è dunque applicabile alle carogne in esame. Poiché la Commissione ha invocato soltanto l’inosservanza di tale direttiva, la censura deve essere respinta nella parte in cui verte sulle dette carogne.

104   Di conseguenza, tale censura deve essere interamente respinta.

 Sulla direttiva 80/68

105   Secondo la Commissione, dalla lettera 20 giugno 2001, con cui le autorità spagnole hanno risposto alla lettera di diffida, emerge che l’area occupata dell’azienda agricola in questione è inquinata da nitrati, sostanze che compaiono nell’elenco II, punto 3, della direttiva 80/68, e che tale area non è stata oggetto di uno studio idrogeologico preventivo, in violazione degli artt. 3, lett. b), 5, n. 1, e 7 della detta direttiva.

106   Tuttavia il governo spagnolo ha giustamente rilevato che l’utilizzo del colaticcio come fertilizzante è un’operazione che risponde nella maggioranza dei casi a corrette pratiche agricole piuttosto che un’«operazione di eliminazione o di deposito ai fini dell’eliminazione di dette sostanze», ai sensi dell’art. 5 della stessa direttiva.

107   Inoltre, il regime di protezione delle acque dall’inquinamento proveniente dagli effluenti d’allevamento non si basa sulla direttiva 80/68, bensì sulla direttiva 91/676, il cui oggetto è proprio quello di contrastare l’inquinamento idrico risultante dallo spandimento e dallo scarico di deiezioni del bestiame o dall’uso eccessivo di fertilizzanti e che contiene provvedimenti di gestione che gli Stati membri devono imporre agli agricoltori. Orbene, se si interpretasse l’art. 5 della direttiva 80/68 nel senso che gli Stati membri devono sottoporre a indagine preventiva, che implica, in particolare, uno studio idrogeologico dell’area interessata, l’utilizzo del colaticcio o, più in generale, degli effluenti d’allevamento, come fertilizzanti agricoli, il regime di tutela istituito dalla direttiva 80/68 si sostituirebbe in parte a quello della direttiva 91/676.

108   Le autorità spagnole non erano quindi tenute, in base alla direttiva 80/68, a sottoporre l’utilizzo agricolo del colaticcio proveniente dall’allevamento in esame alla procedura di autorizzazione prevista da tale direttiva né, di conseguenza, a realizzare uno studio idrogeologico nell’area interessata.

109   Pertanto, la censura vertente sulla violazione della direttiva 80/68 deve essere respinta.

110   Da tutto quanto precede risulta che il Regno di Spagna:

–       non avendo provveduto affinché le acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera fossero sottoposte al trattamento previsto dall’art. 5, n. 2, della direttiva del Consiglio 91/271, ossia ad un trattamento più rigoroso di quello descritto all’art. 4 di tale direttiva, e

–       non avendo designato come zona vulnerabile la Rambla de Mojácar, in violazione delle disposizioni dell’art. 3, nn. 1, 2 e 4, della direttiva 91/676,

è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza delle dette direttive.

111   Per il resto, il ricorso è respinto.

 Sulle spese

112   Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. In forza dell’art. 69, n. 3, dello stesso regolamento, se le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi, ovvero per motivi eccezionali, la Corte può ripartire le spese o decidere che ciascuna parte sopporti le proprie spese.

113   Nella presente controversia occorre tener conto del fatto che il ricorso non è stato accolto relativamente all’integralità delle censure d’inadempimento fatte valere dalla Commissione.

114   Occorre pertanto condannare il Regno di Spagna a due terzi del totale delle spese. La Commissione è condannata a sopportare il rimanente terzo.

115   In conformità all’art. 69, n. 4, del regolamento di procedura, il Regno Unito sopporta le proprie spese.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:

1)      Il Regno di Spagna, non avendo provveduto affinché le acque reflue urbane dell’agglomerato di Vera fossero sottoposte al trattamento previsto dall’art. 5, n. 2, della direttiva del Consiglio 21 maggio 1991, 91/271/CEE, concernente il trattamento delle acque reflue urbane, ossia ad un trattamento più rigoroso di quello descritto all’art. 4 di tale direttiva, e non avendo designato come zona vulnerabile la Rambla de Mojácar, in violazione delle disposizioni dell’art. 3, nn. 1, 2 e 4, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/676/CEE, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza delle dette direttive.

2)      Il ricorso è respinto per il resto.

3)      Il Regno di Spagna è condannato a sopportare i due terzi delle spese. La Commissione delle Comunità europee è condannata a sopportare il rimanente terzo.

4)      Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord sopporta le proprie spese.

Firme


Normativa nazionale


REPUBBLICA ITALIANA

N. 674 Reg.Sent.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Anno 2004

IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE

N.11703 Reg.Ric.

Sezione Quinta

Anno 2001

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 11703 del 2001, proposto dalla s.a.s. Marconi di Garzitto e C., rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Longo e dall’avv. Alberto Cassini, elettivamente domiciliata presso  l’avv. Pasquale Gianpietro  in Roma, via della Donnicciola

contro

la Provincia di Udine, rappresentata e difesa  dagli  avv.ti Sabina Ciccotti e Francesco Pecile di Udine ed  elettivamente domiciliata   presso la prima in Roma, via Lucrezio Caro n. 62

e il Comune di Villa Santina (Ud), rappresentato e difeso dall’avv. Cosimo D’Alessandro, elettivamente domiciliato  presso  lo studio dell’avv. Pasquale Gianpietro in Roma, Via della Donnicciola,  

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, 30 agosto 2001 n. 543, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli   atti di costituzione in giudizio della Provincia di Udine e del Comune di Villa Santina;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del  2 dicembre 2003 il consigliere Marzio Branca,  e uditi gli avvocati Ciccotti e D’Alessandro;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso con il quale l’Impresa Marconi di Granzitto e C., s.a.s., titolare di un stabilimento per la costruzione di sedie in materiale plastico in Comune di Villa Santina, ha chiesto l’annullamento delle ordinanze emesse dal Sindaco del predetto Comune, che  disponevano, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs.5 febbraio 1997 n. 22,  l’allontanamento dei materiali, classificabili come rifiuti, presenti all’interno ed all’esterno dello stabilimento.

Il TAR ha ritenuto che il detto materiale, sebbene destinato ad essere impiegato nel processo di produzione, doveva essere qualificato come rifiuto e quindi non poteva essere detenuto in stato di abbandono nell’area gestita dall’Impresa Marconi.

Avverso la sentenza ha proposto appello l’Impresa Marconi, sostenendone l’erroneità e chiedendone l’annullamento.

Il Comune di Villa Santina e la Provincia di Udine si sono costituite in giudizio per resistere al gravame.

Alla pubblica udienza del 2 dicembre 2003 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Va presa in esame in primo luogo l’eccezione di improcedibilità dell’appello sollevata dal Comune resistente, il quale ha denunciato che l’appellante non aveva provveduto al deposito del gravame nel rispetto del termine dimidiato, come, secondo l’assunto, sarebbe prescritto dall’art. 4, comma 8, della legge n. 205 del 2000.

Sostiene infatti il Comune che tale ultima disposizione sia destinata a prescrivere l’abbreviazione dei termini processuali, a prescindere dall’oggetto della controversia, e quindi anche oltre i casi di cui al comma 1, purché sia stata presentata istanza di sospensione della sentenza.

Militerebbe in tal senso la circostanza che la applicabilità della disciplina speciale al grado di appello verrebbe già prescritta da altri commi dello stesso art. 23-bis, come il 5° e il 7°, e che pertanto, se non fosse interpretata nel senso prospettato, la disposizione non avrebbe ragion d’essere.

L’eccezione va disattesa.

Va rilevato in primo luogo come non sia esatto che la tesi dell’appellato Comune offrirebbe l’unica spiegazione possibile della norma ora in esame. E’ da considerare, infatti, che, in disparte la tematica della abbreviazione dei termini, il nucleo essenziale della normativa speciale è dettato dai commi 3 e 4 dell’art. 23-bis, che regolano in modo diverso il rito concernente la domanda di sospensione del provvedimento impugnato in primo grado. 

Si tratta, come è noto, di una disciplina che, profilandosi probabile l’accoglimento dell’istanza (comma 3), impone l’abbandono della fase cautelare in favore di una fissazione della trattazione del merito in tempi estremamente ravvicinati, con apposita ordinanza che sostituisce l’ordinanza cautelare. Il comma successivo regola i poteri delle parti e i relativi termini, in vista della trattazione del merito. A questo insieme normativo allude il comma 8 quando ne richiama l’applicazione, sempre che, come appare logico, venga domandata la sospensione della sentenza impugnata.

Vi è poi da considerare, a tacer d’altro,  che, secondo la tesi sostenuta dal Comune, mentre nel giudizio di primo grado vigono i termini ordinari (non trattandosi delle materie di cui all’art. 23-bis, comma 1), in appello i termini sarebbero abbreviati solo perché è stata presentata l’istanza di sospensione della sentenza. Un regime siffatto, in sé incoerente, non potrebbe neppure essere sostenuto con esigenze di accelerazione, smentite dal regime ordinario seguito nel primo grado, nel quale la domanda di sospensione del provvedimento non determina la abbreviazione dei termini.

  Egualmente infondata risulta la diversa eccezione di improcedibilità dedotta sotto il profilo della mancata contestazione della sentenza di primo grado.

Va osservato, infatti, che l’appellante ha riferito i passi contestati della decisione appellata ed ha svolto le sue argomentazioni per contrastare il ragionamento dei primi giudici. La circostanza che non siano state mosse specifiche censure a tutti i passi della decisione, ed in particolare al rilievo dato alle esigenze della salute e dell’ambiente, non è idonea a provocare l’improcedibilità del gravame, poiché questo introduce validamente una domanda di riesame del nucleo essenziale della decisione impugnata.

Alla pronuncia si addebita una erronea qualificazione della fattispecie avendo considerato l’attività produttiva svolta dall’appellante come operazione di smaltimento o recupero di rifiuti, in assenza della autorizzazione prescritta dal d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, con ciò legittimando l’adozione delle impugnate ordinanze comunali di rimozione, adottate a norma dell’art. 14 del predetto decreto legislativo.

La sentenza, infatti, afferma che la sostanza utilizzata dall’impresa appellante, ossia il DKR, pur essendo un rifiuto recuperabile ai fini della produzione, sarebbe pur sempre un “rifiuto”, secondo l’amplissima definizione fornita dall’art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 22 del 1997, e come tale soggetto alla disciplina del detto decreto che impone il conseguimento di determinate autorizzazioni anche in vista della semplice “messa in riserva” del materiale considerato. E ciò perché, con l’emanazione della normativa citata, l’ordinamento avrebbe espunto il concetto di “materia prima secondaria” adottato dalla legislazione previgente, e che fu riconosciuto come distinto da quello di rifiuto dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 512 del 1990.

Il ragionamento seguito dai primi giudici va disatteso.

In linea preliminare si rivela non esatto che la legislazione vigente non adotti il concetto di materia prima secondaria come risultato di una attività di trasformazione di rifiuti, idonea a modificare la natura stessa dell’oggetto trattato.

Di “materia prima” ottenuta dal recupero di rifiuti parla espressamente l’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 22/1977, e le  “materie prime secondarie” sono indicate dall’art. 3 comma 1 del d.m. 5 febbraio 1998, adottato in attuazione di quanto disposto dall’art. 31 del più volta citato d.lgs. n. 22/1997.

Il decreto ministeriale, nei suoi cospicui allegati, detta le prescrizioni di ordine tecnico che devono governare l’attività di recupero dei rifiuti non pericolosi, in modo da pervenire alla produzione di sostanze utilizzabili come materie prime, che al termine del processo di trasformazione non sono più ascrivibili al concetto di rifiuti.

L’art. 3, comma 3, del d.m. in questione, infatti, dispone: “Restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo oggettivo ed effettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione.”

Sembra quindi certo che il prodotto della attività di recupero, consistente nella trasformazione del rifiuto in materia prima secondaria, non può considerarsi “rifiuto” sempre e comunque, ma solo in quanto non sia effettivamente utilizzato.

Tale impostazione del problema, che emerge pianamente dalla normativa vigente all’epoca dei fatti, ha trovato formale conferma ad opera  del d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 2002 n. 178. L’art. 14 della novella, intitolato “Interpretazione autentica della definizione di <<rifiuto>> di cui all’art. 6, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22”,  esclude dal concetto di rifiuto “beni, sostanze e materiali residui di produzione”  che possano essere e siano effettivamente e oggettivamente reimpiegati nello stesso o  in diverso ciclo produttivo, e ciò sia che si renda necessario, ovvero che non sia necessario, un qualche trattamento preventivo, purché non si tratti di una delle operazioni di trasformazione di cui all’allegato C del d.lgs. n. 22 del 1997.

Si rivela dunque priva di ogni consistenza, ed anzi testualmente smentita, l’argomentazione dei primi giudici, contestata dall’appellante, secondo cui non sarebbe sostenibile che il possibile reimpiego produttivo sia idoneo a sottrarre il rifiuto alla disciplina vigente per tali materiali.

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, non resta che verificare se il materiale di cui è stata imposto l’allontanamento con le ordinanze impugnate poteva legittimamente considerarsi un rifiuto, per di più “abbandonato”, ossia, per quanto si è detto sopra, se si trattava di materiale destinato ad una operazione di recupero, nel qual caso sarebbe ricaduto sotto la disciplina del d.lgs. n. 22, ovvero veniva impiegato così come l’impresa lo acquisiva dalla ditta  tedesca che lo produceva, e detenuto in vista del graduale utilizzo nella produzione di sedie o componenti di sedie in plastica.

Può considerarsi assodato, in primo luogo, che l’impresa appellante all’epoca dell’adozione delle ordinanze impugnate (luglio 2000) non utilizzava materie diverse dal DKR. Ne dà atto la Regione Friuli Venezia Giulia - Direzione regionale dell’Ambiente - nella nota 10 febbraio 2000 in atti, in relazione ad una riunione tenutasi il precedente 13 gennaio 2000.

Ne consegue che i riferimenti, menzionati nella premesse delle ordinanze impugnate, alla presenza nello stabilimento  di materiali descrivibili come rifiuti da recuperare (bottiglie plastica, scarti di cartiera, big bags) riguardavano una situazione non più in atto. La nota dell’Azienda per i servizi sanitari n. 3 Alto Friuli, del 1 marzo 2000, menzionata nello stesso contesto, e in atti, riferisce infatti una situazione accertata con sopralluogo del 20 ottobre del 1999.

Escluso quindi che l’impresa appellante detenesse i suddetti rifiuti suscettibili di attività di recupero, resta da stabilire se il DKR, unico materiale impiegato per la produzione dei manufatti potesse qualificarsi come materia prima secondaria, utilizzabile senza ulteriori modificazioni o processi di recupero.

La soluzione non può che essere affermativa.

L’impresa appellante ha documentato, anche  tramite perizia chimica (doc. 33), che il DKR costituisce il prodotto di un procedimento di trasformazione di materie plastiche, eseguito in Germania presso una Società specializzata nel riciclaggio della plastica, e caratterizzato da proprietà che lo rendono idoneo al reimpiego immediato senza ulteriori trasformazioni preliminari.

Non ha formato oggetto di contestazione, d’altra parte,  la descrizione del processo produttivo contenuta nell’atto di appello, dalla quale risulta la utilizzazione del DKR così come pervenuto dalla ditta fornitrice.

Siamo quindi in presenza di una attività del tutto estranea allo smaltimento, ma anche al recupero di rifiuti, perché il materiale utilizzato non può considerarsi tale ai sensi dell’art. 14 del d.l. 8 luglio 2002 n. 138, citato più sopra.

In conclusione i provvedimenti impugnati risultano adottati in assenza dei presupposti richiesti dall’art. 14 del d.lgs. n. 22/1977 e sono pertanto illegittimi.

Va tuttavia tenuto presente che l’accoglimento dell’appello non incide sui profili di rischio per la salute e per l’ambiente, che fossero da mettere in relazione all’attività industriale svolta dall’appellante, e il cui esame esula dall’oggetto del presente giudizio. Le considerazioni svolte in proposito nella sentenza di prime cure devono considerarsi irrilevanti in quanto i provvedimenti impugnati  non recano nella motivazione alcun preciso riferimento alle problematiche testè menzionate.

La spese possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta,    accoglie l’appello in epigrafe, e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella  camera di consiglio del 2 dicembre 2003 con l'intervento dei magistrati:

Agostino Elefante                    Presidente

Corrado Allegretta                   Consigliere

Aldo Fera                               Consigliere

Francesco D’Ottavi                  Consigliere

Marzio Branca                        Consigliere est.

 

L'ESTENSORE                                IL PRESIDENTE

F.to Marzio Branca                           F.to Agostino Elefante

IL SEGRETARIO

F.to Antonietta Fancello

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 19 febbraio 2004

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

 

IL  DIRIGENTE

f.to Antonio Natale

 

 


CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503

Pres. Vitalone C. Est.: Grillo C. Rel. Grillo C. Imp. Montinaro. P.M. Izzo G. (Parz. Diff.), (Annulla in parte con rinvio, Trib. Lecce, 9 Dicembre 2003).

 

SENTENZA N. 279 del 10/02/2005

REGISTRO GENERALE N. 15354/2004

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica

Dott. VITALONE Claudio - Presidente -

Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Consigliere -

Dott. PETTI Ciro - Consigliere -

Dott. TERESI Alfredo - Consigliere -

Dott. GRILLO Carlo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

sull'appello, qualificato ricorso, proposto da:

MONTINARO CARMELO, nato a Lecce il 6/7/1959;

avverso la sentenza n. 558/2003 del 9/12/2003-23/1/2004, pronunciata dal Tribunale di Lecce.

- Letti gli atti, la sentenza denunciata e l'impugnazione;

- udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Presidente Dott. Carlo M. Grillo;

- udite le conclusioni del P.M., in persona del S. Procuratore Generale Dott. IZZO G., con cui chiede il rigetto del ricorso;

- udito il difensore, avv. TANA A., che insiste per l'accoglimento dello stesso;

la Corte osserva:

 

FATTO E DIRITTO

 

Con la decisione indicata in premessa il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, condannava Montinaro Carmelo alla pena, condizionalmente sospesa, di euro 3.500,00 di ammenda, nonché al risarcimento del danno cagionato alle parti civili costituite, in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv e 674 c.p., 51, comma 1, D.L.vo n. 22/1997, commessi fino al 16/10/2000, perché - quale legale rappresentante della "CO.E.ST. s.a.s.", esercente attività di produzione di conglomerato bituminoso - effettuava attività di stoccaggio di rifiuti (asfalto triturato proveniente da lavori di asportazione e rifacimento di manti stradali) in assenza della prescritta autorizzazione o comunque delle comunicazioni di cui agli artt. 31-32-33 dello decreto Ronchi, nonché per aver provocato emissioni di fumo atte a molestare persone.

 

L'imputato propone appello, qualificato ricorso, rilevando, in primis, la mancanza dei presupposti per la configurabilità della contravvenzione di gestione non autorizzata di rifiuti, non potendosi qualificare tale il materiale rinvenuto nel piazzale della società CO.E.ST., esercente attività di produzione di conglomerato bituminoso per la realizzazione di manti stradali. Per tale prodotto, infatti, vengono utilizzati sia materiali inerti forniti da altre ditte, sia materiale proveniente da rifacimenti/demolizioni di strade, triturato nel luogo di prelievo e poi trasportato presso la CO.E.ST., costituente quindi - ai sensi dell'art. 14 D.L. n. 138/2002, che fornisce la interpretazione autentica della definizione di rifiuto - materia prima atta alla produzione di conglomerato bituminoso e non rifiuto.

 

Pertanto non può ravvisarsi ne' attività di "stoccaggio", ne' di "deposito preliminare", ne' di "messa in riserva", ne' di recupero, in quanto il materiale non deve essere recuperato o sottoposto ad alcuna delle operazioni indicate dall'allegato C - al decreto, avvenendo il recupero - come si è detto - presso i cantieri stradali interessati dalle opere di demolizione/rifacimento. Non costituendo rifiuto il materiale de quo, la CO.E.ST. non era obbligata ad assoggettarsi alle procedure semplificate previste dagli artt. 31/33 D.L.vo n. 22/1997, donde l'insussistenza del reato ambientale.

 

Con una seconda doglianza l'imputato contesta anche la sussistenza della contravvenzione codicistica, giacché le emissioni della CO.E.ST. rispettavano i limiti di legge, imposti dal D.P.R. n. 203/1988, circostanza non smentita dalle risultanze processuali, tanto che la condanna si basa sul ritenuto superamento della normale tollerabilità delle emissioni, con riferimento al criterio stabilito dall'art. 844 c.c. Ma, anche in tale valutazione, il giudice avrebbe dovuto tenere conto dello stato dei luoghi, giacché l'impianto della CO.E.ST. è ubicato in zona artigianale e non residenziale, per cui si sarebbe dovuto applicare il criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con quelle della proprietà. All'odierna udienza dibattimentale, il P.G. e la difesa concludono come riportato in premessa.

Il ricorso merita accoglimento nei limiti appresso indicati. La prima doglianza, ad avviso del Collegio, è fondata, non potendosi qualificare rifiuto il materiale ammucchiato nel piazzale della ditta CO.E.ST. e per cui è processo. Ovviamente si giunge a tale conclusione tenendo conto della contestazione e della relativa condanna, che hanno ad oggetto esclusivamente - per quanto concerne la contravvenzione al c.d. decreto Ronchi - lo "stoccaggio" di rifiuti e non altre condotte vietate dallo stesso decreto. Risulta pacificamente in atti, invero, che il materiale de quo veniva utilizzato - per preparare il conglomerato bituminoso, prodotto in quel luogo dalla menzionata ditta nelle condizioni in cui è stato trovato, senza cioè subire alcun trattamento; seppure certamente ricavato dalla triturazione di manti stradali rimossi, è dato per scontato e non è contestato neanche nella prospettazione accusatoria, infatti, che la triturazione di questi avvenisse altrove. Dunque nel piazzale della ditta CO.E.ST. era accumulato materiale che di sicuro veniva interamente utilizzato, sebbene con l'aggiunta di altri (inerti, bitume, acqua), nel normale ciclo produttivo del conglomerato bituminoso, del quale - quindi - il detentore non solo non si era disfatto, ma si guardava bene dal farlo, rappresentando comunque un valore economico, pur se probabilmente modesto, per la sua attività. Pertanto, considerando il materiale nelle condizioni in cui è stato trovato presso la menzionata ditta, non sussiste la condizione soggettiva richiesta dalla legge per qualificarlo rifiuto (l'art. 6, comma 1 lett. a), D.L.vo n. 22/1997 postula che del bene "il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi"); neppure detta ultima ipotesi, invero, si ritiene configurabile, sussistendo "l'obbligo di disfarsi" del rifiuto (e sono qualificati "rifiuti speciali" - dall'art. 7, comma 3 lett. 'b', D.L.vo n. 22/1997 - quelli derivanti da attività di demolizione) fino a quando il materiale abbia le caratteristiche di rifiuto, ma non più se tali caratteristiche non siano ravvisabili a seguito di un intervento di trasformazione.

 

In definitiva l'errore del giudice del merito, nel caso in esame, consiste nell'aver tenuto conto nel presente giudizio anche della fase precedente, quella cioè del trattamento del rifiuto speciale in questione (probabilmente mediante tritatura o fresatura ed eventuale selezione dei componenti), avvenuta peraltro in luogo e tempo diversi, che, pur se addebitabile alla CO.E.ST. (e quindi all'imputato) e pur se certamente contra legem, non rientra tuttavia nella contestazione, riguardante - lo si ripete - il solo stoccaggio del rifiuto.

 

Tornando al materiale accumulato presso la ditta CO.E.ST., che è quello a cui soltanto si deve far riferimento nel presente giudizio, il non considerarlo rifiuto è anche sostanzialmente in linea con la sentenza della Corte Europea di Giustizia Sez. 2^, 11 novembre 5004 (causa n. C-457/02, Niselli), per la quale la definizione di rifiuto comunitaria non può essere interpretata secondo i criteri dettati dalla nostra normativa nazionale (art. 14 D.L. n. 138/2002, conv. in L. n. 178/2002).

 

Invero, a parte la considerazione che le eccezioni poste dal secondo comma di tale norma si riferiscono esclusivamente ai "residui di produzione o di consumo" tra i quali non rientra il materiale de quo, la citata sentenza della CGCE in alcuni obiter dieta afferma principi di assoluto interesse anche per il caso di specie. Al punto 46, difatti, recita: "Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un'ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di 'disfarsi', bensì un autentico prodotto (sentenza 18 aprile 2002, causa C 9/00, Palin Granit)". Conseguentemente soggiunge (punto 47): "Risulta da quanto precede che è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene., un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera 'disfarsi' ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare., e nel corso del processo di produzione (sentenza 11 settembre 2003, causa C 114/01, Avesta Polarit Chrome)".

 

Orbene nel caso in esame, risultando pacifica la riutilizzazione del materiale in questione nelle condizioni in cui è stato trovato, e cioè senza sottoporlo ad ulteriori trasformazioni o trattamenti, lo stesso non può considerarsi rifiuto.

 

Ne consegue l'insussistenza della contestata contravvenzione di stoccaggio di rifiuti, prevista dall'art. 51, comma 1, D.L.vo n. 22/1997, per cui deve essere eliminata la relativa pena. Considerato, però, che il giudice del merito, ravvisando la continuazione tra le due contravvenzioni per cui è processo, ha preso come base di calcolo proprio la sanzione relativa alla violazione del decreto Ronchi, la rideterminazione della pena non può essere effettuata in questa sede, ma dovrà procedervi il Tribunale.

 

A conclusioni diverse giunge il Collegio in relazione alla contravvenzione codicistica (art. 674 c.p.), pur condividendo l'orientamento interpretativo più recente (Cass. Sez. 1^, 16 giugno 2000, Meo; Sez., 1^, 24 ottobre 2001, PM/Tulipano; Sez. 3^, 23 gennaio 2004, PM/Pannone; Sez. 3^, 19 marzo 2004, Parodi; Sez. 1^, 20 maggio 2004, Invernizzi e altri; Sez. 3^, 18 giugno 2004, PM/Providenti e altri), che sta scalzando quello consolidatosi precedentemente ed è a base del ricorso, secondo il quale non è configurabile il reato di cui all'art. 674 c.p. (emissione di gas, vapori e fumi atti a molestare le persone), nel caso che le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata e siano inferiori ai limiti previsti dalle leggi in materia di inquinamento atmosferico, atteso che la espressione "nei casi non consentiti dalla legge" costituisce una precisa indicazione della necessità che l'emissione avvenga in violazione degli standard fissati dalle normative di settore, il cui rispetto integra una presunzione di legittimità.

 

Il ricorrente ritiene non sussistente la contravvenzione de qua perché munito di regolare autorizzazione amministrativa per esercitare l'attività industriale in questione e perché le relative emissioni in atmosfera non hanno mai superato gli standards fissati dalla normativa di settore (D.P.R., n. 203/1988). Ebbene nessuna di queste due circostanze, che rappresentano il fulcro della tesi defensionale, risulta però accertata dal giudice del merito per quanto è dato evincere dalla sentenza impugnata. Da questa anzi emerge che finanche il testimone introdotto dalla difesa, Favale Diego, consulente esterno della CO.E.ST., non ha riferito nulla in proposito, precisando addirittura "di non aver mai materialmente visto l'autorizzazione rilasciata dalla Regione ai sensi del D.P.R. 203/88".

 

Ne consegue che la tesi della difesa, sebbene condivisibile dal punto di vista teorico, non può essere accolta, essendo rimasta indimostrata la sussistenza dei presupposti di essa. Ed allora, non potendosi escludere che questo in esame sia uno dei "casi non consentiti dalla legge", viene a cadere qualsiasi preclusione in ordine alla configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 674, seconda parte, c.p., reato di pericolo - come correttamente ricordato dal Tribunale - che non richiede un effettivo nocumento prodotto dalle emissioni, ma solo l'attitudine di esse ad offendere, imbrattare, molestare le persone; peraltro "costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute a seguito dell'esposizione ad emissioni atmosferiche inquinanti" (così Cass. Sez. 3^, 14 marzo 2003, Di Grado ed altri).

 

La sentenza impugnata è adeguatamente e correttamente motivata, sulla base delle risultanze processuali, circa la sussistenza della contravvenzione in questione, per cui la determinazione del giudice del merito è sottratta al vaglio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

la Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato previsto dall'art. 51 D.L.vo n. 22/1997 perché il fatto non sussiste, con rinvio al Tribunale di Lecce per l'eliminazione della relativa sanzione; rigetta il ricorso nel resto.

 

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2005.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2005


CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del 13 maggio 2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del 13/05/2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836  

Presidente ZUMBO - Relatore ONORATO - Ric. MARETTI

Udienza pubblica del 4.3.2005

Registro Generale n. 34091/2004

 

Composta dagli lll.mi Signori

Dott. Antonio ZUMBO               Presidente

Dott. Pierluigi ONORATO (est.) Consigliere

Dott. Claudia SQUASSONI       Consigliere

Dott. Aldo FIALE                      Consigliere

Dott. Amedeo FRANCO            Consigliere

ha pronunciato la seguente        Consigliere 

 

SENTENZA

 

sul ricorso proposto da

1) MARETTI Oreste Felice, nato a Varzi il 28.4.1947,

2) POGGI Alessandro, nato a Mede il 14.6.1974,

 

avverso la sentenza resa il 22.1.2004 dal tribunale monocratico di Voghera.

 

Vista la sentenza denunciata e il ricorso,

Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere Pierluigi Onorato,

Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Ignazio Patrone, che ha concluso chiedendo sollevarsi questione di legittimità costituzionale e in subordine il rigetto del ricorso,

Udito il difensore della parte civile, avv.

Udito il difensore dell'imputato Poggi, avv. Giancarlo Ferri, in sostituzione dell'avv. Rossella Campelli, che insiste nel ricorso e in subordine chiede dichiararsi la prescrizione dei reati, Osserva:

 

Svolgimento del processo

 

1 - Con sentenze del 22.1.2004 il tribunale monocratico di Voghera ha condannato Oreste Felice Maretti, quale amministratore della Maretti Strade s.r.l., e Alessandro Poggi, quale amministratore della Agest s.r.l., alla pena di curo 2.500 di ammenda ciascuno perché ritenuti responsabili:

a) entrambi del reato di cui agli artt. 113 c.p. e 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997, perché, in cooperazione tra loro, avevano depositato in modo incontrollato rifiuti speciali non pericolosi nel piazzale interno della predetta Maretti Strade;

b) il solo Poggi del reato di cui all'art. 51, comma 1 (benché erroneamente indicato in epigrafe come art. 50, comma 1) D.Lgs. 22/1997, perché aveva effettuato il trasporto dei suddetti rifiuti senza esser munito della prescritta autorizzazione:

accerati in Retorbido in epoca immediatamente successiva al 30.3.2000.

 

In estrema sintesi, in esito alla complessa istruttoria dibattimentale, il giudice monocratico ha accertato che nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade erano presenti un cumulo di circa 1.500 mc. di materiale costituito da terra, asfalto, plastica, carta, legno, ferro, cemento, mattoni, e un altro cumulo di circa 300 mc. costituito da terra da scavo e materiale proveniente da demolizioni (in particolare mattoni). Molti di questi materiali erano stati portati con autocarri della società Agest, amministrata dal Poggi, la quale aveva ricevuto in appalto dal comune di Voghera la manutenzione periodica di strade, piazze, marciapiedi e aree comunali, ed era stata altresì incaricata di rimuovere il materiale giacente presso l'ex Caserma di Cavalleria, costituito da terra, mattoni e forse qualche piastrella.

 

Tanto premesso, il giudice ha osservato che i materiali accumulati dovevano qualificarsi come rifiuti e che i due imputati dovevano essere ritenuti responsabili del reato di cui all'art. 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997: il Maretti perché non poteva non sapere dei rifiuti fatti scaricare nel piazzale della società da lui amministrata, o comunque per culpa in eligendo e in vigilando; il Poggi perché non si era limitato a trasportare i rifiuti, ma aveva anche scelto il sito di destinazione, diventando così un "gestore polivalente" dei rifiuti stessi.

 

Ovviamente il Poggi era anche responsabile, come trasportatore, del reato di cui all'art. 51, comma 1, del D.Lgs. 22/1997.

 

In particolare, il giudice di merito ha ritenuto che i materiali da demolizione non possono assimilarsi alle terre e le rocce da scavo, che l'art. I della legge 21.12.2001 n. 443 esclude dalla nozione di rifiuto. Inoltre, alla luce della norma interpretativa di cui all'art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, da una parte il detentore ha l'obbligo di disfarsi del materiale da demolizione, e dall'altra nel caso concreto non era stata fornita la prova della effettiva e oggettiva riutilizzazione dello stesso materiale. Per queste ragioni, oltre che per la recente giurisprudenza comunitaria nella soggetta materia, doveva ritenersi indubitabile la qualità di rifiuto.

 

2 - Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione col ministero dei rispettivi difensori.

 

Il Maretti lamenta anzitutto erronea applicazione della norma incriminatrice, giacché i materiali de quibus dovevano considerarsi come materia prima secondaria destinata al riutilizzo, e quindi non potevano qualificarsi come rifiuto. Infatti la destinazione al reimpiego era implicita nella natura stessa dei materiali e nella circostanza che essi erano depositati nel cantiere di una nota impresa locale che da anni si occupava di costruzione di strade, con formazione di sottofondi e tappeti bituminosi.

 

Con un secondo motivo il Maretti deduce inosservanza dell'art. 192 c.p.p. e contraddittorietà di motivazione, laddove la sentenza impugnata non ha adeguatamente valorizzato la circostanza, riferita da una dipendente della società Maretti Strade, che il Poggi aveva annunciato di voler trasportare solo terra e quindi materiale "buono".

 

3 - Il Poggi dal canto suo ha dedotto due motivi.

 

Col primo denuncia violazione dell'art. 546 lett. e) c.p.p. e carenza di motivazione in ordine alla affermazione della sua penale responsabilità.

 

Col secondo lamenta erronea applicazione della norma incriminatrice, posto che - a suo avviso - il materiale trasportato dagli autocarri della società Agest non aveva natura di rifiuto. In estrema sintesi, sostiene che il materiale de quo non aveva la natura oggettiva di rifiuto, essendo composto di terra, frammista a qualche mattone. In secondo luogo mancava anche il requisito soggettivo, in quanto lo stesso Poggi non era detentore in senso proprio, ma semplice trasportatore di materiali detenuti dal Comune di Voghera. Infine, era esclusa la natura di rifiuto ai sensi della norma interpretativa di cui al citato art. 14 della legge 8.8.2002 n. 178, che è vincolante per il giudice italiano così come statuito da Cass. Sez. III, 13.11.2002, Passerotti.

 

Comunque, l'imputato non era punibile ai sensi dell'art. 5 c.p. perché aveva incolpevolmente ignorato la natura illecita del materiale trasportato in seguito al comportamento positivo del Comune di Voghera, che gli aveva affidato l'incarico del trasporto.

 

4 - Il pubblico ministero in sede ha presentato memoria scritta ai sensi dell'art. 611, comma 1, ultimo periodo, c.p.p..

 

Con analisi molto articolata ed esaustiva, dopo aver prospettato il quadro normativo comunitario, comprensivo delle fonti primarie e delle fonti derivate, il sostituto procuratore generale esamina le principali sentenze della Corte di Giustizia e la decisione quadro 2003/80/GAI del Consiglio in data 27.1.2003, relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, sottolineandone il carattere obbligatorio per il giudice nazionale.

 

Osserva quindi che nel caso di specie si tratta non tanto di scegliere tra una interpretazione adeguatrice al diritto comunitario (ex Cass. Sez. III, n. 22063 del 20.5.2003, Mascheroni, rv. 224485) e una applicazione della norma nazionale come interpretata dal più volte menzionato art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, quanto piuttosto di risolvere il conflitto tra l'interpretazione conforme al diritto comunitario, che prevale sulle norme nazionali incompatibili, e quella conforme al sistema costituzionale italiano, che considera prevalente il principio della legge penale più favorevole di cui all'art. 2 c.p., quale corollario della norma di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (secondo la dottrina dei "controlimiti" alla limitazione della sovranità nazionale derivante dal diritto comunitario).

 

Solleva pertanto eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 51 D.Lgs. 5.2.1997 n. 22, come autenticamente interpretati dall'art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, nella parte in cui introducono una definizione di rifiuto incompatibile con quella di cui al Regolamento CEE n. 259/93 e alla Direttiva 75/442/CEE, come interpretata dalla recente sentenza Niselli emessa in data 11.11.2004 dalla Corte di Giustizia, perché in violazione:

del combinato disposto degli artt. 11 e 117 Cost., atteso il loro insanabile contrasto coi Trattati CE ed UE, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia e con gli obblighi di conformità al diritto comunitario;

dell'art. 3, primo comma, Cost., atteso che dal suaccennato conflitto nasce una disparità di trattamento tra soggetti in relazione alla applicazione della legge penale sui rifiuti.

 

Evidenzia la rilevanza della eccezione di incostituzionalità, dal momento che entrambi i ricorrenti, seppure con diversità di accenti, hanno invocato il predetto art. 14 per escludere la loro responsabilità penale.

 

In subordine, ove si ritenesse inammissibile o manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, conclude per il rigetto dei ricorsi, da una parte perché il giudice nazionale dovrebbe far propria l'interpretazione stabilita dalla citata sentenza Niselli, e dall'altra perché sarebbe preclusa l'invocazione della norma interpretativa di cui al citato art. 14, in quanto posteriore al fatto contestato, così come sarebbero infondati gli altri motivi di ricorso.

 

Motivi della decisione

 

5 - L'approfondita requisitoria scritta del pubblico ministero (sulla possibilità di presentare memorie scritte anche in udienza pubblica ex arti. 585/4 e 611/1 c.p.p., v. Cass. Sez. I, n. 853 del 27.1.1.996, Copolaro, rv. 203500), assieme ad alcuni specifici motivi coltivati dai ricorrenti, costringe a fare il punto, sia pure in estrema sintesi, sullo status quaestionis in materia di rifiuti conseguente all'entrata in vigore dell'art. 14 del decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, che ha offerto una interpretazione autentica della definizione di rifiuto contenuta nell'art. 6, comma 1, lett. a) D.Lgs. 5.2.1997 n. 22. Posto che l'art. 6, recependo la nozione del diritto comunitario, definisce come rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi", la norma interpretativa di cui al suddetto art. 14, nel primo comma, chiarisce il concetto di "disfarsi" precisando che esso coincide con quello di attività di "smaltimento o di recupero" indicate negli allegati B) e C) del D.Lgs. 22/1997.

 

Sin qui la norma sembra avere portata effettivamente interpretativa perché non modifica, ma chiarisce in modo logico e oggettivo, la nozione di "rifiuto" offerta dal menzionato art. 6, nonché dall'art. 1 della direttiva comunitaria n. 75/442/CEE, modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, di cui la disposizione nazionale costituisce in sostanza la letterale riproduzione.

 

Ma a ben vedere, come ha recentemente rilevato la Corte di Giustizia europea, una restrizione della previgente categoria di rifiuto è invece introdotta giacché, interpretando il concetto di "disfarsi" come coincidente con quello di smaltire o di recuperare, si esclude dalla categoria di rifiuto quella sostanza o quel materiale di cui il detentore si disfi mediante semplice "abbandono", posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l'abbandono è nettamente distinto dallo smaltimento.

 

In sostanza, contrariamente alla norma sedicente interpretativa, ci si può disfare di un rifiuto, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche semplicemente abbandonandolo (per il diritto nazionale v. art. 14 D.Lgs. 22/1997, su cui Cass. Sez. III, sent. n. 21024 del 5.4.2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art. 4, secondo comma, direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia, Sez. Il, 11.11.2004, causa C-457/02, Niselli, par. 38, 39 e 40).

 

6 - Ma - quel che più conta per la presente fattispecie - dove la norma dell'art. 14 assume una portata più incisivamente innovativa è nel secondo comma, il quale precisa che non ricorrono le fattispecie di "abbia deciso di disfarsi" e di "abbia l'obbligo di disfarsi" in relazione a sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e oggettivamente utlizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo o di consumo": a) "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente"; ovvero b) "dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C) del decreto legislativo n. 22".

 

Anche e soprattutto questa disposizione, secondo la generale opinione della giurisprudenza e della dottrina, ha carattere modificativo e non interpretativo. E infatti, secondo la definizione comunitaria letteralmente trasfusa nell'art. 6 D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi costituisce rifiuto; ma, secondo la norma sedicente interpretativa, esso perde tale qualità se è o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, e più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio all'ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio di prelievo, cernita, separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura, macinatura, che non comportano una trasformazione merceologica dei materiali).

 

Nonostante qualche autorevole opinione dottrinaria in senso contrario, ritiene il collegio che sia innegabile la restrizione della definizione comunitaria di rifiuto operata dalla norma. Infatti, la volontà o l'obbligo di disfarsi del materiale costituisce quest'ultimo come rifiuto secondo il diritto comunitario, sicché il legislatore nazionale non può controqualificarlo come materia prima solo sulla base di una attuale o potenziale riutilizzazione.

 

Tale del resto è la convezione della Commissione della Comunità europea, la quale ha avviato una procedura di infrazione ai sensi dell'art. 226 del Trattato contro lo Stato italiano, ritenendolo inadempiente al diritto comunitario per effetto della norma interpretativa de qua. E tale è soprattutto l'orientamento della Corte di Giustizia europea, che investita dal tribunale di Terni in via pregiudiziale della questione sulla compatibilità comunitaria del più volte menzionato art. 14, ha statuito che la nozione comunitaria di rifiuto, come definita dalla direttiva 75/442, modificata dalla direttiva 91/156, non deve essere interpretata nel senso che essa escluda l'insieme dei residui di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero (sentenza Niselli, cit.). E ciò perché la nozione di rifiuti deve essere interpretata in senso estensivo, in ossequio al principio comunitario di limitare i danni o gli inconvenienti derivanti dalla loro natura.

 

In termini affermativi, la Corte lussemburghese ha statuito che sono rifiuti proprio tutti quelli esclusi dal secondo comma dell'art. 14, cioè i residui di cui il detentore si è disfatto che siano riutilizzati tal quali senza trattamento preventivo (anche se non rechino pregiudizio all'ambiente) o con trattamento preventivo non recuperatorio.

 

In termini negativi, secondo la Corte, il diritto comunitario ammette di qualificare come non rifiuti soltanto i "sottoprodotti" dei processi di fabbricazione o di estrazione di cui il detentore non vuole disfarsi, "a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione". Restano comunque rifiuti i residui di consumo, che non possono essere considerati sottoprodotti idonei a essere riutilizzati nel corso del processo produttivo (nn. 47 e 48 della sentenza Niselli, che cita la precedente sentenza 11.9.2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome).

 

In conclusione - si ripete - il secondo comma dell'art. 14 sottrae alla qualifica di rifiuto i residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione di rifiuto stabilita dall'art. 1, lett. a) della direttiva 75/442/CEE (nn. 50 e 51 della sentenza Niselli).

 

7 - Resta ora da vedere quali conseguenze giuridiche discendono da questa innegabile incompatibilità tra l'art. 14 della legge 178/2002 e la direttiva comunitaria sui rifiuti 75/442 come modificata dalla successiva direttiva 91/156.

 

Al riguardo, alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17.1.2003, Ferretti, rv. 223291; Sez. 111, n. 14762 del 9.4.2002, Amadori, rv. 221573; Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, rv. 224716).

 

Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l'art. 14 è vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. 11I, n. 4052 del 29.1.2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. 11I, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, rv. 223604; Sez. III, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003, Mortellaro, rv. 224721; Sez. I11, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, rv. 226574).

 

Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma argomentano ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto che essa è stata richiamata dal regolamento comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.

 

Ma tale singolare argomento, benché avallato da autorevole dottrina, non appare condivisibile. Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n. 259/93, "relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art 2 lett. a) stabilisce che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti quali definiti nell'art. I lettera a) della direttiva 75/442/CEE".

 

Orbene, è sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale è direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della ristretta materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite di un documento di accompagnamento. Detta nozione quindi non è direttamente applicabile per tutte le altre materie diverse dalla spedizione dei rifiuti. Anche la risalente sentenza della Corte di Giustizia, che in un caso ha utilizzato questo argomento, ha limitato la immediata applicabilità della nozione "regolamentare" alle spedizioni di rifiuti all'interno degli Stati membri (VI Sez. del 25.6.1997, Tombesi e altri, parr. 44. 45 e 46). Non si può quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.

 

Inoltre, come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da una parte è stato accantonato dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156; dall'altra non è stato utilizzato neppure dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata applicabilità nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.

 

8 - Un altro argomento variamente usato dai sostenitori dell'orientamento giurisprudenziale minoritario è che in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario il giudice nazionale deve comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che hanno a più riprese offerto una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella risultante dall'art. 14 della legge 178/2002. In particolare devono dare attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la incompatibilità comunitaria di quest'ultima norma.

 

Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile.

 

A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest'ultima, sicché la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.

 

In tal senso è l'insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti ricordare la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente <effetti diretti> (...) non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate".

 

Nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame (senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n. 94/1995).

 

Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma comunitaria priva di efficacia diretta, il giudice italiano deve ancora applicare la norma interna confliggente con la prima sino a quando non sollevi l'eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario di cui agli artt. 1.1 e 117 Cost. (è implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).

 

9 - Riassumendo sulla questione, si deve concludere che l'art. 14 della legge 178/2002, benché modificativo dell'art. 6 lett. a) del D.Lgs. 22/1997, è vincolante per il giudice, in quanto introdotto con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente. Inoltre, benché abbia ristretto la nozione di rifiuto dettata dall'art. 1 della direttiva europea 75/442, come sostituito dalla direttiva 91/156, esso non può essere disapplicato dal giudice italiano, giacché dette direttive non sono self executing, avendo necessità di essere (fedelmente) recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci verso questi ultimi. Il giudice nazionale, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma interna, in forza del principio di prevalenza del diritto comunitario, deve disapplicare (rectius non applicare) la norma interna, ma solo quando la norma comunitaria ha diretta efficacia nell'ordinamento nazionale, perché solo in tal caso la norma comunitaria si sostituisce automaticamente alla norma interna.

 

Quando invece - come nel caso di specie - la norma comunitaria non è direttamente efficace, perché è condizionata all'emanazione di un provvedimento formale da parte dello Stato membro, e questo Stato abbia emanato una norma confliggente con quella comunitaria, il giudice italiano non ha altra strada che quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna confliggente.

 

Tale norma infatti si pone in contrasto:

a) con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;

b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.

 

10 - In questo senso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 legge 178/2002 sollevata dal procuratore generale in sede non è manifestamente infondata.

 

Essa è però irrilevante nella fattispecie di cui trattasi, giacché il giudice di merito, con adeguata motivazione esente da vizi logici o giuridici, ha escluso la riutilizzazione certa e oggettiva dei materiali de quibus e quindi l'applicabilità dell'anzidetto art. 14.

 

Invero, non v'è dubbio che i materiali provenienti da demolizioni erano stati smaltiti nel momento in cui gli autocarri della società Agest li avevano trasportati nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade. Non si trattava di operazioni di deposito temporaneo ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. m) del D.Lgs. 22/1997, giacchè i materiali non erano raggruppati nel luogo di produzione e superavano i limiti quantitativi previsti in tale norma. Si trattava invece o di stoccaggio (deposito preliminare) o di deposito definitivo, quindi di vero e proprio smaltimento: insomma ricorreva l'ipotesi in cui i produttori si erano già disfatti dei materiali, non l'ipotesi in cui i produttori intendevano riutilizzarli per la formazione di sottofondi stradali (per escludere una siffatta intenzione un indizio incontestabile è la quantità di materiali accumulata, che raggiungeva complessivamente circa 1800 metri cubi).

 

11 - Resta così accertata la natura di rifiuti dei materiali di cui trattasi.

 

Sono indubbiamente tali i materiali provenienti da demolizioni, cioè ricavati dal disfacimento di edifici o di strade.

 

Ma nella concreta fattispecie deve considerarsi rifiuto anche la terra da scavo, giacché non ricorrono i requisiti successivamente richiesti dai commi 17, 18 e 19 dell'art. 1 della legge 21.12.2001 n. 443 (nel testo più favorevole agli imputati, prima della modifica più restrittiva intervenuta con la legge comunitaria n. 306 del 31.10.2003) per escluderla dalla categoria dei rifiuti: cioè il requisito, implicito, della riutilizzazione in reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con destinazione approvata dall'autorità ammnistrativa competente; nonché il rispetto, verificato mediante accertamenti nel sito di destinazione, dei limiti legali di concentrazione di inquinanti nella composizione media della massa terrosa.

 

Da quest'ultima considerazione discende l'irrilevanza del secondo motivo di ricorso coltivato dal Maretti, col quale questi ha lamentato che il giudice non ha adeguatamente considerato la circostanza che il Poggi gli aveva preannunciato di trasportare e depositare nel piazzale della sua ditta solo terra da scavo. Anche la terra, infatti, per la mancanza dei requisiti suddetti, era rifiuto (non materiale "buono", come pretende il ricorrente); e quindi il Maretti doveva sapere che per il trasporto e lo smaltimento della medesima occorrevano apposite autorizzazioni .

 

12 - Anche la colpevolezza del Poggi è stata legittimamente e motivatamente affermata.

 

Egli aveva effettuato il trasporto e il deposito dei materiali, scegliendo il sito di destinazione, assumendo così il ruolo di "gestore polivalente" - come correttamente sottolineato dal giudice di merito: in quanto tale doveva munirsi delle prescritte autorizzazioni.

 

Né poteva invocare a sua discolpa una scusabile ignoranza della legge penale di cui all'art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza 364/1988 della Corte costituzionale. Essendo imprenditore nello specifico settore edilizio, egli aveva l'obbligo di conoscere la normativa vigente sui rifiuti provenienti da scavi e demolizioni, e non poteva certo pensare che l'incarico affidatogli dal comune di Voghera, di rimuovere il materiale giacente presso una ex caserma, lo esonerasse dagli obblighi che a lui incombevano in base a quella normativa.

 

13 - Vada ultimo notato d'ufficio che i reati sono stati commessi sino al 30.3.2000, ma che la prescrizione non è ancora maturata, giacché al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p. va aggiunto il periodo in cui il processo è rimasto sospeso per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell' 11.1.2002, Cremonese, rv. 220509): nel caso di specie, quindi, oltre al periodo legale di quattro anni e mezzo, va computata una sospensione processuale per complessivi sei mesi e giorni due, con la conseguenza che la prescrizione maturerà solo in data 1.4.2005.

 

14 - In conclusione, entrambi i ricorsi vanno respinti. Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di comminare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

la Corte suprema di cassazione dichiara irrilevante la dedotta eccezione di illegittimità costituzionale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 4.3.2005.


Cassazione Penale, sez. III, 1 giugno 2005, n. 20499

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

III SEZIONE PENALE

 

composta dagli ill.mi signori Magistrati:

 

dott. Umberto Papadia Presidente Udienza pubblica

1. dott. Carlo Grillo

3. dott. Giovanni Amoroso

4. dott. Giulio Sarno

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

sul ricorso proposto da xxxx xxxx ; xxxx xxxx; da xxxx xxxx ; xxxx xxxx ; xxxx xxxx

avverso la sentenza del 20 novembre 2003 della Corte d'appello di Milano;

Udita la relazione fatta in pubblica udienza dal Consigliere Giovanni Amoroso;

Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale dott. Ignazio Patrono che ha concluso per il rigetto del ricorso;

 

la Corte osserva:

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

1. Con sentenza in data 27 gennaio 2003 il Tribunale ordinario di Lecco ha condannato xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx, concesse a tutti - tranne che a xxxx xxxx - le attenuanti generiche ed il beneficio della sospensione condizionale della pena inflitta: il xxxx alla pena di quattro mesi di reclusione in ordine al delitto di cui all'art. 323, comma 1, c.p.; l'xxxx ed i fratelli xxxx ciascuno alla pena di quattro mesi di arresto ed euro 7.000,00 di ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 27, 28, 51, comma 1, lettera a), e comma 3, d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; il xxxx, infine, alla pena di euro 10.000,00 di ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 99 c.p., 30 e 51, comma 1, lettera a), d.lgs. n.22/97 (fatti tutti accertati in xxxx - e xxxx - il 22 gennaio 2001). In particolare al xxxx era stato contestato il trasporto di residui provenienti da un ex opificio, depositati e progressivamente accumulati sul terreno di proprietà dell'xxxx e dei xxxx; ai quali era stato contestato l'attivazione su tale terreno di un'abusiva discarica di rifiuti.

 

2. Hanno interposto ritualmente appello l'xxxx ed i fratelli xxxx tramite il loro comune difensore di fiducia chiedendo, in principalità, l'assoluzione con formula ampia e, in subordine, la derubricazione nell'ipotesi di cui al comma 1 della lettera a) della stessa norma incriminatrice con conseguente riduzione della pena inflitta, nonché xxxx xxxx tramite il suo difensore di fiducia invocando la propria assoluzione con formula ampia.

 

Ha proposto appello (così convertito il ricorso per cassazione ex art.580 c.p.p.) xxxx xxxx anch'egli invocando la propria assoluzione con formula ampia.

 

Con sentenza del 20 novembre 2003 la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale ordinario di Lecco in data 27 gennaio 2003 e condannato gli appellanti xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx al pagamento, in via solidale tra loro, delle spese processuali del giudizio d'appello. Inoltre ha ordinato la confisca dei mappali nn.xxxx del foglio x del xxxx (Sondrio), già oggetto di sequestro giudiziario in data 18 gennaio 2001 ad opera dei Carabinieri di xxxx.

 

3. Avverso questa pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione sia il xxxx (con un solo motivo) che xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx (con quattro motivi).

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

1. Sia il ricorso del xxxx (nel suo unico motivo) che quelli di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx (con censure articolate nei primi due motivi, sostanzialmente connessi) contestano innanzi tutto la ricostruzione della condotta materiale quale operata dai giudici di merito.

 

In questa parte i ricorsi, quanto all'accertata materialità della condotta e alla sua riferibilità agli imputati al fine dell'affermazione della loro penale responsabilità, sono infondati.

 

Ha in proposito osservato la Corte d'appello che la materialità dei fatti contestati a tutti gli imputati era emersa non soltanto dalle deposizioni dibattimentali, ma anche dalla documentazione e dalle fotografie acquisite al fascicolo processuale.

 

Sempre in linea di mero fatto, i giudici di merito hanno ritenuto che l'assunto difensivo in ordine alla destinazione del materiale da demolizione depositato sul terreno di xxxx, di proprietà degli imputati xxxx e xxxx, al riutilizzo mediante reinterro era smentito dalla circostanza che, a seguito del provvedimento di sequestro del terreno e dei rifiuti, il xxxx, che già aveva trasportato il materiale suddetto, aveva provveduto a trasferire in una discarica autorizzata gran parte di tale materiale.

 

Inoltre ha osservato la Corte d'appello che dal verbale di sopralluogo redatto dal Corpo Forestale dello Stato, Stazione di xxxx, sopralluogo effettuato per delega dell'Autorità Giudiziaria di Sondrio, si ricavava che l'area in questione era interessata da un deposito incontrollato di rifiuti costituiti per la maggior parte da blocchi di cemento con armature, blocchi di marmo, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario; la superficie interessata era di circa mq. 900 per un quantitativo di rifiuti di circa mc.13.000.

 

La Corte d'appello ha poi escluso in particolare la proclamata destinazione al riutilizzo dei rifiuti scaricati a xxxx e ciò sia perché il riempimento del mappale n.x doveva essere effettuato con terreno "da coltivo" e non con detriti (come espressamente indicato nella concessione edilizia n.x/2000) sia perché i lavori di realizzazione del fabbricato destinato ad attività artigianale con soprastante appartamento erano già stati completamente ultimati in epoca antecedente.

 

L'assenza di qualsiasi prova sulla destinazione al riutilizzo del materiale in questione determinava che si trattava di rifiuti in ordine ai quali il xxxx aveva eseguito il contestato trasporto irregolare ed operazioni di cernita e di deposito preliminare, parimenti abusive, sul terreno di xxxx (Sondrio) di proprietà dell'xxxx e dei fratelli xxxx, tutti intestatari.

 

Con riferimento a questi ultimi il consenso da essi manifestato all'impresa xxxx xxxx di depositare i rifiuti prodotti dalla loro attività economica sul terreno di xxxx implica una abusiva gestione industriale dei rifiuti stessi, tipica di una discarica. Orbene, quanto all'accertamento della condotta materiale, deve rilevarsi che tratta di una valutazione in fatto, ampiamente motivata nella sentenza impugnata, non censurabile in sede di giudizio di legittimità; mentre la difesa del ricorrente invoca nella sostanza una nuova valutazione di merito che è inammissibile nel giudizio di cassazione non ricorrendo l'ipotesi, eccezionale e residuale, della manifesta illogicità, non senza considerare tra l'altro che la difesa del ricorrente non ha neppure specificamente e testualmente denunciato i punti della motivazione che si porrebbero in insanabile contrasto con altri punti della medesima pronuncia. Infatti il vizio di motivazione di una sentenza art. 606, lett. e), c.p.p. sussiste solo allorché essa mostri, nel suo insieme, un'intrinseca contraddittorietà ed un'obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento; ossia presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della e l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione adottata.

 

 

La denunzia del vizio di motivazione non conferisce a questa Corte il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica - in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio - le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova.

 

 

2. Nei motivi suddetti (unico motivo del ricorso del xxxx e primi due motivi dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx) i ricorrenti pongono anche una questione di diritto relativamente alla nozione di rifiuto. Invocano l'interpretazione autentica dell'art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, quale posta dall'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178. In particolare richiamano il secondo comma dell'art. 14 cit. sostenendo che la nuova nozione di "rifiuto" condurrebbe a ritenere, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, che nella specie non si trattava di rifiuti, bensì di materiali atti al loro riutilizzo, con destinazione corrispondente ad un oggettivo reimpiego (assentito livellamento del terreno dove tali materiali erano depositati) senza aver subìto nessun intervento preventivo di trattamento e senza aver recato pregiudizio all'ambiente.

 

In particolare i ricorrenti invocano, a fondamento della censura mossa alla sentenza impugnata, un precedente di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508), che, facendo applicazione della menzionata disposizione di interpretazione autentica, ha rilevato che anche i materiali derivanti da demolizione di edifici, reimpiegati - senza trasformazioni preliminari - in un'attività compatibile (quale i materiali di riporto per sottofondo di un piazzale) non assumono la nozione di rifiuto. Da ciò - secondo la difesa dei ricorrenti - l'inesistenza del reato contestato in ragione della sopravvenuta più favorevole normativa.

 

2.1. L'art. 14 cit., invocato dai ricorrenti - nel porre l'interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ma secondo Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio 2005, n. 17836, si tratta di una vera e propria innovazione sub specie di interpretazione autentica) - in particolare stabilisce, al secondo comma, che non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lett. b) del primo comma della medesima disposizione, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del cit. d.lgs. n. 22 del 1997. Ossia l'art. 14 cit., che al primo comma precisa in positivo la nozione di rifiuto, delinea poi al secondo comma una fattispecie derogatoria (ossia ciò che rifiuto non è), la quale fuoriesce quindi dall'area dell'illecito penale, con una modalità definitoria non dissimile da quella dell'art. 1, comma 17, legge 21 dicembre 2001 n. 443; disposizione questa che, con una norma parimenti dichiarata di interpretazione autentica, già aveva precisato che non costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche di gallerie.

 

I rilievi dei ricorrenti riguardano essenzialmente l'ambito di tale fattispecie derogatoria del secondo comma dell'art. 14, che nella loro prospettazione difensiva andrebbe interpretato con un'ampiezza tale da comprendere anche la condotta materiale loro ascritta. Ed a tal fine invocano in particolare - come già ricordato - una pronuncia di questa Corte (Cass., sez. 11I, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508) che - sostengono i ricorrenti - conforterebbe questa interpretazione, invece disattesa dalla Corte d'appello di Milano.

 

2.2. Deve a questo proposito rilevarsi che, essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come nonna di interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando - come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia in fra ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che "una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso"; ed "analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni".

 

Giova allora considerare in generale che, al pari dell'interpretazione costituzionalmente orientata, volta a privilegiare la lettura della disposizione che non si ponga in contrasto con parametri costituzionali, sussiste simmetricamente un'esigenza di interpretare la normativa nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria. Ha in particolare affermato la Corte costituzionale (sent. n. 190 del 2000) che "[...] - come l'interpretazione conforme a Costituzione deve essere privilegiata per evitare il vizio di incostituzionalità della norma interpretata - analogamente l'interpretazione non contrastante con le norme comunitarie vincolanti per l'ordinamento interno deve essere preferita, dovendosi evitare che lo Stato italiano si ritrovi inadempiente agli obblighi comunitari."

 

Questa esigenza di interpretazione orientata si pone poi maggiormente allorché la stessa Corte di giustizia abbia già valutato la conformità del diritto nazionale a quello comunitario. In particolare la Corte costituzionale (sent. n. 389 del 1989) ha ulteriormente affermato che la Corte di giustizia, quale interprete qualificato del diritto comunitario, «ne precisa autoritariamente il significato»; beninteso - può aggiungersi - sempre che non operi quello che la stessa giurisprudenza costituzionale (soprattutto dopo C. cost. n. 232 del 1989) definisce come controlimite, ossia il blocco dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona umana», tra i quali - può qui precisarsi in riferimento alle ipotesi in cui la condotta penalmente rilevante si riempia di contenuto con una disciplina di trasposizione della normativa comunitaria - rientra il principio dell'irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.).

 

 

2.3. In particolare nella fattispecie rileva la recente pronuncia della Corte di giustizia (sez. II, 11 novembre 2004, C-457/02, cit.) che è stata investita proprio della questione di compatibilità del cit. art. 14 con la normativa comunitaria di riferimento. Orbene - in disparte i problemi di un eventuale irriducibile contrasto dell'art. 14 cit. nella parte in cui sembrerebbe escludere dall'area dell'illecito penale la condotta di mero abbandono dei rifiuti e quella avente ad oggetto i residui di consumo (per i quali si richiamano gli ampi rilievi svolti da Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio 2005, n. 17836, cit.) - quanto al secondo comma dello stesso art. 14, nella parte in cui, individuando un'area di deroga dalla sanzionabilità penale, si riferisce ai residui di produzione (ics est: ai "beni o sostanze e materiali residuali di produzione"), deve considerarsi che la Corte di giustizia ha statuito (nel dispositivo) che "La nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), 1° comma, della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non dev'essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B di tale direttiva.". Ed ha chiarito (in motivazione) che un'operazione di ritaglio della nozione di "rifiuto", della quale è pur sempre necessaria comunque un'interpretazione estensiva in ragione dei principi di precauzione e prevenzione espressi dalla normativa comunitaria in materia, è possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che risulti essere un mero "sottoprodotto", del quale l'impresa non abbia intenzione di disfarsi, non esclusione dei residui di consumo.

 

Quindi occorre essenzialmente distinguere tra "residuo di produzione", che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e "sottoprodotto", che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuti, ai sensi degli art. I della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un "sottoprodotto" in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma "certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione". Al presupposto della mancanza di pregiudizio per l'ambiente - comunque espressamente richiesto dalla lett. a) del secondo comma dell'art. 14 cit., ma implicitamente sotteso, per una necessaria interpretazione sistematica e complessiva della disposizione, anche nell'ipotesi della lett. b) del medesimo comma - si aggiunge una tipizzazione del materiale di risulta di un processo di produzione, tale da renderlo riconoscibile ex se come "sottoprodotto". Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti.

 

Già in precedenza la Corte di Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00) aveva affermato che non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni sullo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia - ha precisato la Corte - occorre interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, e quindi occorre circoscrivere la fattispecie esclusa, relativa ai "sottoprodotti", alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia "solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione".

 

 

2.4. Ed allora - questo essendo lo stato della giurisprudenza comunitaria sulla questione - si ha che anche per la normativa nazionale deve accedersi, quanto all' ipotesi dei residui di produzione, ad un'interpretazione della fattispecie derogatoria del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all'opposto una (pur plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali di produzione", quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa trasformazione, perché una tale lettura dell'art. 14 cit. comporterebbe un contrasto con la normativa comunitaria, chiaramente evidenziato dalla più recente, e sopra citata, pronuncia della Corte di giustizia.

 

Ed è questa, in conclusione, la nozione restrittiva di residuo di produzione equiparato a "sottoprodotto" che - in contrapposizione a quella di residuo di produzione che rimane rifiuto - emerge dall'interpretazione del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla disciplina comunitaria, e che integra la fattispecie derogatoria prevista da tale disposizione.

 

23. Del resto una tale interpretazione estensiva, nella sostanza invocata dai ricorrenti, non trova neppure riscontro - dopo la sopravvenienza dell'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, cit. - nella giurisprudenza di questa Corte che, anche prima del più recente intervento della Corte di giustizia, ha affermato il primato del diritto comunitario in materia (Cass., sez. III, 15 gennaio - 15 aprile 2003, n. 17656) ed ha elaborato la nozione di "sottoprodotto", ravvisabile in "situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione" (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235), sempre che - ha precisato la medesima pronuncia - "non vi sia pregiudizio all'ambiente".

 

Anche la pronuncia di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508), invocata dalla difesa dei ricorrenti, ha dichiaratamente fatto applicazione dei principi già espressi dalla precedente sentenza della Corte di Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, C-9/00, cit.). In quel giudizio si trattava di materiale di un muro demolito che "non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze diverse", materiale che era stato reimpiegato immediatamente in loco, senza la necessità di alcun trattamento, quale sottofondo di un piazzale; attività questa di cui era stata ritenuta la compatibilità ambientale e quindi l'assenza di nocività per l'ambiente. Quindi in tanto è stata esclusa l'applicabilità della disciplina dei rifiuti, in quanto si trattava proprio di un residuo di produzione (id est: "sottoprodotto") inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria nel processo produttivo di costruzione del piazzale, in una situazione di verificata compatibilità ambientale.

 

In applicazione dei medesimi principi si è ritenuto che, all'opposto, non rientrassero nella deroga di cui all'art. 14 cit. i pneumatici usati dei quali il detentore si sia disfatto (Cass., sez. III, 19 gennaio - 9 febbraio 2005, n. 4702), né i residui di attività di demolizioni edili (Cass., sez. III, 12 ottobre - 1 dicembre 2004, n. 46680; Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424), né il residuo della lavorazione di agrumi (buccia e polpa) quand'anche eventualmente utilizzabile come concime (Cass., sez. III, 21 settembre - 11 novembre 2004, n. 43946), né le traversine di legno dismesse dall'ente ferroviario (Cass., sez. III, 14 aprile - 26 maggio 2004, n. 23988), né le acque reflue di cui il detentore si disfi senza versamento diretto (Cass., sez. III, 11 marzo - 4 maggio 2004, n. 20679), né le acque di sentina (Cass., sez. III, 27 giugno - 9 ottobre 2003, n. 38567).

 

Invece è stato ritenuto che rientrassero nella fattispecie derogatoria - e che quindi costituissero residui di produzione nel senso di "sottoprodotti" - la parte inorganica di petrolio grezzo che si concentra a seguito della diminuzione della componente organica per la sua trasformazione in combustibili pregiati (Cass., sez. III, 14 novembre 2003 - 3 febbraio 2004, n. 3978), le sostanze denominate "slops" nell'industria petrolifera (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235, cit.), il materiale di scavo e sbancamento di strade (Cass., sez. III, 11 febbraio - 24 marzo 2003, n. 13114) e - secondo il più volte citato precedente invocato dalla difesa dei ricorrenti - il materiale di demolizione di un preesistente muro (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508, cit.).

 

 

2.6. Nella specie - una volta accolta, per le considerazioni finora esposte, un'interpretazione restrittiva della fattispecie derogatoria di cui al secondo comma dell'art. 14 cit. quanto ai "beni o sostanze e materiali residuali di produzione" - deve conseguentemente escludersi - come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello di Milano - che possa trovare applicazione l'art. 14 cit. non sussistendo i presupposti, sopra evidenziati, della fattispecie esclusa.

 

Da una parte c'è da considerare che - come già rilevato - sull'area in questione era depositato un ammasso di blocchi di cemento con armature, blocchi di marino, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario. Si tratta quindi di un ammasso informe e disomogeneo, di varia provenienza, che di per sé non può qualificarsi come "sottoprodotto".

 

 

Inoltre l'impiego certo in un processo di produzione è risultato in concreto escluso sia perché - come accertato dai giudici di merito - tale ammasso di rifiuti è stato alla fine avviato verso una discarica autorizzata, sia perché - in riferimento all'eventuale utilizzazione in loco come materiale di riempimento, ipotizzata dalla difesa - la concessione edilizia assentita ai proprietari del terreno in questione prevedeva il livellamento dello stesso mediante l'utilizzazione di terreno da riporto, e non già di materiale inerte, in modo da costituire un adeguato strato di terreno da coltivo.

 

3. Anche il terzo motivo dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx - con cui si contesta la ritenuta sussistenza degli estremi dell'abusiva attivazione di una discarica di rifiuti - è infondato.

 

In punto di diritto la Corte d'appello ha in proposito sottolineato che erano integrati gli estremi della definizione di discarica contenuta nell'art. 2, lett. g), d.lgs. 13 gennaio 2003 n.36 dovendo per essa intendersi l'area adibita a smaltimento di rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area di deposito temporaneo dei rifiuti per più di un armo.

 

Tale valutazione è corretta ed immune da vizio di violazione di legge.

 

Infatti, quanto alla nozione di discarica, deve ribadirsi quanto già affermato da questa Corte (da ultimo Cass., Sez. III, 12 luglio - 8 settembre 2004, n. 36062) secondo cui i materiali provenienti da demolizioni edilizie costituiscono rifiuti speciali; pertanto la destinazione di un area a centro di raccolta di tali rifiuti e lo scarico ripetuto di essi, senza la prescritta autorizzazione, anche in mancanza di una specifica organizzazione di persone e di mezzi, integra il reato di realizzazione e gestione di una discarica abusiva, previsto dalla fattispecie di cui all'art. 51, terzo comma, d.lgs. n. 22 del 1997, senza peraltro che sia necessario il dolo specifico del fine di lucro o di guadagno. Cfr. anche Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424, che ha ribadito che i materiali provenienti da attività di demolizione o scavo costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; conseguentemente lo scarico degli stessi attraverso una condotta ripetuta, anche se non abituale e protratta per lungo tempo, configura il reato di realizzazione di discarica non autorizzata di cui all'art. 51 del citato d.lgs. n. 22/97.

 

C'è poi da aggiungere che ai fini della configurabilità del reato di gestione di discarica in difetto di autorizzazione, di cui all'art. 51 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, il concetto di gestione deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendere qualsiasi contributo sia attivo che passivo diretto a realizzare o a tollerare lo stato di fatto che costituisce reato (Cass., sez. III, 12 novembre 2003 - 8 gennaio 2004, n. 37; conti Cass., sez. III, 12 maggio - 29 luglio 1999, n. 1819).

 

4. E' invece fondato il quarto motivo dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx, con cui gli stessi si dolgono della violazione del divieto di reformatio in pejus per aver la Corte d'appello pronunciato la confisca del terreno in questione, così riformando la pronuncia di primo grado, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero .

 

In proposito deve ricordarsi che la giurisprudenza più recente di questa Corte (Cass., sez. IV, 25 giugno - 11 luglio 2001, n. 27998) ha affermato che, in tema di impugnazioni, costituisce violazione del generale divieto di reformatio in peius (art. 537, comma 3, c.p.p.) il provvedimento di confisca disposto per la prima volta dalla Corte di appello in assenza di impugnazione del pubblico ministero. Analogamente Cass., sez. IV, 1-30 ottobre 1999, n. 12356, ha ritenuto che la disposizione della confisca da parte del giudice di appello in assenza di una precedente statuizione al riguardo da parte del giudice di primo grado e di una impugnazione del pubblico ministero, costituisce reformatio in pejus della decisione in violazione del divieto disposto dall'art. 597 c.p.p.. Cfr. anche Cass., sez. VI, 15 gennaio - 13 marzo 2001, n. 10353 che, in ragione del divieto di reformatio in pejus, ha escluso che il giudice d'appello possa disporre il sequestro in previsione della confisca obbligatoria in mancanza di impugnazione del pubblico ministero.

 

Tale citata giurisprudenza - che ha superato quella più risalente di segno opposto (Cass., sez. I, 2 luglio - 12 settembre 1998, n. 3964; Cass., sez. VI, 9 aprile - 20 settembre 1001 n. 9842) - appare maggiormente convincente perché si ispira ad una nozione ampia, e più garantistica, del divieto di reformatio in pejus espresso dal terzo comma dell'art. 597 c.p.p.; disposizione questa che, nell'attuale più ampia formulazione rispetto a quella del precedente codice di rito, ha esteso siffatta garanzia - il cui fondamento, secondo autorevole dottrina, è quello di impedire che l'imputato appellante abbia a temere pregiudizio per il sol fatto dell'esercizio del proprio diritto di impugnare

 

- anche alle misure di sicurezza in generale, quale appunto è la confisca, risolvendo testualmente una controversa questione che si poneva nella vigenza dell'art. 515, terzo comma, c.p.p. del 1930 che non menzionava le misure di sicurezza. Ciò si desume anche a contrario dal secondo comma del medesimo art. 597 c.p.p. che prevede che, allorché ci sia l'appello dal pubblico ministero, il giudice possa applicare, quando occorre, misure di sicurezza; disposizione questa peraltro richiamata dal terzo comma dell'art. 595 c.p.p. talché è possibile l'applicazione della misura di sicurezza anche nel caso di appello incidentale del pubblico ministero. Quindi la garanzia del divieto di reformatio in pejus si accompagna comunque alla possibilità per il pubblico ministero di chiedere anche in via di impugnazione incidentale (per la cui compatibilità con l'art. 112 Cost. v. C. cost. n. 280 del 1995) la riforma della sentenza di primo grado quanto alla mancata applicazione di una misura di sicurezza. Ma, ove manchi l'appello, sia principale che incidentale, del pubblico ministero il giudice - la cui cognizione, in ragione del principio devolutivo dell'appello (art. 597, primo comma, c.p.p.: tantum devolutum quantum appellatum), è limitata ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti dall'imputato, in caso di appello solo di quest'ultimo - non può, rigettando l'appello, applicare una misura di sicurezza, neppure sub specie di correzione di errore materiale della sentenza di primo grado.

5. Pertanto i ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx vanno accolti limitatamente al quarto motivo, relativo alla disposta confisca, che va eliminata; nel resto i ricorsi tutti devono essere rigettati.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata sul punto della disposta confisca, che elimina. Rigetta nel resto i ricorsi.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2005


CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. III, 16/01/2006 (Ud. 14/12/2005), Ordinanza n. 1414

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. III, 16/01/2006 (Ud 14/12/2005), Ordinanza n. 1414

(Pres. G. De Maio Est. P. Onorato,  Imp. U. Rubino e V. Rubino)

 

UDIENZA PUBBLICA DEL 14/12/2005

 

Ordinanza n. 2314

 

REGISTRO GENERALE N. 34034/2005

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. GUIDO DE MAIO

1.Dott.PIERLUIGI ONORATO

2.Dott. FRANCO MANCINI

3.Dott. ALDO FIALE

4.Dott. ANTONIO AMOROSO

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

sul ricorso proposto da:

 

1) RUBINO UMBERTO Nato ad Aversa il 18/03/1957

2) RUBINO VITO Nato ad Aversa il 11/01/1964

 

avverso la SENTENZA resa il 10.12.2004 dal tribunale di S. Maria C.V., sez. dist. di Carinola.

Vista la sentenza denunciata e il ricorso,

Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere PIERLUIGI ONORATO,

Udito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore generale GUGLIELMO PASSACANTANDO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso,

Udito il difensore della parte civile, avv. =

Udito il difensore dell'imputato, avv. =

Osserva:

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

1 - Con sentenza del 10.12.2004 il tribunale monocratico di S. Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Carinola, dichiarava i fratelli Umberto e Vito Rubino colpevoli del reato continuato di cui all'art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, perché, il primo quale legale rappresentante del caseificio "Cirigliana Eredi Rubino Luigi", e il secondo quale titolare dell'omonima azienda zootecnica, avevano smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione: in Riardo sino al 14.11.2000.

 

Per l'effetto il tribunale condannava gli imputati alla pena di 5.000 euro di ammenda ciascuno, col beneficio della sospensione condizionale.

 

In linea di fatto il giudice accertava che il suddetto caseificio aveva venduto più volte il siero di latte derivante dalla propria attività produttiva all'azienda zootecnica di Vito Rubino, il quale lo destinava ad alimento per le bufale.

 

In linea di diritto osservava in sostanza:

- che il siero di latte in questione era qualificabile come rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione dei prodotti caseari;

- che la norma interpretativa di cui all'art. 14 della legge 178/2002, laddove restringe la nozione comunitaria di rifiuto, recepita nell'art. 6 del D.Lgs. 22/1997, espungendone i residui di produzione riutilizzabili, senza pregiudicare l'ambiente, nello stesso o in diverso ciclo produttivo senza trattamento preventivo o con trattamento preventivo non recuperatorio, doveva essere disapplicata, appunto perché contraria al diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (in particolare con la sentenza Niselli dell' 11.11.2004);

- che pertanto la condotta contestata agli imputati era penalmente rilevante in base alla normativa di cui al D.Lgs. 22/197 anche dopo l'entrata in vigore del predetto art. 14, che doveva considerarsi tamquam non esset dopo l'emanazione della suddetta sentenza 11.11.2004 della Corte di Giustizia.

 

2 - Avverso la condanna ha proposto ricorso per cassazione il difensore di entrambi gli imputati, deducendo due motivi a sostegno.

 

2.1 - Col primo lamenta in sostanza erronea applicazione dell'art. 51 D.Lgs. 22/1997 nonché mancanza o manifesta illogicità di motivazione sul punto, giacché i c.d. scarti alimentari - come il siero di latte - devono considerarsi materie prime destinate all'alimentazione animale e non rifiuti.

 

Chiede comunque la declaratoria di prescrizione del reato.

 

2.2 - Col secondo motivo denuncia difetti di motivazione in ordine alla quantificazione della pena.

 

 

Motivi della decisione

 

3 - Va anzitutto precisato che la fattispecie de qua non è sussumibile nella disciplina di cui al D.Lgs. 14.12.1992 n. 508 (che ha attuato la direttiva 90/667/CEE in materia di norme sanitarie per la eliminazione, la trasformazione e l'immissione sul mercato di rifiuti di origine animale) e al Reg. CE 3.10.2002 n. 1774 (recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano), che ha espressamente abrogato la predetta direttiva CEE 90/667.

 

Infatti la condotta contestata agli imputati consisteva nel trasporto e nello smaltimento del siero di latte derivante dal processo produttivo di un caseificio, mentre entrambe le normative succitate prevedono norme di polizia sanitaria e veterinaria per il trasporto, la trasformazione, l'uso o l'eliminazione di rifiuti (art. 1 D.Lgs. 508/1992) o sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (art. 1 Reg. CE 1774/2002). E' chiaro che il latte cessa di essere un sottoprodotto di origine animale quando viene impiegato come materia prima nella produzione casearia, e che il siero di latte che residua da questa produzione va qualificato come rifiuto speciale ex art. 7 del D.Lgs. 5.2.1997 n. 22 senza che possa (più) definirsi di origine animale.

 

Manca quindi qualsiasi presupposto ex art. 8 D.Lgs. 22/1997 per escludere dal regime generale dei rifiuti il siero di latte derivante dalla produzione casearia, non soltanto perché la polizia sanitaria e veterinaria, oggetto del D.Lgs. 508/1992 e del Reg. CE 1774/2002, è eterogenea, e non speciale, rispetto alla disciplina ambientale della gestione dei rifiuti (come ritiene Cass. Sez. III, n. 8520 del 4.3.2002, Leuci), quanto piuttosto perché l'oggetto della disciplina (il citato siero di latte) non rientra in nessuna delle categorie che il predetto art. 8 esclude dalla disciplina generale dei rifiuti (e in particolare non rientra nella categoria delle carogne o dei rifiuti di origine animale).

 

Va pertanto disatteso il primo motivo di ricorso (n. 2.1).

 

4 - Va anche respinta la richiesta di dichiararsi estinto il reato per prescrizione.

 

Infatti, al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p., va aggiunto il periodo in cui il processo è rimasto sospeso per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell' 11.1.2002, Cremonese, rv. 220509).

 

Nel caso di specie, al periodo di quattro anni e mezzo (che scadeva il 14.5.2005) va aggiunto il periodo di sette mesi e nove giorni per la sospensione del processo (dal 25.9.2003 al 28.4.2004 e dal 3.12.2004 al 10.12.2004), sicché la prescrizione maturerà solo il 23.12.2005. Nella materia è recentemente intervenuta la legge 5.12.2005 n. 251 (entrata in vigore 1'8.12.2005), la quale, con l'art. 6:

a) modificando l'art. 157 c.p., ha aumentato a quattro anni il tempo di prescrizione ordinaria per tutte le contravvenzioni;

b) modificando l'art. 159 c.p., ha codificato il principio stabilito dalla suddetta sentenza Cremonese in tema di sospensione processuale per impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo però che la sospensione non può durare più di sessanta giorni oltre la cessazione dell'impedimento;

c) modificando gli artt. 160 e 161 c.p., ha stabilito che in caso di interruzione della prescrizione, i termini prescrizionali non possono essere prolungati oltre il quarto per gli imputati che non siano recidivi specifici o infraquinquennali, delinquenti abituali o professionali.

 

Alla stregua della novella, nel caso di specie, il periodo prescrizionale ordinario sarebbe scaduto il 14.11.2005 ma si sarebbe dovuto prolongare di al meno 67giorni per le succitate sospensioni processuali intervenute, arrivando così al 20.1.2006.

 

Tuttavia, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 10, comma 2, la disciplina del predetto art. 6 non si applica ai processi in corso, trattandosi di un reato e di una vicenda processuale per cui i termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti.

 

5.1 - In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, la sentenza impugnata ha colto nel segno laddove ha ritenuto che il siero di latte residuato dal processo produttivo del caseificio di Umberto Rubino rientrava nella categoria dei rifiuti speciali, di cui all'art. 6 e 7 D.Lgs. 22/1997, e che la cessione e il trasporto del siero, senza alcuna autorizzazione, dal predetto caseificio all'azienda zootecnica di Vito Rubino, integrava il reato di cui all'art. 51 dello stesso decreto legislativo (in senso conforme v. Cass. sez. IIL n. 33295 del 2.8.2004, Cioffi, rv. 229011).

 

La sentenza è incorsa invece in errore giuridico laddove ha ritenuto che la norma interpretativa di cui all'art. 14 del di. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, in quanto restringe indebitamente la nozione comunitaria di rifiuto, debba essere direttamente disapplicata (rectius non applicata) dal giudice nazionale.

 

5.2 - Che la norma dell'art. 14, pur autoqualificandosi come interpretativa, modifichi in senso restrittivo la nozione di rifiuto precisata dall'art. 6 D.Lgs. 22/1997, e quindi sia incompatibile con la nozione di rifiuto stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, di cui la disposizione nazionale è sostanzialmente la riproduzione, è indubbio, ed è riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza pressoché unanimi.

 

Invero, per l'art. 6 D.Lgs 22/1997 e per l'art. 1 della direttiva 75/442/CEE costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra in una delle sedici categorie elencate in allegato di cui il detentore "si disfi" o abbia deciso o abbia l'obbligo di "disfarsi". L'elenco delle categorie, di cui all'allegato A, è un elenco "aperto", perché la prima categoria (Q1) comprende tutti i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati, e la sedicesima (Q16) qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle altre categorie. L'art. 14 legge 178/2002, invece, nel suo primo comma, identifica il concetto di "disfarsi" con quello di smaltimento o di recupero, stabilendo che le parole "si disfi" devono essere interpretate come qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. 22/1997.

 

Attraverso questa identificazione, però, la norma sedicente interpretativa restringe la nozione comunitaria di rifiuto, escludendone ogni sostanza o materiale di cui il detentore "si disfi" mediante semplice "abbandono", posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l'abbandono è nettamente distinto dallo smaltimento e a maggior ragione dal recupero (per il diritto nazionale v. art. 14 D.Lgs. 22/1997, su cui Cass. Sez. III, sent. n. 21024 del 5.4.2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art. 4, comma 2, direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia, Sez. II, dell' 11.11.2004, causa C-457/02. Niselli, par. 38, 39 e 40).

 

In sostanza, secondo il diritto comunitario e il legislatore nazionale del 1997, ci si può disfare di un rifiuto, con l'obbligo di sottostare alla relativa disciplina, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche semplicemente abbandonandolo; secondo il legislatore nazionale del 2002, invece, chi abbandona una sostanza rientrante nelle anzidette categorie di rifiuti è esente dalla disciplina imposta in materia per assicurare la tutela della salute pubblica e della qualità ambientale.

 

Ma dove la norma dell'art. 14 assume una portata ancor più socialmente innovativa é nel secondo comma, in forza del quale non ricorrono le fattispecie della decisione di "disfarsi" e dell’obbligo di "disfarsi" ove si tratti di sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e oggettivamente utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo di consumo”: a) “senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente"; ovvero b) “dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22".

 

Invero, secondo la definizione comunitaria di rifiuto, letteralmente trasfusa nell'art. 6 D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di "disfarsi" costituisce sempre rifiuto. Per l'art. 14, invece, questo residuo perde la qualità di rifiuto se è o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, o più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio per l'ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio attraverso atti di prelievo, cernita, separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura o macinatura, che non implicano una trasformazione merceologica o chimica dei materiali).

 

E' quindi innegabile che anche sotto questo profilo l'art. 14 restringe la nozione comunitaria di rifiuto, giacché per il diritto comunitario la volontà o l'obbligo di "disfarsi" di un residuo di produzione o di consumo costituisce quest'ultimo come rifiuto, mentre per la norma nazionale sedicente interpretativa quel residuo diventa semplice materia prima ove ricorra la condizione della sua attuale o potenziale riutilizzazione.

 

Concludendo, l'art. 14 ha introdotto una doppia deroga alla definzione comunitaria di rifiuto, sia laddove ha identificato l'attività di "disfarsi" della sostanza con quella di smaltimento o di recupero della medesima (escludendo così l'attività di abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o l'obbligo di "disfarsi" di residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per l'ambiente. In tal modo ha esonerato dal controllo amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attività con cui il detentore si disfa di residui di produzione o di consumo, creando pericolo per l'ambiente.

 

Con ciò il legislatore italiano è venuto meno ai suoi obblighi di leale cooperazione di cui all'art. 10 (ex 5) del Trattato CE, pregiudicando gli obiettivi comunitari di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente e di protezione della salute umana di cui all'art. 174 (ex 130 R) dello stesso Trattato.

 

6.1 -Tale è del resto la convinzione della Commissione della Comunità europea, la quale ha avviato contro lo Stato italiano una procedura di infrazione ai sensi dell'art. 226 (ex 169) del Trattato in seguito all'approvazione dell'art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138.

 

Ma tale è, soprattutto, la decisione della Corte di Giustizia europea, che investita in via pregiudiziale dal tribunale di Temi della questione della compatibilità comunitaria dell'art. 14, con la sentenza della Sezione 11 dell' 11.11.2004, Causa C-457/02, Niselli, sviluppando il filone giurisprudenziale consacarato nelle precedenti sentenze Zanetti del 10.5.1995, C-422/92, Tombesi del 25.6.1997, C-304/94, e Palin Granit Oy del 18.4.2002, C-9/00, ha così statuito:

a) la nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo "disfarsi", il quale "deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo <considerando>, è la tutela della salute umana e dell'ambiente (..) ma anche alla luce dell 'art. 174 n. 2 CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell 'azione preventiva "(par. 33).

 

Una sostanza o un materiale non soggetto a obbligo di smaltimento o di recupero e di cui il detentore "si disfi" mediante semplice abbandono è considerato rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 (par. 38). E poiché l'abbandono non può essere considerato una modalità di smaltimento del rifiuto, ma è ben distinto dallo smaltimento (par. 39), la definizione comunitaria di rifiuto non può essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto le sostanze e i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero (par. 40).

 

b) per l'art. 14 del decreto legge italiano n. 138/2002 "affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un 'operazione di recupero ai sensi dell 'allegato II B della direttiva 75/442" (par. 50). Ma "un'interpretazione del genere si risolve manifestamente nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1 lett. a), primo comma, della direttiva 75/442" (par. 51).

 

Pertanto, la nozione comunitaria di rifiuto non può essere interpretata nel senso di escludere l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo senza trattamento preventivo o con trattamento non recuperatorio (par. 53).

 

Tuttavia - secondo la sentenza Niselli, che riprende sul punto la precedente sentenza Palin Granit Oy del 18.4.2002 - può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto un materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, che il produttore riutilizza, senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un "sottoprodotto", che non ha la qualifica di rifiuto proprio perché il produttore non intende "disfarsene", ma vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44-52).

 

Per distinguere il "sottoprodotto" dal rifiuto è comunque necessario che il riutilizzo sia certo, che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del carattere chimico o merceologico della sostanza (par. 47).

 

Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52 della sentenza. Del resto, se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.

 

6.2 - La sentenza Niselli è stata emessa ai sensi dell'art. 234 (ex 177) del Trattato CE e quindi si è limitata a interpretare la norma del diritto comunitario che definisce la nozione di rifiuto; mentre solo procedendo ex art. 226 (ex 169), in esito alla procedura di infrazione attivata dalla Commissione, avrebbe potuto direttamente interpretare la norma nazionale denunciata come lesiva degli obblighi comunitari.

 

I diversi poteri della Corte di Giustizia nell'ambito delle diverse procedure sono chiaramente enunciati dalla stessa Corte, che ha avuto modo di chiarire il principio secondo cui essa "non può, ai sensi dell 'art. 177 [ora 234] del Trattato, statuire sulla validità di una norma di diritto interno con riguardo al diritto comunitario, come le sarebbe consentito fare nell 'ambito di un ricorso ex art 16.9[ora 226] del trattato CE"; peraltro "essa è tuttavia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione, che rientrano nel diritto comunitario, atti a consentirgli di pronunciarsi su tale compatibilità" (sentenza Tombesi citata del 25.6.1997, par. 36).

 

Si può quindi concludere che la sentenza Niselli, pur non interpretando direttamente l'art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138, offre al giudice italiano elementi ermeneutici precisi per ritenere tale norma indiscutibilmente incompatibile col diritto comunitario.

 

7.1 - Resta ora da esaminare quale strumento giuridico sia esperibile per rimediare a questo innegabile vulnus che l'art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138 ha recato al diritto comunitario.

 

Al riguardo, la sentenza impugnata e alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17.1.2003, Ferretti, rv. 223291; ,Sez, III, n. 14'762 de 9.04.2002 Amadori rv. 22157;  Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, rv. 224716).

 

Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l'art. 14 è vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. III, n. 4052 del 29.1.2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. III, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, rv. 223604; Sez. III, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003, Mortellaro, rv. 224721; Sez. III, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, rv. 226574).

 

7.2 - Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma sostengono ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto che essa è stata richiamata dal regolamento comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.

 

Ma tale singolare argomento, benché condiviso da qualche autore, non può accettarsi.

 

Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n. 259/93, "relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art 2 lett. a) stabilisce che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti quali definiti nell'art. 1 lettera a) della direttiva 75/442/CEE".

 

Orbene, è sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale è direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della specifica materia disciplinata dal regolamento, ovvero sia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite di un documento di accompagnamento.

 

Questa nozione "regolamentare" quindi non è direttamente applicabile né per l'attività di abbandono né per tutte le attività di gestione dei rifiuti elencate nell'art. 6 lett. g) D.Lgs. 22/1997, che sono ben diverse dall'attività di spedizione: e cioè raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.

 

Anche una risalente sentenza della Corte di Giustizia ha avuto modo di stabilire che la nozione "regolamentare" di rifiuti, "che è stata istituita al fine di garantire che i sistemi nazionali di sorveglianza e controllo delle spedizioni di rifiuti rispettino criteri minimi, si applica direttamente anche alle spedizioni di rifiuti all'interno di qualsiasi Stato membro"; ma non ha affatto esteso la diretta applicabilità della nozione alle altre tradizionali attività di gestione o all'attività di abbandono, comunque diverse dalla spedizione (C.G.,VI Sez., sent. del 25.6.1997, Tombesi e altri, v. mass. e parr. 44. 45 e 46).

 

Non si può quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.

 

Inoltre, come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da una parte non è stato mai considerato dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata più volte a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156; dall'altra non è stato utilizzato neppure dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata applicabilità nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.

 

In conclusione, si tratta di argomento che appare ormai abbandonato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, le quali non mettono più in discussione la inapplicabilità diretta della nozione comunitaria di rifiuto (al di fuori della materia delle spedizioni disciplinata dal menzionato regolamento)

 

7.3 - L'orientamento giurisprudenziale minoritario, pur dando per scontato il carattere non autoapplicativo della direttiva 75/444/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, giunge ugualmente a non applicare l'art. 14 del D.L. 138/2002, in base all'argomento che, in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario, sia originario, sia derivato, il giudice nazionale deve comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che a più riprese hanno offerto una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella risultante dall'art. 14: in particolare devono dare attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la incompatibilità comunitaria di quest'ultima norma.

 

Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile.

 

A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest'ultima, sicché la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.

 

In tal senso è l'insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti ricordare la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio viene riferita ad una norma comunitaria avente <effetti diretti> (...) non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate".

 

Invero, nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame (senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n. 94/1995).

 

Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma comunitaria priva di efficacia diretta in modo tale che una norma interna risulti incompatibile con la prima, il giudice italiano non ha altra scelta che applicare la norma interna o sollevare sulla stessa l'eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario, consacrati negli artt. 11 e 117 Cost. (è implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).

 

7.4 - Più di recente, un'altra pronuncia di legittimità, seguendo il principio indicato dalla Corte costituzionale con sent. 190/2000, ha correttamente sostenuto la necessità per il giudice italiano di interpretare la normativa nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria (Cass. Sez. III, n. 746 del 1.6.2005, Colli).

 

A questa stregua, ha ritenuto, sulla scia della citata sentenza Niselli, che l'art. 14 in questione non contrasta con la nozione comunitaria di rifiuto solo laddove esclude dall'ambito della relativa disciplina i c.d. sottoprodotti, cioè quei residui di produzione (esclusi i residui di consumo) dei quali il produttore non abbia intenzione di disfarsi e che siano riutilizzati in modo certo, senza previa trasformazione, nell'ambito dello stesso processo produttivo. I "sottoprodotti", infatti, in quanto riutilizzati nello stesso ciclo produttivo come materie prime, non presentano rischi per l'ambiente, sicché per essi non ha ragion d'essere applicare la disciplina dei rifiuti.

 

La fattispecie dedotta nel presente processo, però, esula da ogni possibile interpretazione adeguatrice, giacché il siero di latte residuato dalla produzione casearia veniva trasportato e ceduto a un'altra azienda, esercente attività zootecnica, che lo destinava ad alimento per gli animali. Alla luce del diritto comunitario come autoritativamente interpretato dalla Corte di Giustizia europea, non poteva quindi classificarsi come "sottoprodotto", ma era invece un vero e proprio rifiuto di cui il produttore si disfaceva perché fosse riutilizzato tal quale in altro processo produttivo.

Per la norma nazionale di cui si discute, invece, il siero di latte prodotto nel caseificio e riutilizzato in diversa azienda zootecnica resta indiscutibilmente escluso dalla nozione di rifiuto, e non vi può rientrare in forza di una interpretazione adeguatrice. Esso resta perciò sottratto alla disciplina sui rifiuti, in palese contrasto col diritto comunitario.

 

8 - L'unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi.

 

Invero, la norma in questione, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui di produzione o di consumo che siano semplicemente abbandonati dal produttore o dal detentore, ovvero che siano riutillizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di consumo senza trattamento recuperatorio, si pone in insanabile contrasto con la nozione di rifiuti stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CE, modificata dalla direttiva 91/156/CE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE.

 

Nel caso di specie, quindi, va sollevata d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 D.L. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, perché in contrasto:

a) con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;

b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.

 

L'ipotizzato vulnus comunitario e costituzionale appare tanto più grave in quanto, dopo che la Commissione di Bruxelles aveva aperto la menzionata procedura di infrazione, e poco dopo che la Corte di Giustizia europea aveva emanato la citata sentenza Niselli, il legislatore nazionale, con la legge 15.12.2004 n. 308 (delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), ha ribadito la sua volontà normativa al riguardo, stabilendo al comma 26 dell'art. 1: "Fermo restando quanto disposto dall'art. 14 del decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8.8.2002 n. 178, ...".

 

La non manifesta infondatezza della questione risulta dalle considerazioni svolte in precedenza, secondo le quali la norma denunciata è incompatibile (nei limiti anzidetti) con il diritto comunitario e per conseguenza lede gli obblighi costituzionali di adeguamento all'ordinamento comunitario stesso.

 

9.1 - Dalle considerazioni precedenti risulta altresì evidente la rilevanza della questione, atteso che il processo non può essere definito prescindendo dall'applicabilità del denunciato art. 14 e quindi dalla risoluzione della relativa eccezione di illegittimità costituzionale.

 

Se la norma resistesse al vaglio di costituzionalità, infatti, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, avendo l'art. 14 sottratto alla disciplina dei rifiuti il siero di latte riutilizzato senza trattamenti preventivi in altro ciclo produttivo.

 

Se invece la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi inapplicabile al caso di specie, al giudice a quo si aprirebbe la duplice possibilità di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione (l'art. 14) successivamente caducata dall' ordinamento. Nella prima, ma- sia pur in misura minore - anche nella seconda ipotesi, la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale avrebbe un effetto in malam partem.

 

Emerge qui il noto problema del sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore, cioè delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti disposizioni incriminatrici.

 

Tale appare indubbiamente la norma dell'art. 14, giacché essa si configura come disposizione extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt. 6 e 51 D.Lgs. 22/1997, che, "restringendo" l'ampiezza dell'oggetto materiale del reato (i rifiuti), finisce per derogare o abrogare parzialmente, ovvero modificare in senso favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice.

 

9.2 - Com'è noto, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento della eccezione di illegittimità costituzionale della norma penale più favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio di irretroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost. e all'art. 2, comma 1, cod. pen, si è tratta in passato la conclusione che le eccezioni di incostituzionalità delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.

 

Peraltro, occorre al riguardo precisare che nel caso di specie il fatto contestato è stato commesso sino al 14.11.2000, cioè sotto il vigore della norma incriminatrice di cui agli artt. 6 e 51 D.Lgs. 22/1997, sicuramente conformi al diritto comunitario, e prima dell'entrata in vigore dell'art. 14 D.L. 138/2002, che, escludendo alcune categorie di rifiuti, ha ridotto l'area del penalmente illecito, in contrasto col diritto comunitario.

 

Orbene, è doveroso osservare che in un caso siffatto, se la Corte dichiarasse costituzionalmente illegittima la norma più favorevole di cui all'art. 14, la conferma della responsabilità degli imputati in base alle norma più sfavorevole di cui ai suddetti artt. 6 e 51:

 

a) non violerebbe il principio di irretroattività di cui al secondo comma dell'art. 25 Cost., posto che la norma dell'art. 51 era entrata in vigore prima del fatto contestato; b) non violerebbe neppure il principio di retroattività dell'abolitio criminis di cui al secondo comma dell'art. 2 cod. pen., giacché la norma dell'art. 14, entrata in vigore dopo il fatto, con l'effetto di depenalizzarlo attraverso l'abrogazione parziale dell'art. 6 Dlgs. 22/1997, non potrebbe essere applicata proprio in quanto resa inefficace dalla pronuncia di illegittimità costituzionale: in altri termini, la retroattività della norma parzialmente depenalizzatrice non potrebbe operare per la caducazione della norma stessa dall'ordinamento.

 

Questa conclusione è indubbiamente in linea con la nota sentenza 51/1985 della Consulta, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 2 cod. pen., nella parte in cui prevedeva la retroattività ai fatti pregressi della norma penale favorevole contenuta in un decreto legge non convertito, per contrasto con l'art. 77, ultimo comma, Cost. (secondo cui i decreti legge non convertiti perdono efficacia sin dall'inizio). Esaminando il problema se il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole fosse d'ostacolo al risultato normativo derivante dalla pronuncia di illegittimità costituzionale, la Corte ha precisato che detto principio sarebbe applicabile soltanto per i fatti "concomitanti", commessi cioè sotto il vigore del decreto legge non convertito, ma non per i fatti "pregressi", commessi cioè prima che il decreto legge entrasse in vigore.

 

Anche nel presente processo il fatto è "pregresso" e non già "concomitante" rispetto al periodo di vigenza della norma penale di favore.

 

9.3 - Comunque, il problema è ora risolto dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilità delle questioni di illegittimità costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo; b) della relativa motivazione comunque un "effetto di sistema la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all' interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".

 

Questo approdo ermeneutico non è scalfito dalle numerose statuizioni della Consulta che hanno ribadito l'inammissibilità delle sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversità delle due ipotesi.

 

Infatti, quando è dedotta la questione di costituzionalità di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalità del legislatore.

 

(Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinità anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando così una nuova figura di reato, che però non era applicabile al fatto contestato nel processo a quo).

 

Per diversa ragione l'approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la quale ha escluso la possibilità di estendere l'ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dall'art. 1 D.Lgs. 11.4.2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilità ivi previste. Qui infatti la Corte ha escluso la possibilità di ampliare o aggravare la figura di un reato già esistente attraverso la "demolizione" delle soglie di punibilità, sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto ovvero condizioni di punibilità, e cioè sono comunque "un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae" determinati fatti all' ambito di applicazione di altra norma, più generale".

 

Tale essendo la ratio decidendi, essa non può essere applicata ai casi - come quello presente - in cui la norma denunciata per incostituzionalità è una norma penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso specifico, la gestione dei residui di produzione utilizzati in altri cicli produttivi) a una norma incriminatrice generale (gli artt. 6 e 51 D.Lgs.). In altri termini, facendo cadere per incostituzionalità l'art. 14 si ripristinerebbe la portata originaria di una norma incriminatrice già presente nell'ordinamento, che l'art. 14 aveva parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilità previste nell'art. 2621, invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di là dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.

 

9.4 - Analogo problema si è presentato alla Corte di Giustizia europea, chiamata a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto dal giudice del processo Niselli, posto che la sua ricostruzione ermeneutica poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalità e irretroattività dei reati e delle pene, che è ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario.

 

Al riguardo la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non può avere l 'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni", preso atto che il fatto contestato all'imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs 22/1997, e prima dell'entrata in vigore dell'art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi era "motivo di esaminare le conseguenza che potrebbero discendere del principio di legalità delle pene per l 'applicazione della direttiva 75/442" (parr. 29 e 30).

 

Non occorre qui sottolineare l'analogia fattuale tra il caso Niselli e il caso presente riguardo al rapporto tra tempus commissi delicti e successione delle leggi penali nel tempo. Diverso è il caso affrontato più di recente dalla stessa Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod.civ. fosse o meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).

 

La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di imputati nell' ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati" (par. 78 e dispositivo).

 

Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, né gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale più mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicché si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilità penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria è stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il D.L,gs. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina stessa, sicché né la previsione della responsabilità penale, né la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51 del D.Lgs. 22/1997, e la seconda dall'art. 14 del D.L. 138/2002. Nella presente vicenda processuale, quindi, non può farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3.5.2005, proprio perché presupposto di questo principio è la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.

 

9.5 - Per tutte queste ragioni non sembra dubitabile la rilevanza della dedotta questione.

 

A conforto di questa tesi, peraltro, militano le numerose sentenze di questa Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimità costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n.437/1992; n. 194/1993) o l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).

 

Qui la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, è perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione dell'art. 14 D.L. 138/2002; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell'ambito dei processi principali.

 

P.Q.M.

 

la corte di cassazione, terza sezione penale, visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge 11.3.1953 n. 87, solleva d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 del D.L. 8.7.2002, convertito in legge 8.8.2002 n. 178 per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata.

 

sospende il giudizio in corso e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata agli imputati e al loro difensore, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri;

dà altresì mandato alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

 

Così deciso in Roma il 14.12.2005.


Corte cost. (Ord.) 14 luglio 2006, n. 288 

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

ORDINANZA

 

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), promossi con ordinanze del 2 febbraio 2005 dal Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di F.A. ed altro, del 14 marzo 2005 dal Tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di G.L., del 29 giugno 2005 dal Tribunale di Terni nel procedimento penale a carico di A.N. e del 9 novembre 2005 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti nel procedimento penale a carico di M.B., rispettivamente iscritte ai nn. 228, 248 e 546 del registro ordinanze 2005 e 47 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 18, 19 e 46, prima serie speciale, dell'anno 2005 e 9, prima serie speciale, dell'anno 2006.

 

Visti gli atti di costituzione di G.L. e di A.N., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 20 giugno 2006 e nella camera di consiglio del 21 giugno 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

 

uditi gli avvocati Pasquale Giampietro per G.L., Enrico Morigi per A.N. e l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto che con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Terni ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), nella parte in cui prevede «che i rottami ferrosi siano esclusi dalla normativa sui rifiuti»;

 

che il giudice a quo premette di essere investito dei processi penali nei confronti di persone imputate del reato di cui all'art. 51, comma 1, lettera a) (nel caso di cui all'ordinanza r.o. n. 228 del 2005), e di cui all'art. 51, comma 1, lettera a), e comma 4 (nel caso di cui all'ordinanza r.o. n. 546 del 2005), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), per aver trasportato - rispettivamente, il 21 settembre 2001 e il 18 luglio 2000 - rifiuti non pericolosi, costituiti da rottami ferrosi, con mezzo non autorizzato;

 

che il rimettente osserva che l'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE), relativa ai rifiuti, definisce il «rifiuto» come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»; e che tale nozione viene richiamata anche dall'art. 2, lettera a), del regolamento CEE 1° febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti, di diretta applicazione anche alle spedizioni di rifiuti all'interno dei singoli Stati membri, secondo quanto chiarito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee;

 

che la definizione comunitaria di «rifiuto» è stata integralmente recepita nell'ordinamento italiano con l'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale fa riferimento a «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»;

 

che tale formula è stata peraltro oggetto di «interpretazione autentica» ad opera dell'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, il quale ha stabilito, al comma 1, che le locuzioni «si disfi», «abbia deciso», e «abbia l'obbligo di disfarsi» designano, rispettivamente, l'avviamento, la volontà di destinare e l'obbligo di avviare una sostanza, un materiale o un bene ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del d.lgs. n. 22 del 1997; ha altresì previsto, al comma 2, che le ipotesi di cui alle lettere b) e c) del comma 1 («abbia deciso» e «abbia l'obbligo di disfarsi») non ricorrono per i «beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo», se gli stessi «possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente», ovvero «dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C» del d.lgs. n. 22 del 1997;

 

che a seguito di ricorso in via pregiudiziale, ex art. 234 del Trattato CE, proposto dallo stesso giudice a quo nell'ambito del processo di cui all'ordinanza r.o. n. 546 del 2005, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, ha ritenuto l'anzidetta «interpretazione autentica» contrastante con la definizione di cui all'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, in quanto atta a sottrarre alla qualificazione come «rifiuto» residui di produzione o di consumo corrispondenti a detta definizione;

 

che la Corte europea ha in particolare osservato che «materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti», i quali - stando alle dichiarazioni dell'imputato - «sono stati successivamente sottoposti a cernita ed eventualmente a taluni trattamenti», in vista dell'impiego come «materia prima secondaria destinata alla siderurgia»: prospettiva nella quale, tuttavia, essi «devono conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici», poiché soltanto «a partire da tale momento, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie»;

 

che, a brevissima distanza temporale dalla sentenza della Corte europea, è tuttavia intervenuta la legge 15 dicembre 2004, n. 308, la quale, nel conferire al Governo una delega per il riordino della legislazione in campo ambientale, contiene, all'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, alcune disposizioni di immediata applicazione in tema di rifiuti, apertamente contrastanti - ad avviso del giudice a quo - con i dicta della sentenza stessa;

 

che la citata legge n. 308 del 2004 mantiene, infatti, espressamente «fermo» il disposto dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 (art. 1, comma 26, della legge), già censurato dalla Corte europea, e, nel contempo, esclude taluni materiali, qualificabili come rifiuti, dalla relativa disciplina;

 

che, con particolare riferimento ai rottami metallici, mentre la sentenza afferma che essi non costituiscono materie prime secondarie, ma devono conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici; l'art. 1, comma 29, della legge, aggiungendo una lettera q-bis) all'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, porrebbe un principio esattamente contrario, qualificando come «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonché i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra menzionate»;

 

che in pratica, dunque - reiterando la regola già respinta dalla Corte di giustizia - i rottami ferrosi verrebbero sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti, purché abbiano determinate caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o metallurgici;

 

che le disposizioni considerate si porrebbero di conseguenza in contrasto con l'art. 11 Cost., che impone l'osservanza degli impegni internazionali, e soprattutto con il novellato art. 117 Cost., a norma del quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario: vincoli che - alla luce della giurisprudenza di questa Corte - scaturiscono anche dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia;

 

che il contrasto fra le nuove disposizioni e la Costituzione non potrebbe essere, d'altro canto, risolto con lo strumento della diretta disapplicazione delle prime da parte dei giudici e degli organi amministrativi - secondo quanto pure prefigurato dalla giurisprudenza costituzionale, nei casi di incompatibilità delle norme interne con l'ordinamento comunitario nell'interpretazione datane dalla Corte europea - per molteplici ragioni;

 

che in primo luogo, infatti, andrebbe registrata l'esistenza di un contrasto, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, riguardo alla possibile incidenza delle sentenze della Corte di giustizia sulla nozione di «rifiuto», così come interpretata dall'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002;

 

che tale incidenza viene in effetti esclusa da alcune pronunce, sul duplice rilievo che la definizione comunitaria di rifiuto è contenuta in una direttiva e che l'interpretazione pregiudiziale di spettanza della Corte di giustizia non riguarda gli atti del legislatore nazionale; mentre viene ammessa da altre decisioni, anche perché detta definizione risulta recepita nel regolamento CEE n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri;

 

che permarrebbe, quindi, «una notevole incertezza del diritto», con possibili disparità di trattamento, in un settore pure di particolare rilievo per la tutela ambientale; con conseguente compromissione anche dei principi di legalità e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione;

 

che in secondo luogo, poi, la diretta applicazione della nozione comunitaria di «rifiuto», nell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia, comporterebbe conseguenze sfavorevoli per i cittadini italiani anche sul piano penale: quando, invece, è la stessa Corte di giustizia, nella citata sentenza 11 novembre 2004, a ricordare che «una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni»;

 

che in terzo luogo, e da ultimo, la giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, relativa ai rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale, è intervenuta anteriormente alla modifica dell'art. 117 Cost., che oggi impone espressamente al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario: donde l'esigenza - di fronte ad una legge interna che, come quella impugnata, violi «platealmente» la nuova regola costituzionale - di sottoporre comunque a questa Corte il denunciato vulnus;

 

che non varrebbe obiettare che, in tal modo, si richiederebbe alla Corte una pronuncia diretta a modificare in peius il trattamento penale del cittadino: pronuncia alla quale osterebbe il principio di stretta legalità sancito dal secondo comma dell'art. 25 Cost., il quale esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati, ovvero ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore;

 

che nella specie, infatti, il reato per cui si procede è presente nell'ordinamento nazionale sin dal 1997, né se ne richiede alcun aggravamento: invocandosi, di contro, soltanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma successiva che ne ha ristretto il campo di applicazione, in contrasto con la disciplina comunitaria; con l'effetto di ripristinare l'originaria portata della disposizione che aveva correttamente recepito la disciplina medesima;

 

che la questione sarebbe infine rilevante nei giudizi a quibus - nei quali si procede proprio per una violazione degli obblighi, penalmente sanzionati, relativi a rottami metallici qualificati come rifiuti - in quanto, ove tale qualifica venisse meno per effetto delle norme impugnate, il reato contestato non sarebbe ipotizzabile;

 

che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate;

 

che nel giudizio di costituzionalità relativo all'ordinanza r.o. n. 546 del 2005 si è altresì costituito A. N., imputato nel giudizio a quo, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o infondata;

 

che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, convertito, con modificazioni, in legge n. 178 del 2002, e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge n. 308 del 2004, nella parte in cui prevedono «che i rottami ferrosi siano esclusi dalla disciplina normativa concernente la gestione dei rifiuti»;

 

che il giudice a quo premette di essere investito dell'appello proposto dal pubblico ministero, ai sensi dell'art. 322-bis del codice di procedura penale, avverso l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di convalida del sequestro preventivo di 6.149 tonnellate di rottami ferrosi, operato in via d'urgenza dalla polizia giudiziaria in ambito portuale il 25 gennaio 2005 a norma dell'art. 321, comma 3-bis, cod. proc. pen., ovvero di emissione di un autonomo provvedimento di sequestro preventivo;

 

che il predetto carico di rottami ferrosi, oggetto di spedizione dalla Russia, era destinato al trasporto ed alla successiva consegna ad una acciaieria cremonese tramite la mediazione di una società a responsabilità limitata, al cui amministratore era stato quindi contestato il reato di cui all'art. 51, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, per aver effettuato, in assenza della prescritta autorizzazione, attività di «recupero», o comunque di «gestione», di rifiuti non pericolosi;

 

che il Giudice per le indagini preliminari aveva motivato la decisione di rigetto rilevando, da un lato, la contraddittorietà del quadro normativo - conseguente alla circostanza che alla sentenza della Corte di giustizia 11 novembre 2004 era seguita l'entrata in vigore della legge n. 308 del 2004, la quale aveva mantenuto «fermo» il disposto dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, dichiarato non conforme al diritto comunitario da detta pronuncia - e la conseguente configurabilità di una ignoranza inevitabile della legge penale; e, dall'altro lato, il fatto che la sentenza in parola, interpretativa di una direttiva, non poteva comunque fondare una responsabilità penale in capo ad un soggetto per un fatto commesso, come nel caso di specie, dopo l'entrata in vigore della legge n. 308 del 2004 e che, in base ad essa, non costituiva dunque reato;

 

che avverso il provvedimento aveva proposto appello il pubblico ministero, insistendo nella domanda di adozione della misura cautelare reale, previa disapplicazione delle norme di diritto interno contrastanti con il diritto comunitario, ed eccependo, in via subordinata, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge n. 308 del 2004;

 

che, al riguardo, il Tribunale rimettente osserva come, nell'ordinamento italiano, la gestione dei rifiuti trovi la sua fonte primaria di disciplina nel d.lgs. n. 22 del 1997, di attuazione delle direttive 75/442/CEE, 91/156/CEE e 94/62/CE, il cui art. 6, comma 1, lettera a), definisce il concetto di «rifiuto» sulla base di due criteri, come «qualsiasi sostanza o oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»;

 

che, quanto al primo criterio - quello dell'appartenenza alle categorie di cui all'allegato A - tale allegato riprende l'elenco dei rifiuti contenuto nell'allegato I della direttiva 75/442/CEE: elenco, peraltro, «puramente indicativo», giacché accanto a «voci nominate», esso contiene un riferimento «in bianco» a «qualunque (altra) sostanza o prodotto che non rientri nelle categorie sopra indicate» (voce Q 16);

 

che, quanto al secondo criterio - attinente alle condotte relative al «disfarsi» - l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 ha fornito «una interpretazione autentica» della nozione di rifiuto di cui all'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, specificando che le espressioni «si disfi», «abbia deciso» e «abbia l'obbligo di disfarsi» vanno lette nel senso che, affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di «rifiuto», è sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza recare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza operazioni di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva 75/442/CEE: e ciò al fine di escludere dal novero dei rifiuti i residui di produzione o di consumo idonei ad essere riutilizzati, ossia i c.d. sottoprodotti dei quali un'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni favorevoli in un processo produttivo, senza operare trasformazioni preliminari;

 

che tale «interpretazione autentica» è stata giudicata peraltro non conforme al diritto comunitario dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, la quale, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, ha affermato che, alla luce della ratio di tutela delle citate direttive, può anche ammettersi che un residuo di produzione sia considerato sottoprodotto di cui l'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma solo a condizione che il suo riutilizzo sia certo e non meramente eventuale, e che esso avvenga nel corso del processo di produzione: onde l'anzidetta «interpretazione autentica» viene a sottrarre alla qualifica di «rifiuto» residui di produzione o di consumo che corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE;

 

che, in particolare, secondo la Corte di giustizia, i rottami ferrosi, dei quali si prevede la riutilizzazione come materia prima secondaria nella siderurgia, non perdono la qualifica di rifiuti fino a quando non siano effettivamente trasformati in prodotti siderurgici;

 

che, alla stregua di tale principio, i rottami ferrosi di cui è stato negato il sequestro nel giudizio a quo dovrebbero dunque conservare la qualificazione di «rifiuti» fino al momento della trasformazione in prodotti siderurgici, risultando oggetto di dismissione da parte degli originari produttori e di conferimento ad altri utilizzatori, con destinazione al reimpiego in processo produttivo distinto da quello di derivazione;

 

che, tuttavia, la successiva legge n. 308 del 2004, recante delega al Governo per il riordino della legislazione in materia ambientale, ha dettato alcune disposizioni di immediata applicazione (art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29), le quali, in luogo di adeguare l'ordinamento interno alla sentenza della Corte di giustizia, mantengono «fermo» il disposto dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 (art. 1, comma 26, della legge); ed introducono, altresì, una definizione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» (nuova lettera q-bis dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997) nettamente contrastante con le indicazioni dell'anzidetta sentenza, sottoponendo i rottami metallici al regime delle materie prime (anziché a quello dei rifiuti) a prescindere dall'avvenuta trasformazione in prodotti siderurgici, purché abbiano determinate caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo al reimpiego nei richiamati cicli produttivi;

 

che il contrasto tra la sentenza della Corte di giustizia e le norme interne non potrebbe essere risolto tramite la disapplicazione dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e dell'art. 1, commi da 25 a 29, della legge n. 308 del 2004, cui osterebbe la circostanza che da una simile operazione deriverebbero effetti penali sfavorevoli nei confronti della persona sottoposta alle indagini: onde essa si scontrerebbe con il principio della riserva di legge, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il quale, ponendosi come «principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale», rappresenterebbe - alla stregua degli insegnamenti tanto della Corte costituzionale che della stessa Corte di giustizia - un limite alla penetrazione, diretta e prevalente, delle regole di diritto comunitario nell'ordinamento interno;

 

che, al tempo stesso, però, occorrerebbe considerare come, nella specie, l'antinomia fra norme interne e diritto comunitario non derivi dalla mancata o inadeguata attuazione «originaria» di quest'ultimo da parte del legislatore nazionale, quanto piuttosto dalla modificazione di una norma interna preesistente, finalizzata espressamente all'attuazione degli obblighi comunitari;

 

che, in questa prospettiva, il Tribunale ritiene di dover sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna «abrogatrice» di ogni forma di tutela nella materia de qua - norma interferente con l'ambito di applicazione tanto della direttiva 75/442/CEE che del regolamento CEE n. 295/93 - per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., i quali attribuirebbero una particolare «capacità di resistenza» alle norme (penali e non) attuative di vincoli comunitari già adempiuti;

 

che la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, posto che la configurabilità della fattispecie contravvenzionale, che fornisce il titolo alla domanda di cautela reale, dipende, nel caso concreto, dalla possibilità di qualificare o meno come «rifiuti» i rottami metallici di cui è chiesto il sequestro;

 

che la questione risulterebbe altresì ammissibile, non venendo in rilievo la preclusione che - a fronte della riserva di legge prevista dall'art. 25, secondo comma, Cost. - la Corte costituzionale incontra nell'adozione di pronunce che diano luogo a modifiche in peius del trattamento penale: giacché, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, sono comunque suscettibili di sindacato di costituzionalità, anche in malam partem, le norme penali «di favore», le quali stabiliscano, cioè, per determinate soggetti o per determinate categorie di beni, un trattamento penalistico più favorevole rispetto a quello che deriverebbe dall'applicazione di norme generali o comuni;

 

che se il principio di cui al citato art. 25, secondo comma, Cost. mira ad assicurare che la «funzione incriminatrice» sia riservata in ogni caso al Parlamento, esso non verrebbe infatti scalfito nell'ipotesi in questione, giacché l'ablazione delle norme denunciate si limiterebbe a ricondurre la fattispecie da esse regolata alla norma generale preesistente, dettata dallo stesso legislatore;

 

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;

 

che in detto giudizio si è inoltre costituito G. L., persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata;

 

che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., dell'art. 1, commi 25 e 29, della legge n. 308 del 2004, limitatamente - quanto al citato comma 29 - alla parte in cui aggiunge la lettera q-bis) all'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997;

 

che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che la locale Procura della Repubblica aveva svolto indagini preliminari nei confronti dell'amministratore unico di una società a responsabilità limitata, per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi di cui all'art. 51, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, in relazione alla cessione ad acciaierie di rottami ferrosi sui quali la predetta società aveva eseguito operazioni di cernita e di adeguamento volumetrico, finalizzate ad ottenere materiali conformi alle c.d. «specifiche CECA»: fatti, questi, accertati a seguito di sopralluoghi effettuati nel corso degli anni 2003 e 2004;

 

che, ad avviso del pubblico ministero, la tesi difensiva della persona sottoposta alle indagini - secondo la quale, a seguito delle indicate operazioni di recupero, i rottami avrebbero perso la natura di «rifiuti» per assumere quella di «materia prima secondaria» - troverebbe una base normativa, oltre che nel decreto ministeriale 5 febbraio 1998, anche nella lettera q-bis) dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, aggiunta dall'art. 1, comma 29, della legge n. 308 del 2004, nonché nel disposto dei commi 25, 26, 27 e 28 del medesimo art. 1;

 

che, su tale premessa, il rappresentante della pubblica accusa aveva peraltro sollevato questione di legittimità costituzionale di tutte le norme primarie sopra indicate per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., in quanto idonee a determinare un'ingiustificata restrizione della sfera di operatività della direttiva CEE in materia di rifiuti, chiedendo, in subordine - qualora la questione fosse ritenuta manifestamente infondata - l'archiviazione del procedimento;

 

che, al riguardo, il giudice a quo premette che, conformemente a quanto ritenuto dal pubblico ministero, l'art. 3, comma 3, del d.m. 5 febbraio 1998 - che esclude, a contrario sensu, dalla disciplina dei rifiuti i prodotti derivanti da attività di recupero destinati in modo effettivo ed oggettivo (come quelli di cui si discute nel procedimento a quo) all'impiego in altri cicli produttivi - dovrebbe essere disapplicato, trattandosi di norma secondaria contrastante con quella primaria dell'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, che, recependo fedelmente la definizione data dall'art. 1 della direttiva 91/156/CEE, accoglie una nozione assai ampia di rifiuto, qualificando come tale «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»;

 

che, nell'ambito delle norme primarie di cui il pubblico ministero aveva denunciato l'incostituzionalità, risulterebbero peraltro prive di rilievo nel procedimento a quo tanto quelle di cui ai commi 27 e 28 dell'art. 1 della legge n. 308 del 2004, che riguardano i soli fornitori o produttori esteri di rottami, mentre l'indagato è un operatore nazionale; quanto quella di cui al comma 2 dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, in quanto, nel caso di specie, secondo la prospettazione dell'accusa, i rottami non venivano utilizzati dalle acciaierie «tal quali», ma solo dopo operazioni di recupero, e si trattava inoltre di materiali dei quali i produttori si erano disfatti oggettivamente: onde la citata disposizione non potrebbe essere utilmente invocata, per difetto dei requisiti da essa previsti, al fine di escludere i rottami stessi dalla categoria dei «rifiuti»;

 

che, a tale fine, sarebbero invece rilevanti le disposizioni del comma 1 del citato art. 14 e dei commi 25 e 29 dell'art. 1 della legge n. 308 del 2004;

 

che, rispetto alla prima, tuttavia, la questione di costituzionalità risulterebbe manifestamente infondata, giacché detta disposizione, nel fornire un'interpretazione autentica delle parole «si disfi», «abbia deciso» o «abbia l'obbligo di disfarsi», che compaiono nella definizione di rifiuto di cui all'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, non attribuirebbe ad esse un significato più circoscritto di quello desumibile dal significato letterale e dall'interpretazione logica delle parole stesse;

 

che, di contro, risulterebbe non manifestamente infondata la questione di costituzionalità del combinato disposto dei commi 25 e 29 dell'art. 1 della legge n. 308 del 2004, il quale esclude dalla disciplina dei rifiuti, qualificandoli come «materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche», i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali o internazionali»;

 

che tale previsione normativa risulterebbe infatti lesiva degli artt. 11 e 117 Cost., sottraendo all'applicazione del regime dei rifiuti materiali che debbono, di contro, sottostarvi a mente della nozione di rifiuto offerta dall'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE;

 

che la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, occupandosi in sede di interpretazione pregiudiziale dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, ha infatti stabilito che la predetta nozione non deve essere interpretata nel senso di escludere da essa i residui di produzione o di consumo, quando pure possano essere o siano effettivamente riutilizzati in un nuovo ciclo di produzione o di consumo, con o senza trattamento preventivo;

 

che, non essendo tuttavia le direttive immediatamente efficaci negli ordinamenti dei singoli Stati membri, il giudice nazionale non sarebbe legittimato a disapplicare la legge interna contrastante con esse, onde non resterebbe che sottoporre a scrutinio di costituzionalità le norme in questione, le quali altrimenti imporrebbero l'accoglimento della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero nel procedimento a quo;

 

che la questione di costituzionalità, oltre che rilevante, sarebbe altresì ammissibile, dato che non si chiederebbe alla Corte di creare nuove fattispecie di reato, invadendo la sfera di discrezionalità riservata al potere legislativo, ma semplicemente di rimuovere una norma di legge ordinaria contrastante con un principio costituzionale (quale quello della subordinazione del diritto interno al diritto comunitario): ripristinando con ciò l'originaria sfera di operatività della nozione di «rifiuto» già recepita dall'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, senza alcun intervento sulla disciplina sanzionatoria, già stabilita dal legislatore nazionale e da questo liberamente modificabile;

 

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

 

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano analoghe questioni, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

 

che i giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, dell'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione);

 

che i giudici a quibus censurano, da un lato, che la legge n. 308 del 2004 (art. 1, comma 26) abbia mantenuto espressamente «fermo» il disposto dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 - recante «interpretazione autentica» della definizione di «rifiuto» di cui all'art. 6, comma 1, lettera a), del d. legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 - ancorché la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, avesse ritenuto la predetta «interpretazione» incompatibile con la nozione di «rifiuto» stabilita dall'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE), in quanto atta a sottrarre alla qualificazione come «rifiuto» residui di produzione o di consumo corrispondenti alla nozione stessa;

 

che i rimettenti lamentano, altresì, che la medesima legge nazionale abbia in pari tempo introdotto, con l'art. 1, comma 29, nella parte in cui aggiunge una nuova lettera q-bis) all'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, una definizione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» - sottratta all'applicazione del regime dei rifiuti (commi 25 e 26 dell'art. 1) - apertamente contrastante con le indicazioni della citata sentenza della Corte di giustizia, in particolare per quanto attiene ai rottami ferrosi, oggetto delle condotte di abusiva gestione contestate nei procedimenti penali a quibus;

 

che, successivamente alle ordinanze di rimessione, è tuttavia intervenuto il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, supplemento ordinario, il quale, in attuazione della delega conferita dall'art. 1 della legge n. 308 del 2004, reca, nella parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati), una nuova disciplina della gestione dei rifiuti, integralmente sostitutiva di quella già contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997;

 

che, per quanto in questa sede più interessa, il citato d.lgs. n. 152 del 2006 ha espressamente abrogato, all'art. 264, comma 1, lettera l), la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, direttamente coinvolta nello scrutinio di costituzionalità dal Tribunale di Venezia;

 

che il medesimo decreto legislativo ha poi introdotto, all'art. 183, comma 1, lettera u), una definizione del concetto di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» contrassegnata da elementi di novità rispetto alla corrispondente definizione di cui alla lettera q-bis) dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997, censurata da tutti i rimettenti: risultando tale definizione arricchita di requisiti aggiuntivi, destinati, come tali, a circoscrivere la portata del concetto definito e, correlativamente, il novero dei materiali sottratti al regime dei rifiuti;

 

che, infatti - oltre alla puntualizzazione per cui la definizione attiene alla materia prima secondaria «la cui utilizzazione è certa e non eventuale»; e al di là del rinvio ad apposito decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per l'individuazione delle «specifiche nazionali e internazionali» (ulteriori rispetto alle specifiche «CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO») cui i rottami debbono rispondere al fine di poter fruire della qualificazione in parola - la disposizione dianzi citata, al numero 1), riconduce alla nozione di «materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche» i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero», solo a condizione che quest'ultimo sia «completo»: predicato che non figurava, per converso, nella disposizione pregressa;

 

che, sotto il profilo ora indicato, la definizione in esame si presenta d'altra parte correlata a quella, di nuova introduzione, di «materia prima secondaria» (senza ulteriori specificazioni), contenuta nella lettera q) del medesimo art. 183, comma 1, ove si qualifica come tale la «sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell'articolo 181», ossia della norma che regola il recupero dei rifiuti, la quale, a sua volta, al comma 12, prevede che «la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero», da intendere nei sensi ivi specificati;

 

che, pertanto - a prescindere dall'ulteriore sopravvenuta modifica dal quadro normativo di riferimento, rappresentata dall'abrogazione della direttiva 75/442/CEE ad opera della nuova direttiva in materia di rifiuti 2006/12/CE del 5 aprile 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del 27 aprile 2006, n. L 114, ed entrata in vigore il 17 maggio 2006, la quale reca, all'art. 1, paragrafo 1, lettera a), una definizione di «rifiuto» differenziata dalla precedente solo per una limitata variante linguistica (sostituzione della locuzione «abbia deciso ... di disfarsi» con l'altra «abbia l'intenzione ... di disfarsi») - gli atti vanno restituiti ai giudici a quibus, ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce dello ius superveniens.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

ordina la restituzione degli atti ai giudici a quibus.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2006.


Dottrina


Delega ambientale: prima censura della Commissione Ue
di Paola Ficco

 

Premessa

Risale allo scorso 13 dicembre 2005 il secondo atto della procedura d'infrazione avviata da Bruxelles contro l'Italia in ordine alla cd. "delega ambientale" (legge 308/2004). Solo in questi giorni giorni, però, tale procedura è "venuta alla luce". Infatti, in quella data la Commissione ha indirizzato alla Repubblica italiana il parere motivato ai sensi dell'articolo 226 del Trattato Ue per "non conformità all'articolo 1" direttiva 91/156/Cee sui rifiuti della citata "delega ambientale".

 

La prima fase della procedura era già stata avviata con la lettera di messa in mora, inviata dalla Commissione al Governo italiano in data 13 luglio 2005; la difesa nazionale giunta a Bruxelles il 17 novembre 2005 (prot. n. 13142) non sembra proprio aver convinto la Commissione a desistere; tant'è che siamo al secondo atto della procedura d'infrazione. Sembra che in questi giorni il Governo italiano abbia risposto anche al parere motivato, ma non ne conosciamo il merito.

 

La definizione di rifiuto (e sottoprodotti)

La Commissione ricorda la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue la quale ha stabilito (ex plurimis) che:

• la definizione di rifiuto dipende dal termine "disfarsi", il quale deve essere interpretato in maniera estensiva;

• i residuo di consumo ricadono nell'ambito della nozione di rifiuto;

taluni materiali o materie prime derivanti da processi di fabbricazione possono in determinati casi costituire "sottoprodotti", non ricadenti nell'ambito della nozione di rifiuto, soltanto a determinate condizioni, fra le quali che i materiali siano effettivamente riutilizzati, senza trasformazione, nel corso del processo di produzione (cfr. da ultimo sentenza 11 novembre 2004 - Niselli).

 

Come è evidente, la procedura d'infrazione non ha ad oggetto i sottoprodotti; infatti, essi non figurano nella legge 308/2004; tuttavia, essa ricorda quali siano: solo ed esclusivamente quelli che, tal quali, senza preventivo trattamento, sono reimpiegati nello ciclo produttivo che li ha generati (e non in un altro). In sostanza, per la Ue, il sottoprodotto è il "pronto all'uso" che viene reimpiegato nel luogo di produzione (sul punto, il Dlgs attuativo della delega, è oltremodo diverso, consentendo l'utilizzo del tal quale anche al di fuori del suo luogo di produzione).

I rottami

Dopo aver ricordato i commi relativi ai rottami metallici contenuti nell'unico articolo della "legge delega", la Commissione osserva che "queste esclusioni, che hanno per effetto la non applicabilità delle disposizioni sulla gestione dei rifiuti di cui alla direttiva, sono contrarie alla direttiva stessa, che non può essere derogata da una norma di diritto interno, e che non prevede alcuna esclusione dal suo ambito di applicazione per i rottami derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo e riutilizzabili nell'industria siderurgica o metallurgica, né per il combustibile ottenuto dai rifiuti" .

 

La Commissione rincara la dose affermando che "l'effettivo impiego nei cicli dell'industria siderurgica o metallurgica possa, nella realtà, corrispondere proprio alle operazioni di recupero di rifiuti che la direttiva 75/442/Cee modificata, sottopone a controllo. Tali operazioni fanno parte, ai sensi della direttiva, della gestione dei rifiuti (articolo 2d) e come tali devono essere oggetto del sistema di sorveglianza istituito dalla direttiva stessa".

 

Il Cdr di qualità elevata

Con riferimento all'esclusione dell'Rdf di qualità elevata, la Commissione osserva che in primo luogo la qualifica di rifiuti di tale materiale è riconosciuta dallo stesso Legislatore italiano, laddove non l'ha inserito tra le esclusioni di cui all'articolo 8, Dlgs 22/1997.

La sua esclusione dal campo dei rifiuti è in palese contrasto con l'articolo 1 della direttiva 75/442/Cee come modificata.

Inoltre, esso è inserito nell'Elenco europeo dei rifiuti (Cer 191210), però non è inserito nell'allegato II, regolamento (Cee) 259/93 (lista verde). Pertanto, le sue spedizioni transfrontaliere sono soggette alle procedure di notifica ed ai controlli previsti dal citato regolamento (Cee) 259/93.

Che nel Cdr di qualità elevata vi sia una minore presenza di umidità e di sostanze inquinanti, nonché un maggior potere calorifico non sono elementi decisivi per poter concludere nel senso della esclusione dell'Rdf di qualità elevata dalla nozione di rifiuto ai sensi dell'articolo 1 della direttiva come interpretato dalla Corte, "come non è rilevante il fatto che - per rispondere alla norma Uni- l'Rdf deve essere stoccato, movimentato e trasportato con modalità tali da evitare spandimenti accidentali, fenomeni di autocombustione o di formazione di miscele esplosive e contaminazione di aria, acqua e suolo" .

 

La reiterata e persistente violazione della definizione di "rifiuto"

La legge 308/2004, secondo la Commissione, sottrae "indebitamente alcuni rifiuti dall'ambito di applicazione" del Decreto Ronchi e costituisce la "reiterazione di una prassi legislativa consolidata in Italia e contraria alla direttiva, nonostante le pronunce della Corte di Giustizia in materia".

 

Al riguardo, la Commissione ricorda l'articolo 14, legge 178/2002 che, sebbene censurato dalla sentenza 11 novembre 2004 (C-457/02; Niselli), non ha indotto il Governo italiano ad adeguare la normativa nazionale alla luce dei principi ivi espressi. Anzi, il Governo ha "introdotto nella normativa italiana talune nuove esclusioni contrarie alla direttiva", facendo salvo, con la legge 308/2004, quello stesso articolo 14, già in precedenza censurato dalla Corte europea di Giustizia.

 

Analoga violazione, la Commissione la registra in ordine alla lolla di riso, come citata nella legge 308/2004.

 

 

Conclusioni

Siamo, dunque, all'ultimo atto della procedura d'infrazione. Se il Governo italiano non riesce a convincere Bruxelles della fondatezza della sottrazione dalla direttiva sui rifiuti di rottami, Cdr e sottoprodotti, l'Italia sarà deferita (ancora una volta) alla Corte europea di Giustizia.

Laddove ciò accadesse, la futura sentenza, già pone una pesantissima ipoteca sul cd. "Tu ambientale" attuativo della legge 308/2004. Infatti, le disposizioni ivi contenute riproducono in modo pressoché pedissequo quanto previsto dalla legge 308/2004 per le parti di immediata applicazione (Cdr di qualità elevata e rottami). Per carità, si può sempre fare finta che Bruxelles sia lontana, fredda ed insensibile alle istanze dell'Italia; tuttavia il contrasto tra leggi nazionali e leggi comunitarie non giova a nessuno, soprattutto alle imprese che non riescono mai a capire con certezza quale sia il regime applicabile.

 

Comunicato della Commissione Ue del 3 luglio 2006

In data 3 luglio 2006 la Commissione Ce ha comunicato l'intenzione di deferire l'Italia alla Corte europea di Giustizia in relazione all'esclusione dal regime dei rifiuti - legge 308/2004 e Dlgs 152/2006 - del Cdr di qualità, dei rottami metallici e di altri rifiuti utilizzati nell'industria siderurgica/metallurgica.

 

Tratto da www.reteambiente.it


Ambiente e sicurezza n. 6, 21 marzo 2006 – Vincenzo Paone Alla Corte Costituzionale l’ultima parola sulla nozione di rifiuto?






Ambiente e sicurezza n. 14, 18 luglio 2006 – Pasquale Giampietro Nuova nozione di rifiuto e sottoprodotto più conforme ai canoni comunitari








Ambiente e sviluppo n. 8, agosto 2006 – Stefano Maglia Nozione di rifiuto, materie prime secondarie e sottoprodotti: ancora norme poco chiare e poco “europee”





Ambiente e sviluppo n. 8, agosto 2006 – Vincenzo Paone La nozione di rifiuto al vaglio della Corte Costituzionale: ancora sull’ordinanza “Rubino”



[1] Pubblicato nella G.U. 8 luglio 2002, n. 158 e convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178.

[2] Si veda, per esempio, l’ordinanza 21 dicembre 2001, n. 80 del Tribunale di Udine – Sezione penale (commentata da M. Santoloci in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa”, n. 87/2002) con cui viene confermata la validità del sequestro di rottami ferrosi effettuato dalla polizia giudiziaria in data 16 novembre 2001 e confermato con decreto del Pubblico ministero presso il Tribunale di Udine datato 19 novembre 2001. Si veda anche l’ordinanza del Tribunale di Trieste del 18 ottobre 2001.

[3] Si tratta della sentenza con la quale il GIP presso il Tribunale di Udine ha rigettato l'istanza di dissequestro di rottami ferrosi (il cui sequestro era stato effettuato nel novembre 2001), che invocava l'applicazione del citato art. 14.

[4] In proposito, si veda G. Amendola, Interpretazione autentica di rifiuto: le prime sentenze della Cassazione, in “Il Foro Italiano” n. 3/2003.

secondo il Giudice comunitario

[5] Sentenza n. 543 del 30 agosto 2001.

[6] Per un commento di queste due prime sentenze si vedano gli articoli di P.Giampietro e M. Medugno in “Ambiente e sicurezza” nn. 13 e 23 del 2005.