Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento ambiente
Titolo: Commissione ambiente - Politiche legislative e attività istituzionale nella XIV legislatura
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 2    Progressivo: 8
Data: 18/05/2006
Descrittori:
COMMISSIONI E GIUNTE PARLAMENTARI     
Organi della Camera: VIII-Ambiente, territorio e lavori pubblici


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

Commissione AMBIENTE

Politiche legislative e attività istituzionale

nella XIV legislatura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 2/8 - Maggio 2006

 


 

 

 

 

 

Il "dossier di inizio legislatura" si propone di fornire un quadro sintetico delle principali politiche e degli interventi normativi che hanno interessato nella XIV legislatura i settori di competenza delle Commissioni permanenti.

Alla redazione del dossier hanno partecipato il Servizio Commissioni e l'Ufficio Rapporti con l'Unione europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento Ambiente

 

SIWEB

 

I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

File: AM0001

 


INDICE

Note di sintesi

Temi di interesse e di intervento (a cura del Servizio Studi)3

§      Legislazione in materia ambientale, di tutela del paesaggio, di governo del territorio e di edilizia.3

§      Legislazione in materia di lavori pubblici6

§      Legislazione in materia di protezione civile. 7

§      Legislazione in materia di politiche abitative. 7

Attività della Commissione (a cura del Servizio Commissioni)9

§      1. Ambito di competenza. 9

§      2. Analisi dei dati statistici10

§      3. Linee di tendenza. 12

Principali politiche e interventi legislativi

Ambiente

Ambiente – Profili organizzativi19

§      La riorganizzazione del Ministero dell’Ambiente. 19

§      Le disposizioni contenute in ulteriori provvedimenti22

Il riordino del diritto ambientale. 25

§      Legge delega e schema di decreto legislativo. 25

§      VIA, VAS e IPPC.. 28

§      Difesa del suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche. 30

§      Gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati32

§      Inquinamento atmosferico. 35

§      Danno ambientale. 35

Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati39

§      La nozione di rifiuto. 40

§      Il recepimento delle direttive comunitarie. 41

§      Le emergenze-rifiuti42

§      La bonifica dei siti inquinati44

§      Le novità introdotte dalla Parte quarta del d.lgs. n. 152/2006. 46

Scorie nucleari47

Tutela dell’aria e Protocollo di Kyoto. 51

§      La ratifica del Protocollo di Kyoto e lo scambio di emissioni52

§      Il recepimento delle direttive sulla qualità dell’aria. 53

§      Mobilità sostenibile. 58

§      Disciplina dei combustibili59

§      Le novità introdotte dalla Parte quinta del d.lgs. n. 152/2006. 60

Inquinamento elettromagnetico. 60

§      L’attuazione della legge quadro n. 36/2001: i due DPCM 8 luglio 2003. 60

§      Il contenzioso tra Stato e Regioni64

§      Il completamento dell’attuazione della legge quadro. 65

Inquinamento acustico e luminoso. 66

§      Inquinamento acustico. 66

§      Inquinamento luminoso. 71

Aree protette. 72

Energie rinnovabili78

§      Strumenti di incentivazione. 79

§      Gli ostacoli allo sviluppo delle fonti rinnovabili84

Ambiente – Attività conoscitiva. 85

§      L’indagine conoscitiva sul protocollo di Kyoto. 85

§      L’indagine conoscitiva sul sistema di gestione amministrativa degli enti parco nazionale  86

§      L’indagine conoscitiva sulla sicurezza ambientale. 88

§      L’indagine conoscitiva sulla valutazione degli effetti dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici88

§      L’indagine conoscitiva sulla programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua sul territorio nazionale. 89

Governo del territorio ed edilizia

Governo del territorio. 93

§      La tentata riforma urbanistica. 93

§      La ricognizione dei principi in materia di governo del territorio. 96

Il condono paesaggistico. 99

Titoli abilitativi all’attività edilizia. 102

§      La legge obiettivo e la SUPERDIA. 102

Il condono edilizio. 108

§      Condono edilizio fra disciplina statale e norme regionali108

§      Modifiche recate da norme successive al decreto legge n. 269 del 2003. 111

§      Applicazione delle norme statali112

Norme antisismiche. 113

Lavori pubblici

La legge obiettivo. 121

§      Le nuove procedure per le opere strategiche. 121

§      Il finanziamento delle grandi opere. 124

§      Infrastrutture S.p.A.124

§      Altri provvedimenti125

La riforma della “legge Merloni”. 127

§      L’articolo 7 della legge n. 166 del 2002. 127

§      Altre modifiche alla “legge Merloni” approvate nel corso della legislatura. 130

§      Il codice dei contratti pubblici135

La trasformazione dell’ANAS in S.p.a.137

Viabilità stradale e autostradale. 144

§      Il Centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità. 146

§      Il Piano pluriennale viabilità nazionale. 148

§      L’indagine conoscitiva sul settore autostradale. 149

Giochi olimpici di Torino 2006. 151

Protezione civile

L’ordinamento della protezione civile. 157

Gli interventi per le calamita’ naturali162

§      Gli interventi d’urgenza per le calamità naturali162

§      Il sisma del Molise e Puglia del 31 ottobre 2002. 164

§      Le disposizioni contenute all’interno delle leggi finanziarie. 165

§      La modifica della normativa vigente sugli interventi d’urgenza. 166

§      Gli incendi boschivi168

Politiche abitative

Le politiche abitative. 173

Schede

Ambiente

Riordino del diritto ambientale - Giurisprudenza costituzionale. 181

Il riordino del diritto ambientale - Rinvii a successivi atti attuativi183

La direttiva acque 2000/60/CE.. 200

Danno ambientale - Direttiva 2004/35/CE.. 201

Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di tutela dell’aria. 204

§      Norme per la prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera di impianti e attività (Titolo I)205

§      Disciplina degli impianti termici civili (Titolo II)209

§      Disciplina dei combustibili (Titolo III)211

Il riordino del diritto ambientale –Novità in materia di rifiuti e bonifiche. 212

§      Definizioni e limiti al campo di applicazione. 212

§      Accordi di programma. 215

§      Servizio di gestione dei rifiuti216

§      Raccolta differenziata. 217

§      Autorità di vigilanza. 218

§      Autorizzazioni e iscrizioni219

§      Imballaggi220

§      Consorzi221

§      Tariffa rifiuti223

§      Green public procurement225

§      Bonifica dei siti inquinati226

Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di VIA, VAS e IPPC.. 228

§      Titolo I - Le norme generali228

§      Titolo II - La valutazione ambientale strategica - VAS.. 230

§      Titolo III - La valutazione di impatto ambientale - VIA. 235

§      Titolo IV - Disposizioni transitorie e finali248

§      Gli allegati249

Ambiente e territorio – Sentenza Corte costituzionale 307/2003. 250

La nozione di rifiuto. 253

§      L’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002. 253

§      L’ applicazione dell’art. 14. 254

§      L’interpretazione giurisprudenziale. 256

§      La nuova definizione recata dal d.lgs. n. 152/2006. 257

Discariche di rifiuti258

§      Classificazione e definizione. 259

§      Ammissione dei rifiuti in discarica. 261

§      Autorizzazioni261

§      Chiusura della discarica. 262

§      Regime transitorio. 262

Incenerimento di rifiuti263

§      Il tardivo recepimento della direttiva 2000/76/CE.. 263

§      Campo di applicazione e finalità. 264

§      Tipologie di impianti265

§      Procedura di autorizzazione. 265

§      Novità rispetto alla normativa nazionale previgente. 265

§      Limiti di emissione. 266

Particolari categorie di rifiuti267

§      Veicoli fuori uso. 268

§      Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. 270

§      Rifiuti navi275

§      Imballaggi278

L’attuazione del Protocollo di Kyoto. 279

§      Il Protocollo di Kyoto. 279

§      Il commercio dei diritti di emissione. 283

L’autorizzazione integrata ambientale. 291

§      La direttiva 96/61/CE.. 292

§      Il decreto legislativo n. 372 del 1999 e i relativi provvedimenti di attuazione. 293

§      La delega per l’integrale recepimento della direttiva. 294

§      Altri provvedimenti nazionali in materia di IPPC.. 294

§      Le principali novità introdotte dal decreto legislativo n. 59/2005. 295

§      La procedura per il rilascio dell’AIA. 297

§      Le disposizioni di coordinamento tra IPPC e VIA introdotte dal d.lgs. n. 152/2006  300

Inquinamento elettromagnetico – Giurisprudenza costituzionale. 301

La gestione del rumore ambientale. 303

Contenimento del rumore aeroportuale. 309

Leggi regionali sull’inquinamento luminoso. 313

Governo del territorio ed edilizia

Governo del territorio – Chiarimento terminologico. 319

Governo del territorio – Giurisprudenza costituzionale. 322

Paesaggio – Giurisprudenza costituzionale. 327

Titoli abilitativi all’attività edilizia – Giurisprudenza costituzionale. 329

Il condono edilizio – Giurisprudenza costituzionale. 330

Norme antisismiche – L’evoluzione normativa. 334

§      La normativa antisismica prima del 2003. 334

§      La nuova normativa sismica. 336

Lavori pubblici

La legge obiettivo – Il Programma infrastrutture strategiche. 345

§      Il finanziamento del Programma infrastrutture strategiche (PIS)345

§      Lo stato di attuazione del Programma. 348

§      Le opere deliberate dal CIPE.. 349

La legge obiettivo - La disciplina del contraente generale. 354

§      Le caratteristiche del contraente generale individuate dalla legge obiettivo. 355

§      La disciplina recata dal decreto legislativo n. 190 del 2002 e successive modifiche, come trasposta nel cd. codice appalti356

La legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA. 362

La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale. 367

Il project financing. 372

§      L’istituto. 373

§      Il procedimento previsto dalla normativa italiana (legge n. 109 del 1994, artt. 37 bis – 37 quater )375

§      Le modifiche alla legge n. 109/1994 - introdotte dalla legge n. 166/2002 - in relazione alle procedure delle operazioni di project financing. 377

§      La più recente Relazione dell’UTFP e il Libro Verde sui partenariati pubblico-privati378

Le direttive appalti 2004/17/CE e 2004/18/CE.. 379

§      La direttiva 2004/17CE.. 379

§      La direttiva 2004/18CE.. 383

Libro verde sui partenariati pubblico-privati387

Il codice dei contratti pubblici389

§      Le principali innovazioni rispetto alla normativa previgente. 389

Affidamento di lavori nelle concessioni411

Viabilità stradale e autostradale – Le tariffe autostradali412

Torino 2006 – La legge n. 48 del 2003. 415

§      Le modifiche introdotte dalla legge n. 48 del 2003. 415

Torino 2006 –Le ulteriori disposizioni425

§      Le varianti in corso d’opera. 425

§      Le opere di accompagnamento. 427

§      Le opere di accompagnamento del Comune di Limone Piemonte e disposizioni sulle opere connesse  429

§      Sviluppo Italia. 431

Protezione civile

La Protezione civile - Recenti riforme. 435

§      L’ordinamento della protezione civile prima del 2001. 435

§      La protezione civile nelle recenti riforme. 440

Calamità naturali – I finanziamenti446

Politiche abitative

Disagio abitativo. 453

§      I programmi nazionali per l’edilizia abitativa. 453

§      I nuovi Fondi per il sostegno di determinate fasce sociali454

§      Disposizioni specifiche a favore di determinate categorie sociali458

§      Ulteriori norme relative al patrimonio abitativo. 459

Modiche alla normativa sulle locazioni463

§      Le modifiche alla legge n. 431 del 1998. 463

§      Ulteriori modifiche alla normativa in materia di locazioni467

Proroga degli sfratti468

§      I decreti legge adottati nella prima fase della legislatura. 468

§      Il decreto-legge n. 240 del 2004. 471

§      Il decreto-legge n. 86 del 2005. 473

§      Il decreto-legge n. 23 del 2006. 475

Sfratti - Le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo. 479

Questioni all'esame delle istituzioni dell'Unione europea (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione Europea)

Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. 487

Lo stato delle ratifiche del Trattato. 489

L’allargamento e i Balcani occidentali491

La politica europea di vicinato. 496

Aiuto ai Paesi terzi497

Prospettive finanziarie dell’UE 2007-2013. 499

La strategia di Lisbona. 501

La proposta di direttiva sui servizi nel mercato interno. 503

Biocarburanti505

Cambiamento climatico. 505

Reti TEN.. 506

Libro verde energia. 507

 

 


Note di sintesi

 


Temi di interesse e di intervento
(a cura del Servizio Studi)

Legislazione in materia ambientale, di tutela del paesaggio, di governo del territorio e di edilizia.

L’intervento più consistente e riassuntivo adottato nella XIV legislatura nella materia ambientale è rappresentato dall’insieme normativo legge di delega-decreto legislativo di riordino della materia ambientale (rispettivamente, legge 15 dicembre 2004, n. 308 e decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152).

Al di là delle vicende attinenti all’’iter parlamentare della legge di delega e, in particolare, alle rilevanti modifiche apportate dai due rami del Parlamento, si sottolinea l’ampiezza della delega contenuta nella legge n. 308, il cui oggetto si estende a gran parte di quello che viene comunemente considerato il diritto ambientale.

Il decreto delegato  ha operato quindi un intervento complesso, attraverso, da un lato, il riordino di quasi tutta la legislazione ambientale, dall’altro, l’introduzione di significative novità in importanti settori del diritto ambientale.

Tralasciando le forti polemiche relative alle procedure seguite per l’emanazione del provvedimento (che emergono anche dai dibattiti parlamentari relativi all’esame dello schema di decreto e dai pareri approvati), si segnalano, sul piano del merito, le principali novità apportate dal decreto:

    in materia di difesa del suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche,la soppressione delle vecchie autorità di bacino e l’istituzione di otto distretti idrografici che coprono l’intero territorio nazionale, governati secondo un modello amministrativo unico, nonché la modifica delle procedure di affidamento del servizio idrico integrato. Sulle innovazioni in materia di modalita’ di affidamento dei servizi pubblici locali, si rinvia al capitolo Disciplina dei servizi pubblici locali del dossier relativo all’attività della I Commissione;

    la riforma della disciplina del danno ambientale e delle relative azioni risarcitorie;

    il riordino delle norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni atmosferiche;

    le significative novità nella dibattuta materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti inquinati (finalizzate in particolare allasemplificazione delle procedure amministrative, al reimpiego di talune tipologie di rifiuti come materie prime all’interno di cicli produttivi, all’incentivazione della termovalorizzazione e all’introduzione del principio di concorrenzialità), tra le quali si segnala la previsione della costituzione da parte delle regioni di autorità d’ambito per la gestione integrata dei rifiuti urbani e, a livello nazionale, dell’Autorità nazionale di vigilanza sulle risorse idriche e i rifiuti;

    in relazione alla normativa in materia di valutazione di impatto ambientale - unificata ed elevata al rango legislativo – l’introduzione del principio della corrispondenza fra competenza in materia di VIA e competenza al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione (o all’esercizio) dell’opera (o dell’impianto).

 

Per quanto riguarda gli ulteriori provvedimenti adottati nella XIV legislatura in materia ambientale, si rinvia ai singoli capitoli del presente dossier, salvo segnalare in questa sede, in considerazione della loro rilevanza, i seguenti interventi:

·         in materia di rifiuti, la revisione, attraverso una norma di interpretazione autentica, della definizione di rifiuto contenuta nel c.d. decreto Ronchi (decreto legislativo n. 22 del 1997) e la previsione, con apposito decreto-legge, della realizzazione di un deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Si ricorda, inoltre, l’istituzione, in continuità con l’analoga esperienza della XIII legislatura, di una Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti;

·         in materia di tutela dell’aria, la ratifica del Protocollo di Kyoto (e l’adozione di una serie di atti successivi volti a realizzarne gli obiettivi) con cui l’Italia è entrata a far parte del nucleo di Paesi che hanno deciso di vincolarsi al raggiungimento degli obiettivi internazionali di riduzione delle emissioni dei sei gas cosiddetti “ad effetto serra”, nel periodo 2008-2012;

·         l’adozione, con il collegato ambientale alla finanziaria 2002, di ulteriori misure riferite a vari settori del diritto ambientale (aree protette, tutela delle fasce costiere, rifiuti, telerilevamento delle aree a rischio idrogeologico, istituzione degli osservatori ambientali per la verifica del rispetto delle prescrizioni della valutazione di impatto ambientale sulle grandi opere).

 

In materia di governo del territorio, si segnalano:

·         l’approvazione, soltanto alla Camera dei deputati, di un testo unificato di otto proposte di legge (presentate da tutti i gruppi, di maggioranza e di opposizione), riconducibili al medesimo fine di riordino e di unificazione della normativa italiana in materia di urbanistica, ovvero – secondo un’accezione più ampia – di governo del territorio;

·         l’adozione del decreto legislativo recante ricognizione dei princìpi fondamentali in materia di governo del territorio, in corso di pubblicazione in G.U., in attuazione della disposizione di cui all’articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (cd “legge La Loggia”).

 

 

In materia di tutela del paesaggio, si segnalano:

·         il Codice dei beni culturali e del paesaggio (c.d. “codice Urbani”), attraverso il quale è stata realizzata una revisione delle norme in materia di tutela del paesaggio, con riferimento in particolare alle modalità di individuazione dei beni paesaggistici, alla disciplina procedurale, alla pianificazione paesaggistica e  alle funzioni di vigilanza;

·         le modifiche all’apparato sanzionatorio previsto dal “codice Urbani” contenute nella “delega ambientale”, attraverso la previsione, previo accertamento di compatibilità paesaggistica, da un lato, di  una sorta di sanatoria penale a regime per alcuni reati paesistici di impatto ambientale minore, specificamente indicati; dall’altro, di una disciplina condonistica penale, limitatamente ad interventi eseguiti entro e non oltre il 30 settembre 2004 senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa.

 

Tre sono gli interventi in materia edilizia che devono essere menzionati in una sintesi generale dell’attività legislativa della XIV Legislatura:

·         la revisione della disciplina dei titoli abilitativi all’attività edilizia, attraverso un ampio ricorso alla denuncia di inizio attività - in alternativa alla concessione edilizia - nelle ristrutturazioni immobiliari, in continuità  con una legislazione che aveva progressivamente ridotto il campo di applicazione della concessione edilizia (cfr. TU delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al DPR n. 380 del 2001);

·         il cd “condono edilizio”, disposto dall’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269. Sul nuovo condono edilizio è successivamente intervenuto l’articolo 5 del decreto-legge 12 luglio 2004, n. 168, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 196 e 198 del 2004  (nelle quali si è affermata, tra l’altro, l’illegittimità di numerose disposizioni che disciplinavano i dettagli del condono e disposto che una nuova legge statale dovesse assegnare un congruo termine alle regioni per disciplinare in autonomia gli aspetti di dettaglio).

·         la revisione delle norme antisismiche, realizzata con apposita ordinanza del Presidente del Consiglio del 2003, la cui entrata in vigore è stata più volte prorogata, anche per la necessità di coordinarla con il T.U. sulle norme tecniche delle costruzioni, successivamente approvato con Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti entrato in vigore il 23 ottobre 2005.

Legislazione in materia di lavori pubblici

Durante la XIV legislatura, sono stati adottati taluni rilevanti interventi di carattere generale in materia di lavori pubblici:

 

·         la legge 21 dicembre 2001, n. 443 (“legge obiettivo”) e il relativo decreto attuativo (decreto legislativo 1° agosto 2002, n. 190) , con cui è stato introdotto un regime speciale (derogatorio rispetto a quello contemplato dalla “legge Merloni) per la programmazione, il finanziamento e la realizzazione delle infrastrutture strategiche. Le principali finalità perseguite sono state la programmazione annuale degli interventi, l’accelerazione delle procedure amministrative e l’incentivazione dell’afflusso di capitali privati.

L’attuazione della “legge obiettivo” - sulla quale è intervenuta anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2003 – è iniziata con il primo atto di programmazione generale (la Delibera CIPE 21 dicembre 2001, n. 121) e proseguita annualmente con la presentazione al Parlamento, in allegato al DPEF, degli elenchi delle opere inserite nel programma. Essa ha rappresentato uno dei filoni di maggiore interesse dell’attività parlamentare, oltre che uno dei terreni di più forte dialettica politica. Si segnala, in proposito, anche lo specifico mandato agli Uffici della Camera da parte dell’Ufficio di Presidenza dell’VIII Commissione di “produrre, a supporto dei lavori dell’VIII Commissione, un monitoraggio sistematico della attuazione del programma di infrastrutture strategiche di cui alla delibera CIPE n. 121 del 21 dicembre 2001”, a seguito del quale il Servizio Studi della Camera ha predisposto due Rapporti dal titolo “Infrastrutture strategiche in Italia: l’attuazione della “legge obiettivo”, pubblicati, rispettivamente, nel maggio 2004 e nel luglio 2005;

·         le modifiche alla legge c.d. “legge Merloni” contenute nel “collegato infrastrutture alla finanziaria 2002” (e in successivi provvedimenti) aventi le caratteristiche di un primo, provvisorio, intervento, nell’ambito di un programma volto comunque ad una completa revisione della legislazione sui lavori pubblici (realizzata successivamente con il Codice dei contratti pubblici);

·         la complessiva riforma recata dal Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture(decreto legislativo n. 163 del 2006)con cui sono state recepite le direttive 2004/17/CE (in materia di appalti degli enti erogatori di acqua ed energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali) e 2004/18/CE (in materia di appalti pubblici di lavori, forniture e servizi) e si è proceduto ad una revisione strutturale della normativa italiana e a un suo vero e proprio rimodellamento secondo il nuovo schema delle norme comunitarie. Il codice non si sovrappone esattamente alla normativa sugli appalti di lavori pubblici, in quanto riunifica (sul modello delle direttive comunitarie di cui costituisce l’atto di recepimento) sia le norme sugli appalti di lavori – fino ad oggi raccolte nella cd “legge Merloni” – sia le norme sugli appalti di servizi, di forniture e nei cd “settori esclusio speciali” (acqua, energia, gas, telecomunicazioni).

 

Nella materia dei lavori pubblici, sono stati adottati anche provvedimenti di carattere non generale, volti a rimuovere specifici ostacoli (di carattere procedurale o finanziario) alla realizzazione di singole opere, o comunque a dare risposte a problemi normativi definiti. Tra questi si segnalano: la trasformazione dell’ANAS in società per azioni; le modificazioni alla disciplina degli appalti di lavori pubblici concernenti i beni culturali, le misure volte a correggere alcuni limiti riscontrati nella attività dei soggetti attuatori in relazione agli interventi (disciplinati già nella XIII legislatura) connessi alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, nonché, infine, talune disposizioni relative alla figura dei commissari straordinari per le opere strategiche e per le opere autostradali.

Legislazione in materia di protezione civile

Il principale intervento ordinamentale in materia è rappresentato dal decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, con il quale si è intervenuti sull’assetto istituzionale delle strutture della protezione civile, prevedendosi in particolare la soppressione dell’Agenzia di protezione civile e l’attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero al Ministro dell’interno da lui delegato, delle competenze in materia di coordinamento della protezione civile.

Il quadro normativo adottato con tale provvedimento è stato completato attraverso in particolare il rafforzamento della funzione di guida delle politiche di protezione civile assegnata al Presidente del Consiglio dei ministri con due decreti-legge successivi.

Si segnalano, inoltre, gli interventi relativi al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, relativi in particolare alla disciplina del relativo rapporto di impiego, al riassetto delle disposizioni relative alle funzioni e ai compiti del Corpo dei vigili del fuoco e all’assegnazione di risorse e all’incremento delle dotazioni organiche.

Legislazione in materia di politiche abitative

Gli interventi volti a dare impulso alle politiche abitative adottati nel corso della XIV legislatura hanno riguardato:

·         l’adozione di provvedimenti straordinari e d’urgenza per fronteggiare l’emergenza abitativa soprattutto nelle grandi aree metropolitane, attraverso in particolare la proroga degli sfratti, di cui peraltro è stata gradualmente ridotta la portata applicativa;

·         l’avvio di alcuni programmi nazionali per l’edilizia abitativa nuova e di recupero manutentivo;

·         il proseguimento della politica volta alla dismissione del patrimonio abitativo pubblico e all’adozione di strumenti fiscali, finanziari e creditizi per l’accesso all’abitazione in proprietà o in affitto. Con specifico riferimento alle agevolazioni alle locazioni, sono state apportate talune modifiche allemodalità di ripartizione del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione (istituito dall’art. 11 della legge n. 431 del 1998), nonché alla procedura per la stipula dei contratti appartenenti al cosiddetto “secondo canale” (ovvero contratti stipulati non a prezzi di mercato, ma sulla base di convenzioni tra associazioni degli inquilini e associazioni della proprietà immobiliare). Sono stati, infine, istituiti due nuovi Fondi per il sostegno di determinate fasce sociali (il Fondo per l’edilizia a canone speciale e il Fondo per favorire l’accesso delle giovani coppie alla prima casa di abitazione).

 

 

 


Attività della Commissione
(a cura del Servizio Commissioni)

1. Ambito di competenza

Le materie che rientrano nelle competenze della VIII Commissione sono il risultato della riforma regolamentare del 1987, che ha previsto di concentrare in un’unica Commissione tutte le competenze afferenti ai lavori pubblici e alla materia ambientale (sino a quel momento distribuite tra diverse Commissioni), con l’aggiunta di quelle relative al territorio e, in particolare, all’urbanistica. Per tali motivi, secondo quanto stabilito anche dalla lettera circolare del Presidente della Camera del 16 ottobre 1996, adottata sulla base dell’articolo 22, comma 1-bis, del Regolamento, le competenze della Commissione sono state specificate nel senso di farvi rientrare i seguenti settori: ambiente; territorio; lavori pubblici, comprese le infrastrutture stradali; protezione civile ed interventi conseguenti a calamità naturali; parchi e riserve naturali; protezione dei boschi e delle foreste; tutela paesistica; salvaguardia degli elementi ambientali (suolo, aria, acqua).

La citata lettera circolare del Presidente della Camera ha precisato, poi, che i provvedimenti in materia di restauro e conservazione di immobili costituenti beni culturali appartengono alla competenza della VII Commissione (Cultura), a meno che non emerga una prevalenza degli aspetti di carattere urbanistico, che determina l'assegnazione alla VIII Commissione. Inoltre, i provvedimenti concernenti la realizzazione di opere relative ad infrastrutture nel settore delle comunicazioni ferroviarie, aeree e navali rientrano nella competenza della IX Commissione (Trasporti), spettando a tale Commissione anche i provvedimenti in materia di infrastrutture intermodali. Tutti i suddetti provvedimenti sono, tuttavia, assegnati alla VIII Commissione, qualora abbiano come oggetto prevalente la disciplina dei relativi appalti. Infine, in materia di risorse forestali, la circolare dispone che la competenza della XIII Commissione (Agricoltura) è riferita alla gestione produttiva di tali risorse, ferma restando la competenza della VIII Commissione relativamente ai profili di carattere ambientale.

Una ulteriore precisazione degli ambiti di competenza della Commissione è stata disposta, nella XIV legislatura, con la lettera del Presidente della Camera ai Presidenti delle Commissioni permanenti del 16 luglio 2001, in cui, per un verso, è stato ulteriormente specificato che la competenza della VIII Commissione investe la materia della “realizzazione di opere relative ad infrastrutture stradali”, e, per altro verso, è stata confermata la prassi che vede attribuita alla stessa VIII Commissione la competenza per le locazioni ad uso abitativo, nell’ambito delle politiche per la casa, mentre spettano alla II Commissione (Giustizia) le questioni attinenti le locazioni ad uso diverso da quello abitativo.

Quanto ai profili problematici sorti nel corso della XIV legislatura, si segnala, altresì, la questione delle competenze in tema di fauna selvatica e disciplina della caccia. Si ricorda, infatti, che nella circolare del 1996 è esclusa la competenza della VIII Commissione in materia, essendo chiarita, al riguardo, la piena competenza della XIII Commissione (Agricoltura). Tale competenza, tuttavia, è stata oggetto di specifica analisi da parte della VIII Commissione nella XIV legislatura, in occasione dell’esame presso la XIII Commissione delle proposte di legge recanti la riforma della legislazione sull’attività venatoria. Nel maggio del 2004, infatti, a fronte della richiesta formulata da taluni gruppi di opposizione di affrontare la questione generale dell’esigenza di una nuova valutazione dei criteri di assegnazione dei progetti di legge in materia di attività venatoria, il Presidente della Commissione, pur rilevando l’inopportunità di sollevare – in virtù della chiarezza della lettera circolare del 1996 – un formale conflitto di competenza nei confronti della XIII Commissione,  ha prospettato tale questione al Presidente della Camera. Questi ha, quindi, ribadito – in una lettera del 1° giugno 2004 – come “allo stato non sussistano le condizioni per operare una modifica dei criteri di riparto delle competenze in materia di caccia fra le Commissioni permanenti”, che potrebbe peraltro “essere operato solo nell’ambito di una più generale valutazione circa l’adeguatezza complessiva del riparto medesimo alla luce dell’evoluzione, ancora in corso, del nostro sistema istituzionale”.

Con riferimento a casi di particolare interesse riguardanti le competenze ripartite con altre Commissioni permanenti, si segnala, infine, che nel corso della XIV legislatura sono stati assegnati alla VIII Commissione (Ambiente) congiuntamente alla III Commissione (Affari esteri), due rilevanti disegni di legge di ratifica di trattati internazionali (Protocollo di Kyoto e Convenzione europea del paesaggio), che per il loro impatto sulla legislazione vigente in materia ambientale e paesistica investivano in misura significativa le competenze della stessa VIII Commissione. Inoltre, è stata assegnata alle Commissioni riunite V (Bilancio) e VIII (Ambiente) una proposta di legge relativa alla valorizzazione dei “piccoli comuni”, nel cui ambito, oltre alle misure di sostegno per le attività economiche, produttive e commerciali, erano previste iniziative per la valorizzazione del patrimonio naturale, territoriale e paesistico di detti comuni.

2. Analisi dei dati statistici

L’attività della Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici, nella XIV legislatura, si è sviluppata in maniera equilibrata nell’ambito delle diverse sedi, con una significativa rilevanza, sotto il profilo quantitativo, non soltanto della tradizionale attività legislativa, ma anche di quella relativa all’esame di atti del Governo.

Per quanto concerne l’attività legislativa, la Commissione ha utilizzato, in primo luogo, il procedimento in sede referente (con 29 provvedimenti approvati, dei quali 23 di iniziativa governativa). La Commissione ha poi approvato quattro progetti di legge in sede legislativa, di cui tre di iniziativa parlamentare e uno di iniziativa governativa, tutti concentrati – peraltro – nei primi anni di legislatura (l’ultimo provvedimento approvato in sede legislativa, infatti, risale al dicembre 2003). Inoltre, si segnala che la Commissione non ha mai fatto ricorso – nell’arco della legislatura – alla sede redigente, contrariamente a quanto avvenuto nella XIII legislatura, in cui quattro provvedimenti (recanti rilevanti riforme di settore) erano stati esaminati in tale sede.

Nell’ambito dell’attività legislativa, si rileva inoltre che la Commissione non ha mai attivato, nel corso della legislatura, richieste di dati o relazioni tecniche al Governo (ai sensi dell’articolo 79 del Regolamento), mentre ha fatto ricorso, in tre occasioni, alla richiesta di parere al Comitato per la legislazione ai sensi dell’articolo 16-bis, commi 4 e 6-bis, del Regolamento. Si segnala, altresì, che su un unico disegno di legge si è avuta la presentazione di relazioni di minoranza (avendo, peraltro, il provvedimento registrato tre letture da parte della Camera, sono state conseguentemente presentate tre relazioni di minoranza). Numerosi sono stati, tuttavia, i casi in cui la Commissione ha acquisito i necessari elementi tecnici facendo ricorso, nell’ambito dell’istruttoria legislativa, a differenti strumenti conoscitivi, quali, in particolare, le audizioni informali (complessivamente pari a 122, cui vanno aggiunte ulteriori 15 audizioni effettuate a Commissioni riunite), svolte prevalentemente nell’ambito di appositi comitati ristretti.

Per quanto riguarda l’attività consultiva svolta dalla VIII Commissione, essa risulta estremamente significativa da un punto di vista quantitativo (con 202 pareri espressi nella XIV legislatura), nonché incisiva sotto il profilo qualitativo. In particolare, la Commissione ha rilevato in numerosi casi, mediante apposite condizioni ed osservazioni, l’opportunità di apportare interventi di coordinamento tra le disposizioni esaminate in sede consultiva e principi posti dalla normativa vigente in materia ambientale o infrastrutturale.

Le attività conoscitive poste in essere dalla VIII Commissione hanno riguardato, anzitutto, le audizioni svolte ai sensi dell’articolo 143, comma 2, del Regolamento (pari – nel complesso – a 52 audizioni, di cui 14 svolte a Commissioni riunite), ma hanno altresì dato luogo a sei indagini conoscitive, relative rispettivamente all’attuazione del Protocollo di Kyoto, alla gestione amministrativa dei parchi nazionali, alla sicurezza dei rifiuti radioattivi e pericolosi, all’inquinamento elettromagnetico, alla programmazione delle opere idrauliche e al settore autostradale (quest’ultima svolta in congiunta con la IX Commissione).

Di frequente, si è rivelato utile anche il ricorso ad altre procedure, quali ad esempio gli indirizzi nei confronti del Governo, sostanzialmente concentrati nella discussione di risoluzioni (25 risoluzioni – sulle 50 presentate – sono state concluse in Commissione, nell’ambito di 39 sedute).

La Commissione ha svolto, inoltre, una intensa attività di sindacato ispettivo (cui sono state dedicate, in totale, 103 sedute), che ha consentito di dare risposta a 383 delle 581 interrogazioni presentate (con una percentuale pari al 66 per cento). Particolarmente significativo è risultato anche il ricorso allo strumento delle interrogazioni a risposta immediata, che ha visto quasi quadruplicare le sedute ad esse dedicate nella XIII legislatura, con lo svolgimento di 143 interrogazioni, nell’ambito di 49 sedute, a fronte delle 49 risposte in 12 sedute della precedente legislatura.

Un settore di attività particolarmente rilevante per la VIII Commissione – nel corso della legislatura – è stato costituito dai pareri su atti del Governo, pari a 70, cui va aggiunto un caso in cui la Commissione ha espresso rilievi ai sensi dell’articolo 96-ter, comma 4, del Regolamento. Tra gli atti sottoposti al parere parlamentare, 25 e 19 sono stati, rispettivamente, gli schemi di decreti legislativi e le proposte di nomina, mentre 26 sono stati gli atti aventi natura diversa (schemi di regolamento, di decreto ministeriale o simili).

La Commissione ha, inoltre, proceduto – nel corso della XIV legislatura – all’esame di tre sentenze della Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, di cui una relativa a un giudizio per conflitto di attribuzione tra lo Stato e le regioni. L’esame di tali sentenze si è concluso con l’approvazione di tre documenti finali.

La VIII Commissione ha poi svolto l’esame, ai sensi dell’articolo 127, comma 2, del Regolamento, di una proposta di direttiva comunitaria (nella cosiddetta “fase ascendente” della legislazione europea), adottando anche in questo caso un documento finale.

3. Linee di tendenza

Nella XIV legislatura, il predominante ricorso ai provvedimenti di urgenza, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione, su materie di competenza, è probabilmente l’elemento principale che ha caratterizzato l’attività legislativa della VIII Commissione. Infatti, dei 33 provvedimenti conclusi in Commissione in sede referente o legislativa, 20 disegni di legge (pari al 60,6% del totale) hanno riguardato la conversione in legge di decreti-legge, a testimonianza del peso significativo che la decretazione di urgenza – accentuando un dato già registrato nella precedente legislatura – assume nei settori dell’ambiente, della gestione del territorio e della protezione civile. Si tratta, in prevalenza, di decreti emanati a seguito di eventi calamitosi, ovvero di decreti recanti misure per fronteggiare l’emergenza abitativa, nonché interventi di emergenza in campo ambientale, con particolare riferimento al settore dei rifiuti, ivi inclusi quelli pericolosi e radioattivi.

A questo tipo di produzione legislativa, peraltro, si è accompagnata anche una azione di riordino della normativa in talune delle principali materie di competenza della Commissione. In primo luogo, si segnalano al riguardo le due grandi leggi di delegazione approvate, rispettivamente, in campo ambientale (la cosiddetta “delega ambientale”) e in campo infrastrutturale (la cosiddetta “legge-obiettivo”), che hanno rappresentato rilevanti atti di riforma organica nei relativi settori. Si tratta, d’altra parte, di provvedimenti che hanno inciso in misura significativa su materie interessate dalla stessa riforma del Titolo V della Costituzione. In particolare, le norme contenute nella delega in materia di infrastrutture strategiche hanno anche portato alla pronuncia di una rilevante sentenza della Corte costituzionale (la sentenza n. 303 del 2003, che la stessa VIII Commissione ha, poi, esaminato ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento), che ha fissato importanti principi in relazione al riparto di competenze tra lo Stato e le regioni sulla materia.

Ai citati provvedimenti, occorre poi aggiungere quelli volti a promuovere misure innovative in specifici e determinati settori di interesse della Commissione. Tra questi interventi si inseriscono, in primo luogo, il cosiddetto “collegato ambientale” e il cosiddetto “collegato infrastrutture” (approvato in sede di Commissioni riunite con la IX Commissione), che hanno dettato – oltre che talune disposizioni di natura micro-settoriale – anche una disciplina legislativa di natura più organica per rilevanti argomenti relativi alle materie dei rifiuti e degli appalti di lavori pubblici. Si segnalano, inoltre, il disegno di legge quadro recante principi in materia di governo del territorio e il progetto di legge sulla promozione dei piccoli comuni (esaminato congiuntamente alla V Commissione), che tuttavia non sono giunti, dopo la conclusione dell’iter alla Camera, alla definitiva approvazione da parte del Parlamento.

Di rilievo è stata anche l’azione di più minuta “manutenzione legislativa” (alla cui categoria possono ascriversi anche le quattro leggi approvate in sede legislativa dalla VIII Commissione). Questo tipo di attività legislativa ha assunto le caratteristiche di definizione o di finanziamento di programmi di intervento per finalità varie (si pensi, ad esempio, alla legge relativa alla valorizzazione dell’architettura rurale); di modifica ed integrazione della legislazione vigente in specifici campi di interesse (si cita, in particolare, la legge sul riordino della legislazione speciale per i Giochi olimpici invernali “Torino 2006”); di parziale revisione di normative di settore al fine di sostenere specifiche finalità pubbliche (a titolo di esempio, si veda il provvedimento sul recupero urbanistico dei centri storici, peraltro approvato soltanto dalla Camera dei deputati).

Nell’ambito delle linee di tendenza delle politiche nei settori di competenza della VIII Commissione, vanno inoltre tenuti in considerazione i numerosi e rilevanti atti normativi del Governo (in particolare, gli schemi di decreti legislativi), che hanno riguardato, per un verso, l’attuazione delle leggi di delegazione richiamate in precedenza (le cosiddette “delega ambientale” e “legge obiettivo”), e, per altro verso, il recepimento nell’ordinamento interno di significative direttive comunitarie. In particolare, nel quadro degli schemi di atti normativi di recepimento della disciplina comunitaria, la Commissione ha affrontato, tra gli altri, provvedimenti di ampia riforma organica nei settori di propria competenza; tra questi, si evidenzia il “codice degli appalti”, attuativo di due direttive comunitarie del 2004, che produce una complessiva riforma della legislazione vigente, imperniata sulla cosiddetta “legge Merloni”.

Va, infine, ricordato che la Commissione ha sviluppato – anche nell’esercizio dei propri poteri di controllo e indirizzo – una intensa attività che, sia pur indirettamente, ha inciso sulle politiche di settore. Tale attività si è concentrata, in particolare, nell’espressione di 19 pareri su proposte di nomina e in un rilevante utilizzo degli strumenti di sindacato ispettivo. In questo ambito, una significativa frequenza hanno avuto le sedute dedicate allo svolgimento di interrogazioni a risposta immediata, che hanno di volta in volta riguardato specifici argomenti rientranti nell’ambito di competenza della Commissione, caratterizzati da una preminente attualità politica, quali, ad esempio, i temi dell’attuazione della cosiddetta “legge obiettivo”, della definizione di specifiche iniziative di tutela ambientale, delle emergenze occorrenti nella difesa del suolo e nella gestione del territorio, della messa in sicurezza dei rifiuti nucleari.

 

 


Principali politiche e interventi legislativi

 


Ambiente


Ambiente – Profili organizzativi

La riorganizzazione del Ministero dell’Ambiente

La struttura organizzativa del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio è stata oggetto di riforma, nel corso della XIV legislatura, attraverso l’emanazione di un nuovo regolamento di organizzazione, approvato con il DPR 17 giugno 2003, n. 261.

Il nuovo regolamento ha origine dalle modifiche legislative introdotte dal decreto legislativo 6 dicembre 2002, n. 287 che, novellando il decreto legislativo n. 300 del 1999, ha modificato la struttura organizzativa del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, attraverso l’eliminazione dell’organizzazione per dipartimenti che era stata – a sua volta – introdotta nella parte finale della XIII legislatura, con il precedente regolamento organizzativo approvato con il DPR 27 marzo 2001, n. 178 (ora abrogato dall’attuale nuovo regolamento).

Al fine di inquadrare il DPR n. 261 del 2003 nel processo di riforma dei Ministeri previsto dalla legge n. 59 del 1997, è utile ricordare che il decreto legislativo n. 300 del 1999 prevedeva la dipartimentalizzazione di quasi tutti i ministeri, fra i quali anche il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio. I dipartimenti - quali strumenti di riordino delle strutture di primo livello – venivano costituiti - secondo il disegno originario della riforma - per assicurare "l'esercizio organico ed integrato" delle funzioni; ad essi infatti venivano attribuiti "compiti finali concernenti grandi aree omogenee" (art. 5).

L’intenzione di apportare correzioni a questo indirizzo generale è emersa nella fase iniziale della XIV legislatura con la legge 6 luglio 2002, n. 137 che ha conferito al Governo numerose deleghe legislative, la prima delle quali, di carattere generale, ha riguardato la riorganizzazione e l’articolazione delle competenze dei ministeri e della Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi correttivi o modificativi di provvedimenti già emanati ai sensi della legge n. 59 del 1997[1].

Pertanto, in virtù della delega legislativa di cui all’art. 1 della legge n. 137, e a seguito dell’innovazione costituita dall’introduzione, per la prima volta nella Costituzione italiana, di un espresso riferimento alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema al comma secondo, lett. s), del nuovo art. 117 (come introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001), è stato emanato il decreto legislativo 6 dicembre 2002, n. 287, che ha, da un lato, apportato modifiche di carattere generale all’organizzazione dei Ministeri[2] e, dall’altro, introdotto una nuova configurazione funzionale e strutturale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.

Sono stati conseguentemente ridefiniti i compiti e le funzioni del Ministero dell’ambiente rispetto alle previsioni originarie del decreto legislativo n. 300 e sono state disposte le linee di indirizzo di una sua riorganizzazione, ovvero del passaggio da una struttura articolata in dipartimenti e direzioni generali, in una articolata in sole direzioni generali con conseguente possibilità di istituzione dell’ufficio di segretario generale[3]. Sono state, quindi, fissate, cinque grandi aree di intervento, ridisciplinati i poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero sull’Agenzia per la protezione dell’ambiente e dei servizi tecnici (APAT) e sull’Istituto centrale per la ricerca applicata al mare (ICRAM), stabilendo, nel contempo, che l’articolazione del Ministero non può svilupparsi in più di sei direzioni generali. Quanto alle funzioni e ai compiti attribuiti al Ministero, sono state introdotte alcune novità tra cui:

§         il nuovo rilievo dato alla comunicazione ambientale;

§         l’inclusione della biosicurezza fra le materie di competenza del Ministero;

§         l’attuazione e gestione della Convenzione di Washington (CITES -Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione)[4].

Le motivazioni di tali modifiche legislative, come illustrate nella relazione che accompagnava lo schema di decreto del Governo, risultano essere state quelle di una revisione del sistema di gestione e monitoraggio dell’ambiente, improntata ad una maggiore snellezza delle strutture e ad una migliore qualificazione scientifica.

 

In attuazione della riordino previsto dal decreto legislativo n. 287, è stato emanato il citato DPR 17 giugno 2003, n. 261, con il quale si è provveduto alla riorganizzazione del Ministero in sei direzioni generali, per ciascuna delle quali sono stati indicati i compiti e le relative aree funzionali (artt. 1 – 7). Inoltre sono stati elencati gli organismi operanti alle dirette dipendenze del Ministro con funzioni di supporto tecnico-scientifico (art. 8) ed è stata ridefinita la dotazione organica[5].

 

In merito alle funzioni attribuite alle sei Direzioni generali occorre specificare che:

§         la Direzione generale per la protezione della natura ha accorpato, sostanzialmente, le funzioni che erano state assegnate dal DPR n. 178 del 2001 alla Direzione per la conservazione della natura ed alla Direzione per la difesa del mare. Sono state, poi, aggiunte nuove funzioni, quali:

ü       la predisposizione della Carta della natura (precedentemente assegnata alla Direzione generale per la difesa del territorio) e del piano per la biodiversità;

ü       gli adempimenti relativi all’immissione deliberata nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati, precedentemente attribuita alla Direzione per la valutazione di impatto ambientale;

ü       l’attuazione e gestione della Convenzione di Washington (CITES).

§         Nella Direzione generale per la qualità della vita sono state accorpate le funzioni in precedenza esercitate dalla Direzione per la tutela delle acque interne e dalla Direzione per la gestione dei rifiuti. In genere, non si sono riscontrate modifiche di carattere sostanziale, ma si è trattato piuttosto di una ridefinizione delle funzioni, in alcuni casi più appropriata e aggiornata. Per due specifici aspetti sono stati rilevati, invece, elementi di novità, quali:

ü       la competenza relativa alla salvaguardia di Venezia e della zona lagunare (già prevista dal DPR n. 178) è stata ridefinita in termini più ampi;

ü       è stata soppressa la competenza per l’indirizzo e il coordinamento dell’attività dei rappresentanti del Ministero nei comitati tecnici delle autorità di bacino (precedentemente della Direzione per la tutela delle acque interne, con l’intesa della Direzione per la difesa del territorio). Nel regolamento, tale competenza è stata interamente assegnata alla direzione generale per la difesa del suolo.

§         Le funzioni della Direzione generale per la ricerca ambientale e lo sviluppo sono derivate dalla somma delle funzioni che erano state assegnate alla Direzione per lo sviluppo sostenibile e alla Direzione per la protezione internazionale dell’ambiente. Non si sono riscontrati sostanziali innovazioni, se non l’introduzione di una specifica voce relativa all’attuazione del Protocollo di Kyoto e del Protocollo di Montreal (nel precedente regolamento erano assegnate alla Direzione per l’inquinamento e i rischi industriali).

§         La Direzione generale per la salvaguardia ambientale ha rappresentato il risultato dell’accorpamento delle precedenti due direzioni: per la valutazione di impatto ambientale e per l’inquinamento e i rischi industriali.

§         Per la Direzione generale per la difesa del suolo, si è trattato di una ripetizione delle voci relative alle funzioni precedentemente assegnate alla Direzione per la difesa del territorio, con alcune differenze, quali:

ü       la sottrazione della competenza alla predisposizione della Carta della natura, attribuita alla Direzione generale per la protezione della natura;

ü       la sottrazione della competenza in materia di difesa delle coste (assorbita dalla competenza della “difesa e gestione integrata della fascia costiera marina”, anch’essa attribuita alla Direzione generale per la protezione della natura);

ü       la sottrazione della competenza nella attività connesse alla convenzione per la lotta contro la desertificazione e la siccità (assorbita da una voce più generale di cui all’art. 4) e assegnata alla Direzione generale per la ricerca ambientale e lo sviluppo).

§         La Direzione generale per i servizi interni del Ministero ha ereditato le funzioni che erano state assegnate alla Direzione per le politiche del personale e gli affari generali e alla Direzione per i sistemi informativi e statistici. Rispetto al precedente assetto si è rilevata la soppressione di alcune voci.

 

In merito alla verifica della nuova organizzazione del Ministero, la Corte dei Conti, ha più volte sottolineato[6] la coerenza della nuova organizzazione con le aree tematiche di competenza del Ministero e come, attraverso la sostituzione dei Dipartimenti con le nuove Direzioni Generali[7], è stata introdotta un'articolazione più snella. La Corte ha poi evidenziato le difficoltà incontrate dall’Amministrazione nel passaggio di funzioni ed i conseguenti ritardi nell’attuazione del nuovo Regolamento. L’assetto organizzativo si è conseguentemente stabilizzato solamente nel corso del 2004.

 

Occorre, infine, ricordare che nel dicembre 2005 è stato presentato alle Camere, per il relativo parere[8] (e in attesa si pubblicazione), uno schema di regolamento di modifica del DPR n. 245 del 6 marzo 2001 con cui è stata disciplinata l'organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro dell’ambiente e recante, prevalentemente, norme relative alla struttura organizzativa dell’Ufficio del Vice Ministro.

Le disposizioni contenute in ulteriori provvedimenti

Ulteriori disposizioni relative all’assetto organizzativo del Ministero dell’ambiente e del territorio hanno trovato collocazione all’interno di alcuni importanti provvedimenti in materia ambientale quali la legge 31 luglio 2002, n. 179[9] e la legge 15 dicembre 2004, n. 308[10].

Tra le disposizioni contenute nella legge n. 179 del 2002 si segnalano:

§         l'istituzione degli Osservatori ambientali (art. 5), cui è stata affidata la verifica del rispetto delle prescrizioni della valutazione di impatto ambientale sulle grandi opere. All’osservatorio ambientale è stata demandata l’attività di vigilanza e di monitoraggio sulla compatibilità delle opere infrastrutturali (strade, ferrovie, bacini idrici, elettrodotti, opere portuali) in particolar modo durante il periodo della realizzazione;

§         il potenziamento delle strutture operative del Ministero dell’ambiente, attraverso l’istituzione del Reparto ambientale marino (RAM) del Corpo delle Capitanerie di porto (art. 20), posto alle dipendenze funzionali del Ministro dell’ambiente, con funzioni di raccordo fra il Comando generale e l’amministrazione centrale preposta alla tutela dell’ambiente marino e costiero (art. 20)[11].

La legge n. 179 del 2002 (art. 29), ha previsto anche alcune modifiche alla legge n. 183 del 1989 (legge quadro sulla difesa del suolo), al fine di adeguarla al nuovo quadro delle funzioni ministeriali risultante dall’attuazione del decreto legislativo n. 300 del 1999 che ha previsto la competenza primaria del Ministero dell’ambiente in materia di difesa del suolo[12]. Si ricorda che l’intera legge n. 183 è stata successivamente abrogata dal decreto legislativo n. 152 del 2006. Su queste importanti innovazioni normative si rinvia al capitolo Il riordino del diritto ambientale.

Con la legge n. 308 del 2004 (art. 1, commi da 42 a 44) è stata disposta l’istituzione, al fine di migliorare, incrementare ed adeguare agli standard europei, alle migliori tecnologie disponibili (BAT) gli interventi in materia di tutela delle acque interne, di rifiuti e di bonifica dei siti inquinati, presso il Ministero dell'ambiente, di una apposita Segreteria tecnica composta da non più di ventuno esperti di elevata qualificazione[13].

E’ stato, altresì, previsto (comma 20), attraverso una novella all’art. 36 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, che nei processi di elaborazione degli atti di programmazione del Governo aventi rilevanza ambientale venga garantita la partecipazione del Ministero dell'ambiente.

Da ultimo si ricorda che alcune norme di modifica a strutture operanti presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio erano previste anche nel disegno di legge AC 5736-A recante “Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”, trasmesso al Senato della Repubblica il 7 luglio 2005, che non ha, però, completato l’iter. Esse riguardavano la riorganizzare della Segreteria tecnica per la sicurezza ambientale della navigazione e del trasporto marittimi (art. 8, commi 10 e 11) e dell’Osservatorio nazionale sulle fonti rinnovabili e l’efficienza negli usi finali dell’energia (art. 8, comma 12)[14].

 

 


 

Il riordino del diritto ambientale

Legge delega e schema di decreto legislativo

L’intero arco temporale della XIV legislatura è stato attraversato dall’iter della legge di delega per il riordino della legislazione in materia ambientale e dall’esame in sede consultiva del relativo schema di decreto legislativo: rispettivamente, legge 15 dicembre 2004, n. 308 e decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale.

L’iter parlamentare del disegno di legge recante la delega (AC 1798) è  iniziato alla Camera il 13 novembre 2001 e si è protratto per oltre 3 anni, in quanto il disegno di legge è stato definitivamente approvato solo il 24 novembre del 2004, dopo cinque passaggi parlamentari, e dopo che – per tre volte – il Governo ha richiesto il voto di fiducia. Durante questo lungo iter parlamentare il testo originario ha subito notevoli cambiamenti: originariamente composto da soli 4 articoli (11 commi) recanti le sole disposizioni di delega, al momento della approvazione finale esso era composto da 54 commi, di cui solo i primi 19 attinenti alla delega, mentre i rimanenti 35 hanno introdotto una lunga serie di norme di dettaglio, di diretta applicazione.

Anche l’esame dello schema di decreto attuativo della delega ha rappresentato un momento importante e complesso della attività degli organi parlamentari maggiormente coinvolti: la 13° Commissione del Senato e la VIIII Commissione della Camera dei deputati.

Occorre ricordare, infatti, che l’art. 1, comma 5, della legge n. 308 ha previsto un doppio parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari, riferito – rispettivamente – allo schema di decreto originariamente approvato dal Governo e ad una successiva versione, ritrasmessa alle Camere, comprensiva delle modifiche e integrazioni apportate a seguito dei pareri parlamentari. L’VIII Commissione della Camera ha dedicato all’esame del primo schema di decreto (Atto del Governo n. 572) 8 sedute tra il dicembre e il gennaio 2006. Inoltre – in apposite sessioni tenute congiuntamente con la 13° Commissione del Senato il 13, il 14, il 15 e il 19 dicembre 2005 - sono stati auditi numerosi soggetti (sia istituzionali, sia rappresentativi degli interessi coinvolti)[15]. In data 19 gennaio è stato approvato il parere presentato dal relatore, On. Foti (mentre i gruppi Democratici di sinistra- L’Ulivo, Margherita D-L l’Ulivo, Rifondazione comunista, Misto-Verdi e Misto-Rosa nel pugno hanno presentato un parere alternativo e non hanno partecipato al voto).

Per quanto riguarda il secondo schema di decreto (Atto del Governo n. 596), l’VIII Commissione ha svolto l’esame in 5 sedute fra il 25 e il 31 gennaio 2006[16], approvando un secondo parere, presentato dallo stesso relatore, mentre i gruppi di opposizione – anche in questa seconda tornata – hanno presentato una proposta alternativa recante pare contrario.

In conclusione, può dirsi che – ad esclusione dei primissimi mesi, fino al novembre 2001, e del periodo dicembre 2004-novembre 2005 – il Parlamento si è occupato, praticamente per l’intera legislatura, del riordino della materia ambientale. Anche sul piano non meramente quantitativo, occorre sottolineare non solo l’incisività delle modifiche parlamentari al disegno di legge di delega (come già sopra ricordato), ma anche la particolarità del doppio esame parlamentare, concluso – a parte i pareri alternativi, recanti radicali critiche, sia di metodo che di contenuto – con due pareri, approvati dalla maggioranza, in cui sono stati elencate numerose e puntuali osservazioni e condizioni[17].

Pertanto, anche se il decreto legislativo n. 152 ha effettivamente – in molte sue parti – innovato in modo sostanziale la legislazione ambientale, la lettura degli atti parlamentari non sembra consentire giudizi riduttivi sul ruolo del Parlamento in tale operazione.

L’ampiezza del contenuto normativo del decreto legislativo n. 152 è determinato, in primo luogo, dal perimetro stesso della delega (art. 1, comma 1, della legge n. 308 del 2004), articolato in 7 grandi ambiti materiali:

a) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati;

b) tutela delle acque dall'inquinamento e gestione delle risorse idriche;

c) difesa del suolo e lotta alla desertificazione;

d) gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di specie protette di flora e di fauna;

e) tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente;

f) procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata IPPC;

g) tutela dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera.

Tale elencazione non comprende l’intera materia che comunemente viene fatta rientrare nella nozione di “diritto ambientale”. Infatti, non tocca alcune normative, quali – ad esempio – quelle relative all’inquinamento acustico, all’inquinamento elettromagnetico, alla tutela della fauna, alle biotecnologie, alla contabilità ambientale, ai rischi di incidente rilevante, alle energie rinnovabili, all’eco-certificazione.

Inoltre, l’oggetto della delega di cui alla lettera d) del precedente elenco (aree protette), non è stato considerato in sede di riordino (per cui la delega, sotto questo profilo, non è stata eseguita).

Il decreto n. 152 non viene quindi a costituirsi come quel “codice dell’ambiente” da sempre vagheggiato dalla dottrina, ma rappresenta tuttavia, dal 14 aprile 2006 (data della pubblicazione in GU) il principale atto normativo di riferimento in materia ambientale (o, per lo meno, in materia di VIA e VAS, tutela delle acque e difesa del suolo, rifiuti, inquinamento atmosferico e danno ambientale).

Esso è strutturato in sei parti, per un complesso di 318 articoli e 45 allegati.

 

La Parte Prima reca un numero ristretto (artt. 1-3) di disposizioni di carattere generale. La prima è quella contenuta all’articolo 2, comma 1, in cui si esplicita una finalità generale delle norme del decreto: la “promozione della qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”. Da tale esplicitazione sembra discendere un principio generale (che può valere anche come principio interpretativo) di strumentalità della tutela dell’ambiente rispetto al vero fine che il legislatore pone, che è quello della promozione della qualità della vita umana.

Una seconda disposizione generale – attinente questa volta ad un principio di qualità della legislazione - è quella contenuta all’art. 3, comma 1, in merito alla previsione di successive modifiche alle norme oggetto del decreto solo in forma di novelle espresse. Per quanto facilmente aggirabile dallo stesso legislatore, tale disposizione ha lo scopo di non vanificare lo sforzo di riordino e unificazione delle fonti operato con il decreto legislativo.

Infine, le disposizioni recate dai commi 2-5 dello stesso art. 3 recano la disciplina relativa all’emanazione di atti attuativi di rango subprimario.

Si stabilisce un termine (2 anni dalla data di pubblicazione del decreto, quindi il 14 aprile 2008) entro il quale

§      il Governo può emanare regolamenti, anche di delegificazione (ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988), per la modifica e l’integrazione dei regolamenti vigenti;

§      il Ministro dell’ambiente può modificare o integrare le norme tecniche in materia ambientale, con decreto ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della stessa legge n. 400 del 1988.

 

Si osserva, in proposito, che l’intero decreto reca poi, una serie assai lunga di rinvii a successivi atti attuativi (di cui si riporta l’elenco completo nella scheda Il riordino del diritto ambientale – Rinvii a successivi atti attuativi).

E’ bene ricordare che la potestà regolamentare in materia non può essere data per scontata (ai sensi del sesto comma dell’articolo 117 della Costituzione): infatti molte parti del decreto legislativo riguardano aspetti non interamente racchiudibili nelle finalità di tutela dell’ambiente, o per lo meno interconnessi con altri ambiti materiali elencati dall’articolo 117 e non sempre attribuiti alla competenza esclusiva dello Stato (difesa del suolo, governo del territorio).

Inoltre, è da considerare anche la particolare interpretazione che la Corte costituzionale ha dato della esclusività della competenza statale in materia ambientale (v. schede Ambiente – Giurisprudenza costituzionale e Ambiente e territorio – Sentenza 307/2003).

VIA, VAS e IPPC

Nella Parte Seconda del decreto vengono raccolte le disposizioni in materia di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e di Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), meglio nota con l’acronimo in lingua inglese, IPPC (Integrated Pollution Prevention and Controll).

In primo luogo, è necessario sottolineare che – in materia di VIA - viene unificata ed elevata al rango legislativo tutta la normativa previgente che era formata essenzialmente da almeno tre plessi:

§         l’originaria disciplina statale, dichiaratamente transitoria, di recepimento dell'allegato I della direttiva 85/337/CEE[18], che già conteneva al suo interno norme derogatorie sulle centrali termoelettriche e a turbogas dell'Enel;

§         le numerose fonti, di rango primario e secondario, che hanno subordinato alla VIA, episodicamente e secondo schemi differenziati, l'approvazione delle più varie tipologie di opere;

§         la disciplina sulla VIA regionale[19] che aveva completato il recepimento della direttiva 85/337/CEE, sottoponendo a VIA anche le opere elencate nell’allegato II della direttiva stessa.

Rimane, invece, esclusa dal riordino normativo la disciplina speciale e derogatoria della VIA per le opere infrastrutturali e strategiche di cui alla legge n. 443 del 2001 e al suo decreto attuativo n. 190 del 2002 (v. il capitolo La legge obiettivo). Si rileva, comunque, che la competenza sull’istruttoria relativa alla VIA di tali opere è ora assegnata alla nuova Commissione tecnico-consultiva (art. 48, comma 2).

Da rilevare, in questo intervento di riordino, anche una modifica sostanziale del criterio di attribuzione della responsabilità amministrativa in merito alla procedura di VIA: secondo le norme previgenti era attribuita allo Stato la competenza sulle opere di maggiore impatto (secondo un elenco corrispondente a quello per le quali le norme europee prevedono l’obbligatorietà della procedura di VIA) e alle regioni la competenza su un elenco di tipologia di opere di minore impatto. Con le nuove norme si afferma invece il criterio della corrispondenza fra competenza in materia di VIA e competenza al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione (o all’esercizio) dell’opera (o dell’impianto).

 

Per quanto riguarda le disposizioni relative alla VAS (valutazione ambientale preventiva di piani e programmi, laddove la VIA rappresenta la valutazione ambientale preventiva di singole opere), esse recepiscono per la prima volta attraverso una legge dello Stato la direttiva 2001/42/CE (si ricorda, tuttavia, chealcune regioni avevano già provveduto a dare attuazione alla direttiva VAS).

Le norme recate dal decreto n. 152 per la VAS sono state modellate sulla procedura di VIA. Infatti, analogamente a quanto disposto per la procedura di VIA, il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un piano/programma a VAS statale o regionale, non sarà solo la tipologia del piano/programma, ma l’autorità competente alla sua approvazione. Pertanto, la competenza ad effettuare la VAS appartiene allo stesso organo competente all’approvazione del piano a cui la VAS si riferisce: allo Stato (e quindi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ex art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986[20]), alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.

Anche le scansioni procedimentalidella VAS statale ripercorrono sostanzialmente quelle previste per la procedura di VIA. Appaiono, invece, più pregnanti, nella procedura di VAS, le forme di controllo. E’ infatti prevista all’art. 14 una specifica attività di monitoraggio, finalizzato alla tempestiva individuazione di eventuali effetti negativi e alla adozione di eventuali misure correttive.

 

Invece, in merito all’IPPC (autorizzazione integrata relativa a tutti i possibili impatti di un’opera, prevista dalla direttiva 96/61/CE), occorre rilevare che, contrariamente a quanto indicato dalla rubrica stessa della Parte Seconda, il testo del decreto in realtà non comprende la disciplina di questa particolare autorizzazione, ma solo alcune disposizioni di coordinamento (artt. 34 e 37, commi 8 e segg.). Infatti, la disciplina di recepimento della direttiva comunitaria è ora contenuta nel decreto legislativo n. 59 del 2005 (che non viene compreso nella codificazione operata dallo schema di decreto).

 

Infine, fra le novità introdotte dalla Parte Seconda del decreto legislativo n. 152, deve ricordarsi almeno l’unificazione, in un’unica Commissione di 80 membri, delle competenze statali per la istruttoria delle tre le diverse valutazioni/autorizzazioni (VAS, VIA e IPPC), cui spetteranno anche le attività della VIA sulle cosiddette grandi opere.

Per un maggior approfondimento in merito alle norme recate dalla Parte seconda sulle autorizzazioni ambientali si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità relative alla VIA, VAS e IPPC.

Difesa del suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche

Numerosi sono gli elementi di novità contenuti nella Parte Terza del decreto legislativo n. 152.

§      In primo luogo viene operata una unificazione di normative che fino ad oggi sono state strutturalmente separate, e che vengono invece riaccorpate sulla base del comune denominatore di concorrere alla disciplina complessiva delle risorse idriche, sia sotto il profilo della tutela dagli inquinanti, sia sotto quello della gestione dei servizi acquedottistici, di depurazione e fognatura, sia infine sotto il profilo degli interventi di regimentazione.

§      Un secondo elemento di novità è rappresentato dal recepimento di una importante direttiva comunitaria, la direttiva 2000/60/CE (cd “direttiva acque”), e dalla riforma dell’assetto amministrativo disegnato dalla legge n. 183 del 1989 sul governo dei bacini idrografici. Infatti, la direttiva europea prescrive l’istituzione di “distretti idrografici”, che non erano presenti nel nostro sistema amministrativo (v. scheda La direttiva acque 2000/60/CE). Si osserva che la Commissione europea, in data 18 febbraio 2005, aveva deferito alla Corte di giustizia l’Italia per omesso recepimento della direttiva 2000/60/CE, il cui termine di trasposizione era fissato al 22 dicembre 2003 (Causa C-85/05).

§      Infine, vengono introdotte alcune innovazioni normative in materia di affidamento e gestione del servizio idrico integrato e di assetto istituzionale del settore (creazione della Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti).

In particolare, in merito al secondo dei punti sopra segnalati, si può ricordare che la legge n. 183 del 1989 aveva istituito i bacini idrografici, quali ecosistemi unitari, ai fini di un effettivo ed unitario governo dei fenomeni fisici connessi al regime delle acque e alla difesa del suolo. Lo strumento principale di tale funzione di governo del territorio era il piano di bacino. Nell’impostazione della legge n. 183 i bacini potevano essere di tre livelli, a seconda delle dimensioni fisiche del bacino stesso: nazionali (venivano istituiti 11 bacini di rilievo nazionale), interregionali (18) e regionali (per tutta la parte rimanente del territorio, non compresa nei 29 bacini indicati dalla legge). Il governo dei primi, i bacini idrografici nazionali, e soprattutto le funzioni di pianificazione, venivano affidate ad Autorità di bacino, i cui organi di governo erano il Comitato istituzionale, il Comitato tecnico, il Segretario generale e la Segreteria tecnico operativa. Nei 18 bacini interregionali, le funzioni amministrative erano esercitate dalle regioni territorialmente interessate, che dovevano operare d’intesa; infine nei bacini regionali tali funzioni erano esercitate dalla regione.

Il decreto legislativo n. 152 innova tale modello, creando 8 grandi distretti idrografici che coprono l’intero territorio nazionale. Ognuno di tali distretti accorpa pertanto una serie di bacini (tranne il distretto idrografico padano che corrisponde all’ex bacino di rilievo nazionale del Po, e il distretto idrografico pilota del Serchio, che corrisponde all’ex bacino-pilota omonimo[21]). I distretti verranno governati secondo un modello amministrativo unico (delineato agli artt. 63 e 64 del decreto).

 

Per quanto riguarda, invece, la gestione del servizio idrico integrato, si ricorda che la disciplina previgente era rinvenibile:

§      nella legge 5 gennaio 1994, n. 36 (“legge Galli”), che viene sostanzialmente trasfusa nel decreto n. 152 e, conseguentemente abrogata (ad esclusione delll’art. 22, comma 6) dall’art. 175 dello stesso decreto legislativo n. 152;

§      per quanto riguarda le modalità di affidamento dei servizi, dall’art. 113 del TUEL (testo unico enti locali) di cui al DPR n. 267 del 2000, che è stato più volte modificato durante la XIV Legislatura, come illustrato nel capitolo Servizi pubblici locali.

La principale innovazione introdotta dal decreto in commento rispetto a questo quadro normativo è rinvenibile all’art. 150, ove viene esplicitato che l’affidamento a società miste viene ammesso solo a condizione che il socio privato sia stato scelto prima dell’affidamento. Tale limitazione non è invece prevista, in via generale, dall’art. 113 del testo unico enti locali.

 

Infine, un’altra innovazione recata dal decreto legislativo n. 152 è l’istituzione (art. 159) di una Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti come risultato dell’accorpamento[22]:

§         del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche istituito dall’art. 21 della legge n. 36/1994 (che diventa la Sezione per la vigilanza sulle risorse idriche)

§         dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti istituito dall’art. 26 d.lgs. n. 22/1997 (che diventa la Sezione per la vigilanza sui rifiuti).

Il medesimo articolo provvede a disciplinare la composizione, il funzionamento, l’organizzazione e l’operatività dell’autorità.

L’art. 160 definisce – come si legge nella relazione illustrativa – in modo dettagliato “i compiti dell’Autorità nel proprio ruolo di regolazione e controllo a garanzia del rispetto dei diritti degli utenti, della salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e della risorsa idrica, della tutela e promozione della concorrenza”.

Il successivo art. 161 prevede poi l’istituzione di un Osservatoriosulle risorse idriche e sui rifiuti, quale organo strumentale dell’autorità ai fini della raccolta, elaborazione e restituzione di dati statistici e conoscitivi.

Gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati

La Parte Quarta è quella nella quale è maggiore l’incidenza di disposizioni innovative.

La normativa di rango primario sui rifiuti risaliva, prima del decreto in esame, al decreto legislativo n. 22 del 1997 (cd “decreto Ronchi”), varato, appunto, nel 1997, in attuazione di tre direttive europee[23], ma oggetto sin da allora di un’attività pressoché costante di modifica sia di carattere innovativo, sia di mera manutenzione normativa.

Con il decreto legislativo n. 152 a questo processo viene impressa un’accelerazione, in varie direzioni.

Alla sintetica trattazione che si riporta di seguito, va premesso un rinvio ai maggiori approfondimenti recati – in questo dossier – dalla scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

In primo luogo si procede ad una semplificazione di alcune delle procedure amministrative previste dal “decreto Ronchi”.

Particolarmente significative, sotto questo profilo, sono le norme relative agli accordi di programma (artt. 178, comma 4, 180, comma 1, lett. c), 181, commi 4-11, e 206), cioè accordi fra pubbliche amministrazioni, altri enti pubblici[24] e soggetti privati[25], per la gestione di determinate categorie o flussi di rifiuti. Questi accordi devono  essere finalizzati a:

§      prevenire e ridurre la produzione e la pericolosità dei rifiuti (art. 180, comma 1, lettera c);

§      favorirne il recupero (art. 181, commi 4-11)[26]

E’ opportuno ricordare in proposito che norme che prevedono accordi di programmi per la gestione dei rifiuti erano già presenti nell’ordinamento previgente[27] e che tali previsioni normative non sono di per sé incompatibili con il diritto comunitario, in quanto l’art. 11 della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, prevede che gli Stati membri possano disporre la dispensa autorizzatoria del recupero agevolato[28].

La novità del decreto legislativo n. 152 consiste sostanzialmente in una maggiore articolazione della disciplina degli accordi di programma (fra l’altro vengono introdotti l’obbligo di approvazione dell’accordo con decreto ministeriale e l’obbligo di pubblicazione in GU). Una seconda novità consiste nella introduzione di una disposizione di non facile interpretazione (art. 181, comma 4), secondo la quale gli accordi di programma “attuano le disposizioni previste dalla parte quarta del presente decreto, oltre a stabilire semplificazioni in materia di adempimenti amministrativi nel rispetto delle nome comunitarie e con l’eventuale ricorso a strumenti economici”. Per quanto venga chiarito che resta comunque fermo il limite del diritto comunitario, non appare chiaro, dalla suddetta formulazione, se, ed eventualmente in che limiti, gli accordi possano derogare alle norme vigenti in materia di gestione dei rifiuti. Infine, una terza innovazione consiste nella previsione che tali accordi possano essere promossi anche attraverso incentivi di carattere economico, a cui possono essere destinate specifiche risorse finanziarie (art. 206, comma 4).

 

Un secondo elemento generale che caratterizza le innovazioni in materia di rifiuti recate dal decreto n. 152 la tendenza al restringimento dell’ambito di applicazione della normativa stessa.

Occorre in proposito premettere che alcune esclusioni dall’ambito di applicazione delle norme sui rifiuti erano già state disposte da atti normativi precedenti (in particolare, nella XIV legislatura, si ricordano l’esclusione del combustibile da rifiuti, operata dall’art. 1, comma 29, della legge n. 308 del 2004, la norma di interpretazione autentica in materia di esclusione delle terre e rocce da scavo recata dall’art. 1, comma 17, della legge n. 443 del 2001, l’esclusione dei residui e delle eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione, disposta dall’art. 23 del “collegato ambientale”[29], l’esclusione del il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo, disposta dal decreto legge n. 22 del 2002, l’esclusione).

Il decreto legislativo n. 152 introduce alcune nuove esclusioni, quale quella del materiale litoide estratto dai corsi d’acqua (art. 185, comma 1, lett. l), che potrebbe rappresentare un primo passo verso la ammissione – per legge - di tale materiale quale corrispettivo dell’appalto nelle opere di sistemazione e di manutenzione degli alvei disposte dalle autorità amministrative competenti.

Tuttavia, i maggiori effetti restrittivi dell’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti derivano dalla revisione di alcune definizioni recate all’art. 183 (in particolare quelle di “sottoprodotto” e di “materia prima secondaria”) e dalla disciplina dei rottami ferrosi. Anche in questo caso, si rinvia, per approfondimenti, alla scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

§      Altre finalità generali riscontrabili nelle norme del decreto legislativo n. 152 relative ai rifiuti sono l’incentivazione della termovalorizzazione e l’introduzione del principio di concorrenzialità nell’attività dei consorzi obbligatori previsti per determinate categorie di rifiuti. Particolare menzione deve essere fatta all’introduzione di una norma (art. 200) che obbliga le regioni a costituire, entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto, autorità d’ambito per la gestione integrata dei rifiuti urbani. Tali autorità dovranno aggiudicare il servizio esclusivamente attraverso gara e secondo modalità e criteri che dovranno essere definiti con un apposito decreto ministeriale. E’ opportuno ricordare che l’esclusività dell’affidamento con gara rappresenta un’ulteriore deroga alle norme generali in materia di servizi pubblici locali recate dall’art. 113 del testo unico enti locali (v. il capitolo Servizi pubblici locali)[30].

Da ricordare, infine, le innovazioni normative in materia di bonifica dei siti contaminati, con l’introduzione delle procedure di analisi del rischio e di determinazione delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) e delle concentrazioni soglia di rischio (CSR).

Inquinamento atmosferico

La Parte Quinta del decreto legislativo ha riordinato, con un tasso di innovatività inferiore alle altre parti, le norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni atmosferiche.

L’elemento forse più significativo del riordino consiste nell’opera di raccolta e coordinamento - in un corpo normativo unitario – di tutte le norme in materia di tutela della qualità dell’aria, che derivavano da una disordinata stratificazione risalente addirittura agli anni ‘60[31], nella quale norme di rango primario apparivano sovrapposte e intersecate da norme di rango subprimario.

Alla trattazione più dettagliata dei contenuti normativi della Parte Quinta del decreto legislativo n. 152 è dedicata la scheda Il riordino del diritto ambientale – Le novità in materia di tutela dell’aria. Qui si richiamano solo in forma sintetica le principali innovazioni, consistenti in:

§      introduzione (art. 269) di disposizioni in tema di rilascio dell'autorizzazione alle emissioni in atmosfera finalizzate alle semplificazione amministrativa, alla certezza dei tempi del procedimento e al concorso di tutti gli enti locali;

§      previsione di una durata fissa (15 anni) per le autorizzazioni. Si ricorda che la normativa previgente non disponeva un termine fisso;

§      determinazione di soglie di potenza, stabilite in funzione del combustibile utilizzato, al fine di rendere più agevole l'individuazione della disciplina applicabile agli impianti termici civili;

Danno ambientale

Infine, l’ultima parte del decreto – Parte Sesta – è dedicata alla disciplina del danno ambientale e delle relative azioni risarcitorie.

Anche in questa parte del decreto legislativo, come in quella relativa ai rifiuti, le innovazioni normative – sul piano dei contenuti - appaiono rilevanti.

Occorre in proposito premettere che l’ordinamento previgente poggiava in gran parte su istituti classici del diritto civile, assoggettati ad una interpretazione evolutiva (artt. 844[32] e 2043[33] del codice civile). Tale situazione presentava tuttavia degli inconvenienti, in quanto quegli istituti non sempre risultano funzionali alla soluzione delle questioni che si sollevano in materia di danno ambientale.

Infatti, l'ambiente come bene specifico, meritevole di propri distinti strumenti di tutela, è venuto emergendo nella storia più recente del nostro ordinamento.

Nel 1986, con la legge n. 349 del 1986, il legislatore, nel dar vita al Ministero dell'ambiente, ha affrontato direttamente il problema del danno ambientale.

Secondo la definizione recata dall’articolo 18, comma 1, della legge n. 349 del 1986, per danno ambientale deve intendersi “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte”. Tale danno, ai sensi della stessa norma, “obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato[34].

Gli elementi di principale interesse di questa innovazione normativa - introdotta nella stessa legge istitutiva del Ministero dell'ambiente - furono:

1.      la creazione di una autonoma nozione di ambiente quale bene giuridico unitario (la cui difesa veniva svincolata da quella di altri diritti individuali[35]);

2.      l’introduzione di una responsabilità individuale;

3.      l’adozione di un modello di imputazione di responsabilità fondato sulla colpa (e quindi non sulla “responsabilità oggettiva”);

4.      l’individuazione dei soggetti legittimati, attivi e passivi[36];

5.      la deroga al principio generale della responsabilità solidale (ex art. 2055 cc) e la previsione – per il danno ambientale – della responsabilità parziaria[37];

6.      l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario;

7.      l’individuazione della forma risarcitoria (in primo luogo: ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile)[38].

Tuttavia, dopo quasi venti anni dal suo varo, era diffusa l’opinione (anche se spesso con opposte motivazioni) che questa normativa di carattere generale non avesse trovato una facile e soddisfacente applicazione. I motivi più frequentemente denunciati erano diversi. In primo luogo, il modello della responsabilità per dolo o colpa pone a carico del danneggiato l’onere della prova della sussistenza del dolo o della colpa. Inoltre, anche la difficoltà nella stima dei danni, nonché i tempi lunghissimi della giustizia civile, hanno giocato un ruolo negativo. Non da ultimo, è anche il caso di ricordare che l'art. 18 ha aperto problemi interpretativi che hanno avuto conseguenze non irrilevanti sia dirette, sia indirette (ad esempio sul piano assicurativo) su molti settori economici.

Occorre poi ricordare che la responsabilità per danno ambientale delineata dall’articolo 18 della legge n. 349 non esauriva il quadro delle fonti normative in materia: in primo luogo, l’articolo 17 del “decreto Ronchi”con cui

§         sono state introdotte specifiche fattispecie di responsabilità oggettiva, che prescindono da qualunque accertamento del dolo o della colpa e si basano sul mero nesso di causalità;

§         differentemente dalla responsabilità ex art. 18 della legge n. 349 – che richiede la effettiva compromissione del bene ambientale – sono state introdotte anche  ipotesi di semplice esposizione al pericolo.

Di tenore parzialmente analogo, l’art. 58, comma 1, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152,in materia di inquinamento delle acque.

Infine, si ricorda che l’articolo 22 del decreto legislativo 12 aprile 2001, n. 206 (che disciplina l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati) ha introdotto una terza ipotesi normativa di responsabilità per inquinamento ambientale, specificamente riferita all’inquinamento da MOGM.

 

Se questo è – in estrema sintesi – il quadro normativo preesistente al decreto legislativo n. 152, un secondo elemento di contesto che occorre considerare per inquadrare correttamente le innovazioni normative introdotte è l’entrata in vigore della direttiva 2004/35/CE. Il 21 aprile 2004 è stata infatti definitivamente approvata (e pubblicata in GUCE il 30 aprile) una direttiva comunitaria, da lunghi anni attesa e risultato di un lavoro preparatorio che era culminato nel 1993 nella pubblicazione del Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente e, nel 2000, nella pubblicazione del Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente.

Entro il 30 aprile 2007 gli Stati membri sono tenuti a recepire le nuove norme comunitarie. Per una descrizione del contenuto della direttiva, si rinvia alla scheda Danno ambientale - Direttiva 2004/35/CE.

 

La nuova disciplina, introdotta dalla Parte Sesta del decreto legislativo n. 152 del 2006, attribuisce al Ministero dell’ambiente il compito di promuovere l’azione risarcitoria e dispone che il risarcimento debba avvenire preferibilmente in forma specifica, cioè con il ripristino della situazione precedente. Solo ove il ripristino risulti anche parzialmente impossibile oppure eccessivamente oneroso, il Ministro dell’ambiente può richiedere che il risarcimento avvenga per equivalente patrimoniale.

Lo strumento attraverso cui si esercita questa competenza del Ministro dell’ambiente è quello di una specifica ordinanza-ingiunzione immediatamente esecutiva, i cui termini sono definiti dall’art. 313, con la quale si procede – in via amministrativa, e non in sede giurisdizionale, come nel sistema finora vigente – anche alla quantificazione del danno. Si osserva che le nuove norme sono interamente sostitutive della disciplina dell’azione risarcitoria che era stata vigente nel diritto italiano a partire dalla legge n. 349 del 1986 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) e che era basata prevalentemente sulla ricostruzione giurisprudenziale dei principi recati dall’articolo 18 di quella legge (ora abrogato dal decreto legislativo n. 152).

Pertanto, le innovazioni principali sembrano riguardare tutti gli aspetti più controversi, sopra richiamati:

Il nuovo sistema, infatti, opta per il principio della responsabilità per dolo o colpa (art. 311, comma 2)[39], mentre nel sistema italiano si veniva affermando (soprattutto a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997) un sistema basato sulla responsabilità oggettiva.

Occorre chiarire – in proposito - che anche la direttiva 2004/35/CE è modellata su un sistema di responsabilità per dolo o colpa per le attività non pericolose, mentre per un numero definito di attività “pericolose”, la responsabilità è oggettiva.

Anche in merito ad un secondo aspetto rilevante, la legittimazione ad agire, le innovazioni sembrano sostanziali. Infatti, nel sistema previgente (art. 18, comma 3, della legge n. 349), l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, era promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. Ai sensi del comma 5 dello stesso art. 18, inoltre, le associazioni ambientali (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) potevano intervenire nei giudizi per danno ambientale. Si deve poi ricordare che, con la legge n. 265 del 1999, era stata introdotta la possibilità per le associazioni di protezione ambientale di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento era liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali erano liquidate in favore o a carico dell'associazione[40].

Il sistema previsto dallo schema di decreto è invece diverso per due motivi:

§      in quanto riserva alla sola amministrazione centrale la facoltà di agire,

§      in quanto tale azione non avviene in via giudiziaria, ma amministrativa, attraverso una ordinanza-ingiunzione.

Lo schema prevede che i soggetti diversi dal Ministro dell’ambiente non possano agire in giudizio, ma – in merito ad ogni caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno - possano:

§      presentare denunce o osservazioni al Ministro dell’ambiente

§      chiedere l’intervento statale

I soggetti legittimati a questo genere di azione sono:

§      regioni, province autonome ed enti locali

§      persone fisiche o giuridiche che:

a)   sono o potrebbero essere colpite dal danno

b)   vantano un interesse legittimante (fra queste il comma 2 dell’art. 309 indica anche le associazioni ambientali riconosciute).

Infine, il comma 5 dell’art. 306 disciplina una attività di partecipazione dei soggetti interessati. Anche qui si rileva la analogia con le disposizioni comunitarie (comma 4 dell’articolo 7 della direttiva).

In sostanza, il Ministro dell’ambiente è tenuto a richiedere a tali parti di presentare le proprie osservazioni e a “tenerle in considerazione”.

Anche in relazione al ruolo dei soggetti eventualmente interessati all’azione di risarcimento del danno ambientale (ma diversi dall’autorità competente) si riscontra tuttavia come lo schema di decreto operi sostanzialmente un ricalco del sistema previsto dalla direttiva. In particolare, si evidenzia un parallelismo fra l’art. 12 della direttiva e l’art. 309 dello schema di decreto.

 

Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati

I molti fattori che determinano la produzione di rifiuti e la differente tipologia di questi ultimi hanno richiesto, negli ultimi anni, un intervento normativo molto dettagliato e articolato. Ciò al fine di perseguire l’obiettivo prioritario di prevenzione e riduzione della produzione di rifiuti, che, lasciata a sé, ha una naturale tendenza alla crescita.

Il 27 maggio 2003 la Commissione europea ha presentato la comunicazione Verso una strategia tematica di prevenzione e riciclo dei rifiuti[41], come primo passo per la definizione di una nuova strategia comunitaria per la riduzione della produzione di rifiuti, che è stata accompagnata dall’emanazione di numerose direttive volte a disciplinare molteplici aspetti della gestione dei rifiuti.

A tale imponente produzione normativa a livello comunitario ha fatto seguito un’intensa attività di recepimento. In tal modo, si è notevolmente arricchito il panorama legislativo in materia, stratificatosi nel corso degli anni, e costruito attorno al decreto legislativo n. 22 del 1997 (cd. decreto Ronchi) – anch’esso di derivazione comunitaria – che rappresenta una sorta di legge quadro del settore.

Agli interventi normativi di derivazione comunitaria si sono inoltre affiancati numerosi interventi di manutenzione normativa.

A fronte della molteplicità di disposizioni introdotte a seguito di tale intensa attività normativa, la legge n. 308/2004 conferisce delega al Governo per il riordino ed il coordinamento della normativa ambientale nella materia dei rifiuti e dei siti inquinati (v. capitolo II riordino del diritto ambientale).

Con l’emanazione del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, numerose disposizioni (ivi compreso il decreto Ronchi) sono state accorpate e raccolte in un unico testo, all’interno della Parte quarta del citato decreto.

La nozione di rifiuto

La definizione della nozione di “rifiuto”, su cui si dibatte da diversi anni[42], rappresenta il fulcro della legislazione comunitaria e nazionale in materia di rifiuti.

L’incertezza che caratterizza la definizione comunitaria recata dall’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442/CEE[43], riprodotta dall’art. 6 del d.lgs. n. 22/1997, si è ripercossa anche a livello nazionale. Essa è stata quindi oggetto di numerosi interventi legislativi, in una prima fase finalizzati ad escludere tipologie determinate di residui dall’area giuridica del rifiuto[44] (come risulta dall’elenco, in continua mutazione, dell’art. 8 del decreto Ronchi, che reca appunto le esclusioni dal campo di applicazione del medesimo decreto); successivamente, attraverso una norma di interpretazione autentica della nozione di “rifiuto”, introdotta con l’art. 14 del decreto-legge n. 138 del 2002, che tuttavia ha aperto un contenzioso non ancora risolto con l’Unione europea e prodotto una fittissima giurisprudenza in materia (v. scheda La nozione di rifiuto).

Con l’emanazione del d.lgs. n. 152/2006, che nella Parte quarta ha provveduto a riscrivere interamente il decreto Ronchi, il Governo ha rimodulato le definizioni normative esistenti (art. 183) al fine del superamento del contenzioso e dei problemi applicativi.

Il recepimento delle direttive comunitarie

Negli ultimi anni l’Unione europea ha provveduto ad integrare i principi generali e i requisiti fissati dalla cd. legislazione orizzontale sui rifiuti[45] soprattutto mediante interventi normativi più dettagliati nei due campi seguenti:

§         trattamento e smaltimento dei rifiuti (attraverso in particolare le direttive sulle discariche e sull’incenerimento);

§         gestione di flussi specifici di rifiuti, in considerazione della crescita del loro volume e della relativa complessità di gestione (attraverso, in particolare, la nuova direttiva imballaggi e le direttive sui veicoli fuori uso e i rifiuti elettrici ed elettronici.

 

Nella tabella seguente viene fornito l’elenco delle principali direttive emanate e dei relativi provvedimenti nazionali di attuazione:

 

Materia

Direttiva

Recepimento

Discariche di rifiuti

1999/31

D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36

Veicoli fuori uso

2000/53

D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 209

Rifiuti prodotti da navi

2000/59

D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 182

Incenerimento dei rifiuti

2000/76

D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 133

Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)

2002/95
2002/96

D.Lgs. 25 luglio 2005, n. 151

Imballaggi

2004/12

D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152

 

La finalità principale del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36 di recepimento della cd. direttiva discariche (1999/31/CE) è quella di garantire che l’ambiente non rimanga deturpato o inquinato da sostanze pericolose i cui effetti possono verificarsi sia durante l’intero ciclo di vita della discarica, sia nella fase successiva alla chiusura (fase post-operativa).

La disciplina introdotta (v. scheda Discariche di rifiuti) si articola sostanzialmente in una nuova classificazione delle varie tipologie di discarica (e nella definizione dei rifiuti ammessi in ciascuna delle categorie indicate), nelle prescrizioni relative al contenuto necessario della autorizzazione alla costruzione e gestione degli impianti, nella previsione di un regime sanzionatorio e, infine, nelle disposizioni transitorie (principalmente volte all’adeguamento degli impianti in esercizio al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina).

Con il decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133 sull’incenerimento dei rifiuti (sul quale v. scheda Incenerimento di rifiuti) è stata recepita la direttiva 2000/76. Le norme introdotte hanno l’obiettivo di stabilire le misure e le procedure finalizzate a prevenire e ridurre gli effetti negativi sull’ambiente e per la salute umana dell’incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti. A tale scopo vengono disciplinati i valori limite di emissione degli impianti e i metodi di campionamento e valutazione degli inquinanti. Vengono inoltre fissate le condizioni di esercizio degli impianti e i criteri temporali di adeguamento di quelli esistenti, oltre alla previsione di nuove fattispecie sanzionatorie.

Per quanto riguarda le disposizioni introdotte relativamente ad alcunecategorie particolari di rifiuti (v. scheda Particolari categorie di rifiuti), il filo conduttore – che deriva dalle priorità individuate in sede comunitaria – è quello della responsabilizzazione del produttore, in ossequio al principio “chi inquina paga”[46].

Ad esempio, in materia di veicoli fuori uso, il decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, prevede l'instaurazione di un sistema di raccolta dei veicoli fuori uso alla fine del loro ciclo di vita a carico del produttore. Nella stessa ottica operano le disposizioni del decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151, in materia di rifiuti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche. Tale ultimo decreto legislativo, oltre a vietare l’uso nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche di determinate sostanze, prevede l’istituzione di un vero e proprio ciclo per il trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici, ponendo in capo ai produttori l’onere di organizzare e finanziare l’attività di trattamento e recupero di tali rifiuti.

Ancora, si ricorda il decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182, che, al fine di ridurre gli scarichi in mare dei rifiuti e dei residui del carico da parte delle navi, prevede - tra l’altro - la predisposizione di piani di raccolta e gestione dei rifiuti per ciascun porto, disciplina le modalità di conferimento dei rifiuti prodotti dalle navi e istituisce un regime tariffario applicabile alle navi, al fine di recuperare i costi degli impianti portuali di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti da esse prodotti.

Le emergenze-rifiuti

Nel corso della XIV legislatura sono stati emanati numerosi provvedimenti volti alla gestione delle situazioni emergenziali verificatesi soprattutto nelle regioni meridionali.

In particolare, con riferimento alle dimensioni dell’emergenza rifiuti in Calabria e in Campania, il Governo è intervenuto attraverso la decretazione d’urgenza, oltre che con le normali procedure emergenziali adottate con ordinanze della Presidenza del Consiglio.

In particolare, con il decreto-legge 17 febbraio 2005, n. 14[47], recante Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania, il Governo ha previsto – tra l’altro - una procedura volta a permettere l’estinzione delle situazioni debitorie dei Comuni campani a seguito del mancato versamento al Commissario delegato per l’emergenza rifiuti nella Regione Campania delle somme connesse al conferimento dei rifiuti solidi urbani agli impianti per la produzione del combustibile derivato dai rifiuti (CDR).

Lo stesso decreto ha incaricato il Commissario delegato di dettare prescrizioni agli impianti citati al fine di superare i motivi che avevano causato il sequestro penale degli impianti stessi.

Il decreto-legge 31 maggio 2005, n. 90[48], recante Disposizioni urgenti in materia di protezione civile,ha invece esteso la procedura riguardante l’estinzione dei debiti dei Comuni campani prevista dal citato D.L. n. 14/2005 anche alla Regione Calabria.

Infine, il decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245[49] ha introdotto ulteriori disposizioni per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti in Campania, tra cui la risoluzione dei contratti stipulati dal Commissario delegato per l’emergenza rifiuti nella Regione Campania con le società affidatarie del servizio di smaltimento dei rifiuti e misure dirette a promuovere la raccolta riciclata; tale decreto inoltre ha disposto la proroga fino al 31 maggio 2006 dello stato di emergenza nel settore dei rifiuti e delle bonifiche nelle regioni Campania, Calabria, Lazio, Puglia e Sicilia[50] e l’istituzione della Consulta regionale per la gestione dei rifiuti nella Regione Campania.

Quest’ultima disposizione è stata giudicata favorevolmente da più parti. In particolare, la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse – nel suo rapporto finale[51] – ha sottolineato come “l’istituzione di una Consulta regionale per la gestione dei rifiuti, presieduta dal Presidente della Regione, cui sono chiamati a far parte i presidente delle province nonché i rappresentanti dei comuni interessati ad una equilibrata localizzazione dei siti per le discariche e lo stoccaggio dei rifiuti trattati, costituisce indubbiamente tappa significativa di un’exit strategy dal Commissariamento" (che, invece, rappresenta, sempre secondo la Commissione d’inchiesta, un “incentivo alla de-responsabilizzazione, anche politica, degli enti ed organi che in base alla ripartizione di competenze debbono occuparsi della materia dei rifiuti”) “per il suo significato di istituzione-ponte, chiamata cioè a preparare la transizione verso la riespansione del regime ordinario, ed, in qualche modo, ad allenare gli enti locali a fronteggiare le proprie competenze e responsabilità”.

La bonifica dei siti inquinati

La produzione normativa registrata in materia nel corso della XIV legislatura è stata caratterizzata da due distinte fasi.

Nella prima fase, il Governo ha completato la definizione degli interventi di bonifica ritenuti di interesse prioritario, avviata nel corso della legislatura precedente, con l’approvazione del D.M. ambiente 18 settembre 2001, n. 468, con il quale, in attuazione della legge 9 dicembre 1998, n. 426, è stato emanato il Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati[52]. Con tale programma il Governo ha provveduto all’individuazione degli interventi giudicati, per le loro caratteristiche, di interesse nazionale e ammessi a beneficiare del concorso pubblico ai finanziamenti per la loro realizzazione.

 

Oltre agli interventi già previsti dalla legge n. 426 del 1998 (Allegati A e B) e dalla legge n. 388 del 2000 (Allegati C e D), il DM n. 468/2001 ha individuato ulteriori 23 nuovi interventi (Allegati E ed F)[53]. Lo stesso DM (Allegato G) ha disposto una prima assegnazione delle risorse disponibili (oltre 500 milioni di euro[54]) per gli interventi prioritari e la relativa ripartizione per regione.

Con l’articolo 14 della legge 31 luglio 2002, n. 179, l’elenco dei siti di interesse nazionale è stato ulteriormente integrato[55]. Tale elenco attualmente consta di un totale di 49 siti[56].

 

Si segnala, inoltre, che con il DM ambiente 31 luglio 2003, relativo al Piano di completamento della bonifica e del recupero dell’area ambientale di Bagnoli, è stato approvato un primo elenco di interventi di bonifica, a stralcio di un futuro Piano straordinario per la bonifica delle aree ex estrattive minerarie, in attuazione dell’art. 114 della legge n. 388 del 2000, che ha stanziato per tale finalità 30 miliardi di lire, da ripartire fra le varie aree distribuite nel territorio nazionale.

 

Con l’art. 18 della legge 31 luglio 2002, n. 179 si apre, nella legislazione nazionale in materia di bonifiche, una nuova fase in cui l’obiettivo – completato quello della definizione di un piano nazionale di bonifica - è rivolto a sostenere le esigenze finanziarie per la realizzazione del Programma nazionale di bonifica. Ciò attraverso l’introduzione di nuovi meccanismi finanziari che rendano meno onerosa, per la parte pubblica, l’effettuazione degli interventi di bonifica.

 

Con tale norma – che non ha tuttavia trovato ancora attuazione, non essendo intervenuti i previsti decreti attuativi – si prevede un nuovo meccanismo di finanziamento delle bonifiche dei siti inquinati, attraverso il ricorso ad una procedura alternativa (rispetto a quella ordinaria[57]) basata sull’affidamento con gara a soggetti privati delle attività di bonifica e riqualificazione delle aree inquinate, anche previo esproprio delle aree stesse (a spese, comunque, del soggetto privato affidatario della bonifica), e sulla previsione, quale corrispettivo, della disponibilità delle aree bonificate.

 

A tale disposizione si è poi recentemente aggiunta quella recata dai commi 434-437 dell’art. 1 della legge finanziaria 2006 (legge 23 dicembre 2005, n. 266) che hanno introdotto una disciplina speciale riguardante i siti di interesse nazionale sottoposti a procedure fallimentari.

 

Le disposizioni introdotte intervengono sulla specifica ipotesi di concorso fra procedura fallimentare dell’impresa responsabile dell’inquinamento e intervento di bonifica del sito e sono finalizzate ad accelerare la bonifica dei siti di interesse nazionale sottoposti a procedure fallimentari dotando l’amministrazione pubblica di strumenti più incisivi nell’effettuazione complessiva dell’intervento e nella programmazione del finanziamento, fino a riconoscere a quest’ultima la stessa proprietà del sito.

Viene infatti prevista la possibilità di stipulare accordi di programma tra il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, le regioni, le province e i comuni interessati relativamente a tali siti con il passaggio di proprietà del sito stesso ad un ente pubblico, ferme restando le disposizioni vigenti che riguardano la responsabilità del soggetto che ha causato l’inquinamento.

Il trasferimento di proprietà avviene, subordinatamente all’inerzia dello stesso soggetto responsabile protratta oltre il previsto periodo di centottanta giorni, quale forma di adempimento dell’obbligo di risarcimento previsto dalla normativa vigente in materia di danno ambientale (art. 18, comma 1, della legge n. 349/1986).

Le novità introdotte dalla Parte quarta del d.lgs. n. 152/2006

Con l’emanazione del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il Governo, sulla base della delega conferita dalla legge n. 308/2004 (v. capitolo Il riordino del diritto ambientale) ha provveduto ad una rilevante opera di manutenzione normativa della disciplina dei rifiuti e delle bonifiche, attraverso una riscrittura – operata nella Parte quarta del decreto (artt. 177-266) - del decreto Ronchi.

Si indicano di seguito le principali novità introdotte.

In primo luogo, il decreto procede a chiarire le definizioni previste dal decreto Ronchi ed utili ai fini dell’individuazione di ciò che è rifiuto e ciò che non lo è (artt. 183-186).

Esso contempla inoltre numerose disposizioni volte ad attuare una generale semplificazione amministrativa, rafforzando lo strumento degli accordi di programma, già previsti dalle norme vigenti e dalle norme comunitarie (art. 206).

Il decreto provvede, poi, a riorganizzare l'assetto degli ambiti territoriali ottimali e le procedure di affidamento dei servizi, introducendo norme che favoriscono la concorrenza e quindi l'industrializzazione del settore (artt. 200-204). Analoghe norme volte a favorire la concorrenza sono state introdotte nella disciplina dei consorzi (artt. 233-237).

Vengono quindi introdotte novità relativamente alla disciplina degli imballaggi (artt. 217-226), la maggior parte delle quali ha la finalità di adeguare la disciplina italiana alla nuova direttiva imballaggi (direttiva 2004/12/CE).

In materia di bonifica dei siti inquinati (artt. 239-253) la principale novità risiede nell’introduzione di una nuova procedura preventiva alla bonifica dei siti basata sull'analisi di rischio, sottraendo la normativa a meccanismi meramente tabellari che - per quanto formalmente severi - non hanno finora consentito di sviluppare in Italia un’efficace e diffusa politica di bonifica dei siti inquinati.

Per una lettura più approfondita degli aspetti innovativi della Parte quarta del d.lgs. n. 152/2006 si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

 

Scorie nucleari

Nel corso della XIV legislatura, è stata adottata una normativa finalizzata ad individuare le procedure per la messa in sicurezza delle scorie radioattive. Il tema è oggetto da alcuni anni di un ampio dibattito[58]

Con il decreto-legge n. 314 del 14 novembre 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24 dicembre 2003, n. 368, sono state introdotte disposizioni relative alla realizzazione di un deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.

 

Secondo la relazione illustrativa al ddl di conversione, la necessità di pervenire all’individuazione di un sito idoneo allo stoccaggio definitivo dei rifiuti radioattivi è divenuta improrogabile alla luce, soprattutto, dell’aumentato rischio di atti terroristici derivanti dalla situazione di crisi internazionale, connesso con la presenza di importanti quantità di rifiuti e materiali radioattivi nelle centrali elettronucleari fuori servizio, negli impianti e nei centri di ricerca ed industriali del ciclo del combustibile nucleare dismessi.

A fronte di questa situazione il Governo è intervenuto con il DPCM 14 febbraio 2003 dichiarando lo stato di emergenza nei territori ospitanti le installazioni nucleari di Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Basilicata e Piemonte[59], cui ha fatto seguito l’ordinanza 7 marzo 2003, n. 3267 con cui il Presidente della Sogin è stato nominato Commissario delegato per la sicurezza dei materiali e delle installazioni nucleari.

Si ricorda, altresì, che già verso la fine del 2002, di fronte all’intensificarsi di questa emergenza, l’VIII Commissione (Ambiente) della Camera aveva deliberato l’effettuazione di un’indagine conoscitiva sulla sicurezza ambientale dei siti e degli impianti ad elevata concentrazione inquinante di rifiuti pericolosi e radioattivi conclusasi nel marzo 2003[60].

 

Con l’emanazione del decreto-legge n. 314, il Governo ha provveduto all’individuazione di un sito ove realizzare sia gli impianti e le infrastrutture per il deposito definitivo dei rifiuti a bassa e media attività e a breve vita (II categoria) - che rappresentano volumetricamente la quantità principale di rifiuti - sia il deposito temporaneo in bunker del combustibile irraggiato e dei rifiuti ad alta attività e/o a lunga vita (III categoria)[61].

Nell’originaria versione del provvedimento, il sito in cui localizzare il deposito nazionale veniva indicato nel comune di Scanzano Jonico, in Basilicata, in quanto giudicato il più idoneo sulla base della conformazione geologica e dei requisiti di sicurezza raccomandati in ambito internazionale con riferimento alla tipologia di deposito prescelta .

A seguito dell’approvazione di un emendamento del Governo, durante l’iter parlamentare per la conversione del decreto legge, è stata eliminata l’indicazione del sito di Scanzano Jonico (che aveva generato forti proteste della comunità locale) e l’individuazione del sito più idoneo è stata demandata al Commissario straordinario nominato ai sensi dell’articolo 2 del decreto, previo parere di una apposita Commissione tecnico-scientifica istituita con compiti di valutazione e di alta vigilanza ai sensi dello stesso articolo 2 del decreto e previa intesa in sede di Conferenza unificata. In mancanza di intesa, si prevede l'individuazione definitiva del sito mediante decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

In sede di conversione sono state altresì modificate le norme che disciplinano le modalità di allocazione dei rifiuti radioattivi, attraverso la previsione che nel deposito nazionale vengano allocati e gestiti in via definitiva solamente i rifiuti radioattivi di III categoria ed il combustibile irraggiato. Per gli altri rifiuti radioattivi di I e II categoria, con un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottare su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri dell'interno, delle attività produttive e della salute, si provvederà alla loro messa in sicurezza e al loro stoccaggio, avvalendosi del supporto operativo della SOGIN Spa.

La realizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, che viene affidata alla SOGIN S.p.a., dovrà essere completata entro e non oltre il 31 dicembre 2008[62].

Il decreto nella versione definitivamente approvata prevede, infine, misure di compensazione territoriale, fino al definitivo smantellamento degli impianti, a favore dei siti che ospitano centrali nucleari e impianti del ciclo del combustibile nucleare.

 

Successivamente alla conversione del decreto, nuove modifiche alla disciplina in esame sono state apportate dai commi 98-106 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004 , n. 239 (cd. legge Marzano)[63].

Alcune sono intervenute in forma di novella del decreto-legge n. 314 ed hanno riguardato prevalentemente la garanzia di una protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori nonché la tutela dell'ambiente dalle radiazioni ionizzanti nella fase della sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi presso il previsto deposito nazionale (comma 106).

Altre, invece, sostanzialmente più rilevanti, non hanno forma di novella diretta, ma integrano la disciplina complessiva introducendo nuove norme in tema di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi (commi dal 98 al 105).

In particolare il comma 98 ha previsto che la gestione e la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, che si intendono comprensivi degli elementi di combustibile nucleare irraggiato e dei materiali nucleari presenti sull'intero territorio nazionale, venga svolta secondo le disposizioni di cui ai successivi commi da 99 a 106.

Il comma 99 ha disposto che la SOGIN Spa provveda alla messa in sicurezza ed allo stoccaggio provvisorio dei rifiuti radioattivi di III categoria, nei siti che saranno individuati secondo le medesime procedure per la messa in sicurezza e lo stoccaggio provvisorio dei rifiuti radioattivi di I e II categoria indicate dall'articolo 3, comma 1-bis, del decreto-legge n. 314 del 2003.

Con il comma 100 vengono adottate le stesse procedure di cui all'articolo 1, comma 1, del decreto-legge 14 n. 314 del 2003 per l’individuazione del sito per la sistemazione definitiva dei rifiuti di II categoria.

Sulla base del combinato disposto della legge Marzano e del D.L. n. 314, quindi, la Sogin dovrà provvedere alla realizzazione di un deposito per i rifiuti di III categoria e di uno per quelli di II categoria. Entrambi i depositi saranno localizzati sulla base delle procedure previste dal D.L. n. 314.

Il comma 104 dispone, inoltre, che i soggetti produttori e detentori di rifiuti radioattivi di cui al comma 100 conferiscano tali rifiuti per la messa in sicurezza e lo stoccaggio al deposito di cui al comma 100 o a quello di cui all'articolo 1, comma 1, del decreto-legge n. 314 a seconda della categoria di appartenenza.

In attuazione dell'art. 3, comma 1-ter, del decreto-legge n. 368 del 2003 che stabilisce che “la sola esportazione temporanea dei materiali di III categoria è autorizzata ai fini del loro trattamento e riprocessamento” e delle disposizioni integrative contenute nella legge n. 239 del 2004, è stato successivamente emanato il D.M. attività produttive 2 dicembre 2004 (cd. decreto Marzano), con il quale la Sogin S.p.a. provvede, tra l’altro, a “valutare per quanto riguarda il combustibile nucleare irraggiato esistente presso le centrali nucleari e i siti di stoccaggio nazionali la possibilità di una sua esportazione temporanea ai fini del trattamento e riprocessamento”. A tale decreto ha fatto seguito l'ordinanza del Commissario delegato per la sicurezza dei materiali nucleari del 16 dicembre 2004.

Si segnala, infine, che non risultano ancora attuate alcune delle disposizioni recate dal decreto legge n. 314. In particolare, non è stato ancora nominato il Commissario straordinario per l'attuazione di tutti gli interventi e le iniziative necessari per la realizzazione del deposito nazionale, tra cui, appunto, l’individuazione del sito idoneo ad ospitare il deposito nazionale e non è stata ancora istituita l’apposita Commissione tecnico-scientifica prevista dal decreto con compito consultivi, di valutazione e di alta vigilanza.

Tali ritardi si spiegano  anche in relazione alla presentazione da parte della Regione Basilicata del ricorso n. 40 del 2004 alla Corte Costituzionale, con cui sono stati impugnati in via principale il decreto-legge 14 novembre 2003, n. 314 e la relativa legge di conversione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 29 gennaio 2005, n. 62, ha parzialmente accolto il ricorso della Regione Basilicata, affermando in particolare la necessità, nella localizzazione del sito per la costruzione del deposito nazionale, di un maggior coinvolgimento delle Regioni interessate.

La Corte Costituzionale ha infatti censurato la previsione recata dall’articolo 1, comma 4-bis, che non prevede «forme di partecipazione», della Regione interessata dal deposito nazionale, alla fase di «validazione». Questa fase viene descritta come quella della «specifica localizzazione e realizzazione dell’impianto», che avviene «una volta individuato il sito». Nell’attuale formulazione del decreto, alla fase di validazione «provvede» il Consiglio dei ministri, «sulla base degli studi della Commissione tecnico-scientifica, sentiti i soli pareri di enti nazionali (APAT, CNR ed Enea). Per la Corte è necessario far partecipare a «questo procedimento» anche la Regione, «fermo restando che in caso di dissenso irrimediabile possono essere previsti meccanismi di deliberazione definitiva da parte di organi statali, con adeguate garanzie procedimentali».

L’altra obiezione avanzata dalla Regione Basilicata e accolta dalla Corte riguarda la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 2, comma 1, lettera f), del decreto, laddove affida esclusivamente al Commissario statale «l’approvazione dei progetti, anche in deroga alla normativa vigente». Anche in questo caso - ad avviso dei giudici costituzionali - è necessario coinvolgere la Regione sul cui territorio sarà realizzato il deposito. Ma anche in questo caso vale quanto già detto prima: se il «dissenso» della Regione è «irrimediabile» la legge può in ogni caso prevedere meccanismi di deliberazione definitiva.

Con la medesima sentenza la Corte ha inoltre dichiarato l’illegittimità costituzionale di tre leggi regionali (approvate nel corso del 2003 dalle regioni Sardegna, Basilicata e Calabria) che avevano dichiarato “denuclearizzato” il proprio territorio impedendo sul medesimo il transito e la presenza di materiale radioattivo non prodotto in loco. In proposito la Corte ha affermato che “la comprensibile spinta, spesso presente a livello locale, ad ostacolare insediamenti che gravino il rispettivo territorio degli oneri connessi (secondo il noto detto “not in my backyard”), non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione di impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale”.

 

Si segnala, infine, che il problema della gestione dei rifiuti radioattivi rappresenta una tematica di grande rilevanza sia nell’ambito dell’Unione europea che a livello internazionale[64].

Con la legge n. 282/2005 si è recentemente provveduto alla ratifica della Convenzione congiunta in materia di sicurezza della gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, conclusa a Vienna il 5 settembre 1997[65].

In ambito europeo è stato invece presentato un “pacchetto nucleare” all’interno del quale è compresa una proposta di direttiva (Euratom) riguardante la gestione del combustibile nucleare esaurito e dei residui radioattivi[66]. La proposta stabilisce l’obbligo a carico degli Stati membri di adottare programmi nazionali per la gestione dei residui radioattivi che consentano l’avvio della realizzazione dell’impianto di smaltimento nel caso di residui radioattivi a vita breve e media attività (non più tardi del 2013) e dell’impianto di smaltimento qualora si tratti di residui altamente radioattivi e a lunga vita, destinati allo smaltimento in un deposito geologico (non più tardi del 2018).

 

Tutela dell’aria e Protocollo di Kyoto

La normativa a tutela della qualità dell’aria si è sempre caratterizzata per il vasto numero di provvedimenti in materia e per l’eterogeneità dei medesimi.

Buona parte della recente produzione normativa è rappresentata da norme di derivazione comunitaria e da convenzioni internazionali per la riduzione degli inquinanti più pericolosi a livello planetario. Tra queste ultime, si richiama in primo luogo il Protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas responsabili dell’effetto serra[67].

Nella parte V del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il Governo – in attuazione della delega recata nella legge n. 308/2004 per il riordino e il coordinamento della normativa ambientale in materia di tutela dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera (art. 1, comma 1, lettera g) – ha accorpato in un unico testo numerose normative (anche di derivazione comunitaria) di rango primario e secondario. In particolare, in tale testo è confluita, sia pure con le necessarie modifiche e integrazioni sulla base dei criteri di delega, la disciplina recata dal DPR n. 203/1988 (e dai relativi provvedimenti attuativi), che rappresentava in precedenza una sorta di normativa quadro in materia di emissioni nell’atmosfera (sul punto vedi il capitolo II riordino del diritto ambientale).

La ratifica del Protocollo di Kyoto e lo scambio di emissioni

Con la legge 1° giugno 2002, n. 120 è stato ratificato il protocollo di Kyoto e sono state introdotte disposizioni ulteriori finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra (tra le quali hanno un peso determinante le emissioni di CO2).

Al fine di realizzare l’obiettivo previsto dal protocollo di Kyoto di riduzione delle emissioni di gas serra del 6,5% entro il 2008-2012, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio - in attuazione dell’art. 2, comma 1, della legge da ultimo citata - ha elaborato il Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra: 2003-2010, nonché la proposta di revisione della delibera CIPE n. 137 del 19 novembre 1998, recante le “linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra”. Tali documenti, approvati con la delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 123[68], individuano le politiche e le misure finalizzate al contenimento ed alla riduzione delle emissioni di gas serra.

Tra gli strumenti diretti a realizzare gli obiettivi indicati, il Protocollo di Kyoto, contempla il meccanismo dell’emission trading, di cui è prevista l’entrata in vigore a livello internazionale nel 2008.

Si segnala che, a livello europeo, è già operante dal 2005 un meccanismo analogo, operante sulla base della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 2003.

Tale provvedimento ha istituito un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità - denominato Emission Trading System (ETS) – finalizzato a promuovere la riduzione di dette emissioni secondo criteri di efficacia dei costi ed efficienza economica. In base a tale meccanismo, ogni impianto che emette nell’atmosfera gas serra deve possedere un permesso all’emissione nonché rendere alla fine dell’anno un numero di quote (o diritti) d’emissione pari alle emissioni di gas serra rilasciate durante l’anno[69].

Nelle more del recepimento della direttiva 2003/87/CE, il Governo ha provveduto all’emanazione di un provvedimento d’urgenza (il decreto legge 12 novembre 2004, n. 273[70]) al fine di consentire l’avvio a partire già dal 2005 del sistema previsto dalla direttiva stessa, nonché all’elaborazione - che ha richiesto diversi mesi - del Piano Nazionale di Assegnazione delle quote di emissione di anidride carbonica. Sulla base del Piano è stato successivamente emanato il D.M. ambiente e tutela del territorio 23 febbraio 2006[71] che ha provveduto all’assegnazione e rilascio delle quote di CO2 per il periodo 2005-2007.

L’apparato normativo per la riduzione delle emissioni sarà completato con un apposito decreto legislativo (in corso di pubblicazione alla data di chiusura della XIV legislatura), che ha recepito nell’ordinamento nazionale la direttiva 2003/87/CE e la direttiva 2004/101/CE (che ha modificato la precedente)[72] e ha inoltre altresì, inglobato la disciplina dettata dal citato D.L. n. 273/2004, al fine di evidentemente di predisporre un quadro normativo unitario.

Per un approfondimento sulla costruzione normativa qui delineata si veda la scheda L’attuazione del Protocollo di Kyoto.

Il recepimento delle direttive sulla qualità dell’aria

Nel corso della XIV legislatura sono state recepite numerose direttive destinate al miglioramento della qualità dell’aria. La maggior parte di queste costituisce completamento e/o aggiornamento della cornice normativa definita dalla direttiva quadro 96/62/CE, in materia di valutazione e gestione della qualità dell'aria ambiente.

Le direttive per il controllo di specifici agenti inquinanti

La citata direttiva quadro sulla qualità dell’aria (96/62/CE) stabilisce i principi di base di una strategia comune volta a definire e fissare obiettivi concernenti la qualità dell'aria ambiente per evitare, prevenire o ridurre gli effetti nocivi per la salute umana e per l'ambiente, valutare la qualità dell'aria ambiente negli Stati membri, informare il pubblico (anche attraverso soglie di allarme), nonché migliorare la qualità dell'aria quando essa non è soddisfacente. Essa è stata recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 351.

La cornice normativa delineata dalla direttiva 96/62/CE è stata integrata da numerose “direttive derivate” volte al controllo di specifici agenti inquinanti (direttiva 1999/30/CE, 2000/69/CE, 2002/3/CE e 2004/107/CE), nonché dalla direttiva 2001/81/CE che, nel quadro dell'attuazione della Comunicazione della Commissione sulla strategia per combattere l'acidificazione[73], ha stabilito limiti nazionali di emissione per alcuni inquinanti, responsabili dei fenomeni di acidificazione, eutrofizzazione e formazione di ozono troposferico[74].

Il recepimento delle direttive citate, come riassunto nella tabella seguente, ha ulteriormente arricchito il panorama legislativo nazionale in tema di inquinamento atmosferico. Esso si è realizzato attraverso un’integrazione delle norme recate dal citato decreto legislativo n. 351/1999, che – del resto – era stato impostato nell’ottica di avviare un processo dinamico di adeguamento della normativa nazionale con il sistema delle “direttive derivate”:

 

Materia

Direttiva

Recepimento

Biossidi di zolfo e azoto, ossidi di azoto, particelle e piombo

1999/30

D.M. 2 aprile 2002, n. 60

Benzene e monossido di carbonio

2000/69

D.M. 2 aprile 2002, n. 60

Composti organici volatili, biossido di zolfo, ammoniaca, ossidi di azoto

2001/81

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 171

Ozono nell’aria

2002/3

D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 183

Arsenico, cadmio, mercurio, nickel e idrocarburi policiclici aromatici

2004/107

In attesa di recepimento[75]

 

I provvedimenti indicati prevedono in particolare la fissazione di obiettivi di qualità dell’aria e la predisposizione di piani e programmi per il loro raggiungimento. Le direttive più recenti prevedono obiettivi più stringenti da raggiungere entro il 2010.

Il d.lgs. n. 171/2004 prevede inoltre l’introduzione di un Programma nazionale di riduzione delle emissioni, che viene sottoposto all’esame e successivamente deliberato dal CIPE, attraverso una procedura analoga a quella stabilita per l'attuazione del Protocollo di Kyoto.

Si segnala, infine, che, in attuazione del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 351, è stato emanato il D.M. 1 ottobre 2002, n. 261, che ha definito le modalità di valutazione preliminare della qualità dell'aria ed i criteri per la stesura dei programmi di miglioramento e di mantenimento della stessa.

Le direttive per la riduzione delle emissioni derivanti dai trasporti

Le Istituzioni comunitarie hanno più volte manifestato consapevolezza della pericolosità per la salute e l’ambiente delle emissioni in atmosfera prodotte nel settore dei trasporti[76]. Sono state quindi adottate numerose direttive volte, tra l’altro, ad incentivare il passaggio a modi di trasporto meno inquinanti e il ricorso a carburanti alternativi.

 

La tabella seguente evidenzia le principali disposizioni emanate a livello europeo e i relativi atti di recepimento nel nostro Paese:

 

Materia

Direttiva

Recepimento

Risparmio di carburante ed emissioni di CO2

1999/94

D.P.R. 17 febbraio 2003, n. 84

Emissioni dei veicoli a due/tre ruote

2002/51

D.M. 20 febbraio 2003

Qualità della benzina e del combustibile diesel

2003/17

D.Lgs. 21 marzo 2005, n. 66

Gas di scarico dei veicoli commerciali

2003/26

D.M. 20 giugno 2003

Controlli delle emissioni di gas di scarico dei veicoli a motore

2003/27

D.M. 18 luglio 2003

Promozione dell'uso dei biocarburanti o di altri carburanti rinnovabili nei trasporti"

2003/30

D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 128

Misure da adottare contro le emissioni dei veicoli a motore

2003/76

D.M. 26 maggio 2004

 

Il d.lgs. n. 66/2005, attraverso il quale è stata recepita la direttiva 2003/17, prevede la graduale sostituzione (da completarsi entro il 1° gennaio 2009) degli attuali combustibili con benzina senza piombo e combustibile diesel a tenore zero di zolfo non superiore a 10 mg/kg al fine di migliorare il rendimento energetico ottenibile grazie alle nuove tecnologie emergenti del settore automobilistico[77] e consentire una sostanziale diminuzione delle emissioni di inquinanti atmosferici tradizionali.

Per quanto riguarda poi la promozione di biocarburanti o altri carburanti rinnovabili nei trasporti, si segnala poi che le misure contenute nel d.lgs. n. 128/2005 si aggiungono a quelle di carattere fiscale introdotte nel corso della presente e della precedente legislatura (v. capitolo Energie rinnovabili).

Le direttive per la riduzione delle emissioni derivanti dagli impianti industriali

Oltre alla già citata direttiva 2003/87/CE, occorre richiamare, tra i provvedimenti più importanti per il settore industriale, il decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59[78], che ha integralmente recepito la direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento (cd. direttiva IPPC). Il decreto contiene inoltre alcune disposizioni, già introdotte nelle more della sua emanazione, nonché le necessarie norme di coordinamento[79].

 

Con la direttiva IPPC del 24 settembre 1996 la Comunità europea ha adottato un approccio integrato al controllo delle emissioni (nell’aria, nelle acque e nel suolo) degli impianti industriali, sottoponendo la gestione degli stabilimenti industriali che svolgono attività rientranti nell’allegato I, alla concessione di un'autorizzazione, previa consultazione del pubblico ed eventualmente ad un esame coordinato da parte delle varie autorità competenti.

Tale direttiva era già stata recepita nell’ordinamento italiano - limitatamente tuttavia ai soli impianti esistenti - con il d.lgs. 4 agosto 1999, n. 372.

 

 

La principale novità recata dal d.lgs. n. 59/2005 consiste nell’estensione dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) a tutti gli impianti (quindi anche agli impianti nuovi oltre che a quelli già esistenti) rientranti nel suo campo di applicazione.

Per un esame approfondito della normativa in materia di IPPC, anche alla luce delle disposizioni di coordinamento recate dal d.lgs. n. 152/2006, si veda la scheda L’autorizzazione integrata ambientale.

 

Con il D.M. 16 gennaio 2004, n. 44 è stata recepita la direttiva 1999/13/CE[80] del Consiglio dell'11 marzo 1999 sulla limitazione delle emissioni di composti organici volatili (COV) dovute all'uso di solventi organici in talune attività e in taluni impianti. Il contenuto di tale decreto è stato incluso nell’art. 275 e nell’Allegato III alla parte V del già citato d.lgs. n. 152/2006.

Esso ha previsto sostanzialmente l’applicazione di valori limite di emissione specifici e ha definito i criteri temporali di adeguamento ed i metodi di analisi e di valutazione delle emissioni prodotte dagli impianti individuati nel relativo allegato.

Lo stesso decreto ha inoltre introdotto significative novità e nuovi obblighi per i gestori degli impianti, sia da un punto di vista tecnico che gestionale, tra i quali si segnala l’elaborazione ed aggiornamento, almeno annuale, del piano di gestione dei solventi. Tali prescrizioni sono già vigenti per i nuovi impianti e per quelli soggetti a modifica sostanziale, mentre gli impianti esistenti dovranno adeguarsi alle prescrizioni del decreto entro il 31 ottobre 2007.

 

Si ricorda infine che con gli artt. 273-274 del più volte citato d.lgs. n. 152/2006 è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva 2001/80/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2001 concernente la limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione.

In particolare, l’art. 273 fa rinvio all’Allegato II della parte V del decreto per l’individuazione dei valori limite di emissione e disciplina le modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni e i criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché le ipotesi di anomalie e guasti. Il citato Allegato II adegua le disposizioni previgenti, previste dal DM 8 maggio 1989 (recante Limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione) a quelle più aggiornate dettate dalla direttiva 2001/80/CE[81].

Per gli impianti esistenti, l’applicazione dei limiti di emissione previsti dall’Allegato II viene prevista a decorrere dal 1° gennaio 2008 (art. 273, commi 3-4). Tale data corrisponde al termine di vigenza dei limiti previsti dalla direttiva 88/609/CE, nonché al termine imposto agli Stati membri dalla direttiva (art. 4, par. 3 e art. 17, par. 2) per ottenere una riduzione significativa dei valori limite delle emissioni.

Mobilità sostenibile

Il miglioramento della qualità dell’ambiente urbano attraverso l’utilizzo di modalità di trasporto a ridotto impatto ambientale rappresenta una delle tematiche più sentite e oggetto, ormai da tempo, di numerosi programmi da parte delle istituzioni.

 

Al fine di consentire la prosecuzione di tali programmi:

§         la legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti)[82] ha autorizzato complessivamente la spesa di oltre 800 milioni di euro per favorire la riduzione delle emissioni inquinanti derivanti dalla circolazione di mezzi adibiti a servizi di trasporto pubblico locale (art. 13, comma 2) e la sostituzione del parco autoveicoli a propulsione tradizionale con veicoli a minimo impatto ambientale (art. 17)

 

In particolare l’art. 13, comma 2, ha autorizzato limiti di impegno quindicennali pari a 30 milioni di euro per l'anno 2003 e a ulteriori 40 milioni di euro per l'anno 2004 (che, complessivamente, determinano un volume attivabile di oltre 700 milioni di euro), mentre l’art. 17 ha autorizzato, per i veicoli a minimo impatto ambientale, la spesa di 30.000.000 di euro per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004[83].

 

§         l’art. 1, comma 45, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (cd. “Delega ambientale”) ha autorizzato, al fine di consentire la prosecuzione degli accordi di programma in materia di sviluppo sostenibile e di miglioramento della qualità dell'aria, anche attraverso l'utilizzo e l'incentivazione di veicoli a minimo impatto ambientale, la spesa di 150 milioni di euro (50 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2003-2005);

§         l’art. 1, comma 1, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 16 (Interventi urgenti per la tutela dell'ambiente e per la viabilità e per la sicurezza pubblica)[84] ha istituito, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, un fondo da ripartire per le esigenze di tutela ambientale connesse al miglioramento della qualità ambientale dell'aria e alla riduzione delle emissioni di polveri sottili in atmosfera nei centri urbani, con una dotazione di 140 milioni di euro annui a decorrere dal 2006, demandandone la ripartizione a successivi decreti del Ministro dell'economia e delle finanze adottati su proposta del Ministro dell’ambiente.

Ad oggi, tali decreti non sono stati ancora adottati.

 

L'art. 2 del decreto-legge 8 luglio 2002 n. 138[85] ha inoltre introdotto una serie di agevolazioni fiscali destinate a favorire l'acquisto dei veicoli ecologici e la correlativa demolizione dei veicoli non conformi alle direttive comunitarie in materia di emissioni inquinanti (cd. incentivi per la rottamazione)[86]. Tali agevolazioni, relative agli acquisti effettuati nel secondo semestre del 2002, sono state prorogate dal decreto-legge 13 gennaio 2003, n. 3[87] fino al 31 marzo 2003.

La materia dell’inquinamento atmosferico nelle aree urbane, la cui causa principale è proprio il traffico veicolare, è stato oggetto, nel corso del 2002, di un’accurata indagine conoscitiva da parte della 13a Commissione del Senato[88].

Uno strumento ulteriore su cui il Governo si è concentrato nel corso della XIV legislatura anche al fine di migliorare la situazione della mobilità (sia urbana che extraurbana) è stato quello di un potenziamento della rete infrastrutturale del Paese avviato con l’approvazione della legge n. 443/2001, cd. “legge obiettivo” (v. capitolo La legge obiettivo)[89].

Disciplina dei combustibili

Nel corso della XIV legislatura sono stati emanati alcuni importanti provvedimenti volti a definire le caratteristiche dei combustibili utilizzabili (tipicamente negli impianti industriali, ma non solo) con la finalità di ridurre l’inquinamento atmosferico.

Con il DPCM 7 settembre 2001, n. 395, è stata recepita la direttiva 1999/32/CE relativa alla riduzione del tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi.

Con il successivo DPCM 8 marzo 2002 (Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione) sono state aggiornate le disposizioni attuative del citato DPR n. 203/1988 contenute nel DPCM 2 ottobre 1995[90].

 

La disciplina dei combustibili è stata poi accorpata nel titolo III della parte quinta del d.lgs. n. 152/2006 (artt. 291-298).

In particolare l’art. 293 del decreto rinvia all’Allegato X alla parte V per la determinazione delle caratteristiche merceologiche e delle condizioni di utilizzo dei combustibili rientranti nel campo di applicazione del medesimo titolo III. A tal fine, il citato allegato riprende il contenuto dell’articolato e degli allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002.

Le novità introdotte dalla Parte quinta del d.lgs. n. 152/2006

Il riordino operato nella Parte quinta del d.lgs. n. 152/2006 ha in gran parte carattere compilativo. Molte della innovazioni introdotte – con la finalità di migliorare la tutela ambientale – sono volte a chiarire dubbi interpretativi che avevano prodotto e continuano a produrre contenzioso.

Tra le novità del decreto, oltre al già citato recepimento della direttiva 2001/80/CE sui grandi impianti di combustione, si segnalano:

§         nella parte I dell’allegato IV, le disposizioni che chiariscono il regime normativo delle attività agricole e zootecniche[91];

§         all’articolo 269, l’introduzione di una procedura per il rilascio dell'autorizzazione alle emissioni in atmosfera volta a garantire semplificazione amministrativa, tempi certi e partecipazione di tutti gli enti locali (attraverso, in particolare, il coinvolgimento delle province, sinora non considerate).

§         nella medesima disposizione, la previsione di una durata fissa (15 anni) per le autorizzazioni (la normativa previgente non disponeva un termine) e la fissazione di soglie di potenza, in funzione del combustibile utilizzato, in modo da facilitare l'individuazione della disciplina applicabile agli impianti termici civili (quella recata dal titolo I ovvero dal titolo II)

 

Per ulteriori approfondimenti si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità relative alla tutela dell’aria.

 

Inquinamento elettromagnetico

L’attuazione della legge quadro n. 36/2001: i due DPCM 8 luglio 2003

Con i due decreti dell’8 luglio 2003 il Governo ha dato attuazione all’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici), attraverso la determinazione dei valori limite (cioè dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità) per la protezione della popolazione dai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Alla data di inizio della XV legislatura non risulta ancora attuata la lettera b) della medesima disposizione, relativa alla fissazione dei valori limite per i lavoratori e le lavoratrici professionalmente esposti.

 

Può essere utile richiamare le principali finalità perseguite dalla legge quadro, approvata al termine della XIII legislatura:

§       la predisposizione di una disciplina unitaria, applicabile a tutte le fonti di inquinamento elettrico e magnetico;

§       l’inserimento della tutela dall’inquinamento elettromagnetico all’interno di una cornice sistematica che disciplini il riparto di competenze fra i diversi soggetti pubblici coinvolti;

§       la fissazione di nuovi valori limite, e, in particolare: dei limiti di esposizione (ai fini della tutela della salute da effetti acuti), dei valori di attenzione (che non devono essere superati negli ambienti abitativi, scolastici e nei luoghi adibiti a permanenze prolungate) e degli obiettivi di qualità (per la localizzazione di nuovi impianti, l’incentivazione delle migliori tecnologie disponibili e la progressiva mitigazione dell'esposizione);

§       la programmazione degli opportuni interventi di risanamento dei siti.

 

In tale contesto, l’articolo 4, comma 1, lettera a), della legge individua tra le competenze statali la determinazione dei limiti di esposizione all’elettrosmog e la definizione delle tecniche di rilevazione, “in considerazione del preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee”. Il successivo comma 2 demanda la definizione di tali limiti a due DPCM, da emanarsi entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge, volti a fissare i valori limite rispettivamente per la popolazione (lettera a) e per i lavoratori e le lavoratrici professionalmente esposti (lettera b).

 

Nonostante l’ambito di applicazione della legge n. 36/2001 fosse esteso a tutti gli impianti, i sistemi e le apparecchiature suscettibili di comportare l'esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici con frequenze comprese tra 0 Hz e 300 GHz (articolo 2), i citati DPCM hanno distinti campi di applicazione. L’uno riguarda infatti i campi generati da sorgenti fisse con frequenza compresa fra 100 kHz e 300 GHz (impianti radioelettrici) ovvero i campi ad alte frequenze[92]; l’altro si riferisce invece ai campi generati da elettrodotti (frequenza di rete di 50 Hz), ovvero ai campi a basse frequenze.

 

La ragione della predisposizione di due distinti decreti risiede probabilmente, oltre che nelle differenze tecnologiche delle due tipologie di impianti, anche nella differente disciplina recata dalla normativa previgente.

Si richiamano in proposito:

§         con riferimento ai campi ad alte frequenze, il DPR n. 381 del 1998 e l’articolo 2 del decreto-legge 23 gennaio 2001, n. 5, nonché – per le procedure autorizzative – il decreto legislativo n. 198 del 2002 (cd “decreto Gasparri”), dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 303 del 2003, su cui si rinvia alla scheda La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale;

§         con riferimento ai campi a basse frequenze, il D.P.C.M. 23 aprile 1992 e il D.P.C.M. 28 settembre 1995.

 

Nel merito, i due DPCM introducono valori limite complessivamente più restrittivi rispetto a quelli contemplati sia dalle disposizioni previgenti sia dalle norme comunitarie e internazionali.

 

Con specifico riferimento alle norme previgenti, si osserva che:

·       per gli elettrodotti vengono assunti come limiti generali quelli prima previsti per le esposizioni prolungate;

·       per le alte frequenze vengono confermati i valori fissati dal DM n. 381/1998.

Per quanto riguarda le norme internazionali, può essere utile richiamare le Guidelines for limiting exposure to time-variyng electric, magnetic and electromagnetic fields (up to 300 GHz), emanate nel 1998 dall’ICNIRP (International Commission Non Ionizing Radiation Protection), il quale costituisce il principale riferimento mondiale in tema di protezione dagli effetti delle radiazioni non ionizzanti. Nel citato documento si stabiliscono i criteri per limitare l’esposizione della popolazione e dei lavoratori in modo da ottenere la massima protezione contro gli effetti negativi noti sulla salute umana.

A livello comunitario, infine, la disciplina di riferimento è costituita dalla Raccomandazione 1999/519/CE[93], con la quale il Consiglio ha raccomandato agli Stati membri l’adozione dei limiti proposti dall’ICNIRP, pur lasciando agli Stati medesimi la facoltà di fornire un livello di protezione più elevato di quello indicato nella raccomandazione stessa[94].

 

La seguente tabella illustra i valori limite adottati con i citati DPCM e li confronta con le norme internazionali:

 

 

 

 

 

 

 

Basse frequenze

Area/Paese

Riferimento normativo

Note

Applicazione dei limiti

Induzione magnetica B (µT)

Campo elettrico

E (V/m)[95]

Unione Europea

Raccomandaz. 1999/519/CE

Raccomandazione non prescrittiva

Per esposizioni prolungate

100

5.000

Italia

DPCM 23 aprile 1992

Limiti aventi valore legale

Per l’intera giornata

100

5.000

 

 

 

Per poche ore al giorno

1.000

10.000

 

DPCM 8 luglio 2003

Limiti aventi valore legale

Limiti di esposizione

100

5.000

 

 

 

Valori di attenzione

10

5.000

 

 

 

Obiettivi di qualità

3

5000

 

 

Alte frequenze[96]

 

Intensità di campo elettrico E (V/m)

Intensità di campo magnetico H (A/m)

Densità di potenza     D (W/m2)

 

900 MHz

1800 MHz

900 MHz

1800 MHz

900 MHz

1800 MHz

ICNIRP

41,25

58,3

0,11

0,16

4,5

9

Racc. 99/519/CE

41,25

58,3

0,11

0,16

4,5

9

Italia

(valori di attenzione[97])

20

(6)

20

(6)

0,05

(0,016)

0,05

(0,016)

1

(0,1)

1

(0,1)

Fonte: Elaborazione Servizio studi su dati tratti dal sito internet dell’OMS: www.who.int/docstore/peh-emf/EMFStandards/who-0102/Worldmap5.htm.


Il grafico seguente evidenzia come la normativa italiana sia più restrittiva rispetto ai valori limite indicati dall’ICNIRP, praticamente a tutti gli intervalli di frequenza considerati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Occorre infine segnalare che, per talune sorgenti e per particolari frequenze, i due DPCM non fissano esplicitamente limiti ma semplicemente contengono un rinvio ai limiti contemplati dalla Raccomandazione 1999/519/CE. Ciò potrebbe – secondo alcuni – comportare “una disparità d’impostazione delle procedure di misura e di verifica del rispetto dei limiti”[98].

 

Il contenzioso tra Stato e Regioni

L’emanazione dei citati DPCM è avvenuta in un contesto caratterizzato da due importanti novità normative, incidenti, sia pure in modo differente, sull’attuazione della legge n. 36/2001:

§         l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, che in particolare, attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema;

§         la statuizione con il cd. “decreto Gasparri” (decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198) di nuove regole - sia pure relativamente ai soli impianti di telecomunicazioni – per il rilascio delle autorizzazioni all’installazione degli impianti[99].

 

In tale complesso panorama normativo, si è prodotto un significativo contenzioso tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale. Quest’ultima è stata chiamata a giudicare, da un lato, su ricorsi dello Stato contro leggi regionali che hanno determinato propri valori-limite, al di fuori quindi di un quadro unitario; dall’altro su ricorsi delle regioni contro il “decreto Gasparri” che avrebbe disposto le procedure di autorizzazione, non solo in contrasto con quanto definito dalla legge n. 36 del 2001, ma anche in contrasto con le competenze legislative costituzionalmente assegnate alle regioni in materia di urbanistica, governo del territorio e tutela della salute.

Con riferimento al primo profilo, la Corte costituzionale, pur non pronunciandosi sul merito dei ricorsi, ha dichiarato illegittimo per eccesso di delega il “decreto Gasparri” (sentenza n. 303 del 2003)[100]. Con riferimento al secondo profilo, ha chiarito che “il sistema complessivo delineato dalla legge-quadro in materia prevede che sia lo Stato competente a fissare i valori-soglia in materia di emissioni elettromagnetiche, mentre le Regioni assumono un ruolo centrale nella determinazione della disciplina dell'uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti” e, conseguentemente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte quelle disposizioni regionali, che travalicavano l’ambito delle competenze regionali così circoscritto (sentenza n. 307 del 2003) (v. scheda Elettrosmog – Giurisprudenza costituzionale).

Il completamento dell’attuazione della legge quadro

Come già detto, la legge quadro, ad oggi, non ha ricevuto completa attuazione, non essendo in particolare ancora stato emanato il DPCM contemplato dall’articolo 4, comma 2, lettera b), relativo alla fissazione dei valori limite per i lavoratori e le lavoratrici professionalmente esposti. Si segnala tuttavia che nel frattempo è intervenuta in materia la direttiva 2004/40/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici da 0 Hz a 300 GHz). Tale direttiva è inclusa nell’Allegato B della legge comunitaria 2005 (legge 25 gennaio 2006, n. 29), per cui il Governo è delegato ad adottare, entro il 23 agosto 2007[101], un decreto legislativo che ne assicuri il recepimento nei termini previsti dalla direttiva stessa (30 aprile 2008).

 

La direttiva 2004/40/CE fissa valori limite di esposizione[102] e valori di azione[103] nonché obblighi a carico dei datori di lavoro, fra i quali l’individuazione dell'esposizione, la valutazione e la misurazione dei campi elettromagnetici; prevede inoltre disposizioni miranti ad eliminare o a ridurre i rischi da esposizione a campi elettromagnetici e impone obblighi di informazione e formazione dei lavoratori, della loro consultazione e partecipazione, nonché di sorveglianza sanitaria.

 

La questione del completamento dell’attuazione della legge quadro è posta anche nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla valutazione degli effetti dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici deliberata dalla Commissione ambiente nella seduta del 27 maggio 2003 e conclusa il 24 marzo 2004 con l’approvazione del Doc. XVII, n. 12. In tale documento, la Commissione, oltre a evidenziare l’opportunità di un accurato monitoraggio a livello governativo sull'attuazione della legge, ha espresso l’auspicio che il Governo valuti la possibilità di completare l'attuazione della legge-quadro, con riferimento in particolare alla determinazione di limiti specifici per le lavoratrici ed i lavoratori professionalmente esposti, alla costituzione del catasto nazionale delle sorgenti fisse e mobili dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone territoriali interessate (ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 36 del 2001) ed alle etichettature degli apparecchi e dei dispositivi, in particolare di uso domestico, individuale o lavorativo, generanti campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (ai sensi dell'articolo 12 della stessa legge). (Su tale indagine conoscitiva, vedi il capitolo L’attività conoscitiva in materia ambientale).

 

Inquinamento acustico e luminoso

Inquinamento acustico

La disciplina della tutela dell’ambiente dall’inquinamento acustico risale alla legge quadro 26 ottobre 1995, n. 447 (ambiente esterno ed ambiente abitativo)[104].

Nel corso della XIV legislatura non si sono registrati significativi interventi normativi di rango primario, eccetto una novella all’art. 3 della legge quadro introdotta dal collegato ambientale. Occorre tuttavia evidenziare che, da un lato, è stato sostanzialmente completato il quadro normativo avviato nella XIII legislatura attraverso l’adozione di decreti attuativi della legge n. 447[105]; dall’altro, premesso che gran parte della normativa in materia è di derivazione comunitaria si è provveduto al recepimento di alcune direttive comunitarie.

In particolare, è stata data attuazione, sulla base delle deleghe concesse da alcune leggi comunitarie, a tre direttive relative:

§         alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale sulla qualità dell’ambiente – in particolare dei grandi ambienti urbani e delle principali infrastrutture di trasporti;

§         all’inquinamento acustico originato dall’esercizio delle infrastrutture aeroportuali e di rumorosità degli aeromobili,

§         all'emissione acustica ambientale delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all'aperto.

Si ricorda, inoltre, l’avvio dell’esame presso l’VIII Commissione (Ambiente) di una proposta di legge AC 5951, Airaghi ed altri, volta a modificare l’art. 844 del codice civile in materia di inquinamento acustico, al fine di raccordare la norma del codice civile con il dettato dell'art. 4 del DPCM 14 novembre 1997.

Le emissioni sonore dei locali pubblici

Con l’art. 7 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (collegato ambientale) è stata apportata una rilevante modifica all’art. 3 della legge quadro, volta ad escludere le emissioni sonore dei locali pubblici dall’ambito di intervento della legislazione statale, mantenendola solo per i luoghi di intrattenimento danzante.

 

Si segnala, peraltro, che l’originaria previsione dell’applicabilità ai pubblici esercizi era stata aggiunta alla legge quadro dall’art. 4, comma 4, della legge n. 426 del 1998.

 

Tale modifica, in particolare, impedisce l’applicazione ai pubblici esercizi del decreto attuativo, DPCM 16 aprile 1999, n. 215, Regolamento recante le norme dei requisiti acustici delle sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento danzante e nei pubblici esercizi che, oltre a contenere i limiti del livello di pressione sonora, prevede anche una serie di obblighi e responsabilità in capo ai gestori, tutti rivolti a ridurre l’emissione sonora degli impianti nei limiti prescritti dallo stesso decreto.

Si sottolinea, infine, che tale nuova disposizione va ad inserirsi in un quadro normativo particolarmente articolato, anche a causa di numerose pronunce giurisprudenziali[106].

Il rumore da infrastrutture stradali

Con l’approvazione del DPR 30 marzo 2004, n. 142 recante Disposizioni per il contenimento e la prevenzione dell'inquinamento acustico derivante dal traffico veicolare, a norma dell'articolo 11 della legge 26 ottobre 1995, n. 447, è stato completato l’iter dei provvedimenti attuativi previsti dalla legge n. 447 relativi alle principali infrastrutture di trasporto via terra (riportati alla seguente tabella), rendendo operativa a tutti i livelli la legge quadro per tale settore.

 

Decreti attuativi della legge quadro per le principali infrastrutture di trasporto via terra

Oggetto

Strade

Ferrovie

Valori limite

DPCM 14 novembre 1997

Modalità di misurazione

DM 16 marzo 1998

Piani di risanamento

DM 29 novembre 2000[107]

Fasce e zone pertinenza

DPR 30 marzo 2004, n. 142

DPR 18 novembre 1998 n. 459

 

Il provvedimento, che prevede una regolamentazione analoga a quella stabilita dal DPR n. 459 del 1998 per le infrastrutture ferroviarie, stabilisce le norme per la prevenzione ed il contenimento dell’inquinamento acustico da traffico veicolare avente origine dall’esercizio delle infrastrutture stradali secondo la classificazione prevista dall’art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 e successive modificazioni (Codice della strada).

Tra le novità recate dal decreto vengono fissate le “fasce di pertinenza” con i relativi limiti di immissione da rispettare, differenziate a seconda che le infrastrutture siano già esistenti o di nuova costruzione.

Inoltre, con l’entrata in vigore del DPR, gli enti gestori di infrastrutture stradali saranno obbligati ad una serie di adempimenti previsti dalla legge quadro e dai relativi decreti attuativi quali:

§         l’individuazione delle aree in cui sono superati i limiti e la trasmissione dei relativi dati ai comuni ed alla regione o all’autorità da essa indicata;

§         la presentazione ai comuni e alla regione del piano di contenimento ed abbattimento del rumore;

§         il conseguimento, da parte della regione, degli obiettivi previsti dal piano entro quindici anni dal recepimento o dalla data di presentazione del piano;

§         l’impegno in via ordinaria di una quota fissa non inferiore al 5% (1,5% per l’ANAS) dei fondi di bilancio previsti per le attività di manutenzione e di potenziamento delle infrastrutture stesse per l'adozione di interventi di contenimento ed abbattimento del rumore.

 

IL DPR prevede, inoltre, l’introduzione di costi aggiuntivi per i “ricettori” – aree edificabili e naturalistiche o, comunque, destinate dal piano regolatore generale alla vita sociale della collettività, e abitazioni - successivamente alle infrastrutture, essendo rilevante la preesistenza dell’infrastruttura che si intende realizzare rispetto alla problematica del rumore. Difatti sia le infrastrutture stradali esistenti che quelle di nuova costruzione devono garantire il rispetto dei limiti nei confronti dei ricettori esistenti indicati nelle tabelle allegate al decreto stesso

La gestione del rumore ambientale

Con l’approvazione del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 194 è stata data attuazione alla direttiva europea 2002/49/CE dedicata alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale, con poco più di un anno di ritardo dalla scadenza prescritta dalla legge comunitaria 2003 (entro il 31 maggio 2005).

La direttiva non mira alla regolamentazione di tutti gli aspetti del rumore ambientale, ma unicamente a quegli aspetti che riguardano i cosiddetti “grandi protagonisti” del rumore in Europa, ovvero i gestori delle principali infrastrutture di trasporti – stradale, ferroviari ed aeroportuali – e dei principali agglomerati urbani (con più di 100.000 abitanti).

Il recepimento della direttiva comunitaria costituisce il primo passo dell’adattamento delle norme italiane alle richieste europee, particolarmente delicato, in considerazione del fatto che l’Italia già dispone di un corpus normativo pressoché completo in materia.

Con il decreto legislativo n. 194, destinato ai gestori delle infrastrutture ed ai centri urbani, sono state, infatti, introdotte alcune novità sostanziali rispetto alla normativa vigente, quali la riformulazione dei descrittori acustici, la ridefinizione dei periodi temporali di riferimento per la valutazione del disturbo da rumore e l’elaborazione di mappature acustiche e mappature acustiche strategiche, accanto alla predisposizione ed all’elaborazione di piani di azione volti ad evitare e a ridurre il rumore ambientale laddove necessario.

Inoltre, ai fini dell’efficacia della nuova disciplina - che non presenta nessuna norma immediatamente esecutiva – dovranno essere emanati una serie di provvedimenti statali e regionali di attuazione. Per il resto, il decreto legislativo mantiene l’impianto normativo globale della legge quadro, rinviando a successivi decreti non solo il completamento della disciplina di natura tecnica, ma anche il necessario coordinamento con le norme vigenti in materia.

In merito ad ulteriori approfondimenti sul contenuto del decreto si veda la specifica scheda La gestione del rumore ambientale.

Il contenimento del rumore aeroportuale

L’articolata normativa sulla disciplina del rumore aeroportuale si è arricchita di un altro provvedimento, il decreto legislativo 17 gennaio 2005, n. 13, con il quale è stata data attuazione all’ultima direttiva 30/2002/CE adottata al fine di intervenire nei confronti del rumore causato dal traffico aereo, anche attraverso limitazioni e restrizioni all’uso degli aeromobili in relazione alle loro prestazioni acustiche.

Scopo del decreto è quello di completare il sistema di gestione del rumore aeroportuale, soprattutto mediante l’introduzione di restrizioni operative al traffico di veicoli subsonici negli aeroporti classificati come metropolitani e, secondo la direttiva comunitaria, in quelli con oltre 50.000 movimenti l’anno.

Le disposizioni del decreto, come del resto la direttiva che lo ha originato, non entrano, però, nel merito del tenore di tali restrizioni, limitandosi a fissare i criteri generali, le procedure e le condizioni di applicazione, nonché a stabilire che la loro adozione resti subordinata ad un preventivo processo valutativo, che si articola attraverso una specifica relazione di valutazione da parte di un apposito Comitato tecnico consultivo e una complessa procedura.

L’adozione delle restrizioni contemplate dal decreto costituisce l’ultimo strumento da utilizzare per la riduzione del rumore aeroportuale, essendo essa prevista esclusivamente nel caso in cui la valutazione anzidetta abbia dimostrato l’impossibilità di attuare ogni altra misura di contenimento prevista dalla normativa vigente attuativa della legge n. 447 del 1995.

Per un’analisi più approfondita delle disposizioni del decreto legislativo vedi la scheda Contenimento del rumore aeroportuale.

Emissioni acustiche delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all'aperto

Attraverso l’emanazione del decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 262 è stata recepita, nell’ordinamento nazionale, in adempimento all’art. 1, della legge 1 marzo 2002, n. 39 (comunitaria 2001), la direttiva 2000/14/CE relativa all’emissione acustica ambientale delle macchine ed attrezzature destinate a funzionare all’aperto.

Con tale decreto legislativo si è provveduto a regolamentare in modo preciso l’emissione sonora di macchine ed attrezzature, che operano all’esterno degli ambienti di lavoro, già rientranti nel campo di applicazione della cosiddetta direttiva macchine n. 98/37/CE, recepita in Italia con il DPR n. 459 del 1996.

Nel decreto legislativo sono stati regolamentati i valori di emissione di numerosi tipi di macchine e attrezzature – con specifici valori limite – e, per molte di esse, è stato stabilito l’obbligo di dichiarazione dell’emissione sonora mediante l’indicazione della potenza sonora garantita, le procedure di valutazione della conformità, le modalità di marcatura, la documentazione tecnica e la rilevazione dei dati sull’emissione sonora utili per attestare la conformità della macchina/attrezzatura alla direttiva stessa.

In base alle disposizioni contenute nel decreto, il fabbricante può immettere in commercio o mettere in servizio le macchine/attrezzature contenute nell’allegato I, solamente a condizione che esse:

§         soddisfino i requisiti di emissione sonora stabiliti nel decreto;

§         siano state sottoposte alla valutazione delle conformità;

§         siano in possesso della marcatura CE, riportando il livello di potenza sonora garantito e siano accompagnate da una dichiarazione di conformità CE.

Rispetto agli altri atti di recepimento di direttive europee di prodotto, il decreto legislativo in questione prevede che il controllo del mercato non sia effettuato dai Ministeri delle attività produttive e del lavoro e delle politiche sociali, bensì dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, tramite l’Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT).

Il decreto prevede, inoltre, specifiche procedure da adottarsi nei confronti dei fabbricanti qualora venga accertato, durante il controllo del mercato, che le macchine o attrezzature non risultino conformi ai requisiti ed alle prescrizioni contenuti nel decreto.

Inquinamento luminoso

L’esigenza di introdurre una disciplina nazionale recante misure dirette a prevenire l'inquinamento luminoso derivante dall'emissione di luce artificiale proveniente da impianti di illuminazione esterna, pubblici e privati, è stata sentita fin dalla XI legislatura e si è riproposta nuovamente nel corso della XIV legislatura, attraverso la presentazione di cinque proposte di legge: AC 697 Calzolaio, AC 1831 Vendola e altri, AC 1906 Cossa, AC 2231 Zanella e altri e AC 2403 Lupi e altri.

Tali proposte presentavano, pur con qualche diversità, numerosi punti di contatto, essendo tutte ispirate al perseguimento di tre fondamentali obiettivi: prevenire e ridurre l'inquinamento luminoso, ridurre conseguentemente i consumi energetici e tutelare dall'inquinamento luminoso i siti degli osservatori astronomici e astrofisici.

La presentazione di tali proposte di legge evidenziava la volontà di disciplinare la materia non soltanto sotto il prioritario aspetto della riduzione dell'inquinamento luminoso, ma anche in funzione dell’obiettivo del risparmio energetico[108] e del miglioramento dell’efficacia, dell'efficienza e dei costi di manutenzione degli impianti di illuminazione, anche attraverso l'armonizzazione dei criteri di progettazione. Infatti, l'esigenza di una legge quadro nel settore non è avvertita solamente dagli astronomi ed astrofili, ma anche da importanti comparti della produzione industriale nazionale.

Per l’esame di tali proposte di legge (AC 697, AC 1831, AC 1906, AC 2231, AC 2403) si è costituito un comitato ristretto presso le Commissioni VIII e X, che, dopo le numerose audizioni del mondo degli astrofili ed astrofisici, dei produttori di apparecchi di illuminazione, del settore dell'illuminotecnica e di rappresentanti delle regioni, ha elaborato un testo unificato, del quale tuttavia non si è concluso l’esame.

Nel testo unificato le Commissioni si sono orientate verso una legge di indirizzo in grado di individuare i criteri cui dovranno attenersi le regioni ed i comuni nella redazione dei Piani regolatori dell'illuminazione, lasciando la maggior parte degli adempimenti agli enti locali. Ciò anche in considerazione del fatto che già numerose regioni (ben quattordici), in assenza di una normativa statale in materia, si sono già dotate di leggi proprie - giungendo in molti casi anche ad emanare i relativi provvedimenti attuativi - che, pur essendo univoche nello spirito, risultano comunque diverse tra loro, soprattutto riguardo alle disposizioni sui limiti da applicare agli impianti di illuminazione esterna.

Per un’analisi della normativa regionale sull’inquinamento luminoso vedi la scheda Leggi regionali sull’inquinamento luminoso.

 

Aree protette

Il settore delle aree protette[109] non ha registrato significativi interventi normativi - dei quali si dà in ogni modo conto all’interno di questo capitolo - ad eccezione di alcune norme istitutive di nuove aree protette di seguito riportate.

 

 

§         DM ambiente e tutela del territorio 19 febbraio 2002, Approvazione del regolamento dell'area marina protetta del promontorio di Portofino;

§         DM ambiente e tutela del territorio 24 giugno 2002, Istituzione della riserva naturale statale dell'isola di Vivara;

§         DPR 3 ottobre 2002, Istituzione del Parco nazionale dell'Asinara e dell'Ente parco;

§         DPR 14 novembre 2002, Istituzione del Parco nazionale della Sila e dell'Ente parco;

§         DM ambiente e tutela del territorio 28 novembre 2001, Rettifica del decreto istitutivo dell'area marina protetta denominata "Tavolara - Punta Coda Cavallo;

§         DM ambiente e tutela del territorio 24 luglio 2002, Istituzione dell'area marina protetta denominata Capo Gallo-Isola delle Femmine;

§         DM ambiente e tutela del territorio 13 agosto 2002, Istituzione dell'area marina protetta denominata "Isola dell'Asinara";

§         DM ambiente e tutela del territorio 20 settembre 2002, Istituzione dell'area marina protetta denominata Capo Caccia-Isola Piana;

§         DM ambiente e tutela del territorio 21 ottobre 2002, Istituzione dell'area marina protetta denominata "Isole Pelagie";

§         DM ambiente e tutela del territorio, 17 luglio 2003, Rettifica al decreto 6 settembre 1999, relativo all'area marina protetta denominata «Penisola del Sinis - Isola Mal di Ventre»;

§         DPR 10 marzo 2004, Istituzione del Parco nazionale dell'Alta Murgia;

§         DM ambiente e tutela del territorio 15 settembre 2004, Istituzione dell'area marina protetta denominata Plemmirio;

§         DM ambiente e tutela del territorio, 9 novembre 2004, Modifica dell'area marina protetta denominata Cinque Terre;

§         DM ambiente e tutela del territorio 9 novembre 2004, Istituzione dell'area marina protetta denominata Isole Ciclopi;

§         DM ambiente e tutela del territorio 21 settembre 2005, Modifica al decreto 15 settembre 2004, istitutivo dell'area marina protetta denominata «Plemmirio» nel comune di Siracusa località Penisola Maddalena-Capo Murro di Porco;

§         DPR 4 aprile 2005, Istituzione dell'Ente parco nazionale del Circeo.

 

 

Si deve segnalare, invece, l’indagine conoscitiva sul sistema di gestione amministrativa degli enti parco nazionale - iniziata il 2 ottobre 2002 e conclusasi con l’approvazione del documento conclusivo (DOC.XVII, n. 9) il 15 ottobre 2003.- durante la quale sono emersi alcuni elementi che hanno evidenziato come i meccanismi di finanziamento originariamente previsti dalla legge quadro sulle aree protette del 6 dicembre 1991, n. 394, si siano rivelati inidonei a fornire un efficace strumento di utilizzazione delle risorse per gli investimenti messe a disposizione dei parchi.

 

Si ricorda innanzitutto che tale sistema di attribuzione delle risorse è stato eliminato dall'art. 76 del decreto legislativo n. 112 del 1998, che ha abrogato il programma triennale. A seguito di tale abrogazione, è venuto dunque a mancare il principale strumento di ripartizione e di trasferimento delle risorse economiche necessarie al funzionamento degli enti parco nazionali, per cui questi ultimi sono stati chiamati a sviluppare la propria capacità di individuare e di accedere ad altri canali di reperimento delle risorse, quali, per esempio, i programmi nazionali e comunitari che finanziano specifici interventi di tutela ambientale e di salvaguardia del territorio, prevedendo adeguati strumenti per la selezione dei progetti meritevoli di finanziamento e per il controllo dell'effettiva utilizzazione delle risorse erogate[110]. Inoltre, l'esigenza di individuare nuovi strumenti e nuove procedure per il reperimento delle risorse è apparsa ancora più evidente alla luce del programma di contenimento della spesa pubblica avviato dal Governo che ha imposto una sensibile contrazione del contributo ordinario erogato dal Ministero dell'ambiente ai parchi nazionali che, a partire dal 2002, ha garantito solo la copertura delle spese essenziali per il personale e delle attività istituzionali degli enti parco, penalizzando gli investimenti ed i nuovi progetti.

 

Nel corso dell’indagine è stata quindi sottolineata l’opportunità di promuovere e stimolare gli enti parco ad individuare e sperimentare nuovi canali e strumenti di finanziamento, in aggiunta al contributo ordinario del Ministero, quali l'autofinanziamento, inteso non solo come insieme di misure dirette a procurare risorse aggiuntive mediante attività di impresa ecocompatibili - quali l’istituzione di filiere di produzione di prodotti tipici, cui attribuire un “logo” o un simbolo del parco - ma anche quale contributo per una migliore gestione dell'ente parco. Nelle intenzioni della Commissione, le finalità dell'indagine sono consistite sostanzialmente nel verificare le reali prospettive di crescita degli enti parco nazionali, in modo da migliorare la relativa gestione.

L'indagine ha quindi permesso di evidenziare una serie di elementi di rilievo riguardo ai problemi che interessano la gestione amministrativa degli enti parco nazionali, tra i quali l’esistenza di consistenti residui passivi in conto capitale che, se da un lato denota la presunta incapacità di spesa per investimenti da parte degli enti, per altro verso evidenzia anche fenomeni non direttamente riconducibili all'attività degli enti. Si è quindi prospettata l’opportunità di riformare la normativa di contabilità del settore, e in generale garantire agli enti parco la possibilità di programmare tempestivamente e in modo efficiente gli interventi da porre in essere.

Al fine poi di migliorare l’efficienza della programmazione, è emerso che sarebbe necessario che gli enti parco si dotino in tempi congrui dei piani del parco, che costituiscono uno strumento essenziale per lo svolgimento delle attività del parco. D’altra parte, la mancata approvazione da parte delle regioni dei piani del parco già approvati dai diversi enti parco ne paralizza in misura significativa l’attività programmatoria. Sarebbe, pertanto, opportuno attivare i poteri sostitutivi previsti dalla legge n. 394 del 1991; oppure modificare tale normativa in modo da consentire agli enti parco di dotarsi rapidamente e senza ulteriori indugi, dei previsti piani.

Sono state formulate anche alcune proposte più strettamente operative tra le quali quella del passaggio del Corpo Forestale sotto la vigilanza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, in relazione ai CTA (Coordinamenti territoriali ambientali) e del passaggio delle riserve naturali dal Corpo forestale agli Enti parco, in modo da sfruttare più efficientemente le potenzialità di tali risorse, anche a scopi di parziale autofinanziamento degli enti stessi.

In conclusione, l’indagine ha riconosciuto che il sistema dei parchi nazionaliha in sé tutte le potenzialità per garantire un miglioramento dell’efficienza della gestione amministrativa. Questo miglioramento potrà anche rendere gli enti parco sempre più idonei a rispondere, da un lato, alle esigenze di tutela e salvaguardia del territorio e, dall’altro, alla valorizzazione, anche economico-produttiva, delle aree protette, nonché allo sviluppo delle popolazioni e delle comunità che insistono sul territorio.

 

La necessità che gli Enti parco si dotino di un più efficace meccanismo di gestione delle proprie strutture economiche, amministrative e logistiche, è emersa, non solo nel corso dell’indagine conoscitiva, ma anche durante l’esame annuale,da parte della VIII Commissione (Ambiente), degli schemi di decreto per il riparto dei contributi statali.

Appare opportuno, qui, dare brevemente conto del flusso quasi costantemente decrescente dei finanziamenti statali recati dalla tabella C delle leggi finanziarie e ripartiti annualmente tra i vari enti con successivo decreto ministeriale, di cui l’ultimo è stato emanato in data 4 agosto 2005.


 

Leggi finanziarie

Stanziamento

(in milioni di euro)

Percentuale di riduzione

Legge n. 448/2001 (finanziaria 2002)[111]

55,8

- 12,23%

Legge n. 289/2002 (finanziaria 2003)

53,8

- 2,5%

Legge n. 350/2003 (finanziaria 2004)

58,7

+ 9,10%

Legge n. 311/2004 (finanziaria 2005)[112]

53,3

- 9,2%

Legge n. 266/2005 (finanziaria 2006)

50

- 6,81%

 

Le leggi finanziarie emanate nel corso della XIV legislatura hanno recato spesso misure specifiche relative a parchi e riserve naturali delle quali si ricordano:

§         finanziamenti in favore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, al fine di promuovere la realizzazione di interventi urgenti per la protezione dal fenomeno dell'erosione delle coste del Tirreno meridionale ricadenti all’interno del parco (art. 56 della legge n. 448 del 2001);

§         la sorveglianza sul territorio del Parco nazionale Gran Paradiso esercitata dal Corpo delle guardie alle dipendenze dell’ente parco, invece che dal Corpo forestale dello Stato (art. 80, comma 25, della legge n. 289 del 2002);

§         disposizioni attuative delle misure previste dal D.P.R. 30 marzo 1998 relativo all’istituzione dell'Ente parco nazionale del golfo di Orosei e del Gennargentu (art. 1, comma 573, della legge n. 266 del 2005).

 

Il provvedimento legislativo che reca la maggior parte delle disposizioni relative ai parchi approvate nel corso di questa legislatura rimane comunque la legge 31 luglio 2002, n. 179, Disposizioni in materia ambientale (cd. collegato ambientale). Esso è intervenuto:

§         dettando disposizioni in merito all’organizzazione e al funzionamento delle aree marine protette, e segnatamente in merito alla dotazione di risorse umane da assegnare alla loro gestione (art. 8);

§         allineando i due parchi sommersi di Baia e Gaiola alla normativa vigente in materia di gestione delle aree protette marine (art. 9);

§         erogando un contributo all’ente Parco nazionale del Gran Paradiso (art. 10);

§         attribuendo la sorveglianza del parco nazionale dello Stelvio, al Corpo forestale dello Stato e, nei territori appartenenti alle province autonome di Trento e Bolzano, al Corpo forestale provinciale (art. 11);

§         disponendo l’istituzione del ente Parco Nazionale del Circeo (art. 12).

 

Si ricorda, inoltre, che al termine della legislatura è stata approvata, con l’art. 11- quaterdecies, comma 8, del decreto legge n. 203 del 2005[113], una modifica alla legge quadro sulle aree protetten. 394 del 1991, che prevede la possibilità, per i componenti degli organi degli enti parco, di essere rinominati più di una volta alla scadenza del loro incarico quinquennale, mentre, secondo le disposizioni vigenti, essi potevano essere confermati una sola volta.

E’ stata, altresì, approvata anche la legge 8 febbraio 2006, n. 61 che prevede, in conformità a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, l’istituzione di zone di protezione ecologica a partire dal limite esterno del mare territoriale italiano e fino ai limiti determinati sulla base di accordi con gli Stati interessati. Entro tali zone si applicano le norme del diritto italiano, del diritto dell’UE e dei trattati internazionali in vigore per l’Italia in materia, di protezione dei mammiferi, della biodiversità, oltre che di prevenzione e repressione di tutti i tipi di inquinamento marino.

 

Un discorso a sé è poi da riservareai numerosi interventi previsti per far fronte alla grave crisi finanziaria ed occupazionale del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Basti citare i contributi straordinari – oltre al contributo ordinario annuale - previsti da alcune legge finanziarie e le disposizioni per il personale contenute all’interno di alcuni provvedimenti d’urgenza.

Un primo contributo straordinario di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2003, 2004 e 2005 è stato disposto dall’art. 94, comma 12, della n. 289 del 2002, con la finalità specifica di far fronte alla crisi occupazionale dell’Ente parco. Un ulteriore contributo di 4,5 milioni di euro è stato previsto dall’art. 1, comma 537, della legge n. 311 del 2004 per assicurare la continuità nel processo di risanamento.

Al fine di garantire il funzionamento del Parco, l’art. 19 del decreto legge n. 355 del 2003[114] ha prorogato di 24 mesi i contratti individuali in essere alla data del 31 dicembre 2003 ed, infine, con l’art. 11-quaterdecies, comma 7, del decreto legge n. 203 del 2005, sono stati erogati 2,5 milioni di euro per consentire la stabilizzazione occupazionale del personale fuori ruolo che opera nel parco e la stipula di nuovi contratti per quello che vi presta attività professionale o di collaborazione.

 

Un breve cenno meritano, infine, anche alcune proposte di legge – delle quali la VIII Commissione (Ambiente) ha iniziato l’esame - tra le quali la proposta di legge AC 5117 (Realacci ed altri), che reca l’istituzione del Parco nazionale di Portofino[115], la proposta AC 5544 (Onnis ed altri), che prevede la revoca dell’istituzione dell’ente parco nazionale del Golfo di Orosei e del Gennargentu, parco che, seppur istituito formalmente con il D.P.R. 30 marzo 1998, non è mai decollato, come sottolinea la relazione illustrativa, “per la fortissima, motivata, corale e organizzata opposizione delle popolazioni interessate e degli enti locali…”. A tale proposta è stata poi abbinato l’AC 579 (Tonino Loddo), recante il “Conferimento alla regione Sardegna di funzioni amministrative in materia di tutela ambientale”. Da ultimo si ricorda l’AC 3222 (Di Gioia ed altri), che prevede l’istituzione del Parco del subappennino Dauno in un’area compresa in territorio pugliese. La proposta di legge reca anche interventi di riqualificazione urbanistica ed ambientale ed il recupero di edifici dimessi da parte dei comuni compresi nel perimetro del parco.

Si ricorda, infine, la proposta di legge AC 4342 (Brusco ed altri), recante la finalità di tutelare l’integrità delle grotte marine dal punto di vista geomorfologico, idrogeologico, e degli ecosistemi e di valorizzarle sotto il profilo turistico-ricreativo.

 

Energie rinnovabili

Con l’approvazione della direttiva 2001/77/CE del Parlamento e del Consiglio del 27 settembre 2001 sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, l’Unione europea ha stabilito per ogni Stato membro gli obiettivi da raggiungere nell’ambito della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili; per l’Italia l’obiettivo da raggiungersi entro il 2010 è fissato al 25% di energia elettrica prodotta.

Con la circolare emanata nel 2002 dal Ministro delle attività produttive[116] avente per oggetto Obiettivi indicativi nazionali di consumo di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili per il periodo 2003-2012 e misure adottate o previste a livello nazionale per conseguire i medesimi obiettivi, ai sensi dell’articolo 3, comma 2, della direttiva 2001/77/CE è stato precisato che gli obiettivi indicati nel Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra: 2003-2010 (consistenti nel raggiungimento, entro il 2010, di una quota di produzione pari a 75TWh) “sono coerenti con le indicazioni dell’allegato alla direttiva, e dunque il disposto della direttiva medesima è soddisfatto”.

 

Si ricorda, in proposito, che il citato Piano, elaborato in attuazione di quanto previsto dalla legge 1° giugno 2002, n. 120, rappresenta il principale strumento programmatico per il raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto (v. scheda L’attuazione del Protocollo di Kyoto). In tale Piano (analogamente a quanto si riscontra negli altri Paesi), uno degli strumenti fondamentali individuati per il raggiungimento degli obiettivi citati è proprio costituito dallo sviluppo delle fonti rinnovabili.

 

La direttiva 2001/77/CE è stata recentemente recepita dall’Italia con il decreto legislativo 29 dicembre 2003 n. 387[117] che ha ulteriormente innalzato l’obbligo - stabilito dal decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (cd. decreto Bersani) - di immettere nella rete nazionale una quota di energia generata in nuovi impianti alimentati da fonti rinnovabili ed ha definito nuove regole di riferimento per la promozione delle fonti medesime.

L’articolo 2, comma 1, del d.lgs. n. 387/2003, reca la seguente definizione delle fonti rinnovabili, con cui si intendono “le fonti energetiche rinnovabili non fossili (eolica, solare, geotermica, del moto ondoso, maremotrice, idraulica, biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas)”.

Strumenti di incentivazione

Il principale meccanismo di incentivazione della produzione di energia elettrica da rinnovabili è costituito dai cd. certificati verdi, introdotto nell’ordinamento nazionale dall’art. 11 del d.lgs. n. 79 del 1999 (v. scheda Fonti rinnovabili – Strumenti di incentivazione).

 

Si ricorda che tale meccanismo incentivante ha previsto a decorrere dal 2002 l’obbligo, a carico dei produttori ed importatori di energia elettrica prodotta da fonti non rinnovabili, di immettere nella rete elettrica una quota minima di elettricità, prodotta da impianti alimentati a fonti rinnovabili entrati in esercizio dopo il primo aprile 1999.

Tale quota, inizialmente fissata al 2%, è stata poi innalzata dal d.lgs. n. 387/2003 (art. 4), che ne ha stabilito un incremento annuo dello 0,35% per il triennio 2004-2006, demandando a successivi decreti la fissazione degli ulteriori incrementi per i trienni successivi.

 

Il meccanismo dei certificati verdi non rappresenta, tuttavia, l’unica forma nazionale di sostegno al settore delle energie rinnovabili[118].

Energia solare

In particolare occorre ricordare i programmi promossi dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio (in collaborazione con regioni ed enti locali) nei settori dell’energia solare (Comune solarizzato, Solare termico e Tetti fotovoltaici) che, avviati nel corso della XIII legislatura, sono stati rifinanziati, per permetterne la prosecuzione, nel corso della XIV legislatura.

 

Si ricordano, in proposito, i seguenti decreti del Ministro dell’ambiente: il DM 24 luglio 2002 Programma “Tetti fotovoltaici” - Bandi regionali, il DM 24 luglio 2002 Programma “Solare termico” - Bandi regionali; il DM 12 novembre 2002 Rifinanziamento del programma “Tetti fotovoltaici” e il DM 13 dicembre 2002 Assegnazione delle risorse finanziarie per il programma "Comune Solarizzato".

Si ricorda, inoltre, che l’emanazione del d.lgs. n. 387/2003 ha segnato il passaggio dal programma “Tetti fotovoltaici” (caratterizzato da finanziamenti a fondo perduto) ad un meccanismo di incentivazione diverso basato sull’introduzione (art. 7) di un sistema feed-in tariff, “con il quale viene riconosciuto il valore aggiunto, verso l’ambiente, dell’energia elettrica prodotta con questa fonte rinnovabile, stabilendo una tariffa in «Conto energia» che dovrà permettere il pay-back dell’investimento”[119].

Le modalità applicative sono state delineate dal DM 28 luglio 2005, successivamente modificato dal DM 6 febbraio 2006[120]. Sull’argomento, si rinvia alla scheda Fonti rinnovabili – Conto energia.

Biomasse

Alcune disposizioni recate dal d.lgs. n. 387/2003 riguardano specificamente alcuni tipi di fonti rinnovabili. È il caso, ad esempio, dell’art. 5 che reca Disposizioni specifiche per la valorizzazione energetica delle biomasse, dei gas residuati dai processi di depurazione e del biogas.

 

Si ricorda, in proposto che l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 387/2003, che include le biomasse tra le fonti rinnovabili, definisce biomassa “la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.

 

Un’importante applicazione delle biomasse è costituita dai biocarburanti[121], alla cui incentivazione è legata l’emanazione del decreto legislativo n. 128 del 30 maggio 2005 di attuazione della direttiva 2003/30/CE relativa alla promozione dell'uso dei biocarburanti o di altri carburanti rinnovabili nei trasporti.

Si segnala, inoltre, che un’ulteriore impulso all’utilizzo delle biomasse – in particolare a fini combustibili (cd. biocombustibili) - è venuto dal DPCM 8 ottobre 2004 Modifica del D.P.C.M. 8 marzo 2002, recante: «Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione» attraverso la ridefinizione dei vincoli connessi con il loro impiego termico, nell’ambito delle politiche per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni posti dal Protocollo di Kyoto (v. scheda L’attuazione del Protocollo di Kyoto).

Si ricorda infine che il legislatore italiano, prima dell’emanazione dei citati provvedimenti, aveva provveduto alla promozione dei biocarburanti prevalentemente attraverso misure agevolative di carattere fiscale[122] che, avviate nel corso della XIII legislatura, sono proseguite nel corso della legislatura successiva.

 

Si ricorda infatti che l’art. 1, comma 521, della legge n. 311/2004 (finanziaria 2005), nell’ambito di un programma della durata di sei anni (2005-2010) ha previsto l’esenzione da accisa di un contingente annuo di 200.000 tonnellate[123] di biodiesel.

Successivamente l’art. 1, comma 421, della legge n. 266/2005 (finanziaria 2006) ha prescritto che, nell’ambito del citato programma, una quota sino a 20.000 tonnellate annue di biodiesel in esenzione da accisa sia utilizzata a seguito della sottoscrizione di appositi contratti di coltivazione, realizzati nell'ambito di contratti quadro o intese di filiera. Lo stesso comma stabilisce inoltre che con decreto ministeriale è determinata una quotaannua di biocarburanti di origine agricola da immettere al consumo sul mercato nazionale.

Si segnala infine che l’art. 1, comma 520, della citata legge n. 311/2004 ha differito al 1° gennaio 2005 la decorrenza dell’inizio del progetto sperimentale triennale inteso ad incrementare, mediante l’applicazione di accise ridotte, l'utilizzo di fonti energetiche a basso impatto ambientale. Contestualmente il limite complessivo di spesa è stato elevato a 73 milioni di euro annui[124].

Nel corso della XIV legislatura è proseguita inoltre l’applicazione degli incentivi fiscali[125] per i biocombustibili per riscaldamento.

Rifiuti

Benché esclusi formalmente dal novero delle fonti rinnovabili definite dall’art. 2 del d.lgs. n. 387/2003, i rifiuti (v. capitolo Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati) vi rientrano nella sostanza sulla base del disposto dell’art. 17 secondo cui “sono ammessi a beneficiare del regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili i rifiuti, ivi compresa, anche tramite il ricorso a misure promozionali, la frazione non biodegradabile ed i combustibili derivati dai rifiuti, di cui ai decreti previsti dagli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 92 e alle norme tecniche UNI 9903-1”.

Lo stesso articolo prevede, inoltre, che “agli impianti, ivi incluse le centrali ibride, alimentati dai suddetti rifiuti e combustibili, si applicano le disposizioni del presente decreto”.

Dal combinato disposto degli artt. 2 e 17 si evince, quindi, che:

-        la parte biodegradabile dei rifiuti industriali ed urbani (intesi come biomasse, oltre a quelli agricoli, silvicoli e delle industrie connesse) non è considerata rifiuto, ma fonte rinnovabile in senso stretto, quindi gli impianti che la utilizzano (ai sensi dell’art. 12, comma 5) non sono soggetti né alle autorizzazioni ambientali (d.lgs. n. 22/1997 e conseguentemente a tutto il regime delle scritture ambientali), né a quelle energetiche (previste dal d.lgs. n. 387/2003. Ad essi si applica invece il regime dei certificati verdi, tranne nel caso in cui non rispettino le caratteristiche previste dal citato DPCM 8 marzo 2002;

-        i rifiuti e la loro parte non biodegradabile e il CDR[126] sono considerati rifiuti a tutti gli effetti, ma rientrano tra le fonti rinnovabili e godono così della procedura autorizzatoria semplificata di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003.

 

Si ricorda, in proposito, che l’art. 1, comma 29, lettera b), della legge n. 308/2004 ha espressamente escluso dalla disciplina sui rifiuti (modificando l’art. 8 del d.lgs. n. 22/1997) il CDR cd. “di qualità”, cioè conforme alla norma UNI 9903-1, utilizzato in co-combustione in impianti di produzione di energia elettrica e in cementifici.

Altri incentivi

L’art. 1, comma 248, della legge n. 311/2004 (legge finanziaria 2005) ha istituito per il 2005, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, un Fondo per la promozione delle risorse rinnovabili, con una dotazione finanziaria di 10 milioni di euro, finalizzato al cofinanziamento di studi e ricerche relative all’utilizzo del vettore idrogeno, prodotto a partire da fonti rinnovabili, nell’ambito di nuovi sistemi di locomozione atti a ridurre le emissioni inquinanti al fine del miglioramento della qualità ambientale, in particolare all’interno dei centri urbani.

Norme in materia di edilizia

Le opere relative al conseguimento di risparmi energetici, con particolare riguardo all'installazione di impianti basati sull'impiego delle fonti rinnovabili di energia, sono ricomprese tra le opere di ristrutturazione edilizia che beneficiano delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 1 della legge n. 449/1997.

 

Si ricorda che tali agevolazioni, prorogate fino al 31 dicembre 2006 dall’art. 1, comma 121, della legge n. 266/2005 (finanziaria 2006), prevedono la detraibilità - fino ad un importo di 48.000 euro - dall’imposta sul reddito (IRE), nella misura del 41%. Si rinvia, in proposito, al capitolo Le imposte dirette.

 

Nel corso del 2005 è stato emanato un importante provvedimento volto ad incentivare il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici: il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 di attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia[127].

Tra le principali disposizioni introdotte dal citato decreto, conformemente alle previsioni della direttiva, vi è l’introduzione (art. 6) di un sistema di certificazione energetica per gli edifici di nuova costruzione nonché per le ristrutturazioni di edifici esistenti di superficie utile superiore a 1.000 m2.

Tale certificazione, in verità, era già prevista dalla legge n. 10/1991, ma non è stata mai attuata per le difficoltà dei Comuni di svolgere un adeguato controllo. Secondo alcuni osservatori, le nuove norme recate dal d.lgs. n. 192/2005 potrebbero rivelarsi efficaci in quanto “può darsi, anzi è probabile, che i controlli da parte dei Comuni continuino ad essere carenti. Ma entra in scena un nuovo controllore severissimo: l’utente”[128].

Gli ostacoli allo sviluppo delle fonti rinnovabili

Se da un lato negli ultimi anni si è assistito ad una costante crescita del settore delle energie rinnovabili, è anche vero che la tendenza in atto non sembra sufficiente a consentire un vero e proprio cambio di rotta nella produzione energetica.

Tra le varie cause del mancato decollo le più importanti non sembrano essere quelle di carattere economico. Tali ostacoli sembrano infatti, almeno in parte, superabili, da un lato attraverso l’accrescimento delle conoscenze scientifiche che stanno consentendo una maggiore efficienza in termini di costi, dall’altro dallo sviluppo di meccanismi di incentivazione.

Secondo l’ENEA[129] “i maggiori ostacoli allo sviluppo delle rinnovabili sembrano venire oggi in Italia dai tempi lunghi connessi alle procedure autorizzative e, in alcuni casi, all’acquisizione del consenso sociale alla realizzazione degli interventi stessi”, componente quest’ultima che mostra caratteri contraddittori. Infatti, nonostante i sondaggi di opinione[130] evidenzino la propensione della collettività allo sviluppo delle fonti rinnovabili, soprattutto per i benefici attesi in termini di impatto ambientale, gli stessi cittadini si oppongono alla realizzazione degli impianti, paradossalmente, per motivazioni di carattere ambientale, adottando così quel comportamento noto come sindrome NIMBY (not in my back-yard[131]) in modo dunque non dissimile da quanto accade per gli impianti energetici convenzionali.

Alcune disposizioni del d.lgs. n. 387/2003 sembrano proprio finalizzate a cercare di superare questi ostacoli, da un lato attraverso la creazione di un clima di consenso sulle fonti rinnovabili (artt. 9, 15 e 16), dall’altro mediante una serie di misure di razionalizzazione e semplificazione delle procedure autorizzative (art. 12): gli impianti alimentati a fonti rinnovabili vengono classificati di “pubblica utilità” e la loro realizzazione definita “indifferibile ed urgente”, inoltre vengono semplificate le procedure concessorie mediante l’introduzione di un’autorizzazione unica, rilasciata dalla regione o da altro soggetto istituzionale da questa delegato.

 


Ambiente – Attività conoscitiva

Nella materia ambientale, l’VIII Commissione ha condotto nel corso della XIV legislatura cinque indagini conoscitive, tutte concluse con l’approvazione di distinti documenti[132].

Tali indagini riguardavano i seguenti argomenti:

§  le strategie nazionali per il raggiungimento degli obiettivi definiti dal protocollo di Kyoto;

§  il sistema di gestione amministrativa degli enti parco nazionali;

§  la sicurezza ambientale dei siti e degli impianti ad elevata concentrazione inquinante di rifiuti pericolosi e radioattivi;

§  la valutazione degli effetti dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici;

§  la programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua sul territorio nazionale.

 

L’indagine conoscitiva sul protocollo di Kyoto

L’indagine conoscitiva, deliberata dalla Commissione nella seduta del 17 luglio 2001 e conclusa il 10 luglio 2002 con l’approvazione del Doc. XVII, n. 4, traeva origine anche dagli aspetti problematici e dagli sviluppi emersi in ambito internazionale in merito alle modalità di attuazione del Protocollo di Kyoto del 1997. Essa era finalizzata ad esaminare ed eventualmente definire strategie nazionali per il conseguimento degli obiettivi definiti dal protocollo di Kyoto, nonché ad approfondire le ragioni dell'incremento di emissioni di gas serra registrato in Italia nel periodo 1990-1998, al fine di individuare possibili misure di intervento alternative.

Sulla base degli elementi emersi nel corso delle numerose audizioni svolte, la Commissione ha evidenziato l'esigenza che l'Italia muova i suoi passi di avvicinamento agli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto, secondo una strategia che tenga conto specificamente delle caratteristiche del nostro sistema sociale ed economico-produttivo. A tal fine, ha individuato quattro linee direttrici sulle quali impostare le future azioni di politica nazionale per l'individuazione di strategie nazionali volte al raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto:

§  la previsione di meccanismi (di carattere economico, fiscale e simili) per ridurre la produzione nazionale di gas serra, soprattutto nel settore dei trasporti e della produzione dell’energia;

§  la predisposizione di interventi diretti ad incrementare ed a valorizzare i «serbatoi» per l'assorbimento dei gas serra (sinks), ovvero di nuove piantagioni forestali ed attività agroforestali, al fine di assorbire il carbonio atmosferico;

§  il finanziamento e la valorizzazione di progetti di ricerca volti all'introduzione e al potenziamento di meccanismi maggiormente «ecocompatibili», con particolare riferimento alle fonti di energia alternativa;

§  l’adozione di politiche di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini alle tematiche ambientali e, in particolare, ad una logica di risparmio energetico.

 

Nel corso di svolgimento dell'indagine, è stato definitivamente approvato il progetto di legge di ratifica del Protocollo di Kyoto (legge 1° giugno 2002, n. 120), recante, oltre che la mera ratifica del medesimo Protocollo, anche specifiche disposizioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. Sul punto, vedi il capitolo Tutela dell’aria e protocollo di Kyoto e, più specificamente, la scheda Attuazione del Protocollo di Kyoto.

L’indagine conoscitiva sul sistema di gestione amministrativa degli enti parco nazionale

L’indagine conoscitiva, deliberata nella seduta del 26 giugno 2002, si è conclusa il 15 ottobre 2003 con l’approvazione del DOC.XVII, n. 9. Finalità dell'indagine consisteva nel verificare le reali prospettive di crescita degli Enti parco nazionali, valutando in particolare le problematiche connesse al relativo sistema di gestione. Nel corso dell’indagine si sono svolte numerose audizioni e sono state effettuate cinque missioni di studio presso diversi enti parco.

Sulla base degli elementi raccolti, la Commissione ha riconosciuto che il sistema dei parchi nazionali ha in sé tutte le potenzialità per garantire un miglioramento dell’efficienza della gestione amministrativa, anche al fine di rendere gli enti parco sempre più idonei a rispondere, da un lato, alle esigenze di tutela e salvaguardia del territorio e, dall’altro, alla valorizzazione, anche economico-produttiva, delle aree protette, nonché allo sviluppo delle popolazioni e delle comunità che insistono sul territorio.

Tuttavia, si sono evidenziati diversi elementi problematici attinenti alla gestione degli enti. Tra questi, particolare attenzione è stata dedicata alla presunta incapacità di spesa per investimenti da parte degli Enti parco, confermata dall’esistenza di notevoli giacenze di cassa. Tale dato è stato ricondotto a vari fattori, tra i quali i meccanismi di finanziamento delle attività degli enti parco contemplati dall’articolo 4 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (legge quadro sulle aree protette). Sebbene tale disposizione sia stata abrogata dal d. lgs. 112 del 1998 (cd. “riforma Bassanini”), si è ritenuto che tale sistema di attribuzione delle risorse (sulla base di programmi triennali) continui a produrre effetti negativi sul piano pratico, con particolare riferimento alla realizzazione di investimenti pregressi. Al fine di potenziare la capacità di spesa degli enti parco, si sono prospettati sia il ricorso a strumenti di autofinanziamento (ovvero a forme di finanziamento intese come sistemi di reperimento di risorse attraverso l'esercizio di attività di impresa rigorosamente eco-compatibile e funzionale alle stesse popolazioni residenti), sia l’opportunità di riformare la normativa di contabilità del settore, in modo da garantire agli enti parco la possibilità di programmare tempestivamente e in modo efficiente gli interventi da porre in essere.

L'indagine ha quindi permesso di evidenziare la necessità di una più efficace gestione amministrativa degli enti parco nazionali. Si è ritenuto che tale obiettivo possa essere perseguito anche attraverso il passaggio da una «gestione per atti» a una «gestione per risultati», in linea con quanto previsto dal decreto legislativo n. 165 del 2001, e valutando la possibilità di prevedere la soppressione delle comunità montane nelle aree in cui insiste un Ente parco e nelle quali, dunque, si crea spesso una sovrapposizione di competenze.

Al fine poi di migliorare l’efficienza della programmazione, è emersa la necessità, per gli enti che ancora non li abbiano adottati, di dotarsi in tempi congrui dei piani del parco, che costituiscono uno strumento essenziale per lo svolgimento delle attività del parco. Poiché peraltro la mancata approvazione da parte delle regioni dei piani del parco già approvati dai diversi enti parco ne paralizza in misura significativa l’attività programmatoria, si ritiene necessario attivare i poteri sostitutivi previsti dalla legge n. 394 del 1991 o, in alternativa, modificare tale normativa in modo da consentire agli enti parco di dotarsi rapidamente dei previsti piani.

Con riferimento, infine, a proposte di carattere più strettamente operativo, la Commissione ritiene opportuno valutare la possibilità del passaggio del Corpo Forestale sotto la vigilanza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in relazione ai CTA (Coordinamenti territoriali ambientali), nonché del passaggio delle riserve naturali dal Corpo forestale agli Enti parco, in modo da sfruttare più efficientemente le potenzialità di tali risorse, anche a scopi di parziale autofinanziamento degli enti stessi.

(Per una disamina degli interventi normativi che hanno riguardato i parchi, anche successivi alla conclusione dell’indagine conoscitiva, vedi il capitolo Aree protette).

L’indagine conoscitiva sulla sicurezza ambientale

L’indagine conoscitiva è stata deliberata dalla Commissione nella seduta del 30 ottobre 2002 e si è conclusa il 13 marzo 2004 con l’approvazione del doc. XVII, n. 5. L’indagine era finalizzata ad una ricognizione della situazione delle strutture nucleari e dei rifiuti radioattivi, al fine di valutare i rischi per l'ambiente e per la salute dei cittadini e di valutare gli interventi sino ad ora posti in essere per fronteggiare tali rischi e quelli eventualmente attuabili.

Nel corso dell’indagine si sono svolte le audizioni di rappresentanti del Governo, delle organizzazioni sindacali e di Confindustria, oltre che di rappresentanti dell’APAT, dell’ENEA e della SOGIN.

Nel documento conclusivo, la Commissione, preso atto che la gestione dei rifiuti radioattivi costituisce una priorità per la sicurezza ambientale del nostro Paese, ritiene di assoluta urgenza la realizzazione di un deposito unico nazionale, all'interno del quale allocare i rifiuti radioattivi e da collocare in un sito da individuare da parte dei competenti organi istituzionali nel più breve tempo possibile. La Commissioni rileva inoltre la necessità dell’adozione di ulteriori misure di sicurezza, anche in relazione ai rischi provenienti da fattori esterni, e si sofferma sulla necessità di incentivare la formazione di giovani ingegneri nucleari.

 

Successivamente all’approvazione di tale documento, è stato emanato il decreto-legge 14 novembre 2003, n. 314, che prevedeva la realizzazione del deposito nazionale e individuava la localizzazione del deposito in un’area compresa nel territorio comunale di Scanzano Jonico in provincia di Matera. A seguito delle manifestazioni popolari seguite alla pubblicazione del decreto, le disposizioni che indicavano il sito sono state espunte dal testo in sede di conversione (legge 24 dicembre 2003, n. 368). Successivamente, tali disposizioni sono state ulteriormente modificate dalla legge 23 agosto 2004, n. 239 di riordino del settore energetico. Sulla materia, vedi il capitolo Scorie nucleari.

L’indagine conoscitiva sulla valutazione degli effetti dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici

L’indagine conoscitiva, deliberata dalla Commissione nella seduta del 27 maggio 2003, si è conclusa il 24 marzo 2004 con l’approvazione del Doc. XVII, n. 12. L’obiettivo dell’indagine consisteva nell'acquisire ulteriori specifiche conoscenze sulla valutazione degli effetti dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Nel corso dell’indagine, si sono svolte numerose audizioni di soggetti pubblici e privati, attraverso le quali la Commissione ha acquisito un quadro complessivo delle questioni di carattere scientifico-sanitario e di natura giuridica-amministrativa.

Nel documento conclusivo la Commissione dà conto, da un lato, della parziale attuazione della legge n. 36 del 2001 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici)operata dal Governo con due decreti del Presidente del Consiglio dei ministri dell’8 luglio 2003 (relativi rispettivamente ai campi elettrici e magnetici generati a frequenze comprese tra 100 khz e 300 Ghz e alla frequenza di rete (50 Hz) generata dagli elettrodotti), con i quali sono stati determinati i limiti di esposizione ai campi, i valori di attenzione  e gli obiettivi di qualità; dall’altro, di due successive sentenze della Corte costituzionale (nn. 303 e 307 del 2003), che hanno fissato ulteriori criteri di valutazione in ordine alla questione dell'esposizione ai campi elettromagnetici, con riferimento anche alle problematiche emerse dopo l'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione. (Sul tema vedi il capitolo Inquinamento elettromagnetico).

La Commissione, oltre a evidenziare l’opportunità di un accurato monitoraggio a livello governativo sull'attuazione della legge, ha espresso l’auspicio che il Governo valuti la possibilità di completare l'attuazione della legge-quadro, con riferimento in particolare alla determinazione di limiti specifici per le lavoratrici ed i lavoratori professionalmente esposti, alla costituzione del catasto nazionale delle sorgenti fisse e mobili dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone territoriali interessate (ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 36 del 2001) ed alle etichettature degli apparecchi e dei dispositivi, in particolare di uso domestico, individuale o lavorativo, generanti campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (ai sensi dell'articolo 12 della stessa legge).

Ad oggi, la legge quadro non ha ricevuta completa attuazione. Si segnala tuttavia che nel frattempo è intervenuta sulla materia la direttiva 2004/40/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici da 0 Hz a 300 GHz). Tale direttiva è inclusa nell’Allegato B della legge comunitaria 2005 (legge 25 gennaio 2006, n. 29), per cui il Governo è delegato ad adottare, entro il 23 agosto 2007, un decreto legislativo che ne assicuri il recepimento nei termini previsti dalla direttiva stessa (30 aprile 2008).

L’indagine conoscitiva sulla programmazione delle opere idrauliche relative ai corsi d'acqua sul territorio nazionale

L’indagine conoscitiva, deliberata dalla Commissione nella seduta del 22 dicembre 2004, si è conclusa lo scorso 28 settembre con l’approvazione del Doc. XVII, n. 15. Le finalità dell'indagine consistevano in una disamina del sistema delle competenze e delle iniziative in materia di gestione dei corsi d'acqua, così come definiti ai sensi della “riforma Bassanini” (decreto legislativo n. 112 del 1998), e delle relative opere idrauliche. Nel corso dell’indagine è emerso - a fronte del variegato panorama normativo che disciplina l’assetto delle competenze in materia di programmazione e gestione delle opere idrauliche –l'esigenza di maggiore coordinamento e integrazione tra i soggetti preposti ai vari livelli, nonché l’opportunità di una semplificazione delle procedure per l’approvazione dei piani e dei programmi. Tra gli elementi problematici evidenziati, si è inoltre segnalata la questione della costante riduzione degli stanziamenti statali per la difesa del suolo, concentrati su investimenti una tantum, in occasione delle emergenze, piuttosto che sulla programmazione ordinaria e si è dedicata particolare attenzione alla questione del rilancio del Po.

Nel documento conclusivo, la Commissione prospetta diverse soluzioni (tra le quali, in primo luogo il recepimento della direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque) e sottolinea l’opportunità di tener conto degli elementi emersi nel corso dell’indagine e delle soluzioni individuate in sede di attuazione della “delega ambientale” (legge n. 308 del 2004). In proposito, si osserva che con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante Norme in materia ambientale, viene effettivamente data attuazione alla suddetta direttiva, attraverso in particolare la modifica del modello amministrativo di governo dei bacini idrografici istituito nel 1989 dalla legge quadro in materia di difesa del suolo (legge n. 183/89). A tal fine, vengono soppresse le vecchie autorità di bacino (che secondo la legge potevano essere di livello nazionale, interregionale e regionale, a seconda delle caratteristiche geografiche dei bacini) e vengono invece istituiti otto distretti idrografici che coprono l’intero territorio nazionale, governati secondo un modello amministrativo unico (artt. 63 e 64).

Un intero paragrafo del documento conclusivo dell’indagine conoscitiva è infine dedicato alla questione del rilancio del Po. In esso in particolare la Commissione manifesta un orientamento nettamente favorevole al contenuto e allo spirito del Protocollo d'intesa per la tutela e la valorizzazione del territorio e la promozione della sicurezza delle popolazioni della valle del Po, sottoscritto nel maggio 2005 dall'Autorità di bacino e dai Presidenti delle tredici province rivierasche, in tal modo evidentemente esprimendo una chiara indicazione politica verso lo sviluppo del Po come grande arteria navigabile, inserita nel sistema dei corridoi intermodali.

 

 


Governo del territorio ed edilizia


Governo del territorio

Nel corso della XIV legislatura sono da registrare almeno due interventi significativi in materia (oltre la sanatoria sugli abusi edilizi, per la quale si rinvia al capitolo Il condono edilizio): la tentata riforma urbanistica (AC 153 e abbinate) e il decreto legislativo ricognitivo delle norme di principio in materia di governo del territorio, presentato dal Governo in attuazione dell’articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (cd “legge La Loggia”).

La tentata riforma urbanistica

Nella XIV Legislatura, è stata iniziata e portata a termine, ma alla sola Camera dei deputati, una iniziativa di riforma della legge urbanistica[133].

Le otto proposte di legge concorrenti (AACC 153, 442, 677, 1065, 3627, 3810, 3860 e 4707), presentate da tutti i gruppi - di maggioranza e di opposizione - erano tutte riconducibili al medesimo fine di riordino e di unificazione della normativa italiana in materia di urbanistica, ovvero – secondo un’accezione più ampia – di governo del territorio.

Si rinvia alla scheda Governo del territorio – Chiarimento terminologico per una ricostruzione dell’ambito normativo e della portata dell’espressione (che compare per la prima nel testo costituzionale con la riforma del 2001, ma che non era nuova nell’ordinamento).

Il problema della definizione dell’ambito di estensione del “governo del territorio” assumeva – prima della giurisprudenza chiarificatrice della Corte costituzionale  – anche rilievo ai fini della delimitazione dell’ambito normativo in cui lo Stato abbia titolo ad intervenire con norme di principio. Su questo punto si rinvia alla scheda Governo del territorio – Giurisprudenza costituzionale.

In primo luogo il problema si poneva per la materia urbanistica. Nel corso dell’iter parlamentare la Corte ha chiarito (come descritto nella scheda appena citata) che la materia urbanistica non risulta trasferita alla competenza esclusiva delle regioni, ma è compresa nella più ampia definizione di “governo del territorio” .Pertanto, il Parlamento nazionale ha titolo per dettare (e riformare) i principi della disciplina urbanistica.

L’esigenza è particolarmente avvertita, in quanto la legge che oggi reca la disciplina più organica della materia urbanistica non solo risale al 1942 (legge n. 1150 del 17 agosto), ma presenta almeno due gravi limiti:

-          non ha mai ricevuto effettiva e completa attuazione (a partire dall’indispensabile regolamento di esecuzione, mai emanato),

-          è caratterizzata da un impianto centralizzatore e quindi in forte disarmonia con l’evoluzione dell’intero sistema delle autonomie regionali, come prefigurato dalla Costituzione e attuato a partire dal 1970, e soprattutto come modificato dalla riforma del Titolo V.

Ciò non ha storicamente impedito che numerose delle disposizioni recate dalla legge n. 1150 trovassero diretta applicazione. Né ha impedito che la stessa legge costituisse la principale fonte di riferimento per l’individuazione dei principi fondamentali della materia, principi ai quali ha dovuto comunque uniformarsi la legislazione regionale di dettaglio sorta a partire dal 1970, sulla base della competenza concorrente riconosciuta in materia urbanistica dall’articolo 117 della Costituzione, prima della riforma del Titolo V.

Questo stato delle fonti sulla materia urbanistica è da tempo oggetto di critiche: la legislazione regionale ha dovuto infatti svilupparsi senza poter fare riferimento ad un quadro di principi, coerente – a sua volta – con il dettato costituzionale.

Tutte le proposte di legge esaminate alla Camera avevano pertanto l’obiettivo comune di dotare l’ordinamento di norme di riferimento unitarie ed organiche in materia di governo del territorio, valide per l’intero territorio nazionale.

Quanto ai contenuti si potevano riscontrare, fra le citate proposte concorrenti, alcuni importanti elementi comuni.

Fra questi, in primo luogo, la necessità di realizzare forme di raccordo fra la pianificazione urbanistica e le altre forme di pianificazione previste da normative di settore, e il superamento della rigida struttura della pianificazione territoriale, secondo il criterio gerarchico (a cascata). Un secondo elemento comune era il tentativo di superare uno degli elementi strutturali tipici del piano urbanistico tradizionale, che reca prescrizioni conformative della proprietà e allo stesso tempo è privo di una scadenza temporale. Questo elemento crea effetti di incertezza, oggettivamente compressivi dei diritti di proprietà. Un terzo elemento comune a tutte le proposte presentate era la necessità di trovare una soluzione al problema della sperequazione nel regime dei suoli, disponendo meccanismi di perequazione.

Fra gli elementi differenziali fra le numerose proposte presentate, va segnalata, in primo luogo, una (implicita) assai diversa interpretazione di cosa debba intendersi per normativa di principio, o “legislazione per principi”. Infatti, molto differenziato appariva il grado di dettaglio e dei vari testi: la proposta AC 153 (Bossi e altri), in forma molto sintetica, comprendeva in appena 7 articoli (e 15 commi) l’intera disciplina, mentre la proposta AC 677 (Martinat e altri) consisteva in un testo di 46 articoli (e 169 commi), nei quali venivano – fra l’altro -specificati (e disciplinati) tutti i livelli di pianificazione territoriale.

In una via intermedia si collocavano le due proposte AC 3860 (Lupi e altri) e AC 3627 (Mantini e altri) che diventavano – nel corso dell’iter – i modelli di riferimento delle proposte successivamente presentate dal relatore (On. Lupi) come testo base.

Il testo risultante dai lavori della Camera dei deputati è stato approvato nella seduta del 28 giugno 2005 e trasmesso al Senato, dove ha assunto la denominazione AS 3519. Si tratta di un testo strutturato in 13 articoli, di cui il primo reca, al comma 2, una definizione di “governo del territorio” quale: “insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie”.

All’articolo 2 sono state introdotte numerose definizioni che mirano a rendere più univoco il testo, in particolare in relazione al chiarimento dei rapporti fra i diversi livelli di pianificazione.

Agli articoli 3 e 4 vengono esplicitate le funzioni amministrative statali in materia di governo del territorio, in parte recependo orientamenti normativi già presenti nel decreto legislativo n. 112 del 1998, in parte introducendo norme di coordinamento con normative settoriali, mentre l’articolo 5 detta principi di semplificazione e coordinamento dell’azione amministrativa.

Gli articoli 6, 8 e 9 recano il corpus normativo più consistente in materia di pianificazione territoriale e urbanistica. L’impostazione generale del testo è rinvenibile nei commi 1 e 2 dell’articolo 6, laddove – da un lato – si riconosce al comune una competenza primaria in materia di pianificazione urbanistica, mentre – dall’altro – si dà un ampio mandato alla legislazione regionale nella definizione di contenuti e ambiti territoriali della pianificazione del territorio. Il sistema così delineato è caratterizzato da flessibilità e da un riconoscimento forte dell’autonomia legislativa delle regioni che potrebbero – sulla base di queste norme – creare modelli di pianificazione del territorio molto variabili (a seconda delle specificità di ciascuna), sostitutivi di quelli indicati invece dalla legge n. 1150 (piano regionale, piano provinciale, territoriale di coordinamento, piano regolatore comunale). Rilevante anche il contenuto del comma 7 dello stesso articolo 6 che fissa – come principio fondamentale della materia – quello della distinzione fra pianificazione urbanistica strutturale (priva di efficacia conformativa della proprietà) e pianificazione operativa, alla quale è demandata la disciplina effettiva del regime dei suoli. Questo principio è già oggi alla base di numerose leggi regionali in materia di pianificazione urbanistica.

La proposta di legge contiene poi un articolo (12) dedicato alla fiscalità urbanistica, nel quale si tenta di unificare e rafforzare gli strumenti fiscali che incentivano gli interventi di recupero urbanistico, particolarmente nei centri urbani. A tal fine viene prevista l’istituzione di un apposito Fondo presso il Ministero delle infrastrutture. Viene inoltre inserita una delega al governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi che definiscano tale regime fiscale speciale.

Infine, l’articolo 13 chiude l’articolato con una serie di disposizioni abrogative, mirando – quindi – a un vero e proprio riordino della materia. Da segnalare che le disposizioni abrogative sono distinte in due categorie. Nella prima (comma 1) sono elencate le abrogazioni che avrebbero effetto immediato all’entrata in vigore della legge stessa: si tratta cioè di norme di principio che devono intendersi sostituite da quelle recate nel precedente articolato. Nel secondo elenco (comma 2) sono invece inserite una serie di abrogazioni di norme di dettaglio che esplicano tuttora i propri effetti (nonostante la ricca legislazione urbanistica), ma per le quali l’effetto abrogativo è subordinato all’entrata in vigore di norme regionali sul medesimo oggetto. Scopo di questa distinzione è quella di evitare vuoti normativi, senza però rinunciare agli effetti di riordino e di disboscamento legislativo.

 

Come si è detto sopra, il testo approvato dalla Camera è stato trasmesso al Senato ed assegnato, in sede referente, alla 13° Commissione che però non ne ha iniziato l’esame nel periodo rimanente della legislatura.

La ricognizione dei principi in materia di governo del territorio

Sempre in materia di governo del territorio, è stato invece adottato il decreto legislativo recante ricognizione dei princìpi fondamentali in materia di governo del territorio(Atto del Governo n. 610)[134], in attuazione della disposizione di cui all’articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (cd “legge La Loggia”). Tale disposizione infatti prevedeva che - per orientare l'iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni nelle materie di legislazione concorrente - fino all'entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali, il Governo adottasse uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione. Il decreto – avendo natura meramente ricognitiva – non ha comunque innovato l’ordinamento.

Lo schema di decreto, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 22 dicembre 2005, è stato trasmesso alle Camere per il parere ed esaminato dalla VIII commissione della Camera dei deputati nelle sedute del 14 e del 22 febbraio 2006.

Come ha sottolineato anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 280 del 13-28 luglio 2004, si tratta di un testo meramente ricognitivo e non innovativo della materia, che accorpa una serie di disposizioni attualmente contenute in diverse leggi e non prevede nessuna abrogazione di norme vigenti.

Nell’articolato, che si compone di 92 articoli, viene innanzitutto chiarito (art. 1, comma 2) che l’urbanistica, l’edilizia nonchè, per quanto attiene ai profili strettamente collegati all’assetto del territorio, l’edilizia residenziale pubblica, i lavori pubblici e l’espropriazione per pubblica utilità sono materie che rientrano nel “governo del territorio”.

Lo schema di decreto raccoglie quindi questa vasta materia suddividendola in 6 Capi. Nel Capo I sono raccolte alcune disposizioni preliminari e generali.

Nel Capo II sono raccolte le norme di principio in materia urbanistica. Può evidenziarsi, in proposito, che molte disposizioni della legge n. 1150 vengono riconosciute come norme di principio (secondo un’accezione molto più ampia di quella emergente dal disegno di legge sul governo del territorio illustrato nel paragrafo precedente), come ad esempio quelle relative ai piani territoriali di coordinamento (art. 6). Si osserva anche che l’art. 8 inserisce fra i principi fondamentali la perequazione (disciplinando nel dettaglio, all’art. 13, anche i comparti urbanistici) e la compensazione, sia quella urbanistica disciplinata fino ad ora solo da leggi regionali o strumenti di piano, che quella anbientale. La perequazione è definita come una modalità di attuazione dello strumento urbanistico generale e consiste nel riconoscere a tutte le proprietà immobiliari ricomprese in un determinato ambito territoriale oggetto di trasformazione, un diritto edificatorio. L’entità di tale diritto è indifferente alla destinazione d’so ma deriva dallo stato di fatto e di diritto della proprietà al momento della formazione del piano attuativo.

Nel testo è stata trasfusa anche il contenuto dell’art. 27 della legge n. 166 del 2002 (“collegato infrastrutture”) che aveva permesso ai proprietari privati rappresentanti la maggioranza assoluta del valore catastale degli immobili ricompresi in un comparto edificatorio di attivare la procedura di esproprio delle aree dei proprietari non aderenti.

Nel Capo III – nel quale sono raccolte le disposizioni relative all’edilizia - viene sostanzialmente riproposta la disciplina del Testo Unico in materia edilizia (di cui al DPR n. 380 del 2001[135]) con alcuni adeguamenti alla normativa sopravvenuta (ad esempio, la legge n. 443 del 2001 e il decreto legislativo n. 259 del 2003, recante “Codice delle comunicazioni elettroniche”` in tema di titoli abilitativi per l’installazione degli impianti di telecomunicazione). Per approfondimenti sulle novità legislative - in questo ambito materiale - introdotte nel corso della XIV legislatura, si rinvia al capitolo Titoli abilitativi all’attività edilizia.

Nel Capo IV vengono raccolte le disposizioni relative all’edilizia residenziale pubblica. La ricognizione operata dal Governo conferma l’attuale struttura degli interventi, basata sulla pianificazione di zona e sul convenzionamento.

Ovviamente le norme statali non disciplinano gli aspetti finanziari (in quanto, come già riportato in altra parte di questo dossier, al capitolo Le politiche abitative, la materia è stata integralmente devoluta alle Regioni), se non per la parte relativa alla gestione del Fondo nazionale di sostegno all’abitazione dove è prevista la possibilità di operare attraverso agenzie comunali e convenzioni con cooperative per la locazione. Inoltre viene confermata la possibilità di intervento dello Stato attraverso programmi sperimentali (già ammessa dal decreto legislativo n. 112 del 1998).

Nel Capo V – dedicato ai lavori pubblici – vengono riassunte, in 9 articoli, le norme di principio della materia, in gran parte desunte dalla “legge Merloni”. Le norme di principio individuate riguardano: l’ambito soggettivo ed oggettivo della normativa, i principi dell’azione amministrativa nel settore degli appalti di lavori pubblici, una disciplina (per certi aspetti, anche di dettaglio) della programmazione dei lavori (art. 73), una disciplina della progettazione, direzione dei lavori, collaudo e vigilanza, meri rinvii alla legge n. 109 in materia di esecutore dei lavori pubblici, variegati in corso d’opera, disciplina dell’esecuzione dei lavori, garanzie, coperture assicurative e contenzioso.

Infine, in materia di espropriazione per pubblica utilità, si riprende quasi integralmente il Testo Unico sugli espropri (di cui al DPR n. 327 del 2001)[136], con un`unica aggiunta all’rt. 86, dove viene ripreso un principio espresso nella sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 12-20 maggio 1999 in tema di caratteri e contenuti dei vincoli di natura espropriativa.

 


 

Il condono paesaggistico

La legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione (su cui si rinvia al capitolo Il riordino del diritto ambientale) non ha introdotto nell’ordinamento solo le disposizioni relative alla delega, ma è stata anche il veicolo di una congerie di norme di diretta applicazione, che nulla avevano a che fare con la delega. Infatti, dei 54 commi di cui si compone l’articolo unico della legge n. 308, solo i primi 19 sono attinenti alla delega, mentre i rimanenti 35 hanno recato prescrizioni direttamente applicabili, relative a vari aspetti in modo generico connessi alla tutela dell’ambiente: da disposizioni relative alle autorizzazioni urbanistiche (commi 21-24), a norme in materia di rifiuti (commi 25-31), ai servizi pubblici locali (commi 48-49), all’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (ICRAM) (commi 50-51), ecc.

La stratificazione normativa che si è venuta a creare è stata anche il risultato dei numerosi passaggi parlamentari (ben cinque) avutisi fra il novembre 2001 e il novembre 2004.

In uno di questi passaggi (il quarto, al Senato, svoltosi fra l’ottobre 2003 e il 14 ottobre 2004, data della approvazione con apposizione della questione di fiducia), sono stati aggiunti, fra l’altro, 8 commi (i commi 32-39) che hanno introdotto una serie di norme relative alla tutela dei beni paesaggistici. Queste norme possono essere suddivise – a loro volta - secondo il seguente schema:

·         commi 32-34 → demolizione del complesso edilizio di Punta Perotti attraverso una procedura speciale;

·         comma 35 → norme per l’estensione ad altri casi di abusivismo della procedura speciale per la demolizione di Punta Perotti;

·         comma 36 →modifiche al codice dei beni culturali e ambientali in materia di rimessione in pristino e di sanzioni penali (norme “a regime”);

·         commi 37-39 →estinzione del reato per le violazioni su beni paesaggistici eseguite prima del 30 settembre 2004 (condono paesaggistico).

Come evidenziato dall’elenco, le vere e proprie norme relative al condono sono quelle dei tre commi 37-39, anche se occorre considerare contestualmente le norme introdotte dal comma 36, che hanno modificato il regime sanzionatorio del codice dei beni paesaggistici (Parte Quarta del cd “codice Urbani”).

Per i due interventi di riforma del codice dei beni culturali e ambientali (decreto legislativo n. 490 del 1999) operati nella XIV legislatura, si rinvia al capitolo Beni culturali e ambientali e alla scheda Codice dei beni culturali e ambientali.

Le disposizioni introdotte dal comma 36 non sono dunque da considerarsi norme condonizie, in quanto operano a regime e non sono finalizzate a chiudere situazioni pregresse: esse introducono (permanentemente) una depenalizzazione per alcuni reati paesistici di impatto ambientale “minore”[137], specificamente indicati, qualora l’autorità amministrativa competente alla tutela del vincolo accerti la compatibilità paesaggistica dell’abuso commesso.

Le disposizioni recate dai commi 37-39, invece, recano la vera e propria disciplina condonistica penale, limitatamente ad interventi eseguiti entro e non oltre il 30 settembre 2004 senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa.

Venendo ad un esame più ravvicinato del condono paesaggistico, i suoi termini essenziali possono essere così riassunti:

§         si dispone l’estinzione del reato di cui all’art. 181 del “codice Urbani” (decreto legislativo n. 42 del 2004) per i lavori compiuti su beni paesaggistici – senza autorizzazione o in difformità da essa - prima della data del 30 settembre 2004 (previo pagamento di una sanzione pecuniaria e accertamento di compatibilità paesaggistica) → comma 37;

§         si disciplina l’utilizzo delle somme riscosse comma 38;

§         si regolano la procedura per l’accertamento di compatibilità ambientale comma 39.

 

Più in particolare, il comma 37 sottopone l’accesso alla disciplina di favore a due condizioni:

§         la compatibilità dell’intervento con gli strumenti di pianificazione paesaggistica, sotto il profilo sia delle tipologie edilizie che dei materiali utilizzati;

§         il pagamento di una doppia sanzione pecuniaria (risultante dalla somma della sanzione già prevista dall’art. 167, comma 1, del codice, maggiorata da un terzo alla metà, e di una sanzione pecuniaria aggiuntiva).

Non vengono invece richiamate le condizioni (relative al carattere “minore” degli interventi) elencate invece al comma 1-ter  (aggiunto all’articolo 181 del codice dal precedente comma 36). In sostanza, l’area della depenalizzazione di tipo condonizio (comma 37) è (ovviamente) più ampia di quella della depenalizzazione “a regime” prevista dal comma 36.

Quanto alla seconda condizione, il pagamento della sanzione pecuniaria, essa risulta – come si è detto – dalla somma di due sanzioni:

1)      la prima è quella già prevista dal codice dei beni culturali e ambientali in tutti i casi di violazione delle norme a tutela dei beni paesaggistici, maggiorata però da un terzo alla metà. Tale sanzione, ai sensi dell’articolo 167, comma 1, del codice consiste in una “somma equivalente al maggiore importo fra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e deve essere determinata “previa perizia di stima”. Si osserva, pertanto, come già la determinazione dell’”importo base” della sanzione di cui all’art. 167, comma 1, richieda:

§         una previa perizia di stima,

§         una comparazione da parte dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del paesaggio tra il danno arrecato e il profitto conseguito,

§         una valutazione – è da supporre da parte della stessa autorità – in merito alla maggiorazione da apporre, in quanto la legge non indica un valore determinato, ma una fascia compresa fra un terzo e la metà del valore della sanzione-base. Parimenti è da supporre che la valutazione sull’entità della maggiorazione sia del tutto discrezionale.

2)Una sanzione pecuniaria aggiuntiva, compresa fra un minimo di 3000 euro e un massimo di 5000 euro. Tale sanzione viene determinata dalla stessa autorità amministrativa preposta alla tutela del paesaggio, che – è di nuovo da supporre –  ha discrezionalità in merito.

 

Il comma 38 reca disposizioni in merito all’utilizzo delle somme riscosse per effetto del pagamento delle sanzioni pecuniarie introdotte dalla lettera b) del precedente comma 37.

In particolare, si dispone che, mentre la prima componente della sanzione complessiva (cioè la sanzione ordinaria, maggiorata) è utilizzata “per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione delle aree degradate”[138], la seconda componente, cioè la sanzione pecuniaria aggiuntiva è riscossa dal Ministero dell’economia e rassegnata al Ministero dei beni culturali per essere utilizzata per le finalità di cui al comma 33 del provvedimento in esame (demolizione del complesso di Punta Perotti) e al comma 36, lettera b). Come si è detto sopra, la lettera b) del comma 36 sostituisce il comma 4 dell’articolo 167 del codice dei beni culturali e ambientali che ha ad oggetto proprio l’utilizzo delle somme riscosse per effetto dell’applicazione delle sanzioni pecuniarie.

 

Il comma 39 reca le norme di carattere procedurale relative all’accertamento di compatibilità paesaggistica. Il termine di presentazione della domanda da parte del soggetto interessato per godere dei benefici della sanatoria è stato fissato al 31 gennaio 2005.

La norme prevede, inoltre, il parere obbligatorio della soprintendenza.

Si ricorda, infine, che le disposizioni del condono paesaggistiche sono state coordinate con quelle recate dal codice attraverso le modifiche al codice stesso recate dal decreto legislativo n. 157 del 2006.

Su questo punto di rinvia alla scheda Codice dei beni culturali e ambientali.

 

Titoli abilitativi all’attività edilizia

La legge obiettivo e la SUPERDIA

Con l’articolo 1, commi 6-14, della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (sulla quale si veda il capitolo La legge obiettivo), si è operata una revisione della disciplina dei titoli abilitativi all’attività edilizia, con la finalità di semplificare le procedure amministrative per la realizzazione di interventi edilizi.

 

Tali misure, inserite all’interno del cd. “pacchetto dei cento giorni”, dovevano originariamente formare oggetto di un apposito provvedimento. Successivamente furono inserite nel disegno di legge “Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti industriali strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive” (AS 374), destinato a diventare la cd. legge obiettivo (n. 443 del 2001).

 

Il comma 6 della citata disposizione ha in particolare ampliato le ipotesi in relazione alle quali è possibile, a scelta dell’interessato, realizzare interventi edilizi sulla base di una semplice denuncia di inizio attività (cd. SUPERDIA).

Si tratta dei seguenti interventi:

§         gli interventi edilizi minori, di cui all'art. 4, comma 7, del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398;

§         le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma. Ai fini del calcolo della volumetria non si tiene conto delle innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica;

§         gli interventi sottoposti a concessione, se sono specificamente disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal consiglio comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti. Relativamente ai piani attuativi approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge, l'atto di ricognizione dei piani di attuazione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate;

§         i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici diversi da quelli indicati alla lettera c), ma recanti analoghe previsioni di dettaglio.

 

In base al comma 12, come modificato dall'art. 13, commi 7 e 8, della legge 1° agosto 2002, n. 166, tali disposizioni si applicano nelle regioni a statuto ordinario, salvo che le leggi regionali emanate prima dell’entrata in vigore della legge siano già conformi a quanto da esse previsto, anche disponendo eventuali categorie aggiuntive e differenti presupposti urbanistici. Alle stesse regioni è inoltre attribuita la facoltà di ampliare o ridurre l’ambito applicativo di tali disposizioni.

 

Per quanto riguarda le ulteriori norme dell’art. 1 della legge obiettivo relative alla materia in esame, si segnalano:

§         il comma 7, che specifica che nulla è innovato quanto all’obbligo di versare il contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione;

§         i successivi commi 8-10, che recano disposizioni riguardanti gli interventi su immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale;

§         il comma 11, che realizza un coordinamento fra la nuova normativa e quella vigente in materia di ambito complessivo di applicazione della DIA attraverso l’abrogazione espressa del comma 8 dell’art. 4 del decreto-legge 398 del 1993[139];

§         il comma 13, che fa salva, in ogni caso, la potestà legislativa esclusiva delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano.

§         il comma 14, infine, che reca la delega al Governo ad emanare un decreto legislativo volto a introdurre, nel testo unico dell’edilizia TU sopra più volte richiamato, le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di cui ai commi da 6 a 13. In attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301.

 

Le norme indicate sono state impugnate da tre regioni dinanzi alla Corte costituzionale, in quanto giudicate lesive della competenza residuale delle regioni in materia edilizia e, in via subordinata, della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio. La Corte, con la sentenza n. 303 del 2003, ha chiarito in senso positivo i dubbi sulla ammissibilità – dopo la riforma del Titolo V della Costituzione - di norme statali che disciplinino i titoli abilitativi all’attività edilizia (sul punto, si veda la scheda Giurisprudenza costituzionale).


La denuncia di inizio attivitànel Testo unico dell’edilizia

 

L’ampliamento dei casi di ricorso alla denuncia di inizio attività in alternativa alla concessione edilizia si pone in continuità con gli articoli 10, 22 e 23 del DPR n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che hanno progressivamente ridotto il campo di applicazione della concessione edilizia e definito, in ultima istanza, le fattispecie che rientrano nell’ambito della denuncia di inizio attività edilizia.

 

Può essere interessante richiamare la disciplina previgente in materia, integralmente abrogata dal testo unico, e contenuta nell’articolo 4 del decreto-legge n. 398 del 1993 (così come modificato dalla legge n.662 del 1996 e dai decreti-legge n.669 del 1996 e n. 67 del 1997).

Il comma 7 di tale disposizione prevedeva che i seguenti interventi potessero essere eseguiti previa effettuazione della denuncia di inizio attività

§         opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo;

§         opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell'edificio;

§         recinzioni, muri di cinta e cancellate;

§         aree destinate ad attività sportive senza creazione di volumetria;

§         opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile e, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, non modifichino la destinazione d'uso;

§         revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e realizzazione di volumi tecnici che si rendano indispensabili, sulla base di nuove disposizioni;

§         varianti a concessioni edilizie già rilasciate che non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d'uso e la categoria edilizia e non alterino la sagoma e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia;

§         parcheggi di pertinenza nel sottosuolo del lotto su cui insiste il fabbricato.

Il successivo comma 8 prevedeva che la facoltà di cui al comma 7 fosse data esclusivamente in presenza delle seguenti condizioni:

§         gli immobili interessati non fossero assoggettati alle disposizioni di cui alle leggi 1° giugno 1939, n. 1089, 29 giugno 1939, n. 1497 e 6 dicembre 1991, n. 394, ovvero a disposizioni immediatamente operative dei piani aventi la valenza di cui all'articolo 1-bis del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431) o della legge 18 maggio 1989, n. 183, non fossero comunque assoggettati dagli strumenti urbanistici a discipline espressamente volte alla tutela delle loro caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storico-archeologiche, storico-artistiche, storico-architettoniche e storico-testimoniali;

§         gli immobili interessati fossero oggetto di prescrizioni di vigenti strumenti di pianificazione, nonché di programmazione, immediatamente operative e le trasformazioni progettate non siano in contrasto con strumenti adottati.

Il comma 8-bis prevedeva che.la denuncia di inizio attività di cui al comma 7 fosse corredata dall'indicazione dell'impresa a cui si intendeva affidare i lavori, mentre ai sensi del comma 9 la denuncia di inizio attività di cui al comma 7 era sottoposta al termine massimo di validità fissato in anni tre, con obbligo per l'interessato di comunicare al comune la data di ultimazione dei lavori.

Il comma 10 disponeva chel'esecuzione delle opere per cui era esercitata la facoltà di denuncia di attività ai sensi del comma 7 fosse subordinata alla medesima disciplina definita dalle norme nazionali e regionali vigenti per le corrispondenti opere eseguite su rilascio di concessione edilizia.

Per quel che riguarda gli aspetti procedurali, il comma 11 sanciva che nei casi di cui al comma 7, venti giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, l'interessato dovesse presentare la denuncia di inizio dell'attività, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato, nonché dagli opportuni elaborati progettuali asseveranti la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. Il progettista abilitato doveva infine emettere un certificato di collaudo finale attestante la conformità dell'opera al progetto presentato.

 

In base al comma 1 dell’art. 22 del T.U. sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e all'art. 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.

 

L’art. 6 contiene le fattispecie di attività edilizia libera, mentre l’articolo 10 contempla gli interventi che devono essere esplicitamente autorizzati con il permesso di costruire.

 

La disposizione contiene quindi una clausola residuale, consentendo la realizzazione di tutti gli interventi che non siano inquadrabili nell’ambito delle attività libere o di quelle soggette a permesso di costruire attraverso la denuncia di inizio attività.

 

Il comma 2 prevede che siano realizzabili mediante denuncia di inizio attività anche le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Viene anche precisato che ai fini dell'attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori.

 

Tale previsione riprende la disposizione già contenuta nell’art. 4, comma 7, lettera g) del decreto-legge n. 398 del 1993.

 

Il comma 3 prevede – in alternativa al permesso di costruire – la realizzazione mediante denuncia di inizio attività dei seguenti interventi:

 

§         gli interventi di ristrutturazione di cui all'art. 10, comma 1, lettera c). Si tratta degli interventi di ristrutturazione che non portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che non comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, non comportino mutamenti della destinazione d'uso; tale ipotesi è analoga a quella contemplata dall’articolo 1, comma 6, lettera b) della legge n. 443 del 2001;

 

§         gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate; tale ipotesi è analoga a quella di cui all’articolo 1, comma 6, lettera c) della legge n. 443 del 2001;

 

§         gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche; tale ipotesi ricalca quella di cui all’articolo 1, comma 6, lettera lettera d) della legge n. 443 del 2001.

 

Ai sensi del comma 4, le regioni a statuto ordinario, con legge, possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo delle disposizioni di cui ai commi precedenti. Restano, comunque, ferme le sanzioni penali previste all'art. 44.

 

Per quel che riguarda gli aspetti procedurali, l’art. 23 prevede che il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenti allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie e che la denuncia di inizio attività sia corredata dall'indicazione dell'impresa cui si intende affidare i lavori ed è sottoposta al termine massimo di efficacia pari a tre anni. La realizzazione della parte non ultimata dell'intervento è subordinata a nuova denuncia. L'interessato è comunque tenuto a comunicare allo sportello unico la data di ultimazione dei lavori[140].

 

Il condono edilizio

Condono edilizio fra disciplina statale e norme regionali

L’articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ha disposto una nuova sanatoria degli abusi edilizi (sotto il profilo della sanzione sia penale che amministrativa) operando in gran parte sul ricalco dei due precedenti del 1985 e del 1994[141].

 

La disciplina di carattere generale di sanatoria degli abusi edilizi è contenuta, in particolare, ai commi 25-49 quater dell’articolo 32, mentre una prima parte dello stesso articolo (commi 14-23) reca misure (di portata più circoscritta) per il condono di opere eseguite su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale, per la vendita delle aree appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato e per la rideterminazione dei canoni per la concessione d’uso delle aree demaniali.

 

Le norme statali originarie richiamavano le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 1985 (“primo” condono edilizio) e dall’articolo 39 della legge n. 724 del 1994 (“secondo” condono). Le opere ammesse al condono - comunque realizzate entro e non oltre  il 31 marzo 2003 – erano, ai sensi del comma 24:

ampliamento del manufatto originario non superiore al 30% o – alternativamente – ai 750 mc;

nuova costruzione, ma limitatamente agli edifici residenziali, anche in questo caso nel limite dei 750 mc per singola richiesta e a condizione che la nuova costruzione non superasse complessivamente i 3.000 metri cubi.

Nei commi successivi venivano disciplinate le tipologie di opere suscettibili di sanatoria (comma 26), le esclusioni (comma 27) e gli aspetti procedurali e di coordinamento normativo (commi da 32 a 45).

Le disposizioni dell’art. 32 del decreto-legge n. 269 sono state successivamente modificate ed integrate, ma relativamente ad aspetti secondari, dalla legge finanziaria per il 2004 (legge n. 350 del 2003)[142].

 

Il nuovo condono edilizio è stato impugnato dinanzi alla Corte costituzionale da alcune Regioni: Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Friuli V. G., Marche, Lazio.

I ricorsi dinanzi al giudice costituzionale prospettavano una serie di motivi di illegittimità, che possono essere sostanzialmente ricondotti, da un lato alla violazione del principio di tassatività e certezza delle norme penali sancito dall’art. 25 della Costituzione, e dall’altro alla violazione del riparto costituzionale di funzioni legislative e amministrative fra Stato e Regioni (artt. 117 e 118 Cost.)[143].

Intanto, la maggior parte delle Regioni e Province autonome, in risposta al condono edilizio, emanava normative finalizzate talvolta ad integrare le norme statali (come previsto dallo stesso articolo 32), ma talvolta finalizzate a limitare o addirittura ad annullare, nel proprio territorio, gli effetti (amministrativi) della sanatoria[144].

Alcuni di questi atti legislativi (leggi regionali Toscana, Friuli V.G., Marche ed Emilia-Romagna) sono stati impugnati dinanzi alla Corte costituzionale dal Presidente del Consiglio per violazione degli articoli 5 e 127 della Costituzione.

 

Si ricorda che il termine per la presentazione delle domande di sanatoria era stato fissato, dal decreto legge n. 269 (art. 32, comma 32), al 31 marzo 2004[145], ma nell’imminenza di tale scadenza era ormai opinione generale che la Corte costituzionale si sarebbe pronunciata non prima della fine di maggio. Pertanto, il Governo, al fine di evitare che la situazione di incertezza condizionasse l’effettiva applicazione delle norme introdotte, esponendo fra l’altro i presentatori delle domande ai rischi dell’autodenuncia, ha emanato il decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82, convertito dalla legge 28 maggio 2004, n. 141, che ha prorogato fino al 31 luglio 2004 il termine per la presentazione delle domande.

 

Con la sentenza n. 196 ela sentenza n. 198 (entrambe in data 24-28 giugno 2004), la Corte costituzionale si è pronunciata, rispettivamente, sui ricorsi regionali contro l’art. 32 del decreto legge n. 269 e sui ricorsi statali contro le leggi regionali (v. scheda Il condono edilizio – Giurisprudenza costituzionale).

In particolare, la sentenza n. 196la Corte ha

§      dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni che disciplinavano i dettagli del condono (fra i quali la definizione e le tipologie degli abusi sanabili, nonché dei limiti volumetrici);

§      attribuito alle disposizioni statali relative ai suddetti aspetti il valore di limite massimo in quanto alle Regioni non è stata riconosciuta la facoltà di prevedere un condono più “estensivo” di quello delineato dal decreto legge n. 269;

§      riconosciuto che alcune delle disposizioni statali (fra le quali quelle che prevedevano comunque un condono degli abusi edilizi) rivestivano invece carattere di norme di principio ed erano pertanto legittime, essendo la normativa ascrivibile alla materia del governo del territorio;

§      disposto che una nuova legge statale dovesse assegnare un congruo termine alle regioni per disciplinare in autonomia gli aspetti di dettaglio;

§      previsto che – una volta scaduto il termine assegnato dalla legge statale – si applicassero le norme statali di dettaglio nei territori di quelle regioni che non avessero legiferato. In altri termini, dopo la scadenza del termine, nelle regioni che non avessero legiferato, le norme statali si sarebbero “riespanse” al rango di fonte propria sia della normativa di principio, sia di quella di dettaglio, e quello che (nel primo caso) andava considerato come mero “limite massimo”, tornava ad essere disciplina effettiva del condono.

 

Al fine di adeguare la normativa sul condono edilizio alle sentenze n. 196 e 198, il Governo ha emanato il decreto legge 12 luglio 2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191.

In particolare, l’art. 5 del decreto legge (come convertito), ha disposto che le leggi regionali dovessero essere emanate entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore del decreto stesso (quindi entro l’11 novembre 2004).

Conseguentemente sono stati prorogati i termini per la presentazione delle domande di sanatoria e quelli per i pagamenti successivi delle rate dell’oblazione e degli oneri concessori.

Inoltre, l’art. 5 del decreto legge n. 168 ha introdotto norme relative alla complessa casistica venutasi a creare a causa del succedersi di differenti discipline. In particolare, al fine di salvaguardare il principio dell'affidamento, l’art. 5 ha disposto che le domande già presentate fra la data di entrata in vigore del decreto legge n. 269 e la data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della sentenza della Corte costituzionale n. 196 (7 luglio 2004) restassero valide a tutti gli effetti, salva diversa statuizione delle leggi regionali (gli effetti penali sono invece stati fatti comunque salvi).

 

Una volta scaduto il termine dell’11 novembre 2004, la situazione si è presentata in termini alquanto chiari per i territori delle regioni che hanno legiferato entro il termine. Altrettanto chiaramente, nei territori delle regioni che non hanno legiferato, la normativa applicabile è risultata (per “riespansione”) quella recata dal decreto legge n. 269. La situazione invece ha presentato profili di forte problematicità nella regione Campania, che ha legiferato oltre il termine dell’11 novembre (legge 18 novembre 2004, n. 10). Contro la legge campana lo Stato ha promosso un ricorso dinanzi alla Corte costituzionale e – fino alla relativa sentenza – la normativa applicabile in quei territori è risultata di difficile individuazione.

Sul ricorso statale contro la legge della regione Campania è intervenuta la sentenza n. 49 del 2006 con cui la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune (le più rilevanti) delle disposizioni della legge della Regione Campania n. 10 del 2004, in quanto intervenute in violazione del termine perentorio previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legge n. 168 del 2004. La mancata emanazione della legge regionale entro il termine previsto è stata valutata dalla Corte come violazione del principio di leale collaborazione.

Modifiche recate da norme successive al decreto legge n. 269 del 2003

Alcune modifiche relative ai termini di presentazione delle domande sono state introdotte a seguito della promozione dei ricorsi dinanzi alla Corte, con la finalità di evitare – come si è già riportato sopra - situazione di incertezza applicativa, suscettibili di esporre, fra l’altro, i presentatori delle domande ai rischi dell’autodenuncia. Tali modifiche sono state recate dal decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82, convertito dalla legge 28 maggio 2004, n. 141, ed hanno riguardato il comma 32 dello stesso art. 32 del decreto legge n. 269, prorogando al 31 luglio 2004 il termine per la presentazione delle domande.

Le stesse disposizioni dell’art. 32, comma 32, sono state successivamente modificate dall’art. 5 del decreto legge 12 luglio 2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191, conseguentemente alla pubblicazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 196 e 198 (24-28 giugno 2004). La scadenza per la presentazione della domanda è stata indicata non con un termine puntuale, ma con un arco temporale, compreso fra l’11 novembre 2004 (termine concesso alle regioni per legiferare con proprie norme integrative) e il 10 dicembre 2004. Lo stesso decreto legge n. 168 ha modificato anche il comma 37 e agli allegati, relativamente al termine per il pagamento degli oneri di concessione e per la presentazione della documentazione allegata alla domanda di sanatoria.

Si ricorda anche che il comma 2 bis dell’art. 5 del decreto legge n. 168, ha introdotto disposizioni relative alle domande di sanatoria presentate prima della data di pubblicazione nella G.U. della sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2004. Le disposizioni - finalizzate alla salvaguardia il principio dell'affidamento - convalidano, a tutti gli effetti, tali domande, salva comunque diversa statuizione delle leggi regionali. Per quanto riguarda gli effetti penali, invece, la loro conferma viene disposta comunque, a prescindere dalle statuizioni regionali, in virtù della competenza esclusiva statale in tale ambito (riconosciuta anche dalla sentenza n. 196).

Successivamente, è intervenuto anche l’art. 10 del decreto legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307, che ha nuovamente prorogato i termini di cui al comma 37 e agli allegati (termini per il pagamento degli oneri di concessione e per la presentazione della documentazione allegata alla domanda di sanatoria).

Infine, con l’art. 11 del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51, è stato modificato il termine (prorogato fino al 30 aprile 2006) per l’integrazione documentale, di cui all’allegato 1, ultimo periodo, del decreto legge n. 269 del 2003.

Applicazione delle norme statali

In data 3 marzo 2006 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 2699 del 7 dicembre 2005, a firma del Vice Ministro Martinat, con la quale sono state recate – nei limiti della competenza statale - una serie di disposizioni applicative e di chiarimento delle norme recate dall’art. 32 del decreto legge n. 269, preceduta anche da una ricostruzione delle vicende normative che si sono riassunte nel presente capitolo.

 


Norme antisismiche

Nel corso della XIV legislatura sono stati emanati due provvedimenti con i quali è stato operato un radicale aggiornamento della normativa antisismica[146]. Tale normativa era rimasta ferma, per quanto riguarda la classificazione delle zone sismiche al 1984 e, in relazione alle norme tecniche per la costruzione in zona sismica, al 1996. Nel 2003 è stata emessa, da parte del Dipartimento della Protezione civile, un’ordinanza per la sicurezza delle costruzioni in zona sismica che ha messo in luce la necessità di un radicale aggiornamento del quadro normativo italiano avvenuto nel 2005, con un successivo decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con il quale è stato approvato il T.U. sulle norme tecniche delle costruzioni.

L’ordinanza del Presidente del consiglio dei ministridel 20 marzo 2003, n. 3274[147],recante Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica, ha rappresentato la prima importante novità nel panorama della normativa in tema di prevenzione antisismica.

Tale normativa è stata adottata dopo il terremoto del 31 ottobre 2002 che ha colpitoi territori al confine fra il Molise e la Puglia e provocato anche il crollo di una scuola elementare nel comune di San Giuliano di Puglia. Anche la precedente classificazione sismica nazionale, peraltro, era stata varata poco dopo il terremoto del 1980 in Irpinia. L’ordinanza è stata, pertanto, adottata dalla Protezione civile in tempi molto ristretti proprio per fornire una risposta immediata alla necessità di aggiornamento di due importanti strumenti normativi per la riduzione del rischio sismico.

Nelle premesse all’ordinanza, si specifica che essa rappresenta una prima e transitoria disciplina della materia, motivata dalla volontà di recuperare rapidamente un divario che negli ultimi due decenni si era creato tra il livello delle conoscenze scientifiche e tecniche e quello normativo, in attesa di una disciplina organica della materia. Un’esigenza, nata, come rilevato, all’indomani del sisma in Molise e Puglia in una zona, tra l’altro, non classificata come sismica. Da qui la natura urgente del provvedimento, redatto da un gruppo di lavoro di esperti che in appena quaranta giorni ha predisposto i quattro allegati tecnici dell’ordinanza sulla base degli art. 2, comma 1 e 5, comma 2 della legge n. 225 del 1992 che conferisce al Dipartimento della protezione civile poteri straordinari per fronteggiare determinate situazioni di emergenza.

In considerazione degli errori materiali e formali contenuti nell’ordinanza, conseguenti ai tempi brevissimi di adozione e alle novità della relativa impostazione, essa - appena cinque mesi dopo la sua pubblicazione - è stata oggetto di numerose e significative correzioni (da parte, soprattutto, dell’ordinanza n. 3316 del 2 ottobre 2003[148]), volte anche a consentire i necessari approfondimenti della materia di notevole complessità tecnico-scientifica.

Con l’ordinanza n. 3274 sono stati approvati, oltre ai criteri per l'individuazione delle zone sismiche e per la formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone, le seguenti norme tecniche contenute negli allegati 2, 3 e 4 dell’ordinanza, di cui fanno parte integrante:

§         norme tecniche per il progetto, la valutazione e l'adeguamento sismico degli edifici;

§         norme tecniche per il progetto sismico dei ponti;

§         norme tecniche per il progetto sismico delle opere di fondazione e sostegno dei terreni.

 

Si ricorda, inoltre, che l’ordinanza, all’art. 2, comma 2, terzo periodo, ha contemplato un periodo transitorio di diciotto mesi durante il quale è possibile, per l’interessato, scegliere di applicare la classificazione sismica e le norme tecniche vigenti. Tale termine è stato più volte prorogato (con successive ordinanze), a causa sia del rilevante grado di complessità tecnica della materia e della sua natura fortemente innovativa, che del necessario coordinamento con il T.U. sulle norme tecniche delle costruzioni, allora in via di emanazione.

L’ultimo differimento al 23 ottobre 2005 è stato disposto con l’ordinanza n. 3467 del 13 ottobre 2005, al dichiarato scopo di consentire l’allineamento della normativa con la nuova disciplina introdotta, appunto, con il DM 14 settembre 2005[149] recante Norme tecniche per le costruzioni.

 

Con il DM 14 settembre 2005 sono stati, pertanto, riformati definitivamente i criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e le norme tecniche per le costruzioni in zona sismica, allo scopo di riunire in un T.U. la disciplina tecnica relativa alla progettazione ed all’esecuzione delle costruzioni e di realizzarne nel contempo l’omogeneizzazione e la  razionalizzazione.

Le nuove norme tecniche in materia di costruzioni rappresentano, pertanto, la messa a punto, per la prima volta nella legislazione nazionale, di una normativa complessa e completa in materia di costruzioni relativa alla progettazione strutturale degli edifici ed alle principali opere di ingegneria civile, alle caratteristiche dei materiali e dei prodotti utilizzati. Essa costituisce, inoltre, un aggiornamento del quadro normativo nazionale in materia strutturale, basato essenzialmente sulle leggi fondamentali n. 1086 del 1971 recante norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica e sulla legge 2 febbraio 1974, n. 64, relativa a provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche e relative norme di attuazione.

Il decreto, composto da un’introduzione e dodici capitoli, persegue, quindi, la finalità di riunire la normativa tecnica relativa alle costruzioni civili al fine di fornire  un corpus normativo quanto più possibile coerente, ispirato al criterio “prestazionale” piuttosto che “prescrittivo” e di semplificazione legislativa, cercando di individuare con chiarezza i livelli di sicurezza delle costruzioni ed il loro comportamento a seguito di sollecitazione esterna.

 

Con le nuove “Norme tecniche per le costruzioni” è stata privilegiata la normativa a indirizzo “prestazionale”, marginalizzando invece quella di tipo “prescrittivo”, vale a dire che se finora il progettista riteneva di poter garantire la sicurezza delle costruzioni seguendo norme già preordinate a tal fine, d’ora in avanti sarà egli stesso che dovrà predeterminare i livelli pensionali attribuiti a ciascuna componente strutturale, decidendo quali procedimenti di calcolo e quali modelli adottare per garantire il più alto coefficiente di sicurezza dell’opera da realizzare. Il deterioramento qualitativo che ha determinato il passaggio dal criterio prestazionale a quello prescrittivo è stato causato dalla necessità dell’aggiornamento biennale prescritto dalla legge n. 1086 del 1971. L’aggiornamento ha comportato, infatti, l’assommarsi di interventi normativi autonomi e sconnessi di recepimento di singole istanze ed esigenze, senza un coordinamento complessivo.

 

Il T.U. rinviene la propria origine nelle disposizioni recate dall’art. 5 del decreto legge n. 136 del 2005[150] che ha attribuito al Consiglio dei lavori pubblici la competenza a provvedere, con il concerto della Protezione civile, alla redazione di norme tecniche, anche per la verifica sismica ed idraulica, relative alle costruzioni, nonché alla redazione di norme tecniche per la progettazione, la costruzione e l’adeguamento, anche sismico ed idraulico delle dighe di ritenuta, dei ponti e delle opere di fondazione e sostegno dei terreni.

Il nuovo corpo normativo interagisce, inoltre, in modo rilevante anche con la disciplina dell’ordinanza n. 3274, la cui applicabilità continuerà a rimanere, pertanto, facoltativa. Nelle premesse al DM 14 settembre 2005 viene, infatti, espressamente previsto che le disposizioni contenute negli allegati 2 e 3[151] dell’ordinanza n. 3274 del 2003, possono continuare a trovare vigenza “quali documenti applicativi di dettaglio delle norme tecniche” con lo stesso approvate. Inoltre, al capitolo 5.7.1.1, comma 2, si legge, inoltre, che “Il committente ed il progettista di concerto, nel rispetto dei livelli di sicurezza stabiliti nella presente norma, possono fare riferimento a specifiche indicazioni contenute in codici internazionali, nella letteratura tecnica consolidata, negli allegati 2 e 3 alla ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 marzo 2003, n. 3274”. Infine, nel capitolo 12, la citata ordinanza rientra tra le referenze tecniche essenziali, al pari dei codici internazionali e della letteratura tecnica consolidata.

Come per l’ordinanza n. 3274, anche per il decreto ministeriale, è stato previsto un periodo transitorio di diciotto mesi dall’entrata in vigore[152] – fino al 23 aprile 2007 - dall’art. 14-undevicies del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115[153], al fine di permettere una fase di sperimentazione delle nuove norme tecniche, durante il quale sarà possibile applicare, in alternativa alle stesse, la normativa precedente di cui alla legge n. 1086 del 1971 ed alla legge n. 64 del 1974 e fatto salvo, comunque, quanto previsto dall'applicazione del DPR 21 aprile 1993, n. 246, recante “Regolamento di attuazione della direttiva 89/106/CEE relativa ai prodotti da costruzione”. 

Per ulteriori approfondimenti in merito alla normativa antisismica introdotta dall’ordinanza del 2003 ed alle sue relazioni con il decreto ministeriale del 2005, nonché alla disciplina previgente, si veda la scheda Norme antisismiche – L’evoluzione normativa.

 

Oltre all’ordinanza n. 3274 del 2003 ed al DM 14 settembre 2005, nel corso della XIV legislatura, sono state adottate anche ulteriori iniziative finalizzate ad aumentare il grado di sicurezza delle infrastrutture. Tra esse si ricordano:

§         l’emanazione del decreto legge 29 marzo 2004, n. 79[154] per la messa in sicurezza delle grandi dighe;

§         l’istituzione e l’inclusione, nel programma delle infrastrutture strategiche previsto dalla legge obiettivo (legge n. 443/2001), del Piano di messa in sicurezza degli edifici scolastici, ai sensi dell’art. 80, comma 21, della legge n. 289 del 2002 (finanziaria 2003);

§         l’istituzione, con l’art. 32-bis del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269[155], di un Fondo per gli interventi straordinari della Presidenza del Consiglio destinato a contribuire alla realizzazione di interventi infrastrutturali, con priorità per quelli connessi alla riduzione del rischio sismico.

 

In merito alla messa in sicurezza delle grandi dighe, a seguito di numerose dichiarazioni dello stato di emergenza relativo ad alcune di esse, è stato emanato un apposito decreto legge, il n. 79 del 2004, che ha previsto (prevalentemente) disposizioni finalizzate ad avviare una immediata e straordinaria attività di controllo dello stato di manutenzione e dei requisiti di sicurezza, e quindi di messa in sicurezza delle dighe rientranti nell’ambito di competenza del Registro italiano dighe (RID) - cioè quelle di dimensioni superiori ai limiti definiti dalle norme vigenti – e disponendo, per tali scopi, anche un finanziamento aggiuntivo rispetto ai finanziamenti ordinari assegnati al RID.

 

Per quanto riguarda, invece, il Piano di messa in sicurezza degli edifici scolastici, esso è stato istituito immediatamente dopo il crollo della scuola elementare “Francesco Iovine” di San Giuliano di Puglia del 31 ottobre 2002, con la finalità di adottare misure di carattere più generale finalizzate a mettere in sicurezza gli edifici scolastici,con particolare riguardo a quelli che insistono in territori a rischio sismico. Da qui l’approvazione dell’art. 80, comma 21, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003) che ha previsto che, nell’ambito del programma di infrastrutture strategiche di cui alla legge 21 dicembre 2001, n. 443, possano essere ricompresi anche gli interventi straordinari di ricostruzione delle aree danneggiate da eventi calamitosi e vi sia inserito anche un piano straordinario di messa in sicurezza degli edifici scolastici. E’ stata quindi individuata una quota minima da destinare al Piano straordinario di messa in sicurezza degli edifici scolastici (art. 3, comma 91, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, finanziaria 2004) e, con la successiva delibera CIPE del 20 dicembre 2004, n. 102, è stata calcolata la quota dei finanziamenti complessivi pari a 193,9 milioni di euro, ripartita fra le regioni nel modo seguente: Nord 9,74%, Centro 23,32% e Sud 66,95%.

Si ricorda che anche nell’art. 70, comma 1, della legge 289 del 2002 (finanziaria 2003), è stata prevista una riserva di una quota pari al 30% delle risorse complessive del Fondo rotativo per la progettualità[156] da destinare alle esigenze progettuali degli interventi inseriti nel Piano straordinario di messa in sicurezza degli edifici scolastici. Tale riserva è stata limitata ad un biennio[157] e con priorità nei territori delle zone a rischio sismico.

 

Per un maggiore approfondimento delle disposizioni relative al Fondo per gli interventi straordinari della Presidenza del Consiglio,istituito dall’art. 32-bis  del decreto legge n. 269 del 2003, si veda il capitolo Gli interventi per le calamità naturali.

 

 


Lavori pubblici


La legge obiettivo

Le nuove procedure per le opere strategiche

Il nuovo quadro normativo delineato dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443 e dal relativo provvedimento di attuazione costituito dal decreto legislativo 1° agosto 2002, n. 190 (come successivamente integrato e modificato dai decreti legislativi n. 9/2005 e n. 189/2005) si propone di definire una disciplina speciale per la programmazione, il finanziamento e la realizzazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale.

 

Occorre inoltre sottolineare che, nell’esercizio della delega conferita dall’art. 25 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004) per il recepimento delle direttive quadro in materia di appalti (2004/17/CE e 2004/18/CE), il Governo, nel riscrivere l’intera legge Merloni (v. capitolo La riforma della “legge Merloni) ha provveduto, ai fini di un coordinamento delle norme esistenti per la creazione di un testo unico degli appalti, a trasporre nel cd. “codice dei contratti pubblici”(decreto legislativo n. 163 del 2006) (in particolare nella Parte II, Titolo III, Capo IV, comprendente gli articoli 161-194) anche la disciplina speciale prevista per le cd. opere strategiche dal d.lgs. n. 190/2002 (di cui è prevista l’abrogazione da parte dell’art. 256 del citato codice). Si rinvia, in proposito, alla scheda Il codice dei contratti pubblici.

 

Le principali finalità perseguite dalla disciplina speciale delle opere strategiche sono:

§         la programmazione annuale degli interventi;

§         l’accelerazione delle procedure amministrative;

§         l’incentivazione dell’afflusso di capitali privati.

 

Il nuovo regime normativo introdotto poggia su una programmazione annuale, affidata al Governo (ma, comunque, nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni) delle cd. infrastrutture strategiche da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese.

 

Si ricorda, in proposito, che tale finalità è stata integrata dall'art. 4, comma 151, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria 2004), secondo cui le deleghe contenute nella legge obiettivo (e dunque i programmi volti alla realizzazione di infrastrutture ed insediamenti strategici produttivi) devono servire anche ad assicurare l’«efficienza funzionale ed operativa e l'ottimizzazione dei costi di gestione dei complessi immobiliari sedi delle istituzioni dei presidi centrali e la sicurezza strategica dello Stato e delle opere la cui rilevanza culturale trascende i confini nazionali».

 

L’art. 1 della legge n. 443 del 2001 prevede, infatti, che il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con i Ministri competenti e le regioni o province autonome interessate[158] predisponga un programma destinato ad essere inserito, previo parere del CIPE e previa intesa della Conferenza unificata, nel Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF), con l'indicazione dei relativi stanziamenti. Pertanto, lo stesso Parlamento si pronuncia sul programma in sede di esame del DPEF.

Si ricorda che, in sede di prima applicazione, il programma delle infrastrutture strategiche (PIS) è stato approvato con la delibera CIPE 21 dicembre 2001, n. 121.

Negli anni successivi il DPEF, presentato al Parlamento, ha indicato gli elenchi di opere rientranti nel PIS ed ammessi, pertanto, alla disciplina speciale.

Sullo stato della programmazione e della relativa attuazione si veda la scheda Legge obiettivo – Il Programma infrastrutture strategiche.

 

Dal punto di vista delle procedure amministrative, le maggiori novità sono state introdotte dall’art. 3 del d.lgs. n. 190 del 2002 (riprodotto dall’art. 165 del cd. codice appalti) che, in conformità alle previsioni della legge delega, ha provveduto allo snellimento e all’accelerazione delle procedure di autorizzazione che precedono la realizzazione di un'opera (iter di progettazione, localizzazione e valutazione d’impatto ambientale).

Rispetto all’ordinario iter autorizzatorio previsto dalla legge quadro sui lavori pubblici n. 109 del 1994 (riscritta dal codice appalti), la normativa speciale per le cd. grandi opere prevede - tra l’altro - che sia anticipato alla fase della progettazione preliminare (anziché a quella della progettazione definitiva) il rilascio dei provvedimenti di valutazione di impatto ambientale (VIA), di intesa Stato-Regioni sulla localizzazione dell’opera e l'individuazione di un esatto limite di spesa, comprensivo, eventualmente, delle misure compensative dell'impatto territoriale a favore delle comunità locali. Vengono previsti, inoltre, tempi massimi per le varie fasi della progettazione (la cui approvazione viene affidata al CIPE, che svolge un ruolo centrale nell’ambito delle procedure previste per le opere strategiche) e modificata la disciplina della conferenza di servizi (cfr. artt. 165-168 del codice appalti).

 

Per quanto riguarda l’aspetto finanziario della nuova disciplina, questa ha principalmente l’intento – attraverso le modifiche del quadro normativo – di favorire l’afflusso di capitali privati al finanziamento delle grandi opere pubbliche.

Al conseguimento di tale finalità sono da connettere le modifiche della disciplina del project financing contenuta negli artt. 37-bis, 37-ter e 37-quater della legge n. 109 del 1994 (v. capitolo La riforma della legge Merloni e la scheda Il project financing), le modifiche alla normativa sulle concessioni, nonché l’introduzione di una disciplina del contraente generale, fra i cui requisiti si indica “l’assunzione dell’onere relativo all’anticipazione temporale del finanziamento necessario alla realizzazione dell’opera in tutto o in parte”. A seguito di tale finalità generale, il decreto legislativo n. 190/2002 ha previsto una serie di disposizioni relative al finanziamento delle opere (si segnalano, in particolare, quelle contenute agli articoli 7-9, ora riprodotti dagli articoli 174-176 del codice appalti).

La citata introduzione nel sistema italiano della disciplina giuridica della figura del general contractor come soggetto che può intervenire nella realizzazione di lavori pubblici rappresenta uno dei punti maggiormente caratterizzanti la delega recata dalla legge n. 443 del 2001 e attuata con il d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190.

Alla disciplina normativa di tale figura si è provveduto infatti con l’articolo 9 del d.lgs. n. 190 (ora trasposto nell’art. 176 del codice appalti), in conformità ai principi direttivi contenuti nella legge 443.

Sono stati quindi delineati i requisiti del contraente generale: si tratta di un soggetto che deve essere dotato di adeguata esperienza e qualificazione nella costruzione di opere, nonché di adeguata capacità organizzativa, tecnico-realizzativa e finanziaria, in quanto è a lui che viene attribuito il compito di eseguire l’opera con qualsiasi mezzo e di provvedere al prefinanziamento – in tutto o in parte – dell’opera da realizzare.

La maggior parte dei compiti affidati al general contractor inerenti all’opera pubblica, non sono solo quelli di esecuzione, ma anche quelli prodromici, tipici della stazione appaltante (vale a dire quelli di progettazione ed espropriazione delle aree) e di direzione dei lavori.

Inoltre, il prezzo viene pagato al contraente generale in tutto o in parte dopo l’ultimazione dei lavori, sicché sul contraente grava anche il prefinanziamento dell’opera da realizzare. Il sistema italiano, invece, esclude la possibilità di affidare allo stesso la gestione dell’opera realizzata (concessione), che può invece essere affidata – una volta conclusa l’opera – ma a soggetto diverso dal general contractor.

Per quando riguarda poi l’esecuzione dei lavori il contraente generale, assumendo l’impegno di «esecuzione con qualsiasi mezzo» ha maggiore libertà rispetto al concessionario, infatti può eseguire i lavori direttamente, ovvero affidandoli in tutto o in parte a soggetti terzi.

Con il decreto legislativo 10 gennaio 2005, n. 9 è stato poi istituito un sistema di qualificazione dei contraenti generali delle opere strategiche e di preminente interesse nazionale, distinto dal sistema di qualificazione delle imprese meramente esecutrici di lavori pubblici.

Per ulteriori approfondimenti sulle nuove norme introdotte nell’ordinamento nazionale in materia di affidamento al contraente generale si veda la scheda Legge obiettivo - La disciplina del contraente generale.

Il finanziamento delle grandi opere

L’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001 prevede che all’interno del DPEF sia inserito annualmente il programma delle opere strategiche con l’indicazione degli stanziamenti necessari per la loro realizzazione e che, successivamente, il Governo indichi nel disegno di legge finanziaria “le risorse necessarie, che si aggiungono ai finanziamenti pubblici, comunitari e privati allo scopo disponibili”.

 

I finanziamenti recati annualmente con legge finanziaria non rappresentano, dunque, la copertura dell’intero fabbisogno per la realizzazione del programma, né con essi si esaurisce il quadro delle risorse impiegabili, poiché nel programma possono essere inserite opere che si trovano a differenti stadi (sia di progettazione sia di finanziamento). Come specificato dalla disposizione citata, i finanziamenti recati in finanziaria sono (o possono essere) integrativi rispetto a risorse già precedentemente stanziate, o a finanziamenti comunitari o a finanziamenti privati.

 

Le risorse aggiuntive per l’attuazione del PIS sono state principalmente stanziate dall’art. 13, comma 1, della legge n. 166 del 2002 (cd. collegato infrastrutturale alla manovra finanziaria), successivamente integrate soprattutto dalla tabella 1 della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria per il 2004), nonché dall’art. 1, comma 78, della legge n. 266/2005 (finanziaria per il 2006), per un importo complessivo di circa 13,5 miliardi di euro. Per un esame dettagliato delle risorse assegnate al PIS si veda la scheda Legge obiettivo - Il Programma infrastrutture strategiche.

Infrastrutture S.p.A.

Accanto ai finanziamenti citati, l’articolo 8 del decreto legge n. 63 del 15 aprile 2002[159], ha cercato di sostenere il finanziamento del PIS attraverso la creazione di una struttura finanziaria dedicata, la Infrastrutture S.p.A.

Tale articolo 8, infatti, ha consentito alla Cassa depositi e prestiti di costituire un’apposita società finanziaria per azioni (Infrastrutture S.p.A., appunto) sottoposta alla vigilanza del Ministro dell’economia e delle finanze, al fine di favorire, attraverso la concessione di finanziamenti e la prestazione di garanzie, la realizzazione di infrastrutture e di grandi opere pubbliche e investimenti a sostegno dello sviluppo economico.

La costituzione è avvenuta in data 9 dicembre 2002, tuttavia l’art. 1, commi 79-83, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (finanziaria 2006) ha successivamente disposto la fusione per incorporazione della Infrastrutture S.p.A. nella Cassa depositi e prestiti S.p.A.

 

Sul rapporto fra Infrastrutture S.p.A. e modalità di finanziamento delle opere ferroviarie della TAV, ai sensi dell’art. 75 della legge n. 289 del 2002 (finanziaria per l’anno 2003), si ricorda, quanto affermato dall’On. Cicolani, relatore sulla tabella 10 e sulle parti ad essa relative del disegno di legge finanziaria 2006:

“Un’altra norma che può essere trascurabile quanto agli effetti concreti, ma che non lo è sotto molti altri punti di vista, è quella che dispone la fusione per incorporazione di Infrastrutture S.p.A (ISPA), nella Cassa depositi e prestiti S.p.A.. Si tratta di un fatto scarsamente rilevante quanto agli effetti pratici, quantomeno per ciò che interessa la nostra Commissione, perché viene salvato il finanziamento del Sistema alta velocità/alta capacità, che era finanziato attraverso ISPA sulla base dell’articolo 75 della legge n. 289 del 27 dicembre 2002, la legge finanziaria per il 2003. E` questo un passaggio importante, perché ad Infrastrutture S.p.A. era stato attribuito, con una certa enfasi, un determinato ruolo che resta importante, ma che ora verrà svolto dalla Cassa depositi e prestiti. Con il comma 79 si esauriscono i dubbi che in questa Commissione erano stati posti sulla possibilità che proprio attraverso ISPA si ripetesse quanto accaduto con l’IRI; viene dunque a cessare la ragione di queste riflessioni e di queste preoccupazioni.

 

Si ricorda, infine, come elemento che probabilmente ha sorretto la decisione del Governo in merito ad Infrastrutture S.p.A., la decisione EUROSTAT del 23 maggio 2005 che ha affermato la natura comunque pubblica del debito contratto da ISPA per finanziare l’alta velocità.

Altri provvedimenti

Nel corso della XIV legislatura all’emanazione delle norme principali volte a delineare la disciplina speciale per le opere strategiche, recate dalla legge obiettivo e dal relativo decreto delegato, hanno fatto seguito numerosi provvedimenti dalle varie finalità, dall’attuazione delle disposizioni di rango primario, all’estensione del regime speciale a particolari categorie di opere.

Un’importante intervento è stato attuato, ad esempio, con l’art. 5, commi 1-11, del decreto legge n. 35 del 2005[160] (cd. decreto competitività), le cui disposizioni si trovano ora trasposte nell’art. 194 del nuovo codice degli appalti recato dal codice appalti.

L’articolo citato contiene - tra le altre- una serie di disposizioni attraverso le quali, da una parte, il CIPE destina una quota del Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS)[161] al finanziamento di interventi che, in coerenza con le priorità strategiche e i criteri di selezione previsti dalla programmazione comunitaria per le aree urbane, consentano di riqualificare e migliorare la dotazione di infrastrutture materiali e immateriali delle città e delle aree metropolitane, accrescendone le potenzialità competitive. Altre disposizioni dello stesso decreto hannoassoggettato alla disciplina speciale prevista per le opere strategiche le opere e i lavori previsti nell’ambito delle concessioni autostradali già assentite e la cui realizzazione o il cui completamento sono indispensabili per lo sviluppo economico del Paese, nonché alcuni interventi di riqualificazione della dotazione infrastrutturale delle aree urbane.

In merito a quest’ultimo aspetto si ricorda, altresì, che l’art. 11 del cd. ddl competitività, che tuttavia non ha concluso il proprio iter[162], prevedeva una serie di disposizioni intitolate “Legge obiettivo per le città” e recanti una disciplina procedurale volta a definire l’attuazione di interventi di riqualificazione in ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale attraverso l’approvazione di piani presentati dai Comuni, al fine di aumentare le potenzialità competitive a livello nazionale ed internazionale degli ambiti stessi.

Si ricorda, inoltre, l’art. 6 del decreto legge 31 gennaio 2005, n. 7[163] che ha ampliato i poteri dei commissari straordinari previsti dall’art. 13 del decreto legge n. 67 del 1997, con la finalità principale – evidenziata nella relazione illustrativa del ddl di conversione - di rilanciare lo strumento del Commissario per accelerare le opere comprese nel regime speciale di cui alla legge obiettivo.

 

 


 

La riforma della “legge Merloni”

Gli interventi principali in materia di appalti pubblici realizzati nel corso della XIV Legislatura sono riportabili a tre atti normativi:

§      la legge 21 dicembre 2001, n. 443 (“legge obiettivo”) che ha introdotto una disciplina speciale e derogatoria per tutte le opere di carattere strategico, e su cui si rinvia al capitolo La legge obiettivo;

§      l’articolo 7, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166, che ha recato una lunga serie di modifiche;

§      altre modifiche introdotte nel corso della legislatura, all’interno di leggi finanziarie e di altri “provvedimenti omnibus” e con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30;

§      il decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture”, emanato in attuazione della delega recata dagli articoli 1, 2 e 25 del decreto legislativo 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria per l’anno 2004), recante delega al Governo per il recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE (non pubblicato in GU alla data di chiusura della XIV Legislatura).

 

L’articolo 7 della legge n. 166 del 2002

Con il comma 1, articolato in ben 26 lettere, l’articolo 7 del “collegato infrastrutture” (AC 2032 – AS 1246) ha apportato una prima serie di modifiche -alcune delle quali non secondarie - alla normativa in materia di appalti di lavori pubblici che era stata sostanzialmente unificata nel 1994 nella cd “legge Merloni” (legge 11 febbraio 1994, n. 109).

Prima di esporre sinteticamente le novità normative introdotte, è opportuno ricordare che tali innovazioni – sin dal momento del loro varo – venivano assunte dal legislatore come parziali e destinate ad essere integrate da un successivo intervento normativo di vera e propria revisione della legge n. 109 del 1994. Il comma 1 dell’art. 7, infatti, significativamente è introdotto dalla seguente espressione: “Nelle more della revisione della legge quadro sui lavori pubblici, anche allo scopo di adeguare la stessa alle modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:”.

I principali aspetti su cui la legge n. 166 è intervenuta sono:

§      il regime delle concessioni, procedendo ad una marcata flessibilizzazione dell’istituto della concessione di lavori pubblici e ad un allentamento dei relativi vincoli normativi;

§      il sistema di qualificazione delle imprese;

§      la soppressione dei principali vincoli al ricorso all’appalto integrato, modalità di affidamento che, nell’impostazione tradizionale della “legge Merloni” aveva carattere eccezionale, in quanto fra gli elementi costitutivi di tale impostazione vi era proprio la separazione fra fase della progettazione e fase della realizzazione;

§      l’innalzamento delle soglie per gli affidamenti di incarichi di progettazione fiduciari, anche in questo caso in controtendenza rispetto ad una delle linee direttrici della “legge Merloni” (mantenimento della progettazione all’ionterno delle amministrazioni);

§      l’innalzamento delle soglie per la trattativa privata;

§      la procedura per il project financing, che è stata modificata nel tentativo di render più agevole il ricorso a questa forma di finanziamento delle opere pubbliche.

 

Più in dettaglio, relativamente alla concessione di lavori pubblici (disciplinata dall’art. 19, commi 2-2 quater della legge n. 109) le nuove norme hanno fatto venire meno due importanti limiti, che avevano probabilmente rappresentato il principale ostacolo al diffuso ricorso a tale forma contrattuale:

§      il limite di durata dei trenta anni della concessione stessa (comma 2 bis). Ai sensi delle nuove disposizioni introdotte nel 2002, l'amministrazione aggiudicatrice, al fine di assicurare il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti del concessionario, “può stabilire che la concessione abbia una durata anche superiore a trenta anni, tenendo conto del rendimento della concessione, della percentuale del prezzo […] sull'importo totale dei lavori, e dei rischi connessi alle modifiche delle condizioni del mercato”;

§      il tetto del 50% quale componente monetaria del corrispettivo (elemento “prezzo”) della concessione. Si ricorda, infatti, che la legge del 1994 aveva previsto un principio generale secondo il quale il corrispettivo della concessione doveva consistere unicamente nel diritto del concessionario a gestire funzionalmente e sfruttare economicamente l’opera per la durata della concessione. Tuttavia, a tale principio, potevano fare eccezione ipotesi circostanziate (esistenza, nell’ambito della concessione, di prezzi o tariffe amministrate) e comunque nell’ambito di un tetto del 50% dell’importo totale dei lavori. Con le modifiche introdotte dalla legge n. 166 del 2002 non viene meno il principio generale, ma la deroga a tale principio viene ammessa non solo in presenza di ipotesi definite, ma ogniqualvolta risulti “necessario” ai fini del perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario; inoltre, viene meno anche il tetto del 50%: al suo posto viene previsto che la definizione della componente “prezzo” sia definita in sede di gara.

 

Il sistema di qualificazione delle imprese (art. 8 della legge n. 109) è stato modificato estendendo la durata della qualificazione da parte delle SOA[164] dai tre anni originariamente previsti, fino a cinque (con verifica entro il terzo anno del mantenimento dei requisiti)[165];

 

Per quanto riguarda l’appalto integrato di progettazione ed esecuzione, la “legge Merloni” – nella sua impostazione originaria – lo ammetteva solo in ipotesi particolari e appositamente predeterminate (lavori per i quali la componente impiantistica e tecnologica incideva per più del 50% sul valore dell’opera, lavori di manutenzione, restauro e scavi archeologici). Le modifiche introdotte nel 2002 lo ammettono invece sempre per i piccoli lavori sotto i 200.000 euro e per quelli maggiori, superiori ai 10 milioni. A questo ampliamento della possibilità di ricorso all’appalto integrato ha corrisposto anche la introduzione di norme specifiche finalizzate a garantire, comunque, la qualità della progettazione: infatti, il comma 1 ter ha disposto l’obbligo per l’impresa che partecipa alla gara per l’appalto integrato di possedere i requisiti di progettazione indicati nel bando o di avvalersi di un progettista qualificato; un secondo obbligo consiste nel divieto di ribassare le spese di progettazione.

 

Per quanto riguarda gli incarichi di progettazione fiduciari, con il “collegato infrastrutture” è stata innalzata da 40.000 a 100.000 euro la soglia di ammissibilità. Altre disposizioni – in materia di progettazione – hanno mirato ad incentivare le aggregazioni stabili fra professionisti: sono stati infatti riconosciuti i consorzi anche in questo settore (lettera g-bis) del comma 1, dell’art. 17), in analogia a quanto previsto dalla stessa legge per gli affidamenti dei lavori. Inoltre, ai fini della qualificazione di tali consorzi, è stato introdotto anche un meccanismo premiante (stessa lettera g-bis) del comma 1, dell’art. 17). Infine, sempre in tema di progettazione, è stata abrogata una disposizione che vietava alle società di ingegneria di assumere incarichi di progettazione di importo inferiore ai 200.000 euro[166].

 

In materia di procedure di gara sono state introdotte modifiche che semplificano la licitazione privata[167] (art. 23 della legge n. 109). Inoltre, per i lavori al di sotto dei 100.000 euro è stato completamente liberalizzato il ricorso alla trattativa privata (art. 24 della legge n. 109), peraltro già previsto dalla legge n. 109 in una serie di ipotesi tassativamente elencate.

 

In materia di project financing, le modifiche alla legge quadro introdotte dall’art. 7 della legge n. 166, hanno riguardato la procedura per il project financing, raddoppiando le scadenze entro le quali il promotore può presentare proposte all’amministrazione e ampliando la tipologia dei soggetti abilitati ad asseverare i piani economico-finanziari. Un’altra significativa modifica è consistita nell’introduzione del principio della prelazione a favore del promotore (art. 37-ter): il promotore, infatti, potrà comunque adeguare la propria offerta a quella giudicata dall’amministrazione più conveniente, e in questo caso sarà il promotore stesso ad aggiudicarsi la concessione (su questo argomento, v. anche le schede Il project financing e Il Libro Verde sui PPP);.

 

Altre modifiche alla legge quadro, introdotte dall’art. 7 della legge n. 166, hanno riguardato: l’incentivazione dell’aggregazione fra imprese e in particolare dei consorzi stabili (modifiche all’art. 12 della legge n. 109); la procedura di verifica delle offerte anomale (art. 21): le modifiche sono state introdotte per adeguare la normativa alla sentenza della Corte di Giustizia europea del 27 novembre 2001 nelle cause riunite C-285/99 e C-286/99; l’alleggerimento delle funzioni del responsabile del procedimento nelle procedure di programmazione (art. 14); la maggiore definizione di norme acceleratorie dei giudizi amministrativi in caso di contenzioso (art. 31 bis), in particolare in  materia di accordo bonario, laddove viene previsto che – in determinate ipotesi - la lite sia affidata ad una commissione mista composta da rappresentanti dell’appaltatore e rappresentanti della pubblica amministrazione.

Altre modifiche alla “legge Merloni” approvate nel corso della legislatura

Dopo questa prima serie di modifiche, ma prima della riforma complessiva (e conseguente abrogazione della legge n. 109 del 1994) sono state varate ulteriori modifiche alla legge quadro.

 

In primo luogo va ricordato – per l’organicità dell’intervento – il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 30, recante Modificazioni alla disciplina degli appalti di lavori pubblici concernenti i beni culturali, conil quale si è dato vita ad una organica disciplina speciale sugli appalti di lavori relativi a beni culturali (che, precedentemente, era ricavabile solo da alcune norme sparse, sia di carattere legislativo, sia regolamentare). In riferimento ai soli lavori in oggetto vengono normati aspetti generali e comuni della disciplina dei lavori pubblici, quali la qualificazione dei soggetti esecutori, gli appalti misti, le modalità di progettazione e i criteri di aggiudicazione dei lavori, le soglie per l’affidamento a trattativa privata, l’ammissibilità delle varianti.

La specialità della disciplina è (quasi sempre) connessa:

§         alla opportunità di valorizzare le competenze tecniche e le precedenti esperienze nella specifica tipologia di intervento da parte dei soggetti esecutori, e prevedere la possibilità che le amministrazioni aggiudicatrici dettino specifiche prescrizioni tecniche e in generale controllino e verifichino il rispetto di requisiti qualitativi in tutto l’iter amministrativo;

§         alla esigenza di permettere alle amministrazioni aggiudicatrici un maggiore spazio (rispetto a quanto previsto dalle norme ordinarie) nella scelta dei soggetti esecutori e una maggiore flessibilità dell’intero procedimento amministrativo.

Inoltre, vengono introdotte disposizioni particolari che riguardano solo i lavori su beni culturali o che assumono in tale settore un rilievo primario, quali la sponsorizzazione, le ipotesi di affidamento congiunto insieme a lavori afferenti ad altre categorie di opere, le coperture assicurative.

Il contenuto del decreto legislativo n. 30 è stato successivamente trasfuso nel “Codice dei contratti pubblici” (decreto legislativo n. 163 del 2006) su cui si rinvia alla scheda Il codice dei contratti pubblici)

 

Si ricordano poi una serie di interventi puntuali, introdotti in atti normativi di valenza più generale. In primo luogo, le modifiche recate dalla legge finanziaria per il 2004 (art. 4, commi 146 e 147 della legge 24 dicembre 2003, n. 350), relative allo svincolo della garanzia fideiussoria che l'esecutore dei lavori è obbligato a costituire, specificando che essa è svincolata progressivamente “a misura dell’avanzamento dell’esecuzione, nel limite massimo del 75 per cento dell’iniziale importo garantito”. La modifica inserita ha mirato sostanzialmente a superare il sistema previgente basato su successive soglie rigidamente definite normativamente. Le nuove norme hanno previsto, infatti, con formula più flessibile, che lo svincolo avviene “progressivamente” e “a misura dell’avanzamento dell’esecuzione”, e hanno fissato, per l’importo svincolabile, il limite massimo del 75 per cento dell’iniziale importo garantito (con corrispondenza, in questo caso, a quanto già previsto dalle norme vigenti). Inoltre è stato chiarito che la procedura di svincolo si riferisce non alla “cauzione definitiva” (a cui invece faceva riferimento il testo previgente della legge n. 109) ma, più correttamente, alla “garanzia fideiussoria”, eliminando, in tal modo, possibili ambiguità della formulazione previgente dell’art. 30.

Si ricordano, inoltre, altre modifiche alla “legge Merloni” introdotte dalla legge finanziaria per il 2005: all’art. 1, comma 550 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che ha introdotto una disciplina derogatoria del sistema del prezzo chiuso, precedentemente previsto dall’art. 26 della legge n. 109 del 1994. Con le norme introdotte si è inteso consentire una forma di revisione dei prezzi qualora il prezzo di singoli materiali di costruzione subisca variazioni superiori al 10%. La modifica normativa – determinata dal considerevole aumento dei prezzi dell’acciaio – ha reintrodotto nell’ordinamento una disciplina per la revisione dei prezzi simile a quella prevista dell’art. 33 della legge n. 41 del 1986 (che era stata abrogata dal comma 2 dell’art. 26 della “legge Merloni”), nonché dall’art. 1664 del codice civile. Secondo la nuova disciplina, la compensazione viene calcolata sulla base della percentuale eccedente il 10%. Il prezzo di riferimento dei materiali di costruzione e la relativa variazione percentuale, da utilizzare come base per valutare la necessità di una revisione, sono indicati annualmente con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Le norme introdotte specificano che il citato decreto annuale faccia riferimento ai “materiali di costruzione più significativi”, lasciando alla discrezionalità del Ministero la valutazione su quali siano i materiali la cui variazione di prezzo può attivare la nuova procedura di revisione. Inoltre, si precisa che la compensazione viene determinata applicando la percentuale di variazione che eccede il 10% al prezzo dei singoli materiali impiegati nelle lavorazioni contabilizzate nell’anno solare precedente, nelle quantità accertate dal direttore dei lavori.

Si ricordano, poi, le modifiche recate dall’art. 5 del decreto legge n. 35 del 2005 (“decreto competitività”)[168]. Le modifiche hanno toccato diversi aspetti.

Il comma 4 dell’art. 5 ha introdotto una disposizione di non facile interpretazione in materia di project financing.Tale comma dispone che, per la realizzazione di infrastrutture con modalità di project financing possano essere destinate anche le risorse costituenti “investimenti immobiliari degli enti previdenziali pubblici”. La disposizione sembrerebbe finalizzata ad introdurre la possibilità di ampliare le forme di utilizzo degli investimenti immobiliari degli enti previdenziali ammesse dalle norme vigenti. Infatti, ai sensi della normativa vigente (articolo 11 del D.Lgs. 104 del 1996) tali investimenti, fatti salvi i piani di investimento già stabiliti e gli acquisti di immobili adibiti a uso strumentale, sono realizzati esclusivamente in via indiretta, in particolare tramite la sottoscrizione di quote di fondi immobiliari e partecipazioni minoritarie in società immobiliari, nel rispetto delle disposizioni previste da specifiche norme in materia di impiego di parte dei fondi disponibili per finalità di pubblico interesse.

Una seconda serie di modifiche alla normativa sui lavori pubblici (anche se non in forma di novella della legge n. 109) è stata introdotta dai commi 12-12 quinquies, dello stesso articolo 5,in tema di risoluzione del contratto di appalto disposta dalla stazione appaltante ai sensi degli articoli 118, 119 e 120 del D.P.R. n. 554 del 1999 (comma 12) e di risoluzione del contratto per grave inadempimento del medesimo (commi 12 bis-12 quater). Queste ultime norme hanno introdotto (anche in questo caso, senza ricorrere alla novellazione della legge n. 109) una procedura derogatoria ed integrativa delle norme vigenti in tema di fallimento dell’appaltatore e di risoluzione del contratto per grave inadempimento del medesimo, recate dall’art. 10, comma 1-ter, della legge n. 109 del 1994. La nuova normativa dispone che, in deroga alla disciplina ordinaria, l’interpello progressivo dei partecipanti alla gara possa proseguire, in ordine di graduatoria, fino al quinto classificato. Inoltre, in caso di fallimento o di indisponibilità di tutti i soggetti interpellati, le stazioni appaltanti possono procedere all’affidamento del completamento dei lavori mediante procedura negoziata senza pubblicazione di bando, in deroga alla normativa vigente.

Infine, i commi 16 sexies e 16 septies dello stesso art. 5 sono intervenuti in materia di arbitrato nei lavori pubblici. La prima innovazione (comma 16-sexies), formulata come novella all’articolo 32, comma 2, della “legge quadro” sui lavori pubblici, consiste in una riforma della disciplina della nomina del terzo arbitro (basata sulla competenza della Camera arbitrale istituita presso l’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici) e disponendo invece che anche la nomina del terzo arbitro possa essere concordata fra le parti e che solo laddove manchi l’accordo fra le parti a tale nomina debba procedere la suddetta Camera. Fuori dalla novella (comma 16-septies) è stata invece introdotta una norma transitoria, volta a disciplinare le procedure arbitrali in corso o già definite prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del decreto e dopo la sentenza del Consiglio di Stato n. 6337 del 17 ottobre 2003, sentenza aveva prodotto una situazione di incertezza in merito alla disciplina applicabile alle situazioni pregresse.

Altre modifiche (volte a superare una procedura d’infrazione[169]) sono state introdotte dall’art. 24 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (“comunitaria 2004”). Le modifiche hanno riguardato molteplici aspetti:

§      rapporti fra certificazione di qualità e qualificazione per la partecipazione ad appalti di lavori;

§      contratti misti;

§      progettazione e direzione dei lavori;

§      procedure di collaudo;

§      disciplina del promotore;

§      svincolo delle garanzie e coperture assicurative

In materia di rapporti fra certificazione di qualità e qualificazione per la partecipazione ad appalti di lavori, la modificaha eliminato uno dei benefici[170] previsti (dall’art. 8 della “legge Merloni”) a favore delle imprese “certificate”, in quanto tale beneficio veniva a costituirsi come norma contrastante con la direttiva 93/37/CEE che impone la netta separazione tra la fase della qualificazione e quella della valutazione dell'offerta.

In materia di contratti misti (con novelle recate all’articolo 2, comma 1, della legge quadro sui lavori pubblici e al comma 3, dell’articolo 3 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157 sugli appalti pubblici di servizi) è stata disposta l’applicazione del criterio dell’accessorietà dei lavori rispetto a quello, previgente, della prevalenza economica. Si ricorda, in proposito, che la Commissione europea aveva più volte rilevato[171] come, ai fini della determinazione della regole applicabili a un appalto misto di lavori e servizi, occorresse individuare l’oggetto principale del contratto, mentre la prevalenza economica delle prestazioni – a norma del diritto comunitario - non è che uno degli elementi che possono contribuire all'individuazione di tale oggetto principale.

I commi 5 e 6 dell’articolo 24 della legge comunitaria hanno poi novellato, rispettivamente, l’articolo 17, comma 12, e l’articolo 30, comma 6-bis, della legge quadro, in relazione all’affidamento di incarichi inferiori alla soglia comunitaria. Si tratta, in particolare, degli incarichi di progettazione o di direzione dei lavori, e degli incarichi per la validazione dei progetti. Le modifiche consistono nel superamento della mera discrezionalità da parte dell’amministrazione aggiudicatrice nella scelta del soggetto affidatario e nell’introduzione di una formula che – pur non prescrivendo l’adozione di una specifica procedura – fa comunque riferimento ai principi di derivazione comunitaria di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza.

Il comma 7 dello stesso articolo, attraverso la sostituzione del comma 14 dell’art. 17 della legge n. 109 del 1994, obbliga alla previa indicazione nel bando di gara dell’affidamento diretto della direzione dei lavori al progettista incaricato, qualora l’importo complessivo delle due attività superi la soglia di applicazione della direttiva comunitaria.

Lo stesso articolo 24 (comma 8) abroga i commi 8, 9, 10 ed 11 dell’articolo 188 del regolamento attuativo della “legge Merloni” (D.P.R. n. 554 del 1999), che consentivano la scelta diretta dei collaudatori esterni da parte delle amministrazioni aggiudicatrici senza prevedere la pubblicazione né di un bando di garané altre forme di pubblicità.

In tema di project financing, sono stati aggiunti alcuni periodi all’articolo 37-bis, comma 2-bis, della legge n. 109 del 1994, disponendo che venga data un’idonea pubblicità alla possibilità per il promotore di godere del diritto di prelazione nei confronti degli altri concorrenti (si ricorda che tale diritto è stato introdotto dalla legge n. 166 del 2002, come riportato sopra).

Infine, è stata introdotta una disposizione che impone alle stazioni appaltanti, al momento dell’aggiudicazione definitiva, di informare i concorrenti non aggiudicatari, provvedendo quindi allo svincolo delle garanzie provvisorie eventualmente prestate da questi soggetti per la partecipazione alla gara.

 

Infine, anche la finanziaria per l’anno 2006, legge 23 dicembre 2005, n. 266, all’art. 1, comma 207, ha recato una norma di interpretazione autentica  dell’articolo 18, comma 1, della “legge Merloni”. La norma di interpretazione autentica prevede che la quota non superiore all’1,5% dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro (che – secondo le norme vigenti - può essere ripartita tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori) è comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione.

La stessa legge, inoltre, è reintervenuta in materia di arbitrati (art. 1, commi 70 e 71). La disciplina era stata – come si è sopra ricordato - già modificata dall’art. 5, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35. Con le modifiche introdotte dal decreto legge n. 35 era stato introdotto l’obbligo del versamento di una quota del valore della controversia pari all’1/10.000 al momento del deposito del lodo da parte degli arbitri alla camera. Con le modifiche introdotte dalla finanziaria per il 2006 (comma 70), il rapporto su cui viene calcolata la quota del valore da versare viene definito nell’ 1/1.000. La norma va letta in connessione con un’altra disposizione – recata dal comma 67 dello stesso articolo 1 della legge n. 266 - che ha introdotto norme relative all’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, riconoscendole autonomia organizzativa e finanziaria, e stabilendo una serie di nuove prescrizioni in materia di copertura dei costi relativi al funzionamento della stessa Autorità. Questa, oltre a determinare annualmente l’ammontare delle contribuzioni ad essa dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti alla sua vigilanza, ne stabilisce le modalità di riscossione. Si prevede, inoltre, che l’Autorità possa individuare quali servizi siano erogabili a titolo oneroso, secondo tariffe determinate sulla base del costo effettivo dei servizi stessi.

Infine, con il comma 71 è stato disposto che gli importi dovuti alla camera arbitrale per la decisione delle controversie di cui all’art. 32 della legge n. 109 vengano versati direttamente all’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, al fine di evitare che le somme in questione vengono prima assegnate al bilancio dello Stato e successivamente trasferite all’Autorità.

Il codice dei contratti pubblici

La riforma della “legge quadro” si è poi compiuta con le ulteriori modifiche sostanziali e la trasfusione della normativa sui lavori pubblici (con conseguente abrogazione della legge n. 109) in un atto normativo più ampio e complesso.

Gli articoli 1, 2 e 25 della legge 18 aprile 2005, n. 65, hanno disposto infatti una delega al Governo finalizzata al recepimento di due importanti direttive comunitarie intervenute nell’anno 2004 in materia di contratti pubblici: la direttiva 2004/17/CE (che ha coordinato le procedure in materia di appalto degli enti erogatori di acqua ed energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali) e la direttiva 2004/18/CE (che ha coordinato le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi).

In merito al recepimento delle due direttive, si sono confrontate in Parlamento due opposte visioni.

La prima, rappresentata soprattutto dai gruppi di opposizione, era finalizzata ad evitare che, in sede di recepimento delle direttive, il Governo utilizzasse la delega per procedere ad una vera e propria riforma della normativa sui lavori pubblici (o meglio, ad un completamento della riforma, vista l’entità delle modifiche operate con la legge n. 166 del 2002 e con i successivi interventi sopra ricordati). Rischi in tal senso venivano intravisti non solo nelle ripetute dichiarazioni di rappresentanti del Governo in tal senso, ma nella stessa espressione che introduce le novelle elencate all’art. 7 della legge n. 166.

A questo indirizzo è sembrato aderire, in una prima fase, lo stesso Governo, durante l’esame, in sede referente e in aula, del disegno di legge comunitaria, recate la delega.

Invece, con la presentazione al Parlamento – il 17 gennaio 2006 - dello schema di decreto legislativo attuativo della delega (Atto del Governo n. 606) che recava il titolo Codice dei contratti pubblici di lavori, forniture, servizi, si è appalesata una volontà diversa del Governo, quella cioè di procedere ad una riforma sostanziale della normativa sugli appalti pubblici, e segnatamente di quella in materia di appalti di lavori (e quindi ad una riforma radicale della “legge Merloni”, che infatti viene integralmente abrogata dallo schema di decreto e sostituita da un insieme di norme sicuramente innovative dell’ordinamento precedente).

I termini di questa dialettica tra maggioranza e opposizione sono facilmente ricostruibili attraverso la consultazione dei resoconti delle sedute della VIII Commissione (soprattutto quelle del 15 e del 22 febbraio). Uno dei temi di questa dialettica è stato quello della idoneità di una disposizione di delega formulata in termini di (mero) recepimento di due direttive comunitarie, rispetto ad un intervento di sostanziale revisione delle norme in materia di appalti di lavori.

Al fine di chiarire questo punto, può essere utile ricordare che le due direttive (soprattutto la 2004/18/CE) presentano numerosi aspetti innovativi della disciplina comunitaria degli appalti pubblici. In primo luogo esse procedono alla unificazione di tutte le norme comunitarie in materia di appalti pubblici (precedentemente distinte in tre filoni: forniture, servizi e lavori), separando i contratti pubblici ordinari da quelli riguardanti i cd “settori speciali” (disciplinati dalla direttiva 2004/17/CE). Fra le principali novità della nuova disciplina comunitaria, si segnalano le soglie di applicazione più elevate, l’introduzione del dialogo competitivo, delle aste elettroniche, dei sistemi dinamici di acquisto, degli accordi quadro, la possibilità di partecipare alle gare con le holding.

Pertanto, appare oggettivamente problematica la possibilità di isolare specifiche previsioni comunitarie che non trovano riscontro nel diritto interno e circoscrivere ad esse il recepimento.

Infine, occorre ricordare che – in base a un principio generale di armonizzazione del diritto comunitario con il diritto nazionale degli stati membri - con il 1° febbraio 2006 sono comunque entrate in vigore – a prescindere dall’emanazione di atti di recepimento nazionali e in tutto il territorio degli Stati membri - le due direttive comunitarie limitatamente a quelle disposizioni considerate immediatamente applicabili (self executing). Tra queste sono incluse – ad esempio - le disposizioni che stabiliscono gli importi delle soglie al di sopra delle quali trova piena applicazione la normativa comunitaria.

Pertanto, pur dovendosi riconoscere che alcune formulazioni della disposizione di delega appaiono riduttive rispetto al testo poi elaborato dal Governo[172], sembra tuttavia ragionevole che un certo riordino della materia fosse, nel caso, inevitabile.

Il Codice (in data successiva alla fine della XIV legislatura, cioè il 2 maggio 2006) è stato pubblicato in GU: decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

Molte sono le novità introdotte dal Codice (sia in materia di appalti di lavori, sia in materia di appalti di servizi e forniture), sulle quali si rinvia alla scheda Il codice dei contratti pubblici.

Non hanno invece trovato accoglimento i richiami formulati dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato e l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici con l’Atto di segnalazione AS336, del marzo 2006, in tema di percentuali obbligatorie di lavori da affidare a terzi da parte del concessionario, e più in generale in tema di concorrenza nel settore delle concessioni di lavori pubblici. Sul punto, si rinvia alla scheda Affidamento di lavori nelle concessioni.

 

La trasformazione dell’ANAS in S.p.a.

Nel corso della XIV Legislatura l’ANAS è stata oggetto di una serie di successivi interventi normativi finalizzati alla trasformazione dell’azienda (che prima del 2002 aveva la natura giuridica di ente pubblico economico) in società per azioni.

 

La privatizzazione è stata preceduta da alcuni eventi che si ricordano rapidamente:

§         approvazione del nuovo statuto dell’Ente (DPR 21 settembre 2001, n. 389);

§         commissariamento dell’ANAS e nomina del commissario straordinario nella persona dell’ing. Vincenzo Pozzi (DPCM 14 novembre 2001). Il commissariamento fa seguito alle dimissioni (27 settembre 2001) del presidente, dott. Giuseppe d'Angiolino seguite dalle dimissioni di quattro membri del consiglio di amministrazione.

 

Tali interventi - sorretti dalla tesi di fondo che le esigenze di una gestione di mercato di attività pubbliche siano meglio soddisfatte dalla disciplina di diritto privato – sono stati mirati al raggiungimento di diversi scopi.

Secondo la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del primo di tali interventi normativi (il decreto legge n. 138 del 2002), la trasformazione in Spa è finalizzata sostanzialmente a:

§      migliorare i livelli di efficienza e competitività dell’azienda[173];

§      garantire un maggior coordinamento con il Governo nella realizzazione dei propri obiettivi.

 

Si ricorda, in proposito, che l'ANAS è la prima stazione appaltante del Paese e – pur dopo il trasferimento di circa due terzi della rete stradale nazionale alle regioni, in attuazione delle “leggi Bassanini” - controlla e gestisce oltre 26 mila chilometri tra strade e autostrade, di cui oltre il 70% sono da considerare di rilevanza sopranazionale (vedi capitolo Viabilità stradale e autostradale).

 

Alle suddette motivazioni occorre aggiungerne un’altra, connessa alle modalità di calcolo del debito pubblico ai fini del rispetto dei parametri di Maastricht. In particolare, con la trasformazione in società per azioni si è avviato un processo (che però non è finora pervenuto ad un risultato concreto)[174] volto alla esclusione dei mezzi finanziari messi a disposizione da parte dell’Anas dal computo dei finanziamenti pubblici, propriamente detti.

Tuttavia, nella audizione del Ministro dell’economia, Siniscalco, presso l’VIII Commissione della Camera dell’8 giugno 2005, si chiarisce che la trasformazione in Spa non è nata da motivazioni meramente contabili o statistiche ma piuttosto sostanziali, “di carattere organizzativo, di governance e di efficienza della struttura”. Nella stessa audizione, il Ministro ammetteva che la trasformazione di un ente pubblico in società per azioni “è normalmente difficile e particolarmente lo è nel caso di un soggetto, come l'ANAS, che non ha un fatturato proprio o che, comunque, lo ha molto basso”.

 

Le disposizioni che hanno provveduto alla trasformazione in Spa sono rinvenibili, in primo luogo, all’articolo 7 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 178 del 2002).

In sintesi, all'ANAS Spa sono attribuiti, a titolo di concessione, i compiti fino ad ora attribuiti alla stessa ANAS in via diretta (e già elencati all’art. 2, lettere a)-g) e alla lettera l) del decreto legislativo n. 143 del 1994).

 

Si ricordano i principali fra tali compiti: gestione delle strade e autostrade di proprietà dello Stato; manutenzione ordinaria e straordinaria delle stesse; interventi di adeguamento della rete e della relativa segnaletica; costruzione di nuove strade e autostrade, sia direttamente che in concessione; vigilanza sull'esecuzione dei lavori di costruzione delle opere date in concessione e controllo sulla gestione delle autostrade il cui esercizio sia stato dato in concessione; approvazione dei progetti  dei lavori oggetto di concessione.

 

La disciplina della concessione è stabilita in una convenzione di concessione, il cui schema è approvato con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, per quanto attiene agli aspetti finanziari.

 

Si segnala che la legge dispone che la convenzione di concessione debba comprendere anche:

§      le modalità di esercizio da parte del concedente (Ministero delle infrastrutture) dei poteri di vigilanza e di indirizzo sull'attività del concessionario (ANAS);

§      le modalità, ivi compreso il ricorso ai contratti di concessione a terzi da parte di ANAS Spa, per gestione, manutenzione, miglioramento ed adeguamento delle strade ed autostrade statali e per la costruzione di nuove strade ed autostrade statali;

§      le modalità per l'erogazione delle risorse finanziarie occorrenti per l'espletamento dei compiti affidati in concessione;

§      la durata della concessione che, comunque, non è superiore a trenta anni.

 

Si è previsto, poi, che con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze fosse approvato lo schema dello statuto di ANAS S.p.a., effettivamente approvato il 27 luglio 2004.

Le disposizioni prevedono anche che le azioni della Spa siano inalienabili e attribuite al Ministro dell'economia e delle finanze, il quale esercita i diritti dell'azionista d'intesa con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri e che il presidente della società e gli altri componenti degli organi sociali siano designati dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ad eccezione del presidente del collegio sindacale, il quale è designato dal Ministro dell'economia e delle finanze.

Infine, altre disposizioni minori recate dall’articolo 7 del decreto legge disciplinavano il rapporto di lavoro del personale alle dipendenze dell’Ente, il regime transitorio, i controlli della Corte dei conti.

Si ricorda, inoltre, che - quasi contemporaneamente al varo del decreto legge n. 138 - il Parlamento approvava in via definitiva il provvedimento noto come “collegato infrastrutture e trasporti” (legge 1 agosto 2002, n. 166) che, all’articolo 16, commi 3, 4 e 5 ha introdotto una disciplina relativa alla gestione dei residui passivi dell’ANAS, volta a prevenirne l’accumulo. Tali disposizioni prevedono la ricognizione periodica dei residui passivi dell’Ente e la integrazione nel fondo di riserva dell’Ente di quelli non utilizzabili entro il periodo di tempo di validità del piano o programma nel quale erano originariamente inseriti o relativi ad “opere non più realizzabili” (individuate con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previo accertamento di sopravvenute, oggettive circostanze ostative).

La Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 novembre 2002 ha fissato poi le tempistiche degli adempimenti per la trasformazione (entro il 31 dicembre 2002) e le modalità di esercizio e di controllo dell'attività dell'ANAS S.p.a. da parte del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e quindi della competente Direzione Generale Strade e Autostrade. 

Il 19 dicembre 2002 l'ANAS ha concluso il processo di trasformazione in Spa: l'assemblea degli azionisti ha approvato il nuovo statuto sociale e nominato il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale. A partire dal 1° gennaio 2003 l’ANAS è quindi diventata operativa come società per azioni.

La Convenzione di concessione all'ANAS S.p.a. è stata stipulata in data 19 dicembre 2002 subito dopo l'assemblea costitutiva ed approvata con Decreto interministeriale 31 dicembre 2002 n. 1030.

Con l'approvazione e la successiva registrazione del decreto interministeriale di concessione, si è completato entro l'anno 2002 il processo istituzionale di trasformazione in S.p.a.

 

Tuttavia il processo di adeguamento normativo non è finito in quella data. Successivamente all’art. 7 del decreto legge n. 138 sono infatti intervenuti:

 

§      l’art. 76 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria per l’anno 2003), con cui è stata – fra l’altro[175] - completata latrasformazione dell’ANAS in società per azioni, con la finalità di incrementare il patrimonio della società e di permettere alla società medesima di concorrere al finanziamento diretto dei propri investimenti. Le disposizioni introdotte hanno previsto che, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, venisse trasferita allo stato patrimoniale della società la rete autostradale e stradale nazionale (questa innovazione normativa è stata operata introducendo un comma 1 bis dopo il comma 1 dell’art. 7 del decreto legge n. 138), senza modificare il regime giuridico dei beni demaniali trasferiti[176]. Tale trasferimento – per espressa previsione legislativa - non modificava il regime giuridico dei beni demaniali trasferiti ai sensi degli articoli 823 e 829, primo comma, del codice civile (inalienabilità dei beni). Si vedrà in seguito che il comma 1 bis è stato successivamente (decreto legge n. 203 del 2005) abrogato. Con lo stesso articolo 76 è stato disposto il conferimento ad ANAS Spa da parte del Ministro dell’economia e delle finanze, in conto aumento del capitale sociale, in tutto o in parte, dell’ammontare dei residui passivi ad essa dovuti ed in essere al 31 dicembre 2002. Inoltre è stata data la possibilità all’ANAS di costituire, a valere sul proprio netto patrimoniale, un fondo speciale per la copertura degli oneri di ammortamento e manutenzione della rete stradale e autostradale nazionale ed alla ristrutturazione societaria. L’importo di tale fondo è stato fissato nella somma del valore netto della rete stradale e autostradale di interesse nazionale e del valore dei residui passivi trasferiti. Sempre con l’art. 76 è stato precisato che per “concessione” debba intendersi quella indicata dall’articolo 14 del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359.

 

Si ricorda che l’articolo 14 del decreto legge n. 333/1992, nel trasformare in società per azioni taluni enti pubblici, è intervenuto anche sul regime delle rispettive attività pubblicistiche, disponendo che tutte le attività ad essi attribuite o riservate per legge o con atti amministrativi restano ai medesimi attribuite a titolo di concessione. La citata normativa ha avuto lo scopo specifico di consentire agli enti pubblici trasformati in società per azioni di continuare ad esercitare le attività svolte e i diritti già attribuiti, rendendo così - per questo limitato aspetto - irrilevante la trasformazione per legge in società per azioni e mantenendo, in altre parole, il regime organizzativo ad essa preesistente. A tale fine, attività e diritti già esercitati in via di esclusiva dagli enti trasformati vengono, grazie allo strumento della concessione, idealmente rilevati dallo Stato il quale, una volta divenutone titolare, ne attribuisce contestualmente l'esercizio alle società risultanti dalla trasformazione. Il rapporto di concessione, dunque, sorge per legge prima che vi sia uno specifico atto amministrativo che lo regoli e prevede che le concessioni vengano disciplinate dalle amministrazioni competenti in conformità alle disposizioni vigenti. Ai sensi dell’articolo 14, infine, ove la materia non sia regolata da leggi preesistenti, la disciplina sarà stabilita dall'atto di concessione in conformità ai principi generali vigenti in materia. Le concessioni stesse avranno la durata massima prevista dalle norme vigenti, comunque non inferiore a venti anni. E’ prevista la facoltà delle amministrazioni competenti di modificarle o integrarle.

 

§      l’art. 6 ter del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203 (convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248)ha segnato un punto di svolta nel processo che si era avviato a partire dal luglio 2002. Tale processo, infatti, aveva avuto (come si è visto) una tappa fondamentale nel varo della disposizione che trasferiva il patrimonio stradale e autostradale alla proprietà dell’ANAS (comma 1 bis dell’articolo 7, aggiunto dall’art. 76 della legge n. 289 del 2002). Con il decreto legge n. 203, invece, il comma 1 bis veniva abrogato e pertanto il trasferimento della proprietà definitivamente accantonato. Inoltre sono state inserite disposizioni secondo le quali l'ANAS S.p.a. ha la possibilità di subconcedere ad una o più società da essa costituite i compiti ad essa affidati di cui all'articolo 2, comma 1, lettere a), b) e c), del decreto legislativo 26 febbraio 1994 n. 143, relativamente a talune tratte stradali o autostradali assoggettate o assoggettabili a pedaggio reale o figurativo. La società subconcessionarie, cui saranno trasferite le pertinenti organizzazioni aziendali, saranno tenute nei confronti dell'ANAS Spa agli stessi obblighi e condizioni assunti dall'ANAS S.p.a. nei confronti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per i medesimi compiti, restando l'ANAS S.p.a. comunque responsabile dei loro adempimento nei confronti del Ministero concedente.

Con le disposizioni recate dall’articolo 6 ter, quindi, si prevede la possibilità per ANAS di subconcedere la gestione tratte stradali o autostradali a società da essa costituite. Il sistema del pedaggio ombra (o “figurativo”) – che, a livello europeo, trova una certa diffusione in Spagna e soprattutto in Gran Bretagna – è basato su pagamenti ai concessionari effettuati dallo Stato (e non dagli utenti), sulla base dell’intensità d’uso dell’infrastruttura.

L’Anas, in base alle disposizioni in commento, può essere socio di maggioranza o anche socio minoritario delle società subconcessionarie e può anche cedere la sua quota di azioni. Tale cessione comporta ai sensi del comma 5, una decurtazione dalle somme trasferite all’Anas con il bilancio dello Stato corrispondente alla somma versata all’Anas per la cessione.

Le subconcessioni dovrebbero, pertanto, garantire all’ANAS S.p.a. un corrispettivo e dovranno consentire – nelle finalità della norma – di proseguire il processo di privatizzazione della Società e la sua fuoriuscita dal perimetro della pubblica amministrazione secondo la classificazione adottata dalle regole contabili europee (copertura di almeno il 50 per cento dei costi di produzione dalla vendita di beni e servizi sul mercato).

Si ricorda che , il Senato aveva introdotto, in sede di conversione del decreto-legge n. 163 del 2005 una norma analoga. Tale decreto-legge era poi decaduto.

 

§      l’art. 4, comma 117 della legge24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria per l’anno 2004). Queste norme, integrando gli articoli 7 del decreto legge n. 138 del 2002 e 17 del decreto legislativo n. 46 del 1999, hanno introdotto specifiche prescrizioni relative alla riscossione, anche coattiva, delle entrate dell’ANAS e delle società per azioni interamente partecipate dallo Stato. La disposizione, che concerne essenzialmente i canoni pagati per gli accessi aperti sulle strade di proprietà dell’ANAS, è da riconnettersi alla trasformazione dell’ANAS stessa in società per azioni.

 

§      l’art. 1, comma 299,della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (finanziaria per l’anno 2005) ha previsto una riduzione di 40 milioni di euro per il 2005, 50 milioni di euro per il 2006 e 40 milioni di euro per il 2007 dei trasferimenti correnti all’ANAS (la decurtazione è da collegare alle disposizioni introdotte dall’articolo 6 ter del decreto legge n. 203).

 

§      l’art. 1, comma 452 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria per l’anno 2006), che ha estesol’ambito di applicabilità delle nuove norme sulla subconcessione da parte dell’Anas S.p.a., comprendendovi non solo le strate o autostrade assoggettabili a pedaggio, ma anche quelle che possono essere assoggettate a “corrispettivi di servizio”. La norma sembra doversi intendere nel senso che oggetto della subconcessione può anche essere una strada (o una tratta) non assoggettata a pedaggio (né reale, né figurativo), ma nella quale la società subconcessionaria – dietro corrispettivo - svolga dei servizi (ad esempio di manutenzione).

 

Infine si segnala che, con decreto del Ministro delle infrastrutture, di concerto con il Ministro dell’economia del 15 giugno 2005 è stato approvato il Contratto di programma 2003-2005, sottoscritto da ANAS Spa e dal Ministro delle infrastrutture (Delibera CIPE 27 maggio 2005, n. 72/2005, pubblicata in GU 19 ottobre 2005). Si ricorda, in proposito, che l’articolo 5 della Convenzione di concessione fra Ministero delle infrastrutture ed ANAS prevede – in analogia a quanto avviene per le Ferrovie e per gli altri enti privatizzati - che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, d'intesa con il Ministero dell'Economia e delle Finanze, esclusivamente per quanto attiene agli aspetti finanziari, “stipulino con il concessionario un Contratto di programma di durata non inferiore a tre anni, predisposto sulla base delle previsioni dei piani pluriennali di viabilità, che individua gli obiettivi perseguibili per la gestione, la manutenzione, il miglioramento e l’incremento della rete stradale ed autostradale di interesse nazionale”.

 

Viabilità stradale e autostradale

Nella materia della viabilità stradale e autostradale meritano un approfondimento i seguenti profili di carattere generale:

§      il tema delle competenze amministrative in materia di strade;

§      i problemi connessi al deficit infrastrutturale;

§      la trasformazione dell’ANAS in società per azioni (sulla quale si veda il capitolo La trasformazione dell’ANAS in S.p.a.).

 

Con riguardo al primo profilo, il conferimento di nuove funzioni alle regioni in materia di viabilità (cd. “federalismo stradale”, previsto dal decreto legislativo 3 marzo 1998, n. 112) è stato sostanzialmente attuato nel corso della XIII lLegislatura, attraverso in particolare l’individuazione della rete stradale di interesse nazionale e regionale.

 

Ciò è avvenuto attraverso i seguenti due provvedimenti:

§         il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 461 con cui è stata individuata la rete stradale e autostradale nazionale e sono state trasferite alle regioni funzioni e competenze amministrative relative a circa due terzi dei 46mila chilometri che compongono la rete viaria nazionale, mantenendo allo Stato i restanti 15.500 chilometri, più le autostrade e i trafori (per complessivi 6.400 chilometri);

§         il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 febbraio 2000, con il quale sono stati trasferiti al demanio delle regioni a statuto ordinario o al demanio degli enti locali territoriali competenti, le strade o i tronchi di strade, già appartenenti al demanio statale e non compresi nella rete stradale e autostradale individuata con il decreto legislativo n. 461 del 1999.

 

Nel corso della XIV legislatura si è invece proceduto a puntuali modifiche nella definizione della rete stradale di interesse nazionale e locale.

 

Si richiamano in particolare:

§         i due d.P.C.M. 21 settembre 2001, con il quale sono state modificate le tabelle di individuazione rispettivamente della rete stradale di interesse nazionale (di cui al d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 461) e di interesse regionale (di cui al d.P.C.M. 21 febbraio 2000);

§         i quattro d.P.C.M. 23 novembre 2004, con i quali sono state ulteriormente modificate le tabelle di individuazione della rete stradale di interesse nazionale e regionale indicanti le strade ed i tronchi di strade ricadenti nelle regioni Abruzzo, Campania, Marche e Umbria;

§         Il d.P.C.M. 21 giugno 2005, recante revisione della rete stradale di interesse nazionale nella regione Abruzzo.

Attraverso tali provvedimenti sono state restituite all’Anas tratte di strade già trasferite alle regioni - sulla base di specifiche richieste in tal senso pervenute da parte di alcune regioni – e sono state inserite nella rete stradale di rilievo nazionale alcune strade non classificate e la cui gestione e manutenzione era già a carico dello Stato.

 

Con riferimento al tema del deficit infrastrutturale, si veda il capitolo sulla legge obiettivo per la disciplina della programmazione, del finanziamento e della realizzazione delle infrastrutture strategiche e di preminente interesse nazionale. In questa sede, ci si limita a richiamare la legge 29 dicembre 2003, n. 376, che ha finanziato specifici interventi di particolare interesse locale, molti dei quali finalizzati al potenziamento di infrastrutture stradali.

 

Tra i provvedimenti più rilevanti adottati nel corso della XIV legislatura nella materia della viabilità, si richiamano due decreti su cui ci si soffermerà in seguito. Si tratta del decreto 27 gennaio 2005 emanato dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti[177], che ha istituito il Centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità, e del decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 25 agosto 2005, con il quale è stato approvato il Piano pluriennale viabilità nazionale 2003-2012.

 

Nel corso della XIV Legislatura, ha inoltre assunto una valenza particolare il problema delle autostrade.

 

La rete autostradale italiana ha oggi un’estensione pari a 6.487 chilometri - tra autostrade e trafori – che arrivano a 6.840 chilometri se si considerano anche i raccordi autostradali. Di questa rete, circa l’86% (5.593 chilometri) è a pedaggio ed è affidata in concessione, mentre la parte rimanente (1.247 chilometri[178]) è gestita direttamente dall’ANAS e a circolazione libera.

 

Si può ricordare che le prime tappe della realizzazione della rete autostradale italiana[179] rappresentarono, storicamente, una novità a livello europeo, mentre il periodo di massimo sviluppo della rete è collocabile tra gli anni ‘50 e ’60 (cd “autostrade di seconda generazione), anche a seguito della costituzione dell’ANAS[180] e del varo – con il decreto interministeriale del 15 ottobre 1955 – di un vasto programma che pianificò unpotenziamento della rete per oltre 1.170 chilometri, nel quale era soprattutto compresa un’autostrada di 738 chilometri che avrebbe collegato Napoli a Milano (la futura Autostrada del Sole). La rete realizzata nel primo ventennio postbellico è rimasta sostanzialmente quella di oggi (è opportuno ricordare, in proposito, anche la legge n. 492 del 1975 che dispose un vero e proprio blocco alla realizzazione di nuove tratte autostradali), mentre il tasso di crescita del parco veicoli e del traffico in Italia negli ultimi due decenni è stato uno fra i più elevati a livello europeo.

 

Il grande sviluppo del traffico autostradale, che presenta un trend di crescita costante nell’ultimo decennio, ha imposto fra i punti prioritari dell’agenda politica quello di un adeguamento della rete autostradale (e quindi di un aumento degli investimenti) e, in modo parallelo e congiunto, di un controllo sulla effettiva rispondenza del servizio reso a criteri di qualità ed efficienza, soprattutto nelle tratte sottoposte a pedaggio.

In proposito, si osserva, come evidenziato nel capitolo relativo alla legge obiettivo, che l’adeguamento e l’ampliamento della rete autostradale ha rappresentato una delle voci più significative del programma delle infrastrutture strategiche.

Le prospettive di sviluppo del settore autostradale hanno poi costituito oggetto di un’indagine conoscitiva svolta dalle Commissioni riunite ambiente e trasporti della Camera, sulla quale ci si soffermerà in seguito.

Il Centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità

Anche a seguito dei disagi alla rete autostradale provocati dagli eventi meteorologici del gennaio e febbraio 2004, le Commissioni riunite della Camera ambiente e trasporti, hanno approvato il 13 luglio 2004 la risoluzione n. 7-0043 Armani e altri. Tale atto di indirizzo impegnava il Governo all’adozione di ogni possibile misura per la costituzione, presso il Ministero dell’interno, di un centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità, con il compito di disporre gli interventi operativi, anche di carattere preventivo, per fronteggiare le crisi connesse ad eventi meteorologici, con particolare riferimento alla rete stradale e autostradale.

In attuazione di tale impegno, è stato emanato il decreto 27 gennaio 2005 che istituisce il "Centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità".

Il Centro è una struttura di coordinamento tecnico-amministrativo, incardinata presso il Ministero dell’interno, presieduta dal direttore del Servizio Polizia stradale e composta da rappresentanti delle Istituzioni competenti (artt. 1 e 2)[181]. Esso ha il compito di disporre gli interventi operativi, anche di carattere preventivo, per fronteggiare le situazioni di crisi derivanti da avversità atmosferiche o da altri eventi (anche connessi con l'attività dell'uomo) che interessino la viabilità stradale ed autostradale e siano suscettibili di avere riflessi sul regolare andamento dei servizi e della mobilità generale del Paese (art. 2).

Il Centro, in particolare, gestisce le situazioni di crisi della viabilità, assicurando la tempestiva adozione delle necessarie misure di assistenza e soccorso; segue l'evoluzione dell'evento, effettuando rilevazioni, analisi e verifiche; acquisisce, per il tramite dei comitati operativi per la viabilità, i necessari elementi conoscitivi e di valutazione su situazioni di rischio in atto o potenziali (art. 5).

Esso informa e aggiorna il Dipartimento della protezione civile sulle situazioni di crisi nonché sugli interventi eventualmente posti in essere, assicurando un costante flusso di comunicazione tra le strutture operative del Servizio Polizia stradale e la corrispondente struttura dell'Ufficio gestione delle emergenze del Dipartimento della protezione civile. Per lo svolgimento della propria attività il Centro fa riferimento all'attività di previsione svolta dalla Veglia Meteo e dal Centro funzionale del Dipartimento della protezione civile (art. 4).

A livello periferico l'attività del Centro nazionale è assicurata per il tramite di strutture di coordinamento temporanee che assumono la denominazione di Comitato operativo per la viabilità, istituite presso ogni prefettura-ufficio territoriale del Governo.

Il Comitato operativo per la viabilità opera in stretto collegamento con il Centro di coordinamento nazionale in materia di viabilità, di cui è parte integrante e che tiene costantemente informato; in particolare, in considerazione della rete viaria e delle possibili implicazioni su altre modalità di trasporto presenti sul territorio di competenza, promuove l'elaborazione di piani di settore, coordinando la predisposizione e l'attuazione di idonee misure preventive e di intervento (art. 4). 

Nella seduta del 15 marzo 2005 presso le Commissioni riunite VIII e IX della Camera si è svolta l’audizione del sottosegretario per l'interno Mantovano sulle modalità di funzionamento del Centro.

Nelle more della pubblicazione del decreto, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Lunardi aveva reso comunicazioni alle Commissioni VIII e IX sul blocco della circolazione viaria sull'Autostrada Salerno-Reggio Calabria a seguito dell’emergenza neve che aveva interessato alcune regioni del Mezzogiorno il 26, 27 e 28 gennaio 2005 (seduta del 1° febbraio 2005).

 

Nella sua relazione, il Ministro, oltre a fornire alla Commissione una ricostruzione dell’accaduto e degli interventi posti in essere nel caso specifico, si è soffermato sulle misure adottate dal Governo per affrontare le emergenze che frequentemente si verificano sulla Salerno Reggio Calabria. Il Ministro ha in particolare richiamato interventi di tipo strutturale (l’inserimento dell’ammodernamento dell’opera nella legge obiettivo garantendo adeguate e progressive risorse) e di tipo organizzativo (finalizzate a ridurre i fastidi derivanti dalla presenza contestuale di cantieri aperti specialmente durante la fase estiva), nonché l’obiettivo di completamento di almeno il 50 per cento dell’asse autostradale entro il 2006[182]. La relazione del Ministro è stata oggetto, nella medesima seduta, di forti critiche da parte dei deputati dell’opposizione.

Il Piano pluriennale viabilità nazionale

In base all’art. 4 della convenzione di concessione stipulata tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'ANAS il 19 dicembre 2002, il concessionario ha l'obbligo di predisporre i piani pluriennali di viabilità, di durata decennale, che spetta allo stesso Ministero approvare su conforme parere del CIPE.

La funzione di tali piani consiste nell’individuazione degli obiettivi strategici per l'attuazione dei compiti affidati in concessione, in coerenza con il Piano generale dei trasporti e della logistica[183].

Il Piano pluriennale viabilità nazionale 2003-2012 – elaborato dall’ANAS sulla base degli indirizzi formulati dal Ministero con la direttiva 1° agosto 2003 – contiene tutti gli interventi su strade e autostrade statali previsti sul territorio nazionale nei prossimi dieci anni.

Il quadro degli interventi si articola in quattro principali macro-categorie: interventi di interesse nazionale o interregionale, interventi di ambito regionale, interventi sulla rete autostradale in concessione e interventi per la sicurezza e la manutenzione straordinaria della rete. Tra gli interventi contemplati, opere per oltre 86 miliardi di euro sono riconducibili alla programmazione nazionale delle opere strategiche, definita con la delibera CIPE 21 dicembre 2001[184].

Il suddetto Piano ha ricevuto il 28 ottobre 2004 il parere della Conferenza unificata Stato–Regioni e Stato-Città-Autonomie, favorevole per quanto riguarda le Regioni, e negativo per quanto riguarda ANCI, UPI e UNCEM, poiché molte opere non sarebbero state conformi alle previsioni di uso del territorio contenute negli strumenti urbanistici delle amministrazioni comunali e provinciali[185]. Il CIPE ha esaminato il Piano il 18 marzo 2005, esprimendo su di esso un parere favorevole, subordinato a tre condizioni (deliberazione 4/2005)[186].

Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha approvato il Piano con decreto 25 agosto 2005.

Sulla base delle previsioni del suddetto Piano, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di concessione, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e l’ANAS hanno stipulato lo scorso 25 maggio il primo Contratto di programma (relativo al triennio 2003-2005), nel quale sono individuati gli obiettivi perseguibili per la gestione, la manutenzione, il miglioramento e l’incremento della rete stradale ed autostradale di interesse nazionale. Su di esso il CIPE ha espresso parere favorevole, con deliberazione n. 72/2005[187]

L’indagine conoscitiva sul settore autostradale

L’indagine conoscitiva sullo stato e sulle prospettive di sviluppo del settore autostradaleè stata deliberata dalle Commissioni riunite VIII e IX nella seduta del 25 febbraio 2004 e si è conclusa lo scorso 11 gennaio 2006 con l’approvazione del documento Doc. XVII, n. 17.

Obiettivo primario dell'indagine consisteva nell'acquisire ulteriori conoscenze ed elementi informativi sullo sviluppo della rete autostradale in Italia e, contestualmente, procedere ad una ricognizione del quadro normativo esistente, profondamente mutato, a seguito dell'approvazione della legge n. 443 del 2001 (cd. «legge obiettivo») e della trasformazione dell'ANAS in società per azioni (gennaio 2003), nonché, per altro verso, a causa di altri interventi riguardanti la disciplina normativa del project financing e del general contractor[188].

Attraverso le numerose audizioni effettuate, le Commissioni hanno sviluppato un'analisi approfondita ed articolata delle principali questioni che interessano il settore autostradale, sia sotto il profilo normativo, sia sotto quello applicativo.

I profili di maggiore interesse hanno in particolare riguardato:

§         l'ammodernamento della dotazione infrastrutturale del Paese nel settore autostradale, anche alla luce delle innovazioni introdotte dalla «legge obiettivo» e del percorso avviato a seguito dell'adozione del «primo programma di infrastrutture strategiche in Italia». Sulla questione, le Commissioni rilevano, più in generale, l’opportunità che il Governo rafforzi le misure, anche quelle già in vigore, finalizzate a dotare le Camere di uno strumento stabile e permanente di monitoraggio in materia di infrastrutture strategiche.

§         l'incidenza sulle prospettive di sviluppo del settore autostradale del processo di trasformazione dell'ANAS (sul quale si rinvia al capitolo La trasformazione dell’ANAS in S.p.a.). In proposito, le Commissioni richiamano l'art. 7, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2002[189], attraverso il quale l'ANAS è stata trasformata in società per azioni, nonché i successivi provvedimenti che hanno riguardato la materia della proprietà stradale e autostradale, le funzioni dell’ANAS e i rapporti tra ANAS e Ministero dei trasporti[190] e, in particolare, l’articolo 6-ter del decreto legge n. 203 del 2005[191]. Tale ultima disposizione definisce i nuovi termini dell'organizzazione della società, lasciando comunque aperte significative problematiche di natura organizzativa e gestionale. Secondo le Commissioni, la definitiva soluzione di tali questioni aperte dovrebbe divenire un obiettivo ineludibile da parte di tutte le forze politiche ;

§         la concorrenzialità del settore e della progressiva diffusione di tecniche, quali il project financing, che dovrebbero consentire di acquisire il crescente contributo di capitali privati al potenziamento della rete autostradale e di ottimizzare i fattori di redditività della rete viaria. Anche in considerazione dei cambiamenti in atto della struttura del mercato provocati sostanzialmente dalla privatizzazione della principale società concessionaria e dall'accesso di nuovi soggetti, le Commissioni ritengono opportuna, per il futuro, un’attenta valutazione in sede parlamentare;

§         il profilo delle attività di vigilanza e controllo, relativamente al quale si è rilevata l’esigenza di un controllo incisivo rivolto ad accertare il rispetto di tutte le obbligazioni definite dalla legge, resa sempre più urgente dalla trasformazione strutturale e organizzativa dell'ANAS;

§         i profili di natura tariffaria (sul quale si veda la scheda Viabilità stradale e autostradale – Le tariffe autostradali). Nel documento conclusivo si richiama la nuova normativa in materia[192] e - anche in considerazione della divergenza tra gli elementi conoscitivi acquisiti in sede di audizioni – si afferma l’opportunità di verificarne l’attuazione e, eventualmente, la necessità di ulteriori interventi normativi o applicativi.

 

In tale contesto le Commissioni riunite in linea generale hanno espresso l’auspicio che il Governo, le società e gli enti interessati proseguano nella loro azione finalizzata al perseguimento di obiettivi di funzionalità ed efficienza della rete e dei servizi autostradali; nello specifico, sollecitano una coerente e attenta attuazione della riforma dell'ANAS, eventualmente anche mediante apposite modifiche all'art. 6-ter del decreto legge n. 203 del 2005, per favorirne la definitiva «fuoriuscita» dall'area della pubblica amministrazione ed hanno ritenuto necessaria una incisiva e costante attività di natura parlamentare il più possibile condivisa tra le diverse forze politiche, in modo da favorire uno sviluppo sempre più coerente di analisi, riflessioni e iniziative sull'evoluzione del settore autostradale.

 

Giochi olimpici di Torino 2006

I XX Giochi olimpici invernali “Torino 2006” si sono svolti nello scorso mese di febbraio: sono iniziati con la cerimonia di apertura il 10, le gare si sono protratte dall’11 al 25 e la cerimonia di chiusura ha avuto luogo il 26 dello stesso mese. Il territorio interessato, oltre al Comune di Torino, ha compreso anche i centri di Bardonecchia, Pinerolo, Pragelato, Sestriere, Sauze d’Oulx, Cesana S. Sicario, Claviere e Torre Pellice.

Al fine di permettere l’ultimazione delle infrastrutture olimpiche, quali i villaggi per gli atleti e la stampa, degli impianti sportivi per le varie discipline e le infrastrutture viarie necessarie, per le date prefisste, nel corso della XIV legislatura sono stati emanati una lunga serie di provvedimenti normativi.

Si è iniziato con l’approvazione della legge 26 marzo 2003, n. 48, Modifiche ed integrazioni alla legge 9 ottobre 2000, n. 285, recante interventi per i Giochi olimpici invernali Torino 2006, con la quale è stato operato un primo intervento di“manutenzione normativa” sulla legge originaria n. 285 del 2000, attraverso importanti modifiche volte a favorire una più efficace applicazione della legge ed a rendere più spediti e coordinati gli interventi necessari per lo svolgimento dell'evento olimpico.

Tra le innovazioni più significative del provvedimento si segnalano, anzitutto, gli interventi a favore della razionalizzazione delle procedure. In questo senso sono da intendersi le previsioni che hanno riguardato:

§         l'individuazione, mediante DPCM, dei soggetti competenti alla realizzazione delle opere connesse allo svolgimento dei Giochi;

§         la redazione per stralci del piano degli interventi da parte del Comitato organizzatore (TOROC), al fine di quantificare l'onere di ciascun intervento e la relativa copertura finanziaria;

§         la facoltà dell'Agenzia per i giochi olimpici di delegare le funzioni di stazione appaltante e l'affidamento alla stessa anche delle competenze in materia di procedure espropriative e di occupazione d'urgenza;

§         la pubblicizzazione in via telematica degli accertamenti effettuati dal Comitato di alta sorveglianza e garanzia;

§         la definizione dei poteri della conferenza di servizi in caso di variazioni o integrazioni agli strumenti urbanistici;

§         la disciplina derogatoria in materia di polizze assicurative;

§         la preventiva individuazione, mediante le convenzioni attuative del piano degli interventi, della definitiva destinazione degli impianti sportivi e delle infrastrutture olimpiche e viarie comprese nel piano medesimo.

 

La nuova disciplina ha precisato, altresì, nel quadro già delineato dalla legge n. 285, i ruoli e le funzioni degli organi coinvolti nell'organizzazione dei Giochi, consentendo di precisare l'imputazione delle relative competenze, anche rispetto al Comitato Olimpico internazionale (CIO). Tale disciplina comprende:

§         la costituzione di un Comitato, rappresentativo degli enti territoriali coinvolti e del C.O.N.I., con funzioni di “cabina di regia” di tutte le attività relative alla organizzazione dell'evento.

§         il rafforzamento del ruolo dell'Agenzia, mediante l'affidamento di ulteriori competenze, tra le quali quelle in materia di procedure espropriative, ed il conseguente potenziamento anche dal punto di vista organizzativo.

In ragione della rilevanza delle modifiche introdotte, per un loro approfondimento vedi la scheda Torino 2006 – La legge n. 48 del 2003.

 

Successivamente la legge originaria è stata integrata anche da alcune norme tutte volte ad accelerare la realizzazione degli interventi previsti, ma contenute all’interno di provvedimenti “omnibus” recanti norme volte a favorire lo sviluppo economico del Paese, e con le quali è stata prevista:

§         una procedura abbreviata per accelerare le varianti in corso d’opera intervenute nella realizzazione degli interventi previsti per i giochi olimpici invernali (art. 5-bis del decreto legge n. 136 del 2004)[193],

§         la costituzione di una apposita società per il coordinamento delle iniziative finalizzate ad un più efficace inserimento nel contesto territoriale dei compiti e delle attività svolte dal TOROC (art. 7-septies del decreto legge n. 7 del 2005[194], come integrato dall’art. 8-bis del decreto legge n. 35 del 2005[195],);

§         una deroga in favore del comune di Limone Piemonte al limite massimo di indebitamento degli enti locali, ai fini della realizzazione delle opere di accompagnamento previste dal Programma degli interventi Piemonte 2006. Sono state, inoltre, escluse dal novero delle spese considerate ai fini del rispetto del patto di stabilità interno da parte gli enti locali, limitatamente all’anno 2005, le spese per gli interventi relativi alle opere connesse allo svolgimento dei Giochi olimpici Torino 2006 (art. 14-quater del decreto-legge n. 115 del 2005[196].

Per ulteriori approfondimenti in merito alle disposizioni contenute in tali decreti legge vedi la scheda Torino 2006 – Le ulteriori disposizioni.

 

Nell’ambito delle olimpiadi invernali di Torino è stata introdotta, accanto alle opere connesse - per le quali appunto la legge n. 48 del 2003 ha introdotto una particolare procedura di approvazione - ed alle opere olimpiche propriamente dette - di cui agli allegati alla legge n. 285 del 2000 - ulteriori opere, le cosiddette opere di accompagnamento previste dall’art. 21 della legge n. 166 del 2002 (cd. collegato infrastrutture).

Dato che per ciascuna tipologia di opere è richiesta una diversa procedura di approvazione, per ulteriori dettagli in merito alla relativa disciplina si rinvia alla scheda Torino 2006 – Le ulteriori disposizioni.

 

Ulteriori disposizioni a favore dei Giochi olimpici sono state, inoltre, inserite in alcune leggi finanziarie con le quali è stato disposto un rifinanziamento per la prosecuzione degli interventi previsti e sono state apportate alcune modifiche alla composizione del Comitato di regia dei Giochi olimpici invernali “Torino 2006” (art. 3, commi 128 e 129 della legge n. 350 del 2003) ed è stata autorizzata l'utilizzazione dei fondi previsti anche successivamente alla conclusione dell’evento olimpico, onde garantire il completamento funzionale di alcune opere per il loro uso post-olimpico (art. 1, comma 241, della legge n. 311 del 2004).

 

Oltre a tali provvedimenti, tutti volti ad accelerare la realizzazione delle opere previste per lo svolgimento dei Giochi olimpici invernali, il Governo ha adottato anche una serie di misure volte a garantire la sicurezza durante lo svolgimento delle gare, anche alla luce della preoccupante situazione di terrorismo interno ed internazionale. E’ stato disposto l’impiego delle forze dell’ordine per prevenire turbamenti e atti contro la pubblica incolumità (art. 18-ter decreto legge n. 144 del 2005[197]) e l’assunzione di ulteriore personale di polizia anche per le esigenze connesse allo svolgimento dei Giochi (art. 1 del decreto legge n. 272 del 2005[198]).

 

Ravvisata la necessità di garantire, oltre alla sicurezza, anche l’organizzazione della ricezione alberghiera, dell’accoglienza e dell’assistenza, a fronte della partecipazione di un numero complessivo di circa diciannovemila persone tra atleti, tecnici, rappresentanti del CIO e delle sue componenti, unitamente a circa un milione e mezzo di spettatori, il Governo ha dichiarato, con DPR del 10 giugno 2005, le olimpiadi “grande evento”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5-bis, comma 5, del decreto legge n. 343 del 2001[199].

Conseguentemente sono state emanate una serie di ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, tra le quali si ricordano:

§         l’ordinanza n. 3439 del 10 giugno 2005 con la quale il Sindaco del Comune di Torino è stato nominato Commissario delegato per assicurare il regolare svolgimento dei giochi, nonché per garantire condizioni di adeguata mobilità ai partecipanti alle connesse celebrazioni e manifestazioni;

§         l’ordinanza n. 3462 del 2 settembre 2005 con la quale il Sindaco è stato autorizzato a porre in atto ogni iniziativa utile per il completamento dei lavori di ristrutturazione dello stadio comunale, al fine di garantire il regolare svolgimento dei giochi olimpici;

§         con l’ordinanza n. 3463 del 9 settembre 2005 sono state adottate disposizioni relative agli accrediti ed ai contributi per l’uso delle frequenze radio;

§         l’ordinanza n. 3497 del 17 febbraio 2006 con la quale la provincia di Torino è stata autorizzata a far effettuare al proprio personale prestazioni di lavoro straordinario eccedenti i limiti vigenti e ad assumere del personale con contratto a tempo determinato.

 

Al fine di promuovere, attraverso attività di sponsorizzazione e di licenza di marchio, i Giochi olimpici invernali sono state, infine, introdotte alcune norme che hanno previsto l’indizione di apposita lotteria istantanea (art. 3, comma 1, del decreto legge n. 272 del 2005 che hanno sostituito quella prevista dall’art. 11-quinquiesdecies del decreto legge n. 203 del 2005). Inoltre con lo stesso provvedimento è stato anche previsto l’incremento della dotazione organica del Corpo nazionale dei vigili del fuoco al fine di fronteggiare le urgenti esigenze del servizio antincendio aeroportuale derivanti dalla riclassificazione dello scalo di Cuneo Levaldigi anche in relazione alle Olimpiadi invernali di Torino (art. 3, comma 1-bis).

Da ultimo si ricorda anche la legge 17 agosto 2005, n. 167, recante alcune misure per la tutela del simbolo olimpico in relazione allo svolgimento dei Giochi invernali «Torino 2006».

 

 

 


Protezione civile


L’ordinamento della protezione civile

Con il decreto legge 7 settembre 2001, n. 343[200] è stato approvato, all’inizio della XIV legislatura, il principale intervento ordinamentale in materia di protezione civile, intervenendo sull’assetto istituzionale delle strutture operative della protezione civile e modificando, nel contempo, gli indirizzi che erano stati affermati nel contesto del riordino dell’organizzazione del Governo con i decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999.

Secondo lo schema della riforma del 1999, le strutture operanti in tale settore, distribuite fra differenti apparati dell’amministrazione centrale, erano state accorpate in un’unica struttura, l’Agenzia di protezione civile, cui erano state trasferite tutte le funzioni di carattere tecnico e operativo precedentemente ripartite tra la Presidenza del Consiglio ed il Ministero dell’interno.

Successivamente, con un cambiamento radicale rispetto a tali linee ispiratrici, il decreto legge n. 343, ha soppresso l’ Agenzia di protezione civile ed ha ricondotto nuovamente in capo al Dipartimento della protezione civile il coordinamento di tutte le attività di carattere tecnico e operativo, ritornando, da un lato, all’impostazione prevista dallalegge 24 febbraio 1992, n. 225 che aveva istituito il Servizio nazionale della protezione civile e facendo anche salva, dall’altro, la ripartizione di competenze nel frattempo intervenuta ad opera del decreto legislativo n. 112 del 1998.

Scopo di tale inversione di tendenza – secondo la relazione illustrativa del provvedimento - è stato quello di rispondere all’esigenza di garantire una centralità politico-operativa indispensabile per assicurare il corretto e regolare funzionamento di tutte le strutture e gli organismi chiamati ad operare in tale delicato settore.

Peraltro, il decreto legge si è iscritto nel processo di decentramento delle competenze in materia di protezione civile iniziato (per le funzioni amministrative) con la legge n. 59 del 1997 e con il relativo decreto attuativo n. 112 del 1998, e culminato poi con la legge costituzionale n 3 del 2001 di riforma del Titolo V della Costituzione, che ha costituzionalizzato (art. 117, terzo comma) la nozione di protezione civile, inserendola tra le materie di legislazione concorrente.

In seguito al decentramento amministrativo attuato con il decreto legislativo n. 112, vi è stata una ripartizione di competenze basata sostanzialmente su due criteri di carattere generale: la rilevanza dell’evento calamitoso (come definita ai sensi dell’art. 2 della legge n. 225) e la natura delle attività necessarie per fronteggiarlo. Allo Stato[201] compete, infatti – a parte le funzioni di generale indirizzo e coordinamento – il compito di prestare le operazioni di soccorso in occasione di eventi di una gravità tale da richiedere poteri e mezzi straordinari[202], mentre alle regioni ed enti locali compete, invece, il soccorso in occasione di tutti gli eventi fronteggiabili in via ordinaria.

Le competenze assegnate alle regioni e agli enti locali daldecreto legislativo n. 112 del 1998 sono state, pertanto, fatte salve dall’art. 5 del decreto legge n. 343, e su di esse non ha inciso l’attribuzione esplicita – diversamente dalla legge n. 225 - al Presidente del Consiglio dei Ministri (ovvero al Ministro dell’interno da lui delegato) del compito di determinare le politiche di protezione civile. Inoltre, è stato ulteriormente rafforzato il ruolo delle Regioni e degli enti locali, prevedendo - a differenza della normativa precedente - che il Presidente del Consiglio dei Ministri, predisponga gli indirizzi operativi dei programmi di previsione e di prevenzione dei rischi, nonché i programmi nazionali di soccorso e i piani per l’attuazione delle conseguenti misure d’emergenzad’intesa con le Regioni e gli enti locali. A tal fine è stato istitutito un apposito organo, il Comitato paritetico Stato-regioni-enti locali, cui partecipano rappresentanti designati dalla Conferenza unificata. In tal modo si è optato per la scelta di mantenere l’attività di protezione civile quale attività di coordinamento, esplicandosi con il concorso di amministrazioni, enti pubblici e privati, organi e istituzioni, tutti coordinati da un’autorità centrale, sia nella fase dell’emergenza che in quella della previsione e prevenzione. Il risultato è stato, pertanto, quello di una gestione del servizio di protezione civile articolata su diversi livelli di competenza e coordinata a livello centrale dal Presidente del Consiglio dei Ministri, attraverso le strutture del Dipartimento della protezione civile. Tale scelta ha tratto origine dall’esigenza di realizzare un maggiore coordinamento tra le attività di protezione civile e una centralità politico-operativa in grado di assicurare il funzionamento di tutte le strutture ed organismi chiamati ad operare.

 

Successivamente al decreto legge n. 343 (per un commento in maggior dettaglio, si veda la scheda La Protezione civile – Recenti riforme), al fine di derimere alcune incertezze interpretative conseguenti alla sovrapposizione di norme recate dapprima dalla legge n. 225 del 1992 e, successivamente, dal decreto legislativo n. 112 del 1998 (artt. 107-109) e poi dal decreto legge n. 343 del 2001, sono intervenute diverse circolari ministeriali che hanno fornito alcune indicazioni interpretative al fine di individuare le competenze amministrative nell’attività di protezione civile. Soprattutto nella circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2002, n. 5114[203] sono state fornite una serie di indicazioni volte a chiarire la sovrapposizione di competenze tra provincia e Prefetto in materia di protezione civile.

 

Nell’ultima parte della legislatura sono stati approvati una serie di provvedimenti con i quali è stato completato il quadro normativo adottato con il decreto legge n. 343 del 2001.

Un altro decreto legge (art. 4 del decreto legge n. 90 del 2005[204]), è nuovamente intervenuto in materia di competenze, rafforzando la funzione di guida delle politiche di protezione civile assegnata al Presidente del Consiglio dei ministri, attribuendogli “la titolarità della funzione in materia di protezione civile”, fatte salve le competenze regionali previste dalla normativa vigente e la facoltà di delega ad altro Ministro. Conseguentemente, la norma ha abrogato, limitatamente alle politiche di protezione civile, i riferimenti al ministro o al Ministero dell’interno indicati in alcune disposizioni del decreto n. 343 del 2001. La norma ha la dichiarata finalità di “garantire l'uniforme determinazione delle politiche di protezione civile, delle attività di coordinamento e dei relativi poteri di ordinanza, nonché il conseguenziale, unitario ed efficace espletamento delle attribuzioni del Servizio nazionale della protezione civile”.

E’ stato, altresì, previsto un potenziamento delle attività del Dipartimento della protezione civile anche per gli interventi all’estero, mediante l’applicazione delle norme sulla dichiarazione dello stato di emergenza e sui conseguenti poteri speciali di ordinanza anche agli interventi all’estero del Dipartimento della protezione civile, in coordinamento con il Ministero degli affari esteri.

Le ulteriori disposizioni recate dal decreto legge n. 90 (artt. 1-bis e 8-ter)hanno riguardato le modalità di reclutamento ed utilizzo di personale da parte del Dipartimento della protezione civile e la predisposizione di indirizzi operativi, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, al fine di assicurare l’unitaria partecipazione delle organizzazioni di volontariato all’attività di protezione civile.

Con il decreto legge 30 novembre 2005, n. 245[205], che ha recato anch’esso alcune disposizioni relative al personale e in materia di trasferimento di somme dal Dipartimento della protezione civile ad altre amministrazioni dello Stato per la realizzazione di specifici piani e programmi, sono state modificate alcune norme in materia di struttura e funzionamento della Commissione per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi, la cui composizione e modalità di funzionamento dovranno essere stabilite dal Presidente del Consiglio dei Ministri con proprio decreto, su proposta del Capo del Dipartimento della protezione civile.

Sono state emanate anche alcune disposizioni che prevedono la preventiva intesa del Dipartimento della protezione civile in relazione a tutte le attività convenzionali da porre in essere in materia di protezione civile da parte dei gruppi nazionali di ricerca scientifica (8-quinquies del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136[206]).

Con l'art. 19-sexies del decreto legge 9 novembre 2004, n. 266[207] si è prorogata, per gli anni 2005, 2006 e 2007, l'operatività del Fondo regionale di protezione civile, istituito con l’art. 138, commi 16 e 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (finanziaria 2001), al fine di finanziare gli interventi delle regioni, delle province autonome e degli enti locali, diretti a fronteggiare esigenze urgenti per calamità naturali, nonché per potenziare il loro sistema di protezione civile. Con l’art. 23-septies di un precedente decreto legge, decreto 24 dicembre 2003, n. 355[208] era stata, invece, incrementata, per il solo 2004, la dotazione di tale Fondo regionale.

Si ricorda, ancora, l’istituzione, presso il Ministero dell'interno e a decorrere dal 2004, di un Fondo per i contributi agli enti locali per eventi eccezionali e situazioni contingenti finanziato per un importo pari a 258.000 euro per ciascuno degli anni del triennio 2004-2006 (art. 6-bis del decreto legge 29 marzo 2004, n. 80[209]).

Occorre, però, sottolineare che i principali finanziamenti in materia di protezione civile derivano dall’apposito Fondo per la protezione civile, alimentato annualmente con la legge finanziaria (Tabella C), sul quale le ordinanze di urgenza possono mobilitare le risorse finanziarie per i singoli interventi relativi alle calamità naturali. Per le modalità di funzionamento del Fondo e gli stanziamenti disposti dalle leggi finanziarie approvate nel corso della XIV legislatura si veda la scheda Calamità naturali – I finanziamenti.

Le attività del Servizio nazionale di protezione civile (previsione e prevenzione delle varie ipotesi di rischio, e soccorso delle popolazioni sinistrate) sono, invece, finanziate attraverso stanziamenti autorizzati in relazione agli artt. 1 e 3 della legge n. 225 del 1992 e riportati anch’essi annualmente nella Tabella C della legge finanziaria. Si riportano, nella tabella che segue, i finanziamenti disposti a favore del Servizio nazionale della protezione civile contenuti nelle leggi finanziarie approvate nel quinquennio interessato dalla XIV legislatura.


Servizio nazionale della protezione civile

Dati in milioni di euro

Riferimento normativo

Stanziamento

 

Anno di riferimento

Legge n. 448/2001 (finanziaria 2002) - Tab. C

 

48,784

472,733

2002-2004

2002-2004

Legge n. 289/2002 (finanziaria 2003) - Tab. C

 

47,273

46,198

472,733

2003

2004-2005

2003-2005

Legge n. 350/2003 (finanziaria 2004) - Tab. C

 

46,198

555,884

2004-2006

2004-2006

Legge n. 311/2004 (finanziaria 2005) - Tab. C

 

43,114

41,687

41,639

550,325

2005

2006

2007

2005-2007

Legge n. 266/2005 (finanziaria 2006) - Tab. C

 

40,18

546,58

2006-2008

2006-2008

 

Si ricorda, infine, che durante la XIV legislatura, lo svolgimento delle funzioni in materia di protezione civile è stato oggetto di apposita delega – da parte del Presidente del Consiglio dei ministri – al Ministro dell’interno.

Il provvedimento di delega, contenuto nel DPCM 9 agosto 2001[210], ha riguardato, in un primo momento, tutte le funzioni attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri dalla legge 24 febbraio 1992 n. 225 fino alla effettiva operatività della prevista Agenzia di protezione civile. La delega al Ministro dell'Interno è stata estesa anche ai rapporti con gli Stati esteri per tutte le attività di protezione civile, previa intesa con il Ministero degli Affari Esteri e con enti ed organismi che svolgono all'estero attività scientifiche interessanti la protezione civile. Con il successivo DPCM 21 settembre 2001[211] il Ministro dell’interno è stato, invece, delegato all’esercizio delle funzioni attribuite dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi della nuova ridistribuzione di competenze operata con il decreto legge n. 343 del 2001.

 

 

 

Gli interventi per le calamita’ naturali

Gli interventi d’urgenza per le calamità naturali

L’Italia è uno dei Paesi europei maggiormente colpiti da disastri naturali. Come risulta da rilevamenti effettuati dalla Commissione europea, il numero di tali eventi, ben 36 di grandi dimensioni negli ultimi cinquant’anni, è superiore al doppio della media degli stessi calcolata nel resto dei Paesi comunitari, pari a 16[212]. Tra questi, ben 15 eventi sono stati causati da alluvioni o gravissimi fenomeno franosi e, nel solo 2003[213], si sono registrati ben 6 terremoti di magnitudo superiore a 4,2.

Queste cifre riguardano solo gli eventi principali, che hanno provocato decine di morti, ma un altro dato caratteristico della situazione italiana è rappresentato anche dalla diffusione enorme di eventi minori, che interessano praticamente tutto il territorio nazionale. Ciò emerge chiaramente dai dati presentati nell’Annuario dei dati ambientali 2004 pubblicato dall’Agenzia Nazionale per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT), secondo cui la stima dei danni derivanti da fenomeni alluvionali negli ultimi 15 anni si attesta oltre gli 11 miliardi di euro[214].

Per far fronte a tali emergenze ambientali derivanti da eventi sismici, avversità atmosferiche di qualsiasi natura, quali fenomeni alluvionali, con conseguenti movimenti franosi o dissesti idrogeologici, trombe d’aria, eccezionali ondate di maltempo, eventi meteomarini, eccezionali precipitazioni nevose, gravi fenomeni eruttivi, siccità ed incendi boschivi, ed altre tipologie di emergenze (crolli di edifici) verificatesi nel Nord, Centro e Sud Italia, il Governo ha dichiarato, nel corso della XIV legislatura, circa trecento stati di emergenza, più volte anche prorogati a causa della grave situazione determinatesi nei territori colpiti.

Inoltre, con l’art. 94, comma 4, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003) sono state ricomprese tra le calamità naturali anche le ceneri vulcaniche.

 

Giova ricordare che, al verificarsi delle calamità naturali, la normativa vigente prevede l’attivazione di mezzi di intervento straordinari grazie soprattutto all’art. 5 della legge n. 225 del 1992, che dispone che il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, deliberi lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi.

Viene quindi disposto che per l'attuazione degli interventi di emergenza conseguenti alla predetta dichiarazione, si provveda, nel quadro delle competenze attribuite a regioni, province e comuni, anche a mezzo di ordinanze d’urgenza in deroga ad ogni disposizione vigente[215]. Tale previsione di poteri straordinari è stata ovviamente indispensabile per potere effettuare gli interventi. Si pensi alle complesse normative sugli appalti pubblici, o alle discipline sul rapporto di lavoro, il cui scrupoloso rispetto avrebbe impedito – in molti casi – ogni intervento, mettendo a rischio la vita e i beni dei cittadini .

Si ricorda che con le ordinanze di urgenza possono anche essere mobilitate risorse finanziarie, a valere su un apposito Fondo (il Fondo per la protezione civile, alimentato annualmente con la legge finanziaria). Per i finanziamenti disposti dalle leggi finanziarie emanate nel corso della XIV legislatura si veda la scheda Calamità naturali - I finanziamenti.

Superata la fase di prima emergenza, cui si fa fronte con le ordinanze che seguono alla dichiarazione dello stato di emergenza, il Governo sulla base dell’accertamento dell’effettiva entità dei danni, di solito provvede anche mediante decreti legge attraverso i quali provvede a destinare nuove risorse finanziarie per fronteggiare le esigenze nel frattempo accertate, connesse alla prosecuzione degli interventi e all’opera di ricostruzione nei territori colpiti.

Ulteriori disposizioni volte ad integrare le somme stanziate dai provvedimenti d’urgenza, nonché a definire misure di carattere organizzativo, possono essere disposte anche con provvedimenti legislativi ordinari, oppure essere inserite durante l’approvazione dell’annuale legge finanziaria, che costituisce lo strumento normativo ordinario per la concessione di ulteriori finanziamenti sulla base della rimodulazione delle somme iscritte in bilancio.

 

Per alcune delle calamità naturaliverificatesi nel corsodel 2002 e nei primi mesi del 2003 (eruzione vulcanica in Sicilia orientale, terremoto a Campobasso e Foggia, alluvioni nel nord Italia del novembre 2002, ulteriori alluvioni del gennaio 2003 nel centro-sud), successivamente all’attivazione dei meccanismi previsti dalla legislazione vigente per gli interventi di soccorso e prima assistenza, il Governo ha anche emanato lo specifico decreto legge del 7 febbraio 2003, n. 15[216]. Sono state previste, prevalentemente, misure di carattere finanziario finalizzate a far fronte – con stanziamenti aggiuntivi rispetto a quelli già precedentemente disposti – agli interventi urgenti nei territori colpiti da calamità naturali, destinando limiti di impegno per 58 milioni di euro a decorrere dal 2003 e 10 milioni a decorrere dal 2004, di cui una parte, non inferiore al sessanta per cento, ad alcune delle calamità accadute nel corso dell’anno 2002 e del 2003 ed espressamente richiamate (attraverso il rinvio ai DDPPCCMM di dichiarazione dello stato di emergenza).

Il sisma del Molise e Puglia del 31 ottobre 2002

Durante la XIV legislatura si è verificato anche un grave evento sismico che ha colpitoi territori al confine fra il Molise e la Puglia il 31 ottobre 2002. Il Governo ha provveduto ad emanare, subito dopo la dichiarazione dello stato di emergenza più volte prorogato, uno specifico decreto legge – decreto legge 4 novembre 2002, n. 245[217]- recante una serie di misure atte a fronteggiare non solo l’emergenza venutasi a creare a seguito del verificarsi degli eventi sismici nelle regioni Molise (Campobasso) e Puglia (Foggia), ma anche in alcune zone della Sicilia (Catania).

 

Quanto alle misure indirizzate alle aree circoscritte delle tre province interessate, il decreto si caratterizza in particolare per la attribuzione di funzioni di coordinamento di tutti gli interventi al Commissario delegato, individuato nel Capo del Dipartimento della protezione civile, cui vengono affidati anche poteri di ordinanza in deroga alla normativa vigente. Viene inoltre disposta la sospensione di una serie di termini di prescrizione, decadenza, per l’adempimento di obblighi di natura tributaria e relativi a processi esecutivi e agli obblighi di leva. Infine, viene disposto uno stanziamento di complessivi 60 milioni di euro per l’anno 2002 e 10 milioni per l’anno 2003, a carico del Fondo per la Protezione civile. Al fine di assicurare la piena e soprattutto l’immediata operatività delle disposizioni recate dal decreto legge è stata quindi emanata anche una serie di ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Si ricorda che anche all’interno della legge 30 dicembre 2004 n. 311 (finanziaria 2005), è stato inserito (art. 1, comma203), tra l’altro, un vincolo di destinazione pari ad almeno il 5 %, per ciascuno degli anni dal 2005 al 2007, per la realizzazione del piano di ricostruzione del Comune di San Giuliano di Puglia, nell’ambito di una spesa annua complessiva quindicennale di 58,5 milioni di euro.

Inoltre, anche nel decreto legge 31 marzo 2005, n. 44[218]è stata prevista (art. 1-decies) l’istituzione, per l'anno 2005, di un fondo, presso il Ministero dell'economia e delle finanze, per la compensazione delle minori entrate derivanti agli enti locali dagli eventi sismici del 31 ottobre 2002, con una dotazione di 1 milione di euro per l'anno 2005.

Il terremoto del 31 ottobre 2002 ha provocato anche il crollo della scuola elementare “Francesco Iovine” di San Giuliano di Puglia. La drammaticità dell’evento ha richiesto non solo l’emanazione di ulteriori disposizioni destinate unicamente al Comune di San Giuliano contenute all’interno di ordinanze di carattere generale, ma ha portato anche all’adozione di misure di carattere più generale finalizzate a mettere in sicurezza gli edifici scolastici, con particolare riguardo a quelli che insistono in territori a rischio sismico.

Da qui l’approvazione dell’art. 80, comma 21, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003) che ha previsto che, nell’ambito del programma di infrastrutture strategiche di cui alla legge 21 dicembre 2001, n. 443, possano essere ricompresi anche gli interventi straordinari di ricostruzione delle aree danneggiate da eventi calamitosi e sia inserito un piano straordinario di messa in sicurezza degli edifici scolastici.

Per ulteriori approfondimenti sull’attuazione del piano straordinario di messa in sicurezza degli edifici scolastici si veda il capitolo Norme antisismiche.

Le disposizioni contenute all’interno delle leggi finanziarie

Sono continuati anche i finanziamenti inseriti nelle annuali leggi finanziarie disposti ai fini del completamento degli interventi di ricostruzione a seguito di una serie di eventi sismici verificatesi nei decenni precedenti, tra i quali quelli del Belice del 1968, della Campania, Basilicata e Puglia del 1980-1981, delle Marche e dell’Umbria del 1987. Spesso, i contributi per la prosecuzione di tali interventi sono affiancati da vincoli di destinazione per specifiche calamità naturali.

Oltre ai rifinanziamenti, le leggi finanziarie annuali recano frequentemente anche disposizioni con agevolazioni di carattere fiscale, quali proroghe relative ad esenzioni da imposte e tasse per gli atti relativi alla ricostruzione delle aree colpite da calamità naturali, oppure, come nell’ultima legge finanziaria per il 2006 (art. 1, comma 142), l’esclusione dalla disciplina relativaal patto di stabilità[219] delle spese correnti e in conto capitale sostenute dalle regioni e dagli enti locali per calamità naturali - per le quali sia stato dichiarato lo stato di emergenza - e delle spese sostenute dai comuni per il completamento dell’attuazione delle ordinanze emanate dal Presidente del Consiglio dei ministri a seguito di dichiarazioni di stato di emergenza.

Per l’entità dei finanziamenti disposti con le legge finanziarie approvate nel corso della XIV legislatura si veda la scheda Calamità naturali -I finanziamenti.

La modifica della normativa vigente sugli interventi d’urgenza

Nel corso della XIV legislatura si è anche intervenuti, oltre che con provvedimenti finalizzati a contrastare le singole calamità vericatesi nel quinquennio e quelle antecendenti, anche con norme che hanno modificato la normativa generale vigente ricordata all’inizio del capitolo.

Dapprima l’art. 3 del decreto legge 4 novembre 2002, n. 245[220] ha introdotto un nuovo potere straordinario.

Qualora si verifichino casi di eccezionali gravità (da valutarsi in relazione al “rischio di compromissione dell’integrità della vita”), il Presidente del Consiglio dei Ministri, anche prima della dichiarazione dello stato di emergenza (prevista finora come condizione preliminare dalla legge n. 225) e quindi prima delle riunione e della deliberazione del Consiglio dei Ministri, può attribuire i poteri straordinari di ordinanza ad un suo delegato. Ciò consente di anticipare gli interventi in deroga alle norme vigenti anche rispetto alla prima riunione del Consiglio dei Ministri, e quindi di operare efficacemente immediatamente dopo il verificarsi dell’evento.

 

Successivamente è stato anche istituito un Fondo per gli interventi straordinari della Presidenza del Consiglio disposto con l’art. 32-bis del decreto legge n. 269 del 2003[221], con una dotazione di complessiva di 273,49 milioni di euro per il triennio 2003-2005, destinato a contribuire alla realizzazione di interventi infrastrutturali, con priorità per quelli connessi alla riduzione del rischio sismico, ma anche a far fronte ad eventi straordinari nei territori degli enti locali, delle aree metropolitane e delle città d’arte. Con successive ordinanze  del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 luglio 2004, n. 3362 e del 17 settembre 2004, n. 3376 sono state determinate le modalità di attivazione del citato Fondo. Con una serie di DPCM indirizzati agli enti beneficiari[222], sono stati quindi individuati gli interventi da realizzare e le risorse da assegnare nell'ambito delle disponibilità del fondo.

Le modalità di attivazione del Fondo, nonché la quota da assegnare a ciascuna regione per il 2004, sono state quindi determinate con l’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3362 dell’8 luglio 2004[223], mentre per la ripartizione tra le regioni dei finanziamenti per il 2005 è stata emanata l’ordinanza n. 3505 del 9 marzo 2006[224].

Si ricorda, inoltre, che è stata prevista anche l’istituzione, nello stato di previsione del Ministero dell’interno, di un Fondo per i contributi agli enti locali per eventi eccezionali e situazioni contingenti[225], finanziato per un importo pari a 258.000 euro per ciascuno degli anni del triennio 2004-2006 (art. 6-bis del decreto legge 29 marzo 2004, n. 80)[226].

Altre importanti novità circoscritte nel panorama della normativa in tema di prevenzione antisismica sono rappresentate dall’emanazione dell’Ordinanza del Presidente del consiglio dei ministri 20 marzo 2003, n. 3274 recante “Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica” e dalle nuove norme tecniche per le costruzioni introdotte con il DM 14 settembre 2005. Per approfondimenti ulteriori in merito a tali provvedimenti si veda il capitolo Norme antisismiche.

 

Infine è da ricordare l’istituzione, con l’art. 1, comma 202, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (finanziaria 2005), di un Fondo di garanzia finalizzato ad avviare un regime assicurativo volontario per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati a qualunque uso destinati. Per la disciplina del Fondo (forme, condizioni e modalità di attuazione)[227], si rinvia ad un regolamento di delegificazione, da emanarsi entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge finanziaria, adempimento cui, ad oggi, non è stata data ancora attuazione.

L’ipotesi di creare un sistema di assicurazione privata contro il rischio da calamità naturali a immobili privati con la finalità di sostituire gradualmente l’intervento statale, di natura contributiva e indennizzatoria, era stato oggetto anche di numerosi interventi nel corso della XIII legislatura, riproposti poi nella XIV (art. 46 dell’AC 4489-A, disegno di legge finanziaria per il 2004, testo approvato dalla V Commissione Bilancio della Camera dei deputati) e di iniziative parlamentari (proposta di legge AC 3424 “Delega al Governo per l'assicurazione contro i rischi per eventi di marea nei comuni della laguna di Venezia”, il cui esame presso l’VIII Commissione della Camera non è stato concluso).

Gli incendi boschivi

Negli ultimi anni il problema degli incendi boschivi ha assunto dimensioni a dir poco drammatiche, tanto da destare un grido di preoccupato allarme a tutti i livelli. Nel decennio passato in Italia si sono, infatti, perduti, per incendi, più di 500 mila ettari di bosco, e, il rimboschimento e la ricostituzione boschiva non sono riusciti a rimediare alle recenti devastazioni.

 

Con la legge 21 novembre 2000, n. 353, Legge quadro in materia di incendi boschivi, l’Italia si è dotata di uno strumento importante nella lotta agli incendi, le cui principali disposizioni riguardano il rafforzamento del ruolo delle regioni e degli enti locali, la previsione di una articolata attività di programmazione e di coordinamento nella lotta attiva contro gli incendi tra le regioni e lo Stato, l'ampliamento tematico dei piani regionali di prevenzione e un nuovo sistema sanzionatorio. Particolare attenzione nel corpo della legge è dedicato alla eliminazione delle cause che originano i cosiddetti incendi per “interessi”, attraverso l’introduzione di particolari vincoli sulle aree percorse dal fuoco. Tuttavia questa legge risulta però ancora largamente disattesa nel nostro territorio. Secondo i dati diffusi da Legambiente[228] “Tra le amministrazioni comunali oggetto dell’indagine solo il 5% è risultato applicare pienamente la legge quadro in materia di incendi boschivi n. 353 del 2000. Soltanto un comune su cinque ha realizzato il catasto delle aree percorse dal fuoco, uno degli strumenti più importanti nella lotta ai focolai. Meno del 40% dei Comuni realizza attività di manutenzione dei boschi, di prevenzione e di avvistamento dei focolai”.

 

Nel corso della XIV legislatura, oltre ad una serie di provvedimenti adottati dal Governo con le stesse modalità previste per le altre calamità naturali per far fronte agli incendi verificatesi nel territorio boschivo nazionale, sono state apportate anche modifiche alla legge quadro n. 353 del 2000, con l’art. 4, comma 173 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria 2004) con il quale sono stati modificati ivincoli di edificabilità nei territori colpiti da incendi boschivi.

E’ stato, infatti, introdotto il divieto di qualsiasi edificazione per dieci anni su area boschiva percorsa dal fuoco nel caso in cui i comuni siano sprovvisti di piano regolatore. E’ stata, invece, consentita l’attività edilizia, per la realizzazione di edifici o di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive sui soprassuoli che sono stati percorsi dal fuoco, nel caso in cui la loro realizzazione sia stata prevista, in data anteriore all'incendio, dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data, consentendo l’edificazione anche qualora lo strumento urbanistico abbia previsto la possibilità di edificare, ma l’effettiva concessione o autorizzazione non sia stata rilasciata (al momento del verificarsi dell’incendio)[229].

La stessa legge finanziaria reca, inoltre (art. 4, commi 17 e 18) ulteriori disposizioni volte anch’esse al contrastare gli incendi boschivi attraverso l’assegnazione di nuove risorse al Corpo forestale dello Stato (CFS), oltre a quelle già stanziate dal decreto legge 19 aprile 2002 n. 68[230].

Infatti, con il citato decreto legge n. 68 erano state previsti finanziamenti a favore dell'attività svolta in tal campo dal Corpo forestale dello Stato connessa all'attività antincendi boschivi e la stipula, da parte delle Amministrazioni competenti, di convenzioni ed accordi per assicurare un efficace presidio estivo antincendio e la prosecuzione degli interventi straordinari del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, anche attraverso l'impiego dei soggetti ammessi a prestare servizio civile.

Successivamente, però, al fine di agevolare il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, con il decreto legge 12 luglio 2004, n. 168[231]sono state previste (art. 6, comma 1) alcune riduzioni di autorizzazioni di spesa (0,41 milioni di euro per il 2004), tra le quali quelle della legge quadro sugli incendi boschivi.

Infine, si ricorda che, al fine di porre in essere ogni indispensabile azione di carattere preventivo in materia di lotta attiva agli incendi boschivi, nonché di garantire il funzionale espletamento di tali attività, è stato affidato al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di definire i programmi per gli interventi di spegnimento degli incendi boschivi. Inoltre, il Dipartimento per la protezione civile è stato autorizzato al compimento di attività volte a garantire l’adeguamento tecnologico e operativo della componente aerea nel settore della lotta agli incendi boschivi (art. 1, del decreto legge 31 maggio 2005, n. 90[232]).

 

 


Politiche abitative


Le politiche abitative

L’evoluzione delle problematiche in ambito urbano e la modifica delle competenze sulla gestione del territorio (oltre che la modifica del tessuto sociale) hanno portato il settore dell’edilizia residenziale pubblica - vale a dire quel complesso di attività dirette a fornire alloggi per i soggetti a basso reddito – a soddisfare nuove esigenze programmatiche e, al contempo, a promuovere nuove forme di partecipazione finanziaria.

Da un lato, negli ultimi anni, si è notevolmente ampliata l’area dei soggetti che non riescono ad accedere alla casa con le proprie risorse. Tra questi, oltre alle famiglie a basso reddito, anche gli immigrati, gli anziani soli (ciò anche a fronte della crescita demografica del segmento degli ultrasessantacinquenni[233]), le giovani coppie, le famiglie monoparentali o con un solo reddito. Inoltre, il sistema abitativo italiano è caratterizzato dall’esiguità della quota di edilizia residenziale in locazione: sono, infatti, presenti 4,3 milioni di alloggi in locazione, che rappresentano il 25% delle abitazioni totali, contro una media europea del 39% ed da un numero esiguo di alloggi a canoni ridotti rispetto a quelli di mercato, infatti solo il 20% dell’offerta locativa complessiva ha un canone di locazione “sociale” contro una media europea del 43%[234].

Dall’altro lato, a seguito del trasferimento di competenze operato dal decreto legislativo n. 112 del 1998[235], il settore dell’edilizia residenziale pubblica appartiene ormai alla competenza regionale. Allo Stato sono rimasti, invece, i compiti di semplice determinazione di principi e finalità di carattere generale, di raccolta di informazioni, di impulso, di garanzia e di sostegno delle fasce economicamente più deboli. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, la materia dell’edilizia residenziale pubblica non è stata inclusa né tra le materie su cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma), né tra quelle in cui la competenza è concorrente (art. 117, terzo comma). Pertanto, ai sensi del comma quarto del nuovo art. 117 della Costituzione, tale materia appartiene alla competenza esclusiva di carattere residuale delle Regioni. Nel settore dell’edilizia residenziale pubblica, nel quale peraltro già esiste una legislazione regionale consolidata e stratificata, si aprono nuovi fronti di intervento per le Regioni.

 

I provvedimenti adottati nel corso della XIV legislatura – sia ordinari sia aventi carattere d’urgenza – erano finalizzati a dare nuovo impulso alle politiche abitative. Ciò attraverso misure volte a fronteggiare l'emergenza abitativa soprattutto nelle grandi aree metropolitane, l’avvio di alcuni programmi nazionali per l’edilizia abitativa nuova e di recupero manutentivo, in attuazione della legge n. 21 del 2001, la prosecuzione di una politica volta alla dismissione del patrimonio abitativo pubblico e l’adozione di strumenti fiscali, finanziari e creditizi per l'accesso all'abitazione in proprietà o in affitto.

Con specifico riferimento a tale ultimo profilo, si segnala che per l’acquisto della prima casa di abitazione esiste oggi un regime fiscale agevolato (riduzione dell’imposta di registro al 3%, riduzione dell’Iva al 4%, detrazione sulla dichiarazione dei redditi del 19% degli interessi passivi sui mutui e degli oneri accessori per l’acquisto dell’abitazione principale). Per quanto riguarda poi le ristrutturazioni immobiliari, la legge finanziaria 2006, - a fronte del mancato rinnovo dell’agevolazione a fini IVA - ha aumentato la percentuale detraibile sulle spese per il recupero e la manutenzione straordinaria degli immobili dal 36 al 41%. Per un approfondimento di tali agevolazioni si veda il capitolo Le imposte dirette.

Per quanto riguarda poi le agevolazioni alle locazioni, il principale strumento previsto dalla normativa nazionale è rappresentato dal Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione (istituito dall’art. 11 della legge n. 431 del 1998), le cui risorse sono utilizzate per la concessione di contributi integrativi a favore dei conduttori appartenenti alle fasce di reddito più basse per il pagamento dei canoni di locazione.

Nel corso della XIV legislatura, sono state apportate alcune modifiche allemodalità di ripartizione del Fondo, nonché alla procedura per la stipula dei contratti appartenenti al cosiddetto “secondo canale”[236].

Inoltre, sono stati istituiti due nuovi Fondi (sui quali si veda la scheda sul Disagio abitativo) per il sostegno di determinate fasce sociali:

§      il Fondo per l’attuazione di programmi finalizzati alla costruzione o al recupero di unità immobiliari destinate a locazione a canone speciale per soggetti dotati di determinati requisiti di reddito[237];

§      il Fondo per favorire l’accesso delle giovani coppie alla prima casa di abitazione[238].

 

Al fine di fronteggiare l’emergenza abitativa nelle grandi città, nel corso del quinquennio sono stati adottati anche alcuni provvedimenti d’urgenza.

Con essi, il Governo non si è limitato alla mera proroga degli sfratti  bensì ha anche introdotto alcune misure a sostegno dei conduttori. Inoltre, è stata gradualmente ridotta la portata applicativa della proroga degli sfratti, soprattutto a seguito della sentenza 24-28 maggio 2004 n. 155 della Corte costituzionale nella quale si è affermato che la sospensione dell’esecuzione degli sfratti “può trovare giustificazione soltanto se incide sul diritto alla riconsegna dell’immobile per un periodo transitorio ed essenzialmente limitato”.

Su tale ultimo profilo, si ricorda che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano per violazione dell’art. 1, Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) e dell’art. 6 (diritto ad un equo processo sotto il profilo della ragionevole durata) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), a seguito di alcuni ricorsi aventi ad oggetto i procedimenti avviati dai proprietari per ottenere il rilascio degli immobili da parte dei conduttori.

Per un approfondimento sui provvedimenti d’urgenza sugli sfratti e sulle pronunce della Corte di Strasburgo si vedano rispettivamente le schede Proroga degli sfratti e Sfratti - Le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo.

 

Le altre misure volte a dare nuovo impulso alle politiche abitative, inserite prevalentemente in leggi finanziarie, hanno - attraverso alcune modifiche alla legislazione vigente - perseguito l’obiettivo di favorire lo sblocco degli interventi costruttivi con finalità pubbliche e di garantire ad essi maggiore efficienza e produttività, attraverso la razionalizzazione di procedure spesso non coordinate tra di loro.

Tra tali misure, si segnalano le modifiche agli interventi di edilizia residenziale pubblica finalizzati alla realizzazione del programma straordinario per i dipendenti delle amministrazioni dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità organizzata ed alcune disposizioni in materia di alienazione di alloggi ai profughi[239].

Si richiamano, inoltre, gli interventi diretti alla vendita di un certo numerodi immobili di proprietà degli Istituti Autonomi Case popolari(I.A.C.P.), previsti dalla legge finanziaria del 2006 (art. 1, commi 597-600, della legge n. 266 del 2005).

Per un approfondimento di tali tematiche si veda la scheda sul Disagio abitativo.

 

Da ultimo vanno ricordate anche numerose proposte di legge presentate durante la XIV legislatura, alcune delle quali volte a favorire l’accesso alla casa di abitazione, in proprietào in locazione, da parte delle famiglie con reddito insufficiente all’accesso al mercato immobiliare; altre recanti un insieme di misure integrative della riforma attuata con la legge n. 431 del 1998, con la finalità di favorire, tra l’altro, la locazione della prima abitazione a canoni più contenuti, altre volte a modificare sia la normativa in materia di locazioni ad uso abitativo sia quella in materia di edilizia residenziale (sul punto, si vedano le rispettive schede sul Disagio abitativo e sulle Modiche alla normativa sulle locazioni).

 

 

 


Schede


Ambiente


Riordino del diritto ambientale - Giurisprudenza costituzionale

Con la riforma del Titolo V la materia “tutela dell’ambiente” ha trovato posto - per la prima volta - nelle elencazioni dell’art. 117 e quindi una esplicita considerazione ai fini del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni.

L’innovazione, testimonianza in sé dell’accresciuto rilievo sociale ed economico delle problematiche ambientali, è addirittura caratterizzata da una articolazione definitoria. Infatti, il legislatore costituzionale ha distinto fra la legislazione in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e legislazione finalizzata alla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, collocata invece al comma terzo dell’articolo 117, e quindi attribuita alla competenza concorrente di Stato e regioni.

Un’ulteriore disposizione costituzionale è infine collocata all’articolo 116, terzo comma, laddove per alcuni ambiti materiali viene prevista l’ipotesi di conferimento – con legge statale – di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni a statuto ordinario. Oltre che per tutte le materie oggetto di legislazione concorrente, tale ipotesi è, infatti, estesa anche ad alcune delle materie attribuite dal successivo articolo 117 alla competenza esclusiva statale, e fra queste – appunto – la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.

Tale quadro testuale apparirebbe alquanto chiaro, fatti salvi i comuni problemi determinati dalle ipotesi di interconnessione fra ambiti materiali distintamente denominati (nel caso in oggetto tali ipotesi sembrerebbero probabili e ricorrenti, almeno in relazione alle “grandi reti di trasporto e di navigazione”, alla “produzione, trasporto e distribuzione di energia”, ai “porti e aeroporti civili”, alla “protezione civile” e in termini ancora più vasti a tutto quel complesso di attività amministrative comprese nella nozione di “governo del territorio”).

Tuttavia, contrariamente a questi elementi di apparente chiarezza del testo, la giurisprudenza costituzionale in materia presenta caratteri di particolare problematicità, se non di vera e propria contraddittorietà con gli elementi testuali immediatamente attingibili.

In particolare, la sentenza di riferimento è la n. 407 del 10-26 luglio 2002, nella quale la Corte sembra superare in modo definitivo – e nonostante il dato testuale - ogni possibile rivendicazione di una esclusività della competenza statale:

 

“A questo riguardo va pero' precisato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto  tali, configurarsi come "materie" in senso stretto, poiche', in  alcuni  casi, si tratta piu' esattamente di competenze del legislatore  statale idonee ad investire una pluralita' di materie (cfr  sentenza n. 282 del  2002). In questo senso l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacche', al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione e' agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (cfr., da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998).

 

Anche i passaggi della stessa sentenza nei quali sembrerebbe riconoscersi un ambito in cui tale esclusività possa esprimersi, recano precisazioni che ne delimitano la portata:

 

“I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione  inducono, d'altra parte, a considerare che l'intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali.

In definitiva, si puo' quindi ritenere che riguardo alla protezione  dell'ambiente  non  si sia sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralita' di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere  unitario definite dallo Stato”.

 

In conclusione, sembrerebbe – dalla lettura di questa sentenza – che, a parte la definizione degli standard di tutela uniformi (e comunque nei limiti delle precisazioni riportate) il significato della collocazione dell’espressione “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” nel corpo del secondo comma dell’articolo 117 risieda interamente (ma unicamente) nell’esistenza di esigenze “di carattere unitario” non definite e difficilmente identificabili.

L’indirizzo espresso dalla sentenza n. 407 del 2002 non è stato rivisto, ma ripetutamente ribadito e richiamato dalla successiva giurisprudenza. Si ricorda la sentenza n. 307 del 2003 (su cui si fa rinvio alla scheda Ambiente e territorio - Sentenza 307/2003).

Con la sentenza n. 222 del 4-24 giugno 2003, la Corte costituzionale ha ribadito che: “Scendendo quindi, sulla scorta di tali rilievi preliminari, all'esame delle singole censure, deve osservarsi, quanto alla prima, come questa Corte — a conferma di una giurisprudenza formatasi anteriormente alla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione — abbia negato che, anche alla luce del nuovo testo dell'art. 117 Cost., possa identificarsi la tutela dell'ambiente come una «materia» in senso tecnico, di competenza statale tale da escludere ogni intervento regionale, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. L'ambiente si presenta, in altre parole, come un valore «trasversale», spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale, senza che ne resti esclusa la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (cfr. sentenze n. 407 e 536 del 2002)”.

 

Analogamente, la sentenza n. 214 del 23-31 maggio 2005: “In più occasioni questa Corte ha avuto modo di precisare che la “tutela dell'ambiente”, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, si configura come un valore costituzionalmente protetto ed investe altre materie che ben possono essere di competenza concorrente regionale, quale la “protezione civile”.

 

Il motivo principale di tale opzione sembrerebbe risiedere, in primo luogo, nella intensa attività legislativa regionale in materia ambientale precedente alla riforma del Titolo V. Quello che storicamente può essere considerato un vero e proprio protagonismo della legislazione regionale e che ha consentito a molta parte di questa legislazione di cogliere in anticipo e di disciplinare con successo problemi emergenti di tutela ambientale, sembrerebbe aver sorretto una scelta del giudice costituzionale ispirata ad un principio generale di salvaguardia dell’ordinamento vigente e di continuità. Ispirazione, peraltro, riscontrabile in ampia parte della giurisprudenza successiva al Titolo V e a cui si deve probabilmente la sostanziale riuscita dell’innesto di un testo profondamente innovativo e spesso aperto a contraddittorie interpretazioni.

 

Il riordino del diritto ambientale - Rinvii a successivi atti attuativi

 

NOTA: Nella seguente tabella non vengono riportati gli adempimenti che hanno carattere periodico (es: art. 60, comma 1, art. 91, commi 4 e 6) o che si caratterizzano quali attribuzioni di competenza (es: art. 57, comma 1, art. 72, comma 5, art. 75, comma 4, art. 94, comma 1).

 


 

Parte Prima (Disposizioni comuni)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 3, comma 2

Entro 2 anni dalla data di pubblicazione del decreto nella G.U.

Uno o più DPR (regolamenti di delegificazione) per la modifica e l’integrazione dei regolamenti attuativi e di esecuzione in materia ambientale

Art. 3, comma 4

Entro 2 anni dalla data di pubblicazione del decreto nella G.U.

Uno o più decreti del Ministro dell’ambiente di modifica e integrazione delle norme tecniche in materia ambientale

 

 

 

Parte Seconda (VIA/VAS/IPPC)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 6, comma 1 e art. 49, comma 1

 Entro 90 giorni dalla data di pubblicazione del decreto nella G.U.

DPCM di istituzione della Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali

Art. 10, comma 3

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore[240]

DM ambiente sulle forme di pubblicità dei piani/programmi sottoposti a VAS

Art. 28, comma 2

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore

DM ambiente sulle forme di pubblicità dei progetti di opere/interventi sottoposti a VIA

Art. 49, comma 2

Entro 90 giorni dalla data di pubblicazione del decreto nella G.U.

DM ambiente, Attività produttive ed Economia e finanze per la determinazione delle tariffe da applicare per le istruttorie/controlli delle procedure di VAS/VIA e dei compensi della Commissione.

Art. 51, comma 1

Non viene indicato

Regolamenti di delegificazione per una migliore integrazione delle procedure di VAS/VIA nei procedimenti amministrativi vigenti

Art. 51, comma 3

Non viene indicato

DPCM recante norme tecniche integrative della disciplina di VIA per la redazione del SIA e la formulazione dei giudizi di compatibilità in relazione a ciascuna categoria di opere

Art. 51, comma 5

Non viene indicato

DM ambiente, Attività produttive ed Economia e finanze sull’autorizzazione unica ambientale per impianti non rientranti nel campo di applicazione della direttiva 96/61/CE

 


Parte Terza (Difesa del suolo e acque)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 55, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, relativo alla disciplina delle attività di monitoraggio della spesa ambientale sul territorio nazionale

Art. 75, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con i Ministri competenti e d’intesa con la Conferenza Stato Regioni, per la definizione delle modalità di divulgazione delle informazioni sullo stato di qualità delle acque e per la disciplina dei casi in cui le Regioni sono tenute a trasmettere al Ministero i provvedimenti adottati a seguito di comunicazioni dell’UE

Art. 78, comma 3

31 ottobre 2015

Decreto del Ministro dell’ambiente, relativo all’attuazione dell’art. 16 della direttiva 2000/60/CE (strategie per combattere l’inquinamento idrico)

Art. 91, comma 2

180 giorni dalla data di entrata in vigore della Parte III

Decreto del Ministro dell’ambiente, sentita la Conferenza Stato Regioni, per l’individuazione di ulteriori aree sensibili, secondo i criteri di cui all’Allegato 6 della Parte III

 


 

Art. 92, comma 4

180 giorni dalla data di entrata in vigore della Parte III

Le regioni, sentite le Autorità di bacino, hanno la facoltà di individuare ulteriori aree vulnerabili

Art. 94, comma 5

180 giorni dalla data di entrata in vigore della Parte III

Le regioni e le province autonome disciplinano il regime di fognature, edilizia residenziale, opere viarie e pratiche agronomiche nelle zone di rispetto

Art. 95, comma 3

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, previa intesa con la Conferenza Stato regioni, contenente le linee guida sugli obblighi di installazione di dispositivi per la misurazione delle portate e dei volumi di acque pubbliche derivati

Art. 95, comma 3

180 giorni dalla data di entrata in vigore della Parte III

Le regioni definiscono gli organi di installazione di dispositivi per la misurazione delle portate e dei volumi di acque pubbliche derivati

Art. 95, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, previa intesa con la Conferenza Stato regioni, relativo al minimo deflusso vitale dei corpi idrici

Art. 95, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, previa intesa con la Conferenza Stato regioni, relativo alla definizione di criteri per il censimento delle utilizzazioni del medesimo corpo idrico

Art. 99, comma 1

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, sentiti i Ministri delle politiche agricole, della salute e delle attività produttive, contenente le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue

 

 

 

 

Parte Quarta (Rifiuti e bonifiche)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 181, comma 3

Non viene indicato

Decreto del Ministro delle attività produttive di concerto con i Ministri dell’ambiente e del territorio, dell’economia e delle finanze e della salute per incentivi a imprese che promuovono recupero dei materiali

Art. 181, comma 6

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con quello delle attività produttive per fissazione metodi di recupero dei rifiuti per ottenere materia prima secondaria

Art. 182, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con quello delle attività produttive per fissazione di norme tecniche relative a nuovi impianti di smaltimento dei rifiuti


 

Art. 183, comma 1, lettera u)

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro delle attività produttive per fissazione specifiche rottami ferrosi e non ferrosi da classificare come materia prima secondaria

Art. 184, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro delle attività produttive per istituzione dell’elenco dei rifiuti

Art. 186, comma 3

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente per definire limiti delle sostanze inquinanti per terre e rocce da scavo

Art. 188, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente per definire esclusione di responsabilità nel caso di conferimento di rifiuti a soggetti autorizzati a operazioni di raggruppamento e ricondizionamento

Art. 189, comma 1

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro delle attività produttive per definire norme di organizzazione del Catasto

Art. 190, comma 7

Entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente per definire la disciplina relativa ai registri di carico e scarico


 

Art. 193, comma 5

Entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente per definire la disciplina relativa al trasporto dei rifiuti

Art. 193, comma 6

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente per definire i contenuti del formulario di identificazione

Art. 194, comma 3

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, della salute, dell’economia e delle infrastrutture, al fine di definire criteri da rispettare per spedizioni transfrontaliere di rifiuti

Art. 195, comma 1, lettera f)

Non viene indicato

Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell’ambiente per individuare gli impianti di recupero e di smaltimento di preminente interesse nazionale

Art. 195, comma 1, lettera g)

Non viene indicato

Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell’ambiente per la definizione di un piano nazionale di comunicazione e conoscenza ambientale


 

Art. 195, comma 2, lettera d)

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri della salute e delle attività produttive, per la determinazione e la disciplina delle attività di recupero dei prodotti di amianto e dei beni e dei prodotti contenenti amianto

Art. 195, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, della salute e dell’interno (o nel caso in cui le norme tecniche riguardino i rifiuti agricoli di concerto con il Ministro delle politiche agricole e forestali e il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti), ai sensi dell’articolo 17 comma 3, della legge n. 400 del 1988, per la definizione di norme tecniche relative a gestione dei rifiuti e dei rifiuti pericolosi, attuazione procedure semplificate per recupero dei rifiuti, ecc.

Art. 202, comma 1

Non viene indicato

Decreti del Ministro dell’ambiente, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, al fine di stabilire criteri per la valutazione delle diverse offerte per l’affidamento del servizio integrato di gestione dei rifiuti

Art. 205, comma 1

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per fissare i criteri per calcolare le percentuali di raccolta differenziata da raggiungere

Art. 206, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per individuare le risorse finanziarie da destinare alla stipula di accordi e contratti di programma “di promozionedell’ambiente”

Art. 212, comma 10

Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, delle infrastrutture e dell’economia, per la fissazione le attribuzioni e le modalità organizzative dell’Albo nazionale dei gestori ambientali

Art. 212, comma 11

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente per la fissazione dei criteri generali per la definizione delle garanzie finanziarie da prestare alle Regioni all’interno dell’Albo nazionale dei gestori ambientali

Art. 212, comma 12

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente per la definizione di norme tecniche per il recupero di rottami ferrosi e non ferrosi

Art. 212, comma 23

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente per procedure consultazione dei registri delle imprese autorizzate alla gestione dei rifiuti

Art. 214, comma 2

Non viene indicato

Decreti del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, della salute (e, per i rifiuti agricoli e le attività che danno vita ai fertilizzanti, di concerto con il Ministro delle politiche agricole), per la definizione di norme che fissano le condizioni per l’autorizzazione secondo procedure semplificate delle operazioni di recupero e di smaltimento

Art. 216, comma 8

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, relativo a modalità applicative di incentivi finanziari previsti in favore di utilizzazione di rifiuti come combustibile per produrre energia elettrica

Art. 216, comma 9

Da pubblicare entro 60 giorni dall’entrata in vigore della Parte Quarta del decreto

Norme tecniche da adottare con decreto ministeriale ai sensi dell’articolo 214, comma 2, per la formazione di una lista di rifiuti non pericolosi da sottrarre al regime autorizzatorio ordinario


 

Art. 219, comma 4

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive (e nel caso in cui siano coinvolti interessi sanitari anche di concerto con il Ministro della salute), per definire le modalità di attuazione della normativa sugli imballaggi

Art. 219, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per la definizione delle modalità di etichettamento degli imballaggi

Art. 220, comma 6

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per la fissazione degli obiettivi di recupero e di riciclaggio

Art. 223, comma 2

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per la definizione di uno schema di statuto da adottare da parte dei consorzi che raccolgono imballaggi

Art. 226, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per fissare esenzioni al rispetto della percentuale di piombo che può essere contenuta negli imballaggi


 

Art. 227, comma 2

Entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per la determinazione degli oneri economici relativi a veicoli fuori uso

Art. 228, comma 2

Entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente per fissare modalità per raccolta pneumatici fuori uso

Art. 230, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, della salute e delle infrastrutture, recante modalità di gestione dei rifiuti provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle fognature

Art. 231, comma 3

Non viene indicato

Decreto Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, per conferimento ai centri di raccolta dei veicoli a motore  i dei rimorchi

Art. 231, comma 13

Entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive e delle infrastrutture, per definire le caratteristiche degli impianti di demolizione dei veicoli fuori uso


 

Art. 233, comma 2

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per elaborare uno schema di statuto per i consorzi di raccolta degli oli e dei grassi vegetali ed animali esausti

Art. 234, comma 2

Entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per definire i beni in polietilene sottoposti al regime consortile

Art. 234, comma 3

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per definire schema di statuto per consorzi nazionali per il riciclaggio dei beni in polietilene

Art. 235, comma 2

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per definire schema di statuto per consorzi nazionale per la raccolta delle batterie al piombo esauste

Art. 235, comma 11

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per fissare sovraprezzo vendita batterie per copertura costi di smaltimento delle batterie


 

Art. 236, comma 2

Entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, al fine di elaborare uno schema di statuto per i consorzi che trattano oli minerali usati

Art. 236, comma 9

Entro 1 mese dall’approvazione dello statuto del Consorzio nazionale per il trattamento degli oli usati

Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per la fissazione dei contributi da corrispondere al Consorzio

Art. 238, comma 6

Entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto

Regolamento del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, sentite la Conferenza Stato-Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, per definire i criteri generali per calcolare la tariffa per la gestione dei rifiuti urbani

Art. 241

Non viene indicato

Regolamento adottato  con decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive, della salute  e delle politiche agricole, relativo agli interventi di bonifica nelle aree destinate alla produzione agricola

Art. 252, comma 2

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, d’intesa con le Regioni, per individuare i siti di interesse nazionale da bonificare

Art. 264, comma 2

Entro 60 giorni dall’entrata in vigore  del decreto

Regolamento adottato dal Governo su proposta del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per individuare disposizioni incompatibili con le norme sulla gestione dei rifiuti

Art. 265, comma 3

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri dell’istruzione e delle attività produttive, per individuare le forme di promozione e incentivazione di nuove tecnologie per la bonifica presso le Università

Art. 265, comma 5

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive, per adesione a nuovi consorzi da parte di soggetti aderenti ai vecchi consorzi

Art. 266, comma 7

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive e delle infrastrutture, per  la semplificazione amministrativa delle procedure relative ai materiali provenienti da cantieri di piccole dimensioni

 

 


Parte Quinta (Inquinamento atmosferico)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 267, comma 4, lettera e)

Entro 30 giorni dall’entrata in vigore

DM attività produttive, ambiente ed economia per la determinazione dei compensi dei componenti dell’Osservatorio nazionale sulle fonti rinnovabili e l'efficienza negli usi finali dell'energia istituito dall’art. 16 del d.lgs. n. 387/2003

Art. 271, comma 2

Entro 1 anno dall’entrata in vigore[241]

DPR di integrazione dell’Allegato I con la fissazione di valori limite e prescrizioni per gli impianti nuovi e per quelli anteriori al 2006

Art. 271, comma 17

Entro 1 anno dall’entrata in vigore[242]

DPR di integrazione dell’Allegato VI

Art. 281, comma 9

Non viene indicato

DM ambiente ed economia per l’istituzione di una Commissione per raccolta/elaborazione dei dati rilevanti per l’applicazione del decreto e per l’individuazione delle migliori tecniche disponibili.

Art. 290, comma 1

Non viene indicato

DPR di integrazione dell’Allegato IX

Art. 298, comma 2

Entro 1 anno dall’entrata in vigore

DPR di integrazione dell’Allegato X

 

 

 

 

 

Parte Sesta (Danno ambientale)

 

Disposizione di rinvio

Termine per l’adempimento

Contenuto dell’atto attuativo

Art. 317, comma 6

Non viene indicato

Decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro dell’economia, relativo alla disciplina del fondo di rotazione per il finanziamento degli interventi di messa in sicurezza, ripristino e bonifica (di cui allo stesso articolo 317).

Art. 318, comma 3

Non viene indicato

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (in attuazione delle disposizioni di cui all’art. 14 della direttiva 2004/35/CE), relativo alla istituzione di adeguate forme assicurative e di garanzia per gli operatori interessati, ai fini dell’assolvimento degli obblighi a loro carico previsti dalla nuova disciplina sul danno ambientale.

 

 

La direttiva acque 2000/60/CE

 

Si ricorda che la direttiva 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque) all'art. 3, impone agli Stati membri di individuare i singoli bacini idrografici presenti nel loro territorio e di  assegnarli a singoli distretti idrografici.

Ove opportuno, è possibile accomunare in un unico distretto bacini idrografici di piccole dimensioni e bacini di dimensioni più grandi, oppure unificare bacini limitrofi. Qualora le acque sotterranee non rientrino interamente in un bacino idrografico preciso, esse vengono individuate e assegnate al distretto idrografico più vicino o più consono. Le acque costiere vengono individuate e assegnate al distretto idrografico o ai distretti idrografici più vicini o più consoni. Gli Stati membri provvedono a adottare le disposizioni amministrative adeguate, ivi compresa l'individuazione dell'autorità competente, per l'applicazione delle norme previste dalla direttiva all'interno di ciascun distretto idrografico presente nel loro territori.

Ai fini della presente direttiva, gli Stati membri possono individuare quale autorità competente un organismo nazionale o internazionale esistente. Successivamente alla delimitazione, la Direttiva prescrive che siano condotte per ogni distretto le seguenti operazioni preliminari:  l'analisi delle caratteristiche del distretto (art. 5); l'esame dell'impatto delle attività umane sullo stato delle acque superficiali e sotterranee (art. 5); l'analisi economica dell'utilizzo idrico (art. 5); l'istituzione del registro delle zone protette (art. 6). La direttiva stabilisce che per i singoli distretti idrografici un'autorità competente è designata entro il 22 dicembre 2003.

Il distretto idrografico costituisce, pertanto, l'unità territoriale di riferimento per la gestione integrata del sistema delle acque superficiali e sotterranee e rispetto ad esso è predisposto e attuato il Piano di gestione per il conseguimento degli obiettivi posti dalla Direttiva.

I criteri generali per l'identificazione dei distretti a partire dai bacini idrografici sono contenuti nella linea guida “ Identification of River Basin Districts in Member States - Overview, criteria and current state of play - 2002 ”, redatta nell'ambito della Common Implementation Strategy for the Water Framework Directive 2000/60/EC. I criteri generali suggeriti dalla linea guida prevedono, a partire dall'individuazione bacini idrografici, le seguenti scansioni: delimitazione degli acquiferi principali; accorpamento dei bacini di piccole dimensioni; attribuzione ai distretti degli acquiferi; attribuzione ai distretti delle acque costiere.

 

Danno ambientale - Direttiva 2004/35/CE

La direttiva reca una disciplina del danno ambientale in termini generali e di principio (rispetto ai quadri normativi nazionali, o – per lo meno – rispetto al quadro normativo italiano, anche quello precedente alla entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006).

La direttiva afferma che la prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale “contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato”. Dovrebbero, in particolare, essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”, stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea, e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile.

La direttiva fornisce all’art. 2 una nozione di danno ambientale, che può assumere tre diverse tipologie:

§         danno alle specie e agli habitat naturali protetti;

§         danno alle acque;

§         danno al terreno.

La nuova direttiva in materia di responsabilità ambientale trova applicazione anche in materia di gestione dei rifiuti.

La direttiva specifica, poi, che gli Stati membri possono decidere che tali operazioni non comprendono lo spargimento, per fini agricoli, di fanghi di depurazione provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane, trattati secondo una norma approvata (Allegato III, par. 1).

Uno dei principi fondamentali della direttiva dovrebbe essere quindi quello per cui l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato finanziariamente responsabile, in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale.

Assecondando dunque il suddetto principio di prevenzione, peraltro inserito dall’Atto Unico europeo all’art. 174 del Trattato che istituisce la Comunità europea, la direttiva disciplina azioni di prevenzione (art. 5) e azioni di riparazione (art. 6).

Quanto alle azioni di riparazione, l'autorità competente richiede – infatti - che esse siano adottate dall’operatore. Se questi non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b), c) o d), dell’art. 6 della direttiva, se non può essere individuato o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della direttiva stessa, l'autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure, “qualora non le rimangano altri mezzi”.

L’art. 3 specifica inoltre un secondo principio generale, secondo cui la nuova disciplina, ferma restando la pertinente legislazione nazionale, non conferisce ai privati un diritto a essere indennizzati in seguito a un danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno (art. 3, par. 3).

La direttiva prevede poi all’art. 4, par. 5, oltre aduna serie di eccezioni, che essa  si applichi al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno, causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori.

L’art. 8, par. 3 e 4, prevede inoltre, in materia di costi di prevenzione e riparazione, che non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione, se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sia stato causato da un terzo e si sia verificato nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza; ovvero sia conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica; ovvero qualora sia dimostrabile che il danno è stato causato da un'emissione o un evento espressamente autorizzati; ovvero da un'emissione o da un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività, che l'operatore dimostri non essere state considerate probabile causa di danno ambientale. In tali casi gli Stati membri adottano le misure appropriate per consentire all'operatore di recuperare i costi sostenuti.

Riguardo poi all'applicazione della direttiva stessa nel tempo, l'art. 17 stabilisce che le disposizioni in essa contenute non si applicheranno:

§         al danno causato da una emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30 aprile 2007;

§         al danno verificatosi dopo la medesima data, se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data;

§         al danno in relazione al quale sono passati più di 30 anni dall'emissione, evento o incidente che l’ha causato.

Un punto particolarmente delicato è quello del tipo di responsabilità (oggettiva o meno) individuata dalle norme comunitarie. In proposito, il 20° considerando della stessa direttiva dispone che “Non si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla volontà dell'operatore. Gli Stati membri possono consentire che gli operatori, di cui non è accertato il dolo o la colpa, non debbano sostenere il costo di misure di riparazione in situazioni in cui il danno in questione deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o la cui natura dannosa non era nota al momento del loro verificarsi”.

Il legislatore comunitario non ha optato pertanto per un sistema basato sulla responsabilità oggettiva, ma piuttosto per un sistema articolato.

Si considerino – in proposito - l’8° e il 9° considerando della direttiva, dove si distinguono due possibili origini del danno ambientale:

§      Le attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (individuate con riferimento a specifiche normative comunitarie);

§      Le attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l'ambiente.

Per questo secondo genere di attività professionali, “l'operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore”

Coerentemente con questa differenziazione, l’art. 3, par. 1 della direttiva distingue due ipotesi separate e – per le attività non espressamente elencate nell’Allegato III – circoscrive il proprio ambito di applicazione alle sole ipotesi di dolo e colpa dell’operatore.

Infine, è utile riportare una serie di riferimenti – introdotti nella normativa comunitaria – a quello che può definirsi un principio generale di ragionevolezza nella disciplina del risarcimento del danno ambientale.

Nel 1° considerando: “la prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale”. Nel 3° considerando: “riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la società”, con il richiamo allo stesso “principio di proporzionalità” (art. 5 del Trattato). Nel 6° considerando : “Si dovrebbe tuttavia tener conto di situazioni specifiche in cui la legislazione comunitaria o la legislazione nazionale equivalente consentono deroghe al livello di protezione stabilito per l’ambiente”. Anche all’Allegato II, il punto 1.3.3chiarisce che “l'autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora … i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati”.

Tuttavia, tali riferimenti non escludono che gli Stati membri adottino normative più severe, come esplicitato nel 29° considerando, ove si chiarisce che la direttiva stessa “non preclude agli Stati membri di mantenere o emanare norme più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale” (parallelamente, dispone in tal senso l’art. 16 della direttiva).

Interessante, infine, il 27° considerando: “Gli Stati membri dovrebbero adottare misure per incoraggiare gli operatori a munirsi di una copertura assicurativa appropriata o di altre forme di garanzia finanziaria e per favorire lo sviluppo di strumenti e mercati di copertura finanziaria onde fornire un'efficace copertura degli obblighi finanziari derivanti dalla presente direttiva”.

 

Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di tutela dell’aria

Le norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera recate dalla Parte V del d.lgs. n. 152/2006 provvedono ad accorpare in un unico testo una moltitudine di disposizioni sia di rango primario sia di natura regolamentare e relative ai diversi settori di attività che generano emissioni nell’atmosfera (dai grandi impianti di combustione agli impianti termici civili alle emissioni di composti organici volatili, cd. COV) nonché ai combustibili in esse utilizzati.

La relazione illustrativa allo schema presentato per il parere alle Camere sottolineava come il sovrapporsi nel corso degli anni di questa serie di norme di diverso grado e di natura eterogenea senza un adeguato coordinamento ha determinato la progressiva emersione di diversi orientamenti interpretativi, talora contrastanti, in merito ad aspetti fondamentali della materia, come p.es. la nozione di impianto o il regime delle attività agricole.

In questo quadro, secondo la relazione, la parte quinta del decreto si propone l’obiettivo di raccogliere e coordinare in un corpo normativo unitario tutte le norme in oggetto, e l’obiettivo di razionalizzare (anche adeguandoli all’attuale contesto tecnico-economico) i diversi orientamenti interpretativi stabilendo con precisione il campo di applicazione, le nozioni e gli adempimenti da porre in essere. Tutto ciò “in modo da offrire alle Amministrazioni e agli operatori di settore un quadro di attribuzioni e di adempimenti estremamente preciso e rispondente alle esigenze di certezza del diritto che la legge delega persegue”.

La stessa relazione illustrativa sottolinea poi che “le disposizioni di natura strettamente tecnica sono state inserite nei dieci allegati i quali potranno essere in qualsiasi momento modificati mediante appositi regolamenti o decreti ministeriali. Ciò consentirà in futuro di adeguare in modo rapido e flessibile al progresso tecnico e alle nuove acquisizioni tale normativa di dettaglio, ferme restando le norme di principio contenute negli articoli del provvedimento”.

Nel seguito si dà conto delle principali novità introdotte dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

Norme per la prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera di impianti e attività (Titolo I)

Campo di applicazione e definizioni

L’art. 267 prevede che le disposizioni del Titolo I si applicano, ai fini della prevenzione e della limitazione dell’inquinamento atmosferico, a tutti gli impianti, inclusi gli impianti termici civili non disciplinati dal titolo II[243], ed alle attività che producono emissioni in atmosfera e stabilisce i valori di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi delle emissioni ed i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite.

Sono invece esclusi dal campo di applicazione gli impianti di incenerimento dei rifiuti disciplinati dal d.lgs. 11 maggio 2005, n. 133 di recepimento della direttiva 2000/76/CE e gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale (AIA).

L’art. 268 contiene una raccolta eterogenea di definizioni che provengono in gran parte dalla normativa vigente. Un aspetto innovativo dell’articolo in esame è dato invece dall’introduzione di una nuova definizione di impianto diretta, secondo la relazione illustrativa, a “risolvere una serie di criticità emerse in merito all’interpretazione della definizione attuale”[244].

Autorizzazione alle emissioni in atmosfera

L’art. 269 condensa le varie norme procedimentali disseminate in numerosi articoli del DPR n. 203/1988 (si vedano in particolare gli articoli 6, 7, 8, 9 e 15) provvedendo ad una revisione e semplificazione della disciplina autorizzatoria.

Le principali novità recate dall’articolo in esame riguardano, infatti:

§      l’introduzione (comma 3), ai fini del rilascio dell’autorizzazione, dell’obbligo di convocazione (entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta) di una conferenza di servizi. Contestualmente viene abolito l’obbligo di acquisizione, da parte della Regione, del parere del Sindaco del Comune di ubicazione dell’impianto.

Si fa notare che la nuova procedura prevista contempla tempi più lunghi per il rilascio dell’autorizzazione, tuttavia il ricorso alla conferenza di servizi dovrebbe in realtà consentire un esame contestuale di tutti gli interessi coinvolti semplificando così l’iter procedurale e garantendo tempi certi[245].

§      la specificazione (prevista dal comma 4) dei contenuti dell’autorizzazione, che deve stabilire (oltre alla tempistica e ai controlli per la messa a regime dell’impianto, che il comma 5 riprende dalla legislazione vigente):

a)  per le emissioni tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e di convogliamento ai sensi dell’art. 270;

b)  per le emissioni convogliate (o di cui è stato disposto il convogliamento), i valori limite di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi, i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite e la periodicità dei controlli di competenza del gestore ai sensi dell’art. 271;

Si fa notare che tale contenuto riprende, nella sostanza, quanto previsto dalla normativa recata dal DPR n. 203/1988 e dai relativi decreti interpretativi e attuativi.

c)  per le emissioni diffuse, apposite prescrizioni finalizzate ad assicurarne il contenimento, sempre ai sensi dell’art. 271.

§      l’introduzione (prevista dal comma 7) di una durata fissa (15 anni) per le autorizzazioni. Viene altresì previsto che l’istanza di rinnovo sia presentata almeno un anno prima della scadenza e che nelle more dell’adozione del provvedimento sulla domanda di rinnovo l’esercizio dell’impianto possa continuare, anche dopo la scadenza dell’autorizzazione, in caso di mancata pronuncia entro i termini del Ministero dell’ambiente a cui sia stato richiesto di provvedere ai sensi del comma 3.

Tale disposizione viene motivata nella relazione illustrativa con il fine di “garantire un aggiornamento periodico e uniforme sul territorio nazionale, degli impianti e delle attività alle migliori tecniche disponibili”.

Si ricorda che il DPR n. 203 del 1988 non prevedeva alcuna scadenza, da cui discendeva una durata illimitata dell’autorizzazione sino all’intervento di una modifica sostanziale dell'impianto o al trasferimento dello stesso in altra località.

Si rammenta, tuttavia, che l’art. 11 del medesimo DPR prevedeva che “le prescrizioni dell'autorizzazione possono essere modificate in seguito all'evoluzione della migliore tecnologia disponibile, nonché alla evoluzione della situazione ambientale”.

Sul punto si ricorda, inoltre, che le associazioni ambientaliste hanno sottolineato, nell’ambito del dibattito connesso all’espressione del parere delle Camere, che una tale durata “appare in contrasto“[246] con il quadro generale della normativa europea sull’ambiente. Infatti, giova ricordare che le autorizzazioni integrate ambientali (direttiva 1996/61 e decreti attuativi) sono rilasciate per 8 anni nel caso di stabilimenti registrati EMAS, per 6 anni per quelli registrati ISO 14001, e per 5 anni in tutti gli altri casi. La stessa cosa vale per le discariche e per gli scarichi idrici, per i quali nei casi ordinari tutte le autorizzazioni valgono per 5 e 4 anni, rispettivamente”.

Del resto la lettera n) del comma 8 dell’art. 1 della legge delega prevede proprio l’introduzione di “agevolazioni amministrative negli iter autorizzativi e di controllo per le imprese certificate secondo le predette norme EMAS o in base al citato regolamento (CE) n. 761/2001”.

§      l’introduzione (prevista dal comma 8) di una procedura per l’aggiornamento dell’autorizzazione in caso di modifica (sostanziale o meno) dell’impianto (anche relativa alle modalità di esercizio o ai combustibili utilizzati), che si attiva con l’obbligo (in capo al gestore dell’impianto) di comunicazione delle modifiche all’autorità competente.

Convogliamento delle emissioni

L’art. 270 introduce nell’ordinamento criteri specifici per:

§         il convogliamento delle emissioni diffuse;

§         il convogliamento delle emissioni provenienti da uno o più impianti;

§         l’applicazione dei valori limite in funzione dei punti di emissione delle emissioni convogliate.

In particolare il comma 5 dispone che di norma, in caso di emissioni convogliate o di cui è stato disposto il convogliamento, ciascun impianto deve avere un solo punto di emissione.

Valori limite di emissione

I limiti di emissione fissati dalla normativa previgente, trasposti nell’Allegato I, vengono confermati (dall’art. 271, comma 1) solo per gli impianti anteriori al 1988[247] e per gli impianti previsti dal comma 14 dell’art. 269 (indipendentemente dall’anno di costruzione o autorizzazione), cioè impianti di combustione “ad inquinamento atmosferico poco significativo”, ad eccezione di quelli indicati alla lettera d)[248].

Per gli impianti nuovi e per quelli anteriori al 2006[249], invece, il comma 2 prevede l’emanazione, entro un anno dall’entrata in vigore della parte quinta in esame, di un decreto interministeriale finalizzato all’integrazione dell’Allegato I.

Viene inoltre previsto (comma 2, secondo periodo) che il medesimo decreto provveda ad aggiornare l’Allegato I.

L’art. 271, comma 9, nonché l’art. 281, comma 10, prevedono poi la possibilità di stabilire valori limite inferiori nei seguenti casi:

§         in sede di rinnovo dell’autorizzazione, sulla base delle MTD e di un’analisi costi-benefici;

§         per le zone di particolare pregio naturalistico;

§         in presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che richiedano una particolare tutela ambientale .

In tal caso viene consentito alle regioni e alle province autonome di stabilire, con provvedimento generale, previa intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e con il Ministro della salute, per quanto di competenza, “valori limite di emissione e prescrizioni, anche inerenti le condizioni di costruzione o di esercizio degli impianti, più severi di quelli fissati dagli allegati al presente titolo, purché ciò risulti necessario al conseguimento dei valori limite e dei valori bersaglio di qualità dell’aria”.

Grandi impianti di combustione

Gli artt. 273-274 provvedono al recepimento della direttiva 2001/80/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2001 concernente la limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione.

In particolare, l’art. 273 fa rinvio all’Allegato II della parte V del decreto per l’individuazione dei valori limite di emissione e disciplina le modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni e i criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché le ipotesi di anomalie e guasti. Il citato Allegato II adegua le disposizioni previgenti, previste dal DM 8 maggio 1989 (recante Limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione) a quelle più aggiornate dettate dalla direttiva 2001/80/CE[250].

Per gli impianti esistenti, l’applicazione dei limiti di emissione previsti dall’Allegato II viene prevista a decorrere dal 1° gennaio 2008 (art. 273, commi 3-4). Tale data corrisponde al termine di vigenza dei limiti previsti dalla direttiva 88/609/CE, nonché al termine imposto agli Stati membri dalla direttiva (art. 4, par. 3 e art. 17, par. 2) per ottenere una riduzione significativa dei valori limite delle emissioni.

 

Disciplina degli impianti termici civili (Titolo II)

Campo di applicazione e definizioni

L’art. 282 prevede che le disposizioni del Titolo II si applicano, ai fini della prevenzione e della limitazione dell’inquinamento atmosferico, agli impianti termici civili aventi potenza termica nominale inferiore alle pertinenti soglie stabilite dall’articolo 269, comma 14.

Si fa notare che nella relazione illustrativa allo schema presentato alle Camere per il parere, il Governo ha evidenziato il carattere innovativo di tale disposizione volta ad individuare in modo puntuale soglie di potenza “stabilite in funzione della tipologia di combustibile utilizzato, al di sopra delle quali gli impianti termici civili ricadono nella disciplina del titolo I”.

Nella medesima relazione viene evidenziato che la disciplina recata dal presente titolo “rimane distinta, per tipo di adempimenti e finalità, da quella recentemente introdotta, con riferimento agli impianti termici civili, dal decreto legislativo n. 192 del 2005[251] con il quale non sussistono pertanto rischi di sovrapposizioni o di incompatibilità”.

 

Per quanto riguarda le definizioni, si segnalano le nuove nozioni di “impianto termico” e “impianto termico civile” che, secondo quanto affermato dal Governo nella relazione illustrativa, vengono introdotte per “dirimere le incertezze che emergono nell’attuale disciplina di settore”.

In particolare la definizione adottata chiarisce che per impianto termico civile si intende l’impianto la cui produzione di calore è destinata, anche in edifici ad uso non residenziale, esclusivamente a:

§          riscaldamento o climatizzazione di ambienti;

§          riscaldamento di acqua per usi igienici e sanitari.

 

Nella relazione illustrativa si sottolinea che tale definizione consente di “superare l’attuale incertezza dell’ordinamento che definisce alcuni impianti alternativamente come civili o come industriali (ristorazione, forni per il pane, ecc.)

Si ricorda, in proposito, che ai sensi dell’art. 2, comma 2, del DPCM 8 marzo 2002[252], rientrano negli impianti termici civili “quelli aventi le seguenti destinazioni d'uso:

a) riscaldamento o climatizzazione di ambienti;

b) riscaldamento di acqua calda per utenze civili;

c) cucine, lavaggio stoviglie, sterilizzazione e disinfezione mediche;

d) lavaggio biancheria e simili;

e) forni da pane;

f) mense ed altri pubblici esercizi destinati ad attività di ristorazione”.

Installazione o modifica dell’impianto

L’art. 284 introduce un’apposita denuncia di installazione o modificadell’impianto destinata, secondo quanto affermato nella relazione illustrativa, “a sostituire la procedura autorizzativa prevista, sia pure per alcune zone del territorio nazionale, dalla legge n. 615 del 1966”.

Nella medesima relazione si legge che la norma in commento avrebbe il “fine di semplificare i procedimenti amministrativi a carico dei privati cittadini e delle aziende e di alleggerire il carico amministrativo degli enti locali”.

Tale denuncia deve essere redatta dall’installatore in base al modulo previsto nella parte I dell’Allegato IX ma limitatamente agli impianti aventi potenza termica nominale superiore al valore di soglia indicato dall’art. 283, comma 1, lettera g), cioè 0,035 MW.

Si ricorda, in proposto, che tale valore di soglia è già previsto dalla normativa vigente all’art. 6, comma 3, del DPCM 8 marzo 2002 ed equivale alla citata soglia di 30.000 Kcal/h prevista dalla legge n. 615/1966[253].

Limiti di emissione e caratteristiche tecniche

Gli artt. 285 e 286, rimandano, rispettivamente, alle parti II e III dell’Allegato IX (che ripropongono nella sostanza la normativa vigente) per l’individuazione delle caratteristiche tecniche e dei limiti di emissione che devono essere rispettati dagli impianti termici aventi potenza termica nominale superiore al valore di soglia (0,035 MW), nonché per i metodi di campionamento, analisi e valutazione delle emissioni (commi 1 e 3).

I commi 2 e 4 dell’art. 286 dettano specifiche disposizioni per il controllo delle emissioni da effettuarsi:

§         all’atto dell’installazione o della modifica da parte dell’installatore[254];

§         almeno annualmente, all’atto delle normali operazioni di controllo e manutenzione da parte del responsabile dell’esercizio e della manutenzione dell’impianto;

 

Disciplina dei combustibili (Titolo III)

Le norme recate dal titolo III non recano novità significative, ma si limitano a trasporre quanto disposto dalle norme previgenti.

Campo di applicazione

L’art. 291 assoggetta alle disposizioni del presente titolo i seguenti combustibili:

§         combustibili utilizzati negli impianti di cui al titolo I;

§         combustibili utilizzati negli impianti di cui al titolo II, inclusi gli impianti termici civili di potenza termica inferiore al valore di soglia (0,035 MW);

§         gasolio marino.

Combustibili consentiti

L’art. 293 stabilisce, con un rinvio all’Allegato X, le caratteristiche merceologiche e le condizioni di utilizzo dei combustibili rientranti nel campo di applicazione del presente titolo.

Tali norme riprendono il contenuto dell’articolato e degli allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002.

 

Il riordino del diritto ambientale –Novità in materia di rifiuti e bonifiche

Con l’emanazione del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il Governo, sulla base della delega ricevuta con la legge n. 308/2004, ha provveduto a riscrivere interamente il decreto Ronchi (che costituiva una sorta di legge quadro del settore), nonché all’accorpamento di altre numerose disposizioni in materia che ora si trovano raccolte in un unico testo, all’interno della Parte quarta del citato decreto.

Di seguito si dà conto delle innovazioni maggiormente rilevanti introdotte dal decreto n. 152/2006 in relazione alle principali tematiche di cui si compone la materia dei rifiuti e delle bonifiche dei siti inquinati. Nel dare conto delle novità recate dal decreto n. 152 si riportano le eventuali iniziative legislative intraprese in precedenza nel corso della XIV legislatura, riportate in appositi box con sfondo grigio.

Definizioni e limiti al campo di applicazione

Con l’art. 183 del decreto il Governo ha provveduto ad una rimodulazione delle definizioni normative esistenti al fine del superamento del contenzioso e dei problemi applicativi (v. scheda La nozione di rifiuto).

In altre parti dello stesso decreto il Governo ha provveduto a raccogliere disposizioni vigenti volte a consentire specifiche esclusioni dal regime normativo dei rifiuti.

In particolare si ricordano le disposizioni sul combustibile da rifiuti (CDR) di qualità elevata e quelle sui rottami ferrosi riprese dai commi 25-31 della legge delega, o ancora la disciplina sulle terre e rocce da scavo, ora riprodotta dall’art. 186 del d.lgs. n. 152/2006.

 

Terre e rocce da scavo

L’art. 1, commi 17-19, della legge n. 443/2001 (cd. legge obiettivo) ha introdotto una norma di interpretazione autentica del comma 3, lettera b), dell'articolo 7 e del comma 1, lettera f-bis) dell'articolo 8 del decreto Ronchi, al fine di sottrarre le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, dal campo di applicazione del medesimo decreto, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione.

Tale norma ha suscitato, tuttavia, dubbi e perplessità[255], motivo per cui è stata modificata dal successivo art. 23 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (comunitaria 2003), che ha precisato ed integrato le condizioni e le procedure amministrative da rispettare per poter utilizzare le terre e rocce da scavo al di fuori del regime dei rifiuti.

Infine l’art. 23-octies del DL 24 dicembre 2003 n. 355 (cd. milleproroghe) ha differito al 31 dicembre 2004 l’applicazione del citato art. 23 della legge n. 306/2003, per i lavori in corso alla data del 30 novembre 2003.

La disciplina ora inserita nell’art. 186 del d.lgs. n. 152/2006 traspone sostanzialmente le norme appena citate in materia di terre e rocce di scavo, introdotte nel corso della XIV Legislatura[256], e demanda ad un successivo decreto del Ministero dell’ambiente l’adozione di nuovi limiti massimi di concentrazione degli inquinanti[257].

Combustibile derivato dai rifiuti (CDR)

Nel corso della XIV legislatura sia il Governo che il Parlamento, nell’ottica di incentivare il recupero di energia dai rifiuti, quale opzione preferibile – in accordo con la gerarchia comunitaria di gestione dei rifiuti[258] – allo smaltimento in discarica, hanno emanato diverse disposizioni volte ad integrare la definizione della natura del CDR.

Si ricorda, in proposito, che l’art. 6, comma 1, lettera p), definisce il CDR come “il combustibile ricavato dai rifiuti urbani mediante trattamento finalizzato all'eliminazione delle sostanze pericolose per la combustione ed a garantire un adeguato potere calorico, e che possieda caratteristiche specificate con apposite norme tecniche”[259].

Il primo intervento in materia è stato introdotto dall'art. 7, comma 11, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 452 che ha novellato il decreto Ronchi, provvedendo all’inserimento del CDR nel novero dei rifiuti speciali recato dall’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 22/1997[260].

Sul piano pratico, il principale effetto ricollegabile a questa nuova classificazione del CDR ha riguardato essenzialmente una maggiore libertà di circolazione sul territorio nazionale.

Un’ulteriore incentivo all’utilizzo del CDR è successivamente venuto dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 387/2003 (v. capitolo Energie rinnovabili) che ha ammesso a beneficiare del regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili i rifiuti, ivi compresi i combustibili derivati dai rifiuti, sia “a norma” che “di qualità” (cioè conforme alle norme tecniche UNI 9903-1).

Con l’art. 1, comma 29, lettera b), della legge n. 308/2004 (cd. delega ambientale), infine, si è ulteriormente agevolato l’utilizzo del CDR “di qualità” che è stato escluso, a certe condizioni, dalla normativa sui rifiuti.

La lettera b) del citato comma 29 ha infatti aggiunto la lettera f-quinquies) all’art. 8 del decreto Ronchi, che elenca le esclusioni dal campo di applicazione del decreto stesso. In particolare l’esclusione riguarda il “combustibile ottenuto dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi, come descritto dalle norme tecniche UNI 9903-1 (RDF[261] di qualità elevata), utilizzato in co-combustione […] in impianti di produzione di energia elettrica e in cementifici, come specificato nel DPCM 8 marzo 2002”.

Lo stratificarsi delle norme citate ha dato adito a numerosi dubbi circa l’interpretazione della definizione di CDR (recata dall’art. 6 del decreto Ronchi) nel mutato contesto normativo. Tali dubbi sono stati recentemente fugati dalla sentenza della Cassazione penale, sez. III, 2 maggio 2005, n. 16351[262], secondo cui non può affermarsi che il CDR sia solo quello ottenuto dai rifiuti urbani, “come è dimostrato anche dalla evoluzione successiva della normativa nazionale (legge 179/2002 che ha inserito il CDR quale combustibile senza il riferimento esclusivo ai rifiuti urbani e il DPR 15-7-2003 n. 254 art. 9 che consente la utilizzazione dei rifiuti sanitari[263] (rifiuti speciali) per produrre combustione ed energia)”. Del resto “anche in sede comunitaria è pacifica la stessa evoluzione, come risulta dalla Decisione 2001/118/CE, che ha aggiornato il Catalogo Europeo dei Rifiuti[264], inserendo espressamente quello dei "rifiuti combustibili" non riferito ai soli rifiuti urbani (Codice 19-12-10)”.

La disciplina introdotta dalla legge delega è stata trasposta nell’art. 229, ove viene operato un coordinamento con le norme agevolative previste in materia dal d.lgs. n. 387/2003 per l’incentivazione delle fonti rinnovabili di energia (v. capitolo Energie rinnovabili).

Rottami ferrosi e non ferrosi

I commi 25-29 dell’art. 1 della legge n. 308/2004 hanno introdotto alcune disposizioni volte ad agevolare l’utilizzo dei rottami ferrosi e non ferrosi, prevedendone – tra l’altro – l’esclusione dal regime normativo sui rifiuti.

Si ricorda, in proposito, che la movimentazione di tali materiali determinò, in seguito ad una serie di sequestri, l’intervento normativo del Governo che introdusse un’interpretazione autentica (con l’art. 14 del D.L. n. 138/2002) della nozione di rifiuto foriera di un intenso dibattito normativo-giurisprudenziale (v. scheda La nozione di rifiuto).

In particolare i commi citati hanno, tra l’altro:

§         previsto l’introduzione, all’art. 6, comma 1, del “decreto Ronchi”, della lettera q-bis) che provvede all’individuazione delle caratteristiche e delle tipologie di rottami che, derivanti da operazioni di recupero o come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo, sono definibili come materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche (comma 29, lettera a);

§         stabilito le modalità affinché tali rottami siano sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti (comma 26);

§         stabilito (al comma 27), per i rottami ferrosi e non ferrosi provenienti dall’estero, che essi siano riconosciuti a tutti gli effetti come materie prime secondarie derivanti da operazioni di recupero se dichiarati come tali da fornitori o produttori di Paesi esteri iscritti nell’apposita sezione speciale (istituita dal comma 28) dell'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti.

Tali disposizioni sono state riprese nel d.lgs. n. 152/2006, in particolare dall’art. 183, comma 1, lettera u), che reca la definizione di “materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche la cui utilizzazione è certa e non eventuale[265]”.

Altre esclusioni

Altre esclusioni dal regime normativo dei rifiuti dettato dal decreto Ronchi sono state introdotte, nel corso della XIV legislatura, dai seguenti provvedimenti:

§         l’art. 1 del D.L. n. 22 del 2002 recante Disposizioni urgenti per l'individuazione della disciplina relativa all'utilizzazione del coke da petrolio (pet-coke) negli impianti di combustione[266], che ha escluso dal novero dei rifiuti il coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo

§         l’art. 23 della legge n. 179 del 2002 (cd. collegato ambientale) che ha disposto l'esclusione, dall'ambito di applicazione della normativa sui rifiuti, dei residui e delle eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione;

§         l’art. 1, comma 31, della legge n. 308/2004 che ha autorizzato il Ministro dell'ambiente ad apportare le modifiche e integrazioni al D.M. 5 febbraio 1998, finalizzate a consentire il riutilizzo della lolla di riso, affinché non sia considerata come rifiuto derivante dalla produzione dell'industria agro-alimentare.

Le prime due esclusioni citate sono ora rinvenibili nell’art. 185, comma 1, rispettivamente alle lettere i) ed f) del d.lgs. n. 152/2006.

Accordi di programma

La disciplina degli accordi di programma (nonché dei contratti di programma e dei protocolli d’intesa) contenuta nel d.lgs. n. 152/2006 risulta più articolata e dettagliata rispetto a quella del decreto Ronchi, evidenziando l’intenzione del Governo di favorire l’utilizzo di questo strumento consensuale di gestione dei rifiuti da parte delle amministrazioni competenti.

Per promuovere concretamente il ricorso agli accordi di programma, viene riconosciuta per la prima volta la necessità di individuare (e di ciò vengono investiti i Ministeri dell’ambiente e delle attività produttive) risorse finanziare da destinare alla loro conclusione ed attuazione.

Accanto alle disposizioni generali recate dall’art. 206, si segnalano per il loro carattere di specialità gli accordi di programma disciplinati dall’art. 181, commi 4-11, finalizzati a favorire il recupero dei rifiuti in tutte le sue forme, nonché l’utilizzo di materie prime secondarie, combustibili e prodotti ottenuti dal riciclaggio dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata. Tali accordi:

§         attuano le disposizioni normative previste dalla Parte IV del decreto legislativo (ossia quelle in materia di gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati), nel rispetto dei principi e dei criteri previsti dalle norme comunitarie e nazionali;

§         stabiliscono semplificazioni in materia di adempimenti amministrativi, nel rispetto delle norme comunitarie e nazionali;

§         possono ricorrere a strumenti economici;

§         sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e aperti all’adesione di altri soggetti interessati.

Servizio di gestione dei rifiuti

Gli articoli 201-203 del d.lgs. n. 152/2006 introducono importanti novità in materia di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti.

Analogamente a quanto previsto dal decreto Ronchi, anche il decreto n. 152 prevede che la gestione dei rifiuti venga organizzata - di regola - all’interno di un “ambito territoriale ottimale” (ATO), che si identifica nel decreto Ronchi con la provincia ed è invece determinato dalla legge regionale in base al decreto n. 152.

Il primo elemento di novità riguarda invece la costituzione – sulla base di alcune esperienze già realizzate dalla legislazione regionale[267] - di un’autorità d’ambito all’interno dell’ATO e la conseguente gestione integrata del servizio all’interno dell’ambito territoriale ottimale[268].

Si tratta dei cd. STUA (soggetti titolari unici dell’autorità d’ambito), soggetti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico (art. 201, comma 2) che dovranno essere costituiti dalle regioni entro sei mesi dall’entrata in vigore della parte quarta del decreto (art. 201, comma 1). Gli STUA saranno dotati di autonomia statutaria, regolamentare, finanziaria e organizzativa.

Gli STUA dovranno provvedere all’affidamento mediante gara del servizio di gestione integrata dei rifiuti (art. 202). Tale disposizione rappresenta un elemento di forte discontinuità con le norme previgenti, in quanto introduce una disciplina derogatoria rispetto a quella generale prevista dall’art. 113 del testo unico enti locali (TUEL), recato dal d.lgs. n. 267 del 2000, che non impone la gara quale unica modalità di affidamento.

Per quanto riguarda poi i rapporti fra STUA e soggetto affidatario, questi vengono regolati attraverso un contratto di servizio (il cui schema è disposto dall’art. 203).

Infine, l’art. 204 reca disposizioni transitorie relative alle gestioni esistenti.

Raccolta differenziata

L’articolo 205 interviene in materia di raccolta differenziata: l’intento generale delle innovazioni normative sembra essere quello di ampliare la nozione di raccolta differenziata (al fine di favorire il recupero energetico) e di introdurre meccanismi incentivanti in tal senso (art. 205, comma 3). Infatti, si osserva che le seguenti disposizioni devono essere lette insieme alla nuova definizione di raccolta differenziata, recata dall’art. 183, comma 1, lettera f), dove appare chiaro l’intento di ricomprendere nel concetto di raccolta differenziata anche la cd. raccolta “multimateriale”, con differenziazione effettuata non alla raccolta, ma al momento della lavorazione.

L’art. 205, comma 1, ridefinisce gli obiettivi percentuali minimi relativi alla raccolta differenziata che devono essere raggiunti negli ATO alle scadenze temporali fissate, che vengono aumentati – per gli anni a venire – rispetto a quelli previsti dal decreto Ronchi.

L’art. 205 prevede, infatti, il raggiungimento dei seguenti obiettivi minimi:

§         35% entro il 31 dicembre 2006;

§         45% entro il 31 dicembre 2008;

§         65% entro il 31 dicembre 2012.

Si ricorda, in proposito, che nel decreto n. 22/1997 l’obiettivo più ambizioso era pari al 35%, da raggiungersi a partire dal sesto anno successivo alla data di entrata in vigore del decreto (quindi dal 2003).

 

L’art. 205 prevede inoltre che al raggiungimento dei citati obiettivi contribuisca anche la frazione organica umida[269] separata fisicamente dopo la raccolta e finalizzata al recupero complessivo tra materia ed energia.

In caso di mancato conseguimento degli obiettivi minimi a livello di ATO, il comma 3 dell’art. 205 prevede l’applicazione di una addizionale del 20% al tributo di conferimento dei rifiuti in discarica[270] a carico dell’Autorità d’ambito, che la ripartisce tra i Comuni del proprio territorio sulla base delle quote di raccolta differenziata raggiunte nei singoli Comuni.

Il comma 6 prevede poi che le regioni, tramite apposita legge regionale, e previa intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, possano indicare maggiori obiettivi di riciclo e recupero.

Autorità di vigilanza

L’articolo 207 prevede che le funzioni già esercitate dall’Osservatorio nazionale dei rifiuti siano esercitate dall’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, istituita dall’art. 159.

L’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti ha il compito di assicurare l’osservanza, da parte di tutti i soggetti pubblici e privati, dei principi e delle disposizioni dettate dal decreto n. 152/2006 in materia di risorse idriche e di rifiuti ed è il risultato dell’accorpamento[271]:

§         del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche istituito dall’art. 21 della legge n. 36/1994 (che diventa la Sezione per la vigilanza sulle risorse idriche)

§         dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti istituito dall’art. 26 d.lgs. n. 22/1997 (che diventa la Sezione per la vigilanza sui rifiuti).

 

Nonostante il lungo elenco di compiti riportato dall’art. 160, tra cui figura anche quello di assicurare “l’osservanza dei principi e delle regole della concorrenza” (lettera a) del comma 1), il sistema di norme recato dall’art. 159 e seguenti sembra prefigurare un’autorità di controllo e vigilanza, e non un’autorità di regolamentazione e coordinamento o di tutela della concorrenza e del mercato[272].

Con riferimento poi all’impianto organizzativo previsto dagli articoli 159-161 si fa notare che esso ripropone in ambito nazionale quanto già previsto a livello regionale dagli artt. 20-22 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 25/1999 come modificata dalla legge regionale n. 1/2003.

Autorizzazioni e iscrizioni

L’innovazione principale dal punto di vista autorizzativo sembra essere quella recata dall’articolo 208 in merito alla procedura prevista per l’ottenimento dell’autorizzazione alla realizzazione e la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti.

In primo luogo, si osserva che il comma 12 dell’art. 208 prevede l’estensione a 10 anni (rispetto ai 5 anni previsti dall’art. 28, comma 3 del decreto legislativo n. 22/1997) della validità dell’autorizzazione.

Una seconda innovazione consiste nel fatto che due procedure vengono accorpate: non vi è più una procedura per l’autorizzazione degli impianti e una distinta per l’esercizio degli stessi, ma un’unica procedura che si conclude – fermi restando i termini previsti per la conclusione della VIA - entro 150 giorni dall’avvio della procedura con il rilascio di un’autorizzazione unica per la realizzazione e la gestione.

Un’altra novità riguarda la previsione, in linea con quanto previsto dal decreto legislativo n. 59 del 2005 in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA), di una procedura – che ricalca quella normale - per le modifiche sostanziali dell’impianto che incidono sull’autorizzazione.

Si segnala, inoltre, l’articolo 209, che prevede una procedura speciale per il rinnovo delle autorizzazioni di imprese in possesso di specifiche certificazioni ambientali (EMAS, Ecolabel, UNI EN ISO 14001), in linea con una tendenza normativa oramai consolidata[273], e gli artt. 210-211 che disciplinano casi particolari di autorizzazioni.

Imballaggi

Vengono introdotte una serie di novità relativamente alla disciplina degli imballaggi, la maggior parte delle quali ha la finalità di adeguare la disciplina italiana in materia alla direttiva 2004/12/CE, che ha apportato modifiche alla precedente direttiva 94/62.

La prima novità è contenuta nell’articolo 217, il quale specifica al comma 2 che “gli operatori  delle rispettive filiere degli imballaggi nel loro complesso garantiscono, secondo i principi della responsabilità condivisa che l’impatto ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sia ridotto al minimo possibile per tutto il ciclo di vita.”

L’art. 218 introduce nuove definizioni, tra le quali quella di “accordo volontario”, che è presente nelle direttive europee, quale “accordo formalmente concluso tra le pubbliche amministrazioni competenti e i settori economici interessati, aperto a tutti i soggetti interessati, che disciplina i mezzi, gli strumenti e le azioni per raggiungere gli obiettivi di cui all’articolo 220”.

L’art. 220, al fine dell’adeguamento alla nuova normativa comunitaria, provvede alla rideterminazione - attraverso il richiamo all’Allegato E - degli obiettivi di recupero e di riciclaggio da conseguire entro il 31 dicembre 2008.

La tabella seguente mette a confronto gli obiettivi fissati dalla nuova direttiva 2004/12/CE (e adottati dal d.lgs. n. 152/2006) con quelli precedentemente indicati dalla direttiva 94/62/CE (e recepiti con il decreto Ronchi[274]) e con i risultati raggiunti nel corso del 2004 nel nostro Paese:

 

Obiettivi

D.lgs. 22/97

D.lgs. 152/06

Risultati 2004[275]

Obiettivo globale di recupero

min. 50%

max. 65%

min. 60%

62,6%

Obiettivo globale di riciclo

min. 25%

max. 45%

min. 55%

max. 80%

53,7%

Obiettivi minimi di riciclo per materiale:

acciaio

carta

vetro

legno

alluminio

plastica

15%

50%

60%

60%

15%

50%

22,5%

54,5%

62,4%

56,2%

59,7%

45,5%

24,8%

 

La tabella evidenzia come il sistema di gestione italiano, affidato al Consorzio nazionale imballaggi (vedi infra), non sia lontano dai nuovi obiettivi. Lo stesso consorzio dichiara[276] che, alla luce dei dati di consuntivo del 2004 comunicati dai singoli Consorzi, “tale risultato appare raggiungibile dall’attuale struttura consortile”.

Si segnala, inoltre, la disposizione recata dal comma 3 dell’art. 220, secondo cui le pubbliche amministrazioni e i gestori incoraggiano, per motivi ambientali o in considerazione del rapporto costi-benefici, il recupero energetico ove esso sia preferibile al riciclaggio, purché non si determini uno scostamento rilevante rispetto agli obiettivi nazionali di recupero e di riciclaggio.

Consorzi

Le novità principali introdotte dal decreto legislativo n. 152/2006 relativamente alla disciplina dei consorzi riguardano:

§         la transizione da un regime di obbligatorietà ad un regime di volontarietà per l’adesione ai consorzi, nel rispetto del criterio dettato dalla legge delega (art. 1, comma 9, lettera a). In particolare vengono estese a tutti i consorzi le disposizioni previste per i Consorzi di filiera degli imballaggi che prevedono, quale alternativa all’adesione ad uno dei consorzi, l’organizzazione autonoma della gestione - o ancora, nel caso del POLIECO o del CONAI, la previsione di un sistema di restituzione - previo riconoscimento del sistema alternativo adottato da parte dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti.

Si ricorda, in proposito, che l’art. 1, comma 9, lettera a), della legge n. 308/2004 ha previsto, quale criterio di delega specifico in materia di rifiuti, proprio “l'eventuale transizione dal regime di obbligatorietà al regime di volontarietà per l'adesione a tutti i consorzi costituiti ai sensi del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.

§         la possibilità di istituire più di un consorzio, ogni qualvolta il decreto Ronchi ne prevede solamente uno, ad eccezione del CONAI, che rimane unico. Nel settore degli imballaggi tuttavia la pluralità di soggetti riguarda i “sottostanti” consorzi di filiera.

 

Le modifiche principali previste dal presente decreto sembrano dunque orientate ad introdurre per tutti i consorzi un regime concorrenziale lasciando agli operatori la facoltà di costituire più consorzi per il recupero dello stesso tipo di rifiuto o di non aderirvi affatto, mettendo in atto un’organizzazione autonoma.

Nella relazione illustrativa presentata alle Camere per il parere il Governo has sottolineato che le norme dettate corrispondono alla “necessità di garantire la concorrenzialità ed economicità nella gestione del sistema”.

Si ricorda, in proposito, che tale esigenza è stata riconosciuta anche dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha deliberato, in data 22 marzo 2005, di procedere ad un'indagine conoscitiva di natura generale nel settore dei rifiuti da imballaggio, comprensivo dei segmenti relativi a ciascuno dei consorzi di filiera[277].

 

Si rammenta, inoltre, che per quanto riguarda il CONAI, una delle novità principali risiede nell’introduzione (recata dall’art. 224, comma 3, lettera h) e comma 8), di una disciplina chiara e dettagliata relativa al contributo ambientale CONAI.

Inoltre il decreto, oltre a confermare la facoltà per il CONAI di stipulare un accordo di programma quadro su base nazionale con l’ANCI[278] (a cui vengono affiancate, dall’art. 224, comma 5, l’Unione delle Province Italiane o le Autorità d’ambito), amplia le possibilità di stipulare accordi volontari.

 

Nel corso della XIV legislatura sono stati emanati diversi provvedimenti volti a risolvere alcune problematiche gestionali dei consorzi per il recupero e il riciclaggio dei rifiuti nonché a disciplinare il trattamento (anche fiscale) degli stessi rifiuti gestiti dai consorzi.

 

Imballaggi

L’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (cd. collegato ambientale) ha apportato diverse modifiche alla disciplina recata dal decreto “Ronchi” con riferimento ai consorzi. Si segnalano, in particolare, l’esonero per tutti i consorzi obbligatori:

§         dalla tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti (disposizione confermata dall’art. 190, comma 8, del d.lgs. n. 152/2006);

§         dall’obbligo di iscrizione all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei rifiuti istituito ai sensi dell'art. 10 del decreto-legge 31 agosto 1987, n. 361[279] (disposizione confermata dall’art. 212, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006).

 

Batterie al piombo esauste e rifiuti piombosi

L’art. 15 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001) ha modificato l'art. 9-quinquies, comma 6, del decreto-legge n. 397/1988 (istitutivo del COBAT[280]) per conformarsi alle osservazioni sollevate nella Raccomandazione della Commissione europea del 21 maggio 2001, che invitava lo Stato italiano a superare le restrizioni all’esportazione di batterie al piombo esauste verso altri Stati membri dell’Unione.

Si ricorda, relativamente alla disciplina delle batterie esauste, l’emanazione del DM attività produttive 3 luglio 2003, n. 194 Regolamento concernente l'attuazione della direttiva 98/101/CE della Commissione del 22 dicembre 1998, che adegua al progresso tecnico la direttiva del Consiglio 91/157/CEE relativa alle pile ed agli accumulatori contenenti sostanze pericolose.

 

Beni in polietilene

Nel corso della XIV legislatura il Governo è intervenuto in più occasioni per differire i termini per l’adesione al POLIECO[281] e per l’applicazione delle relative sanzioni (dapprima con l’art. 1, comma 2, del D.L. 16 luglio 2001, n. 286, poi con l’art. 10 del D.L. n. 355/2003) di fronte alle problematiche operative riscontrate nell’avvio del sistema consortile.

 

Oli usati

L’art. 7 del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 452[282] ha introdotto (con decorrenza 1° ottobre 2002) un contributo di riciclaggio e di risanamento ambientale a carico dei soggetti che immettono in consumo oli lubrificanti, in sostituzione dell’imposta di consumo sugli oli lubrificanti (soppressa dall’art. 6 del medesimo decreto).

Il medesimo articolo ha demandato ad un regolamento ministeriale la definizione dei requisiti per la ripartizione ed erogazione da parte del COOU[283] delle somme in favore dei soggetti che svolgono l'attività di rigenerazione in ragione della qualità e quantità dei prodotti ottenuti.

Tariffa rifiuti

L’art. 238 del d.lgs. n. 152/2006 prevede l’istituzione di una nuova tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, quale corrispettivo per il servizio di raccolta, recupero e smaltimento[284] degli stessi, che andrà a sostituire, non appena saranno emanati tutti i relativi provvedimenti attuativi[285], la tariffa che attualmente può essere adottata in via sperimentale dai Comuni, in luogo della TARSU, ai sensi dell’art. 49 del decreto Ronchi.

Per quanto riguarda il presupposto applicativo, viene confermato – rispetto a quanto previsto dalla cd. tariffa Ronchi – che esso risiede nel possesso o detenzione di locali nei quali si producono rifiuti urbani, così come viene confermata la composizione della tariffa in una quota fissa, determinata in funzione ai costi sostenuti per gli investimenti, ed una quota variabile, rapportata invece alla quantità dei rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione.

I criteri generali da applicare per la determinazione della tariffa saranno determinati con apposito regolamento ministeriale, sulla base del quale la tariffa dovrà essere determinata, entro tre mesi dall’emanazione di quest’ultimo, dalle Autorità d’ambito (e non più dai Comuni, come invece previsto per l’attuale tariffa) e dovrà essere applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione.

Un’interessante novità rispetto, infine, è costituita dal fatto che l’importo dovuto sarà determinato anche in base a specifici parametri che dovranno tenere conto, tra l’altro, di “indici reddituali, articolati per fasce di utenza e territoriali” (comma 2).

 

Nel corso della XIV legislatura, nell’ambito delle sessioni di bilancio, è stato ripetutamente differito il passaggio dalla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) alla tariffa istituita dall’art. 49 del decreto legislativo n. 22/1997 (cd. decreto Ronchi).

L’ultima proroga[286] del termine di durata della fase di transizione è stata operata dall’art. 1, comma 134, della legge n. 266/2005 (finanziaria 2006), che ha aumentato da sei a sette anni (scadenti, quindi, al 1° gennaio 2007[287]) la durata massima della fase di transizione entro la quale i comuni che abbiano raggiunto nell'anno 1999 un grado di copertura dei costi superiore all'85 per cento [articolo 11, comma 1, lettera a), del D.P.R. n. 158 del 1999], sia quelli che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi tra il 55 e l'85 per cento [articolo 11, comma 1, lettera b), del medesimo decreto] sono tenuti a raggiungere la piena copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa.

Con il comma 340 dell’art. 1 della legge n. 311/2004 (finanziaria 2005) è stata modificata, invece, la disciplina vigente[288] relativa all’individuazione della superficie di riferimento della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) al fine di contrastare frequenti fenomeni di evasione[289].

In particolare il comma citato ha previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2005, per le unità immobiliari di proprietà privata a destinazione ordinaria censite nel catasto edilizio urbano, che la superficie di riferimento indicata nella denunzia presentata dai soggetti che occupano o detengono locali e aree soggette alla tassa non può essere inferiore all'80 per cento della superficie catastale determinata secondo i criteri stabiliti dal DPR 23 marzo 1998, n. 138.

Green public procurement

Il termine Green Public Procurement (GPP) designa una politica di acquisti verdi da parte della Pubblica amministrazione, che prevede quindi anche criteri ambientali e sociali nella scelta di prodotti o servizi.

Nel corso della XIV legislatura il Parlamento ha approvato diverse disposizioni finalizzate ad imporre alla P.A. quantitativi minimi di acquisti di materiale riciclato. In particolare si ricorda l’art. 52, comma 56, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (finanziaria 2002), come modificato dall'art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, che hanno novellato il decreto Ronchi introducendo l’obbligo, per gli uffici e gli enti pubblici, e le società a prevalente capitale pubblico, anche di gestione dei servizi, di coprire il fabbisogno annuale dei manufatti e beni indicati in apposito decreto ministeriale, con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo.

Disposizioni analoghe sono state introdotte dall’art. 52, comma 14, della medesima legge n. 448/2001 (obbligo per le P.A., nell’acquisto di pneumatici di ricambio, di ricorrere a quelli ricostruiti nella misura del 20% del totale) e dall’art. 1, comma 16, della legge n. 443/2001 (obbligo per gli uffici pubblici di coprire il fabbisogno di manufatti in plastica acquistando manufatti in plastica riciclata per almeno il 40% del fabbisogno stesso).

La necessità di adottare una strategia di green public procurement è stata evidenziata anche in sede europea nella comunicazione della Commissione europea del 27 maggio 2003 Verso una strategia tematica di prevenzione e riciclo dei rifiuti[290]. La stessa Commissione ha successivamente emanato una sorta di manuale sul GPP[291] recante le linee guida applicative per la P.A. Si ricorda, inoltre, che le nuove direttive sugli appalti pubblici (2004/17/CE e 2004/18/CE – v. scheda Le direttive appalti 2004/17/CE e 2004/18/CE) per il coordinamento delle procedure di acquisto e aggiudicazione prevedono specifici riferimenti e requisiti per l’adozione di criteri ambientali nella selezione e nell’aggiudicazione.

 

Al fine di consentire l’avvio effettivo di un sistema di acquisti verdi, in attuazione dell’art. 52, comma 56, della legge n. 448/2001, il Ministero dell’ambiente ha provveduto ad emanare il DM 8 maggio 2003, n. 203, che a sua volta ha richiesto – per la sua operatività - l’emanazione di numerose circolari esplicative per le differenti tipologie di beni e manufatti[292].

 

Il decreto legislativo n. 152 ridisegna il quadro normativo in materia di GPP nell'ambito degli articoli dedicati alle competenze dello Stato e delle Regioni, nonché al recupero dei rifiuti.

L'art. 195, comma 1, lettere i) ed s), include tale materia tra quelle di competenza statale, ma non indica alcuna percentuale minima di impiego di prodotti riciclati.

Il successivo art. 196, comma 1, lettera p), relativo alle competenze delle Regioni, riporta invece la percentuale del 30% di prodotti derivanti da processi di recupero originariamente prevista dal DM n. 203/2003.

Secondo alcuni[293] ciò potrebbe essere interpretato nel senso che la normativa sia applicabile solo ad appalti e forniture di competenza degli enti locali mentre per le altre stazioni appaltanti non vi sono particolari prescrizioni, salvo futuri provvedimenti legislativi.

Al fine di incentivare l'utilizzo di prodotti riciclati è previsto, inoltre, che le regioni inseriscano nei bandi di gara o di selezione apposite clausole di preferenza, mentre l'art. 181, comma 4, reca una previsione generica secondo cui le pubbliche amministrazioni promuovono e stipulano accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati o con le associazioni di categoria al fine di favorire l’utilizzo di prodotti ottenuti dal recupero dei rifiuti.

 

Bonifica dei siti inquinati

Gli articoli 239-253 contengono numerose disposizioni che innovano la procedura relativa alla bonifica dei siti inquinati.

Una prima rilevante modifica riguarda il fatto che vengono previste due differenti soglie di contaminazione, concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) e concentrazioni soglia di rischio (CSR), al superamento delle quali sono collegate specifiche azioni da intraprendere da parte del responsabile dell’inquinamento.

Secondo l’art. 242, che delinea le nuove procedure operative ed amministrative, il soggetto che cagiona un rischio di superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) deve adottare misure di prevenzione. L’obbligo di adozione di un vero e proprio piano di bonifica scatta solo nel caso in cui le autorità competenti verifichino il superamento dei valori di concentrazioni soglia di rischio dopo lo svolgimento di una procedura di analisi del rischio[294].

La disciplina previgente prevedeva, invece, nel momento in cui si verificava il superamento - anche accidentale - di determinati limiti (indicati nel D.M. n. 471 del 1999 che reca, all’Allegato 1, un elenco di concentrazioni limite accettabili per il suolo, il sottosuolo e le acque sotterranee) o nel caso vi fosse il pericolo attuale e concreto di superamento di tali limiti[295], che il responsabile approntasse un progetto per la bonifica, sottoposto all’approvazione del comune.

Si nota, altresì, che nella nuova procedura non viene fatto più riferimento al fatto che il cagionamento del rischio può essere anche accidentale. Inoltre, non vengono comprese le province nell’elenco dei soggetti a cui deve pervenire la comunicazione.

Vengono inoltre definite (commi 9-10 dell’art. 242) procedure apposite per gli interventi nei siti con attività in esercizio per cui è possibile effettuare una messa insicurezza operativa in attesa dell'intervento di bonifica che sarà effettuato al momento della cessazione dell'attività.

Procedure semplificate vengono poi previste dall’articolo 249 (che rinvia all’allegato IV) per le aree da bonificare di ridotte dimensioni.

Un’altra novità risiede nella previsione della redazione di un regolamento apposito per le aree agricole (articolo 241).

Un’importante novità riguarda poi le acque di falda emunte dalle falde sotterranee che - nell’ambito degli interventi di bonifica - possono essere scaricate direttamente, o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, in acque superficiali (art. 243).

L’articolo 246 prevede la possibilità, da parte dei soggetti responsabili (o di quelli comunque interessati), di stipulare con le amministrazioni competenti, accordi di programma per definire le modalità e i tempi di esecuzione degli interventi di bonifica.

 

Un’ultima novità riguarda la disciplina degli oneri reali e dei privilegi speciali.

Innanzitutto, nella nuova disciplina (articolo 253) non è più previsto che le spese sostenute per gli interventi di bonifica siano assistite da privilegio generale mobiliare. Inoltre, gli interventi di messa in sicurezza costituiscono onere reale solo nel caso in cui gli interventi siano effettuati d’ufficio.

Viene introdotta inoltre una norma, in base alla quale “il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.”

Infine, è previsto che in ogni caso, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito.

 

Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di VIA, VAS e IPPC

Le norme in materia di autorizzazioni ambientali recate dalla Parte Seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 introducono, per la prima volta, la disciplina legislativa sulla VAS (Titolo II), accorpano, in un unico testo, il disomogeneo quadro normativo sulla VIA (Titolo III), ed inseriscono, infine, alcune opportune norme di coordinamento tra VIA, VAS e IPPC (Titolo III, artt. 33 e 34).

Nel seguito si dà conto delle principali novità introdotte dal decreto legislativo.

Titolo I - Le norme generali

La trattazione unitaria della VAS e della VIA - non solo nelle norme generali, ma anche nei passaggi principali adottati per le due autorizzazioni - corrisponde alla stretta interdipendenza funzionale ed alla omogeneità dei due istituti che, a parte l’oggetto[296], hanno in comune i fondamentali connotati procedimentali e strutturali, nonché gli obiettivi generali.

Entrambi gli istituti integrano, infatti, le procedure esistenti di adozione o approvazione e di autorizzazione, rispettivamente, di piani/programmi o di opere/progetti (art. 4, commi 2 e 4) che possono avere ripercussioni ambientali rilevanti, avendo l’obiettivo comune di prevenire ed evitare, sin dall’inizio, inquinamenti ed altri danni all’ambiente a protezione della salute umana e della qualità della vita.

In entrambi i casi la valutazione ambientale presuppone l’acquisizione di informazioni adeguate ed il loro completamento da parte delle competenti autorità preposte alla tutela ambientale e del pubblico, attraverso apposite consultazioni.

Sono inoltre accomunate dalle conseguenze della violazione dell’obbligo della valutazione ambientale: in particolare risultano nulli, cioè privi di effetto, i provvedimenti di approvazione di piani/programmi o opere/progetti adottati senza la previa valutazione ambientale (art. 4, commi 3 e 5)

Nel tentativo di dare una sistematizzazione unitaria ed organica alle due materie, viene istituita anche un’unica nuova Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali (art. 6).

Essa sostituisce le tre Commissioni sulla VIA ordinaria, VIA speciale e per l’IPPC, con conseguente crescita del potenziale tecnico-scientifico della Commissione stessa, per una gestione delle tre diverse valutazioni/autorizzazioni (VAS, VIA e IPPC).

Oltre alle norme relative alla sua composizione ed alle modalità di funzionamento, è prevista, nel rispetto delle competenze regionali, anche un’eventuale integrazione con esperti designati dalle regioni, nel caso siano coinvolti specifici interessi locali.

Ai sensi del successivo art. 49, comma 1, il DPCM di nomina della Commissione dovrà essere adottato entro 90 giorni dalla data di pubblicazione del decreto n. 152[297], ovvero entro il 14 luglio 2006.

Si ricorda che la Commissione dovrà occuparsi anche dell’istruttoria sulla VIA delle grandi opere (art. 48, comma 2), malgrado la disciplina della VIAdi tali infrastrutture rimanga incardinata all’interno della normativa speciale di cui alla legge n. 443 del 2001 ed al relativo decreto attuativo n. 190 del 2002[298]. Per ulteriori approfondimenti si veda l’apposita scheda Legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA.

Peraltro dalla procedura speciale sulla VIA per le grandi opere, il decreto legislativo n. 152 accoglie una delle principali innovazioni che anticipa la procedura di VIA al progetto preliminare, tranne i casi in cui le leggi di settore dispongano altrimenti (art. 5, comma 1, lettera e) e art. 37, comma 5), nel rispetto della legge delega n. 308 del 2004 che prevede di “anticipare le procedure di VIA alla prima presentazione del progetto dell'intervento da valutare” (art. 1, comma 9, lettera f).

Titolo II - La valutazione ambientale strategica - VAS

Con le disposizioni recate dal Titolo II si dà attuazione alla direttiva comunitaria 2001/42/CE relativa alla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, cosiddetta “valutazione ambientale strategica” (VAS), il cui recepimento era stato da ultimo previsto dall’art. 19 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004), entro il 30 ottobre 2005[299].

Per la mancata attuazione entro i termini previsti del 21 luglio 2004, la Commissione europea aveva inviato, l’11 luglio 2005, il proprio parere motivato, a dodici Stati membri, tra cui anche l’Italia, invitandoli a recepire la direttiva.

Si segnala peraltro che, sebbene VAS non fosse stata ancora disciplinata dalla normativa statale (salvo che all’interno della legge n. 285 del 2000 relativa allo svolgimento dei giochi olimpici invernali “Torino 2006”[300]), alcune regioni avevano già provveduto ad attuarla.

 

Si ricorda, in estrema sintesi, che la direttiva 2001/42/CE si pone come obiettivo quello di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente.

Essa individua nella VAS lo strumento per l’integrazione delle considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani/programmi, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. In tal modo garantisce che gli effetti ambientali derivanti dall’attuazione di determinati piani/programmi, siano presi in considerazione e valutati durante la loro elaborazione e prima della loro adozione. Si tratta quindi di una procedura che accompagna l'iter pianificatorio o programmatico capace di garantire la scelta coscienziosa fra le ragionevoli alternative "alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano e programma" indicate in uno specifico rapporto ambientale.

Altra fondamentale innovazione è la sostanziale partecipazione del pubblico al processo valutativo e la previsione di misure per il monitoraggio, permettendo, quindi, di effettuare delle correzioni al processo in atto, nel caso di effetti negativi sull’ambiente del piano stesso.

Si ricorda che la Commissione europea ha elaborato, nel 2003, anche delle linee guida per l’attuazione della direttiva VAS.

Capo I - Le disposizioni comuni in materia di VAS

Le norme del Capo I (artt. da 7 a 14) contengono una serie di disposizioni applicabili alle procedure di VAS sia statale sia regionale disciplinate nei successivi Capi II e III, che riproducono, sostanzialmente, quelle previste per la procedura di VIA (Titolo III). Esse riguardano:

§         le tipologie di piani eprogrammi da sottoporre obbligatoriamente alla procedura VAS (art. 7), e quelle per i quali l’obbligatorietà deriva, invece, dai possibili effetti significativi sull’ambiente, nonché le esplicite esclusioni. Viene, altresì, prevista una verifica preliminare da parte dell’autorità competente all’approvazione del piano/programma stesso, ai fini della eventuale sottoposizione a VAS, nonché, per i piani/programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato, l’acquisizione del parere della Commissione unica tecnico-consultiva;

§         la previsione che, analogamente a quanto disposto in una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla direttiva 2001/42/CE, la VAS venga effettuata durante la fase preparatoria del piano/programma ed anteriormente alla sua approvazione in sede legislativa o amministrativa. In tal modo la VAS si configura come un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze sul piano ambientale delle azioni proposte, in modo che queste siano incluse e affrontate, al pari delle considerazioni di ordine economico e sociale, fin dalle prime fasi (strategiche) del processo decisionale;

§         la redazione, per i piani/programmi sottoposti a VAS, di uno specifico rapporto ambientale, che costituisce parte integrante della documentazione prevista, nel quale devono essere individuati, descritti e valutati gli effetti significativi che l'attuazione del piano/programma proposto potrebbero avere sull'ambiente e le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano/programma stesso. Innovativamente rispetto a quanto disposto dalla direttiva comunitaria, viene prevista anche la possibilità, per il proponente, di attivare una fase preliminare allo scopo di definire, in contraddittorio con l’autorità competente, le informazioni che devono essere fornite nel rapporto ambientale;

§         l’obbligatorietà della consultazione delle autorità che, per le loro specifiche competenze ambientali, possono essere interessate agli effetti sull’ambiente dovuti all’applicazione del piano/programma oggetto;

§         il coinvolgimento del pubblico interessato, attraverso un ampio processo di consultazione sia nazionale sia transfrontaliera nel caso di piani/programmi con effetti ambientali significativi nei confronti di altri Stati membri.

 

Rientrano, inoltre, tra le norme comuni, anche le disposizioni relative alla fase decisionale, mentre quelle sulla fase introduttiva ed istruttoria vengono illustrate solo per la VAS statale (Capo II), in quanto, per la VAS regionale, esse sono lasciate alla piena autonomia delle regioni (Capo III).

Appartengono alla fase decisionale il giudizio di compatibilità ambientale, l’approvazione del piano/programma proposto, nonché le modalità relative alla loro pubblicizzazione.

Prima dell'adozione del piano/programma, l’autorità preposta alla VAS ha l’obbligo di esaminare e valutare il rapporto ambientale ed i pareri espressi dalle consultazioni previste e, sulla base dei conseguenti esiti, emette il giudizio di compatibilità ambientale, che dovrà contenere un parere ambientale articolato e motivato (presupposto per la prosecuzione del procedimento di approvazione del piano o del programma).

Il giudizio di compatibilità ambientale dovrà essere emesso entro 60 giorni dalla scadenza dell’ultimo termine utile per la presentazione dei pareri previsti a seguito delle consultazioni nazionali e transfrontaliere.

Analogamente a quanto è disposto nel procedimento di VIA (al successivo art. 31, comma 2), anche nel procedimento di VAS statale, l’inutile decorso del termine di 60 giorni previsti per il giudizio di compatibilità ambientale, implica l’esercizio del potere sostituivo del Consiglio dei Ministri (che è chiamato a provvedervi entro i successivi 60 giorni), previa diffida all’organo competente ad adempiere entro il termine di 20 giorni, anche su istanza delle parti interessate. Nel caso in cui neanche il Consiglio dei ministri esprima il proprio parere motivato entro il termine previsto, il parere inespresso è da considerasi come giudizio negativo incondizionato, cd. silenzio-rifiuto.

L’approvazione del piano/programma deve tenere conto del giudizio di compatibilità ambientale, attraverso l’inclusione, nel provvedimento di approvazione, di una dichiarazione di sintesi, e deve essere ampliamente pubblicizzato. È, infine, previsto un apposito procedimento di controllo - monitoraggio - degli effetti ambientali significativi derivanti dall'attuazione dei piani/programmi, al fine dell’adozione delle opportune misure correttive.

Capo II - Le disposizioni specifiche per la VAS statale

Analogamente a quanto disposto per la procedura di VIA statale, il criterio in base al quale deve essere deciso se sottoporre un piano/programma a VAS statale o regionale non è solo la tipologia del piano/programma (che dovrà essere uno di quelli indicati nell’art. 7), bensì l’autorità competente alla sua approvazione. Pertanto sono sottoposti a VAS statale i piani/programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato (art. 15).

Quanto alla competenza sulla VAS, essa non può che accedere a quella relativa al procedimento di pianificazione cui si riferisce, appartenendo allo Stato (e quindi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ex art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986), alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.

Una volta definiti i piani/programmi sottoposti a VAS statale, le ulteriori norme recate dal Capo II riguardano le tre fasi procedurali attraverso cui si snoda la VAS statale (artt. da 16 a 20):

§         la fase introduttiva, comprendente l’avvio del procedimento e le adeguate forme di pubblicità (art. 16), la procedura di verifica preventiva per alcuni piani/programmi (art. 19) ed anche una fase preliminare nella quale devono essere definite le informazioni da inserire nel rapporto ambientale (art. 20);

§         la fase istruttoria, con l’istruttoria tecnica svolta dalla Commissione tecnico-consultiva (art. 17, commi dall’1 al 4);

§         la fase decisionale, con il giudizio di compatibilità reso dal Ministro dell’ambiente (art. 17, commi 5 e 6) e gli effetti del giudizio di compatibilità ambientale (art. 18).

 

La fase introduttiva (artt. 16, 19 e 20)

Il procedimento di VAS statale (art. 16), inizia con la trasmissione al Ministero dell’ambiente, al Ministero per i beni e le attività culturali, alla Commissione tecnico-consultiva e agli altri Ministeri eventualmente interessati, di una serie di documenti pressoché analoghi a quelli previsti per la VIA statale (diversa è naturalmente la loro natura in quanto lì si fa riferimento a progetti di opere/interventi, e, al posto del rapporto ambientale, c’è il SIA), il piano/programma adottato o comunque proposto, il rapporto ambientale e la sintesi non tecnica.

Attengono, inoltre, alla fase introduttiva:

§         la procedura di verifica preventiva (art. 19) da parte dell’autorità competente attivata dal proponente che ha anche l’obbligo di fornire copia della documentazione necessaria alla Commissione tecnico-consultiva, tenuta a dare il proprio parere all’autorità competente. Tale procedura sembrerebbe avere (come quella prevista per la VIA statale all’art. 32) la funzione di “filtro”, in quanto tesa a vagliare preliminarmente se un determinato piano/programma (ma, si ricorda diversi da quelli previsti dall’art. 7, ma comunque riguardanti gli stessi settori) debba o meno essere sottoposto a VAS. L’autorità competente può sostituirsi al soggetto proponente nell’attivazione della procedura di verificapreventiva;

§         l’attivazione, da parte del proponente, anche di una eventuale fase preliminare (art. 20) allo scopo di definire, in contraddittorio con la Commissione tecnico-consultiva, le informazioni da inserire nel rapporto ambientale[301].

 

La fase istruttoria (artt. 17, commi da 1 a 4)

Le attività tecnico-istruttorie per la VAS statale sono svolte dalla Commissione tecnico-consultiva con modalità che ripercorrono i passaggi principali previsti dall’art. 37 per la VIA statale.

Si procede per sottocommissioni per l’esame di ogni piano/programma ricevuto ed alla sua integrazione in presenza di interessi regionali coinvolti. Nel caso di incompletezza della documentazione presentata, può esserne richiesta l’integrazione, sospendendo i termini del procedimento fino al suo ricevimento. È poi compito della sottocommissione valutare la documentazione presentata, nonché i suggerimenti o le obiezioni ai fini dell’espressione del parere motivato da rendere entro 30 giorni a decorrere dalla scadenza di tutti i termini indicati negli artt. 10 e 11.

 

La fase decisionale (art. 17 commi 5 e 6 e art. 18)

Il parere della sottocommissione deve essere trasmesso immediatamente al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio per l’adozione, nei successivi 30 giorni, del giudizio di compatibilità ambientale.

Analogamente alle norme comuni sulla VIA di cui all’art. 31, comma 2, l’inutile decorso del termine dei 30 giorni implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri (entro 60 giorni). Il parere inespresso è da considerasi come giudizio negativo sulla compatibilità ambientale del piano/progetto presentato (cd. silenzio-rifiuto).

In relazione agli effetti del giudizio di compatibilità ambientale (art. 18), le proposte di piani/programmi sottoposte a VAS, anche qualora siano già state adottate con atto formale, vengono riviste e, se necessario, riformulate, sulla base del giudizio di compatibilità ambientale. Peraltro, dato che la procedura di VAS costituisce parte integrante del procedimento di adozione/approvazione del piano/programma, il giudizio di compatibilità ambientale deve essere comunque allegato al piano/programma inoltrato per l’approvazione. Inoltre, nell’approvazione del piano/programma si deve tener conto del parere di compatibilità ambientale di cui al giudizio di compatibilità.

Capo II -Le disposizioni specifiche per la VAS regionale o provinciale

Come già indicato per quella statale, la nuova disciplina sullaVAS regionale o provinciale, sottopone a tale procedura tutti i piani/programmi previsti dall’art. 7, la cui approvazione è di competenza delle regioni o degli enti locali ed il criterio che attribuisce la competenza sulla VAS è quello relativo al procedimento di pianificazione cui si riferisce e, quindi, appartiene allo Stato, alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda dellivello territoriale di pianificazione interessato[302].

Ferme restando le disposizioni comuni in materia di VAS recate dal Capo I, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano, con proprie leggi e regolamenti, le procedure per la VAS dei piani/programmi.

Si segnala che, se fino all’emanazione del decreto legislativo n. 152, la VAS non era stata ancora stata disciplinata dalla normativa statale, alcune regioni avevano già emanato disposizioni specifiche, come sottolinea anche un documento elaborato dall’APAT[303]. In altre regioni, invece, aspetti riguardanti la VAS erano stati affrontati nell’ambito della legislazione sulla VIA[304], oppure nell’ambito di quella urbanistica e di pianificazione territoriale regionale[305].

Titolo III - La valutazione di impatto ambientale - VIA

Fino all’emanazione del decreto legislativo n. 152 del 2006, l’Italia era ancora priva di una completa disciplina legislativa sulla VIA, essendo il quadro normativo vigente caratterizzato da elementi di frammentarietà e disorganicità derivanti principalmente dal fatto che tale normativa costituiva il frutto di una stratificazione di norme con cui erano stati, di volta in volta, regolati i singoli aspetti della materia. Nel contesto normativo italiano erano, quindi, presenti sostanzialmente due livelli:

§         una procedura di VIA a livello nazionale dichiaratamente transitoria per opere/interventi a rilevante impatto e/o di interesse nazionale di recepimento dell'allegato I della direttiva 85/337/CEE (art. 6 della legge n. 349 del 1986, DPCM n. 377 del 1988 e DPCM 27 dicembre 1988);

§         una procedura di VIA a livello di enti locali per opere/interventi di minore rilevanza, che aveva completato il recepimento della direttiva 85/337/CEE[306](DPR 12 aprile 1996, in seguito modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000).

Nel primo caso l’Autorità competente era il Ministero dell’Ambiente, nel secondo caso gli enti locali.

Tale quadro normativo è stato poi notevolmente ampliato anche nel corso della XIV legislatura, con una serie di ulteriori norme nazionali che si sono aggiunte a quelle già vigenti. Tra esse la VIA speciale per le opere strategiche prevista dalla cosiddetta “legge obiettivo” e dal decreto di attuazione n. 190 del 2002[307]; la disciplina relativa alla sicurezza del sistema elettrico nazionale e le infrastrutture lineari energetiche[308]; le disposizioni inserite in altri contesti normativi, ma che fanno riferimento alla VIA in ambiti quali la disciplina della conferenza di servizi[309] e la progettazioni delle opere pubbliche[310]; il decreto legge 14 novembre 2003, n. 315 relativo alle infrastrutture di comunicazione elettronica[311]; l’art. 30 della legge comunitaria 2004 (legge n. 62 del 2005) che prevede il recepimento dell'art. 5, par. 2, della direttiva 85/337/CEE[312].

In definitiva l’istituto della VIA, per i progetti di rilevanza nazionale, risultava regolato da più di un centinaio di disposizioni legislative di rango primario e secondario[313], cui si affiancavano anche le singole leggi regionali in materia di VIA. Si segnala, infatti, che se alcune Regioni non hanno ancora provveduto a fornirsi di una propria legge specifica in materia di VIA (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Sardegna, Sicilia), limitandosi invece a recepire o ad applicare direttamente il DPR 12 aprile 1996, altre disponevano già di una specifica normativa sulla VIA[314].

Capo I - Le disposizioni comuni in materia di VIA

Ambito di applicazione

Viene innanzitutto ampliato il campo di applicazione della VIA rispetto alle stesse previsioni comunitarie. Essa in particolare diventa obbligatoria per tutti i progetti di cui ai due allegati della direttiva 85/337/CEE, laddove la direttiva prescrive l’obbligatorietà solo per l’allegato I e si adottano soglie più basse per alcune tipologie progettuali (elenco A dell’Allegato III alla Parte Seconda).

 

Diventano, ai sensi dell’art. 23, progetti da sottoporre a procedura di VIA:

§         tutti quelli soggetti a procedura di VIA statale e regionale ai sensi dell’attuale disciplina vigente;

§         i progetti di specifiche opere/interventi per i quali la procedura di VIA è espressamente prescritta dalle leggi speciali di settore;

§         gli interventi su opere già esistenti, non rientranti nelle categorie previste, nel momento in cui da tali interventi derivi un’opera che rientra nelle categorie stesse;

§         le modifiche sostanziali di opere/interventi rientranti nelle precedenti categorie.

 

Vengono quindi elencati i casi di possibile esclusione e norme specifiche per la procedura di VIA per i progetti aeroportuali.

Si ricorda, ancora, l’esclusione dei progetti relativi alle grandi opere della “legge obiettivo”, in quanto la specifica disciplina della VIA di tali infrastrutture rimane incardinata all’interno della normativa speciale di cui al decreto legislativo n. 190 del 2002 e per la cui disciplinasi veda l’apposita scheda Legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA.

I soggetti competenti

Una delle innovazioni principali introdotta dalla nuova disciplina sulla VIA è la previsione di un nuovo criterio per l’attribuzione della competenza statale o regionale, non più collegato alla tipologia dell’opera/intervento in relazione al suo impatto ambientale, bensì al criterio della corrispondenza fra competenza in materia di VIA e competenza al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione (o all’esercizio) dell’opera (o dell’impianto).

Secondo le norme previgenti, era, infatti, attribuita allo Stato la competenza sulle opere di maggiore impatto e alle regioni la competenza su un elenco di tipologia di opere di minore impatto e, a volte, veniva a crearsi una spesso illogica sovrapposizione di procedimenti e di competenze[315].

Viene quindi individuato nel Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, il soggetto cui spetta la pronuncia sulla compatibilità ambientale per i progetti di opere/interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli aventi impatto ambientale interregionale o internazionale (mentre, negli altri casi, la competenza appartiene all’autorità individuata dalla regione o dalla provincia autonoma).

Le fasi della procedura di VIA

Per quanto riguarda le norme procedimentali, le novità riguardano l’introduzione, tra le norme comuni e quelle per la VIA statale, di alcune fasi del procedimento introduttivo mutuate dalla VIA regionale di cui al DPR 12 aprile 1996, al fine di adeguare la normativa al dettato comunitario. Tale provvedimento aveva dettato una procedura più articolata rispetto a quella per la VIA nazionale, prevedendo una fase preliminare ed una fase di verifica.

La fase preliminare (art. 27, comma 2) consiste in un sub-procedimento attivabile su richiesta del committente/proponente onde poter meglio individuare, in contraddittorio con l’autorità competente, le informazioni (tra quelle elencate nell’allegato V alla Parte seconda) da inserire nel SIA.

La fase di verifica (art 32), ha, invece, la finalità di accertare se assoggettare all’ordinaria procedura di VIA alcune categorie progettuali che ne potrebbero essere eventualmente escluse.

È stata, inoltre, introdotta, tra le norme comuni e per la VIA statale, un’ulteriore fase (art. 26, comma 2 e 36, comma 4) fino ad oggi prevista dalla VIA regionale, relativa anch’essa alla fase introduttiva del procedimento che prevede che le regioni e gli enti locali esprimano il loro parere entro 60 giorni dall’invio di tutta la documentazione relativa al progetto. Decorso tale termine, il giudizio di compatibilità può essere emesso anche in assenza dei predetti pareri. Tale nuova fase procedurale appare, pertanto, finalizzata ad un maggior coinvolgimento delle autonomie locali attraverso l’ottenimento di un loro preliminare consenso sull’opera.

Sono state migliorate anche le forme di partecipazione del pubblico al procedimento, soprattutto attraverso l’introduzione dell’istituto dell’inchiesta pubblica nella fase istruttoria. Tale istituto era previsto dalla normativa regionale sulla VIA, e limitato, invece, nella disciplina statale, ai soli progetti di centrali termoelettriche e turbogas superiori a 300 MW termini.

 

Le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VIA possono essere essenzialmente ricondotte a tre fasi principali:

§         la fase introduttiva, comprendente eventualmente anche un sub-procedimento di carattere preliminare (art. 26), il SIA (art. 27), le adeguate forme di pubblicità (art. 28) e la procedura di verifica (art. 32);

§         la fase istruttoria, con la partecipazione del pubblico al procedimento (art. 29) e l’istruttoria tecnica (art. 30);

§         la fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale (art. 31).

 

La fase introduttiva (artt. 26, 27, 28 e 32)

Le norme procedimentali previste nella fase introduttiva, mutuate dalla VIA regionale, vengono ora estese anche alla procedura di VIA statale, assumendo il carattere di norme comuni ad entrambi i procedimenti.

Il procedimento di VIA inizia(art. 26)con la trasmissione all’autorità competente, da parte del committente o proponente dell’opera/intervento, della domanda che dovrà contenere: il progetto dell’opera, il SIA e la sintesi non tecnica.

Il procedimento di VIA si arricchisce, quindi, di un ulteriore passaggio introduttivo che prevede la trasmissione di una copia di tale documentazione alla Regione, Provincia, ai Comuni interessati e, nel caso di aree naturali protette, anche ai relativi Enti di gestione, che dovranno esprimere il proprio parere entro 60 giorni dalla data di trasmissione. Decorso tale termine, l’autorità competente può rendere il giudizio di compatibilità ambientale nei successivi 90 giorni, anche in assenza dei predetti pareri. Viene anche prevista la possibilità, in alcuni casi, per il committente/proponente, di essere esonerato, in tutto o in parte, dall’invio della copia della documentazione agli enti locali, al fine di evitare un’immotivata sovrabbondanza di produzione documentale. Al committente/proponente può essere, infine, richiesto di apportare eventuali integrazioni alla documentazione allegata, con conseguente interruzione dei termini del procedimento.

Anche le norme per la predisposizione del SIA (art. 27) riprendono le linee fondamentali tracciate dalla VIA regionale. Non vengono, al contrario, trasfuse nel decreto (e relativi allegati) le norme tecniche previste per la redazione del SIA per la VIA statale (DPCM 27 dicembre 1988). A questo proposito, il successivo art. 51, comma 3, prevede che vengano emanate nuove norme (conformi alla nuova disciplina di rango primario) e, conseguentemente, il successivo comma 4 assicura che – fino all’emanazione delle nuove norme tecniche – restino in vigore le norme vigenti.

L’art. 27 prevede che il SIA venga predisposto a cura e spese del committente/proponente, secondo le indicazioni di cui all’allegato V della Parte seconda. Esso deve, altresì, recare un contenuto minimo indicato nel successivo comma 5. Tali informazioni, dovranno, inoltre, essere coerenti con il grado di approfondimento progettuale necessario e strettamente attinenti alle caratteristiche specifiche di un determinato tipo di progetto e delle componenti ambientali che possono subire un pregiudizio.

Attiene al contenuto del SIA, anche la procedura disciplinata al comma 2 dell’art. 27 che prevede l’introduzione, per tutti i procedimenti, sia statali che regionali, di un eventuale sub-procedimento preliminare, attivabile su richiesta del committente/proponente, onde poter meglio individuare, in contraddittorio con l’autorità competente, quali informazioni, tra quelle elencate nell’allegato V, debbano far parte del SIA[316].

Si ricorda, inoltre, che l’introduzione di tale fase preliminare (cd. scoping) era stata una delle principali novità (insieme alla procedura di verifica, cd. screening) introdotte dall’art. 6, commi 2 e 3, del DPR 12 aprile 1996, per la VIA regionale, anticipando le stesse norme della direttiva comunitaria (art. 5 come sostituito dalla direttiva 97/11/CE).

Nel caso ci fossero altre autorità interessate agli effetti sull’ambiente dovuti alla realizzazione e all’esercizio dell’opera/intervento progettato, esse devono essere consultate, al momento della decisione da parte dell’autorità competente, sulla portata delle informazioni da includere nel SIA. Al SIA dovrà essere allegata una sintesi non tecnica delle caratteristiche dimensionali e funzionali dell’opera o intervento progettato e dei dati ed informazioni contenuti nello studio stesso. Da ultimo, ai fini della predisposizione del SIA, il soggetto pubblico o privato interessato alla realizzazione delle opere/impianti ha diritto di accesso alle informazioni e ai dati disponibili presso gli uffici delle amministrazioni pubbliche. Adeguate misure di pubblicità nei confronti del pubblico sono quindi previste dall’art. 28.

Rientra, infine, nella fase introduttiva della procedura di VIA anche il sub-procedimento di verifica, disciplinato dall’art. 32, che ricalca, ampliandone però le categorie progettuali, quello già previsto per la VIA regionale(cd. screening). Pertanto tale procedimento viene ora esteso anche alla procedura di VIA statale, in quanto assume il carattere di norma comune ad entrambi i procedimenti. La richiesta di tale verifica preliminare incombe sul committente/proponente che ha anche l’obbligo di fornire alcune informazioni comprendenti, oltre ad una descrizione del progetto, i dati necessari per individuare e valutare i principali effetti che il progetto può avere sull’ambiente. Ricevute tali informazioni, l’autorità competente dovrà pronunciarsi entro i successivi 60 giorni, individuando eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti e il monitoraggio delle opere/impianti. Nulla viene detto nel caso in cui l’autorità competente non si pronunci nel termine previsto.

 

La fase istruttoria (artt. 29 e 30)

La fase istruttoria riguarda, da un lato, la fase di partecipazione del pubblico al procedimento (art. 29), per la quale vengono riproposte sostanzialmente le disposizioni per la VIA regionale, dall’altro la vera e propria fase di istruttoria tecnica (art. 30), per la quale, invece, si mutuano le norme della VIA statale (art. 6 del DPCM n. 377 del 1988).

A tal proposito, va evidenziato che la riproposizione della normativa per la VIA regionale è da attribuirsi al fatto che punto qualificante del DPR del 1996 era stato proprio l’aver dettato una disciplina della partecipazione del pubblico alla fase istruttoria, soprattutto grazie all’introduzione dell’istituto dell’inchiesta pubblica, migliorativa – nel senso di valorizzazione dei contenuti partecipativi – rispetto a quella, assai scarna, prevista per la VIA di competenza statale (solo per i progetti di centrali termoelettriche ed a turbogas superiori a 300 MW termici nell’Allegato IV del DPCM 27 dicembre 1988).

Innanzitutto viene stabilito che il soggetto interessato che intenda fornire elementi conoscitivi e valutativi concernenti i possibili effetti dell’intervento medesimo possa, nel termine di 45 giorni dalla pubblicazione dell’annuncio, presentare all’autorità competente osservazioni sull’opera soggetta alla procedura di VIA.

Per l’esame del SIA presentato dal committente/proponente, dei pareri forniti dalle pubbliche amministrazioni e delle osservazioni dei cittadini, l’autorità competente alla VIA può disporre lo svolgimento di un’inchiesta pubblica, che ha come primo effetto immediato quello di sospendere il termine previsto per il giudizio di compatibilità ambientale. L’inchiesta si conclude con una «relazione» sui lavori svolti ed un «giudizio» sui risultati emersi, che debbono poi essere acquisiti e valutati ai fini del giudizio finale di compatibilità ambientale del progetto.

Qualora l’inchiesta pubblica non abbia luogo – quindi, in alternativa ad essa –, il committente/proponente può, d’ufficio o su propria richiesta, esser chiamato prima della conclusione della procedura ad un «sintetico contraddittorio» con i soggetti che hanno presentato pareri o osservazioni.

Da ultimo viene prevista la possibilità per il committente/proponente di uniformare, in tutto o in parte, il progetto ai pareri o osservazioni emersi nel corso dell’inchiesta pubblica o del contraddittorio.

 

La fase decisionale (art. 31)

L’atto che conclude la procedura di VIA consiste in un giudizio motivato di compatibilità ambientale - mutuato dalla disciplina sulla VIA regionale - che deve essere reso entro 90 giorni dalla pubblicazione dell’annuncio a mezzo stampa ai sensi dell’art. 28, comma 2, lettera b).

L’inutile decorso del termine implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che provvede entro 60 giorni, previa diffida all’organo competente ad adempiere entro il termine di 20 giorni, anche su istanza delle parti interessate. Nel caso che il Consiglio dei ministri non esprima un parere motivato entro i successivi 60 giorni, il parere inespresso è da considerasi quale giudizio negativo (cd. silenzio-rifiuto). Il giudizio di compatibilità ambientale può risolversi in un giudizio positivo (quindi, di compatibilità dell’opera), oppure può dettare eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti ed il monitoraggio delle opere e degli impianti e riveste efficacia vincolante, poiché viene disposto che i progetti, prima del rilascio dell’autorizzazione alla loro realizzazione, debbano essere adeguati agli esiti di tale giudizio che l’amministrazione competente alla autorizzazione definitiva dell’opera ha l’obbligo di acquisire prima del rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione.

Gli esiti della procedura di VIA devono essere comunicati ai soggetti del procedimento e a tutte le altre amministrazioni pubbliche competenti (anche in materia di controlli ambientali), nonché adeguatamente pubblicizzati.

Le relazioni tra VIA e VAS e tra VIA e IPPC

Le relazioni tra VIA e VAS e tra VIA e IPPC sono disciplinate rispettivamente dagli artt. 33 e 34.

Si ricorda che il comma 9 dell’art. 1 della legge delega ambientale n. 308 del 2004 indica espressamente, tra i principi e criteri specifici di delega, l’introduzione di meccanismi di coordinamento tra la procedura di VIA/VAS e IPPC, al fine di evitare inutili ed onerose duplicazioni e sovrapposizioni fra i vari procedimenti menzionati.

 

L’introduzione di tali meccanismi risulta necessaria in relazione alle possibili interferenze tra tali discipline. In particolare, sebbene la VIA e la VAS abbiano ad oggetto una differente tipologia di atti (nel primo caso, i progetti; nel secondo caso, i piani ed i programmi), questi ultimi riguardano i medesimi settori (almeno per quanto concerne i piani/programmi soggetti a VAS obbligatoria). Vi sono, inoltre, parziali sovrapposizioni tra l'elenco di progetti sottoposti a VIA e quelli soggetti a IPPC. Peraltro, sono le stesse direttive comunitarie a prevedere tali sovrapposizioni e collegamenti, prevedendo una sorta di «principio di applicazione cumulativa»: ciascuna delle tre discipline deve essere applicata integralmente e nessuna delle tre pregiudica l'applicazione delle altre. Tale regola potrà poi essere temperata da principi e criteri di efficienza e semplificazione del procedimento decisionale, la cui applicazione tenderà a ridurre gli oneri burocratici gravanti sui soggetti interessati e il carico di lavoro delle amministrazioni.

Viene, in particolare,, disposto (art. 33) che, per i progetti di opere/interventi da realizzarsi in attuazione di piani o programmi già sottoposti a VAS e che rientrino tra le categorie per le quali è prescritta anche la VIA, costituiscono dati acquisiti tutti gli elementi positivamente già valutati in sede di VAS o comunque decisi in sede di approvazione del piano o programma.

Per quanto riguarda, invece le opere/interventi sottoposti a VIA, nonché per le modifiche sostanziali ad essi apportate, rientranti anche nel campo di applicazione dell’IPPC (art. 34), il proponente può richiedere che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale), previsto dal decreto legislativo n. 59 del 2005[317]. Per un approfondimento delle disposizioni recate dal decreto legislativo n. 59 del 2005 si veda la scheda L’autorizzazione integrata ambientale.

Capo II -Le disposizioni specifiche per la VIA statale

Ambito di applicazione e soggetti competenti

La nuova disciplina sulla VIA statale, superando il criterio su cui era fondato il modello cosiddetto “binario” vigente fino ad oggi, che attribuiva allo Stato la competenza sulle opere di maggiore impatto e alle regioni la competenza su un elenco di opere di minore impatto, sottopone a procedura di VIA statale tutti i progetti di opere/interventi che fanno parte delle categorie di cui all’art. 23 (nel quale rientrano indistintamente sia i progetti di opere che erano sottoposte a procedura di VIA statale che regionale, oltre a nuove tipologie ivi previste), ma che presentino i seguenti ulteriori requisiti:

§         devono essere opere/interventi la cui autorizzazione alla costruzione/esercizio è rilasciata da organi statali;

§         oppure opere/interventi localizzati sul territorio di più regioni o con un impatto ambientale interregionale;

§         o ancora opere/interventi che possano avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato dell’Unione europea.

 

Pertanto il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un progetto a VIA statale o regionale non sarà più la tipologia dell’opera/intervento in relazione al suo impatto ambientale, bensì l’autorità competente a rilasciare l’autorizzazione alla costruzione/esercizio, oppure il suo carattere interregionale o, ancora, l’eventuale impatto transfrontaliero[318].

La competenza al rilascio della VIA statale spetta, quindi, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, sentita la regione interessata e sulla base dell’istruttoria esperita dalla Commissione tecnico-consultiva (secondo le modalità specificate nel successivo art. 36, commi 7 e successivi).

Le fasi della procedura di VIA statale

Le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VIA possono essere essenzialmente ricondotte a tre fasi principali:

§         la fase introduttiva, comprendente il procedimento di valutazione (art. 36, commi da 1 a 6) e la fase preliminare e di verifica preventiva (art. 38);

§         la fase istruttoria, con le attività tecnico istruttorie della Commissione tecnico-consultiva (art. 37);

§         la fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale (art. 36, commi da 7 a 9 e art. 40).

 

La fase introduttiva (artt. 36 e 38)

Le norme procedimentali della fase introduttiva per la VIA statale (art. 36) integrano, con alcune innovazioni, le disposizioni contenute nell’art. 6 della legge n. 349 del 1986.

Il procedimento di VIA statale inizia con la trasmissione al Ministero dell’ambiente, al Ministero per i beni e le attività culturali, alla regione territorialmente interessata, alla Commissione tecnico-consultiva ed agli altri Ministeri eventualmente interessati, da parte del committente/proponente dell’opera/intervento, della domanda che dovrà contenere: il progetto dell’opera/intervento, il SIA e la sintesi non tecnica. Nel caso l’opera/intervento abbia un carattere interregionale, una copia del progetto deve essere inviata a ciascuna regione interessata.

Per le opere ed interventi che ricadano, invece, nel territorio di più enti locali, possono essere depositati, presso ciascuna provincia e ciascun comune, anche solo lo stralcio del progetto e del SIA, fermo restando il deposito della sintesi non tecnica in versione integrale. Identica possibilità è ammessa con riguardo alle aree naturali protette ed i relativi enti di gestione. Una volta informati gli enti locali e la regione sono chiamati ad esprimere il loro parere come già disponel’art. 26, comma 2, delle norme comuni.

Il committente/proponente può anche attivare l’altro sub procedimento di carattere preliminare, previsto dalle norme comuni all’art. 26, comma 3, richiedendo, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, la definizione di modalità di divulgazione più adeguate e praticabili in relazione alle specifiche caratteristiche del progetto.

Vengono quindi indicate le disposizioni per garantire l’adeguata informazione e partecipazione del pubblico e la possibilità, per chiunque vi abbia interessedi presentare osservazioni sull’opera soggetta a VIA, nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione dell’avvenuta comunicazione del progetto.

Attengono ancora alla fase introduttiva le norme contenute nell’art. 38che prevedono che, per tutti i progetti sottoposti a procedura di VIA statale di cui all’art. 35, la Commissione tecnico-consultiva provvede a svolgere la relativa istruttoria anche per le nuove fasi preliminari e di eventuale verifica preventiva.

 

La fase istruttoria (art. 37)

Le norme procedimentali relative a tale fase riguardano i compiti istruttori della Commissione tecnico-consultiva.

Si dovrà costituire un’apposita sottocommissione per ogni progetto ricevuto e, ove ne ricorrano i presupposti, provvedere alla sua integrazione con un esperto regionale. Nel caso in cui la sottocommissione verifichi l’incompletezza della documentazione, essa può richiederne l’integrazione, sospendendo i termini del procedimento.

Sarà poi compito della sottocommissione valutare la documentazione presentata, nonché le osservazioni inoltrate ai sensi degli artt. 36, commi 4 e 6 (il parere degli enti locali/regione e di chiunque vi abbia interesse, nella fase introduttiva del procedimento) e 39 (il parere di una altro Stato membro), ed esprimere il proprio parere motivato entro il termine di 30 giorni a decorrere dalla scadenza di tutti i termini indicati, da trasmettere entro 10 giorni dalla sua verbalizzazione, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, cui spetterà il giudizio di compatibilità ambientale.

Vengono quindi indicate norme ulteriori per i casi in cui, in base alle procedure di approvazione previste dalle specifiche leggi di settore, la VIA venga eseguita su progetti preliminari o di massima, mutuando prevalentemente le norme prevista per la VIA delle grandi opere[319]. Viene, in tal caso, prevista una verifica di ottemperanza del progetto definitivo alle prescrizioni del giudizio di compatibilità ambientale ed effettuare gli opportuni controlli in tal senso.

Pertanto, se nel corso di tali verifiche venga accertato che il progetto definitivo differisce da quello preliminare quanto alle aree interessate o alle risorse ambientali coinvolte, la sottocommissione ne dà comunicazione, con uno specifico rapporto, al Ministro dell’ambiente per l’adozione dei provvedimenti relativi all’aggiornamento del SIA e per la nuova pubblicazione dello stesso, anche ai fini dell’eventuale invio di osservazioni da parte dei soggetti pubblici e privati interessati.

A sua volta, ai fini dello svolgimento di tali compiti di verifica, il proponente è tenuto, pena la decadenza dell’autorizzazione alla realizzazione del progetto, a trasmettere il progetto definitivo alla sottocommissione prima dell’avvio della realizzazione dell’opera.

 

La fase decisionale (art. 36, commi da 7 a 9 e art. 40)

L’ultima fase della procedura di VIA statale, modellata su quella statale di cui all’art. 6, commi 4 e seguenti della legge n. 349 del 1986, riguarda la fase decisionale alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale (art. 36, commi da 7 e 9 e art. 40)

L’atto che conclude la procedura di VIA statale consiste, appunto, nel giudizio di compatibilità ambientale reso dal Ministro dell’ambiente, sulla base dell’istruttoria svolta dalla Commissione tecnico-consultiva, e di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali e con il Ministro proponente, entro 90 giorni. L’inutile decorso di tale termine implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che deve provvedere entro 60 giorni, ai sensi e con gli effetti di cui all’art. 31, comma 2 (il parere inespresso equivale a giudizio negativo incondizionato).

Per le sole opere/interventi la cui autorizzazione alla costruzione o all’esercizio è competenza di organi dello Stato, viene prevista la possibilità per il Ministro competente alla loro realizzazione, ove non ritenga di uniformare il progetto proposto al giudizio di compatibilità del Ministro dell’ambiente, di proporre motivatamente al Presidente del Consiglio dei Ministri l’adozione di un provvedimento di revisione di tale giudizio, o di disporre la non realizzazione del progetto. Sulla proposta di revisione si esprime il Consiglio dei Ministri.

Ai sensi dell’art. 40,gli esiti della procedura di VIA devono essere comunicati ai soggetti del procedimento e a tutte le altre amministrazioni pubbliche competenti (anche in materia di controlli ambientali), nonché adeguatamente pubblicizzati.

Il giudizio di compatibilità ambientale può risolversi in un giudizio positivo (quindi, di compatibilità dell’opera), oppure può dettare eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti ed il monitoraggio delle opere e degli impianti. Esso deve essere acquisito dall’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione definitiva alla realizzazione dell’opera o dell’intervento progettato.

Nel caso di iniziative promosse da autorità pubbliche, il provvedimento definitivo che ne autorizza la realizzazione deve adeguatamente evidenziare la conformità delle scelte effettuate agli esiti della procedura d’impatto ambientale. In tutti gli altri casi, i progetti devono essere adeguati agli esiti del giudizio di compatibilità ambientale, prima del rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione.

Infine, viene introdotta una norma che dispone la riapertura della procedura nel caso di opere non realizzate almeno per il 20% entro 3 anni dal giudizio di compatibilità ambientale. In ogni caso il giudizio di compatibilità ambientale cessa di avere efficacia al compimento del quinto anno dalla sua emanazione.

I progetti con impatti ambientali transfrontalieri

Disposizioni specifiche disciplinano la terza categoria di opere sottoposte a VIA statale, vale a dire quelle che potrebbero avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato dell’Unione europea.

Viene prevista, qualora l’opera/l’intervento progettato possa avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato, ovvero qualora lo Stato membro che potrebbe essere coinvolto in maniera significativa ne faccia richiesta, la trasmissione all’altro Stato di una serie di informazioni che devono, almeno contenere una descrizione del progetto con tutte le informazioni disponibili circa il suo eventuale impatto transfrontaliero e le informazioni sulla natura della decisione che può essere adottata.

Nel caso in cui, una volta ricevute tali informazioni, lo Stato membro comunica - entro i successivi 30 giorni - che intende partecipare alla procedura di VIA, dovranno essergli trasmesse anche alcune informazioni aggiuntive.

Una volta ricevuta la documentazione aggiuntiva, lo Stato interessato ha 30 giorni di tempo per presentare eventuali osservazioni, salvo che non decida di esprimere il proprio parere previa consultazione delle autorità competenti e del pubblico interessato (in tal caso il termine viene prorogato a 90 giorni). In pendenza dei termini indicati, vengono sospesi tutti i termini della procedura di VIA.

I controlli successivi

Analogamente a quanto era previsto dalla normativa in materia di VIA statale[320], viene riconfermato il potere di vigilanza del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio sull’osservanza del giudizio di compatibilità ambientale o delle eventuali prescrizioni in esso contenute, durante la realizzazione dell’opera/intervento. Tale potere, attivabile su segnalazione della Commissione tecnico-consultiva, può spingersi fino alla sospensione dei lavori ed all’ordine di ripristino delle condizioni di compatibilità ambientale dei lavori stessi.

Capo III - disposizioni specifiche per la VIA regionale o provinciale

Ambito di applicazione

La nuova disciplina sulla VIA regionale o provinciale, come già indicato per quella statale, sottopone a VIA tutti i progetti di opere/interventi previsti dall’art. 23, ad esclusione di quelli sottoposti ad autorizzazione statale o aventi impatto ambientale interregionale o transfrontaliero (art. 42).

Alle regioni e alle province autonome è poi attribuita la facoltà di disporre, sulla base degli elementi indicati nell’Allegato IV della Parte Seconda, un incremento, nella misura massima del 20%, delle soglie di cui all’elenco B dell’Allegato III, per determinate categorie progettuali e/o aree predeterminate[321].

Nel caso in cui dall’istruttoria svolta in sede regionale/provinciale emerga che l’opera/intervento progettato possa avere un impatto rilevante interregionale/interprovinciale o transfrontaliero, l’autorità competente, con provvedimento motivato, si dichiara incompetente e rimette gli atti alla Commissione tecnico-consultiva per il loro eventuale utilizzo nel procedimento riaperto in sede statale.

Le procedure di VIA regionale o provinciale

Ai sensi dell’art. 43, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le procedure per la VIA dei progetti delle opere/interventi che rientrano nella loro competenza, in conformità alle norme comuni in materia di VIA indicate nel Capo I (del Titolo III).

Nel disciplinare i contenuti e la procedura di VIA, esse dovranno almeno individuare:

§         l’autorità competente in materia di VIA;

§         l’organo tecnico per lo svolgimento dell’istruttoria;

§         le eventuali deleghe agli enti locali per particolari tipologie progettuali;

§         le eventuali modalità, ulteriori o in deroga rispetto a quelle indicate nel decreto, per l’informazione e la consultazione del pubblico;

§         le modalità di realizzazione o adeguamento delle cartografie, degli strumenti informativi territoriali di supporto e di un archivio dei SIA consultabile dal pubblico;

§         i criteri integrativi con i quali vengono definiti le province ed i comuni interessati dal progetto.

Le regioni/province autonome possono, per casi di particolare rilevanza, prorogare i termini per la conclusione della procedura (prevista dalle norme comuni all’art. 31 entro 90 giorni dalla pubblicazione degli atti ad essa inerenti) sino ad un massimo di 60 giorni.

Fino all’entrata in vigore delle discipline regionali/provinciali previste, si applicano le disposizioni di cui alla Parte Seconda del decreto.

Le ulteriori disposizioni in materia di VIA regionale (art. 45-47) ripropongono esattamente quanto già previsto nell’atto di indirizzo di cui al DPR 12 aprile 1996 sul coordinamento della procedura di VIA con le procedure ordinarie di assenso alla realizzazione delle opere, in merito alla possibilità di prevedere procedure semplificate per progetti di dimensioni ridotte o di durata limitata e per gli eventuali casi di esclusione.

Viene, quindi, confermato anche l’obbligo annuale di informazione in capo alle regioni/province autonome nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in merito ai provvedimenti adottati e a quelli in corso.

Nulla vieta alle regioni/province autonome di integrare le disposizioni comuni in materia di VIA/VAS e VIA/IPPC (di cui agli artt. 33 e 34).

Titolo IV - Disposizioni transitorie e finali

Le norme raccolte all’interno di tale titolo riguardano le abrogazioni (art. 48), i provvedimenti di attuazione per la costituzione della Commissione tecnico-consultiva (art. 49), l’adeguamento delle disposizioni regionali e provinciali (art. 50), l’eventuale emanazione di regolamenti e norme tecniche integrative (art. 51) e l’entrata in vigore (art. 52).

 

Adeguamento delle disposizioni regionali e provinciali ed emanazione di regolamenti e norme tecniche integrative (artt. 50 e 51)

L’entrata in vigore delle disposizioni legislative e regolamentari emanate dalle regioni e dalle province autonome è prevista entro 120 giorni dalla pubblicazione del decreto stesso, vale a dire entro il 14 agosto 2006.

Viene disposta, inoltre, la possibilità di adottare norme puntuali per una migliore integrazione delle procedure di VAS e VIA negli specifici procedimenti amministrativi vigenti di approvazione o autorizzazione dei piani/programmi e delle opere/interventi sottoposti a valutazione, attraverso appositi regolamenti di delegificazione.

Per le opere/interventi sottoposti a VIA, fino all’emanazione di tali regolamenti di delegificazione, continuano ad applicarsi, per quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 2 del DPCM 10 agosto 1988, n. 377.

Infine, viene prevista l’emanazione, con DPCM, di norme tecniche integrative della disciplina di VIA per la redazione dei SIA e la formulazione dei giudizi di compatibilità in relazione a ciascuna categoria di opere, e la contestuale vigenza, fino alla loro emanazione, delle norme tecniche attualmente vigenti.

 

Entrata in vigore (art. 52)

Le disposizioni della Parte Seconda del decreto entrano in vigore 120 giorni dopo la pubblicazione nella G.U. della Repubblica italiana, ossia il 14 agosto 2006.

I procedimenti amministrativi in corso alla data di entrata in vigore del decreto, nonché i procedimenti per i quali a tale data sia già stata formalmente presentata istanza introduttiva da parte dell’interessato, si concludono in conformità alle disposizioni ed alle attribuzioni di competenza in vigore all’epoca della presentazione di tale istanza. Nella “Scheda di analisi di impatto della regolamentazione”, che accompagnava lo schema di decreto, si leggeva che tale disposizione era finalizzata ad evitare che la nuova disciplina incidesse sui procedimenti in corso “mirando, quindi ad assicurare la piena attuazione del principio “tempus regit actum”. Al riguardo si osserva che tale disposizione sembrerebbe contrastare con il regime transitorio previsto dalla direttiva VAS 2001/42/CE (art. 13, par. 3), ove viene stabilito che sono soggetti a VAS tutti i piani/programmi il cui primo atto preparatorio formale è successivo al 21 luglio 2004 e tutti quelli il cui primo atto preparatorio formale è precedente 21 luglio 2004, ma sono approvati o sottoposti all'iter legislativo più di 24 mesi dopo la stessa data (21 luglio 2006), a meno che gli Stati membri decidano caso per caso che ciò non è possibile, informando il pubblico di tale decisione.

Gli allegati

Costituiscono parte integrante della Parte seconda del decreto legislativo n. 152 del 2006 anche cinque allegati così suddivisi:

·         Allegato IInformazioni da inserire nel rapporto ambientale;

·         Allegato IICriteri per verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente;

·         Allegato IIIProgetti sottoposti a VIA;

·         Allegato IVElementi di verifica per l’assoggettamento a VIA di progetti dell’Allegato III, elenco B, non ricadenti in aree naturali protette;

·         Allegato VInformazioni da inserire nello studio di impatto ambientale.

 

Allegato I

In esso vengono indicate le informazioni da inserire nel rapporto ambientale che deve essere redatto durante la fase preparatoria del piano/programma al fine di individuare, valutare e descrivere gli effetti ambientali del piano/programma stesso, nonché le sue ragionevoli alternative, ai sensi dell’art. 9 del decreto. Tali informazioni costituiscono, comunque, indicazioni di "minima", in quanto nulla vieta di inserire ulteriori informazioni aggiuntive, purché utili alle finalità della valutazione.

 

Allegato II

Ai fini della sottoposizione a VAS dei piani/programmi che potrebbero avere effetti significativi sull’ambiente e delle modifiche di un piano/programma già approvato, l’art. 7, comma 5, prevede l’effettuazione di una verifica preliminare da parte dell’autorità competente all’approvazione del piano/programma stesso (che nel procedimento sulla VAS statale è operata dalla Commissione tecnico-consultiva), secondo i criteri di cui all’Allegato II alla Parte Seconda.

Tali criteri, che rispecchiano quelli indicati nell’Allegato II della direttiva comunitaria 2001/42/CE, si basano su una pluralità di parametri quali gli elementi che caratterizzano il piano/programma stesso, gli effetti conseguenti all’attuazione del piano/programma e le caratteristiche delle aree interessate.

 

Allegato III

Si articola, a sua volta, in due elenchi, elenco A ed elenco B ove sono elencati i progetti da sottoporre a VIA.

L’elenco A riguarda i progetti da sottoporre a VIA ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a); essi corrispondono sostanzialmente alle tipologie progettuali per le quali la disciplina vigente prevedeva la procedura di VIA nazionale oppure quella regionale. Conseguentemente tutte le categorie progettuali ora dovranno essere sottoposte a procedura di VIA e, come più volte sottolineato, la competenza nazionale o regionale dipenderà dall’organo cui spetterà l’autorizzazione alla costruzione/esercizio dell’opera/impianto. Nell’elenco A compaiono anche alcune categorie progettuali indicate nell’Allegato I della direttiva 85/337/CEE, come integrato dalle direttive 97/11/CE e 2003/35/CE. Si rileva che per alcune categorie progettuali (ad esempio gli elettrodotti aerei esterni per il trasporto di energia elettrica) sono adottate soglie più basse rispetto a quelle comunitarie.

L’elenco B riguarda i progetti da sottoporre a VIA ai sensi dell’art. 23, lettere b) e c) ed essi coincidono con quelli contenuti nell’Allegato B del DPR 12 aprile 1996, per i quali era obbligatoria la VIA regionale.

 

Allegato IV

Reca gli elementi in base ai quali l’autorità competente dovrà verificare se i progetti di cui all’elenco B dell’Allegato III, nel caso in cui non ricadano all’interno di aree naturali protette, richiedano o meno la procedura di VIA, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. c). Tali elementi riguardano la definizione delle caratteristiche progettuali, la localizzazione dei progetti e il loro impatto potenziale.

 

Allegato V

Contiene le informazioni da inserire nel SIA, predisposto secondo le modalità e con i criteri dettati dall’art. 27 del decreto.Per l’individuazione di tali informazioni si è preso come riferimento il modello del SIA previsto dalla VIA regionale (Allegato C del DPR 12 aprile 1996) e non quello indicato nella VIA statale dal DPCM 27 dicembre 1988 e dai suoi allegati[322].

 

Ambiente e territorio – Sentenza Corte costituzionale 307/2003

La Corte costituzionale con la sentenza n. 307 del 2003 ha affrontato varie questioni di legittimità costituzionale relative a disposizioni di leggi regionali che incidono sulla materia della tutela dall’ "inquinamento elettromagnetico".

La Corte parte da una riconsiderazione di carattere generale della ripartizione della competenza legislativa tra Stato e Regioni nella materia della "tutela dell'ambiente", ribadendo quanto già affermato con le sentenze n. 407 del 2002 e 222 del 2003 (v. scheda Ambiente – Giurisprudenza costituzionale).

Viene chiarito, cioè, che la modifica al Titolo V della Costituzione, e la conseguente attribuzione allo Stato della competenza esclusiva in materia di "tutela ambientale", non comporta l'impossibilità per le Regioni di intervenire, con proprie norme, nella disciplina della materia, dato il carattere "trasversale" della tutela dell’ambiente, e quindi la sua idoneità ad abbracciare profili che possono rientrare di volta in volta anche in materie di competenza "concorrente" o "esclusiva" delle Regioni. La Corte infatti individua una serie di materie disciplinate dalle norme regionali in oggetto (tutela della salute, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, governo del territorio) che risultano trasversalmente collegate alla materia della "tutela ambientale" e che rientrano nella competenza legislativa concorrente delle Regioni. Pertanto, una possibilità delle regioni, in via generale e ipotetica, di legiferare anche con finalità di tutela dall’inquinamento elettromagnetico non va esclusa.

Tale ricostruzione – che ormai ha trovato conferma in tre successive pronunce - risulta fondamentale, in quanto permette alla Corte di evitare le conseguenze paradossali di una applicazione rigida e letterale della lettera s) del comma 2 dell’articolo 117, che avrebbe comportato la censura di illegittimità costituzionale nei confronti di tutte le norme regionali che abbiano finalità di tutela ambientale, laddove – viene osservato dalla dottrina – la materia in oggetto rappresenta una fra quelle in cui più fertile è stata tradizionalmente l’attività legislativa regionale.

L’esclusività della competenza legislativa statale va invece intesa come limitata a quegli aspetti della normativa di tutela ambientale che richiedono – per loro natura – un esercizio unitario.

Ora, entrando maggiormente nel merito delle questioni oggetto della sentenza, la Corte afferma che fra gli aspetti della tutela ambientale (e quindi della tutela dai campi elettromagnetici) che richiedono una disciplina unitaria su tutto il territorio nazionale rientra senz’altro “il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste” (punto 5.)

La Corte nella sentenza 307 procede quindi a un dettagliato esame delle prescrizioni recate dalla legge n. 36 del 2001 ("legge quadro per la protezione da esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici"), considerando tale legge pienamente conforme alle disposizioni costituzionali in materia di riparto di competenza tra Stato e Regioni, così come ricostruite nelle suddette premesse di carattere generale.

In proposito, la Corte chiarisce che il sistema complessivo delineato dalla legge-quadro prevede che sia lo Stato competente a fissare i valori-soglia in materia di emissioni elettromagnetiche, mentre le Regioni assumono un ruolo centrale nella determinazione della disciplina dell'uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti. Tale modello è conforme, secondo la Corte, alle previsioni costituzionali.

La fissazione di valori-soglia da parte dello Stato – competenza prevista dalla legge n. 36 - risponde all'esigenza di tutelare standard di salute minimi validi per tutto il territorio nazionale, ma anche all’esigenza di garantire lo sviluppo produttivo connesso alla distribuzione di energia e al funzionamento dei mezzi di comunicazione[323].

Alle Regioni, invece, viene riservato uno spazio maggiore di intervento laddove assumono rilievo preminente gli aspetti localizzativi degli impianti (e quindi il governo del territorio), “purché, ovviamente, criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi” (paragrafo 7). Infatti, la legge n. 36 provvede ad una ripartizione delle competenze che ricalca esattamente tale modello, laddove attribuisce allo Stato la fissazione dei “limiti di esposizione”, dei “valori di attenzione” e anche degli “obiettivi di qualità” (per la parte in cui questi sono espressi in valori di campo elettrico e magnetico). Gli stessi “obiettivi di qualità”, quando espressi in criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, vengono invece definiti dalle Regioni.

La Corte, conseguentemente, con la sentenza in commento, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di tutte quelle disposizioni regionali che travalicano l’ambito delle competenze regionali così circoscritto.

Appare utile sottolineare il rilievo che assume, anche in questa sentenza – e in modo quindi convergente con la precedente – la considerazione delle esigenze della pianificazione nazionale degli impianti, evidentemente discendente da istanze unitarie giudicate imprescindibili o comunque non irragionevoli, e quindi in grado di prevalere anche sulla riconosciuta competenza regionale in merito agli aspetti localizzativi.

Anche siffatte argomentazioni sembrano assumere un valore generale, che travalica le infrastrutture de quo (elettrodotti, impianti di radiodiffusione e di telecomunicazioni): ancora una volta, e in misura ancora maggiore, può rilevarsi l’analogia con il decreto legislativo n. 7 del 2002.

Un secondo motivo di illegittimità riscontrato dalla Corte relativamente ad alcune delle disposizioni regionali in oggetto è quello della indeterminatezza dei poteri attribuiti alla Giunta regionale.

La Corte, infatti, pur riconoscendo che la definizione delle materie per le quali vengono attribuiti poteri alla Giunta regionale rientra nella competenza delle Regioni stesse (distanze tra edifici nell'installazione di impianti, valutazione di impatto ambientale, divieto di localizzazione degli impianti in aree vincolate), ritiene tuttavia che norme regionali che affidano a organi regionali poteri non collegati a parametri che ne delimitino l'esercizio, risultano lesive del principio di legalità sostanziale e quindi contrastano con la Costituzione.

In alcuni passaggi, inoltre, la Corte affianca alla motivazione della violazione del principio di legalità sostanziale quella relativa alla salvaguardia della possibilità da parte di tutti i cittadini di avere a disposizione un numero sufficiente di impianti di produzione di energia e di reti di telecomunicazione.

In sostanza, in alcuni casi la Corte "rafforza" la motivazione del rispetto della legalità sostanziale, chiarendo che in mancanza di un'attività della Giunta regionale legata a parametri certi, tale attività rischia di compromettere le esigenze della produzione e quindi la distribuzione sul territorio nazionale di un numero adeguato di impianti di produzione di energia e di reti di telecomunicazioni.

In conclusione, la sentenza n. 307 risulta di notevole interesse anche ai fini della ricostruzione del raccordo fra esigenze di tutela dell’ambiente ed esigenze produttive (distribuzione di energia elettrica e sussistenza di una adeguata rete di telecomunicazioni).

E’ nell’assicurare un bilanciamento fra questi due valori che la competenza dello Stato assume quel carattere di esclusività evocato dall’art. 117, comma 2, lettera s), mentre la competenza regionale in materia urbanistica e di governo del territorio (fra l’altro concorrente e non esclusiva) sembra chiamata ad articolarsi entro (e non oltre) i termini di tale bilanciamento.

 

La nozione di rifiuto

L’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002

Con l’art. 14 del D.L. n. 138 del 2002[324] è stata fornita l’interpretazione autentica della nozione di “rifiuto” recata dall'art. 6, comma 1, lett. a), del decreto Ronchi. Essa è stata introdotta a seguito di una serie di sequestri operati dalle forze dell’ordine (e convalidati dalla magistratura[325]) di carichi di rottami ferrosi destinati alle acciaierie per assenza della documentazione prescritta dal d.lgs. n. 22 del 1997 – cd. decreto Ronchi – per il trasporto di rifiuti. Tali provvedimenti erano stati adottati sulla base dell’assunto che tali materiali avessero natura di rifiuti e non di materie prime secondarie.

L’art. 14 del citato decreto-legge ha così stabilito i significati normativi da attribuirsi alle seguenti espressioni:

a) “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22;

b) “abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del d. lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) “abbia l'obbligo di disfarsi”: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del d. lgs. n. 22.

Il citato art. 14 ha precisato, inoltre, che non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni per l’esclusione dal novero dei rifiuti:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22.

Sostanzialmente, l’art. 14 ha voluto dare soluzione al complesso problema dei “residui di produzione o di consumo” riutilizzati in un processo produttivo, di quelle sostanze cioè che hanno caratteristiche merceologiche tali da renderle assimilabili alle materie prime (che infatti vanno a sostituire). Tali sostanze (dette anche “materiali riciclabili”) non possono essere facilmente identificate attraverso la normativa (e la stessa giurisprudenza) comunitaria. Una considerazione restrittiva di questa problematica (tesa a sottoporre, nell’incertezza, tali sostanze alla restrittiva disciplina dei rifiuti) rischia di rendere onerosi processi produttivi che invece possono essere caratterizzati da positivi effetti ambientali, in quanto possono favorire operazioni di riciclaggio e diminuire i quantitativi complessivi avviati allo smaltimento in discarica.

L’ applicazione dell’art. 14

Il 16 ottobre 2002 - per la prima volta dall'entrata in vigore della legge n. 178 del 2002 di conversione del citato decreto - un giudice, trovandosi ad affrontare alcune problematiche concernenti la citata interpretazione autentica della nozione di rifiuto, ha ritenuto di dovere disapplicare l’articolo 14[326]. Tale disposizione è stata in particolare ritenuta in contrasto con la normativa comunitaria in materia (dettata dalla direttiva 75/442/CE e, più in particolare, dal regolamento 259/93/CE, relativo alla spedizione ed al trasporto dei rifiuti all'interno della Comunità Europea), che – a suo tempo avrebbe fornito una nozione unitaria di rifiuto – che deve essere necessariamente applicata, senza limitazioni, in tutti gli Stati membri.

Quasi contestualmente la Corte di Cassazione ha avallato l’inapplicabilità dell’art. 14, ritenendo necessaria l’interpretazione conforme a quanto sancito da un regolamento comunitario e da alcune sentenze della Corte europea[327].

Con la sentenza n. 674 del 19 febbraio 2004, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha inaugurato un differente indirizzo giurisprudenziale, riformando la precedente sentenza del TAR Friuli[328], nella quale si riteneva insufficiente - per l’esclusione dal regime normativo sui rifiuti - il riutilizzo in un processo produttivo, per la scomparsa nell’ordinamento della nozione di “materia prima secondaria”. Il Consiglio di Stato ha ritenuto non esatto che tale nozione sia scomparsa dall’ordinamento, posto che, proprio con l’articolo 14 del decreto legge n. 138 del 2002 - il legislatore ha inteso confermare una disciplina (peraltro già ricavabile – secondo il Consiglio di Stato - dalla normativa previgente) volta a distinguere (e a escludere) dalla nozione di rifiuto quei “beni, sostanze e materiali residui di produzione che possano essere e siano effettivamente e oggettivamente reimpiegati nello stesso o in diverso ciclo produttivo, e ciò sia che si renda necessario, ovvero che non sia necessario, un qualche trattamento preventivo, purché non si tratti di una delle operazioni di trasformazione di cui all’allegato C del decreto legislativo n. 22 del 1997”.

Con la sentenza 11 novembre 2004 (C-457/02) la Corte europea di Giustizia ha giudicato incompatibile l’interpretazione recata dall’art. 14 del DL n. 138 con la nozione comunitaria di rifiuto.

Successivamente, la Corte di cassazione – Sez. III penale si è più volte pronunciata in materia (in particolare con le sentenze n. 9503 del 15 marzo 2005, n. 17836 del 13 maggio 2005[329] e n. 20499 del 1° giugno 2005) e ha affermato l’impossibilità per il giudice nazionale di disapplicare l’art. 14.

In particolare, nella sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005[330], la Corte argomenta che “essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come norma di interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando - come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia infra ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che «una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso»; ed «analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni»”.

Nella recente ordinanza 16 gennaio 2006, n. 1414[331], la III Sezione penale della Corte di cassazione, intervenendo nuovamente in materia, ha affermato che “l’unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi”.

L’interpretazione giurisprudenziale

Nel merito della nozione di rifiuto, la Corte – nella medesima sentenza n. 20499 del 1° giugno 2005 – ha sottolineato che “occorre essenzialmente distinguere tra «residuo di produzione», che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e «sottoprodotto», che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un «sottoprodotto» in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma «certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione»".

 

In sintesi, sembra che la definizione delle nozioni di “recupero”, ”smaltimento”, “residui di produzione e di consumo”, “materia prima secondaria”, “sottoprodotto”, “disfarsi” risultino decisive al fine di annettere a un materiale la natura di “rifiuto” e che inoltre la definizione di ognuno di questi termini in connessione con gli altri può determinare effetti diversi a seconda del tipo di connessione instaurata.

 

La nuova definizione recata dal d.lgs. n. 152/2006

L’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, che provvede a sostituire l’articolo 6 del decreto Ronchi, reca una serie di definizioni volte a superare il lungo contenzioso scaturito dall’art. 14 del DL n. 138, che risulta abrogato dall’art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152. Il citato art. 183 definisce, infatti:

§         rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi;

§         sottoprodotto: i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla Parte quarta del decreto i sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest’ultimo fine, per trasformazione preliminare s’intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo. L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive;

§         materia prima secondaria: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181;

§         materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche:

1)   i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche Ceca, Aisi, Caef, Uni, Euro o ad altre specifiche nazionali e internazionali, individuate entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive, non avente natura regolamentare;

2)   i rottami o scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche di cui al numero 1). I fornitori e produttori di materia prima secondaria per attività siderurgiche appartenenti a Paesi esteri presentano domanda di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, ai sensi dell’articolo 212, comma 12, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al numero 1);

 

Si segnala che quest’ultima definizione riproduce quella introdotta dalla legge delega n. 308/2004.

 

Discariche di rifiuti

Con l’emanazione del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36[332], di recepimento della direttiva 1999/31/CE del Consiglio del 26 aprile 1999 relativa alle discariche di rifiuti, sono state introdotte nell’ordinamento nazionale (accanto a quelle recate dalla normativa quadro del settore dei rifiuti di cui al decreto legislativo n. 22/1997 - cd. decreto Ronchi), specifiche disposizioni relative alla gestione delle discariche.

L’attuazione della direttiva, sia pure avvenuta con ritardo[333], ha consentito di colmare un vuoto legislativo che perdurava da anni, consentendo il superamento delle norme tecniche previgenti in materia di discariche e risalenti alla Deliberazione del Comitato interministeriale 27 luglio 1984, ora espressamente abrogate (unitamente al DM 11 marzo 1998, n. 141[334]) dall’art. 17 del d.lgs. n. 36/2003.

 

I decreti attuativi del decreto Ronchi relativi alle norme tecniche sulle nuove caratteristiche delle discariche (finalizzati alla sostituzione della citata delibera 27 luglio 1984 ) e all’individuazione puntuale dei rifiuti da recapitare nelle discariche stesse non sono infatti mai stati emanati. Ciò ha costretto il Governo, per evitare comunque difficoltà operative nella gestione dei rifiuti dovute alla mancata emanazione delle citate norme e nelle more dell’attuazione della direttiva, ad intervenire con una serie di provvedimenti di urgenza anche nei primi mesi della XIV legislatura.

In particolare, con il decreto-legge 16 luglio 2001, n. 286, convertito dalla legge 20 agosto 2001, n. 335, venne differita l'operatività del divieto di smaltimento in discarica fino all'adozione delle citate norme tecniche e comunque non oltre il 22 agosto 2002. A tale data, il Ministero dell’ambiente, piuttosto che promuovere l’emanazione di un nuovo provvedimento d’urgenza, conferì ai Presidenti delle Regioni un potere straordinario di proroga[335] per il proseguimento dell’attività di smaltimento, in attesa dell’entrata in vigore del decreto di recepimento della direttiva 1999/31/CE.

 

Il decreto legislativo n. 36/2003 intende dettare norme uniformi per la gestione delle discariche, con una serie di specifiche prescrizioni finalizzate al rilascio del titolo autorizzativo alla costruzione e all’esercizio degli impianti nonché allo svolgimento delle operazioni di chiusura.

La finalità principale è, infatti, quella di garantire che l’ambiente non rimanga deturpato o inquinato da sostanze pericolose i cui effetti possono verificarsi sia durante l’intero ciclo di vita della discarica, sia nella fase successiva alla chiusura (fase post-operativa).

Classificazione e definizione

La nuova classificazione delle discariche recata dall’art. 4 del d.lgs. n. 36/2003 rappresenta una delle principali novità introdotte dal decreto.

La tabella seguente evidenzia le corrispondenze rispetto alla precedente classificazione contenuta nel paragrafo 4.2 della citata deliberazione 27 luglio 1984:

 

 

 

 

 

 

 

Nuova classificazione

Classificazione precedente

Discarica per rifiuti inerti

II categoria – tipo A

Discarica per rifiuti non pericolosi

I categoria

II categoria – tipo B

Discarica per rifiuti pericolosi

III categoria

II categoria – tipo C[336]

 

Si ricorda, in proposito, che la delibera 27 luglio 1984 classificava le discariche in:

§         discariche di prima categoria (semplici impianti di stoccaggio nei quali possono essere smaltiti rifiuti solidi urbani, rifiuti speciali assimilati agli urbani, fanghi non tossici e nocivi);

§         discariche di seconda categoria, definiti “impianti di stoccaggio definitivo sul suolo o nel suolo”, suddivise a loro volta in:

-        discariche di tipo A (nei quali possono essere smaltiti soltanto i rifiuti inerti);

-        discariche di tipo B (nei quali possono essere smaltiti rifiuti sia speciali che tossici e nocivi, tal quali o trattati, a condizione che non contengano – in determinate concentrazioni - sostanze appartenenti ai gruppi 9-20 e 24, 25, 27 e 28 dell'allegato al D.P.R. n. 915 del 1982)[337];

§         discariche di terza categoria: impianti aventi caratteristiche di sicurezza particolarmente elevate per la protezione dell'ambiente e della salute dell'uomo, nei quali possono essere confinati rifiuti tossici e nocivi contenenti sostanze appartenenti ai gruppi 9-20 e 24, 25, 27 e 28 dell'allegato al D.P.R. n. 915 del 1982, anche in concentrazioni superiori a una determinata soglia fissata dalle stesse norme.

L’art. 2 del d.lgs. n. 36/2003 introduce nell’ordinamento la seguente definizione di “discarica”, mutuandola dalla direttiva: “area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno”.

Ammissione dei rifiuti in discarica

Il decreto ha individuato, inoltre, all’art. 6, ben 14 categorie di rifiuti non ammessi in discarica[338] e stabilito un preciso divieto di diluire o miscelare i rifiuti al solo fine di renderli conformi ai criteri di ammissibilità.

Per l’individuazione di tali criteri, l’art. 7, comma 5, discostandosi dalla direttiva, che invece disciplina tali criteri nell’Allegato II, ha previsto l’emanazione di un apposito decreto interministeriale.

Al fine di rendere effettivamente operativa la nuova disciplina è stato quindi emanato il D.M. 13 marzo 2003 recante Criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica[339]. Tale decreto è stato elaborato sulla base del solo Allegato II della direttiva, senza tener conto delle ulteriori e più esaustive indicazioni fornite dalla Decisione 2003/33/CE del 19 dicembre 2002, nel frattempo assunta dall’Unione europea. Da qui, l’esigenza di una successiva rielaborazione del decreto originario realizzatasi con il più ampio ed articolato D.M. 3 agosto 2005[340].

 

Per quanto attiene, invece, alle procedure per l’ammissione dei rifiuti, queste sono disciplinate dall’art. 11 del d.lgs. n. 36/2003.

Autorizzazioni

Gli articoli 8-10 del decreto n. 36/2003 disciplinano e integrano quanto già previsto in generale dagli artt. 27-28 del decreto Ronchi, ovvero:

§         il contenuto della domanda di autorizzazione per la costruzione e l’esercizio di una discarica;

§         le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione;

§         il contenuto del provvedimento autorizzatorio.

 

Fra le novità di maggior rilievo vi sono, senza dubbio, le dettagliate informazioni che il richiedente è tenuto a presentare sotto forma di piani, che si distinguono in:

§         piano di gestione operativa, nel quale devono essere individuati i criteri e le misure tecniche adottate per la gestione della discarica e le modalità di chiusura della stessa;

§         piano di gestione post-operativa, nel quale sono definiti i programmi di sorveglianza e controllo successivi alla chiusura;

§         piano di sorveglianza e controllo, nel quale devono essere indicate tutte le misure necessarie per prevenire rischi d'incidenti causati dal funzionamento della discarica e per limitarne le conseguenze, sia in fase operativa che post-operativa, con particolare riferimento alle precauzioni adottate a tutela delle acque dall'inquinamento provocato da infiltrazioni di percolato nel terreno e alle altre misure di prevenzione e protezione contro qualsiasi danno all'ambiente;

§         piano di ripristino ambientale del sito a chiusura della discarica, nel quale devono essere previste le modalità e gli obiettivi di recupero e sistemazione della discarica in relazione alla destinazione d'uso prevista dell'area stessa;

Chiusura della discarica

L’art. 12 detta specifiche disposizioni per la procedura di chiusura della discarica, o di una parte di essa.

In particolare:

§         la discarica, o una parte della stessa, è considerata definitivamente chiusa solo dopo che l'ente territoriale competente al rilascio dell'autorizzazione ha eseguito un'ispezione finale sul sito, ha valutato tutte le relazioni presentate dal gestore e comunicato a quest'ultimo l'approvazione della chiusura;

§         anche dopo la chiusura definitiva della discarica, il gestore è responsabile della manutenzione, della sorveglianza e del controllo nella fase di gestione post-operativa, per tutto il tempo durante il quale la discarica può comportare rischi per l'ambiente.

Regime transitorio

L’art. 17 del d.lgs. n. 36 prevede un regime transitorio, sia per gli impianti esistenti (discariche già autorizzate alla data di entrata in vigore del decreto, ovvero al 27 luglio 2003) che per quelli nuovi, fino alla data del 31 dicembre 2006.

 

Si ricorda, in proposito, che la data inizialmente prevista era il 16 luglio 2005, poi successivamente prorogata in più occasioni con provvedimenti d’urgenza (da ultimo, con l’art. 11-quaterdecies, comma 9, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248).

 

Per le discariche nuove, ovvero la cui autorizzazione alla realizzazione sia avvenuta dopo il 27 marzo 2003, l’art. 17 prevede che, durante la fase transitoria, le tipologie di rifiuti da avviare a smaltimento debbano essere conformi alle condizioni e limiti di accettabilità previsti dalla Deliberazione del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984, nonché - per quanto concerne i rifiuti di amianto o contenenti amianto - dell’art. 6 del D.P.R. 8 agosto 1994.

 

L’applicazione di tali limiti e condizioni riguarda:

- i rifiuti precedentemente avviati a discariche di 2a cat. tipo A, ora destinati alle discariche di rifiuti inerti;

- i rifiuti precedentemente avviati alle discariche di 1a cat. e di 2a cat. - tipo B, ora destinati alle discariche per rifiuti non pericolosi;

- i rifiuti precedentemente avviati alle discariche di 2a cat. tipo C e di 3a cat., ora destinati alle discariche per rifiuti pericolosi.

 

Si ricorda, infine, che il citato art. 11-quaterdecies, comma 9, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (come successivamente modificato dall’art. 22-bis del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273), nel prorogare la durata del regime transitorio, ha però previsto l’esclusione di alcune tipologie di discariche.

Il citato art. 11-quaterdecies prevede, infatti, che la proroga al 31 dicembre 2006 “non si applica alle discariche di II categoria, di tipo A, di tipo ex 2A e alle discariche per inerti, cui si conferiscono materiali di matrice cementizia contenenti amianto, per le quali il termine di conferimento è fissato alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, ovvero il 3 dicembre 2005.

 

Incenerimento di rifiuti

Il tardivo recepimento della direttiva 2000/76/CE

Con il decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133 (emanatoin attuazione della delega recata dalla legge 31 ottobre 2003, n. 306 – Legge comunitaria 2003), l’Italia ha recepito, sia pure in ritardo, la direttiva 2000/76/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 dicembre 2000 sull'incenerimento dei rifiuti[341].

 

La mancata attuazione della direttiva entro il termine ultimo del 28 dicembre 2002 ha condotto alla condanna dello Stato italiano con la sentenza 2 dicembre 2004 (causa C/97/04).

Campo di applicazione e finalità

L’articolo 1 del d.lgs. n. 133/2005 specifica che il campo di applicazione del decreto comprende sia gli impianti destinati all'incenerimento dei rifiuti che quelli di "coincenerimento" dei rifiuti.

 

Tale decreto consente quindi di colmare il vuoto normativo relativo al coincenerimento di rifiuti non pericolosi, causato dal fatto che il D.M. n. 503 del 1997 disciplina solamente il procedimento di incenerimento dei rifiuti urbani, speciali non pericolosi e di taluni rifiuti sanitari, non prevedendo norme relative al coincenerimento.

In materia di rifiuti pericolosi il processo di coincenerimento è invece ricompreso nel procedimento di incenerimento nel D.M. n. 124 del 2000.

 

L’articolo 1 del decreto illustra le finalità del decreto stesso, che “stabilisce le misure e le procedure finalizzate a prevenire e ridurre per quanto possibile gli effetti negativi dell'incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti sull'ambiente, in particolare l'inquinamento atmosferico, del suolo, delle acque superficiali e sotterranee, nonché i rischi per la salute umana che ne derivino”.

 

Per la realizzazione di tali finalità, il decreto  disciplina:

§         i valori limite di emissione degli impianti di incenerimento e di coincenerimento;

§         i metodi di campionamento, di analisi e di valutazione degli inquinanti derivanti dai citati impianti;

§         i criteri e le norme tecniche generali riguardanti le caratteristiche costruttive e funzionali, nonché le condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti, con particolare riferimento alle esigenze di assicurare una elevata protezione dell'ambiente contro le emissioni causate dall'incenerimento e dal coincenerimento dei rifiuti;

§         i criteri temporali di adeguamento degli impianti di incenerimento e di coincenerimento di rifiuti esistenti alle disposizioni del decreto stesso.

 

Si rammenta, in proposito, che l’art. 22 del D.L. n. 273/2005[342] ha disposto la proroga di alcuni termini previsti per l’adeguamento degli impianti esistenti dall’art. 21 del d.lgs. n. 133/2005. In particolare il comma 1 dell’art. 22 ha posticipato al 28 febbraio 2006 il termine del 28 dicembre 2005 previsto nei commi 1 e 9 dell’art. 21 del decreto n. 133 del 2005 e relativo all’adeguamento degli impianti esistenti alle disposizioni del decreto (comma 1) e all’applicazione agli impianti esistenti, fino all'adeguamento, delle norme tecniche previgenti alla data di entrata in vigore del decreto stesso. È stato inoltre introdotto un nuovo termine (28 dicembre 2007) per gli impianti la cui funzione principale consiste nella produzione di energia elettrica e che utilizzano come combustibile accessorio sottoprodotti di origine animale.

Tipologie di impianti

Dalla lettura dell’articolo 2 (definizioni) si evince che il criterio distintivo delle due tipologie di impianti considerate nel decreto n. 133 risiede nella finalità prevalente dell’impianto:

 

Impianto di incenerimento

Impianto di coincenerimento

se è destinato al trattamento termico di rifiuti ai fini dello smaltimento (con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione),

se è destinato alla produzione di energia o di prodotti e materiali. In tale contesto si realizza coincenerimento allorquando i rifiuti vengono utilizzati come combustibile normale o accessorio oppure quando, nel corso del processo produttivo, si ha un trattamento termico di rifiuti ai fini di un loro smaltimento.

Procedura di autorizzazione

Nel testo della direttiva 2000/76/CE le procedure autorizzatorie di entrambe le tipologie di impianto (incenerimento e coincenerimento) sono disciplinate dallo stesso articolo (art. 4); nel d.lgs. n. 133/2005 sono presenti invece due distiniti articoli (artt. 4 e 5), che contengono tuttavia numerose disposizioni comuni. In particolare, in entrambi gli articoli viene fatta salva l’applicazione della normativa in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA) di recepimento della direttiva 96/61/CE (cd. IPPC) e dei pertinenti articoli del decreto n. 22/1997 (cd. decreto Ronchi).

La principale differenza (sottolineata dalla diversa titolazione degli articoli) consiste nel fatto che nell’art. 5, dedicato al coincenerimento, viene disciplinata solo l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto e non anche, come invece accade per l’art. 4 dedicato all’incenerimento, quella relativa alla costruzione dell’impianto[343].

Novità rispetto alla normativa nazionale previgente

Con il d.lgs. n. 133/2005 viene disciplinato in maniera puntuale il controllo della qualità delle acque provenienti dalla depurazione dei gas di scarico (artt. 10 e 12), non specificamente previsto dai D.M. n. 503/1997 e n. 124/2000[344].

Il controllo in continuo sulle emissioni gassose, previsto dal D.M. n. 503/1997 solo per l’incenerimento, viene esteso dal decreto n. 133 (art. 11) anche alle attività di coincenerimento.

 

Si ricorda, in proposito, che relativamente ai rifiuti pericolosi, invece, il D.M. n. 124/2000 già prevedeva tali misurazioni in continuo.

 

Un’altra novità, che deriva dall’emanazione del regolamento (CE) n. 1774/2002[345], è rappresentata dalla possibilità (contemplata dall’art. 6) di incenerire o coincenerire sottoprodotti di origine animale (cd. farine animali) nell’ambito delle procedure semplificate previste dagli artt. 31 e 33 del decreto Ronchi, opzione non prevista dai D.M. 5 febbraio 1998 e D.M. n. 161/2002[346].

Un’ulteriore novità è rappresentata dalla fissazione di uguali limiti di emissione per rifiuti pericolosi e non pericolosi, come viene chiarito nel paragrafo seguente.

Limiti di emissione

I valori limite di emissione nell’atmosfera previsti negli allegati 1 (relativo all’incenerimento) e 2 (riferito al coincenerimento) del d.lgs. n. 133/2005 recepiscono quelli previsti dall’allegato V e II della direttiva 2000/76/CE, che sono sostanzialmente uguali a quelli della direttiva 94/67/CE sull’incenerimento dei rifiuti pericolosi (recepita nell’ordinamento italiano con il D.M. n. 124/2000), ad eccezione dell’introduzione dei limiti per le emissioni atmosferiche di ossidi di azoto (già previsti, comunque, dalla normativa italiana). Tali limiti si applicano non solo ai rifiuti pericolosi ma anche a quelli non pericolosi, secondo quanto chiarito nel 16° considerando delle premesse alla direttiva 2000/76/CE.

 

Nel citato considerando, infatti, si legge che “La distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi si basa essenzialmente sulle loro diverse caratteristiche prima dell'incenerimento o del coincenerimento, e non sulle diverse emissioni provocate. All'incenerimento o al coincenerimento dei rifiuti, pericolosi o meno, dovrebbero applicarsi gli stessi valori limite di emissione, pur prevedendo tecniche e condizioni di incenerimento o coincenerimento diverse e misure di controllo diverse al momento della ricezione dei rifiuti”.

 

Il confronto con i limiti previsti dalla normativa nazionale previgente evidenzia una sostanziale invarianza, salvo rare eccezioni, rispetto ai valori recati dal D.M. n. 124/2000 (All. 1) e dal D.M. n. 503/1997 (All. 1) per quanto riguarda le emissioni in atmosfera – e nei confronti di quelli previsti dalla tabella 3 dell’allegato 5, punto 4, del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152[347] relativamente all’emissione negli scarichi di acque reflue derivanti dalla depurazione degli effluenti gassosi.

 

Particolari categorie di rifiuti

Negli ultimi anni l’Unione europea ha integrato in modo corposo i principi generali e i requisiti fissati dalla cd. legislazione orizzontale sui rifiuti[348] attraverso in particolare l’emanazione di norme legislative più dettagliate in alcuni settori specifici, tra cui quello della gestione di flussi particolari di rifiuti, in considerazione della crescita del loro volume e della relativa complessità di gestione.

Nell’emanazione delle norme citate, una delle priorità individuate dall’Unione europea è stata quella della responsabilizzazione del produttore, in ossequio al principio “chi inquina paga”[349].

 

Come si legge nella comunicazione Verso una strategia tematica di prevenzione e riciclo dei rifiuti[350] presentata dalla Commissione europea nel maggio 2003, il principio della responsabilità del produttore rappresenta un’importante fonte di finanziamento per controbilanciare il minor vantaggio economico del riciclo rispetto al recupero di energia e allo smaltimento in discarica. Secondo la Commissione “imponendo ai produttori di sostenere il costo del riciclo dei prodotti al termine del ciclo di vita, si fa leva sul loro ruolo specifico nella catena produttori-consumatori-gestori dei rifiuti per finanziare il riciclo e incorporarne i costi di gestione nel prezzo del prodotto. In questo modo si mira anche ad incentivare i produttori a ridurre il costo del riutilizzo e del riciclo dei loro prodotti, ad esempio scegliendo soluzioni progettuali o materiali pensati per il riciclo”.

 

Importanti esempi in cui viene espressamente prevista la responsabilità del produttore sono la direttiva sui veicoli fuori uso e la direttiva sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Altre importanti direttive emanate dall’Unione per il controllo di flussi particolari di rifiuti sono quella relativa ai rifiuti prodotti dalle navi e la nuova direttiva imballaggi.

Veicoli fuori uso

Il decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209 ha dato attuazione (seppur tardiva[351]) alla direttiva comunitaria 2000/53/CE introducendo nell’ordinamento nazionale una nuova disciplina in materia di gestione di rifiuti costituiti da veicoli fuori uso, dai loro componenti e materiali e dai pezzi di ricambio.

 

Si ricorda, in proposito, che in realtà già l’art. 46 del decreto Ronchi aveva introdotto alcune disposizioni sulla gestione di questa particolare categoria di rifiuti, che conservano ancora rilevanza per particolari fattispecie (art. 15, comma 10, del d.lgs. n. 209/2003). Tuttavia la normativa contenuta nel decreto Ronchi[352] non è mai stata integrata dalle necessarie norme tecniche attuative.

Si ricorda,altresì, che le disposizioni del citato art. 46 sono state trasposte nell’art. 231 (intitolato Veicoli fuori uso non disciplinati dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209) del d.lgs. n. 152/2006, la cui Parte quarta riscrive la normativa quadro sui rifiuti dettata dal decreto Ronchi (v. scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche).

 

In seguito all’emanazione del d.lgs. n. 209/2003, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione (n. 2003/2204) per il recepimento non corretto delle disposizioni contenute nella direttiva 2000/53/CE. Con l’art. 1, comma 5, della legge 17 agosto 2005, n. 168 di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 30 giugno 2005, n. 115, al fine di recepire i rilievi formulati nel parere motivato complementare inviato dalla Commissione europea allo Stato italiano nell’ambito della procedura d’infrazione, il Governo è stato delegato ad adottare disposizioni integrative e correttive del decreto n. 209. Tali disposizioni sono state quindi adottate con il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 149.

Il disposto normativo del decreto n. 209/2003, così come modificato dal decreto n. 149/2006, individua, disciplinandole organicamente, le fasi della raccolta, del trattamento, del reimpiego e recupero dei veicoli fuori uso e dei suoi componenti e materiali.

Raccolta

Il d.lgs. n. 209/2003 conferma il ruolo centrale dei centri di raccolta (già previsti dal decreto Ronchi[353]) nei quali devono essere consegnati dal detentore (oppure dal concessionario o gestore della succursale della casa costruttrice o dell’automercato, nel caso in cui il detentore intenda cedere il veicolo per acquistarne un altro) i veicoli destinati alla demolizione (art. 5), diventando così il fulcro dell’intero sistema di recupero e smaltimento dei veicoli fuori uso.

Lo stesso decreto ha previsto che siano gli stessi produttori di veicoli a organizzare una rete di centri di raccolta dei veicoli “fuori uso” opportunamente distribuiti sul territorio nazionale.

L’art. 5, comma 7, prevede inoltre il rilascio al detentore, da parte del titolare del centro di raccolta (che si assume così tutte le responsabilità, civili, penali e amministrative, legate alla gestione del veicolo a fine vita), di apposito certificato di rottamazione conforme ai requisiti di cui all'allegato IV, completato dalla descrizione dello stato del veicolo consegnato, nonché dall'impegno a provvedere alla cancellazione dal PRA e al trattamento del veicolo.

Il d.lgs. n. 209/2003 precisa, altresì, i casi in cui un veicolo è classificato “fuori uso” e, quindi, deve essere trattato come rifiuto ai sensi della legislazione vigente in materia (art. 3, commi 2 e 3).

Trattamento

Come rilevato in dottrina, “se fino a qualche anno fa il trattamento dei veicoli finalizzato alla demolizione era un processo semplice e veloce, ora gli impianti dovranno prevedere specifici e complessi cicli di lavoro al fine di garantire un’adeguata protezione dell’ambiente anche in fase di chiusura e cessazione dell’attività”[354]. Ciò in base all’articolo 6, comma 3, del decreto.

Specifiche disposizioni sono poi finalizzate, nell’ambito del trattamento, a garantire una rimozione selettiva dei componenti ambientalmente critici prima dell’operazione di frantumazione, in modo da ottenere un residuo (il cd. fluff) non contaminato da sostanze pericolose e, quindi, al fine di creare le condizioni per lo sviluppo di forme di trattamento alternativo al suo attuale smaltimento in discarica (art. 8, comma 1, lettera a), numero 5), e lettera b).

Riciclaggio e recupero

La finalità, mutuata dalla direttiva, di prevenire la produzione di rifiuti, viene perseguita mediante la fissazione di precisi ed elevati obiettivi percentuali di riciclaggio e recupero[355] da raggiungere in due successive scadenze temporali: al 1° gennaio 2006 e al 1° gennaio 2015.

Nella stessa direzione vanno le norme volte alla limitazione dell’uso di sostanze pericolose nella costruzione dei veicoli (l’art. 9 prevede infatti il divieto, dal 1° luglio 2003, di produrre o immettere sul mercato materiali e componenti di veicoli contenenti piombo, mercurio, cadmio o cromo esavalente), nonché ad incentivare una progettazione dei veicoli che ne agevoli la demolizione (art. 10).

Controlli e sanzioni

Ulteriori disposizioni sono dettate per aumentare i controlli della pubblica amministrazione (in particolare l’art. 6, comma 5, subordina l'ammissione delle attività di recupero dei rifiuti derivanti da veicoli fuori uso alle procedure semplificate, ad una preventiva ispezione da parte della provincia competente per territorio) e per incentivare il ricorso a sistemi di gestione ambientale (art. 6, comma 8, e art. 15, comma 6).

L’intera disciplina introdotta è poi supportata da disposizioni di carattere sanzionatorio (art. 13) indirizzate a tutti i soggetti coinvolti dal decreto e più severe rispetto a quelle previste in precedenza[356].

Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche

La crescita esponenziale dei consumi di apparecchiature elettriche ed elettroniche e la sempre più rapida obsolescenza di questo genere di prodotti, ha indotto la Commissione a sottoporli ad una disciplina specifica, in ragione della necessità di limitare soprattutto la dispersione nell’ambiente delle sostanze pericolose (mercurio, piombo, cadmio, ecc..) che questi beni contengono, posto che questa tipologia di rifiuti viene oggi avviata principalmente all’incenerimento o in discarica.

L’Unione europea ha quindi emanato ben due direttive (il cui termine di recepimento scadeva il 13 agosto 2004): la direttiva 2002/95/CE sulla restrizione dell'uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (nota come direttiva ROHS[357]) e la direttiva 2002/96/CE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE[358]).

Le direttive 2002/95/CE (ROHS) e 2002/96/CE (RAEE)

La direttiva 2002/95/CE introduce, al fine della tutela della salute umana e dell’ambiente, limitazioni all’utilizzo di sostanze pericolose (piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente ed alcuni ritardanti di fiamma) nella produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche (salvo alcune esenzioni per particolari tipi di applicazioni previste nell'allegato).

Tale intervento normativo si può mettere in correlazione con la direttiva 2002/96/CE. L’ambito di applicazione infatti coincide: la direttiva 2002/95/CE si applica a quelle apparecchiature, elettriche ed elettroniche, che rientrano nelle categorie da 1 a 7 e 10 dell’allegato 1 A della direttiva RAEE.

 

Si ricorda, in proposito, che nell’allegato 1 A della direttiva sono elencate le seguenti apparecchiature elettriche ed elettroniche:

1. Grandi elettrodomestici

2. Piccoli elettrodomestici

3. Apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni

4. Apparecchiature di consumo

5. Apparecchiature di illuminazione

6. Strumenti elettrici ed elettronici (esclusi gli utensili industriali fissi di grandi dimensioni)

7. Giocattoli e apparecchiature per lo sport e per il tempo libero

8. Dispositivi medicali (ad eccezione di tutti i prodotti impiantati e infettati)

9. Strumenti di monitoraggio e di controllo

10. Distributori automatici.

 

Con la direttiva 2002/96/CE viene previsto che gli Stati membri evitino il più possibile di eliminare i rifiuti elettrici ed elettronici insieme con i rifiuti urbani non differenziati e istituiscano, invece, una raccolta differenziata.

Nella stessa direttiva, inoltre, trova larga applicazione il principio della responsabilità estesa del produttore, in quanto gli oneri per il reimpiego, il riciclaggio e il recupero dell'elettronica di consumo gravano sugli operatori economici, mentre ai consumatori sarà richiesto di contribuire alla buona riuscita delle raccolte selettive.

La direttiva fissa, inoltre, impegnativi obiettivi di raccolta, riciclaggio e recupero delle apparecchiature elettriche ed elettroniche che gli Stati membri sono tenuti a raggiungere entro determinate scadenze.

Il decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151

Al recepimento delle direttive citate, l’Italia ha provveduto con l’emanazione del decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151, recante Attuazione delle direttive 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE[359], relative alla riduzione dell'uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché allo smaltimento dei rifiuti[360],sulla base della delega recata dalla legge 31 ottobre 2003, n. 306, legge comunitaria 2003 (ove esse compaiono nell’Allegato B).

Tale decreto, in linea con quanto già disciplinato per i veicoli a fine vita, ha dettato specifiche disposizioni finalizzate a ridurre l’impatto ambientale generato sia dalla presenza di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) sia dalla gestione non sempre corretta dei rifiuti da esse generate[361].

L’obiettivo prioritario perseguito dal decreto (art. 1) è quello di migliorare, sotto il profilo ambientale, l'intervento dei soggetti che partecipano al ciclo di vita delle AEE, quali produttori, distributori, consumatori e, in particolare, gli operatori direttamente coinvolti nel trattamento dei rifiuti da esse derivanti (RAEE).

Il decreto provvede quindi a dettare una serie di misure finalizzate a prevenire la produzione di RAEE nonché a promuoverne il reimpiego, il riciclaggio e le altre forme di recupero, in modo da ridurne la quantità da avviare allo smaltimento[362].

Prevenzione e raccolta (artt. 5-7)

Ai sensi dell’art. 5, a partire dal 1° luglio 2006 è vietato immettere sul mercato AEE nuove rientranti nel campo di applicazione individuato dall'allegato 1° (che riproduce fedelmente quello della direttiva), nonché sorgenti luminose ad incandescenza, contenenti piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, bifenili polibromurati (PBB) od etere di difenile polibromurato (PBDE).

Viene inoltre introdotto (art. 6), un obiettivo di raccolta separata dei RAEE provenienti dai nuclei domestici pari ad almeno 4 kg in media per abitante all'anno, da raggiungere entro il 31 dicembre 2008.

Per consentire il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo di raccolta separata[363], che rappresenta la condizione preliminare per garantire il trattamento specifico e il riciclaggio dei RAEE, l’art. 6 prevede, a decorrere dal 13 agosto 2006[364], che:

§         il ritiro dei rifiuti provenienti da professionisti sia a carico dei produttori delle apparecchiature (o dei terzi che agiscono a nome loro);

§         il ritiro dei rifiuti provenienti dai nuclei domestici avvenga invece, di norma, a cura dei distributori, che dovranno ritirarli gratuitamente all'atto dell'acquisto, da parte del consumatore, di un nuovo ed analogo prodotto;

§         i comuni assicurino la funzionalità, l'accessibilità e l'adeguatezza dei sistemi di raccolta differenziata dei RAEE provenienti dai nuclei domestici istituiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia di raccolta separata dei rifiuti urbani, in modo da permettere ai detentori finali ed ai distributori di conferire gratuitamente al centro di raccolta i rifiuti prodotti nel loro territorio.

Trattamento, recupero e sistema di finanziamento (artt. 8-12)

Per i RAEE derivanti da apparecchiature immesse sul mercato dopo il 13 agosto 2005, il finanziamento dell’intero ciclo di gestione a partire dal trasporto dai centri di raccolta è a carico dei produttori (sia che si tratti di rifiuti provenienti da nuclei domestici che professionali) che, entro il 13 agosto 2006, individualmente o scegliendo un regime collettivo, dovranno istituire sistemi di trattamento e recupero dei RAEE utilizzando le migliori tecniche di trattamento, di recupero e di riciclaggio disponibili.

Invece, per la gestione dei cd. rifiuti storici, ossia di quelli prodotti prima del 13 agosto 2005, il decreto distingue a seconda dell'utenza finale:

§         gli oneri finanziari per la gestione dei rifiuti provenienti dalle utenze domestiche graveranno interamente sui produttori, in proporzione della rispettiva quota di mercato per tipo di apparecchiatura;

§         quelli relativi ai rifiuti prodotti da utilizzo professionale, sono a carico del produttore nel caso di fornitura di una nuova apparecchiatura elettrica ed elettronica in sostituzione di un prodotto di tipo equivalente ed adibito alle stesse funzioni della nuova apparecchiatura fornita oppure a carico del detentore negli altri casi.

 

Al fine di garantire il finanziamento della gestione dei RAEE immessi sul mercato dopo il 13 agosto 2005 il produttore è tenuto a costituire, nel momento in cui un'AEE è immessa sul mercato, un’adeguata garanzia finanziaria.

 

L’articolo 11 precisa che tale garanzia dovrà essere rilasciata secondo quanto previsto dall'art. 1 della legge 10 giugno 1982, n. 348, o secondo modalità equivalenti, che non comportino nuovi o maggiori oneri ovvero minori entrate per la finanza pubblica, definite con apposito decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri delle attività produttive e dell'economia e delle finanze[365].

 

Per quanto riguarda il recupero dei RAEE, l’art. 9 impone ai produttori di AEE, con riferimento ai RAEE avviati al trattamento, di garantire il raggiungimento di specifici obiettivi di recupero e riciclaggio, entro il 31 dicembre 2006.

Informazione, controllo e monitoraggio (artt. 13-17)

Il d.lgs. n. 151/2005 prevede precisi obblighi (posti in capo ai produttori di AEE) di informazione verso l’utenza, nonché una serie di strumenti per il controllo e il monitoraggio dell’intero sistema di gestione, primo tra tutti l’istituzione – presso il Ministero dell’ambiente - di un Registro nazionale dei soggetti obbligati al trattamento dei RAEE al fine di controllare la gestione dei RAEE e di definire le quote di mercato dei produttori.

La predisposizione e l’aggiornamento del citato registro vengono affidati ad un apposito Comitato di vigilanza e di controllo sulla gestione dei RAEE alla cui istituzione viene previsto che si provveda con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio.

Rifiuti navi

Con l’emanazione del decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182, recante Attuazione della direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi ed i residui del carico, l’Italia si è dotata di una disciplina specifica per la gestione dei rifiuti prodotti dalle navi, integrativa della normativa di carattere generale sui rifiuti, ora recata dal d.lgs. n. 152/2006.

La direttiva 2000/59/CE

La direttiva 2000/59/CE ha la finalità di tutelare l’ambiente marino, riducendo gli scarichi in mare dei rifiuti e dei residui del carico da parte delle navi.

 

La direttiva si pone, di fatto, i medesimi obiettivi della Convenzione MARPOL 73/1978[366], di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. Tuttavia, al contrario di quest’ultima – che regola principalmente gli scarichi in mare -, la direttiva 2000/59/CE si impernia sulle operazioni effettuate dalle navi mentre si trovano nei porti dell’UE e tratta in modo particolareggiato le responsabilità

 

Gli obiettivi della direttiva vengono perseguiti attraverso l’aumento della disponibilità e dell’utilizzo di impianti di raccolta nei porti, nonché l’introduzione di un regime coercitivo, valevole per tutte le navi in transito nei porti dei Paesi membri.

La direttiva impone agli Stati membri di mettere a disposizione sistemi portuali di raccolta adeguati. Vengono dettate, inoltre, disposizioni relative alla predisposizione di piani di raccolta e gestione dei rifiuti per ciascun porto, alle modalità di notifica alle autorità competenti da parte del comandante della nave e alle modalità di conferimento dei rifiuti prodotti dalla nave.

In applicazione del principio generale “chi inquina paga”, è previsto infine un regime tariffario applicabile alle navi, al fine di recuperare i costi degli impianti portuali di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti da esse prodotti.

Il decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182

Con qualche mese di ritardo (il termine ultimo per il recepimento da parte degli Stati membri era, infatti, il 28 dicembre 2002) l’Italia si è allineata alla disciplina recata dalla direttiva 2005/59/CE, elaborando le regole per la raccolta dei rifiuti provenienti dalle navi che utilizzano porti situati nel territorio nazionale.

Obiettivi

Il d.lgs. n. 182/2003 ha l'obiettivo di “ridurre gli scarichi in mare, in particolare quelli illeciti, dei rifiuti e dei residui del carico prodotti dalle navi che utilizzano porti situati nel territorio dello Stato, nonché di migliorare la disponibilità e l'utilizzo degli impianti portuali di raccolta per i suddetti rifiuti e residui” (art. 1).

Campo di applicazione

In analogia con la direttiva, le norme recate dal d.lgs. n. 128/2003 si applicano alle navi (e ai porti dello Stato ove queste fanno scalo), “compresi i pescherecci e le imbarcazioni da diporto, a prescindere dalla loro bandiera, che fanno scalo o che operano in un porto dello Stato, ad esclusione delle navi militari da guerra ed ausiliarie o di altre navi possedute o gestite dallo Stato, se impiegate solo per servizi statali a fini non commerciali” (art. 3).

Per le tipologie escluse, tuttavia, in particolare per le navi da guerra e per quelle delle forze di polizia, viene demandato ai Ministeri competenti di adottare in tempi relativamente brevi un’apposita disciplina.

Definizioni

Ai sensi dell’art. 2 del decreto, “sono considerati rifiuti ai sensi del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni”:

§         i rifiuti prodotti dalla nave: i rifiuti, comprese le acque reflue e i residui diversi dai residui del carico, ivi comprese le acque di sentina, prodotti a bordo di una nave e che rientrano nell'ambito di applicazione degli allegati I, IV e V della Marpol 73/78, nonché i rifiuti associati al carico di cui alle linee guida definite a livello comunitario per l'attuazione dell'allegato V della Marpol 73/78;

§         i residui del carico: i resti di qualsiasi materiale che costituisce il carico contenuto a bordo della nave nella stiva o in cisterne e che permane al termine delle operazioni di scarico o di pulizia, ivi comprese le acque di lavaggio (slop) e le acque di zavorra, qualora venute a contatto con il carico o suoi residui; tali resti comprendono eccedenze di carico-scarico e fuoriuscite.

 

L’assoggettamento alla disciplina dei rifiuti delle tipologie considerate è stato tuttavia differito dall’art. 10-bis del D.L. n. 355/2003 “fino all'entrata in vigore della specifica normativa semplificata ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e comunque non oltre il 31 dicembre 2005”.

 

Si ricorda, in proposito, che tale normativa è stata emanata con il D.M. 17 novembre 2005, n. 269 recante Regolamento attuativo degli articoli 31 e 33 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all'individuazione dei rifiuti pericolosi provenienti dalle navi, che è possibile ammettere alle procedure semplificate[367].

Sul punto è intervenuta anche la circolare del Ministero dell’ambiente 9 marzo 2004, n. 1825[368], volta a chiarire i vari problemi sorti nell’applicazione del decreto, anche alla luce delle modifiche recate dal citato art. 10-bis.

Obblighi

Uno degli elementi portanti della disciplina recata dal decreto per il raggiungimento dei relativi è senz’altro rappresentato dall’introduzione dell’obbligo (previsto dall’art. 5), per le Autorità portuali, di provvedere all’elaborazione (entro il 6 agosto 2004[369]) di un Piano di raccolta e di gestione dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico.

 

Si ricorda, inoltre, che l’art. 5 prevede che entro sessanta giorni dall'avvenuta comunicazione del piano, la regione valuta ed approva lo stesso piano, integrandolo, per gli aspetti relativi alla gestione, con il piano regionale di gestione dei rifiuti previsto dall’art. 22 del decreto Ronchi (ora trasfuso nell’art. 199 del d.lgs. n. 152/2006) e ne controlla lo stato di attuazione.

 

In capo al comandante della nave che debba provvedere alla gestione di rifiuti e/o residui presso un porto italiano sono posti due importanti obblighi:

§         obbligo di notifica all’autorità portuale competente di tutte le informazioni relative alle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti, da effettuarsi (nel caso il porto di destinazione sia noto) almeno 24 ore prima dell'arrivo nel porto di scalo[370] (art. 6);

§         obbligo di conferimento di tutti i rifiuti prodotti dalla nave e dei residui del carico all'impianto portuale di raccolta (artt. 7 e 10).

Tale disposizione è principalmente volta a limitare la presenza di navi con carichi potenzialmente inquinanti in mare aperto (riducendone quindi il rischio di dispersione in mare) nonché a razionalizzare la gestione a terra dei rifiuti evitando che alcuni porti vengano oberati, più di altri, di quantità notevoli di scarti accumulati.

Strumenti

Per consentire l’attuazione del citato piano e l’ottemperanza degli obblighi imposti ai comandanti delle navi, ogni porto deve dotarsi, con oneri a carico del gestore del servizio, di adeguati impianti e servizi portuali di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico, autorizzati ai sensi degli artt. 27 e 28 del decreto Ronchi (ora trasfusi nell’art. 208 recante autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti).

 

L’adeguatezza deve essere valutata “in relazione alla classificazione dello stesso porto, laddove adottata, ovvero in relazione al traffico registrato nell'ultimo triennio” (art. 4).

 

Conformemente alla direttiva, l’art. 8 prevede che alla copertura degli oneri “relativi all'impianto portuale di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi, ivi compresi quelli di investimento e quelli relativi al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti stessi”, si provvede mediante una tariffa a carico delle navi che approdano nel porto.

Nell’allegato IV al decreto sono inoltre fissati i criteri per la determinazione della tariffa.

Sanzioni

In linea con le disposizioni comunitarie, il d.lgs. n. 182/2003 prevede un meccanismo coercitivo e sanzionatorio  (artt. 11 e 13) nei confronti dei soggetti coinvolti nella procedura di conferimento.

A tale scopo l’Autorità marittima esegue ispezioni periodiche atte a verificare il rispetto degli obblighi imposti dal decreto e, qualora ne venga accertata la violazione, provvede affinché sia impedito alla nave interessata di lasciare il porto fino a completa ottemperanza degli obblighi suddetti.

A tali misure coercitive si aggiunge la possibilità per l’Autorità portuale di applicare specifiche sanzioni.

Imballaggi

La direttiva 2004/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 febbraio 2004 reca alcune modifiche alla direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio (cd. direttiva packaging), soprattutto attraverso l’introduzione di una più precisa definizione di “imballaggio” e l’innalzamento degli obiettivi minimi di recupero e di riciclaggio degli imballaggi, da raggiungere entro il 31 dicembre 2008 (art. 1, punto 3).

Per quanto riguarda tale ultimo profilo, la nuova direttiva prevede:

§         per il recupero, un elevamento della soglia minima dal 50 al 60% in peso (in modo tale da ridurne ulteriormente l’impatto sull’ambiente) e l’eliminazione della soglia massima del 65%, prevista dalla precedente formulazione della direttiva 94/62/CE;

§         per il riciclaggio, l’innalzamento delle percentuali complessive di imballaggi da riciclare (dal minimo del 25% al 55%) e dall’altro la determinazione di soglie minime diverse a seconda dei singoli materiali (vetro, carta e cartone, metalli, plastica, legno) in sostituzione dell’obiettivo minimo del 15% comune ad ogni materiale.

 

Un’ulteriore e rilevante novità prevista dalla direttiva in esame consiste nel consentire agli Stati membri di continuare a conteggiare l'incenerimento dei rifiuti con recupero energetico all'interno dell'obiettivo globale di recupero.

Il recepimento di tali modifiche nell’ordinamento nazionale, previsto entro il 18 agosto 2005 (secondo quanto disposto dall’art. 2 della direttiva) è stato realizzato dal Governo nell’ambito del riordino normativo delegato con l’approvazione della legge n. 308/2004 ed attuato con l’emanazione del d.lgs. n. 152/2006 (v. scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche).

 

Si ricorda, altresì, che la direttiva 2004/12/CE figurava nell’allegato B della legge comunitaria 2004 (legge 18 aprile 2005, n. 62).

 

L’attuazione del Protocollo di Kyoto

Il Protocollo di Kyoto

Il Protocollo di Kyoto impegna i Paesi industrializzati ed i Paesi con economia in transizione a ridurre le emissioni di gas in grado di alterare l’effetto serra del pianeta entro il 2012.

 

Con il termine “Protocollo di Kyoto” si intende l’accordo internazionale sottoscritto il 7 dicembre 1997 da oltre 160 paesi partecipanti alla terza sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici (UNFCCC[371]). Oggetto del Protocollo è uno degli aspetti del cambiamento climatico: la riduzione, attraverso un’azione concordata a livello internazionale, delle emissioni di gas serra.

I paesi industrializzati (elencati nell’Annex I del Protocollo) si impegnano a ridurre le proprie emissioni entro il 2012. Il protocollo di Kyoto non prevede vincoli alle emissioni per tutti i paesi firmatari (oltre 160), ma solo per quelli compresi nell’elenco riportato nell’Annex I: una lista di 39 paesi che include i paesi OCSE e quelli con economie in transizione verso il mercato. Tale scelta è stata operata in attuazione del principio di “responsabilità comune ma differenziata” secondo il quale, nel controllo delle emissioni i paesi industrializzati si fanno carico di maggiori responsabilità, in considerazione dei bisogni di sviluppo economico dei PVS.

Obiettivo del Protocollo è la riduzione delle emissioni globali di sei gas, ritenuti responsabili di una delle cause del riscaldamento del pianeta: anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ossido di azoto (N2O), esafluoruro di zolfo (SF6), idrofluorocarburi (HFCs) e perfluorocarburi (PFCs).

Gli impegni generali previsti dal Protocollo sono:

-   il miglioramento dell’efficienza energetica

-   la correzione delle imperfezioni del mercato (attraverso incentivi fiscali e sussidi)

-   la promozione dell’agricoltura sostenibile

-   la riduzione delle emissioni nel settore dei trasporti

-   l’informazione a tutte le altre Parti sulle azioni intraprese (cd “comunicazioni nazionali”)

La misura complessiva di riduzione deve essere del 5,2% rispetto ai livelli di emissione del 1990. L’onere, tuttavia, è stato ripartito fra i Paesi dell’Annex I in maniera non uniforme, in considerazione del grado di sviluppo industriale, del reddito, dei livelli di efficienza energetica.

 

Per garantire un’attuazione flessibile del Protocollo e una riduzione di costi gravanti complessivamente sui sistemi economici dei paesi soggetti al vincolo sono stati introdotti i seguenti meccanismi flessibili:

§      l’emission trading (commercio dei diritti di emissione)[372], in base al quale i paesi soggetti al vincolo che riescano ad ottenere un surplus nella riduzione delle emissioni possono “vendere” tale surplus ad altri paesi soggetti a vincolo che - al contrario - non riescano a raggiungere gli obiettivi assegnati;

§      la joint implementation(attuazione congiunta degli obblighi individuali)[373], secondo cui gruppi di paesi soggetti a vincolo, fra quelli indicati dall’Annex I, possono collaborare per raggiungere gli obiettivi fissati accordandosi su una diversa distribuzione degli obblighi rispetto a quanto sancito dal Protocollo, purchè venga rispettato l'obbligo complessivo. A tal fine essi possono trasferire a, o acquistare da, ogni altro Paese “emission reduction units”(ERUs) realizzate attraverso specifici progetti di riduzione delle emissioni;

§      i clean development mechanisms(meccanismi per lo sviluppo pulito)[374], il cui fine è quello di fornire assistenza alle Parti non incluse nell’Annex I negli sforzi per la riduzione delle emissioni. I privati o i governi dei paesi dell’Annex I che forniscono tale assistenza possono ottenere, in cambio dei risultati raggiunti nei paesi in via di sviluppo grazie ai progetti, “certified emission reductions” (CERs) il cui ammontare viene calcolato ai fini del raggiungimento del target.

 

In base all’accordo le riduzioni dovranno essere conseguite nelle seguenti misure percentuali:

 

Protocollo di Kyoto

Impegni assunti[375]

Riduzione (entro il 2008-2012) dei gas serra rispetto ai livelli del 1990

Stati membri UE

8%

USA

7%

Giappone

6%

Canada

6%

Totale paesi Annex I

5,2%[376]

 

Il Protocollo di Kyoto riconosce all’Unione europea (che ha provveduto a ratificarlo in data 31 maggio 2002) la facoltà di ridistribuire tra i suoi Stati membri gli obiettivi ad essa imposti, a condizione che rimanga invariato il risultato finale. Con la decisione politica nota come accordo sulla ripartizione degli oneri (raggiunto nel Consiglio Ambiente del 16-17 giugno 1998) sono state fissate le seguenti percentuali di riduzione:

 

Austria

-13%

Italia

-6,5%

Belgio

-7,5%

Lussemburgo

-28%

Danimarca

-21%

Paesi Bassi

-6%

Finlandia

0%

Portogallo

+27%

Francia

0%

Regno Unito

-12,5%

Germania

-21%

Spagna

+15%

Grecia

+25%

Svezia

+4%

Irlanda

+13%

 

 

 

Il protocollo è diventato vincolante a livello internazionale il 16 febbraio 2005 in seguito al deposito dello strumento di ratifica da parte della Russia, con notevole ritardo rispetto alla firma del protocollo medesimo, causato dall'uscita dal Protocollo degli USA, che rappresentano da soli il 36% delle emissioni dei Paesi industrializzati.

 

Si ricorda, infatti, che l’art. 24 del Protocollo ne prevede l’entrata in vigore 90 giorni dopo la ratifica da parte di almeno 55 paesi firmatari della Convenzione, comprendenti un numero di paesi dell’Annex I a cui sia riferibile almeno il 55% delle emissioni calcolate al 1990.

 

Per quanto riguarda l’Italia, la ratifica del protocollo di Kyoto è avvenuta con la legge 1° giugno 2002, n. 120, la quale reca anche una serie di disposizioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra.

 

L’art. 2, comma 1, dispone, infatti, che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, entro il 30 settembre 2002, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con gli altri ministri interessati, è tenuto a presentare al CIPE un piano di azione nazionale per la riduzione dei livelli di emissione dei gas serra e l’aumento del loro assorbimento ed una relazione contenente lo stato di attuazione e la proposta di revisione della delibera CIPE n. 137 del 19 novembre 1998.

Nel medesimo comma viene previsto, inoltre, che la suddetta relazione debba riguardare anche lo stato di attuazione dei programmi finanziati dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio in attuazione del decreto-legge 30 dicembre 1999, n. 500 e del D.M. ambiente 20 luglio 2000, n. 337, nonché dei programmi pilota previsti dal successivo comma 3, in cui si prevede che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, entro il 30 marzo di ogni anno, individui, con proprio decreto e di concerto con i ministri interessati e con la Conferenza unificata Stato-regioni-città, i programmi pilota da attuare a livello nazionale ed internazionale per la riduzione delle emissioni e l'impiego di piantagioni forestali per l'assorbimento del carbonio[377] e che (comma 4) entro il 30 novembre di ogni anno il Ministro dell’ambiente trasmetta al Parlamento una relazione sulla loro attuazione.

 

In attuazione di tali disposizioni, il Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio ha provveduto ad elaborare il Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra: 2003-2010[378] (per consentire all'Italia di rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra del 6,5% entro il 2008-2012, come prevede il Protocollo di Kyoto), nonché la proposta di revisione della delibera CIPE n. 137 del 19 novembre 1998, recante le “linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra”.

Tali documenti, approvati con la delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 123[379], contengono, secondo quanto previsto dalla legge di ratifica, l'individuazione delle politiche e delle misure finalizzate al contenimento ed alla riduzione delle emissioni di gas serra.

 

Nella legge di ratifica viene specificato che tali azioni devono tendere al raggiungimento dei migliori risultati in termini di riduzione delle emissioni mediante il miglioramento dell'efficienza energetica del sistema economico nazionale e un maggiore utilizzo delle fonti di energia rinnovabili, all'aumento degli assorbimenti di gas serra derivanti dalle attività e dai cambiamenti di uso del suolo e forestali, alla piena utilizzazione dei meccanismi istituiti dal Protocollo di Kyoto per la realizzazione di iniziative congiunte con gli altri Paesi industrializzati (joint implementation) e con quelli in via di sviluppo (clean development mechanism), e, infine, all’accelerazione delle iniziative di ricerca e sperimentazione per l’introduzione dell’idrogeno quale combustibile e per la realizzazione di impianti per la produzione di energie alternative pulite (biomasse, biogas, combustibile derivato dai rifiuti, impianti eolici, fotovoltaici, solari).

Per il finanziamento di tali misure è da ultimo intervenuto l’art. 1, comma 433, della legge n. 266/2005 (finanziaria 2006), che ha autorizzato un contributo di 100 milioni di euro per il 2006.

 

Nel Piano nazionale viene sottolineato che poiché le emissioni tendenziali al 2010 corrispondono a 580 Mt di CO2 equivalenti, il “gap” da colmare a quella data sarà pari a 93 Mt di CO2 equivalenti (dato che l’obbligo imposto dal Protocollo di Kyoto di una riduzione del 6,5% rispetto al 1990 implica che le emissioni non potranno superare i 487 Mt CO2 equivalenti).

 

Si ricorda, inoltre, che prima ancora della ratifica del Protocollo, l’VIII Commissione della Camera aveva deliberato (nella seduta del 17 luglio 2001) lo svolgimento di un’indagine conoscitiva, conclusasi il 10 luglio 2002 con l’approvazione del Doc. XVII, n. 4, che traeva origine anche dagli aspetti problematici e dagli sviluppi emersi in ambito internazionale in merito alle modalità di attuazione del Protocollo di Kyoto del 1997 e che era finalizzata ad esaminare ed eventualmente definire strategie nazionali per il conseguimento degli obiettivi definiti dal Protocollo di Kyoto.

Il commercio dei diritti di emissione

L’uso di tale strumento è volto a raggiungere gli obiettivi del Protocollo a costi più vantaggiosi attraverso il ricorso a meccanismi di mercato. Il presupposto su cui si basa la previsione di riduzione dei costi globali è fondato sulle forti variazioni nei costi di riduzione delle emissioni fra i vari paesi e fra i vari processi industriali. Attraverso la commercializzazione dei permessi di emissione, lo stesso mercato provvederà ad allocarli nel modo più efficiente, riducendo i costi globali rispetto a meccanismi più rigidi quali la tassazione o la semplice definizione di limiti.

La piena entrata in vigore a livello internazionale dell'emission trading è prevista nel 2008 (oggi sono ancora da definire le regole[380]), ma molti governi, organizzazioni governative e società stanno conducendo prove e sperimentazioni per verificarne le modalità di funzionamento.

La direttiva 2003/87/CE

Un’importante iniziativa in tal senso è stata intrapresa dall’Unione europea con l’emanazione della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 2003 che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità - denominato Emission Trading System (ETS) - al fine di promuovere la riduzione di dette emissioni secondo criteri di efficacia dei costi ed efficienza economica.

Tale direttiva, che rappresenta la prima fase attuativa del Programma europeo sul cambiamento climatico (European Climate Change Programme - ECCP) lanciato nel giugno del 2000 dalla Commissione Europea, prevede l’istituzione di un mercato delle emissioni su scala europea a partire dal 2005 da affiancare all’emission trading previsto su scala globale dal Protocollo.

La direttiva si applica alle emissioni provenienti dalle attività indicate nell'allegato I e ai gas a effetto serra elencati nell'allegato II. In particolare alle emissioni di anidride carbonica provenienti da attività di combustione energetica, produzione e trasformazione dei metalli ferrosi, lavorazione di prodotti minerari, produzione di pasta per carta, carta e cartoni.

Gli obblighi previsti per gli impianti da essa regolati sono:

1)      possedere un permesso all’emissione in atmosfera di gas serra[381];

2)      rendere alla fine dell’anno un numero di quote (o diritti) d’emissione pari alle emissioni di gas serra rilasciate durante l’anno[382].

 

Le quote d’emissioni vengono rilasciate dall’autorità nazionale competente (ANC) all’operatore di ciascun impianto regolato dalla direttiva sulla base di un piano di allocazione nazionale; ogni quota (cd. European Unit Allowance – EUA) dà diritto al rilascio di una tonnellata di biossido di carbonio equivalente.

Il piano di allocazione nazionale (redatto in conformità ai criteri previsti dall’allegato III della direttiva) prevede l’assegnazione di quote a livello d’impianto per periodi di tempo predeterminati (il primo è individuato dalla direttiva nel triennio 2005-2007, mentre i successivi nei quinquenni 2008-2012, 2013-2017, ecc).

Esso, inoltre, deve essere coerente con gli obiettivi di riduzione nazionale, con le previsioni di crescita delle emissioni, con il potenziale di abbattimento e con i principi di tutela della concorrenza.

Una volta rilasciate, le quote possono essere vendute o acquistate[383]. Tali transazioni devono poi essere registrate nell’ambito di un registro nazionale.

La restituzione delle quote d’emissione avviene attraverso il registro nazionale ed è effettuata annualmente dagli operatori degli impianti in numero pari alle emissioni reali certificate da un soggetto terzo accreditato dall’ANC.

Con la Decisione della Commissione n. 156 del 29 gennaio 2004 sono state fissate le linee guida per il monitoraggio e la comunicazione delle emissioni di gas a effetto serra ai sensi della direttiva 2003/87/CE.

Si ricorda, inoltre, che la direttiva 2004/101/CE (cd. direttiva linking) ha riconosciuto i meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto (Joint Implementation e Clean Developmnet Mechanism) all’interno dell’ETS, stabilendo la validità dei crediti di emissione (ottenuti grazie all’attuazione di tali progetti) per rispondere agli obblighi di riduzione delle emissioni[384].

 

L’attuazione nell’ordinamento italiano

L’assegnazione delle quote di emissione

Per quanto riguarda l’Italia, i Ministeri delle attività produttive e dell'ambiente hanno elaborato e trasmesso alla Commissione europea il 21 luglio 2004 il Piano Nazionale di Assegnazione delle quote di emissione di anidride carbonica (secondo quanto previsto dalla direttiva 2003/87/CE) che illustra i principi per l'applicazione della direttiva nel contesto energetico e industriale dell'Italia ed il metodo da utilizzare per l'assegnazione delle quote a livello di attività e di impianto.

Si ricorda che in materia è intervenuto anche il D.L. 12 novembre 2004, n. 273 (convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 316) recante disposizioni urgenti per l’applicazione della direttiva 2003/87/CE in materia di scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra nella Comunità europea, al fine di consentire – in attesa del recepimento della direttiva[385] - l’avvio a partire già dal 2005 del sistema previsto dalla direttiva stessa.

I punti salienti del decreto sono:

-        l’attribuzione del ruolo di ANC al Ministero dell’ambiente fino all’avvenuto recepimento della direttiva;

-        l’obbligo per i gestori di impianti ricadenti nel campo di applicazione della direttiva di presentare la richiesta di autorizzazione ad emettere gas serra entro il 30 novembre 2004 e di presentare le informazioni necessarie per permettere all’ANC di procedere all’assegnazione delle quote di emissione di CO2 entro il 30 dicembre 2004;

-        l’individuazione delle modalità di comunicazione delle suddette informazioni;

-        l’individuazione delle modalità di rilascio delle autorizzazioni ad emettere gas serra.

 

Successivamente, il 28 febbraio 2005, il Governo ha provveduto a trasmettere alla Commissione europea l’integrazione del Piano nazionale di assegnazione per il periodo 2005-2007 al fine di assicurare la coerenza del Piano con il criterio 10 dell’allegato III della direttiva 2003/87/CE, che richiede che il Piano contenga l’elenco degli impianti regolati dalla direttiva con i valori delle quote che il Governo intende assegnare a ciascun impianto[386].

Con la decisione C(2005)1527 del 25 maggio 2005 la Commissione europea ha accolto il piano dell’Italia che assegna le quote di emissione di CO2 agli impianti italiani per il periodo di scambio 2005-2007, dopo che le autorità italiane hanno accettato di ridurre il numero totale di quote da assegnare: 23 milioni di tonnellate di CO2 in meno all’anno, pari al 9% delle quote previste inizialmente. Con tale decisione, tuttavia, la Commissione ha richiesto all’Italia di comunicare ulteriori informazioni sulle quote assegnate a impianti specifici e rinunciare ad una disposizione riguardante l’adeguamento a posteriori del piano. La versione del piano di assegnazione dell’Italia esaminata nel maggio 2005 dalla Commissione riguardava 1.240 impianti, tutti ammessi a partecipare al sistema di scambio, ai quali si prevedeva di assegnare quote per consentire di emettere mediamente, ogni anno, 232,5 milioni di tonnellate di CO2 per il periodo 2005-2007.

In data 23 febbraio 2006 il Ministero dell'ambiente ha emanato il decreto DEC/RAS/074/2006, recante l'assegnazione e il rilascio delle quote di CO2 per il periodo 2005-2007 sulla base della Decisione di assegnazione delle quote di CO2 per il periodo 2005-2007 (allegata al medesimo decreto) che rappresenta la versione definitiva e revisionata del piano nazionale di assegnazione delle quote di emissione, come risultante a seguito delle integrazioni e delle prescrizioni dettate dalla Commissione europea, che individua il numero di quote complessivo, a livello di settore e di impianto, che sarà assegnato dall’ANC per l’attuazione della direttiva.

In particolare tale decisione[387] attribuisce al settore termoelettrico un tetto di 131,1 milioni di tonnellate di CO2 all'anno, e ai settori non elettrici un tetto di 94,4 milioni di tonnellate di CO2 all'anno. La riduzione delle quote, in linea con la citata decisione della Commissione europea, risulta complessivamente pari a 25,8 milioni di tonnellate di CO2 per anno.

Di seguito si riporta la tabella 1.1 della decisione ove sono indicate le quote complessivamente assegnate nel primo triennio di riferimento:

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Il decreto legislativo di integrale recepimento della direttiva

Alla data di chiusura della XIV legislatura non è ancora stato pubblicato il decreto legislativo volto a recepire nell’ordinamento nazionale sia la direttiva 2003/87/CE, sia la direttiva 2004/101, provvedendo, altresì, ad inglobare nel testo, al fine di predisporre un quadro normativo unitario, le disposizioni dettate dal D.L. n. 273/2004, consequenzialmente abrogato.

L’illustrazione del contenuto di tale decreto in attesa della pubblicazione in G.U. si riferisce al testo dello schema presentato alle Camere per il parere (Atto Governo n. 597).

Il campo di applicazione del decreto (art. 2) riguarda le emissioni:

§          provenienti dalle attività indicate nell’allegato A;

§          relative ai gas-serra elencati nell’allegato B.

 

L’articolo 4 stabilisce, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, l’obbligo di autorizzazione per gli impianti rientranti nel campo di applicazione del decreto stesso, in linea con le disposizioni del corrispondente articolo della direttiva.


Il diagramma seguente schematizza la procedura delineata dagli artt. 5 e 6 per il rilascio, da parte dell’ANC per l’attuazione della direttiva, dell’autorizzazione ad emettere gas serra:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


L’articolo 8 dispone l’istituzione - senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato -, presso la Direzione RAS del Ministero dell’ambiente, del “Comitato nazionale di gestione e attuazione della direttiva 2003/87/CE”, cui vengono affidate le funzioni di ANC.

Si ricorda che secondo la vigente normativa recata dal DL n. 273/2004 “fino al recepimento della direttiva 2003/87/CE, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio - Direzione per la ricerca ambientale e lo sviluppo svolge le funzioni di autorità nazionale competente, avvalendosi a tale fine, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici e dell'Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente”.

 

Il diagramma seguente schematizza la procedura che, secondo quanto previsto dagli artt. 10 e 11 in linea con le disposizioni della direttiva, conduce dall’approvazione del PNA all’assegnazione e al successivo rilascio delle quote di emissioni ai singoli impianti:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Per quanto riguarda il controllo del sistema, l’articolo 14 prevede l’istituzione - senza oneri a carico del bilancio statale - del Registro nazionale delle emissioni e delle quote d’emissioni presso la direzione RAS del Ministero dell’ambiente, che svolge le funzioni di amministratore del registro sulla base delle disposizioni impartite dall’ANC.

 

Tale registro:

§         è finalizzato alla contabilizzazione delle quote di emissioni rilasciate, possedute, trasferite[388], restituite e cancellate (conformemente all’art. 19, par. 1, della direttiva);

§         annota i dati contenuti nella dichiarazione annuale delle emissioni di ciascun impianto prevista dall’art. 15, comma 5;

§         assolve le funzioni del registro nazionale previsto dall’art. 6 della decisione n. 208/2004/CE (relativa ad un meccanismo per monitorare le emissioni di gas a effetto serra nella Comunità e per attuare il protocollo di Kyoto) e opera secondo le specifiche di cui al regolamento n. 2216/2004/CE (relativo ad un sistema standardizzato e sicuro di registri, che consente di attuare il disposto dell’art. 19, par. 3, della direttiva 2003/87/CE nonché del citato articolo 6 della decisione n. 280/2004/CE).

 

Si ricorda, inoltre, che l’articolo 26 prevede l’introduzione di un sistema di tariffazione, per la copertura degli oneri derivanti dallo svolgimento, da parte dell’ANC, di una serie di operazioni, tra cui quelle per il rilascio e l’aggiornamento delle autorizzazioni ad emettere gas serra.

Infine l’art. 27 impartisce le disposizioni transitorie per l’attuazione della direttiva che si applicano fino all’entrata in vigore del decreto.

In particolare il comma 3 riconosce al PNA inviato alla Commissione nel luglio 2004 e successivamente integrato, la sua validità quale PNA per il primo periodo di riferimento del decreto (2005-2007).

Il comma 4, infine, stabilisce l’equipollenza delle autorizzazioni rilasciate ai sensi dell’art. 1 del DL n. 273/2004 con quelle rilasciate ai sensi dell’art. 4 del decreto in commento.

 

Del resto, il DL n. 273/2004 è stato emanato proprio al fine di consentire - in attesa del recepimento della direttiva - l’avvio a partire già dal 2005 del sistema previsto dalla direttiva stessa.

 

 

L’Italian Carbon Fund (ICF)

Si segnala, infine, che anche la Banca mondiale ha intrapreso un programma di emission trading attraverso l’istituzione del Community Development Carbon Fund, con il quale verranno acquistati - nei Paesi in via di sviluppo – certificati legati alla riduzione delle emissioni di gas serra generate da progetti selezionati e monitorati dalla Banca stessa. Secondo alcuni, con questa operazione la Banca Mondiale “si candida a giocare un ruolo centrale nel futuro commercio mondiale dei certificati di emissione della CO2[389].

Tale iniziativa si affianca ad altre analoghe[390] tra cui quella che nell’ottobre 2003 ha portato alla stipula di un accordo tra il Ministero dell’ambiente e la Banca Mondiale volto ad istituire l’Italian Carbon Fund per l’acquisto di crediti di emissione da progetti che generino riduzioni di emissioni di gas serra (compatibili con i meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto e con il nuovo sistema europeo di emission trading) ed apportino benefici all’ambiente globale, promuovendo nel contempo la diffusione di tecnologie moderne ed energia pulita in paesi in via di sviluppo e con economie in transizione.

Tale fondo è un partenariato pubblico-privato (dal 1° gennaio 2004 il Fondo è aperto alla partecipazione di aziende private ed agenzie pubbliche italiane) amministrato dalla Banca Mondiale e dotato di un capitale iniziale di 15 milioni di dollari messi a disposizione dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio[391]. Tale impegno finanziario si affianca alla partecipazione dell’Italia al citato Community Development Carbon Fund per un importo di 7,7 milioni di dollari.

 

L’autorizzazione integrata ambientale

Con il decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59[392] si è data integrale attuazione alla direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (cd. direttiva IPPC). Contestualmente, è stato abrogato il decreto legislativo n. 372/1999 con cui era stata parzialmente recepita la citata direttiva, limitatamente agli impianti esistenti.

Il nuovo decreto legislativo (n. 59/2005) ha confermato l’impianto generale dell’abrogato decreto del 1999, fra cui, in particolare, la sottoposizione degli impianti ricadenti nel campo di applicazione (allargato in modo da comprendere anche quelli nuovi o soggetti a modifica sostanziale) ad un’autorizzazione ambientale unica, denominata autorizzazione integrata ambientale (d’ora in poi AIA), sostitutiva di tutte le altre autorizzazioni ambientali eventualmente necessarie.

La direttiva 96/61/CE

La direttiva 96/61 del 24 settembre 1996 del Consiglio sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento richiede che l'autorizzazione all'esercizio per determinati impianti industriali venga attuata secondo un approccio integrato alla lotta contro le emissioni industriali, nell’aria, nelle acque e nel suolo[393].

A tal fine la direttiva ha quindi sottoposto la gestione degli stabilimenti industriali che svolgono attività rientranti nell’allegato I (attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, industria dei prodotti minerali, industria chimica, gestione dei rifiuti, allevamento di animali), siano essi esistenti, nuovi o sostanzialmente modificati, alla concessione di un'autorizzazione, che deve includere valori limite di emissione, basati sulle migliori tecniche disponibili, e che deve essere concessa previa consultazione del pubblico ed eventualmente di un esame coordinato da parte delle varie autorità competenti.

In proposito si ricorda che tale direttiva è stata recentemente modificata dalla direttiva 2003/35/CE[394] (relativa alla partecipazione del pubblico nell'elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale) che ha rinforzato ulteriormente i diritti del pubblico nel contesto delle procedure d’autorizzazione.

La direttiva 2003/35/CE modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento, per renderla conforme alla Convenzione di Aarhus[395] del 1998. Tra le modifiche introdotte si ricordano quelle volte ad imporre agli Stati membri di garantire che al pubblico interessato sia offerta tempestivamente l'opportunità di partecipare alla procedura decisoria relativa alle autorizzazioni e di conoscere i motivi e le considerazioni su cui è basata la decisione, nonché l’aggiunta di un nuovo allegato (V) che fornisce disposizioni dettagliate in materia di partecipazione del pubblico.

Si ricorda, infine, che in materia è anche intervenuta la direttiva 2003/87/CE relativa allo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità, che ha modificato la direttiva 96/61/CE al fine di chiarire la relazione tra il processo di autorizzazione imposto dalla direttiva e il sistema di scambio di quote di emissione (v. scheda L’attuazione del Protocollo di Kyoto).

Il decreto legislativo n. 372 del 1999 e i relativi provvedimenti di attuazione

Come si è già avuto modo di sottolineare, il decreto legislativo n. 372 del 1999 ha provveduto a recepire le disposizioni della direttiva 96/61 ma solo relativamente agli impianti esistenti. Ciò nonostante la direttiva accordasse un periodo transitorio di otto anni dalla entrata in vigore delle direttiva[396] proprio per l’adeguamento degli impianti esistenti. I nuovi impianti, per i quali le disposizioni della direttiva avrebbero dovuto essere recepite entro il 30 ottobre 1999, restavano invece esclusi dalla disciplina recata dal decreto n. 372. Ciò anche sulla base dell’esistenza di un progetto di legge (il cui esame tuttavia non si è concluso nel corso della XIII legislatura) che prevedeva, per tali impianti nuovi, l’assorbimento dell’IPPC nella procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA).

Ai fini dell’attuazione del decreto n. 372, nel corso della XIV legislatura sono stati emanati alcuni provvedimenti, tra i quali si segnala, innanzitutto, il DM 23 novembre 2001, Dati, formato e modalità della comunicazione di cui all'art. 10 comma 1, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372, successivamente modificato dal DM 26 aprile 2002.

 

Con il DM 23 novembre 2001 si è data attuazione agli obblighi di trasmissione annuali da parte dei gestori degli impianti in esercizio relativi ai dati sulle emissioni in aria, acqua e suolo dell'anno precedente, ai fini della costituzione dell'inventario delle principali emissioni e loro fonti.

Tale inventario, noto con l’acronimo di INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti), contiene informazioni su emissioni in aria ed acqua di specifici inquinanti provenienti dai principali settori produttivi e da stabilimenti generalmente di grossa capacità presenti sul territorio nazionale[397].

 

Successivamente il DPCM 24 dicembre 2002, recante Approvazione del nuovo modello unico di dichiarazione ambientale per l'anno 2003 ha previsto che la trasmissione di tale nuovo modello “comporta l'adempimento dell'obbligo di trasmissione di cui all'art. 10, comma 1, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372”;

E’ stato poi emanato il DM ambiente 29 maggio 2003 recante Approvazione del formulario per la comunicazione relativa all'applicazione del decreto legislativo n. 372/1999, recante attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento che prevede l’obbligo di comunicazione triennale al Ministero dell’ambiente, da parte degli enti locali, delle autorizzazioni integrate ambientali rilasciate.

Si ricorda, infine, che con la circolare 13 luglio 2004 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (Circolare interpretativa in materia di prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, di cui al decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372, con particolare riferimento all'allegato I) ha cercato di fare chiarezza in merito all'applicazione delle categorie e delle soglie riportate nell’allegato I al decreto n. 372/1999.

La delega per l’integrale recepimento della direttiva

La delega per l’emanazione del decreto legislativo n. 59/2005 era contenuta nell’art. 22 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (legge comunitaria 2003), che riproponeva la norma di delega già contenuta nell’art. 41 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001), il cui termine era scaduto senza che vi fosse stata data attuazione.

Il citato art. 22 indica i criteri direttivi per il recepimento delle norme comunitarie:

§         l’estensione delle disposizioni di cui al D. Lgs. n. 372 del 1999 anche agli impianti industriali nuovi e a quelli sostanzialmente modificati;

§         l’assorbimento nell'autorizzazione integrata di autorizzazioni già previste dalla normativa vigente e loro indicazione esemplificativa;

§         il coordinamento delle nuove norme con gli articoli 216 e 217 del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 recante Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie attraverso l’adeguamento delle citate norme[398].

 

Altri provvedimenti nazionali in materia di IPPC

Nelle more dell’emanazione del decreto delegato previsto dalla legge comunitaria 2001, sono state introdotte alcune norme, successivamente abrogate dal d.lgs. n. 59/2005.

In particolare con l’art. 77, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003), veniva previsto l’assoggettamento ad AIA statale di tutti gli impianti (non solo esistenti, ma anche nuovi) rientranti nell’ambito di applicazione della normativa comunitaria, individuato dall’Allegato I della direttiva 96/61/CE, seppur limitatamente a quelli relativi alle attività industriali elencate dall’articolo 1, comma 1, del D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377 recante Regolamentazione delle pronunce di compatibilità ambientale di cui all'art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (impianti soggetti a VIA statale).

Il successivo comma 4 aveva inoltre introdotto una disciplina specifica per le modalità di AIA per i casi in cui più impianti o parti di essi fossero localizzati sullo stesso sito, gestiti dal medesimo gestore e soggetti ad AIA che deve essere rilasciata da più di una autorità competente.

Successivamente è intervenuto l’articolo 9 del decreto-legge n. 355 del 2003[399], che ha prorogato al 30 aprile 2005 il termine dei procedimenti relativi all’adeguamento degli impianti esistenti ai fini del rilascio dell’AIA, fissato al 30 ottobre 2004 dall’art. 4, comma 14, del D.Lgs. n. 372/1999.

Le principali novità introdotte dal decreto legislativo n. 59/2005

Come si è già avuto modo di evidenziare, la novità principale recata dal d.lgs. n. 59/2005 concerne il campo di applicazione che, rispetto all’abrogato d.lgs. n. 372/1999, è stato ampliato e ricomprende ora, oltre agli impianti esistenti, anche gli impianti nuovi e quelli sottoposti a modifiche sostanziali[400], che svolgono le attività indicate nell’allegato I (che riproduce, salvo limitate correzioni[401], il corrispondente allegato del d.lgs. n. 372/1999, a sua volta conforme a quello della direttiva).

 

Si ricorda, in proposito, che le attività incluse nell’allegato I sono:

-        attività energetiche;

-        produzione e trasformazione di metalli;

-        industria dei prodotti minerari;

-        industria chimica;

-        gestione dei rifiuti;

-        altre attività, quali, ad esempio, allevamenti, concerie, macelli, cartiere, industrie tessili e alimentari.

 

Un’altra novità di rilievo è rappresentata da una più chiara individuazione dell’autorità competente al rilascio dell’AIA (art. 2, comma 1, lettera i). Con una scelta analoga a quella adottata nella legislazione in materia di VIA, il decreto individua una AIA statale e una sorta di AIA regionale. Schematicamente:

 

 

AIA statale

AIA regionale

Impianti

Tutti gli impianti esistenti e nuovi indicati nell’Allegato V al d.lgs. n. 59/2005

Impianti non elencati nell’Allegato V

Autorità

Ministero dell’ambiente

Autorità individuata dalla Regione o dalla Provincia autonoma, tenendo conto dell'esigenza di definire un unico procedimento per il rilascio dell'AIA

note

Il Ministero si avvarrà di una apposita Commissione istruttoria IPPC prevista dall’art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 59/2005

 

 

Di notevole importanza pratica è, altresì, l’espressa elencazione - nell’Allegato II al decreto n. 59 - delle autorizzazioni ambientali che saranno sostituite dall’AIA[402].

Oltre a questi elementi di discontinuità rispetto al precedente d.lgs. n. 372/1999, meritano di essere accennate le seguenti ulteriori previsioni recate dal decreto n. 59:

§         accentuazione delle forme di partecipazione del pubblico al processo decisionale di rilascio dell’AIA, in ossequio alle modifiche apportate dalla citata direttiva 2003/35/CE, abbinata alla fissazione di nuove regole poste a garanzia della posizione del gestore dell’impianto, soprattutto ai fini della tutela del segreto industriale (art. 5, commi 2 e 16);

§         maggiore coordinamento tra AIA e sistemi di certificazione ambientale e introduzione di norme agevolative speciali per i gestori che applicano i sistemi di gestione certificati ISO (norma UNI EN ISO 14001) accanto a quelle, già esistenti, per gli impianti con sistema di gestione registrato EMAS (ai sensi del regolamento n. 761/2001/CE).

 

Un’ulteriore novità prevista dal decreto (art. 13) è l’istituzione, presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, di un Osservatorio sull'applicazione comunitaria, nazionale e regionale della direttiva 96/61/CE e del decreto stesso a servizio delle autorità competenti.

La procedura per il rilascio dell’AIA

La procedura da seguire per ottenere e rinnovare l’AIA è disciplinata dagli articoli 5-11 del d.lgs. n. 59/2005 e può essere sintetizzata nei seguenti passaggi principali:

Casi di presentazione della domanda

La domanda per ottenere il rilascio dell’AIA deve essere presentata in caso di:

-        esercizio di impianti nuovi;

-        modifica sostanziale di impianti esistenti;

-        adeguamento del funzionamento degli impianti esistenti alle disposizioni del nuovo d.lgs. n. 59.

Contenuto della domanda

La citata domanda deve contenere:

-        le informazioni richieste dalla normativa specifica in materia di aria, acqua, suolo e rumore;

-        la descrizione dell’impianto, delle materie prime, delle fonti di emissione e della loro entità, nonché delle tecniche e delle misure previste per la loro riduzione e il loro controllo;

-        una sintesi non tecnica dei dati indicati al punto precedente;

-        l’indicazione delle informazioni che non debbono essere diffuse per ragioni di riservatezza industriale, commerciale o personale;

-        l’eventuale allegazione delle norme del sistema di gestione ambientale o di sicurezza utilizzato dall’impresa (ISO 14001, EMAS o altro).

Modifiche dell’impianto o del gestore

Ogniqualvolta il gestore intende apportare una modifica dell’impianto deve comunicare il relativo progetto all’autorità competente.

In caso di modifiche non sostanziali l’Autorità competente si limita ad aggiornare l’autorizzazione; diversamente in caso di modifiche sostanziali sarà necessario dare corso ad una nuova procedura per il rilascio di una nuova AIA.

Tra gli eventi da comunicare rientra anche la sostituzione del gestore. L’art. 10, comma 4 (introdotto dal d.lgs. n. 59/2005), prevede che sia il vecchio che il nuovo gestore debbano comunicare la sostituzione entro trenta giorni all’autorità competente.

Scadenze e obblighi per l’autorità competente

L’autorità competente, supportata dalla Commissione istruttoria IPPC, dovrà esaminare la domanda ed emanare il relativo provvedimento secondo la seguente tempistica:

§         entro 30 giorni dal ricevimento della domanda l’autorità competente deve comunicare al gestore la data di avvio del procedimento ai sensi della legge n. 241/1990. A tale obbligo corrisponde un obbligo per il richiedente di provvedere, entro 15 giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, alla pubblicazione di un annuncio sui quotidiani per consentire al pubblico di prendere visione degli atti e di trasmettere eventuali osservazioni;

§         successivamente l’autorità competente deve convocare una conferenza di servizi nel cui ambito verranno acquisite le prescrizioni del Sindaco previste dagli artt. 216-217 del R.D. 261 del 1934[403];

§         l’autorità competente rilascerà l’AIA tenendo conto:

-        delle considerazioni (riportate nell’allegato IV) e delle informazioni diffuse ai sensi dell’art. 14, comma 4 in merito all’individuazione delle migliori tecniche disponibili (MTD[404]);

-        di quanto previsto all’interno delle apposite linee guida per l’individuazione delle MTD;

 

Per quanto riguarda le MTD, si fa notare che il d.lgs. n. 59 conferma, nella sostanza, le disposizioni vigenti relative all’obbligo di adozione delle migliori tecniche disponibili, senza che vi sia l’obbligo di utilizzare una tecnica o tecnologia specifica (art. 7, commi 3 e 4).

Per quanto riguarda le MTD si ricorda che con il decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri delle attività produttive e della salute 19 novembre 2002 è stata istituita la commissione prevista dall'art. 3, comma 2, ultimo periodo, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372, con la funzione di fornire il supporto tecnico per la definizione delle linee guida relativa all'individuazione, all'utilizzazione e all'aggiornamento delle MTD di cui al medesimo articolo e ne sono stati disciplinati composizione, compiti e modalità operative. I membri sono stati invece nominati con successivo D.M. emanato in data 15 aprile 2003.

All’emanazione delle linee guida per alcune delle attività elencate nell’Allegato I si è poi provveduto con il D.M. ambiente 31 gennaio 2005[405].

 

-        degli atti di indirizzo finalizzati a garantire l’applicazione del decreto su tutto il territorio nazionale[406];

-        dei requisiti generali previsti per particolari categorie di impianti[407];

-        di quanto previsto all’interno delle apposite linee guida per l’individuazione delle MTD;

§         in caso di nuovo impianto o modifica sostanziale, se si tratta di impianti sottoposti a VIA l’autorità competente dovrà prendere in considerazione anche le informazioni e le conclusioni risultanti dalla normativa in materia di VIA;

§         entro 150 giorni[408] dalla presentazione della domanda l’autorità competente (salvo la decorrenza del termine non sia stata sospesa in caso di richiesta di integrazioni o si debba attendere l’esito della procedura di VIA) adotta il provvedimento finale con il quale provvede espressamente a negare oppure al rilascio dell’AIA[409]. Il termine indicato deve comunque essere “integrato” con quanto previsto dall’art. 5, comma 18, che indica il 30 ottobre 2007 come data ultima per l’attuazione delle prescrizioni recate dai provvedimenti autorizzatori degli impianti esistenti;

§         l’autorità competente provvede, infine, a mettere una copia dell’AIA rilasciata a disposizione del pubblico.

Contenuto dell’AIA

L’AIA contiene, tra l’altro:

§         l’indicazione delle autorizzazioni sostituite;

§         i valori limite di emissione;

§         i requisiti per il controllo delle emissioni;

§         le misure da adottare in condizioni diverse da quelle di normale esercizio (p.es. per le fasi di avvio e di arresto);

§         le prescrizioni dettate ai fini della prevenzione contro i pericoli da incidenti rilevanti in attuazione del d.lgs. n. 334/1999 (cd. Seveso-bis[410]);

§         “altre condizioni specifiche ai fini del presente decreto, giudicate opportune dall'autorità competente” (art. 7, comma 9).

Durata dell’AIA

L’AIA è rinnovata ogni 5 anni:

§         a partire dal 30 ottobre 2007 per gli impianti esistenti;

§         a partire dalla data di rilascio negli altri casi[411].

 

Qualora il gestore abbia adottato un sistema di gestione ambientale certificato, il termine quinquennale viene esteso a:

§         6 anni per gli impianti certificati secondo le norme UNI EN ISO 14001;

§         8 anni per gli impianti registrati EMAS.

 

Le disposizioni di coordinamento tra IPPC e VIA introdotte dal d.lgs. n. 152/2006

Con la Parte seconda del d.lgs. n. 152/2006, emanato in attuazione della legge delega n. 308/2004[412] (v. capitolo Il riordino del diritto ambientale), sono state introdotte nell’ordinamento nazionale norme volte al coordinamento fra VIA, VAS e IPPC, la cui necessità è prevista da numerose disposizioni comunitarie.

Si fa notare che, anche se la rubrica della Parte seconda del d.lgs. n. 152/2006 dispone il riordino della normativa sull’IPPC, il testo del decreto reca solo alcune disposizioni di coordinamento (artt. 34 e 37, commi 8 e segg.), in quanto la relativa disciplina è ora contenuta nel citato decreto legislativo n. 59 del 2005 (che non è stato quindi compreso nella codificazione operata dal d.lgs. n. 152/2006).

Per quanto riguarda l’introduzione di meccanismi di coordinamento tra la procedura di VIA e quella di IPPC, viene previsto, in particolare, per le opere e gli interventi sottoposti a VIA rientranti anche nel campo di applicazione dell’IPPC, che il proponente possa richiedere che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA e vengono dettate, quindi, le eventuali prescrizioni.

Si segnala, infine, l’istituzione di un’unica Commissione di 80 membri, per gestire tutte e tre le diverse valutazioni-autorizzazioni ambientali più importanti (VAS, VIA e AIA), cui spetteranno anche le attività della VIA sulle cosiddette grandi opere.

 

Inquinamento elettromagnetico – Giurisprudenza costituzionale

Può essere utile un breve richiamo alle due sentenze della Corte costituzionale - successive all’emanazione dei due DPCM dell’8 luglio 2003 – che hanno fissato ulteriori criteri di valutazione in ordine alla questione dell'esposizione ai campi elettromagnetici, con riferimento anche alle problematiche emerse dopo l'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione[413].

 

 

Con la sentenza n. 303 del 2003, la Corte è intervenuta sulla legge 21 dicembre 2001, n. 443 (cosiddetta “legge obiettivo”) e sui relativi decreti delegati (d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190 e d. lgs. 4 settembre 2002, n. 198 - cd. “decreto Gasparri”), ossia sull’impianto normativo posto in essere nel corso della XIV legislatura, al fine di garantire la definizione di un regime giuridico accelerato e, per certi versi, prioritario, per la progettazione e realizzazione delle grandi infrastrutture strategiche sul territorio nazionale, ivi incluse le infrastrutture di comunicazioni.

Con specifico riferimento al “decreto Gasparri”, che prevedeva una procedura semplificata per l'installazione di reti di comunicazione, la Corte, pur non pronunciandosi sul merito del provvedimento, ha colpito con dichiarazione di illegittimità il rapporto tra il decreto e la legge di delega. Nel caso di specie, secondo la Corte, l’eccesso di delega era evidente, posto che l’impostazione della legge obiettivo, che si basa sulla previa individuazione (ogni anno e attraverso definiti passaggi procedurali) delle opere strategiche di interesse nazionale, non era compatibile con l’attribuzione di «strategicità» illimitata e indeterminata (nel tempo e nello spazio) ad una intera categoria di opere, soprattutto nel caso di opere di concorrente interesse regionale.

 

Si rileva che i contenuti del decreto n. 198 del 2002 sono stati trasfusi (e, in taluni casi, modificati per tenere conto dei rilievi della Corte), nel decreto legislativo 1o agosto 2003, n. 259, Codice delle comunicazioni elettroniche (sul quale v. capitolo Le comunicazioni elettroniche. Il codice disciplina ex novo la materia, per quanto concerne, appunto, gli aspetti localizzativi e procedimentali dell'installazione di strutture di comunicazione, insieme alle norme della legge n. 36 del 2001, che restano tuttora in vigore.

 

Con la successiva sentenza n. 307 del 2003, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni di leggi regionali incidenti sulla materia della tutela dall'inquinamento elettromagnetico (v. anche la scheda Ambiente e territorio – Sentenza 307/2003).

Sulla base di una premessa di carattere generale sulla ripartizione della competenza legislativa tra Stato e Regioni nella materia della «tutela dell'ambiente», essa ha ribadito quanto già affermato con le sentenze n. 407 del 2002 e 222 del 2003.

La Corte ha chiarito, in particolare, che la modifica al Titolo V della Costituzione, e la conseguente attribuzione allo Stato della competenza esclusiva in materia di «tutela ambientale», non comporta l'impossibilità per le Regioni di intervenire, con proprie norme, nella disciplina della materia. La “tutela dell’ambiente”, infatti, ha carattere «trasversale» ed è pertanto idonea ad abbracciare profili che possono rientrare di volta in volta anche in materie di competenza «concorrente» o «esclusiva» delle Regioni, sicché non va esclusa, in via generale e ipotetica, la possibilità delle regioni di legiferare anche con finalità di tutela dall'inquinamento elettromagnetico.

Secondo la Corte, tuttavia, fra gli aspetti della tutela ambientale (e quindi della tutela dai campi elettromagnetici) che richiedono una disciplina unitaria su tutto il territorio nazionale, rientra senz'altro «il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste».

Coerente con tale impostazione è il sistema complessivo delineato dalla legge-quadro in materia (legge n. 36 del 2001), che prevede che la competenza a fissare i valori-soglia in materia di emissioni elettromagnetiche appartenga allo Stato, mentre le Regioni assumano un ruolo centrale nella determinazione della disciplina dell'uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti.

 

È interessante osservare che la ricostruzione del riparto di competenze viene operata attraverso l'evidenziazione della stretta correlazione fra i due temi della tutela dell'ambiente e della garanzia di esigenze produttive (distribuzione di energia elettrica e sussistenza di una adeguata rete di telecomunicazioni). È nell'assicurare un bilanciamento fra questi due valori che la competenza dello Stato assume quel carattere di esclusività evocato dall'articolo 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, mentre la competenza regionale in materia urbanistica e di governo del territorio (fra l'altro concorrente e non esclusiva) sembra chiamata ad articolarsi entro (e non oltre) i termini di tale bilanciamento.

 

La gestione del rumore ambientale

Nel settore dell’inquinamento acustico l’Italia possiede uno dei corpus normativi più completi. Il legislatore ha posto attenzione al problema già a partire dal 1991, anno in cui è stato emanato il DPCM 1 marzo 1991[414], primo e transitorio approccio in attesa di una più completa legge quadro, intervenuta solo qualche anno dopo, nel 1995.

 

Si ricorda, infatti, che le norme principali che disciplinano il settore dell’inquinamento acustico esterno sono contenute nella legge quadro 26ottobre 1995, n. 447[415], nel DPCM 1 marzo 1991e nel successivo DPCM 14 novembre 1997.

In particolare il DPCM 1 marzo 1991, Limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno, ha disciplinato la materia dapprima in maniera autonoma e, successivamente, quale regime transitorio previsto dalla stessa legge quadro. Infatti tale DPCM risulta tuttora applicato nei casi in cui non siano emanati tutti i provvedimenti e regolamenti necessari per l’applicazione della legge n. 447 del 1995[416]. L’art. 2 del DPCM richiedeva infatti ai comuni una suddivisione del territorio in sei classi o aree acusticamente omogenee (la cosiddetta zonizzazione acustica)[417], senza d'altronde fissare un termine per l’ultimazione della classificazione, e individuava due diversi regimi:

§         un regime transitorio, in attesa della zonizzazione, che associava a quattro diverse zone, indicate dall’art. 6, limiti di accettabilità per il periodo diurno e notturno;

§         un regime definitivo, una volta attuata la zonizzazione, che prevedeva differenti tetti massimi per le sei classi in cui avrebbe dovuto essere suddiviso il territorio comunale.

In tale contesto normativo, nel 1995, è stata, quindi, approvata la legge quadro sull’inquinamento acustico che, riconoscendo ampi poteri alle regioni e agli enti locali, si è posta l’obiettivo di tutelare dall’inquinamento acustico l’ambiente esterno e quello abitativo.

Aspetto fondamentale della legge quadro è senza dubbio la centralità[418] del ruolo dei Comuni nelle funzioni relative:

§         alla classificazione acustica dei loro territori e al rilascio dei provvedimenti autorizzatori, da esercitare nell’ambito delle funzioni già detenute in materia di governo del territorio;

§         alla formazione dei piani di risanamento acustico comunali, da integrare successivamente con le previsioni dei piani di abbattimento e contenimento del rumore.

La legge, oltre a mantenere l’obbligo per i comuni di effettuare la zonizzazione acustica - affidando alle regioni il compito di elaborare dei criteri guida e, in caso di inerzia, di esercitare poteri sostitutivi – ha ripreso dal DPCM 1 marzo 1991, e specificato ulteriormente, una serie di limiti di accettabilità, tra i quali i valori limite di emissione, i valori limite di immissione, i valori di attenzione ed i valori di qualità[419]. In caso di superamento dei valori di attenzione e di qualità, ai comuni è affidato il compito di procedere all’adozione di piani di risanamento acustico.

Dalla legge quadro è inoltre scaturito un flusso di provvedimenti attuativi che ha dato luogo ad un corpus normativo pressoché esaustivo di ogni profilo contemplato dalla legge quadro stessa.

Tra essi merita un cenno il DPCM 14 novembre 1997, Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore cui è riconducibile l’individuazione, per ognuna delle sei classi, dei valori limite di emissione, di immissione, di attenzione e di qualità. In attesa che i comuni dividano in classi il loro territorio, la norma ha previsto un regime transitorio coincidente, per quanto non in contrasto con la stessa legge, con il regime transitorio già previsto nel DPCM del 1991.

Occorre citare, infine, anche il DM 29 novembre 2000, con cui sono stati definiti i criteri per la predisposizione da parte delle società e degli enti gestori dei servizi pubblici di trasporto e delle relative infrastrutture, dei piani di interventi di contenimento e abbattimento del rumore.

 

In tale quadro normativo nazionale è intervenuta l’approvazione, nel corso della XIV legislatura, del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 194, con il quale è stata data attuazione, con poco più di un anno di ritardo, alla direttiva europea 2002/49/CE relativa alla determinazione ed alla gestione del rumore ambientale, il cui recepimento era previsto entro 31 maggio 2005 dall’art. 1, comma 1, della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (comunitaria 2003).

L’art. 14 della stessa legge ha altresì delegato il Governo ad adottare - entro il 30 giugno 2004 - un decreto legislativo di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative in materia di tutela dall’inquinamento acustico, ossia una sorta di testo unico, nel rispetto dei principi e delle disposizioni comunitarie già vigenti in materia e di alcuni principi e criteri direttivi, tra i quali, anche, l’adeguamento alla direttiva 2002/49/CE. Tale delega, per la cui attuazione era previsto il temine del 30 giugno 2004, non è stata ancora esercitata.

 

 

La direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale si pone come la prima direttiva quadro del settore. Fino alla sua adozione, infatti, era mancato, a livello comunitario, un atto che disciplinasse il problema generale dell’inquinamento acustico e che specificasse i criteri per determinare la soglia di rumore ambientale. Tale direttiva si propone, pertanto, l’obiettivo di definire un approccio comune per evitare, prevenire o ridurre gli effetti nocivi dell'esposizione al rumore ambientale, tenendo anche conto delle acquisizioni già intervenute nei singoli Stati.

Tale direttiva non mira alla regolamentazione di tutti gli aspetti del rumore ambientale (come, invece, intendeva fare la legge quadro n. 447 del 1995), ma unicamente quelli che riguardano i cd. “grandi protagonisti” del rumore in Europa, ossia i gestori delle principali infrastrutture di trasporti – stradale, ferroviari ed aeroportuali – e dei principali agglomerati urbani.

I punti chiave della direttiva (riguardante il rumore ambientale cui è esposto l’essere umano[420] nelle zone edificate, nei parchi pubblici o in altre zone silenziose degli agglomerati o in aperta campagna, nei pressi delle scuole, degli ospedali o di altri edifici e zone particolarmente sensibili al rumore) possono essere, in sintesi estrema, così focalizzati:

§         introduzione di (nuovi per l’Italia) descrittori acustici[421] e dei relativi metodi di determinazione del rumore, al fine di determinare parametri omogenei a quantificare il rumore ambientale nei diversi Stati europei;

§         determinazione di questi parametri sul territorio, attraverso le mappature acustiche strategiche;

§         permettere una progressiva riduzione all’esposizione al rumore, attraverso piani d’azione mirati, con la finalità di gestire i problemi di inquinamento acustico e i relativi effetti, compresa, se necessario, la sua riduzione. Le misure dei piani di azione sono lasciate alla discrezionalità delle autorità competenti, ma devono corrispondere alle priorità che possono derivare dal superamento dei valori limite pertinenti o di altri criteri scelti dagli Stati membri e sono applicate in particolare alle zone più importanti determinate dalla mappatura strategica;

§         indicazione dei principali soggetti responsabili della gestione del rumore ambientale (gestori delle grandi infrastrutture e dei grandi agglomerati urbani);

§         gestione dell’informazione nei confronti della popolazione esposta.

In relazione agli adempimenti delle autorità competenti designate dagli Stati membri, la direttiva prevede una precisa scansione temporale (artt. 7 e 8). Nessuna indicazione, né alcun obiettivo, invece, sono previsti per quanto riguarda gli agglomerati di dimensioni inferiori a 100.000 abitanti e le infrastrutture di trasporto (assi stradali e ferroviari, aeroporti) non classificati come “principali”[422].

Infine viene fissato come termine per il recepimento della direttiva la data del 18 luglio 2004.

Attraverso il recepimento della direttiva 2002/49/CE, avvenuto per mezzo del decreto legislativo n. 194 del 2005, sono state introdotte nell’ordinamento italiano alcune rilevanti novità, tra esse:

§         la riformulazione dei descrittori acustici, cioè delle grandezze fisiche che descrivono il rumore ambientale (da LAeq,daye LAeq,nighta Ldene Lnight)[423];

§         la rideterminazione dei periodi temporali di riferimento per la valutazione del disturbo da rumore (da “giorno-notte” a “giorno-sera-notte)[424].

 

Il nuovo decreto, composto da undici articoli e sei allegati, definisce, quindi, competenze e procedure relative:

§         all’elaborazione della mappatura acustica e delle mappature acustiche strategiche[425], da effettuarsi rispettivamente a cura delle società e degli enti gestori dei servizi pubblici di trasporto o delle relative infrastrutture e da inviarsi alle regioni (e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio per le infrastrutture che interessano più regioni) e a cura delle Autorità competenti che dovranno essere designate dalle Regioni;

§         alla predisposizione e all’adozione di piani di azione volti ad evitare e a ridurre il rumore ambientale laddove necessario, in particolare, quando i livelli di esposizione possono avere effetti nocivi per la salute umana, nonché ad evitare aumenti del rumore nelle zone silenziose. Anch’essi, come per la mappatura acustica, sono da definirsi da parte delle Autorità competenti (per gli agglomerati) e da parte degli enti gestori/società dei servizi pubblici di trasporto o delle relative infrastrutture;

§         ad assicurare l’informazione e la partecipazione del pubblico in merito al rumore ambientale ed ai relativi effetti;

§         all’istituzione (sebbene non prescritto dalla direttiva) di uno specifico regime sanzionatorio, che si giustappone a quello già previsto dalla legge quadro e che riguarda le inadempienze dei gestori delle infrastrutture principali.

 

Si sottolinea, inoltre, che anche se il decreto legislativo rappresenta il primo passo dell’adattamento delle norme italiane esistenti alla disciplina europea, tale recepimento risulta particolarmente delicato in quanto l’Italia, come già accennato, gode di un corpus normativo completo in materia che garantisce la copertura con disposizioni e limiti per la tutela dal rumore dell’intero territorio nazionale, ivi compresi gli agglomerati oggetto delle prescrizioni della direttiva, e che analoga copertura sussiste anche per la tutela dall’inquinamento acustico indotto dalle infrastrutture contemplate dalla medesima.

Peraltro, il nuovo provvedimento - destinato ai gestori delle infrastrutture ed ai grandi centri urbani - si limita ad individuare le competenze e le procedure, senza, però, entrare nel merito delle questioni tecniche, per le quali si rinvia a successivi decreti attuativi che dovranno, altresì, provvedere al coordinamento della normativa vigente con le nuove disposizioni.

Infatti, uno dei problemi che si pone è proprio quello di coordinare i nuovi strumenti di programmazione con quelli previsti dalla legge quadro. Proprio a tal fine, l’art. 14 della legge comunitaria 2003 ha previsto anche l’emanazione, entro il 30 giugno 2004, di un decreto legislativo di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative in materia di tutela dall’inquinamento acustico, nel rispetto dei principi e delle disposizioni comunitarie già vigenti in materia. Tale delega, però, non è stata ancora esercitata.

In particolare, si dà il caso dei piani di risanamento comunali e dei piani di abbattimento e contenimento del rumore, già previsti dalla legge quadro, che non vengono espressamente ricondotti dal nuovo decreto legislativo all’interno dei nuovi strumenti programmatori quali i piani di azione. Alla luce della previsione contenuta nell’art. 4, comma 8, secondo la quale i nuovi piani d'azione recepiscono e aggiornano i piani di contenimento e di abbattimento del rumore prodotto per lo svolgimento dei servizi pubblici di trasporto e i piani comunali di risanamento acustico adottati ai sensi della legge quadro, i piani appaiono come “sottoclassi” dei piani di risanamento acustico e dei piani di abbattimento e contenimento del rumore (artt. 7 e 10 della legge quadro), rispettivamente riferiti agli agglomerati da 100.000 abitanti in su ed alle infrastrutture principali.

Inoltre, sembrerebbero rimesso in gioco anche il riparto delle competenze previsto dalla legge quadro e attribuite, per la maggior parte, ai Comuni, salvo poche eccezioni, ferma restando la funzione regionale di disciplinarne in dettaglio le modalità di esercizio. Il nuovo sistema è, invece, incentrato su una serie di deleghe a discrezione delle regioni (e/o delle province autonome) alle quali compete anche la perimetrazione degli agglomerati con più di 100.000 abitanti.

D’altro canto, l’esigenza di coordinamento tra le nuove disposizioni con la normativa vigente è emersa anche nel corso dell’esame parlamentare del decreto da parte della VIII Commissione (Ambiente). In sede di espressione del parere (favorevole con condizioni ed osservazioni), reso in data 14 luglio 2005, tra le osservazioni è stata rilevata la necessità di un coordinamento tra i piani d'azione e i piani previsti dalla legge quadro, e l’eventuale opportunità di specificare se tale coordinamento comporti o meno l'abrogazione delle disposizioni che prevedono i citati piani, nonché la possibilità di indicare espressamente i parametri ed i criteri in base ai quali deve essere effettuato il coordinamento normativo tra le disposizioni del decreto legislativo e gli atti - di competenza statale - emanati ai sensi dell'art. 3 della legge n. 447 del 1995, nonché i regolamenti adottati in base all'art. 11 della stessa legge.

In linea generale, nel parere si auspica l’adozione di ogni possibile modifica tendente ad uniformare la disciplina dello schema di decreto legislativo con quella stabilita dalla legge quadro, “che già contiene, al suo interno, molti dei principi previsti dalla direttiva 2002/49/CE, anche al fine di non rendere inutile il lavoro già svolto, in attuazione della citata legge n. 447, dai soggetti tenuti ai relativi adempimenti e di consentire un notevole risparmio in termini economici e temporali”.

 

Occorre, infine, ricordare che, ai fini dell’applicabilità della nuova disciplina - che non presenta nessuna norma immediatamente esecutiva – dovranno essere emanati, entro un arco temporale non breve, una serie di provvedimenti statali e regionali.

Per quanto riguarda gli adempimenti statali si prevedono:

§         entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto (7 gennaio 2006):

-   un DM ambiente per la costituzione di un Comitato tecnico di coordinamento, incaricato di presiedere alla revisione delle preesistenti norme esecutive della legge quadro coordinandole con le nuove disposizioni;

§         entro centoventi giorni (7 febbraio 2006):

-   un DPCM per la definizione,dei criteri e degli algoritmi per la conversione dei valori limite previsti dall’art. 2 della legge quadro secondo i nuovi descrittori acustici di cui all’art. 5 del decreto legislativo;

§         entro sei mesi (7 aprile 2006)

-   un DM ambiente per la definizione dei criteri integrativi di quelli già esposti all’art. 3 per la redazione della mappatura acustica delle infrastrutture principali e della mappatura acustica degli agglomerati;

-   un DM ambiente per la definizione dei criteri integrativi di quelli già previsti all’art. 4 per la redazione di piani di azione relativi agli agglomerati;

§      entro un anno (7 ottobre 2007):

-   un DM sulle modifiche necessarie per coordinare le disposizioni del decreto legislativo con la normativa vigente in materia di tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico già adottata ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge quadro;

-   un DPR riguardante le modifiche necessarie per coordinare le norme del decreto legislativo con la normativa vigente adottata ai sensi dell’art. 11 della legge quadro[426].

Nessuno di tali provvedimenti è stato ancora emanato.

 

In relazione agli adempimenti regionali (o le province autonome), per i quali non sono previste scadenze certe come per quelli statali, esse dovranno:

§         individuare gli “agglomerati” come definiti dal decreto legislativo;

§         designare le “autorità competenti” all’esecuzione della mappatura acustica strategica degli agglomerati e all’elaborazione dei piani di azione.

 

Contenimento del rumore aeroportuale

L’articolata normativa sulla disciplina del rumore aeroportuale, finalizzata alla definizione di procedure, modalità ed interventi per la mitigazione dell’impatto acustico generato dal traffico aereo in prossimità degli aeroporti, si è arricchita di un altro provvedimento, il decreto legislativo 17 gennaio 2005, n. 13 Attuazione della direttiva 2002/30/CE relativa all'introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti comunitari.

Tale provvedimento non costituisce uno dei tanti decreti attuativi della legge quadro sull’inquinamento acustico, ma è volto a recepire la direttiva 30/2002/CE, che, a sua volta, è riconducibile all’insieme di disposizioni emanate dall’Unione europea a partire dal 1979 in risposta all’esigenza di intervenire nei confronti del rumore causato dal traffico aereo, anche attraverso limitazioni e restrizioni all’uso degli aeromobili in relazione alle loro prestazioni acustiche[427].

 

Con specifico riferimento al rumore prodotto dalle infrastrutture aeroportuali sono stati finora emanati, in attuazione delle disposizioni recate dall’art. 3, comma 1, lettera m), numero 3) della legge n. 447 del 1995, i seguenti provvedimenti:

§         DM 31 ottobre 1997, Metodologia di misura del rumore aeroportuale;

§         DPR 11 dicembre 1997, n. 496, Regolamento recante norme per la riduzione dell'inquinamento acustico prodotto dagli aeromobili civili, successivamente modificato dal DPR 9 novembre 1999, n. 476;

§         DM 20 maggio 1999, Criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti nonché criteri per la classificazione degli aeroporti in relazione al livello di inquinamento acustico;

§         DM 3 dicembre 1999, Procedure antirumore e zone di rispetto negli aeroporti.

Si ricorda, inoltre, che gli artt. 90 e 91 della legge 21 novembre 2000, n. 342, Misure in materia fiscale, hanno previsto l’introduzione - a decorrere dal 2001 - di una imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili, a carico dell’esercente dell’aeromobile, dovuta per ogni decollo ed atterraggio dell'aeromobile civile negli aeroporti civili, ad eccezione dei voli di Stato, sanitari e di emergenza, esclusi dall’applicazione dell’imposta.

 

Con la citata direttivasono state istituite norme e procedure per l'introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti della Comunità. Gli Stati membri avrebbero dovuto adeguare la propria legislazione alle nuove disposizioni entro e non oltre il 28 settembre 2003.

 

 

La direttiva 2002/30/CE si è posta l’obiettivo di impedire l'aumento globale del rumore e contenere i disturbi causati dagli aerei per migliorare l'ambiente acustico attuale, basandosi sul principio generale dello sviluppo sostenibile del trasporto aereo: uso di aerei più efficienti sul piano ambientale, più razionale sfruttamento della capacità aeroportuale disponibile, sviluppo delle infrastrutture aeroportuali in sintonia con le esigenze del mercato.

Nella nuova direttiva la gestione dell'inquinamento acustico ha seguito un “approccio equilibrato”, volto a risolvere i problemi di rumore "aeroporto per aeroporto", sulla base di un esame di quattro elementi chiave:

§         riduzione alla fonte del rumore generato dagli aerei;

§         pianificazione e gestione del territorio;

§         procedure operative "di riduzione del rumore";

§         restrizioni operative locali legate a problemi di rumore.

In estrema sintesi, l’aspetto sostanziale delle disposizioni della direttiva è individuato nella facoltà degli Stati membri di introdurre negli aeroporti agli aeroporti sensibili al problema del rumore (con un traffico superiore a 50.000 movimenti all'anno e aeroporti metropolitani) una serie di restrizioni operative, tra cui l'eliminazione progressiva degli aerei più rumorosi, fino a vietare l'uso di aerei che rispondono soltanto in modo "marginale" alle norme sul rumore fissate dall'ICAO, quando ciò risulti necessario per conseguire gli “obiettivi ambientali” stabiliti per ogni aeroporto.

In altre parole, mentre la normativa comunitaria sul rumore aeroportuale precedente la direttiva 2002/30/CE tendeva a fissare i livelli sonori ammissibili per gli aeromobili o ad attuare accordi internazionali e le relative procedure di omologazione allo scopo di garantire la conformità, sin dalla fabbricazione, dei nuovi veicoli, degli strumenti e dei macchinari ai livelli stabiliti dalle direttive, la nuova direttiva ha optato a favore di un approccio «aeroporto per aeroporto» seguendo così la risoluzione A33/7 dell’ICAO[428].

Si ricorda, infine, che anche la direttiva 2002/49/CE[429] relativa alla determinazione alla gestione del rumore ambientale - sebbene non sia informata ad una visione settoriale, ma si riferisca ad ogni aspetto della tutela dall’inquinamento acustico - ha, tra l’altro, ridefinito i “descrittori acustici” del rumore ambientale, fornendo indirizzi per la loro determinazione anche nel caso del rumore degli aeromobili; tali indirizzi sono stati ulteriormente specificati nella raccomandazione della Commissione del 6 agosto 2003 sulle “linee guida relative ai metodi di calcolo aggiornati per il rumore dell’attività industriale, degli aeromobili, del traffico veicolare e ferroviario e i relativi dati di rumorosità”.

 

A livello nazionale, il recepimento della direttiva, previsto, entro il 31 maggio 2005,dall’art. 1, comma 1, della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (comunitaria 2003), si è realizzato con l’emanazione del decreto legislativo 17 gennaio 2005, n. 13.

Scopo del decreto è stato di completare il sistema di gestione del rumore aeroportuale, soprattutto mediante l’introduzione di restrizioni operative[430] al traffico di veicoli subsonici negli aeroporti classificati come metropolitani (attualmente non ve ne è alcuno in Italia) e, secondo la direttiva comunitaria, in quelli con oltre 50.000 movimenti l’anno (che nel nostro Paese non superano la decina).

La disciplina recata dal decreto, articolata in dodici articoli e due allegati, consiste sostanzialmente:

§         nell’introduzione di criteri generali relativi all’adozione delle restrizioni operative;

§         nell’indicazione di riferimenti tecnici per la classificazione dei velivoli ai fini dell’adozione delle possibili misure, con particolare riguardo al volo notturno;

§         nella previsione di criteri relativi all'introduzione di restrizioni operative per i velivoli marginalmente conformi, adottate dall’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC), sulla base di un’istruttoria svolta da un apposito Comitato;

§         nella definizione delle modalità di adozione delle restrizioni operative per tutti gli altri velivoli, adottate – anche in questo caso – dall’ENAC, seconda la medesima procedura;

§         nella previsione di una deroga di dieci anni per i velivoli immatricolati nei paesi in via di sviluppo e deroghe specifiche per singole attività di carattere eccezionale, nonché per voli non aventi fini di lucro.

 

L’articolato del decreto, come del resto la direttiva che lo ha originato, non è entrato, però, nel merito del tenore di tali restrizioni, limitandosi a fissarne criteri generali, procedure e condizioni di applicazione, nonché a stabilire che la loro adozione resti subordinata ad un preventivo processo valutativo, consistente in una specifica relazione di valutazione da parte di un apposito Comitato tecnico consultivo.

Infatti, se la direttiva 30/2002/CE si è limitata a prescrivere che ogni Stato membro designi un’Autorità competente ad adottare le restrizioni operative, il decreto prevede una complessa procedura secondo la quale, prima che possano essere adottate eventuali restrizioni operative per i singoli aeroporti interessati, il Comitato tecnico consultivo dovrà emanare, preliminarmente, apposite linee di indirizzo per la loro adozione.

Solo in seguito all’intervenuta comunicazione dell’accertato superamento dei limiti acustici da parte delle singole Commissioni aeroportuali competenti[431], il Comitato, perfezionata la procedura di valutazione, potrà proporre all’ENAC le restrizioni operative ritenute idonee per ciascun aeroporto interessato.

Spetterà, infine, all’ENAC la conclusione di ciascun procedimento, con proprio motivato provvedimento da emanarsi entro sessanta giorni dalla relativa proposta del Comitato, attraverso cui adottare le citate restrizioni riferite ad ogni aeroporto e la cui concreta attuazione avverrà nel rispetto dei termini di preavviso di cui all’art. 10, comma 3, e fermo restando il diritto di impugnazione a salvaguardia dei vettori aerei potenzialmente danneggiati.

Pertanto, l’adozione delle restrizioni contemplate dal decreto costituisce l’ultimo strumento da utilizzare per la riduzione del rumore aeroportuale, essendo essa prevista esclusivamente nel caso in cui la valutazione anzidetta abbia dimostrato l’impossibilità di attuare ogni altra misura di contenimento prevista dalla normativa vigente attuativa della legge n. 447 del 1995.

Al riguardo si segnala che, nel corso del dibattito parlamentare per l’espressione del parere da parte delle Commissioni riunite[432], era stato rilevato che un giudizio complessivo sul provvedimento non poteva trascurare il fatto che esso appariva piuttosto generico anche perché rinviava a successivi atti normativi la definizione degli indirizzi operativi; per questo, di fatto, appariva alquanto sfumato il contenuto prescrittivo di carattere generale, mentre sarebbe stato, al contrario, auspicabile che tutti gli elementi di dettaglio ed operativi fossero stati già inseriti, anche al fine di consentirne una valutazione ai competenti organi parlamentari che, invece, secondo il testo presentato sarebbero stati esclusi da qualsiasi verifica sui conseguenti atti di normazione secondaria.

 

In tema di rumore aeroportuale, si ricorda, da ultimo, la sentenza del Consiglio di Stato del 17 settembre 2004, n. 5822, con la quale è stato stabilito l’obbligo, per gli aeroporti, di predisporre i Piani per il risanamento acustico. La sentenza ha chiarito anche alcuni punti nodali della normativa sull’inquinamento acustico aeroportuale, con particolare riferimento alle sue connessioni con le disposizioni relative alle altre sorgenti di rumore ambientale.

 

Leggi regionali sull’inquinamento luminoso

Il contributo legislativo più significativo nel contrasto all’inquinamento luminoso è dato dalle leggi regionali, di cui si sono dotate ben quattordici regioni a partire dal 1997, come può evincersi dalla seguente tabella:

 

Regione

Legge regionale

Provvedimenti attuativi

Veneto

n. 22 del 27 giugno 1997

 

Valle d’Aosta

n. 17 del 29 aprile 1998

 

Toscana

n. 37 del 21 marzo 2000

 

Piemonte

n. 31 del 27 marzo 2000

modif. n. 8 del 23 marzo 2004

Delib.G.R. 17 aprile 2001, n. 15-2779

Lombardia

n. 17 del 27 marzo 2000

modif. n. 38 del 21 dicembre 2004

Delib.G.R. 20 settembre 2001, n. 7-6162

Basilicata

n. 41 del 10 aprile 2000

 

Lazio

n. 14 del 6 agosto 1999

modif. n. 23 del 13 aprile 2000

Regolamento regionale 18 aprile 2005, n. 8

Marche

n. 10 del 24 luglio 2002

 

Campania

n. 12 del 25 luglio 2002

 

Emilia Romagna

n. 19 del 29 settembre 2003

Delib.G.R. 29 dicembre 2005, n. 2263

Abruzzo

n. 12 del 3 marzo 2005

 

Umbria

n. 20 del 28 febbraio 2005

 

Sicilia

n. 4 del 22 aprile 2005

 

Puglia

n. 15 del 23 novembre 2005

 

 

L’andamento di tale processo normativo, e, in particolare, la scelta da parte delle regioni di dotarsi di strumenti legislativi idonei a mettere in regola gli impianti di illuminazione esistenti e a definire i limiti al tasso di crescita del flusso luminoso diretto verso il cielo, dimostra – pur in assenza di una legge quadro nazionale[433] - la sempre maggiore sensibilità verso questa forma di inquinamento.

Ciò è evidente in relazione al contenuto delle leggi regionali che sono state emanate nel corso degli anni.

In un primo periodo, la disciplina regionale ha avuto quale finalità primaria la tutela degli osservatori astronomici. Successivamente, con la maggiore presa di coscienza riguardo agli effetti nocivi dell’inquinamento luminoso sull’ambiente, sul paesaggio e sulla salute umana, il legislatore regionale ha considerato la disciplina del fenomeno dell’inquinamento luminoso in maniera più omogenea sul territorio, prevedendo una protezione generalizzata dell’intero territorio regionale, e non solo in prossimità degli osservatori.

La prima legge regionale in materia di inquinamento luminoso è stata la legge della regione Veneto del 1997, seguita l’anno successivo da quella della Valle d’Aosta, che recava, tra le finalità anche la salvaguardia della fauna notturna e dell'avifauna dall'inquinamento luminoso, sebbene il testo risultasse carente nelle prescrizioni per la limitazione dell'inquinamento luminoso da emissione diretta dagli impianti.

Le leggi regionali successivamente emanate, pur essendo univoche nello spirito, sono comunque risultate diverse tra loro, soprattutto rispetto ai limiti da applicare agli impianti di illuminazione esterna. In particolare le leggi regionali del Piemonte, della Valle d’Aosta, della Basilicata hanno previsto limiti a volte troppo elevati e quindi di difficile applicabilità, omettendo di disciplinare alcuni degli aspetti più rilevanti dell’inquinamento luminoso.

Un discorso a sé merita la legge della regione Lombardia che, secondo gli esperti del settore, è una delle migliori e più aggiornate rispetto alle innovazioni tecnologiche intervenute negli ultimi anni e, dunque, una delle più efficaci nella lotta contro l'inquinamento luminoso, con il pregio di aver previsto una disciplina applicabile a tutti i nuovi impianti, valida su tutto il territorio regionale e recante limiti seri alle emissioni luminose.

Nella stessa direzione della legislazione lombarda, sono state successivamente emanate anche le leggi regionali dell’Emilia Romagna, delle Marche e dell’Umbria. Tra esse, la regione Emilia Romagna ha anche emanato il regolamento “Direttiva per l’applicazione dell’art. 2 della legge regionale 29 settembre 2003, n. 19 recante norme in materia di riduzione dell’inquinamento luminoso e di risparmio energetico”, nel quale si dà l’avvio al censimento, nei comuni, delle luminarie esistenti, al fine di identificare quelle non a norma.

Da ultimo si ricorda anche la legge regionale dell’Abruzzo che ha introdotto alcuni soluzioni innovative quali:

§         l’obbligo di una graduale sostituzione degli impianti pubblici inquinanti;

§         una certificazione di conformità richiesta per ogni nuovo impianto che deve essere progettato da un illuminotecnica professionista;

§         l’incentivazione dell’illuminazione passiva delle strade (catarifrangenti);

§         il divieto di utilizzare lampade con elevata resa cromatica, ad eccezione dei monumenti , edifici storici ed aree ad uso pedonale;

§         il divieto per ogni forma di illuminazione di costituire fonte di intrusione nelle proprietà private;

§         l’obbligo di verifica, da parte della polizia municipale, della rispondenza degli impianti alla legge, anche su richiesta del singolo cittadino.

 

Da una complessiva analisi delle leggi regionali emanate sono emersi i seguenti aspetti di indubbio interesse.

Le Regioni in cui la legge ha previsto norme molto tecniche hanno riscontrato una maggiore difficoltà nell’emanazione del relativo regolamento o piano regionale (Piemonte e Veneto); viceversa, nelle regioni in cui la legge ha demandato al regolamento o al piano la relativa disciplina tecnica, l’adozione dei provvedimenti attuativi è stata, quindi, più agevole e tempestiva.

In tutte le leggi regionali più recenti è stato, inoltre, inserito l’obbligo per i singoli comuni di adottare un proprio Piano per l’illuminazione del territorio interessato.

Infine, le sanzioni variano molto da Regione a Regione, passando da sanzioni amministrative anche molto pesanti per ogni impianto non a norma, sino a forme più sofisticate di disincentivo come quelle della regione Lombardia, ove gli enti pubblici con impianti non in regola vengono sospesi dal beneficio di riduzione del costo dell’energia elettrica fino al loro adeguamento a norma[434].

 

 


Governo del territorio ed edilizia


 

Governo del territorio – Chiarimento terminologico

Occorre ricordare che l’espressione “governo del territorio” compare nel testo costituzionale solo con la legge costituzionale n. 3 del 2001[435], ma è espressione già presente nell’ordinamento da epoca anteriore[436].

Tuttavia, come si illustra nella presente scheda, dell’espressione non è mai stato fatto – se non recentemente – un tentativo di definizione normativa.

 

A parte gli esempi citati in nota, ciò che è rilevabile attraverso un’analisi del linguaggio normativo corrente è un uso dell’espressione governo del territorio spesso associato a funzioni pianificatorie di notevole rilievo, comprendenti, ma ulteriori rispetto alla pianificazione urbanistica. Ad esempio, può citarsi il DM 10 maggio 2001, Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei in cui si fa esplicito riferimento a “strumenti urbanistici, piani paesistici e altri strumenti di governo del territorio”.

Nella Strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia. (Delibera CIPE n. 57/2002), al punto 235, si prevede che i piani di zonizzazione e risanamento acustico siano connessi con “tutti gli altri strumenti di governo del territorio quali piani urbanistici, piani di mobilità, piani energetici”.

Può vedersi, in proposito, anche il DM 3 settembre 2002, Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000, che fa più volte riferimento alla opportunità di un coordinamento fra i vari strumenti di pianificazione urbanistica.

Un altro elemento caratteristico – ricavabile anch’esso da norme o atti amministrativi recenti – è la stretta connessione di tale ambito materiale con quello della tutela ambientale.

Ad esempio, nella citata “Strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia” , al paragrafo 2.2 Integrazione del fattore ambientale in tutte le politiche di settore, al punto 31, si afferma che “il riassetto istituzionale, con l'attribuzione di rilevanti funzioni di governo del territorio e dell'ambiente alle Regioni e al sistema degli Enti locali territoriali, sollecita l'adozione di modelli più coerenti e funzionali di programmazione e pianificazione e di idonee procedure decisionali”.

Inoltre, è utile ricordare che, se l’esatta espressione “governo del territorio” non ha ancora ricevuto una compiuta definizione, lo stesso non può dirsi per altre espressioni molto vicine (e probabilmente equivalenti).

Il DPR n. 616 del 1977 – atto normativo di fondamentale importanza ai fini della prima attuazione del sistema regionale in Italia - parlava diffusamente di “assetto e utilizzazione del territorio” (art. 3 e art. 79), dedicando a questo ambito materiale l’intero Titolo V, ben 26 articoli. In questi articoli si operava il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative dello Stato e degli enti pubblici in un insieme di materie, indicate come componenti – appunto - della più ampia (e comprensiva nozione) di “assetto ed utilizzazione del territorio”. Tali materie sono:

ü      “urbanistica, tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale”;

ü      “viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale”;

ü      “navigazione e porti lacuali”;

ü      “caccia”;

ü      “pesca nelle acque interne”

Successivamente, il decreto legislativo n. 112 del 1998 – che ha operato il secondo, massiccio trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni – ha dedicato l’intero Titolo III a “Territorio, ambiente, infrastrutture”, conferendo allo Stato – all’articolo 52 (non a caso posto all’inizio, e quindi in una posizione tale da riferirlo all’intero contenuto del Titolo III) la funzione di “identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale”. E’ utile osservare che il Titolo III comprende materie quali:

ü      urbanistica pianificazione territoriale e bellezze naturali

ü      localizzazione di opere di interesse statale

ü      edilizia residenziale pubblica

ü      catasto, servizi geotopografici e registri immobiliari

ü      tutela dell’ambiente dagli inquinamenti

ü      valutazione d’impatto ambientale

ü      attività a rischio di incidente rilevante

ü      aree ad elevato rischio di crisi ambientale

ü      parchi e riserve naturali

ü      acque

ü      gestione dei rifiuti

ü      difesa del suolo

ü      opere pubbliche

ü      viabilità

ü      trasporti

ü      protezione civile

In particolare, si segnala che Opere pubbliche è la rubrica del Capo V, e tale capo è compreso nel Titolo III.

Di governo del territorio non parla invece il decreto legislativo n. 300 del 1999, di riorganizzazione dei Ministeri. Tale circostanza appare anch’essa significativa della amplissima portata assunta dall’espressione nel linguaggio (giuridico e comune) corrente, tale da non configurare una delimitata funzione attribuibile ad una delle strutture ministeriali previste dall’ordinamento del Governo, ma piuttosto una finalità trasversale a numerose materie, a numerose policies e a numerose strutture amministrative (centrali e territoriali).

 

Infine, si segnala che proprio nella XIV legislatura, probabilmente a causa dell’innovazione costituzionale recata dalla riforma del Titolo V, si registrano almeno due tentativi di definizione normativa dell’ambito del “governo del territorio”.

Il primo è quello rinvenibile nell’AS 3519, recante il testo approvato in prima lettura alla Camera del disegno di legge Principi in materia di governo del territorio. All’art. 1, comma 2, viene riportata una definizione quale: “insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie”.

La seconda definizione è stata introdotta dall’Atto del Governo n. 610(schema di governo ricognitivo dei principi in materia di governo del territorio) che, all’art. 1, comma 2, specifica che “ai fini del presente decreto, nell’ambito del governo del territorio rientrano l’urbanistica e l’edilizia, nonchè, per quanto attiene ai profili strettamente collegati all’assetto del territorio, l’edilizia residenziale pubblica, i lavori pubblici e l’espropriazione per pubblica utilità”.

 

Una illustrazione della genesi e del contenuto del ddl AS3519 e dell’Atto del Governo n. 610, nel capitolo Governo del territorio.

 

Governo del territorio – Giurisprudenza costituzionale

Il nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del Titolo V reca – fra le 20 materie di legislazione concorrente elencate al terzo comma – anche il “governo del territorio”. Corrispondentemente è invece stata soppressa la voce “urbanistica”, già presente nell’elenco del vecchio testo dell’articolo 117.

In sede di prima interpretazione del nuovo testo costituzionale, si è posto pertanto una prima esigenza di chiarimento del rapporto fra le due espressioni.

Tre distinte ipotesi possono infatti essere affacciate:

ü      che le due espressioni denominino un identico ambito materiale, avendo la modifica un mero valore di aggiornamento ed adeguamento del linguaggio normativo,

ü      che con il passaggio dall’una all’altra denominazione il legislatore costituzionale abbia dato fondamento ad un allargamento delle competenze legislative regionali (sia pure concorrenti) verso un più largo ambito, il “governo del territorio”, che comunque comprenderebbe – al suo interno – anche la materia urbanistica,

ü      che sia possibile – con l’espressione “governo del territorio” - individuare un ambito normativo completamente separato e indipendente rispetto all’urbanistica (e conseguentemente assegnare implicitamente la materia urbanistica alla competenza esclusiva delle regioni, in quanto materia non espressamente nominata[437]).

 

E’ opportuno osservare che dalla soluzione dei quesiti su esposti discendono conseguenze non irrilevanti, quali – ad esempio – la stessa competenza del Parlamento a varare una legislazione di principio in materia urbanistica[438].

La dottrina è intervenuta sul punto, prima del formarsi di una giurisprudenza costituzionale.

Da parte di chi ha esaminato a fondo i lavori preparatori della riforma del Titolo V[439] si è sostenuto – ad esempio – che proposito del legislatore costituzionale sia stato (e ciò risulterebbe dagli atti, in modo sufficientemente chiaro) quello di inserire – con l’espressione “governo del territorio” – una materia indipendente e separata dalla urbanistica ed edilizia, trasferendo contestualmente (e implicitamente) urbanistica ed edilizia alla competenza esclusiva delle regioni. Tale tesi è stata subito raccolta da alcune Regioni ed avanzata (come si vedrà) all’interno di alcuni dei ricorsi dinanzi alla Corte avverso norme statali in materia urbanistica.

Su di un criterio sistematico, invece, si fondano altre interpretazioni favorevoli alla differente tesi secondo cui la nuova dizione di governo del territorio non rappresenterebbe altro che una versione “aggiornata” della stessa materia (denominata urbanisticanel testo precedente), nel suo affermato significato di disciplina avente ad oggetto l’intero territorio, indipendentemente dal grado della sua urbanizzazione”[440].

Gli elementi comuni alle ricostruzioni tentate dalla dottrina dopo l’entrata in vigore del Titolo V sembrano essere i seguenti:

·                   la nozione di “governo del territorio” abbraccia un ambito normativo e amministrativo di grandissima ampiezza;

·                   il termine ricorre in alcuni atti amministrativi e normativi vigenti in connessione con un lungo elenco di ambiti materiali specifici (con lo scopo di ricomprenderli) e addirittura con un certo carattere di indeterminatezza che dà all’espressione il senso di nozione aperta e potenzialmente comprensiva di ulteriori funzioni che dovessero in futuro emergere come necessitanti un intervento dei pubblici poteri (purchè collocabili sul territorio);

·                   tale ampiezza dell’espressione fa si che, ove fosse intesa quale connotativa di una materia,sarebbe impossibile evitare una interferenza (e secondo linee di intersezione che le norme vigenti e la stessa giurisprudenza non hanno ancora definito) con una serie di altre materie attribuite alla competenza statale (a partire dai lavori pubblici e dall’ambiente[441]) e comunque tale da creare – potenzialmente - un nuovo terreno di contenzioso dai confini estremamente ampi poiché in tutti i casi in cui una norma comportasse l’uso del territorio sarebbe difficile definirne l’appartenenza a materia diversa dal “governo del territorio” (almeno finchè la giurisprudenza costituzionale non provvederà, attraverso una stratificazione di pronunce) a definire le varie (e numerose) linee di confine.

 

Alcune sentenze intervenute negli anni 2003-2005 hanno apportato contributi decisivi a questa problematica interpretativa.

Si ricorda – in primo luogo – la sentenza 1°-7 ottobre 2003, n. 307, con la quale la Corte costituzionale ha chiarito anche che il "governo del territorio" comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività: tutti ambiti rientranti nella sfera della potestà legislativa "concorrente" delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e pertanto caratterizzati dal vincolo al rispetto dei (soli) principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (sulla importante sentenza, v. scheda Ambiente e territorio – Sentenza 307/2003).

 

Successivamente, con la sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 362, il giudice costituzionale si è pronunciato – positivamente – in merito alla appartenenza di due ambiti materiali (urbanistica ed edilizia) a quello – più ampio e comprensivo – di “governo del territorio”, e quindi alla competenza concorrente di Stato e Regioni: se si considera che altre materie o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente individuate nello stesso terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi nel “governo del territorio”, appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all'urbanistica, e che il "governo del territorio" sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto. Nella medesima prospettiva, anche l'ambito di materia costituito dall'edilizia va ricondotto al governo del territorio”.

Ad ulteriore chiarimento di questo punto, la Corte – respingendo quindi esplicitamente la tesi sostenuta dalla Regione Toscana, ricorrente, che aveva avanzato una pretesa attribuzione esclusiva residuale in materia urbanistica - ha precisato che: Nella medesima prospettiva, anche l'ambito di materia costituito dall'edilizia va ricondotto al «governo del territorio». Del resto la formula adoperata dal legislatore della revisione costituzionale del 2001 riecheggia significativamente quelle con le quali, nella più recente evoluzione della legislazione ordinaria, l'urbanistica e l'edilizia sono state considerate unitariamente (v. art. 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione sulle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, modificato dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, Disposizioni in materia di giustizia amministrativa)”.

 

La sentenza 24-28 giugno 2004, n. 196 – ben nota in quanto ha risolto il complesso contenzioso sul condono edilizio (v. scheda Il condono edilizio – Giurisprudenza costituzionale) - ribadisce l’indirizzo tracciato dalle due precedenti sentenze: “la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito (cfr. le sentenze n. 303 e n. 362 del 2003) che nei settori dell'urbanistica e dell'edilizia i poteri legislativi regionali sono senz'altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di “governo del territorio”. E se è vero che la normativa sul condono edilizio di cui all'impugnato art. 32 certamente tocca profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia, è altresì innegabile che essa non si esaurisce in tali ambiti specifici ma coinvolge l'intera e ben più ampia disciplina del “governo del territorio” – che già questa Corte ha ritenuto comprensiva, in linea di principio, di “tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività” (cfr. sentenza n. 307 del 2003) – ossia l'insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio.”

 

Utile – ai fini del completo chiarimento dei quesiti posti all’inizio di questa scheda – anche quanto riportato, sia pure incidentalmente, all’interno della sentenza n. 303 del 2003: La parola "urbanistica" non compare nel nuovo testo dell'art. 117, ma ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell'elenco del terzo comma: essa fa parte del "governo del territorio". Se si considera che altre materie o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente individuati nello stesso terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi nel "governo del territorio", appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all'urbanistica, e che il "governo del territorio" sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto.” (sulla sentenza n. 303, si rinvia alla scheda La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale)

 

Infine, per chiarimenti in merito ai rapporti fra l’ambito materiale del governo del territorio e quello della tutela e valorizzazione dei beni culturali, è utile ricordare la sentenza 8-16 giugno 2005, n. 232 con la quale la Corteha chiarito che la materia del governo del territorio consente al legislatore regionale di prevedere una disciplina di tutela dei beni culturali ulteriore rispetto a quella già prevista dalla legislazione statale. Ciò è motivato dal fatto che la materia “beni culturali” è come la tutela dell’ambiente più che una materia un compito e che quindi non è escluso che le Regioni possano intervenire in tale materia, qualora –soprattutto – le Regioni siano legittimate a farlo in base a una competenza legislativa concorrente come nel caso del “governo del territorio”. Con tale sentenza viene quindi ribadita la “forza” della materia governo del territorio, materia che consente alle Regioni di intervenire in casi nei quali sembrerebbe che non vi sia spazio per l’esplicarsi della potestà legislativa regionale. Nel caso di specie la Corte costituzionale ha considerato legittima una legge regionale in materia di governo del territorio che attribuiva al piano urbanistico la possibilità di operare classificazioni degli immobili aventi rilievo cullturale.

Con la stessa pronuncia la Corte ha invece chiarito che la fissazione di distanze minime tra fabbricati attiene alla materia dell’ordinamento civile e rientra quindi nella competenza esclusiva dello Stato. Di conseguenza, la legge regionale deve sempre attenersi ai limiti stabiliti dalla legislazione statale è può solamente dettare norme solo qualora la legislazione statale preveda una discrezionalità nell’ambito di una fascia determinata.

Non così per la disciplina delle distanze che – pur rientrando nell’ambito materiale dell’urbanistica e quindi del governo del territorio – attiene ai rapporti di proprietà, e quindi alla competenza esclusiva dello Stato.

 

Infine, si ricorda la sentenza 15-29 luglio 2005, n. 343. Con questa sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di disposizioni della legge urbanistica della Regione Marche (artt. 4 e 30 della L.R. 34 del 1992) contrastanti con una norma statale in materia di approvazione di piani attuativi (art. 24 della legge n. 47 del 1985), alla quale la Corte costituzionale ha riconosciuto il rango di norma di principio. In particolare, si tratta della norma statale che prevede l’obbligo dei Comuni di trasmettere alla Regione i piani attuativi. La legge regionale invece non aveva previsto tale obbligo. La Corte costituzionale ha ritenuto che la norma regionale abbia violato l’art. 117, comma 1, della Costituzione (nel testo precedente la riforma, in osservanza del principio tempus regit actum). Infatti “La statuizione dell'art. 24, secondo comma, della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui prescrive l'invio degli strumenti attuativi comunali alla Regione, è chiaramente preordinata a soddisfare un'esigenza, oltre che di conoscenza per l'ente regionale, anche di coordinamento dell'operato delle Amministrazioni … Il meccanismo istituito dall'art. 24 della legge n. 47 del 1985, dunque, in relazione allo scopo perseguito dalla legge, configurando l'obbligo dei Comuni di trasmettere i piani urbanistici attuativi alla Regione, assume il carattere di principio fondamentale”.

Può essere utile richiamare anche un passaggio della sentenza che ha carattere più generale:

La materia edilizia rientra nel governo del territorio, come prima rientrava nell'urbanistica, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare, ora come allora, i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale. […] Né è sostenibile l'ascrivibilità dell'art. 24 della legge n. 47 del 1985 alla normativa di dettaglio, che sarebbe preclusa al legislatore statale, atteso che l'ampio ambito di operatività assicurato dal secondo comma dell'art. 24 alla legislazione regionale è soggetto ad una delimitazione di ordine generale, preordinata alla tutela di interessi superiori”.

 

In conclusione, la giurisprudenza sopra richiamata sembra essere fondata sul presupposto che il “governo del territorio” rappresenti – in ogni caso – una di quelle espressioni ad alto grado di indeterminatezza (ben lontane dal definire i confini certi di una materia a cui assegnare norme specifiche in modo non controvertibile) delle quali il testo costituzionale fa uso (e non potrebbe essere altrimenti), ma alle quali appare rischioso connettere competenze esclusive.

In questo senso si segnala che – data l’indeterminatezza di questa (ed altre) espressioni adoperate dall’articolo 117, la competenza concorrente non rappresenta una fonte di contenzioso, ma – al contrario – potrebbe costituire un elemento di flessibilità, e cioè uno spazio di possibile composizione concordata e non conflittuale degli inevitabili dubbi interpretativi sulla competenza dei vari soggetti.

Ciò appare particolarmente vero a seguito del capovolgimento del criterio attributivo di competenze operato dal Titolo V. Infatti, una volta non esclusa la competenza statale (sia pure per principi), il contenzioso contro le leggi dello Stato si ridurrebbe ai soli casi di disposizioni palesemente di dettaglio.

Può essere significativo rilevare, in proposito, che la gran parte del contenzioso promosso sulla materia in oggetto (ma probabilmente tale dato risulterebbe confermato anche da un’analisi estesa all’intero contenzioso sul Titolo V) non verte sulla natura (di principio o di dettaglio) delle norme, ma piuttosto sull’appartenenza di specifiche norme agli ambiti materiali, come definiti dall’articolo 117.

 

Paesaggio – Giurisprudenza costituzionale

Il problema della ripartizione di competenze legislative fra Stato e regioni in materia di tutela del paesaggio presuppone un breve chiarimento in merito ai problemi di natura terminologica (peraltro di origine non recente) posti dalla nozione stessa di paesaggio[442]. Infatti, com’è noto, mentre l’art. 9 della Costituzione indica, fra i principi fondamentali, quello della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, l’art. 117, invece (sia nel testo precedente la riforma del 2001, sia in quello vigente) non reca una specifica menzione di questa “materia”. Non vale – a spiegare questa omissione – l’argomento che la tutela del paesaggio non è collocata nelle elencazioni dell’art. 117 in quanto essa non rappresenta un ambito materiale, ma piuttosto una finalità generale, e in quanto tale “trasversale” rispetto agli ambiti di competenza riservati ai vari livelli territoriali. Infatti, come la giurisprudenza costituzionale ormai ha chiarito, non tutte le voci elencate ai commi secondo e terzo dell’art. 117 sono da considerarsi ambiti materiali (vedi, in proposito, la scheda Il riordino del diritto ambientale – Giurisprudenza costituzionale).

Il problema terminologico, che è stato da molti anni oggetto di indagini e interpretazioni da parte della dottrina, può avvalersi oggi di due documenti di notevole significato.

Il primo è una definizione normativa di paesaggio (finora assente dall’ordinamento), introdotta dal “codice dei beni culturali e del paesaggio” (decreto legislativo n. 42 del 2004), che – all’art. 131 – recita:

1.Ai fini del presente codice per paesaggio si intende una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.

2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”.

Si osserva (come segnalato nella scheda Codice dei beni culturali e ambientali), che il comma 1 dell’art. 131 è stato modificato dal decreto legislativo n. 157 del 2005 e reso più convergente con la Convenzione europea del paesaggio. Il testo oggi vigente recita: “Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”

Il secondo riferimento terminologico può rinvenirsi nella sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2004 (avente ad oggetto il condono edilizio), che conferma la tesi già radicata in dottrina secondo la quale il paesaggio è “forma del territorio e dell’ambiente”, la cui tutela rappresenta valore costituzionale primario (cfr., tra le molte, le sentenze n. 151 del 1986, n. 359 e n. 94 del 1985), “primarietà che la stessa giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente definito come “insuscettibilità di subordinazione ad ogni altro valore costituzionalmente tutelato, ivi compresi quelli economici”.

Alla luce di questi elementi sembra acclarato che la nozione di paesaggio sia compresa all’interno di quella di ambiente e pertanto la “tutela del paesaggio” debba considerarsi compresa all’interno della “tutela dell’ambiente”.

Pertanto, le vicende del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni in materia di paesaggio sembra debbano seguire quelle del riparto in materia di tutela dell’ambiente (e su cui si rinvia alla scheda già citata Il riordino del diritto ambientale – Giurisprudenza costituzionale).

A questa conclusione autorizza – con una certa chiarezza – anche una recente sentenza specificamente dedicata a norme di tutela paesistica, la sentenza n. 51 del 6-10 febbraio 2006, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato infondato il ricorso dello Stato contro alcuni articoli della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8, riguardanti la tutela delle coste.

In particolare, con questa legge, la Regione Sardegna ha istituito un divieto generale di realizzazione di nuove opere edilizie esteso a tutta la fascia costiera compresa nei duemila metri dalla linea di battigia, indipendentemente dalla sussistenza in concreto di un vincolo paesaggistico. Tale disposizione - a giudizio dello Stato ricorrente – avrebbe finito per paralizzare senza alcuna plausibile ragione, “per tutto l’arco temporale della approvazione dei piani regionali paesaggistici, una serie di iniziative ed attività che, ai sensi della legislazione nazionale e regionale, devono considerarsi lecite, se non di interesse generale”.

Sul piano giuridico, il ricorso era fondato sulla rivendicazione della competenza esclusiva statale nella materia della tutela del paesaggio (ai sensi della lettera s) del secondo comma dell’art. 117).

La sentenza riconosce che “il titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione” è comprensivo “tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali”.

Tuttavia fa salva la legge della regione Sardegna, in virtù delle competenze in materia di paesaggio attribuite a questa Regione dalle norme statutarie e dalle norme di attuazione dello Statuto regionale.

 

Titoli abilitativi all’attività edilizia – Giurisprudenza costituzionale

Nella sentenza n. 303 del 2003, la Corte costituzionale ha affrontato, tra le altre, la questione della legittimità costituzionale dei commi da 6 a 12 e del comma 14 dell’articolo 1 della legge n. 443 del 2001 (legge-obiettivo) che disciplinano i titoli abilitativi all’esercizio dell’attività edilizia.

Le tre regioni ricorrenti (Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna) lamentavano che con tali disposizioni lo Stato avrebbe leso la competenza residuale delle Regioni in materia edilizia. In via subordinata, osservavano che, anche a ricondurre la materia dell'edilizia a quella del governo del territorio e, quindi, a materia di legislazione concorrente, sarebbe stato egualmente violato l'art. 117 Cost., in quanto le disposizioni denunciate avrebbero posto una disciplina analitica e dettagliata, non limitandosi dunque a dettare i principî fondamentali.

Nelle more del giudizio, è intervenuto l’art. 13, comma 7, della legge n. 166 del 2002, che ha modificato il citato comma 12, attribuendo in particolare alle Regioni a statuto ordinario la facoltà di ampliare o ridurre le categorie di opere per le quali è prevista la denuncia di inizio attività. In tal senso hanno operato, successivamente all’agosto 2002, numerose regioni.

 

La Corte – sulla base di un’attenta ricostruzione della collocazione della materia dei titoli abilitativi dopo la riforma del Titolo V – ha chiarito che le disposizioni impugnate formano oggetto di legislazione concorrente, essendo riconducibili alla materia del governo del territorio.

 

Essa ha osservato in particolare che tale materia storicamente apparteneva all’urbanistica, la quale – in base al testo previgente dell’articolo 117 Cost. – formava oggetto di competenza concorrente. Il fatto che la parola “urbanistica” non compaia nel nuovo testo dell'art. 117 non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell'elenco di cui al terzo comma dell’articolo 117 potendo infatti essere riconducibile alla materia del governo del territorio espressamente indicata da tale disposizione.

 

Respinte le censure prospettate dalle Regioni in via principale, la Corte si è soffermata sulla questione subordinata dell’illegittimità delle disposizioni impugnate in quanto recanti una disciplina di dettaglio, piuttosto che la mera determinazione di principi fondamentali della materia ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

In proposito, la Corte – dopo avere evidenziato l’evoluzione che, nel tempo, hanno subito i principi della legislazione statale in materia di titoli abilitativi per gli interventi edilizi – ha affermato con chiarezza che le norme impugnate non hanno il contenuto di norme di dettaglio, ma “perseguono il fine, che costituisce un principio dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e ad evitare la duplicazione di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione”.

Le modificazioni introdotte nell'ultimo periodo del comma 12 dell'art. 1 - e cioè l'attribuzione alle Regioni del potere di ampliare o ridurre le categorie di opere per le quali è prevista in principio la dichiarazione di inizio attività – non hanno peraltro prodotto un mutamento della natura della disciplina contenuta nel comma 6, trasformandola in normativa di dettaglio. Secondo la Corte, infatti, tale modifica legislativa ha determinato soltanto una maggiore flessibilità del principio della legislazione statale quanto alle categorie di opere a cui la denuncia di inizio attività può applicarsi, restando comunque fermo il principio “della necessaria compresenza nella legislazione di titoli abilitativi preventivi ed espressi (la concessione o l'autorizzazione, ed oggi, nel nuovo testo unico n. 380 del 2001, il permesso di costruire) e taciti, quale è la DIA, considerata procedura di semplificazione che non può mancare, libero il legislatore regionale di ampliarne o ridurne l'ambito applicativo”.

Analogamente, secondo la Corte, non costituisce normativa di dettaglio la disciplina contenuta nel comma 7, che reitera l’obbligo dell’interessato di versare gli oneri di urbanizzazione, e nei commi 8-11, che recano disposizioni riguardanti gli interventi su immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale. La prima di tali disposizioni rappresenta, infatti, espressione del principio, già presente nella disciplina un tempo urbanistica, dell’onerosità del titolo abilitativo; le altre sono portatrici di un principio della legislazione statale diverso da quello previgente, contenuto nell'art. 4, comma 8, del decreto legge n. 398 del 1993 (che viene espressamente abrogato), secondo il quale può procedersi con denuncia di inizio attività anche alla realizzazione degli interventi edilizi di cui al comma 6 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001 che riguardino aree o immobili sottoposti a vincolo.

Secondo la Corte, infine, non si può ritenere lesiva delle attribuzioni regionali la norma di delega contenuta nel comma 14 per l’emanazione di un decreto legislativo volto a introdurre, nel testo unico dell’edilizia le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di cui ai commi da 6 a 13.

 

Il condono edilizio – Giurisprudenza costituzionale

Con le sentenze n. 196e 198, entrambe del 24-28 giugno 2004, la Corte costituzionale si è pronunciata, rispettivamente, sui ricorsi regionali contro l’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 (che aveva disciplinato il nuovo condono edilizio) e sui ricorsi statali contro le leggi regionali intervenute immediatamente dopo il condono per attutirne o annullarne gli effetti.

La seconda delle due pronunce non presenta aspetti particolari di complessità, tuttavia non è priva di interesse ai fini della ricostruzione dei nessi fra potestà legislativa e principio di leale collaborazione. In questa occasione, infatti, la Corte ha ritenuto fondati i motivi dei ricorsi statali in quanto “ciò che è implicitamente escluso dal sistema costituzionale è che il legislatore regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali) utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio dinanzi a questa Corte, ai sensi dell'art. 127 Cost. Dunque né lo Stato né le Regioni possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti tra i rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge.”

 

Nella sentenza n. 196, invece, la Corte costituzionale, ha svolto una articolata ricostruzione del riparto di competenze fra Stato e Regioni in relazione ad una disciplina (quella della sanatoria edilizia) in cui effetti amministrativi e penali sono difficilmente separabili, ma che incide anche in un ambito materiale (il governo del territorio) in cui non può essere sottovalutato “l’intervenuto accrescimento dei loro poteri [delle Regioni] in conseguenza della riforma del Titolo V”.

In conclusione, la sentenza n. 196 ha formulato una serie di pronunce di carattere additivo, “ridisegnando” una sanatoria nella quale le regioni sono state chiamate a recare integrazioni sostanziali. Parallelamente, la normativa statale è stata ridimensionata al rango di normativa di principio (in ottemperanza alla collocazione costituzionale del governo del territorio fra le materie di legislazione concorrente).

In base a tale ridisegno, è competenza delle Regioni determinare i limiti volumetrici delle opere condonabili nel proprio territorio, (funzionando, quelli indicati dalla legge statale, solo come tetto massimo).

A tale fine la Corte ha previsto che una (nuova) legge statale dovesse assegnare alle regioni un congruo termine per emanare le norme integrative. La sentenza ha inoltre chiarito, al fine di garantire comunque una disciplina di chiusura, che solo nel caso in cui la Regione avesse rinunciato a legiferare entro il termine previsto dalla legge statale, allora sarebbero state applicabili per intero, in quel territorio, le norme dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, comprese quelle che – nel dettaglio – indicavano i limiti volumetrici delle opere condonabili.

In riferimento alla disciplina del condono edilizio (per la parte non inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale, ivi compresa – come già affermato in precedenza – la collaborazione al procedimento delle amministrazioni comunali), solo alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell'art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante – più ampio che nel periodo precedente – di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo. Al tempo stesso, se i Comuni possono, nei limiti della legge, provvedere a sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi, viene in evidente rilievo l'inammissibilità di una legislazione statale che determini anche la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento ai Comuni; d'altronde, l'ordinaria disciplina vigente attribuisce il potere di determinare l'ammontare degli oneri concessori agli stessi Comuni, sulla base della legge regionale (art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).

Per ciò che riguarda le Regioni ad autonomia particolare, ove nei rispettivi statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, lo spazio di intervento affidato al legislatore regionale appare maggiore, perché in questo caso possono operare solo il limite della “materia penale” (comprensivo delle connesse fasi procedimentali) e quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili), mentre spetta al legislatore regionale la eventuale indicazione di ulteriori limiti al condono, derivanti dalla sua legislazione sulla gestione del territorio

 

Del tutto uniformemente, seppur in termini sintetici, la successiva sentenza n. 71 del 7-11 febbraio 2005 ha affermato «che, a seguito della citata sentenza n. 196 del 2004, la disciplina contenuta nell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 ha subito una radicale modificazione, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere di modulare l'ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità e alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili» (analogamente si vedano le sentenze nn. 70 e 304 del 2005).

 

Al tempo stesso, la sentenza n. 70 del 7-11 febbraio 2005 ha chiaramente ribadito che ciò che esula dalla potestà delle Regioni è il «potere di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal legislatore statale».

 

Occorre inoltre ricordare la sentenza n. 49 del 2006 con cui la Corte è intervenuta su una serie di disposizioni regionali impugnate dallo Stato, emanate ai sensi dell'art. 32, commi 26 e 33, del decreto-legge n. 269 del 2003, come risultante a seguito della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale operata con la sentenza n. 196 del 2004; sentenza cui ha dato esplicitamente esecuzione l'art. 5 del decreto-legge n. 168 del 2004, convertito dalla legge n. 191 del 2004[443].

La sentenza n. 49 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, dell'art. 3 (eccettuate le lettere b e d del comma 2), dell'art. 4, dell'art. 6, commi 1, 2 e 5, e dell'art. 8, della legge della Regione Campania n. 10 del 2004, in quanto in violazione del termine perentorio previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legge n. 168 del 2004 (la Regione Campania era intervenuta con una disciplina più restrittiva, ma la legge regionale era stata approvata oltre il termine di quattro mesi, scaduto il 12 novembre 2004, previsto dal suddetto decreto legge). La mancata emanazione della legge regionale entro il termine previsto è stata valutata dalla Corte come violazione del principio di leale collaborazione.

Inoltre, la Corte ha censurato anche alcune disposizioni (ma di minore rilevanza di altre due leggi regionali:

- l'art. 26, comma 4, della legge della Regione Emilia-Romagna 21 ottobre 2004, n. 23, che sanava tutte le difformità edilizie anteriori al febbraio 1977, se realizzate durante l’esecuzione di una licenza edilizia ”poiché violerebbe l'art. 117, terzo comma, Cost., dal momento che introdurrebbe – peraltro in contrasto con la tendenza alla riduzione dell'ambito applicativo della sanatoria propria di altre norme della stessa legge regionale – «una sanatoria straordinaria gratuita ed ope legis non sorretta da alcun principio fondamentale determinato dallo Stato, e contrastante con le esigenze della finanza pubblica»; inoltre la medesima norma violerebbe l'art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una discriminazione tra i proprietari basata sulla diversa collocazione temporale degli illeciti, consentendo la sanatoria ex lege solo per quelli più risalenti nel tempo”;

- l’art. 3, comma 1, della legge della Regione Marche 29 ottobre 2004, n. 23, che non prevedeva chiaramente limiti alla sanatoria per le opere non residenziali (per esempio il limite del 30% della volumetria originaria in caso di ampliamento e la soglia dei 3.000 metri cubi per le nuove costruzioni residenziali), in quanto tali disposizioni avrebbero l’effetto di estendere l’ambito di applicazione della sanatoria oltre i limiti definiti dalla legge statale.

 

Norme antisismiche – L’evoluzione normativa

La normativa antisismica prima del 2003

Al fine di cogliere il carattere innovativo della nuova normativa sismica introdotta dall’ordinanza n. 3274 del 2003 e dal successivo DM 14 settembre 2005 è opportuno effettuare una breve panoramica sull’evoluzione temporale della normativa sismica.

L’individuazione delle zone sismiche, in Italia, è avvenuta agli inizi del ‘900 attraverso lo strumento del regio decreto, emanato a seguito dei terremoti distruttivi di Reggio Calabria e Messina del 28 dicembre 1908. Dal 1927 le località colpite sono state distinte in due categorie, in relazione al loro grado di sismicità ed alla loro costituzione geologica. Pertanto, la mappa sismica in Italia non era altro che la mappa dei territori colpiti dai forti terremoti avvenuti dopo il 1908, mentre tutti i territori colpiti prima di tale data - la maggior parte delle zone sismiche d’Italia - non erano classificati come sismici e, conseguentemente, non vi era alcun obbligo di costruire nel rispetto della normativa antisismica. La lista originariamente consisteva, quindi, nei comuni della Sicilia e della Calabria gravemente danneggiati dal terremoto del 1908, che veniva modificata dopo ogni evento sismico aggiungendovi semplicemente i nuovi comuni danneggiati.

La legislazione antisismica vigente è essenzialmente basata sull’apparato normativo costituito dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64, recante Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche, che ha integralmente sostituito la legge 25 novembre 1962, n. 1684, nonché della legge 5 novembre del 1971, n. 1086, recante Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica.

Infatti, solamente nel 1974, attraverso la legge n. 64, è stata approvata una nuova normativa sismica nazionale che ha stabilito il quadro di riferimento per le modalità di classificazione sismica del territorio nazionale, oltre che di redazione delle norme tecniche. Tale legge ha delegato il Ministro dei lavori pubblici:

§         all’emanazione di norme tecniche per le costruzioni sia pubbliche che private, da effettuarsi con decreto ministeriale, di concerto con il Ministro per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, e con la collaborazione del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR);

§         all’aggiornamento della classificazione sismica attraverso appositi decreti ministeriali.

Si ricorda che il carattere distintivo di tale legge è stata la possibilità di aggiornare le norme sismiche ogniqualvolta fosse giustificato dall’evolversi delle conoscenze dei fenomeni sismici, mentre, per la classificazione sismica si è operato, come per il passato, attraverso l’inserimento di nuovi comuni colpiti dai nuovi terremoti.

 

Successivamente, gli studi di carattere sismologico effettuati all’indomani del terremoto del Friuli Venezia Giulia del 1976 e di quello in Irpinia del 1980, svolti all’interno del Progetto finalizzato “Geodinamica” del CNR, hanno portato ad un notevole aumento delle conoscenze sulla sismicità del territorio nazionale ed hanno consentito la formulazione di una proposta di classificazione sismica presentata dal CNR al Governo, che è stata tradotta in una serie di decreti del Ministero dei lavori pubblici approvati tra il 1980 ed il 1984[444], che hanno costituito, pertanto, la classificazione sismica italiana fino all’emanazione dell’ ordinanza n. 3274 del 20 marzo 2003.

Si ricorda che la proposta del CNR, per la prima volta in Italia, è stata basata su indagini di tipo probabilistico della sismicità italiana e che la classificazione sismica ha preso in considerazione tre categorie sismiche, di cui la terza (la meno pericolosa, introdotta con il DM 3 giugno 1981, n. 515), ha compreso solo alcuni comuni della Campania, Puglia e Basilicata, interessati dal terremoto di Irpinia e Basilicata del 1980, ma che non è stata estesa alle altre zone d’Italia con pari livello di pericolosità.

Relativamente, invece, alle norme tecniche, già con il DM del 3 marzo 1975, sono state emanate le prime disposizioni successivamente integrate da una serie di successivi decreti[445], tra cui si ricordano il DM 12 febbraio 1982, a sua volta sostituito dal DM 16 gennaio 1996, come modificato dal DM 4 marzo 1996, che ha provveduto ad integrare il DM del 3 marzo 1975 con alcune indicazioni contenute in alcune circolari ministeriali.

 

Su tale impianto normativo si è inserito il nuovo processo di distribuzione delle competenze fra Stato, regioni ed enti locali, attuato con le cd “leggi Bassanini” del 15 marzo 1997, n. 59. Conseguentemente, la competenza per l’individuazione delle zone sismiche,la formazione e l'aggiornamento degli elenchi delle medesime zone che, fino al 1998 era attribuita al Ministro dei lavori pubblici, è stata trasferita, con il decreto legislativo n. 112 del 1998 - art. 94, comma 2, lett. a) - alle Regioni, mentre spetta allo Stato quella di definire i relativi criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e le norme tecniche per le costruzioni nelle medesime zone - art. 93, comma 1, lett. g). Occorre sottolineare, inoltre, che il comma 4 del medesimo art. 93 prevede che tali funzioni siano esercitate sentita la Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali.

 

Si ricorda, ancora, che tale residua competenza statale è rimasta incardinata nel Ministero dei lavori pubblici fino all’approvazione del decreto legislativo n. 300 del 1999, che l’ha assegnata alla neo istituita Agenzia di protezione civile e, nuovamente, riattribuita al Dipartimento della protezione civile con il decreto legge n. 343 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge n. 401 del 2001 (per un approfondimento si veda la scheda La Protezione civile – Recenti riforme) che ha soppresso l’Agenzia, peraltro mai entrata nella piena operatività.

 

Inoltre, in conseguenza del riordino normativo della materia edilizia, le disposizioni antisismiche previste dalla legge n. 64 del 1974 sono confluite, con alcune modifiche, nel DPR 6 giugno 2001, n. 380, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, il cui Capo IV reca “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche”, con disposizioni specifiche relative alle norme per le costruzioni in zone sismiche, alla relativa vigilanza, nonché alle modalità di  repressione delle violazioni.

Il DPR n. 380, come modificato ed integrato dal decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301, ha stabilito che tutte le costruzioni di rilievo per la pubblica incolumità, se realizzate in zone sismiche, devono essere conformi, oltre che alle disposizioni tecniche applicabili ad ogni tipo di costruzione edificata su tutto il territorio nazionale, anche a specifiche norme tecniche, la cui emanazione è affidata al Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro dell’interno e sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il CNR, nonché la Conferenza unificata (art. 83). Negli articoli successivi sono state poi dettati i criteri generali cui dovranno uniformarsi le norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche.

La nuova normativa sismica

Immediatamente dopo il terremoto del 31 ottobre 2002 che ha colpitoi territori al confine fra il Molise e la Puglia, la Protezione civile ha adottato l’ordinanza 20 marzo 2003, n. 3274[446], al fine di fornire una risposta immediata alla necessità di aggiornamento della classificazione sismica e delle norme antisismiche.

Nelle premesse all’ordinanza, si specifica che essa rappresenta una prima e transitoria disciplina della materia, in attesa dell’emanazione delle specifiche norme tecniche previste, dapprima, dall’art. 83 del DPR n. 380 del 2001, e, successivamente, anche dall’art. 5 del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136[447].

Alla luce dell’ordinanza n. 3274 e, a differenza di quanto previsto dalla normativa precedente, tutto il territorio nazionale è stato classificato come sismico e suddiviso in 4 zone, caratterizzate da pericolosità sismica decrescente; tali zone sono individuate da 4 classi di accelerazione massima del suolo con probabilità di accadimento del 10% in 50 anni. Le prime tre zone della nuova classificazione corrispondono, dal punto di vista degli adempimenti previsti dalla legge n. 64 del 1974, alle zone di sismicità alta, media e bassa, mentre per la zona 4, di nuova introduzione, viene data facoltà alle regioni di imporre l’obbligo della progettazione antisismica. In ogni zona è, infatti, prevista l’applicazione della progettazione sismica con livelli differenziati di severità, salvo, come anzidetto, nella zona 4. Il collegamento tra la classificazione e le norme tecniche risulta, pertanto, molto stretto.

Oltre ai criteri per l'individuazione delle zone sismiche e per la formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone, con l’ordinanza sono state, infatti, approvate le seguenti norme tecniche (contenute negli allegati 2, 3 e 4 dell’ordinanza, di cui fanno parte integrante) che riguardano, per la prima volta, la quasi totalità di tipologie di costruzioni: edifici, ponti ed opere di fondazione e di sostegno dei terreni.

 

L’art. 2, comma 2, dell’ordinanza n. 3274 prevede l’applicazione delle norme tecniche previgenti per le seguenti opere:

§         opere i cui lavori siano già iniziati;

§         opere pubbliche già appaltate o i cui progetti siano stati già approvati alla data della presente ordinanza;

§         opere di completamento degli interventi di ricostruzione in corso[448].

Viene altresì previsto, in tutti i restanti casi, la possibilità di continuare ad applicare le norme tecniche previgenti per non oltre 18 mesi, termine più volte prorogato da una serie di successive ordinanze, di cui l’ultima – la n. 3467 del 2005 – ne ha differito l’applicabilità al 23 ottobre 2005, data di entrata in vigore della nuovo disciplina antisismica introdotta dal DM 14 settembre 2005.

Il successivo comma 3 ha previsto l’obbligo di verifica entro 5 anni – da effettuarsi a cura dei rispettivi proprietari, ai sensi delle norme tecniche contenute negli allegati all’ordinanza – sia degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile, sia degli edifici e delle opere infrastrutturali che possono assumere rilevanza in relazione alle conseguenze di un eventuale collasso. Viene altresì previsto che tali verifiche riguardino in via prioritaria edifici ed opere ubicate nelle zone di sismicità alta e media[449].

Va sottolineata, inoltre, la forte sintonia della normativa contenuta nell’ordinanza con il sistema di normative già definito a livello europeo, Eurocodice 8 (EC8), in corso di adozione da parte dell’Unione europea. Si ricorda che la differenzia sostanziale tra le norme di nuova generazione, quali l’EC8, e quelle tradizionali (oramai non piùin vigore in nessun Paese, in particolare europeo) consiste nell’abbandono del carattere convenzionale e puramente prescrittivo a favore di una impostazione prestazionale, nella quale gli obiettivi della progettazione che la norma si prefigge vengono dichiarati, ed i metodi utilizzati allo scopo (procedure di analisi strutturale e di dimensionamento degli elementi) vengono singolarmente giustificati.

Un’elencazione completa di tutte le norme tecniche che si sono susseguite nel corso degli ultimi venti anni è disponibile all’indirizzo internet www.ingegneriasoft.com/normativa-tecnica-ingegneria-civile.htm

 

Con l’ordinanza n. 3274 lo Stato ha provveduto ha fissare i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche, dando mandato alle regioni, in armonia con il dettato dell’art. 112 del decreto legislativo n. 112 del 1998, per l’individuazione delle zone sismiche.

Alle regioni, compete, quindi, la predisposizione dell’elenco dei comuni classificati rispettivamente in zona 1, 2, 3 e 4. Per procedere a tale identificazione le regioni potranno elaborare in proprio una mappa di pericolosità sismica regionale, oppure utilizzare quella fornita dallo Stato per tutto il territorio nazionale e allegata ai criteri per l’individuazione delle zone sismiche nella veste dell’elenco di tutti i comuni italiani con la loro classificazione sismica

 

Si ricorda, poi, che in una recente nota del 29 marzo 2004 del Dipartimento della protezione civile[450], recante elementi informativi sull’ordinanza n. 3274 si legge che “L’ordinanza è nata dalla necessità di dare una risposta rapida ed integrata alle esigenze poste dal rischio sismico, una risposta che non poteva ulteriormente attendere visto il ripetersi di eventi sismici calamitosi che hanno interessato anche zone non classificate sismiche”, ma soprattutto che “l’ineludibile esigenza sopra descritta ha, quindi, condotto alla scelta di dettare una disciplina a carattere transitorio in materia di classificazione sismica e normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica con un’ordinanza di protezione civile ex articolo 5, comma 2 della legge n. 225/1992, nelle more dell’emanazione di un provvedimento che regoli a regime la materia; a tal fine il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con decreto n. 113/AG/30/15 del 28 gennaio 2004[451], ha costituito un’apposita Commissione a cui è stato demandato il compito di redigere una bozza di Testo Unico della Normativa Tecnica, da emanarsi ai sensi della legge n. 64 del 1974 e del DPR n. 380 del 2001”.

Con decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile n. 123 del 22 gennaio 2004[452] è stato nominato anche un gruppo di lavoro per l’approfondimento di tutte le problematiche relative all'ordinanza n. 3274.

 

Successivamente il Parlamento, al fine di risolvere le questioni attinenti al riparto di competenze tra il Dipartimento della protezione civile e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in materia di normativa antisismica, sorte a seguito dell’emanazione dell’ordinanza n. 3274, ha previsto, nell’art. 5 del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136, l’emanazione – da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici[453], di concerto con il Dipartimento della protezione civile, di norme tecniche, anche per la verifica sismica ed idraulica relative alle costruzioni, nonché la redazione di norme tecniche per la progettazione, la costruzione e l'adeguamento, anche sismico ed idraulico, delle dighe di ritenuta, dei ponti e delle opere di fondazioni. Nel medesimo comma è stato precisato che la redazione di tali norme avvenga secondo un programma di priorità per gli edifici scolastici e sanitari.

 

Si ricorda, in merito a tali questioni, che l’ordinanza n. 3274 rappresenta una normativa a carattere transitorio adottata in base agli artt. 2, comma 1, e 5, comma 2, della legge n. 225 del 1992, che conferisce al Dipartimento della protezione civile poteri straordinari per fronteggiare determinate situazioni di emergenza. Sull’esercizio dei poteri straordinari da parte del Dipartimento della protezione civile, si è pronunciata, dapprima, la Corte Costituzionale con la sentenza 9 novembre 1992, n. 127 nella quale si è affermato che “non spetta allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei Ministri, introdurre prescrizioni per fronteggiare lo stato di emergenza che conferiscano a organi amministrativi  poteri di ordinanza non adeguatamente circoscritti nell’oggetto, tali da derogare a settori di normazione primaria richiamati in termini assolutamente generici, e a leggi fondamentali per la salvaguardia dell’autonomia regionale, senza prevedere, inoltre, l’intesa per la programmazione generale degli interventi”. Successivamente anche il Tar della Lombardia con sentenza del 27gennaio 1998, n. 96, ha confermato che “l’esercizio del potere di deroga alla legislazione vigente, riconosciuto al commissario delegato dal Presidente del Consiglio dei Ministri per l’attuazione degli interventi di emergenza previsto dall’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, presuppone la circostanziata individuazione ex ante delle principali norme che, applicabili in via ordinaria, pregiudicherebbero l’attuazione degli interventi medesimi; pertanto, l’onere di motivazione, di cui il commissario deve farsi carico, è diretto ad evidenziare, con valutazione preventiva, il nesso di strumentalità necessaria tra l’esercizio del potere di deroga e l’attuazione di detti interventi”.

In sintesi, se la pienezza di poteri attribuiti al Dipartimento della protezione civile è giustificabile allorché si tratti di deliberare lo stato di emergenza, sono sorte perplessità in relazione all’emanazione di un’ordinanza, come la n. 3274, finalizzata a disciplinare, sia pure provvisoriamente, un settore caratterizzato da norme per le quali è previsto un procedimento di adozione ben individuato (DPR n. 380 del 2001, art. 83)

 

Sotto il profilo procedurale, il successivo comma 2 dell’art. 5 del decreto legge n. 136 del 2004 ha previsto che le norme tecniche vengano emanate con le procedure di cui dell'art. 52 del T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia di cui al DPR n. 380 del 2001, di concerto con il Dipartimento della protezione civile.

 

Si ricorda che l'art. 52 del richiamato T.U. stabilisce che le norme tecniche riguardanti i vari elementi costruttivi delle strutture sia pubbliche che private siano fissate con decreti del Ministero per le infrastrutture e i trasporti, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici che si avvale anche della collaborazione del Consiglio nazionale delle ricerche. Qualora le norme tecniche riguardino costruzioni in zone sismiche esse devono essere adottate di concerto con il Ministro per l'interno.

Tali norme definiscono i criteri generali tecnico-costruttivi per la progettazione, esecuzione e collaudo degli edifici in muratura e per il loro consolidamento, i carichi e sovraccarichi e loro combinazioni nonché i criteri generali per la verifica di sicurezza delle costruzioni, le indagini sulla natura dei terreni e delle rocce, la stabilità dei pendii naturali e delle scarpate, i criteri generali e le precisazioni tecniche per la progettazione, esecuzione e collaudo delle opere di sostegno delle terre e delle opere di fondazione, i criteri generali e le precisazioni tecniche per la progettazione, esecuzione e collaudo di opere speciali, quali ponti, dighe, serbatoi, tubazioni, torri, costruzioni prefabbricate in genere, acquedotti, fognature e, infine, la protezione delle costruzioni dagli incendi.

Il medesimo art. 52 del T.U., al comma 3, dispone che le medesime norme tecniche e i relativi aggiornamenti entrino in vigore trenta giorni dopo la pubblicazione dei rispettivi decreti nella Gazzetta Ufficiale.

 

Pertanto, in attuazione dell’art. 5 del decreto legge n. 136 del 2004, è stato emanato il DM 14 settembre 2005 con il quale sono state approvate le Norme tecniche per le costruzioni, allo scopo di riunire in un unico testo la disciplina tecnica relativa alla progettazione ed all’esecuzione delle costruzioni e di realizzarne nel contempo l’omogeneizzazione e la razionalizzazione.

Il testo, composto da un’introduzione e dodici capitoli, rappresenta una messa a punto completa della complessa normativa in materia di costruzioni, relativa alla progettazione strutturale degli edifici ed alle principali opere di ingegneria civile, accanto alle caratteristiche dei materiali e dei prodotti utilizzati, e consiste, inoltre, in un ampio aggiornamento del quadro legislativo nazionale in campo strutturale, basato sulle leggi fondamentali n. 1086 del 1971 e n. 64 del 1974[454].

Il decreto è entrato in vigore il 23 ottobre 2005, vale a dire 30 giorni dopo la pubblicazione sulla G.U., ai sensi dell’art. 52 del T.U. n. 380 del 2001 e come disposto dal comma 2 dell’art. 5 del decreto legge n. 136 del 2004.

Successivamente, con l’art. 14-undevicies del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115[455](che ha aggiunto il comma 2-bis all’art. 5 del decreto legge n. 136 del 2004), è stato previsto un periodo transitorio di diciotto mesi - fino al 23 aprile 2007 - dall’entrata in vigore,,al dichiarato scopo di consentire l’avvio di una fase sperimentale nell’applicazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni, durante il quale sarà possibile applicare, in alternativa alle stesse, la normativa precedente di cui alla legge n. 1086 del 1971 ed alla legge n. 64 del 1974 e fatto salvo, comunque, quanto previsto dall'applicazione del DPR 21 aprile 1993, n. 246, recante “Regolamento di attuazione della direttiva 89/106/CEE relativa ai prodotti da costruzione”.

Si osserva che l’art. 14-undevicies del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115, nel prevedere il regime transitorio di diciotto mesi, ha richiamato espressamente solo le leggi n. 1086 del 1971 e n. 64 del 1974, nonché il DPR n. 246 del 1993, ma non l’ordinanza n. 3274 del 2003.

Pertanto, in merito all’applicabilità dell’ordinanza n. 3274 durante tale regime transitorio, si ricorda che essa è tuttavia vigente,in quanto le proroghe hanno riguardato unicamente la sua obbligatorietà, ma non la vigenza, e fino alla sua entrata in vigore il progettista avrebbe quindi potuto scegliere di adeguarvisi o meno. Durante tale periodo transitorio, pertanto, l’applicazione della disciplina in essa contenuta costituisce una mera facoltà che si affianca a quella di applicazione della normativa del DM 14 settembre 2005 ed alla normativa di cui alle leggi n. 1086 del 1971 e n. 64 del1974.

Tale possibilità è confermata dallo stesso DM 14 settembre 2005, nelle cui premesse viene espressamente previsto che le disposizioni contenute negli allegati 2 e 3[456] dell’ordinanza n. 3274 del 2003, possono continuare a trovare vigenza “quali documenti applicativi di dettaglio delle norme tecniche” con lo stesso approvate. Inoltre, al capitolo 5.7.1.1, comma 2, si prevede espressamente che “committente ed il progettista di concerto, nel rispetto dei livelli di sicurezza stabiliti nella presente norma, possono fare riferimento a specifiche indicazioni contenute in codici internazionali, nella letteratura tecnica consolidata, negli allegati 2 e 3 alla ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 marzo 2003, n. 3274”. Infine, nel capitolo 12, la citata ordinanza rientra tra le referenze tecniche essenziali, al pari dei codici internazionali e della letteratura tecnica consolidata.

 

Da ultimo occorre accennare che l’entrata in vigore, il 23 ottobre 2005, del DM 14 settembre 2005, ha determinato la piena operatività della nuova classificazione sismica, comportando la necessità dell’applicazione dell’art. 104 del T.U. in materia edilizia, n. 380 del 2001,relativo alle “Costruzioni in corso in zone sismiche di nuova classificazione”. In base a tale articolo, coloro che in una zona sismica di nuova classificazione abbiano iniziato una costruzione prima dell’entrata in vigore del provvedimento di classificazione, sono tenuti a farne denuncia, entro quindici giorni dall’entrata in vigore del provvedimento stesso, al competente ufficio tecnico della regione.

 


Lavori pubblici


La legge obiettivo – Il Programma infrastrutture strategiche

Il finanziamento del Programma infrastrutture strategiche (PIS)

Le previsioni della legge obiettivo

L’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001 (cd. legge obiettivo) prevede che all’interno del DPEF sia inserito annualmente il programma delle opere strategiche con indicazione degli stanziamenti necessari per la loro realizzazione e che, successivamente, il Governo indichi nel disegno di legge finanziaria “le risorse necessarie, che si aggiungono ai finanziamenti pubblici, comunitari e privati allo scopo disponibili”.

 

I finanziamenti recati annualmente con legge finanziaria non rappresentano, dunque, la copertura dell’intero fabbisogno per la realizzazione del programma, né con essi si esaurisce il quadro delle risorse impiegabili, poiché nel programma possono essere inserite opere che si trovano a differenti stadi (sia di progettazione sia di finanziamento). Come specificato dalla disposizione citata, i finanziamenti recati in finanziaria sono (o possono essere) integrativi rispetto a risorse già precedentemente stanziate, o a finanziamenti comunitari o a finanziamenti privati.

 

Il successivo comma 1-bis elenca le seguenti indicazioni che devono essere contenute nel programma da inserire nel Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF):

a)        elenco delle infrastrutture e degli insediamenti strategici da realizzare;

b)        costi stimati per ciascuno degli interventi;

c)        risorse disponibili e relative fonti di finanziamento;

d)        stato di realizzazione degli interventi previsti nei programmi precedentemente approvati;

e)        quadro delle risorse finanziarie già destinate e degli ulteriori finanziamenti necessari per il completamento degli interventi.

In sede di prima applicazione, la legge ha stabilito che le cd. opere strategiche non fossero inserite nel DPEF[457], ma in una delibera CIPE. A ciò ha provveduto la Delibera CIPE n. 121 del 21 dicembre 2001. Per gli anni successivi, l’elenco delle opere è stato integrato ed aggiornato per mezzo di un apposito allegato al DPEF.

Le risorse per l’attuazione del PIS

Come si è detto poc’anzi, non esiste un’unica fonte di finanziamento delle opere inserite nel programma. Le risorse possono arrivare da poste di bilancio già esistenti, Unione europea, regioni e enti locali, soggetti privati, stanziamenti “aggiuntivi” (cioè, espressamente destinati al finanziamento del programma).

Ciò implica che una stima di tutte le risorse disponibili non è facilmente ricostruibile in mancanza di indicazioni ufficiali da parte del Governo.

E’ invece possibile dar conto con una certa precisione degli stanziamenti aggiuntivi attribuiti da fonti normative alla esplicita finalità di finanziare il programma.

I finanziamenti aggiuntivi erogati

Quasi contemporaneamente all’approvazione della legge obiettivo, la legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002) ha recato un accantonamento relativo al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nel Fondo speciale di conto capitale (Tabella B), successivamente impegnato dall’art. 13, comma 1, della legge n. 166 del 2002 (cd. collegato infrastrutturale alla manovra finanziaria), che ha autorizzato per la progettazione e realizzazione del programma tre limiti di impegno decorrenti dal 2002, 2003 e 2004, per un importo complessivo (in termini di volume attivabile) di oltre 5 miliardi di euro.

Tali risorse sono state successivamente integrate, a decorrere dal biennio 2005-2006, dalla tabella 1 della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria per il 2004) per un importo (in termini di volume attivabile) di circa 4,8 miliardi di euro.

Un ulteriore canale di alimentazione di risorse è stato il Fondo aree sottoutilizzate (FAS) dal quale sono state tratte risorse per un ammontare complessivo di oltre 1 miliardo di euro[458], sulla base del disposto dell’art. 4, comma 130, lettera a), della citata legge finanziaria 2004, e ulteriori 750 milioni di euro nel triennio 2005-2007, attraverso l’art. 5 del cd. decreto legge competitività (D.L. n. 35 del 2005).

Con l’ultima finanziaria (legge n. 266/2005) è stato infine autorizzato un ulteriore contributo decorrente dal 2007 per un importo complessivo (sempre in termini di volume attivabile) di oltre 2 miliardi di euro.

L’ammontare totale delle risorse stanziate, illustrato in modo dettagliato nella tabella seguente, risulta pari - al netto dei definanziamenti apportati con il bilancio e la legge finanziaria - a circa 13,5 miliardi di euro[459].

A tale somma vanno poi detratte le riduzioni derivanti da finalizzazioni estranee a quelle della legge obiettivo, introdotte da norme successive alla legge n. 166 del 2002, che ammontano ad un totale di 809,9 milioni di euro[460].

 

Fonti

[461]

2002

2003

2004

2005

2006

2007

Totale

Legge n. 166/2002

art. 13, co. 1

LI

193,9

160,4

109,4

 

 

 

463,7

VA

2.133,4

1.764,8

1.203,7

 

 

 

5.101,9

Legge n. 290/2002

(bilancio 2003)

LI

 

-25,0

 

 

 

 

-25,0

VA

 

-275,1

 

 

 

 

-275,1

Legge n. 289/2002

(fin. 2003) Tab. E

LI

 

 

-18,0

 

 

 

-18,0

VA

 

 

-198,0

 

 

 

-198,0

Legge n. 350/2003

(fin. 2004) Tab. 1

LI

 

 

 

195,5

245,0

 

440,5

VA

 

 

 

2.136,2

2.677,0

 

4.813,2

Legge n. 350/2003

art. 4, co. 130, lett. a)

utilizzo FAS

LI

 

 

 

 

 

 

-

VA

 

4,0

55,0

328,0

419,0

351,0

1.157,0

D.L. 35/05 art. 5, co.1

risorse L. 488/92

LI

 

 

 

 

 

 

-

VA

 

 

 

225,0

355,0

170,0

750,0

Legge n. 266/2005

(fin. 2006) art.1, co.78

LI

 

 

 

 

 

200,0

200,0

VA

 

 

 

 

 

2.200,0

2.200,0

TOTALE

LI

193,9

135,4

91,4

195,5

245,0

200,0

1.061,2

VA

2.133,4

1.493,7

1.060,7

2.689,2

3.451,0

2.721,0

13.549,0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Disponibilità esistenti su altre leggi[462]

VA

 

 

 

 

 

 

11.866,4

Finalizzazioni estranee al PIS

LI

 

-33,7

-2,8

-31,3

-5,8

-

-73,6

VA

 

-370,6

-31,3

-344,8

-63,2

-

-809,9

TOTALE GENERALE

VA

 

 

 

 

 

 

24.605,5

(milioni di euro)

Il meccanismo di assegnazione delle risorse

L’art. 13, comma 1, della legge n. 166/2002 ha demandato ad apposito decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, l’individuazione dei soggetti autorizzati a contrarre mutui o ad effettuare altre operazioni finanziarie e delle quote a ciascuno assegnate, delle modalità di erogazione delle somme dovute dagli istituti finanziatori ai mutuatari e delle quote da utilizzare per le attività di progettazione, istruttoria e monitoraggio. Infatti lo stanziamento recato in finanziaria è genericamente indirizzato all’intero programma.

L’art. 3 del decreto interministeriale n. 5279 del 20 marzo 2003, attuativo della disposizione citata, ha previsto che l’assegnazione delle quote di finanziamento a valere sui limiti di impegno autorizzati dall’art. 13 della legge n. 166, sono “individuate, di volta in volta, dal CIPE, in sede di valutazione dei singoli interventi, tenuto conto delle disponibilità esistenti”.

Sulla base di tale norma vengono pertanto emanate delibere CIPE che dispongono l’assegnazione di quote delle risorse disponibili stanziate a singoli interventi o sottointerventi, ecc.

Occorre ricordare che la stessa legge obiettivo (legge n. 443 del 2001) e il decreto legislativo attuativo della delega (decreto legislativo n. 190 del 2002) assegnano al CIPE anche altre funzioni (approvazione dei progetti), per cui alcune delle (numerose) delibere finora emanate in attuazione della legge n. 443 non hanno contenuto finanziario, ma approvano progetti, o deliberano in merito a modalità attuative di opere (ad esempio, dividendo gli interventi in tranches, ecc.). Infatti, alcune delle delibere hanno ad oggetto anche opere già interamente finanziate (che non devono quindi ricevere assegnazioni aggiuntive).

Lo stato di attuazione del Programma

Nel 2° rapporto per la VIII Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici redatto dal Servizio studi dal titolo Le infrastrutture strategiche in italia: l’attuazione della “legge obiettivo” del luglio 2005 si indica in 235 il numero delle opere incluse nel PIS, (contro le 117 indicate nel 1° Programma delle infrastrutture recato dalla delibera CIPE n. 121/2001) a cui corrisponde una valutazione dei costi (o del valore complessivo) delle opere stesse pari a 264 miliardi di euro.

I risultati emersi dal citato monitoraggio hanno evidenziato che la gran parte delle opere si trova nella fase di progettazione; tuttavia l’analisi delle tendenze evolutive ha evidenziato come nel corso dell’ultimo anno si sia assistito a due fenomeni:

§         da un lato il significativo avanzamento di opere dalla fase di progettazione a quella di affidamento dei lavori;

§         dall’altro l’avvio della progettazione per un numero consistente di nuove opere approdate alla progettazione preliminare.

 

Si ricorda, inoltre, che un’approfondita valutazione sull’attuazione del PIS è stata fornita dal Governo con la presentazione del documento allegato al DPEF 2006-2009 e relativo all’aggiornamento del Programma (in attuazione del disposto della legge obiettivo)[463].

Le opere deliberate dal CIPE

Delle opere incluse nel PIS, oltre 100 opere risultano attualmente oggetto di una specifica delibera CIPE per un investimento valutato per la loro realizzazione di circa 90 miliardi di euro.

 

Interventi

Delibera CIPE

   N.               Data

Note

Costo

Passante di Mestre

92
80(a)

31 ottobre 2002
7 novembre 2003


(1, 3)

750,00

Asse viario Marche-Umbria

93
13
(b)

(b)

31 ottobre 2002
27 maggio 2004
2 dicembre 2005
29 marzo 2006

(4)
(1,3)
(2)
(3)

2.157,00

Autostrada SA-RC (V maxilotto)

96
14

31 ottobre 2002
27 maggio 2004


(3)

1.193,70

Autostrada SA-RC (VI maxilotto)

96
95

31 ottobre 2002
20 dicembre 2004


(3)

674,94

Autostrada SA-RC: km 47,8-km 53,8

96
(b)

31 ottobre 2002
2 dicembre 2005


(3)

300,00

Autostrada SA-RC: km 222-km 225,8

96
(b)

31 ottobre 2002
2 dicembre 2005


(3)

150,00

Autostrada SA-RC (II maxilotto)

96
(b)

31 ottobre 2002
22-29 marzo 2006


(3)

1.038,99

Autostrada SA-RC: altri lotti

96

31 ottobre 2002

(3)

2.469,07

Roma autostrada GRA

107

29 novembre 2002

(3)

613,07

Progetto per la salvaguardia della città di Venezia: Sistema MO.SE.

109
72
40
75

29 novembre 2002
29 settembre 2003
29 settembre 2004
20 dicembre 2004




(3)

3.840,96

Strada "Fondovalle Isclero"

110

29 novembre 2002

(3)

61,79

Metro Napoli: Linea 1 (Aversa C.ro-Piscinola)

111

29 novembre 2002

(3)

232,40

Sottosuolo di Napoli: Collina Camaldoli

112

29 novembre 2002

(3)

6,50

Risanam. sottosuolo Napoli: Vallone S.Rocco

113

29 novembre 2002

(3)

31,00

Acquedotto Gela Aragona

136

19 dicembre 2002

(3)

89,21

Acquedotto Favara di Burgio

137

19 dicembre 2002

(3)

65,90

Adduttore del Sinni

138

19 dicembre 2002

(3)

20,00

Acquedotto Frida, Sinni e Pertusillo

139

19 dicembre 2002

(3)

16,00

Schemi idrici: Ofanto-Rendina in Agro Lavello

140

19 dicembre 2002

(3)

20,00

Metro Napoli:Completamento Linea 1

141

27 dicembre 2002

(3)

689,00

SS 156 Monti Lepini  Latina e Frosinone

144

27 dicembre 2002

(3)

291,28

Programma Grandi Stazioni

10
(b)

14 marzo 2003
22-29 marzo 2006


(2, 3)

578,21

Metropolitana Fiera di Milano

22

27 giugno 2003

(3)

116,00

Accessibilità stradale Fiera di Milano

22

27 giugno 2003

(3)

387,14

Autostrada Catania-Siracusa

55

25 luglio 2003

(3)

804,00

SS "tre Valli" (Eggi - S.Sabino)

56

25 luglio 2003

(3)

14,56

Interporto di Civitavecchia

57

25 luglio 2003

(3)

11,80

Schemi idrici: Flumendosa Picocca

58

25 luglio 2003

(3)

60,50

Collegamento Flumineddu-Tirso

59(c)

25 luglio 2003

(3)

39,19

Interconness. Tirso-Flumendosa-Campidano

60

25 luglio 2003

(3)

71,50

Acquedotto Molisano destro

61
(b)

25 luglio 2003
2 dicembre 2005

(1,3)
(2)

25,82

Acquedotto Molisano-Centrale

62
(b)
(b)

25 luglio 2003
20 dicembre 2004
22-29 marzo 2006


(1,3)
(2)

92,96

Metropolitana di Roma "Linea C"

65
105
39(d)
(b)

1 agosto 2003
20 dicembre 2004
27 maggio 2005
22-29 marzo 2006



(1,3)
(2)

3.047,42

Ponte sullo Stretto

66

1 agosto 2003

(1)

4.684,30

Metropolitana di Bologna

67(e)
89

1 agosto 2003
29 luglio 2005


(1,3)

587,70

Autostrada Palermo-Messina

68
108

01 agosto 2003
20 dicembre 2004


(3)

135,60

Piastra portuale di Taranto

74

29 settembre 2003

(1,3)

156,15

Interporto di Catania

75
(b)

29 settembre 2003
22-29 marzo 2006

(3)
(2, 3)

59,94

Linea AV/AC Genova-Milano

78
118
(b)

29 settembre 2003
3 agosto 2005
22-29 marzo 2006



(1)

4.867,00

Potenziamento ferrov. Genova Voltri-Brignole

79
(b)

29 settembre 2003
22-29 marzo 2006

(1)
(2)

622,40

Hub interportuale di Gioia Tauro

89

13 novembre 2003

(1,3)

76,16

Interporto di Battipaglia: 1° stralcio funzionale

112
67

05 dicembre 2003
27 maggio 2005

(1)
(2)

18,20

Collegamento ferroviario Torino - Lione

113

5 dicembre 2003

(1)

2.278,00

Linea AV/AC Milano-Verona

120

5 dicembre 2003

(1)

4.720,00

Collegamento stradale Civitavecchia-Orte-Terni-Rieti: tratta da Terni al confine regionale

131

19 dicembre 2003

(2)

234,74

Linea ferroviaria Passo Corese - Rieti

124
(b)

19 dicembre 2003
22-29 marzo 2006

(1)
(2, 3)

792,20

Raccordo autostradale A4 - Val Trompia

12

27 maggio 2004

(2)

769,32

Piastre logistiche dell'Umbria

15

27 maggio 2004

(1,3)

58,60

Nodo di Catania: Interramento stazione c.le

45

29 settembre 2004

(1,3)

507,00

Ferrovia Bari-Taranto: raddoppio Bari S. Andrea-Bitetto

46
(b)

29 settembre 2004
22-29 marzo 2006

(1,3)
(2)

200,00

Linea ferroviaria Saronno-Seregno

41
(b)

29 settembre 2004
22-29 marzo 2006

(1,3)
(2)

74,58

Metro M5  Milano:Garibaldi-Bignami

56

29 settembre 2004

(1,3)

495,16

Metro M1 Milano, prolung. a Monza Betolla

56

29 settembre 2004

(1,3)

174,90

SS 131 Carlo Felice (km 23+885-km 32+412)

43

29 settembre 2004

(3)

31,10

SS 131 Carlo Felice (km 32+412-km 41+000)

43

29 settembre 2004

(3)

61,10

SS 131 Carlo Felice (km41-km47,4 Sanluri)

43

29 settembre 2004

(3)

41,14

Colleg. A12-Appia(Formia)-tratto Roma-Formia

50

29 settembre 2004

 

1.545,00

Cisterna Valmontone-Bretella autostradale

50

29 settembre 2004

 

640,00

Acquedotti del Noce e del Sinni

52

29 settembre 2004

(2, 3)

26,00

Acquedotto dell'Agri-primo lotto funzionale

53

29 settembre 2004

(2, 3)

17,28

Acquedotto del Ruzzo (Gran Sasso)

47

29 settembre 2004

(2, 3)

36,81

Schemi idrici: diga sul Menta-1° lotto

49

29 settembre 2004

(5, 3)

23,24

Completam. Rii Monti Nieddu, Is Canargius

48

29 settembre 2004

(5, 3)

52,33

Ferrovia Monaco-Verona: galleria Brennero

89

20 dicembre 2004

 (1, 3)

2.550,00

Ferrovia Arcisate-Stabio: tratta Arcisate-Conf.Stato

82

20 dicembre 2004

(1)

203,71

Metro Napoli: linea 6 (Mostra - Municipio)

111
(b)

20 dicembre 2004
22-29 marzo 2006

(1)
(2)

567,00

Trasporto rapido Rimini fiera-Cattolica: tratta Rimini FS-Riccione FS

86
70
(b)

20 dicembre 2004
27 maggio 2005
22-29 marzo 2006

(1)
(3)
(2)

92,96

Trasporto rapido città di Parma: linee A e C

107
64
(b)

20 dicembre 2004
27 maggio 2005
22-29 marzo 2006

(1)
(3)
(2)

306,84

Conca di accesso al porto di Cremona

100

20 dicembre 2004

(1)

61,25

Hub portuale di Civitavecchia

103
(b)

20 dicembre 2004
22-29 marzo 2006

(1)
(2, 3)

473,85

Hub portuale di Trieste

99
(b)
(b)

20 dicembre 2004
2 dicembre 2005
22-29 marzo 2006


(1)
(3)

272,00

Adduttore idraulico S. Giuliano-Ginosa

113

20 dicembre 2004

 (2, 3)

31,88

Acquedotto Montescuro Ovest

114
(b)

20 dicembre 2004
22-29 marzo 2006

 (1, 3)
(2)

82,12

Raccordo autostradale A15 Cisa-A22 Brennero

94
(b)

20 dicembre 2004
22-29 marzo 2006

(1)
(2)

1.550,00

SS 16-613 variante est. di Lecce: 2° stralcio

98

20 dicembre 2004

(2)

36,21

Ammodernam. SS 275 Maglie-S.M. di Leuca

92

20 dicembre 2004

(1)

165,53

Adeguamento SS 28 "Colle di Nava"

93

20 dicembre 2004

 (1, 3)

200,67

SS 28 variante di Imperia-Aurelia bis

93

20 dicembre 2004

 (1, 3)

213,85

SS 106 Jonica: megalotto 2, Squillace - Simeri

106

20 dicembre 2004

(3)

740,00

SS 106 Jonica: megalotto 5bis, variante Palizzi

106

20 dicembre 2004

(3)

134,00

Conturizzazione Basilicata

110

20 dicembre 2004

 (2, 3)

59,52

Potabilizzazione di Conza e dell'Ofanto

96

20 dicembre 2004

 (1, 3)

49,04

Interporto di Nola

17

18 marzo 2005

(1)

30,99

Raccordo autostradale Ospitaletto-Montichiari

24

18 marzo 2005

(2)

295,82

Ferrovia Novara-Seregno: variante di Galliate

21

18 marzo 2005

(1)

87,42

Autostrada A4 da Quarto D'Altino a Villesse

13

18 marzo 2005

(1)

746,85

Bretella autostrad. Campogalliano-Sassuolo

20

18 marzo 2005

(1)

284,77

SS2 Cassia a due corsie

11

18 marzo 2005

(1, 3)

295,02

Raccordo Villesse Gorizia

61

27 maggio 2005

(1)

100,99

Completamento Messina Catania: ferrovia Giampilieri-Fiumefreddo

62

27 maggio 2005

(1)

1.970,00

Fiera di Milano: nodo di interscambio AC/SFR/MM trasporto pubbl.privato su gomma

63

27 maggio 2005

(1)

35,60

Collegamento ferroviario con l'aeroporto Marco Polo di Venezia

69

27 maggio 2005

(1)

223,92

Ferrovia Rho-Arona: tratta Rho-Gallarate

65

27 maggio 2005

(1)

302,45

Allaccio alla A12 della rete viaria dell'interporto di Fiumicino

(b)
(b)

27 maggio 2005
22-29 marzo 2006

(3)
(2)

18,00

Ferrovia Orte Falconara: tratta Spoleto-Terni

68

27 maggio 2005

(1)

532,34

Metro Napoli: linea 1 Capodichino-centro dir.

90

29 luglio 2005

(1)

365,12

Linea ferroviaria Finale Ligure-Andora

91

29 luglio 2005

(1)

1.540,00

Autostrade Brescia-Bergamo-Milano

93
(b)

29 luglio 2005
2 dicembre 2005


(1)

1.580,00

Pedemontana Lombarda

(b

(b)

29 luglio 2005
22-29 marzo 2006


(1)

4.665,50

Tangenziale est di Milano

95

29 luglio 2005

(1)

1.742,00

Nodo ferroviario di Falconara

96

29 luglio 2005

(1)

210,00

Nodo di Perugia

(b)

3 agosto 2005

(1)

732,43

Linea ferroviaria Torino-Bussoleno

119

3 agosto 2005

(1)

2.375,00

SS "tre Valli" (Eggi - Acquasparta)

(b)

2 dicembre 2005

(1)

630,00

Linea ferroviaria Catania Siracusa 

147

2 dicembre 2005

(1)

76,00

Riqualificazione SS 415 "Paullese", tratta Peschiera Borromeo-Spina d'Adda

(b)

2 dicembre 2005

(1)

162,80

Linea ferroviaria Seregno-Bergamo, gronda est di Milano

(b)

2 dicembre 2005

(1)

1.000,00

Potenziamento dell'accessibilità alla Valtellina, "variante di Morbegno"

(b)

2 dicembre 2005
22-29 marzo 2006

(1)
(3)

280,00

Irrigazione del Basso Molise con le acque dei fiumi Biferno e Fortore, primo intervento

(b)

2 dicembre 2005
29 marzo 2006

(1)
(3)

77,50

Diga sul torrente Menta

(b)

2 dicembre 2005

(1)

100,00

Adeguamento SS 640 di Porto Empedocle tra il km 9+800 e il km 44+400

(b)

2 dicembre 2005

(2, 3)

595,00

Raddoppio linea ferroviaria Milano-Mortara

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

nd

SS di "Chiaramonte" e "Ragusana" (Ragusa-Catania)

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

788,00

Nodo ferrostradale di Casalecchio di Reno

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

147,00

Interporto di Battipaglia: lotto di completam.

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

75,00

Variante di Cannitello alla linea ferrov. SA-RC

(b)

22-29 marzo 2006

(2, 3)

19,00

Porto di Genova Voltri: allacci stradali

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

19,90

Tratta ferroviaria Foligno-Fabriano

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

1.918,00

Collegamento Lecco-Bergamo: varianti di Cisano e Calusco

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

83,80

Centro merci di Novara: completamento terminale ovest

(b)

22-29 marzo 2006

(2, 3)

nd

Centro merci di Novara: nuovo ponte sul T.Terdoppio

(b)

22-29 marzo 2006

(2)

3,40

Tangenziale di Lucca

(b)

22 marzo 2006

(1)

498,00

SS 106 Jonica - Variante Nova Siri

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

53,00

Linea AV/AC Verona-Padova

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

3.321,00

Pedemontana Veneta

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

1.990,00

SS 4/quater Domitiana

(b)

22-29 marzo 2006

(1, 3)

1.049,00

Variante alla SS Appia in Comune di Formia

(b)

22-29 marzo 2006

(1, 3)

439,16

SS "Telesina" (Benevento-Caserta)

(b)

22-29 marzo 2006

(1, 3)

708,00

Schema idrico Basento-Bradano: Acerezza

(b)

22-29 marzo 2006

(1)

40,00

Schema idrico Basento-Bradano: settore G

(b)

22-29 marzo 2006

(2, 3)

85,00

Metropolitana di Brescia

(b)

22-29 marzo 2006

(3)

607,00

Ferrovia metropolitana di Catania: tratta Stesicoro - Aeroporto

(b)

22-29 marzo 2006

(2, 3)

425,00

Galleria Pavoncelli

(b)

29 marzo 2006

(3)

nd

Metropolitana di Milano: linea M4, Lorenteggio-Linate

(b)

29 marzo 2006

(1)

788,00

SS 415 "Paullese": ponte sull'Adda

(b)

29 marzo 2006

(1)

4.730,00

SS 341 "Gallaratese": tra Samarate e il confine con la provincia di Novara

(b)

29 marzo 2006

(1)

nd

Accessibilità viaria a Malpensa

(b)

29 marzo 2006

(1)

nd

Genova, collegamento con il casello autostradale di Lavagna e con via Parma

(b)

29 marzo 2006

(1)

nd

TOTALE

 

 

 

90.579,04

Fonte: ANCE

 

Annotazioni:

(a) Delibera modificata dalla delibera n. 6 del 3 febbraio 2004.

(b) La delibera non è disponibile.

(c) Delibera modificata il 20 dicembre 2004.

(d) variazione del soggetto aggiudicatore: "Roma metropolitane srl" anziché Comune di Roma.

(e) Delibera annullata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 233/2004).

 

Note - Legenda:

(1) approvazione  progetto preliminare

(2) approvazione progetto definitivo

(3) assegnazione risorse

(4) informativa, presa d'atto, invito

(5) approvazione progetto esecutivo

 

 

La legge obiettivo - La disciplina del contraente generale

La figura del contraente generale è stata introdotta, nell’ordinamento nazionale, dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443, cd. legge obiettivo, che, al fine di snellire e ad accelerare i tempi di realizzazione delle opere pubbliche strategiche, ha delegato il Governo a definirne la relativa disciplina.

Successivamente, il relativo decreto delegato 20 agosto 2002, n. 190 (come modificato dal d.lgs. n. 189/2002) ha delineato il profilo e le modalità operative del general contractor,attraverso il disposto di cui all'art. 6 (modalità di realizzazione delle infrastrutture con affidamento al contraente generale), all'art. 9 (affidamento a contraente generale) e all'art. 10 (procedura di aggiudicazione al contraente generale), a cui si sono aggiunti gli articoli del Capo II-bis, relativo alla qualificazione dei contraenti generali (dall’art. 20-bis al 20-undecies) introdotti dal d.lgs. n. 9/2005 istituivo di un sistema di qualificazione dei contraenti generali delle opere strategiche, distinto dal sistema di qualificazione delle imprese meramente esecutrici di lavori pubblici.

 

Si ricorda brevemente che fino all’istituzione del contraente generale la legge quadro sui lavori pubblici n. 109 del 1994 prevedeva due modalità di realizzazione di opere pubbliche: l’appalto e la concessione di costruzione e gestione. In merito all’appalto, la normativa previgente era ispirata dal presupposto generale che, nella maggior parte dei lavori, è opportuno tenere distinta la fase della progettazione da quella della realizzazione dell'opera.

Il legislatore ha quindi provveduto ad introdurre, sulla falsariga del modello già operativo in altri Paesi e in linea con il dettato comunitario[464], la figura del general contractor, inteso quale realizzatore globale dell'opera, ossia di un soggetto organizzato in modo tale da garantire alla pubblica amministrazione committente la realizzazione del lavoro "chiavi in mano" occupandosi anche direttamente della progettazione e della gestione della fase realizzativa dell'opera.

La disciplina del contraente generale è stata poi trasposta (insieme alle altre disposizioni del decreto legislativo n. 190/2002), senza modifiche rilevanti, nella Parte II, Titolo III, Capo IV, comprendente gli articoli 161-194, del cd. codice appalti, recato dal decreto legislativo n. 163 del 2006[465].

 

Con tale decreto, nell’esercizio della delega conferita dall’art. 25 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004) per il recepimento delle nuove direttive quadro in materia di appalti (2004/17/CE e 2004/18/CE), il Governo, nel riscrivere l’intera legge Merloni (v. capitolo La riforma della legge Merloni) ha provveduto ad includervi, ai fini di un coordinamento delle norme esistenti per la creazione di un codice unico degli appalti, anche le norme dettate per le opere strategiche dal d.lgs. n. 190/2002 e successive modifiche e integrazioni.

Le caratteristiche del contraente generale individuate dalla legge obiettivo

Gli aspetti fondamentali del nuovo soggetto giuridico sono stati definiti dalla Iegge n. 443 del 2001, nella cui ottica il general contractor è il soggetto che assume su di sé le funzioni di progettista, costruttore ed in parte di finanziatore dell'opera da realizzare e ne assume, di conseguenza, integralmente la responsabilità economica.

Il contraente generale si fa in particolare carico del rischio economico dell'opera, impegnandosi a fornire "un pacchetto finito" a prezzi, termini di consegna e qualità predeterminati contrattualmente; in sostanza, la figura giuridica del general contractor è stata concepita quale dominus dell'intera opera ‑ e delle singole fasi del suo concreto venire in essere -, tenuto, in quanto tale, a garantire alla pubblica amministrazione committente, l'obbligazione di risultato da esso assunta, quale aggiudicatario dell'appalto di lavori da realizzare.

La legge obiettivo, nel dettare i criteri per l’esercizio della delega, evidenzia la necessità di un adeguato sistema di qualificazione; per ottenere la qualifica di general contractor l’impresa dovrà comprovare di essere in possesso di una adeguata struttura progettuale e tecnico-organizzativa, tale da fornire alla pubblica amministrazione committente la garanzia della sua capacità, quale soggetto aggiudicatario, a realizzare completamente l'opera, nel rispetto dei tempi, dei costi e delle esigenze di qualità concordati[466].

Il general contractor è quindi un realizzatore dell'opera che ha il compito di rispondere a due importanti esigenze del mercato degli appalti di lavori pubblici:

§            realizzare gli interventi con processi e tecnologie innovative, favorendo il continuo trasferimento nel settore pubblico di competenze e strumenti operativi elaborati nel settore privato;

§            affidare l'opera ad un'unica unità organizzativa dotata di competenze multidisciplinari, progettuali ed esecutive, necessarie alla corretta realizzazione delle opere richieste.

 

Inoltre, per essere validamente operativo, è previsto che esso dovrà essere in grado di garantire la pubblica amministrazione committente, circa i tempi, i costi e la qualità del suo operare, quale contropartita di una possibile scelta "a rischio" della committenza a lui affidata in modo globale.

La disciplina recata dal decreto legislativo n. 190 del 2002 e successive modifiche, come trasposta nel cd. codice appalti

Definizione

L’art. 6 del d.lgs. n. 190 (ora trasposto nell’art. 173 del codice appalti) prevede, per la realizzazione delle infrastrutture strategiche, accanto alla concessione di costruzione e gestione, l’affidamento unitario a contraente generale[467].

La definizione – ora contenuta nell’art. 162, comma 1, lettera g), del codice appalti - individua tale affidamento come il contratto “con il quale viene affidata la progettazione e realizzazione con qualsiasi mezzo di una infrastruttura rispondente alle esigenze specificate dal soggetto aggiudicatore”.

In virtù di tale contratto, il contraente generale risponde nei confronti del soggetto aggiudicatore della corretta e tempestiva esecuzione dell'opera.

Obblighi principali

Gli obblighi principali che incombono sul contraente generale sono quelli previsti dall’art. 176, comma 2, del codice appalti:

a)      sviluppo del progetto definitivo e delle attività tecnico-amministrative occorrenti al soggetto aggiudicatore per pervenire all'approvazione dello stesso da parte del CIPE, ove detto progetto non sia stato posto a base di gara;

b)      acquisizione delle aree di sedime;

c)      progettazione esecutiva;

d)      esecuzione con qualsiasi mezzo dei lavori e loro direzione;

e)      prefinanziamento, in tutto o in parte, dell'opera da realizzare;

f)        individuazione (ove richiesto) delle modalità gestionali dell'opera e di selezione dei soggetti gestori;

g)      indicazione (al soggetto aggiudicatore) del piano degli affidamenti, delle espropriazioni, delle forniture di materiale e di tutti gli altri elementi utili a prevenire le infiltrazioni della criminalità, secondo le forme stabilite di concerto con gli organi competenti in materia.

 

Per quanto riguarda la progettazione, la redazione del progetto definitivo è quindi un’attività meramente eventuale per il general contractor. Quest’ultimo vi è infatti tenuto solo nel caso in cui la gara si sia svolta sulla base del progetto stesso. Viceversa, uno dei compiti che obbligatoriamente sono di competenza del general contractor è costituito dalla redazione del progetto esecutivo.

La redazione degli elaborati progettuali è un’attività che il general contractor può svolgere direttamente, ma può anche affidare all’esterno, né tale affidamento sembra sottoposto ad alcun vincolo procedurale. Va in questo senso la previsione contenuta nell’art. 1, comma 2, lettera h), della legge n. 443 del 2001, secondo cui il contraente generale può liberamente affidare a terzi l’esecuzione delle proprie prestazioni. Libertà quindi non solo per quanto riguarda l’esecuzione dei lavori, ma più genericamente, nell’affidamento di tutte le prestazioni che esso deve svolgere, comprese quindi quelle relative alla progettazione.

Modalità di esecuzione dell’opera

Nei successivi commi 6 e 7 dell’art. 176, sono previste tre diverse modalità esecutive dell'opera, a seconda che il contraente generale sia un soggetto singolo, ovvero sia un'entità composta da più soggetti.

Nel primo caso il contraente generale può eseguire i lavori affidatigli:

§      direttamente, nei limiti della qualificazione posseduta a norma del D.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34[468];

§      mediante affidamento a soggetti terzi, i quali a loro volta dovranno possedere i requisiti di qualificazione prescritti dal D.P.R. n. 34 del 2000[469].

Qualora il contraente generale sia costituito da più soggetti questi potrà provvedere all'esecuzione unitaria dei lavori:

§         a mezzo di una società di progetto, dotata di determinati requisiti[470], che subentrerà al contraente generale, nel rapporto d'appalto, senza alcuna autorizzazione (salvo le verifiche antimafia) e senza che il subentro costituisca cessione di contratto.

Prefinanziamento dell’opera

Tra i compiti del general contractor assume un ruolo centrale il prefinanziamento dell’opera. Esso può essere totale o parziale, secondo quanto previsto dalla lettera e) del comma 2 dell’art. 176. In concreto la misura della quota di valore dell’opera che il contraente generale è tenuto a prefinanziare anticipando risorse proprie deve essere di volta in volta indicata nel bando (art. 176, comma 12). Qualora invece non disponga direttamente delle risorse necessarie, lo stesso comma 12 prevede che egli possa reperirle sul mercato attraverso l’emissione di obbligazioni, che peraltro, godono di una garanzia particolare[471]. Quindi l’anticipazione almeno di una quota dei mezzi finanziari occorrenti per realizzare l’opera costituisce un obbligo che necessariamente fa capo al general contractor, costituendo, infatti, una sua obbligazione tipica.

I commi 13-17 dell’art. 176 del codice appalti provvedono a codificare le recenti modifiche, introdotte in tema di prefinanziamento, dal d.lgs. n. 189/2005 e, ancora prima, dall’art. 4, comma 149, della legge n. 350/2003 (finanziaria 2004).

Secondo la dottrina[472], benché nell’intenzione del legislatore del 2002 il pre-finanziamento fosse inteso come un sistema per procurare attraverso il contraente generale risorse finanziarie private, operando unicamente come posticipo del pagamento di una parte del prezzo, “l’inesatta formulazione della norma del 2002 ha consentito ai grandi committenti di utilizzare il prefinanziamento come una forma di retainer a garanzia, con l’effetto di rendere incerto il pagamento del credito per lavori già svolti” finendo così “per ostacolare, anziché favorire, il finanziamento senza rivalsa o con rivalsa limitata[473] sul contraente generale e sui suoi soci”.

Per venire incontro alle esigenze delle imprese l’art. 4, comma 149, della legge n. 350/2003 aveva introdotto due limiti al prefinanziamento per i bandi pubblicati fino al 31 dicembre 2006, stabilendo nel 20% dell’importo dell’affidamento posto a base di gara il tetto del prefinanziamento e che il saldo della quota di corrispettivo ritenuta a tal fine dovesse essere pagato alla ultimazione dei lavori, disposizioni che, però, “hanno tolto flessibilità alle offerte, senza risolvere il problema della bancabilità del credito relativo al prefinanziamento”.

Ciò ha indotto il Governo a introdurre, con il d.lgs. n. 189/2005 una serie di correzioni al decreto n. 190/2002, che – secondo quanto riportato nella relazione illustrativa dello schema di decreto poi divenuto il d.lgs. n. 189/2005 - “sono intese a risolvere le problematiche insorte in sede di prefinanziamento delle opere da parte del contraente generale. È stato infatti riscontrato che il prefinanziamento conseguito attraverso ritenute sul compenso della parte di opera già realizzata viene ad assumere una impropria funzione, anche di garanzia supplementare per il Committente, che potrebbe avvalersi del corrispettivo non pagato per reintegrarsi di eventuali pretese nei confronti dei contraenti generali, anche per compensazione di altri crediti. Tale situazione comporta la difficoltà o l'impossibilità di rilevanti operazioni di finanziamento "project” (garantito, cioè, dalla sola opera in corso) gravando le imprese - ed in seconda analisi gli stessi committenti - di oneri impropri e gravi. Le modificazioni introdotte garantiscono, invece, ai finanziatori in base «project» (definiti "senza rivalsa”) il diritto di essere pagati a scadenza, indipendentemente dalle diverse possibili pretese dei soggetti aggiudicatori nei confronti dei contraenti generali”.

Garanzie

Il contraente generale è tenuto a prestare la garanzia globale di esecuzione (cd. performance bond), ora prevista dall'art. 129, comma 3, del codice appalti, con la possibilità per il garante, “in caso di fallimento o inadempienza del contraente generale, di far subentrare nel rapporto, altro soggetto idoneo in possesso dei requisiti di contraente generale, scelto direttamente dal garante stesso”.

Norme antimafia

Si ricorda che, in materia, gli artt. 176, comma 3, lett. e) e 180, comma 2, del codice appalti, prevedono rispettivamente che il soggetto aggiudicatore provveda alla stipulazione di appositi accordi con gli organi competenti in materia di sicurezza e di repressione della criminalità, finalizzati alla verifica preventiva del programma di esecuzione dei lavori e l’individuazione, con decreto ministeriale, delle procedure per il monitoraggio delle infrastrutture ed insediamenti industriali per la prevenzione e repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa.

 

Con decreto del Ministro dell’interno 14 marzo 2003 è stato quindi costituito il Comitato di coordinamento per l'Alta sorveglianza delle grandi opere[474].

 

L’art. 176, comma 8, del codice appalti, prevede, inoltre, che l’affidamento al contraente generale, nonché gli affidamenti e subaffidamenti di lavori del contraente generale, “sono soggetti alle verifiche antimafia, con le modalità previste per i lavori pubblici”.

Si segnala, in proposito, che un’interessante modifica è stata introdotta dall’art. 2 del d.lgs. n. 189/2005 (ed ora trasposta nel comma 20 dell’art. 176 del codice appalti) che ha previsto l’istituzione di una sorta di indennità antimafia prevedendo che all'appaltatore venga riconosciuto un forfait per mettere in atto misure di repressione e prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa.

 

In particolare viene previsto che il soggetto aggiudicatore indichi nel bando di gara, un’aliquota forfettaria, non sottoposta al ribasso d'asta e ragguagliata all'importo complessivo dell'intervento, secondo valutazioni preliminari che il contraente generale è tenuto a recepire nell'offerta formulata in sede di gara.

Procedure di aggiudicazione

In relazione alle procedure di aggiudicazione al contraente generale,l’art. 177 del codice appalti prevede, quale unica modalità possibile, la licitazione privata.

Rispetto al testo previgente (art. 10 del d.lgs. n. 190/2002) sono state soppresse le disposizioni che contemplavano, quale modalità alternativa, la procedura dell’appalto concorso.

In relazione all'importanza e alla complessità delle opere da realizzare, i soggetti aggiudicatori potranno stabilire ed indicare nel bando di gara il numero minimo e massimo di concorrenti che verranno invitati a presentare offerta, i soggetti aggiudicatori dovendo individuare i soggetti da invitare redigendo una graduatoria di merito, sulla base di criteri oggettivi predefiniti nel bando di gara, nel caso in cui le domande di partecipazione superino il predetto numero massimo; in ogni caso, il numero minimo di concorrenti da invitare non potrà essere inferiore a cinque.

Un’altra modifica introdotta dal codice appalti rispetto al d.lgs. n. 190/2002 risiede nel comma 3 dell’art. 177 che mantiene, per le infrastrutture strategiche, il numero minimo di concorrenti invitati a presentare l’offerta a cinque (mentre per i settori ordinari esso viene elevato a dieci) nell’esigenza di prevedere procedure più “elastiche e snelle” nello specifico settore delle infrastrutture strategiche; nel rispetto delle direttive comunitarie, viene tuttavia aggiunta la previsione secondo la quale il numero dei candidati deve comunque “essere sufficiente ad assicurare una effettiva concorrenza”.

L’aggiudicazione dei contratti avverrà poi in base al criterio del prezzo più basso ovvero dell'offerta economicamente più vantaggiosa, da individuarsi sulla base di una pluralità di criteri predeterminati (art. 177, comma 4).

La qualificazione per i contraenti generali

L’istituzione di un sistema di qualificazione nuovo e diverso da quello degli appaltatori (operata dal decreto legislativo n. 9/2005 che ha inserito il capo II-bis nel d.lgs. n. 190[475]) si é resa necessaria, da un lato dalla differente natura delle attività da compiere (il contraente generale infatti partecipa in modo essenziale alle attività collaterali alla esecuzione), e dall’altro dalle dimensioni (soprattutto economiche) delle opere da realizzare[476].

Le norme citate, ora contenute negli articoli 186-193 del codice appalti, prevedono l’istituzione di un sistema di qualificazione dei contraenti generali a cui possono accedere i seguenti soggetti:

§         imprese singole in forma di società commerciali o cooperative;

§         consorzi di cooperative di produzione e lavoro;

§         consorzi stabili.

 

L’articolo 187 definisce i requisiti per le iscrizioni nel sistema di qualificazione:

§         un sistema di qualità aziendale UNI EN ISO 9001/2000;

§         i requisiti di ordine generale di cui al successivo art. 188, cioè quelli previsti dal regolamento di cui all’art. 5, e quindi nelle more delle sua emanazione, dal DPR n. 34/2000;

§         i requisiti di ordine speciale di cui al successivo art. 189, ovvero adeguata capacità economica e finanziaria; adeguata idoneità tecnica ed organizzativa; adeguato organico tecnico e dirigenziale.

 

L’articolo 190 prevede poi le norme di qualificazione per i consorzi stabili e per i consorzi di cooperative di produzione e lavoro.

 

Si nota, in proposito, che la rilevanza di tali disposizioni deriva dal fatto che gli elevati requisiti di ordine speciale richiesti al general contractor indurranno le medie imprese ad aggregarsi, attraverso la costituzione di consorzi.

 

L’articolo 192 prevede, infine, varie norme di carattere procedurale, fra cui quella che dispone che le attestazioni di qualificazione siano rilasciate dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (e non – come accade per gli esecutori di lavori pubblici – da società private di attestazione).

 

La legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA

La valutazione di impatto ambientale (VIA) per le grandi opere rimane incardinata all’interno del decreto legislativo n. 190 del 2002 (art. 3, comma 3, e artt. da 17 a 20), come recentemente modificato dal decreto legislativo n. 189 del 2005. In esso, in conformità alle previsioni della legge delega n. 443 del 2001[477], è previsto uno snellimento delle procedure di autorizzazione che precedono la realizzazione di un'opera.

Si ricorda, infatti, che, fino all’approvazione della nuova procedura, la VIA comportava un significativo allungamento dei tempi delle decisioni. A fronte di tale situazione, il decreto legislativo n. 190, approvato con le modifiche richieste dal Ministero dell’ambiente, ha definito nuove regole per i procedimenti di VIA delle opere strategiche, ai fini di accelerare l’iter della loro realizzazione, garantendo, nel contempo, l’inserimento dei progetti nel contesto ambientale e territoriale, anche attraverso un consenso allargato delle decisioni che riguardano i seguenti aspetti:

§         la VIA viene istruita sul solo progetto preliminare;

§         viene istituita una Commissione speciale – ora sostituita con il decreto legislativo n. 152 del 2006 da un’unica Commissione tecnico-consultiva, articolata per settori operativi, di cui uno per la VIA speciale[478] – che provvede all’istruttoria tecnica del progetto;

§         la valutazione sulla compatibilità ambientale dell’opera viene emessa dai Ministeri dell’ambiente e dei beni culturali sulla base di un parere espresso dalla Commissione e trasmesso al Ministero delle infrastrutture. Nel caso di dissenso, l’adozione del provvedimento di compatibilità ambientale viene demandato al Consiglio dei Ministri;

§         l’approvazione del progetto preliminare e della VIA diviene di competenza del CIPE[479].

 

Pertanto, con le norme contenute nel decreto legislativo n. 190, rispetto all’ordinario iter autorizzatorio previsto dalla legge quadro n. 109 del 1994[480], il rilascio dei provvedimenti di VIA e diintesa Stato-Regioni sulla localizzazione dell’opera viene anticipato - come già dispone la lett. b) del comma 2 dell’art. 1 della legge delega n. 443 del 2001 - alla fase della progettazione preliminare, rispetto a quella della progettazione definitiva.

Viene altresì anticipata alla fase della progettazione preliminare l'individuazione di un esatto limite di spesa, comprensivo, eventualmente, delle misure compensative dell'impatto territoriale a favore delle comunità locali.

Il progetto preliminare dovrà, pertanto, essere integrato, nel caso l’opera si soggetta a VIA, oltre e rispetto a quanto previsto dal comma 3 dell'art. 16 della legge quadro n. 109 del 1994, con l’esatta individuazione dei connotati principali dell’opera, dei limiti di spesa, compresi quelli per le eventuali opere compensative dell'impatto territoriale e dallo studio di impatto ambientale (SIA).

 

La norma ha carattere particolarmente innovativo rispetto alla disciplina vigente, infatti l'art. 16, comma 3, della legge quadro relativo al contenuto del progetto preliminare e gli artt. 18 e segg. del regolamento di attuazione n. 554 del 1999, prevedono che il progetto preliminare debba essere corredato semplicemente da uno studio di prefattibilità ambientale (art. 21 del regolamento) e da un calcolo sommario della spesa (art. 23 del regolamento), mentre è il progetto definitivo - di cui al successivo comma 4 dell'art. 16 della legge quadro - a comprendere, ove previsto, lo studio di impatto ambientale (art. 29 del regolamento), insieme alla stima sommaria dei costi dell'intervento.

 

Al fine di accelerare il procedimento di approvazione del progetto preliminare, viene escluso– in tale fase - il ricorso alla conferenza di servizi[481], come altrimenti disposto dall'articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Per quanto riguarda poi la titolarità dell’approvazione del progetto preliminare, essa viene conferita al CIPE, con il consenso, ai fini dellaintesa sulla localizzazione delle opere, dei Presidenti delle Regioni e Province autonome interessate, che si pronunciano sentiti i comuni nel cui territorio verrà realizzata l’opera. La pronuncia dovrà intervenite nei termini previsti anche in mancanza del parere dei comuni interessati[482].

Tali norme hanno la finalità di ridurre la frammentazione decisoria nella fase iniziale dell'intervento, conferendo al CIPE i poteri autorizzatori precedentemente dispersi tra una pluralità di soggetti politici, amministrativi e tecnici.

Infatti l'approvazione del progetto preliminare determina - ove necessario ai sensi delle vigenti norme – l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-Regione sulla sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti.

Quanto all’accertamento di compatibilità ambientale, la sua anticipazione alla fase preliminare costituisce l’elemento maggiormente caratterizzante dell’intero intervento normativo in tema di VIA. In proposito, si segnala che in materia sono emerse due differenti tendenze:

§         la prima propone la VIA come processo che si intreccia con tutti i livelli della progettazione (e che – con la “VAS” – si estende anche alla fase della programmazione delle opere pubbliche e alla stessa pianificazione territoriale). La VIA è vista, in questo caso, come intervento dell’autorità ambientale, con proprie prescrizioni, in tutte le successive fasi di progettazione e di realizzazione dell’opera;

§         la seconda tendenza concepisce, invece, la procedura di VIA come semplice premessa per il momento dell'autorizzazione.

Tale secondo indirizzo viene recepito dal decreto legislativo n. 190 del 2002; tuttavia, con le modifiche apportate dal successivo decreto legislativo n. 189 del 2005, l’azione di verifica ambientale viene prevista anche nelle successive fasi di definizione tecnica del progetto e di realizzazione dell’opera, coerentemente con il primo dei due indirizzi citati.

 

Al riguardo si segnala anche una recente pronuncia - n. 5118 - della Sezione I del TAR del Lazio del 31 maggio 2004, ove si legge che “Gli artt. 3 e 18 del decreto legislativo n. 190 del 2002, nella parte in cui raccomandano la VIA al progetto preliminare delle opere da essi regolate, e non al progetto definitivo (come la normativa nazionale prevede per la generalità dei lavori), non contrastano con la direttiva comunitaria 85/337 del 27 giugno 1985, in quanto questa non opera distinzioni formali tra i livelli di progettazione ma pone una questione sostanziale di necessità di esame e valutazione dei fattori da essa presi in considerazione (siccome suscettibili di ripercuotersi sull’ambiente) prima che vengano iniziati i lavori, ed in definitiva rimette a ciascuno Stato membro la scelta della fase procedurale cui avere riguardo, con l’unico limite che ai fini della VIA siano effettivamente disponibili gli elementi conoscitivi prescritti”.

D’altro canto, può osservarsi che la collocazione della VIA nella fase preliminare della progettazione, se da un lato consente di garantire meglio il controllo sui tempi dell’iter procedurale, dall’altro tende – oggettivamente – a circoscrivere l’oggetto della valutazione alle sole opzioni di fondo operate dal progetto (localizzazione dell’intervento, impatto generale sulle risorse ambientali e territoriali), escludendone invece la specifica elaborazione tecnica e progettuale, propria della fase definitiva della progettazione. Inoltre, quanto alla previsione di misure di compensazione e mitigazione, la progettazione preliminare consente una individuazione ancora molto generale di tali misure, laddove è principalmente la progettazione definitiva che sembra poter consentire una valutazione concreta degli effetti (soprattutto cumulativi) che possono determinarsi dalla effettiva realizzazione del progetto.

Il sommarsi e l’interagire delle modifiche negli assetti territoriali e nell’uso delle risorse ambientali possono, infatti, produrre effetti di dimensioni rilevanti, che possono non essere visibili nella fase preliminare del progetto in cui non sono ancora state precisate tutte le scelte tecniche e dimensionali di una determinata opera che si intende realizzare.

Il raggiungimento, quindi, di un livello adeguato di compatibilità complessiva – territoriale – dell’opera è un risultato che può essere ottenuto solamente affiancando l’azione di verifica ambientale anche nelle successive fasi di definizione tecnica del progetto e di realizzazione dell’opera.

A tali fine il legislatoreha apportato alcune modifiche alla procedura di VIA con il decreto legislativo 17 agosto 2005, n. 189, in particolare precisando:

§         il contenuto del SIA (studio di impatto ambientale);

§         la verifica di ottemperanza prevista sul progetto definitivo.

 

In merito al contenuto del SIA (art. 18), con il quale ha inizio la procedura di VIA, ne viene indicato analiticamente un contenuto minimo e precisate - nell’art. 4 dell’allegato tecnico - le relative modalità di redazione e pubblicazione.

 

Merita qui un cenno il contenuto dell’art. 4 dell’allegato tecnico – introdotto dal decreto legislativo n. 189 del 2005 - che fa riferimento, per la redazione e la pubblicazione del SIA, alle norme tecniche vigenti: DPCM n. 377 del 1988 e DPCM n. 348 del 1999. L’art. 4 prevede, inoltre, per i progetti soggetti a VIA nazionale, che il SIA debba uniformarsi al D.M. 1 aprile 2004 che ha indicato le linee guida per l'utilizzo di sistemi innovativi per l'abbattimento e la mitigazione dell'inquinamento ambientale, alle quali il proponente deve attenersi nella redazione dei progetti al fine di garantire una migliore qualità ambientale dei progetti stessi.

Si ricorda, infine, che l’art. 51 del decreto legislativo n. 152 del 2006 “Norme in materia ambientale”, ha previsto l’emanazione di norme tecniche integrative della disciplina di VIA per la redazione dei SIA e la formulazione dei giudizi di compatibilità in relazione a ciascuna categoria di opere, e la contestuale vigenza, fino alla loro emanazione, delle norme tecniche attualmente vigenti (DPCM n. 377 del 1988)[483].

 

Deve far parte del SIA anche una relazione di compatibilità ambientale sui metodi di previsione utilizzati per la VIA e delle misure previste per evitare, ridurre ed eventualmente compensare effetti negativi rilevanti del progetto sull'ambiente, nonché un riassunto non tecnico delle informazioni trasmesse ed indicare le eventuali difficoltà riscontrate, al fine di non ostacolarne la conoscenza da parte del pubblico.

 

Il controllo ambientale anche nelle successive fasi di definizione tecnica del progetto e di realizzazione dell’opera, è garantito dalla nuova Commissione tecnico-consultiva (art. 20, commi 4 e seguenti) che deve:

§         verificare e comunicare al Ministero dell'ambiente eventuali difformità tra il progetto definitivo e quello preliminare e di esprime al Ministero (entro 60 giorni da tale presentazione);

§         esprimere un parere di ottemperanza del progetto definitivo alle prescrizioni del provvedimento di compatibilità ambientale e dell'esatto adempimento dei contenuti e delle prescrizioni di cui al decreto di compatibilità ambientale.

 

Nel caso in cui si registri una sensibile difformità del progetto definitivo dal preliminare, vengono previste particolari norme di tutela che prevedono, la possibilità, per il Ministro dell'ambiente nel caso in cui ritenga che le varianti apportate abbiano un significativo impatto ambientale e sempre previo parere della Commissione, di richiedere l’aggiornamento del SIA, che può riguardare anche la sola parte di opera interessata dalla variante. Qualora si riscontri un mancato adempimento dei contenuti e delle prescrizioni del provvedimento di compatibilità ambientale, il Ministro dell’Ambiente, previa diffida a regolarizzare, dà notizia dell'inottemperanza in sede di Conferenza di Servizi, al fine dell'eventuale rinnovo dei l'istruttoria.

Inoltre, nel caso in cui si registri una violazione degli impegni assunti o modifiche al progetto che comportino significative modifiche dell’impatto ambientale, la Commissione ha l’obbligo di riferire al Ministro dell’ambiente che può ordinare al soggetto gestore l’adeguamento dell’opera e, se necessario, richiedere al CIPE la sospensione dei lavori ed il ripristino della situazione ambientale a spese del responsabile, nonché l’adozione dei provvedimenti cautelari di cui agli artt. 8 e 9 della legge n. 349 del 1986[484]. Tale facoltà è prevista anche per le variazioni progettuali intervenute nella fase di progettazione esecutiva.

 

Da ultimo sono state aggiunte, sempre dal decreto legislativo n. 189 del 2005, alcune disposizioni volte al agevolare la Commissione tecnico-consultiva nella sua opera di verifica dei progetti, mediante la trasmissione al Ministero dell’ambiente, prima dell’inizio dei lavori, di una serie di dati essenziali (data di inizio dei lavori; progetto esecutivo corredato dai documenti previsti compresa la relazione relativa all’attestazione della rispondenza del progetto esecutivo al progetto definitivo e le eventuali varianti progettuali). La Commissione può, infine, essere consultata da parte dei soggetti esecutori dell’opera, in merito all’interpretazione del provvedimento di compatibilità ambientale.

Logicamente le nuove norme relative al SIA ed alla verifica di ottemperanza non vengono applicate qualora la VIA venga espressa su progetti definitivi.

 

La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale

Nella sentenza n. 303del 25 settembre-1° ottobre 2003, la Corte costituzionale opera una ricostruzione della competenza legislativa in materia di infrastrutture strategiche. In particolare, nel punto 2.1, essa richiama per la prima volta[485] “un elemento di flessibilità” presente nel nuovo testo costituzionale, costituito dall’articolo 118, primo comma “il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un elemento dinamico che finisce col rendere meno rigida ... la stessa distribuzione delle competenze legislative, la dove prevede che le funzioni amministrative generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base di principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ”[486].

Dopo essersi soffermata sull’”attitudine ascensionale” del principio di sussidiarietà, la Corte afferma – per la prima volta dopo l’entrata in vigore della riforma dell’ottobre 2001 - che i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza non operano solo come criteri ai fini della attribuzione (legislativa) di competenze amministrative, ma al contrario valgono ad “attrarre” allo Stato tutte quelle funzioni (sia amministrative, sia legislative) che – per loro natura - esigono un esercizio unitario. Nella linea così tracciata, il principio di sussidiarietà opera quale criterio interpretativo (e integrativo) della ripartizione di competenza legislativa ricavabile dal dato meramente testuale del solo articolo 117. Infatti, “il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”. La Corte sembra far salvi da questa dinamica di “attrazione” gli ambiti di competenza esclusiva regionale, posto che, come specificato nel primo periodo del punto 2.2, il ragionamento da essa condotto è riferito alle “materie di competenza statale esclusiva o concorrente”.

In tale contesto, non può essere sottovalutato il carattere generale delle affermazioni della Corte e quindi il loro potenziale effetto anche al di là dell’oggetto della sentenza.

 

Un secondo elemento di novità è proposto al punto 16. Si tratta della facoltà della legge statale di introdurre (dopo l’entrata in vigore del Titolo V) norme suppletive di dettaglio in materie di legislazione concorrente caratterizzate dalla clausola di cedevolezza rispetto all’entrata in vigore di successive norme regionali. Tale facoltà – di cui il legislatore ha fatto largamente uso nella vigenza del vecchio articolo 117 – non era invece ritenuta ammissibile da parte della dottrina di commento alla riforma del Titolo V, in quanto il nuovo articolo 117 ha, com’è noto, invertito la tecnica del riparto di competenze legislative.

La Corte costituzionale ritiene invece che “una simile lettura svaluterebbe la portata precettiva dell’articolo 118, comma primo ... La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole”.

Si segnala che, nel caso in oggetto, l’ammissibilità di norme statali suppletive non è connessa al recepimento di norme comunitarie e quindi ad obblighi internazionali gravanti sullo Stato, ma è radicata nel mero principio di ragionevolezza.

 

Infine, si può rilevare l’insistenza del richiamo al principio di leale collaborazione. Elemento non nuovo nella giurisprudenza costituzionale, il principio di collaborazione assume in questa sentenza una centralità e una articolazione di tipo particolare: la “concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza” (punto 2.2.), che porta la Corte ad assegnare un valore decisivo all’intesa fra Stato e Regioni nell’attuazione della normativa in oggetto (cioè nella programmazione e realizzazione delle infrastrutture strategiche). Queste prescrizioni relative al procedimento sono radicate nel sostanziale rispetto del principio di lealtà. Pertanto, anche su questo versante, dalla sentenza emerge un indirizzo volto a scoraggiare un uso conflittuale del nuovo riparto di competenze e a respingere argomentazioni che, sia pure ancorabili al dato meramente letterale delle disposizioni dell’articolo 117, finiscano con il contraddire il principio della “leale collaborazione”, principio che invece deve trovare nell’intesa e nelle norme procedimentali uno strumento privilegiato.

 

Venendo ai profili più settoriali della sentenza n. 303, si ricorda preliminarmente che essa ha sottoposto al vaglio di costituzionalità sia la legge delega (legge n. 443 del 2001), sia il decreto delegato n. 190 del 2002, giungendo alla conclusione sinteticamente riportata al punto 4.1., nel quale, nel valutare complessivamente l’”operazione compiuta dal legislatore”, la Corte afferma: “non di lesione di competenza delle regioni si tratta, ma di applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”.

Il giudizio sulle finalità e sui contenuti sostanziali della cd “legge obiettivo” in relazione all’esercizio della potestà legislativa appare chiaramente espresso e discende direttamente da quella ricostruzione del valore dell’articolo 118 della Costituzione di cui si è detto sopra. Tuttavia appare interessante seguire anche alcuni dei passaggi intermedi – attinenti alla disciplina di settore - dai quali deriva tale giudizio conclusivo, ed in particolare quello attinente la collocazione della “materia” dei lavori pubblici.

Al punto 2.3., in particolare, si chiarisce e si integra quello che è uno dei principali problemi interpretativi aperti dal nuovo Titolo V: “la mancata inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117 Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti”.

Passando ad altra problematica, la sentenza – come si è visto - attribuisce un valore discriminante all’intesa fra Stato e Regioni nelle varie fasi procedimentali disciplinate particolarmente dal decreto legislativo n. 190 del 2002. Anche tale aspetto presenta profili di particolare interesse, in quanto sembra che sia prevalentemente su questo versante – oltre che sulla definizione della potestà regolamentare – che la Corte ha deciso di accogliere le rivendicazioni regionali connesse alla nuova posizione loro attribuita dalla riforma del 2001.

Nella sentenza n. 303 la Corte dichiara, infatti, che “diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale si subordina l’operatività della disciplina”.

E’ tuttavia utile osservare che l’intesa a cui la Corte fa riferimento è sempre fondata sull’applicazione del principio di lealtà. Infatti, in primo luogo si afferma che “non è rilevante che essa preceda l’individuazione delle infrastrutture ovvero sia successiva ad una unilaterale attività del Governo” (punto 4.1.). Allo stesso punto si afferma che, nel contraddittorio “ispirato al canone di leale collaborazione che deve instaurarsi con lo Stato”, la Regione non deve semplicemente “allegare”, ma deve anche “argomentare” e “dimostrare” “la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione”.

A rafforzare la lettura della sentenza n. 303 alla luce del ruolo imprescindibile del principio di leale collaborazione, sembra contribuire anche il modo in cui la Corte sottopone a scrutinio le procedure di superamento del dissenso regionale previste dalla legislazione speciale sulle infrastrutture strategiche, e in particolare dal decreto legislativo n. 190[487]. Infatti, nell’approvazione (e quindi anche nella localizzazione) di progetti di opere di interesse nazionale o internazionale alle regioni è offerta “la possibilità di rappresentare il loro punto di vista e di motivare la loro valutazione negativa sul progetto”, ma allo Stato non può essere inibita la possibilità di procedere ugualmente, superando il dissenso regionale[488]. Invece, nelle opere in cui l’interesse regionale è “concorrente” con quello statale, come lo stesso decreto legislativo n. 190 riconosce, i poteri della Regione di bloccare l’approvazione del progetto appaiono maggiori. Tutto ciò appare alla Corte sostanzialmente ragionevole e quindi non meritevole di censura.

E’ interessante, infine, anche riportare un passaggio della sentenza che può essere illuminante – in futuro - ai fini della individuazione di quelle opere per le quali l’interesse nazionale sia concorrente con quello regionale. Secondo la Corte (punto 17.1 della sentenza) non è accoglibile la tesi delle regioni secondo cui: “il solo fatto della localizzazione di una parte dell’opera sul territorio di una Regione implicherebbe il coinvolgimento di un interesse regionale”. E’ invece sempre attraverso l’intesa e quindi sulla base della leale collaborazione che occorre procedere, caso per caso, alla classificazione delle opere.

 

Nello schema così delineato rientrano sostanzialmente tutti gli aspetti fondamentali della nuova disciplina. Ne rimangono invece fuori alcuni su cui la Corte esprime un giudizio di illegittimità

I primi due riguardano:

§         l’articolo 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001, con cui il legislatore aveva introdotto una procedura alternativa di approvazione dei progetti preliminari e definitivi (con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del CIPE integrato dai presidenti delle regioni o delle province autonome interessate, sentita la Conferenza unificata e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari). Secondo la sentenza n. 303, tale procedura è lesiva delle prerogative regionali perchè è il CIPE stesso (e quindi anche i rappresentanti regionali che lo integrano) ad essere degradato da organo di amministrazione attiva ad organo con funzioni meramente preparatorie (punto 8.).

§          la correzione – operata con dichiarazione additiva – del dettato legislativo (art. 19, comma 2, del decreto legislativo n. 190 del 2002) che non prevedeva che la Commissione speciale VIA, per la valutazione delle opere di concorrente interesse nazionale e regionale, fosse integrata da componenti designati dalle Regioni o Province autonome interessate.

 

Considerazioni a parte richiedono invece le due dichiarazioni di illegittimità costituzionale relative all’articolo 1, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 443 e all’articolo 15, commi 1-4 del decreto legislativo n. 190. Si tratta di un’unica censura (che colpisce la norma delegante e quella delegata) e riguarda l’autorizzazione al Governo ademanare regolamenti integrativi delle norme regolamentari vigenti e attuativi delle nuove norme di rango primario.

La Corte ricorda che – per giurisprudenza consolidata – ai regolamenti di delegificazione (quali quelli in oggetto) è inibito disciplinare materie di competenza regionale, in quanto fra norme statali e norme regionali non sussiste un rapporto gerarchico, ma di separazione di competenze.

 

Infine, con la stessa sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità del decreto legislativo n. 198 del 2002, che aveva disciplinato (e semplificato) i procedimenti autorizzativi di infrastrutture di telecomunicazioni.

La Corte non si è pronunciata nel merito di tale disciplina (in gran parte successivamente trasfusa nel decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, Codice delle comunicazioni elettroniche), ma ha colpito con dichiarazione di illegittimità il rapporto fra il decreto stesso e la legge delega. Tutta la procedura prevista dalla legge obiettivo si basa – infatti - sulla previa individuazione (ogni anno e attraverso definiti passaggi procedurali) delle opere strategiche. Tale impostazione non può prevedere una attribuzione di “strategicità” illimitata e indeterminata (nel tempo e nello spazio) ad una intera categoria di opere, come invece accadeva nel decreto legislativo n. 198.

 

Può essere utile ricordare che nel parere sullo schema di decreto votato dalla VIII Commissione il 22 luglio 2002 si era richiesto, come condizione, che “all'articolo 1, comma 1, alinea, sia specificato che le disposizioni del presente decreto legislativo si applicano solo alle categorie di opere infrastrutturali nel settore delle telecomunicazioni inserite nel programma delle infrastrutture strategiche ai sensi dell'articolo 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001”.

Il testo definitivo del decreto legislativo aveva accolto solo in parte la condizione richiesta dall’organo parlamentare, inserendo un generico richiamo dell’art. 1, comma 1, della legge n. 443 (richiamo non ritenuto sufficiente dalla Corte).

 

Il project financing

Nel corso della XIV Legislatura, il project financing è stato oggetto di particolare interesse da parte del Parlamento per almeno due motivi.

Il primo motivo è da riconnettere all’introduzione di una normativa speciale per le opere strategiche e l’infrastrutturazione del paese (vedi capitolo La legge obiettivo). Nel momento in cui Governo e Parlamento hanno adottato (con la delibera CIPE n. 121 del 2001 e con i successivi DPEF) un programma considerevole (e costoso) di opere strategiche, il problema della copertura (almeno parziale) dei costi del programma attraverso finanziamenti privati ha assunto una importanza, anche politica, particolare.

Il secondo motivo è da connettere ad un dato cronologico: le norme sul p.f. sono state introdotte in Italia, per la prima volta, nel 1998 (legge 18 novembre 1998, n. 415, che ha modificato la legge n. 109 del 1994), ma – come l’esperienza di altri paesi dimostra – è solo dopo un periodo di almeno 5/7 anni che le modifiche del quadro normativo cominciano ad avere effetti sul mercato dei lavori pubblici (e quindi di spesa pubblica). Pertanto l’attenzione politica si è rivolta, proprio negli anni della XIV Legislatura, con rinnovato interesse, al nuovo istituto.

Principale testimonianza di tale interesse sono state le Relazioni presentate al Parlamento dalla Unità tecnica finanza di progetto[489], ai sensi del comma 11 dello stesso articolo che ha istituito l’UTFP: DOC CLXXV. Alla data della fine della Legislatura risultavano trasmesse al Parlamento, la relazione relativa al periodo luglio 2000 – dicembre 2001 (DOC CLXXV/1), trasmessa al Presidente il 16 aprile 2002 e la relazione relativa all’anno 2002 (DOC CLXXV/2), trasmessa alla Presidenza in data 5 maggio 2003.

Sul sito dell’UTFP (http://www.utfp.it) è reperibile anche la Relazione annuale al 30 aprile 2004, ma tale documento non è stato ufficialmente trasmesso al Parlamento.

L’istituto

La disciplina del project financing ha lo scopo di favorire il ricorso alla particolare forma di realizzazione di lavori pubblici denominata concessione di costruzione e gestione di lavori pubblici[490], quale strumento attraverso cui convogliare capitali privati nella realizzazione di opere pubbliche.

Sul piano giuridico, l’istituto della concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche o di pubblica utilità (e quindi la partecipazione di capitale privato alla realizzazione di opere pubbliche) non si identifica con il project financing ed infatti esisteva già prima del 1998[491]. Con il termine di project financing deve infatti intendersi non tanto un istituto giuridico, quanto una tecnica finanziaria diretta a consentire il finanziamento di un’iniziativa economica sulla base della valenza tecnico-economica del progetto anziché sulla capacità autonoma di indebitamento dei soggetti promotori dell’iniziativa stessa

Dal momento che si tratta di un concetto proprio del settore economico-finanziario, non esiste una definizione strettamente giuridica del p.f. (tale tecnica non ha un autonomo rilievo quale istituto giuridico). In proposito, l’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici ha definito il p.f. come “risultato del collegamento funzionale fra molteplici rapporti giuridici”.

Tuttavia, sul piano normativo, la differenza di fondo tra la disciplina della concessione e quella del project financing consiste nell’iniziativadel procedimento: mentre prima dell’innovazione normativa introdotta dalla legge n. 415 era solo l’amministrazione aggiudicatrice che dava avvio alla procedura che si concludeva con il contratto di concessione di costruzione e gestione, le nuove regole sul project financing hanno attribuito al privato una funzione decisiva di individuazione e di proposta di opere pubbliche (o di pubblica utilità) realizzabili attraverso il ricorso alla concessione di costruzione e gestione. Questo ruolo di iniziativa non è tuttavia del tutto libero. Il secondo princibio-base della normativa sul project financing consiste infatti nella necessità che l’iniziativa privata si svolga nell’ambito delle scelte programmatiche effettuate dall’amministrazione aggiudicatrice. Ai sensi dell’art. 37 bis, comma 1 della legge n. 109 – infatti – il soggetto promotore può proporre la realizzazione con contratto di concessione di costruzione e gestione di opere già inserite nella programmazione triennale dell’amministrazione aggiudicatrice, o comunque in altro strumento programmatorio.

Sul piano economico, per project financing si intende un'operazione di finanziamento nella quale una specifica iniziativa economica viene valutata in primo luogo per la sua potenzialità a generare ricavi, poiché i flussi di cassa previsti dalla gestione costituiscono la fonte primaria per la restituzione del debito. La caratteristica principale di un'operazione di project financing, tale da distinguerla dalle altre forme più tipiche ed usuali di finanziamento, consiste quindi nel fatto che la decisione relativa alla possibilità di finanziare un determinato progetto è assunta tenendo conto, come elemento di valutazione quasi esclusivo, della capacità dell'operazione di autofinanziarsi, ovvero della possibilità di produrre flussi di cassa positivi in grado di compensare i flussi negativi derivanti dai prestiti ottenuti per la realizzazione del progetto medesimo.

Si tratta pertanto di uno strumento finanziario che richiede una progettazione accurata, un'analisi approfondita dei flussi di cassa, l'elaborazione di un'ipotesi di finanziamento specifica e flessibile, la predisposizione di meccanismi contrattuali funzionali ad un'efficiente collocazione dei rischi.

Più in particolare è utile considerare che la tecnica del project financing non si riferisce ad una sola possibilità di finanziamento, ma può comportare (e in genere comporta) un insieme di modalità di strutturazione del finanziamento stesso e delle relative garanzie. L’operazione di project financing si configura come un vero e proprio progetto di investimento che consenta di incanalare le risorse private verso quelle opere pubbliche che, pur essendo di pubblica utilità, siano in grado di autofinanziarsi grazie ai flussi di cassa derivanti da un'efficiente gestione delle stesse. Poiché principio fondamentale del project financing è quello dell'autofinanziamento dell'opera, il ricorso a tale strumento, data la complessità delle operazioni richieste, è in genere conveniente a partire da una certa dimensione finanziaria.

Sul piano tecnico finanziario, elementi essenziali da considerare in un’operazione di project financing sono:

1.      la regolamentazione e la varietà dei finanziamenti,

2.      la molteplicità dei rischi, che possono essere suddivisi secondo due profili:

§         quello commerciale o strutturale, relativo sia al rischio connesso allo specifico progetto, sia a quello derivante dal contesto economico generale in cui si realizza il progetto;

§         quello temporale, che considera il rischio nelle diverse fasi (progettazione, costruzione, e operatività) del progetto stesso.

Conseguentemente, l'applicazione della tecnica di project financing si attua tra le parti mediante complessi accordi contrattuali che devono considerare e regolamentare:

§         l'identificazione dei rischi connessi alla realizzazione, alla gestione ed al finanziamento del progetto;

§         l'allocazione e la ripartizione dei rischi stessi presso soggetti in grado di assumerli e gestirli;

§         la determinazione delle risorse finanziarie necessarie alla realizzazione del progetto;

§         la definizione dei ruoli e degli impegni dei soggetti partecipanti.

 

Diversi sono i soggetti coinvolti in un'operazione di project financing:

-          i promotori: uno o più soggetti qualificati per lo sviluppo di una particolare iniziativa economica che, in genere, apportano o garantiscono il capitale di rischio;

-          i realizzatori: società di ingegneria, progettazione, costruzione e fornitura incaricate della realizzazione dell'iniziativa e che non necessariamente si identificano con i promotori;

-          i consulenti finanziari: coloro che analizzano le condizioni di fattibilità del finanziamento di un'iniziativa e dei relativi rischi e che predispongono un dettagliato piano finanziario per lo sviluppo del progetto;

-          le controparti commerciali: tutti i soggetti con un potenziale interesse nell'iniziativa (ad esempio: i fornitori e gli acquirenti/utilizzatori dei prodotti/servizi);

-          i finanziatori: gli enti che intervengono, a vario titolo, nel finanziamento di un'iniziativa nella forma di debito a breve, medio e lungo termine, assumendo quote di rischio;

-          i consulenti legali: coloro che predispongono la stesura degli accordi contrattuali di perfezionamento delle obbligazioni relative all'iniziativa di project financing.

Il procedimento previsto dalla normativa italiana (legge n. 109 del 1994, artt. 37 bis – 37 quater )

Presentazione delle proposte (art. 37 bis)

Ogni proposta è presentata dal promotore alla amministrazione aggiudicatrice. La proposta deve riguardare – come si è detto - opere già inserite nella programmazione triennale - o in altri strumenti di programmazione già approvati dall’amministrazione aggiudicatrice - e deve contenere una complessa documentazione:

 

a)      studio di inquadramento territoriale e ambientale

b)      studio di fattibilità

c)      progetto preliminare

d)      bozza di convenzione

e)      piano economico finanziario asseverato da un istituto di credito

f)        specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione

g)      elementi richiesti per la concessione mediante licitazione privata[492]

h)      garanzie offerte dal promotore all’amministrazione aggiudicatrice

i)        indicazione dell’importo delle spese sostenute per la predisposizione della proposta

 

§      Valutazione delle proposte (art. 37 ter)

Le amministrazioni aggiudicatrici valutano le diverse proposte, secondo criteri che sono definiti dallo stesso articolo 37 ter (profilo costruttivo, urbanistico e ambientale, qualità progettuale, funzionalità e fruibilità, accessibilità, rendimento, costi di gestione e manutenzione, durata della concessione, ecc.) anche attraverso una comparazione e sentendo i promotori che ne facciano richiesta.

 

§      Individuazione delle proposte “di pubblico interesse” (art. 37 ter)

Le amministrazioni procedono poi ad una selezione indicando – fra le proposte presentate – quelle che ritengono di pubblico interesse.

 

§      Indizione della gara per la selezione delle migliori offerte (art. 37 quater, comma 1, lettera a))

Se l’amministrazione ha individuato – fra le proposte presentate – qualcuna che sia giudicata “di pubblico interesse, indice una gara ponendo a base di gara il progetto preliminare presentato dal promotore, eventualmente con modifiche apportate dall’amministrazione stessa. La gara ha lo scopo di selezionare le migliori offerte.

 

§      Procedura negoziata e aggiudicazione della concessione (art. 37 quater, comma 1, lettera b))

L’amministrazione aggiudica la concessione mediante procedura negoziata a cui parteciperanno il promotore e gli autori delle migliori offerte presentate nella gara.

Nello schema sopra delineato, il promotore partecipa alla procedura negoziata in condizione di parità con gli altri soggettiselezionati dalla gara. La legge specifica che la sua proposta è vincolante per il promotore stesso (art. 37 quater, comma 2). La legge prevede inoltre (art. 37 quater, comma 4) che se il promotore non risulterà aggiudicatario, l’amministrazione è tenuta al pagamento delle spese sostenute per la predisposizione della proposta (come già documentate in sede di presentazione della proposta stessa.

Le modifiche alla legge n. 109/1994 - introdotte dalla legge n. 166/2002 - in relazione alle procedure delle operazioni di project financing

Per tutta una prima fase attuativa, il nuovo istituto non sembra avere risposto pienamente alle aspettative[493].

I principali problemi emersi derivavano principalmente da due ordini di cause:

-          i limiti propri della disciplina della concessione;

-          l’eccessiva rigidità prevista per la procedura di project financing.

 

Il contratto di concessione e gestione di lavori pubblici (che – come si è detto – è quello che disciplina i rapporti fra amministrazione aggiudicatrice e soggeto prescelto dopo una procedura di project financing) aveva una serie di limitazioni, previste dalla “legge Merloni”, tali da restringerne il campo di applicazione ad un numero limitato di opere, caratterizzate da una alta redditività. Prima dell’approvazione della legge n. 166 del 2002 – infatti – la durata della concessione in gestione non poteva mai eccedere i 30 anni. Inoltre il prezzo (integrativo del semplice diritto di gestione) poteva essere previsto solo nella ipotesi di prezzi o tariffe amministrati[494]. Infine, tale prezzo (dopo la riforma del 2002) potrà anche eccedere il limite originario del 50% del costo complessivo dell’opera. La legge n. 166, con modifiche sostanziali alla disciplina della concessione, ha mirato – invece - a favorire la partecipazione di capitali privati anche nell’ipotesi di opere che – per loro stessa natura – non possono raggiungere livelli di redditività molto alti (ad esempio, opere che hanno costi di realizzazione tali da non poter essere ammortizzati in un arco temporale di trenta anni). Ne consegue che anche il campo di applicazione del project financing ne è risultato esteso.

Altre modifiche normative sono state introdotte nel 2002 in merito alle “società di progetto”, di cui al comma 37 quinquies della legge quadro[495]. In particolare, con l’aggiunta del comma 1 ter, vengono introdotte disposizioni finalizzate ad evitare che il subentro della società di progetto ed eventuali modifiche al capitale sociale della stessa possano ridurre le garanzie a favore dell’amministrazione concedente.

Specifiche modifiche sono state recate alle disposizioni relative all’iter delle operazioni di project financing (artt. 37-bis – 37-quater della “legge quadro”) allo scopo di snellire e semplificare la procedura: raddoppio delle scadenze entro le quali il promotore può presentare proposte all’amministrazione.

In questo quadro rientrano anche le modifiche volte ad assegnare un ruolo più incisivo e propulsivo dei soggetti privati nella fase della programmazione dei lavori da parte delle amministrazioni pubbliche (art. 37 bis).

Infine, la principale modifica specifica alla disciplina sul p.f. è consistita nel riconoscimento del diritto di prelazione a favore del promotore (art. 37-ter): al promotore, a seguito della riforma del 2002, viene infatti offerta la possibilità di adeguare la propria offerta a quella giudicata dall’amministrazione più conveniente in sede di procedura negoziata (ex art. 37 quater), e in questo caso sarà il promotore stesso ad aggiudicarsi la concessione. Sempre al fine di rafforzare la figura del promotore e incentivarne le attività di proposta, è stato previsto l’obbligo di rimborso delle spese sostenute e documentate da parte dei primi due soggetti che abbiano partecipato alla procedura di appalto-concorso (art. 37 quater, comma 5). Tale norma trova la sua ratio nell’entità delle spese che solitamente richiede la partecipazione ad una procedura di appalto-concorso.

La più recente Relazione dell’UTFP e il Libro Verde sui partenariati pubblico-privati

La più recente Relazione dell’UTFP è stata – come si è sopra ricordato - pubblicata sul sito web dell’unità tecnica, ma non trasmessa al Parlamento.

Fra gli elementi di maggiore interesse della Relazione si ricorda in primo luogo la parte relativa agli assetti organizzativi dell’UTFP, nella quale si segnala come ad un accrescimento delle attribuzioni affidate dalle legge alla Unità e ad una previsione di aumento del suo organico (vedi l’art. 2, comma 4, lettera c), del decreto legislativo n. 190 del 2002 e il DM 23 maggio 2003, n. 162), non abbia invece corrisposto un effettivo potenziamento di una struttura che rimane invece sotto l’organico originariamente previsto. Di interesse, a questo fine, anche il Capitolo 5, dedicato alla Evoluzione dell’Osservatorio sulla finanza di progetto, nonché gli ultimi due capitoli (6 e 7) dedicati ad un bilancio dei primi quattro anni di attività dell’Unità tecnica (maggio 2000-aprile 2004) e alle prospettive future.

Un secondo elemento di interesse della Relazione è rappresentato dalle informazioni relative ad opere comprese nel programma delle infrastrutture strategiche ai sensi della legge n. 443 del 2001 (Capitolo 3. L’attività relativa ai progetti compresi nel Primo programma delle opere strategiche).

Si ricorda – infatti - che, per le infrastrutture strategiche, la Delibera CIPE n. 121 del 2001, all’art. 4, comma 1, aveva assegnato proprio all’UTFP il compito di effettuare studi-pilota su alcuni progetti selezionati dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. L’UTFP ha quindi effettuato i previsti studi-pilota su 9 progetti, al fine particolare di individuare settori nei quali potesse risultare praticabile una ipotesi di apporto di capitali privati. Le opere su cui vengono presentati – nella Relazione – dati e conclusioni (in forma di schede-opera) sono: la linea ferroviaria Torino-Lione, i Centri intermodali ferroviari, la Tangenziale esterna di Milano, l’Autostrada Salerno-Reggio Calabria, il Quadrilatero Umbria-Marche, il Sistema di collegamento trasversale Nord-Sud (Basilicata), il Completamento degli allacci plurimodali di Gioia Tauro, il Corridoio trasversale A1-A14 (S. Vittore-Termoli) e gli Schemi idrici del Mezzogiorno.

 

Infine, è opportuno ricordare, in questo contesto, che -  in data 30 aprile 2004 – è stato presentato alla Commissione delle Comunità Europee il Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (v. scheda Il Libro Verde sui PPP) che – pur non recando (ancora) una disciplina giuridica di tali forme di partecipazione di capitali privati ad opere pubbliche – inquadra tuttavia le iniziative di project financing all’interno del diritto comunitario (sia dei trattati sia derivato) ed apre una consultazione pubblica finalizzata ad orientare ulteriori iniziative comunitarie, non escluse quelle di carattere normativo.

 

Le direttive appalti 2004/17/CE e 2004/18/CE

La direttiva 2004/17CE

La direttiva 2004/17CE del Parlamento e del Consiglio del 31 marzo 2004 coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali (cd. settori speciali).

La nuova direttiva, conformemente alla direttiva 93/38, all’art. 2 individua tre categorie di soggetti aggiudicatori, distinguendo tra:

§         Amministrazioni aggiudicatici;

§         Imprese pubbliche;

§         Soggetti titolari di diritti speciali ed esclusivi.

Uno degli aspetti più rilevanti dei settori speciali, infatti, che rappresenta il motivo per  cui gli stessi sono stati dapprima esclusi dall’applicazione delle direttive-appalti e successivamente fatti oggetto di una specifica regolamentazione, è sicuramente la natura giuridica dei soggetti aggiudicatori (che può essere sia pubblica che privata, contrariamente alle direttive appalti che prevedono solo soggetti aggiudicatori di natura pubblica). Ciò dimostra chiaramente la volontà del legislatore comunitario di assoggettare alle regole della concorrenza tutti quei soggetti che, pur rivestendo dal punto di vista giuridico, carattere formalmente privato, di fatto sono sostanzialmente soggetti pubblici, nel senso che operano secondo logiche pubbliche e non private. Tale volontà appare peraltro evidente al punto 10 delle premesse, in cui si afferma come “la necessità di garantire l’effettiva liberalizzazione del mercato e il giusto equilibrio nell’applicazione delle norme sugli appalti nei settori speciali  esige che gli enti interessati siano definiti in modo diverso dal riferimento alla loro qualificazione giuridica”. Per tali ragioni, la loro qualificazione giuridica può essere del tutto irrilevante. Il campo di applicazione della direttiva si estende pertanto a tre categorie di soggetti aggiudicatori:

§         Sono amministrazioni aggiudicatici: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico;

§         Sono imprese pubbliche: le imprese su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante perché ne sono proprietarie, vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù di norme che disciplinano le imprese in questione.

§         Sono soggetti titolari diritti speciali ed esclusivi: soggetti privati che annoverano tra le loro attività una o più delle attività proprie dei settori speciali e operano in virtù di diritti speciali o esclusivi[496] concessi loro dall’autorità competente in uno Stato membro.

Ai fini della direttiva sono considerati settori speciali e quindi oggetto di regolamentazione:

§         gas, energia termica ed elettricità,

§         l’acqua;

§         i servizi di trasporto;

§         i servizi postali;

§         l’estrazione e prospezione di petrolio e altri combustibili.

Si ricorda che dalla nuova direttiva è escluso il settore delle telecomunicazioni (art. 30), ormai considerato già concorrenziale, ed è stato invece inserito il settore dei servizi postali (art. 6), non compreso in passato nei settori speciali.

Ancora sotto il profilo dell’ambito di applicazione, l’art. 30, par. 1, prevede una procedura volta ad esonerare dall’applicazione della direttiva la prestazione di quelle attività che, nello Stato membro in cui vengono esercitate, “sono direttamente esposte alla concorrenza su mercati liberamente accessibili”.

Gli appalti cui la direttiva si riferisce sono.

§         L’appalto di lavori: quelli aventi “per oggetto l'esecuzione o, congiuntamente, la progettazione e l'esecuzione di lavori relativi a una delle attività di cui all'allegato XII o di un'opera, oppure l'esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un'opera corrispondente alle esigenze specificate dall'ente aggiudicatore” (art., par. 1, lett. b);.

§         L’appalto di forniture: ”appalto avente per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l’acquisto a riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, di prodotti” (art. 1, par. 2, lett. c).

§         L’appalto di servizi: “appalto avente per oggetto una delle attività indicate nei due specifici allegati  XVIIA e XVIIB della direttiva” (art. 1, par. 2, lett. d).

L’art. 16 della direttiva ha anche stabilito nuove soglie di valore[497], prevedendo espressamente che rientrino nel campo di applicazione della stessa tutti gli appalti che, al netto dell’IVA, sono pari o superiori a:

§         422.000 euro per gli appalti di forniture e servizi;

§         5.278.000 euro per gli appalti di lavori.

L’art. 17 detta poi i criteri relativi alle modalità di calcolo del valore stimato degli appalti, stabilendo in linea generale, che esso debba tenere conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni e di rinnovi eventuali del contratto.

La direttiva contiene inoltre una serie di esclusioni generali dalla sua applicazione riguardanti tutti gli enti e tutti i tipi di appalto (art. 19-23), una serie di esclusioni relative riguardanti tutti gli enti ma solo alcuni tipi di appalti di servizi (art. 24) ed infine alcune esclusioni relative solo ad alcuni enti aggiudicatori (art. 26).

Tra i casi di esclusione generale rientrano: gli appalti aggiudicati a scopo di rivendita o di locazione a terzi (art. 19); gli appalti aggiudicati per fini diversi dall'esercizio di un'attività interessata o per esercizio di un'attività in un paese terzo (art. 20); gli appalti segreti o che esigono particolari misure di sicurezza (art. 21); gli appalti aggiudicati in forza di norme internazionali (art. 22) ed, infine, gli appalti aggiudicati ad un'impresa collegata ad una joint-venture ad un ente aggiudicatore facente parte di una joint-venture (art. 23).

Per quanto concerne le procedure di gara la direttiva ne prevede tre:

§         la procedura aperta: quella in cui  qualsiasi operatore economico interessato può presentare un'offerta (art. 1, par. 9, lett. a);

§         la procedura ristretta: quella alla quale ogni operatore economico può chiedere di partecipare e possono presentare un'offerta solo i candidati invitati dall'ente aggiudicatore (art. 1, par .9, lett. b);

§         la procedura negoziata: quella in cui l'ente aggiudicatore consulta gli operatori economici di propria scelta e negozia con uno o più di essi le condizioni dell'appalto (art. 1,par. 9, lett. c);

La Direttiva contiene inoltre una serie di norme atte a garantire la massima pubblicità agli avvisi con cui si indice una gara (art. 42 - onde assicurare la massima partecipazione alle gare - agli avvisi relativi agli appalti aggiudicati (art. 43), nonché agli avvisi relativi ai sistemi di qualificazione (art. 41).

In materia di qualificazione dei concorrenti, la direttiva fissa all’art. 54 i cd. criteri di qualificazione qualitativa dei candidati, stabilendo che gli enti aggiudicatori che fissano criteri di selezione in una procedura aperta ristretta o negoziata devono farlo secondo regole e criteri oggettivi che vanno resi disponibili agli operatori economici interessati.[498]  Nel caso i cui l’ente aggiudicatore sia una amministrazione, si applicano anche i criteri di esclusione definiti dall’art. 45 della dir. 2004/18/CE, ossia le ipotesi di commissione di particolari reati[499].

Per quanto concerne i sistemi di qualificazione, una della più rilevanti differenze rispetto ai settori classici degli appalti è data dalla previsione di cui all’art. 53, secondo cui i soggetti aggiudicatori possono istituire un proprio sistema di qualificazione degli operatori economici (albi di fornitori, di prestatori di servizi, di esecutori di lavori pubblici), con la possibilità, una volta istituito il sistema, di invitare alle gare (a procedura ristretta o negoziata) solo le imprese qualificate (art. 53, par. 9). 

La direttiva prevede inoltre in varie disposizioni la possibilità di introdurre criteri ambientali e sociali negli appalti pubblici di settore speciale.[500]

Infine, la direttiva reca, da un lato, una serie di norme (art. 45 - 48) atte a favorire il ricorso ai mezzi di comunicazione elettronici, nonché l’utilizzo di strumenti informatici e telematici nell’ambito delle tradizionali procedure di gara; dall’altro, fissa regole specifiche (artt. 15 e 48 e ss.) per l’istituzione ed il funzionamento di sistemi di acquisto interamente elettronici (sistemi dinamici di acquisto, v. art. 1, par. 5) ovvero di processi elettronici di valutazione delle offerte (aste elettroniche, art. 1, par. 6, e art. 56).

Il termine per il recepimento da parte degli Stati membri è quello del 31 gennaio 2006.

La direttiva 2004/18CE

La direttiva 2004/18/CE presenta numerosi aspetti innovativi della disciplina comunitaria degli appalti pubblici. In primo luogo essa procede alla unificazione di tutte le norme comunitarie in materia di appalti pubblici (a parte i cd “settore speciali”, per i quali è stata contestualmente emanata la direttiva 2004/17/CE). Alcune delle principali novità della nuova direttiva 2004/18/CE riguardano le soglie di applicazione più elevate, l’introduzione del dialogo competitivo, delle aste elettroniche, dei sistemi dinamici di acquisto, degli accordi quadro, la possibilità di partecipare alle gare con le holding.

Spetterà ai singoli Stati membri recepire il testo nel proprio ordinamento entro 21 mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea.

Soglie di applicazione.

Si ricorda che le due nuove direttive hanno modificato le soglie comunitarie. Tuttavia – dopo la loro emanazione – la disciplina comunitaria è stata nuovamente ritoccata dal Regolamento CE n. 2083 del 19 dicembre 2005. Pertanto,  le nuove soglie sono così determinate: per gli appalti di lavori e le concessioni di lavori pubblici la soglia oggi vigente è paria 5.278.000 euro; per gli appalti di forniture occorre distinguere fra appalti aggiudicati da una autorità governativa centrale (soglia di 137.000 euro) e appalti aggiudicati da altra amministrazione (soglia di 211.000 euro). Anche per gli appalti di servizi la soglia è di 137.000 euro per gli appalti aggiudicati dalle amministrazioni centrali, mentre si innalza a 211.000 euro non solo per gli appalti aggiudicati dalle altre amministrazioni, ma anche per gli appalti aggiudicati dalle amministrazioni centrali, quando questi abbiano ad oggetto servizi della categoria 8 dell’allegato IIA, servizi di telecomnunicazioni della categoria 5 dell’allegato II A, le cui voci CPV corrispondono ai numeri di riferimento CPC 7524, 7525 e 7526, servizi elencati nell’Allegato II B.

 

Centrali di committenza.

La direttiva conferma la nozione di amministrazione aggiudicatrice e ribadisce che gli appalti in-house possono essere effettuati soltanto nel settore dei servizi.

La novità più rilevante consiste nell’introduzione delle cosiddette “centrali di committenza”, centri unici di imputazione di appalti, modellati secondo lo schema della Consip italiana. Il risultato è che gli appaltatori potrebbero trovarsi, in alcuni settori merceologici, ad avere molto meno controparti rispetto a oggi. Per il legislatore comunitario una centrale di committenza è “un'amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture e servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici, o che aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatici”. La scelta di prevedere tali soggetti spetta a ogni Stato membro: “Gli stati membri possono prevedere la possibilità per le amministrazioni aggiudicatici di acquistare lavori, forniture e servizi facendo ricorso a una centrale di committenza” (art. 11, par. 1). Il principio che la direttiva afferma è quello dell'automatico rispetto delle norme comunitarie da parte di un'amministrazione che acquista lavori, forniture e servizi facendo ricorso a una centrale di committenza, ma a condizione che in precedenza la centrale di committenza abbia rispettato le norme comunitarie.

Il dialogo competitivo.

Il dialogo competitivo è la nuova procedura di aggiudicazione introdotta dalla direttiva e può essere utilizzata per i soli appalti complessi, quando la stazione appaltante si trovi di fronte ad un appalto di cui non sia “in grado di definire i mezzi tecnici per la sua esecuzione o non sappia impostare giuridicamente o finanziariamente il progetto” (art. 1, par. 11, lettera c). Nella procedura di gara è netta la separazione tra la fase del dialogo, in cui avviene una vera e propria messa a punto, anche per fasi successive, della soluzione o delle soluzioni ritenute idonee dall'amministrazione, e la successiva fase in cui l'amministrazione riceve e valuta le offerte. Se l'amministrazione, “per ridurre il numero delle soluzioni da discutere” (art. 29), sceglie di svolgere la procedura in più fasi successive (e deve prevederlo nel bando di gara o nel documento descrittivo), è tenuta ad applicare i criteri di aggiudicazione previsti nel bando di gara. Il dialogo può anche durare molto dal momento che è previsto che prosegua finché l'amministrazione non sia in grado di individuare, “se del caso dopo averle confrontate” (art. 29) la o le soluzioni che essa ritiene idonee e soddisfacenti. Solo dopo parte la fase di offerta, nel corso della quale le offerte possono anche successivamente essere precisate, chiarite e perfezionate. Successivamente si apre la fase della scelta della migliore offerta. In questo caso la direttiva precisa che la scelta avviene con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

Una volta individuata l'offerta economicamente più vantaggiosa, si prevede ancora la possibilità per la stazione appaltante di chiedere al migliore offerente di precisare alcuni aspetti dell'offerta e di confermare gli impegni che derivano dall'offerta presentata. È infine prevista la facoltà per l'amministrazione di stabilire premi o pagamenti per i partecipanti al dialogo.

La partecipazione all'appalto con le holding.

Per quel che riguarda la partecipazione all'appalto, in applicazione della sentenza Ballast Noedam Groep del 1994, si precisa che un operatore economico (e quindi il principio vale per tutti e tre i tipi di appalto, lavori, forniture e servizi) può “fare affidamento sulle capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi” (art. 47, par. 2), provando che “per l'esecuzione dell'appalto disporrà delle risorse necessarie, per esempio, presentando l'impegno di tale soggetto di mettere a disposizione dell'operatore economico le risorse necessarie”(idem). Questa possibilità può essere utilizzata anche dai raggruppamenti che, a loro volta, possono “fare assegnamento sulle capacità dei partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti” (art. 47, par. 3). La norma sembra aprire la strada alla candidatura di soggetti, per esempio gruppi o holding, ma anche ati (associazioni temporanee di imprese), che potrebbero qualificarsi a un appalto pure con le referenze di altri soggetti o con altri soggetti anche estranei al raggruppamento. E ciò sarà possibile, sia con una semplice lettera di impegno del soggetto che apporterà le referenze, sia con altri mezzi (dal momento che la direttiva testualmente afferma che “l'impegno” è solo un esempio di dimostrazione nei confronti della stazione appaltante, della messa a disposizione delle risorse necessarie).

Sistemi dinamici di acquisizione e aste elettroniche.

Ulteriori innovazioni riguardano i cosiddetti sistemi dinamici di acquisto e le aste elettroniche. Il “sistema dinamico di acquisizione” (art. 33), istituito con pubblico incanto, è caratterizzato dall'essere funzionale soprattutto agli acquisti di uso corrente per i quali, di norma, quanto disponibile sul mercato è già in grado di soddisfare le esigenze dell'amministrazione aggiudicatrice. In buona sostanza, si tratta di sistemi elettronici aperti che per una durata limitata (non possono durare per più di quattro anni) consentono agli operatori economici di formulare un'offerta indicativa nell'arco di un certo periodo di tempo. I candidati in possesso dei requisiti minimi per l'accesso alla gara possono quindi presentare offerte che siano in linea con il capitolato d'oneri messo a disposizione dalla stazione appaltante e le offerte formulate possono essere migliorate in ogni momento. Quindi, una volta pubblicato il bando di gara e reso noto il capitolato d'oneri, le stazioni appaltanti lasceranno libero l'accesso in via elettronica alla documentazione di gara. Le offerte dovranno essere valutate entro 15 giorni dalla loro ricezione e comunicata all'offerente l'eventuale ammissione nel sistema dinamico o il rigetto dell'offerta.

Le aste elettroniche sono invece dei processi che si inseriscono all'interno delle usuali procedure di aggiudicazione e costituiscono un sistema di negoziazione delle offerte che precede l'aggiudicazione dell'appalto. Non possono in alcun modo essere utilizzate quando si tratti di appalti di servizi o di lavori che abbiano a oggetto “prestazioni intellettuali quali la progettazione di lavori” (art. 1, comma 7). Tale esclusione comporta anche che non potrà essere utilizzata nelle procedure di appalto integrato in cui la stazione appaltante chiede all'impresa, associando o individuando un progettista, di predisporre la progettazione esecutiva dell'intervento da realizzare. Si può fare ricorso all'asta elettronica quando “le specifiche dell'appalto possono essere fissate in maniera precisa” (art. 54, par. 2). L'oggetto dell'asta elettronica è ben determinato: può infatti riguardare il prezzo o i prezzi (o valori) degli elementi dell'offerta previsti dal capitolato nel caso di appalto aggiudicato con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Come di consueto anche l'impiego dell'asta elettronica deve essere segnalato dall'amministrazione nel bando di gara. L'asta si conclude in una data fissata o quando non si ricevono più nuovi prezzi o, ancora, quando si è raggiunto il numero di fasi previsto nel bando.

Gli accordi quadro.

La direttiva unificata estende ai settori tradizionali anche l'utilizzazione degli accordi quadro già previsti dalla direttiva settori speciali (93/38/CEE), ma essi non saranno applicabili in caso di appalti di servizi aventi a oggetto prestazioni intellettuali. In particolare, viene definito come accordo quadro un accordo concluso tra una o più amministrazioni e uno o più operatori economici con lo scopo di stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare in un determinato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e le quantità previste. In sede di aggiudicazione degli appalti pubblici basati su un accordo quadro, le parti non possono apportare modifiche sostanziali alle condizioni fissate in tale accordo. Un accordo quadro potrà durare al massimo quattro anni. Sono stabiliti diversi criteri di aggiudicazione a seconda che l'accordo quadro sia concluso con un solo operatore economico o con più operatori economici.

Il termine per il recepimento da parte degli Stati membri è quello del 31 gennaio 2006.

 

Libro verde sui partenariati pubblico-privati

Il Libro Verde sui partenariati pubblico-privati (PPP)[501] introduce una definizione ampia dei PPP, quali forme – in senso lato - di cooperazione fra le autorità pubbliche ed operatori economici, volte a finanziare, costruire, rinnovare o sfruttare un'infrastruttura o la fornitura di un servizio.

Le modalità giuridiche di tali partenariati sono definite dalle normative nazionali (mentre non esistono, come si vedrà più avanti, norme comunitarie). In Italia, esse vengono a coincidere con quello che comunemente è stato definito project financing e che è stato disciplinato, nel 1998, dagli artt. 37 bis e seguenti della legge n. 109 del 1994 (v. scheda Il project financing), anche se la definizione comunitaria di PPP è potenzialmente più ampia e comprensiva di quella riconoscibile nelle norme italiane sul p.f.

I PPP sono presenti – a livello europeo – in un numero crescente di settori economici: nei trasporti, nella sanità pubblica, nell'istruzione, nella sicurezza, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione d'acqua o di energia.

Inoltre, è opportuno ricordare che - a livello di grandi politiche comunitarie – i PPP rivestono un ruolo importante nella realizzazione dell' Iniziativa europea per la crescita[502] e delle reti transfrontaliere (RTE).

Da una quindicina di anni i PPP sono in forte espansione. Le autorità pubbliche vi fanno sempre più ricorso dati i vincoli di bilancio cui esse devono far fronte. Così facendo, tali autorità beneficiano del know-how del settore privato. Un altro vantaggio: i PPP consentono di realizzare economie nella misura in cui comprendono tutte le fasi di un progetto, dalla sua concezione fino al suo sfruttamento. In maniera più generale, i PPP contribuiscono anche al dibattito comunitario sui servizi di interesse generale (SIG). Inoltre, essi si inseriscono nel quadro dell'evoluzione del ruolo dello Stato in campo economico. Uno Stato che ormai è divenuto più organizzatore, regolatore e controllore che operatore diretto.

 

I PPP presentano le seguenti caratteristiche:

Il Libro verde distingue due tipi di PPP:

 

Non esiste alcun quadro giuridico specifico per i PPP a livello europeo. Il Libro verde si prefigge quindi di esaminare se il trattato che istituisce la Comunità europea (trattato CE) e il suo diritto derivato siano adeguati e sufficienti per far fronte alle particolari situazioni determinate dai PPP. Questa analisi verte tanto sulla selezione del partner privato, quanto sulla realizzazione della partnership.

Ogni atto in base al quale un'entità pubblica affida la prestazione di un'attività economica ad un terzo va studiato alla luce delle regole e dei principi di cui al trattato CE. In materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi (articoli 43-49), questi principi comprendono segnatamente la trasparenza, la parità di trattamento, la proporzionalità e il riconoscimento reciproco. Il trattato CE si applica quindi anche ai partenariati pubblico-privati.

Alcune forme di PPP sono sottoposte alla legislazione europea riguardante le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Si ricorda che tale legislazione (come illustrato nella citata scheda Le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) introduce una nuova procedura di aggiudicazione degli appalti: il dialogo competitivo. Tale dialogo fornisce una base giuridica ad alcune forme di PPP nei casi di progetti molto complessi per i quali un'autorità competente manifesta un bisogno specifico e cerca quindi la soluzione tecnica ottimale presso operatori economici.

I PPP possono essere oggetto di concessioni di lavori e di servizi. Esse si distinguono dagli appalti pubblici in quanto l'operatore economico si remunera almeno in parte sfruttando l'opera o il servizio. A livello europeo, le concessioni escono parzialmente dal campo d'applicazione delle direttive europee sugli appalti pubblici, perfino totalmente quando si tratta di concessioni di servizi.

La comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario [Gazzetta ufficiale C 121 del 29 aprile 2000] fa chiarezza sugli obblighi previsti per le autorità pubbliche in occasione della scelta dei candidati alla concessione.

 

Infine, il Libro Verde propone una prima risposta in merito alla opportunità di introdurre una normativa comunitaria in materia di partenariati pubblico-privati.

Infatti, da varie parti è stata intravista proprio in tale vuoto normativo una delle possibili cause dello sviluppo ancora limitato di tali forme di finanziamento di opere e servizi di interesse pubblico.

In proposito, il Libro verde avvia una consultazione pubblica sul miglior modo di garantire lo sviluppo dei PPP in un contesto di effettiva concorrenza e di chiarezza giuridica. Esso pone una serie di 22 interrogativi riguardanti segnatamente i temi seguenti:

La Commissione si impegna ad analizzare e a pubblicare i risultati dei contributi alla consultazione pubblica. Essa presenterà, se del caso, iniziative concrete per sviluppare l'argomento. Sono possibili varie formule, tuttavia nessuna formula viene imposta: un atto legislativo vincolante, una comunicazione interpretativa, un miglior coordinamento delle azioni nazionali, uno scambio di buone prassi fra Stati membri.

 

Il codice dei contratti pubblici

Le principali innovazioni rispetto alla normativa previgente

Società miste (art. 1, comma 2)

Vene enunciato il principio generale secondo cui in caso di costituzione di una società mista per la realizzazione di un’opera o di un servizio pubblico, il socio privato deve essere scelto con procedura di evidenza pubblica.

Definizioni (art. 3)

§      Viene riprodotta la definizione comunitaria di “appalti pubblici di lavori”: tale nozione comprende – e pone sullo stesso piano – sia gli appalti che hanno ad oggetto la sola esecuzione, sia quelli che hanno ad oggetto la progettazione e l’esecuzione, sia quelli affidati a general contractor. Si precisa, tuttavia, che l’affidamento a general contractor è ammesso solo “limitatamente alle ipotesi di cui alla parte II, titolo III, capo IV (infrastrutture strategiche). Anche nella normativa vigente il ricorso al general contractor è previsto solo dal decreto legislativo n. 190 del 2002 (opere rientranti nella cd “legge obiettivo”). Al contrario, in merito al contratto di progettazione ed esecuzione, il codice introduce un’innovazione in quanto lo ammette sempre mentre, ai sensi delle norme vigenti (art. 19, comma 1, lettera b), della legge n. 109 del 1994), l’”appalto integrato” è ammesso solo in alcune ipotesi determinate (lavori di importo inferiore a 200.000 euro; lavori la cui componente impiantistica o tecnologica incida per più del 60 per cento del valore dell'opera; lavori di manutenzione, restauro e scavi archeologici; lavori di importo pari o superiore a 10 milioni di euro).

§      Si introduce la definizione di “concessione di servizi”, anche se l’istituto viene disciplinato solo sommariamente (art. 30) in quanto ancora privo di una specifica disciplina comunitaria.

§      Si introducono le nuove definizioni di “accordo quadro”, “sistema dinamico di acquisizione” , “asta elettronica”, “centrale di committenza”,“dialogo competitivo”, tratte dalla direttiva 2004/18/CE.

Competenze legislative statali e regionali (art. 4, comma 2 e art. 5)

All’art. 4 si esplicita che la competenza legislativa in materia di qualificazione e selezione dei concorrenti e di svolgimento delle procedure di gara appartiene alla sfera esclusiva dello Stato. La disposizione sembrerebbe sottintendere che gli altri profili della normativa sui contratti pubblici di appalto (non nominati) appartengano invece alla competenza concorrente o alla competenza esclusiva delle regioni. Tuttavia – in possibile contraddizione con tale disposizione – il successivo articolo 5 (in particolare al comma 5) rinvia ad un regolamento statale la disciplina di una serie di aspetti di seguito elencati (fra i quali la programmazione dei lavori, la progettazione di lavori, servizi e forniture, le competenze del responsabile del procedimento). Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 117, comma sesto della Costituzione, lo Stato mantiene la competenza regolamentare nelle sole materia in cui è dotato di competenza legislativa esclusiva. Si segnala – in proposito – che la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel parere sullo schema di decreto, ha lamentato, su tale punto, una lesione delle competenze legislative regionali.

Unificazione dei regolamenti esecutivi e di attuazione (art. 5)

In parallelismo con l’unificazione operata sia a livello comunitario che a livello di normativa statale primaria, viene anche prevista una unificazione dei regolamenti di attuazione in materia di lavori, forniture e servizi (in realtà, non esistendo regolamenti di attuazione ed esecuzione dei decreti legislativi che disciplinano forniture e servizi, più che di unificazione è opportuno parlare di adeguamento del DPR n. 554 del 1999 al fine di estenderne l’applicazione anche a servizi e forniture).

Semplificazione delle norme sui capitolati (art. 5, commi 7-9)

Secondo le norme oggi vigenti, il capitolato generale (DM 19 aprile 2000, n. 145) si applica a tutte le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, agli enti pubblici, compresi quelli economici, agli enti e alle amministrazioni locali, alle loro associazioni e consorzi, nonché a tutti gli altri organismi di diritto pubblico (art. 3, comma 5, della legge 109/94).

Si ricorda che – in dottrina – è dibattuta la questione se le disposizioni in esso contenute (condizioni generali del contratto destinate a regolare i rapporti fra stazione appaltante e soggetto affidatario) abbiano natura normativa o contrattuale. Nel sistema delineato dalla legge n. 109 (basato sulla obbligatorietà della sua applicazione), esso ha finito con il rivestire carattere normativo (venendo così a sovrapporsi ad un regolamento).

Nello schema di decreto, invece, il capitolato può essere adottato dalle stazioni appaltanti (comma 7 dell’art. 5). Pertanto, scaturendo da una volizione delle parti, esso verrebbe ad assumere valore contrattuale.

Autorità di vigilanza (art. 6)

§      Viene estesa la competenza dell’Autorità anche agli appalti di servizi e forniture;

§      Viene meno il limite massimo per il trattamento economico spettante ai membri dell’Autorità[503];

§      Vengono compresi nell’ambito della vigilanza dell’Autorità anche gli appalti esclusi dall’ambito di applicazione del codice;

§      Viene prevista una (nuova) competenza dell’Autorità a formulare proposte al Governo in merito a ipotesi di modifica della normativa vigente in materia di appalti pubblici;

§      Viene specificato il potere di vigilanza sul sistema di qualificazione (già previsto dall’art. 4, comma 4, lett. i) della legge n. 109)  introducendo un potere di annullamento o di sospensione in via cautelare della attestazioni rilasciate da SOA di cui sia constatata l’inerzia;

§      Vengono attribuite alla stessa Autorità funzioni di composizione delle controversie durante le procedure di gara (su istanza delle parti), ma non vengono definite apposite norme procedurali;

§      Vengono precisati i poteri sanzionatori dell’Autorità (peraltro già previsti dalle norme vigenti) e le forme di riscossione delle sanzioni pecuniarie;

 

Si ricorda che già il comma 67 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 (finanziaria per il 2006) è intervenuto sulla disciplina dell’Autorità, prevedendo che ad essa sia riconosciuta autonomia organizzativa e finanziaria e che, ai fini della copertura dei costi relativi al proprio funzionamento, essa determini annualmente l'ammontare delle contribuzioni alla stessa dovute dai soggetti, pubblici e privati, sottoposti alla sua vigilanza, nonché le relative modalità di riscossione, “ivi compreso l'obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell'offerta nell'ambito delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche”[504]. La nuova normativa introdotta con la legge finanziaria ha – inoltre – previsto che l'Autorità possa individuare quali servizi siano erogabili a titolo oneroso, secondo tariffe determinate sulla base del costo effettivo dei servizi stessi.

Osservatorio dei contratti pubblici (art. 7)

Le competenze dell’Osservatorio vengono estese anche agli appalti di servizi e di forniture. Inoltre, vengono inserite (commi 5 e 6) nuove disposizioni relative alle funzioni (già esercitate) in materia di determinazione dei costi standardizzati.

Organizzazione dell’Autorità (art. 8)

Si delinea una nuova disciplina dell’organizzazione interna dell’Autorità di vigilanza, basata sul principio di piena autonomia organizzativa. La nuova disciplina riprende il modello organizzativo dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Sportello unico dei contratti pubblici (art. 9)

La norma prevede la facoltà per le stazioni appaltanti di istituire un apposito sportello per la semplificazione delle procedure di informazione.

Contratti misti (art. 14)

Ai fini della individuazione della “prevalenza”, si passa da un criterio (quello vigente) sostanzialmente basato su un criterio quantitativo (art. 2, comma 1, della legge n. 109) al criterio “qualitativo” delineato dall’art. 1 della direttiva 2004/18/CE.

Contratti esclusi nel settore delle telecomunicazioni (art. 22)

In attuazione dell’art. 13 della direttiva 2004/18/CE, e in considerazione della situazione di concorrenza effettiva degli appalti nel settore delle telecomunicazioni in seguito all’attuazione della normativa comunitaria volta a liberalizzare il settore (21° considerando della direttiva), sono stati esclusi dall’ambito di applicazione della normativa sugli appalti gli appalti (pubblici) in tale settore. L’esclusione è tuttavia condizionata alla circostanza che l’aggiudicazione abbia lo scopo principale di permettere alle amministrazioni aggiudicatici di esercitare talune attività nel settore delle telecomuinicazioni (messa a disposizione o gestione di reti pubbliche di comunicazione o prestazione al pubblico di uno o più servizi di telecomunicazione).

Soglie comunitarie (art. 28)

Si procede ad una revisione delle soglie comunitarie, adeguandole alle nuove soglie introdotte dalla direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento della Commissione n. 2083/2005.

Ambito soggettivo di applicazione della disciplina degli appalti pubblici (art. 32)

I vecchi artt. 2 della legge n. 109 del 1994, 2 del decreto legislativo n. 157 del 1995 e 1 del decreto legislativo n. 358 del 1992, vengono riformulati e adattati alla migliore definizione dell’ambito soggettivo di applicazione recata dalla direttiva 2004/18/CE (artt. 1 e 8).

Di particolare rilievo innovativo, rispetto alla normativa italiana vigente:

§      l’assoggettamento alla normativa sugli appalti pubblici delle opere di urbanizzazione (realizzate da soggetti privati) a scomputo del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, con la applicazione della disciplina del project financing (lettera g) dell’art 32, comma 1);

§      le disposizioni apposite dedicate a alle società con capitale misto (art. 32, comma 3);

§      le disposizioni che subordinano l’erogazione a soggetti privati di contributi pubblici (superiori ad una certa soglia) per la realizzazione di lavori, alla condizione della esplicita previsione del rispetto, da parte del soggetto privato stesso, della disciplina del codice (art. 32, comma 4).

Centrali di committenza (art. 33)

Viene inserita – per la prima volta nell’ordinamento italiano – la previsione generale del ricorso alle centrali di committenza (come definite dall’art. 1, par. 10 della direttiva 2004/18/CE).

Avvalimento (artt. 49 e 50)

In attuazione di specifiche previsioni comunitarie (artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE), viene inserito nell’ordinamento italiano un istituto finora sconosciuto, che non mancherà di determinare effetti significativi nel mercato degli appalti pubblici. Grazie all’avvalimento il singolo concorrente ad una gara di lavori, servizi o forniture potrà partecipare a tale gara anche senza essere in possesso dei requisiti di qualificazione richiesti, ma avvalendosi di un’altra impresa (ausiliaria) dotata dei requisiti richiesti e vincolata da una dichiarazione sottoscritta a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse di cui il concorrente è carente. L’art. 50 coordina le nuove norme introdotte in attuazione della direttiva con la disciplina delle qualificazioni SOA (come, peraltro, previsto dalla stessa direttiva, all’art. 52).

Vicende soggettive del candidato, dell’offerente e dell’aggiudicatario (art. 51)

Il codice ha introdotto una disciplina legislativa delle ipotesi in cui i candidati o i concorrenti, singoli, associati o consorziati, cedano, affittino l'azienda o un ramo d'azienda, ovvero procedano alla trasformazione, fusione o scissione della società, colmando un vuoto normativo, in quanto tali ipotesi venivano, precedentemente, disciplinate solo da un acircolare ministeriale (Min LLPP 2 agosto 1985, n. 382).

Appalti riservati (art. 52)

In recepimento di nuove disposizioni comunitarie (art. 19 della direttiva 2004/18/CE), viene prevista la possibilità di riservare (da parte delle stazioni appaltanti) la partecipazione a procedure di aggiudicazione di singoli o determinati appalti pubblici a laboratori protetti, quando la maggioranza dei lavoratori impiegati è composta di disabili.

Tipologie di contratti (art. 53)

Una delle principali novità introdotte dall’art. 53 è la rimozione dei vincoli previsti dalla normativa vigente (art. 19, comma 1, lettera b) della legge n. 109/94) per l’appalto-integrato, prevedendo, inoltre, che il contratto possa avere ad oggetto anche la progettazione definitiva.

Al comma 6 viene aggiunta – secondo quanto evidenziato nella relazione illustrativa – “una norma di coordinamento con la disciplina relativa alle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico”, volta a specificare la possibilità di utilizzare (a certe condizioni), quale corrispettivo del contratto di appalto, anche i beni immobili inclusi in programmi di dismissione.

Procedure di scelta del contraente (artt. 54-62)

L’art. 54 riproduce la norma recata dall’art. 28 della direttiva volta a sancire quale metodo ordinario di aggiudicazione la procedura aperta o ristretta (in linea con le previsioni dell’art. 20, comma 1, della legge n. 109), e quale metodo utilizzabile nei soli casi previsti il dialogo competitivo (introdotto dalla direttiva 2004/18/CE e che sostituisce nell’ordinamento nazionale l’appalto-concorso) e la procedura negoziata (quest’ultima prevista, nei soli casi normati, dall’art. 20, comma 3).

Termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte (art. 70)

Viene recepito l’articolo 38 della direttiva n.18 del 2004, che prevede una disciplina molto articolata dei termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte.

Termini di invio ai richiedenti dei capitolati d’oneri, documenti e informazioni complementari nelle procedure aperte (art. 71)

L’articolo in questione, riproduttivo dell’articolo 39 della direttiva n. 18 del 2004, rispetto alla normativa vigente prevede la possibilità di pubblicare su Internet i capitolati d’oneri.

Forma e contenuto delle domande di partecipazione e delle offerte (artt. 73 e 74)

Vengono previste norme generali in materia di forma e contenuto dei documenti citati, innovando l’ordinamento.

Spese di pubblicità, inviti, comunicazioni (art. 80)

Viene riprodotto il contenuto dell’articolo 29 della legge n. 109 del 1994 con la modifica relativa al fatto che vengono considerate anche le spese per inviti e comunicazioni.

Criteri per la scelta dell’offerta migliore (art. 81)

Vengono ribaditi i criteri già previsti dalla normativa previgente: prezzo più basso e offerta economicamente più vantaggiosa. L’innovazione consiste nel riconoscimento della facoltà delle stazioni appaltanti di scegliere caso per caso quale dei due criteri adottare. La disposizione recepisce il contenuto della sentenza della Corte di giustizia del 7ottobre 2004 nella causa C-247/2002,che aveva dichiarato non conforme al diritto comunitario l’art. 21, comma 1, della legge n. 109 del 1994, che indicava quale criterio preferenziale quello del prezzo più basso, limitando a casi tassativi la possibilità di ricorrere al criterio alternativo.

Criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 83)

Viene riprodotto l’articolo 53 della direttiva 18. Rispetto alla normativa vigente assume importanza l’espressa previsione della possibilità di prevedere subcriteri per i singoli criteri che danno corpo alla valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Commissione aggiudicatrice nel caos di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 84)

Viene esteso anche al settore dei servizi e delle forniture il corpus normativo relativo alla commissione aggiudicatrice (che nell’ordinamento previgente riguardava solo gli appalti di lavori). Vengono inoltre ridotte le cause di incompatibilità previste.

Ricorso alle aste elettroniche (art. 85)

Viene recepito l’articolo 54 della direttiva n. 18 del 2004. L’unica differenza riguarda la circostanza che a differenza della direttiva la normativa italiana non prevede un’estensione generalizzata delle aste elettroniche per quel che riguarda l’acquisto di beni e di servizi, ma lascia alle stazioni appaltanti la decisione se accedere di volta in volta all’asta elettronica. Tale discostamento non configura peraltro una violazione della direttiva se si considera che il ricorso alle aste elettroniche è previsto come facoltativo dalla direttiva.

Offerte anormalmente basse (artt. 86, 87, 88)

Viene recepita la normativa comunitaria in materia contenuta nell’articolo 55 della direttiva n. 18 del 2004. Le principali novità rispetto alla normativa previgente riguardano: esclusione non automatica delle offerte anormalmente basse, verifica delle offerte sospette con un contraddittorio successivo alla presentazione delle offerte medesime, utilizzo di un criterio automatico per la sola individuazione della soglia di anomalia ed estensione a tutti i settori dei criteri già previsti per i lavori pubblici, verifica completa di tutte le componenti dell’offerta.

Strumenti di rilevazione della congruità dei prezzi (art. 89)

Viene spostata la competenza a operare da punto di riferimento per la rilevazione dei prezzi dall’ISTAT all’Osservatorio dei contratti pubblici di cui all’articolo 7.

Progettazione per gli appalti di servizi e forniture (art. 94)

L’articolo 94 demanda al regolamento di attuazione di provvedere ad estendere le norme in materia di livelli e requisiti della progettazione anche agli appalti di servizi e forniture. La materia non era precedentemente regolata da disposizioni di legge.

Effetti urbanistici dell’approvazione dei progetti (art. 98)

L’art. 98 opera una ricognizione – che mancava nelle norme relative ai lavori pubblici - in tema di effetti dell’approvazione dei progetti ai fini urbanistici ed espropriativi.

Concorsi di progettazione (art. 105)

Gli articoli 99-107 provvedono a recepire le disposizioni introdotte dalla direttiva sui concorsi di progettazione (artt. 66-74), provvedendo – ove necessario – ad integrarle con le norme dettate in materia dal DPR n. 554/99.

Di un certo significato la previsione recata dall’art. 105, comma 2, che fissa un limite di dieci soggetti come minimo necessario per garantire una effettiva concorrenza.

Garanzie di esecuzione e coperture assicurative (art. 113)

Viene estesa la normativa vigente in materia di garanzie di esecuzione e coperture assicurative anche ai servizi e alle forniture.

Varianti in corso di esecuzione dei contratti (art. 114)

Viene estesa anche ai forniture e ai servizi la possibilità di adottare varianti.

Vicende soggettive dell’esecutore del contratto (art. 116)

Vengono estese anche ai servizi e alle forniture le disposizioni già previste per i lavori pubblici e riguardanti  le cessioni. Inoltre, si ricorda che l’art. 51 dello stesso codice ha introdotto una disciplina legislativa delle ipotesi in cui i candidati o i concorrenti, singoli, associati o consorziati, cedano, affittino l'azienda o un ramo d'azienda, ovvero procedano alla trasformazione, fusione o scissione della società.

Cessione dei crediti derivanti da contratto (art. 117)

Vengono estese anche ai settori dei servizi e delle forniture norme relative alla cessione dei crediti derivanti da contratto.

Subappalto (artt. 118 e 118-bis)

Viene estesa la disciplina già vigente in materia di subappalti di lavori pubblici anche al settore dei servizi e delle forniture.

Collaudo (art. 120)

Viene affidato a un regolamento il compito di definire le modalità di svolgimento del collaudo per lavori, servizi e forniture. Si abroga contestualmente la disciplina vigente in materia di lavori pubblici e si introduce una disciplina (sia pure di fonte regolamentare) per gli appalti di servizi e forniture, dove tale disciplina non esisteva e questi aspetti erano definiti nei capitolati o attraverso norme interne delle stazioni appaltanti.

Contratti di lavori pubblici sotto soglia (art. 122)

L’art. 122 è finalizzato garantire una maggiore semplificazione, flessibilità e riduzione dei tempi riguardo alle procedure di aggiudicazione e agli obblighi di pubblicità.

Le novità più rilevanti, sono da individuarsi, più che nei commi 5 e 6 (che comunque sono innovativi dal punto di vista del maggior grado di dettaglio delle disposizioni, mentre nei contenuti tutto sommato vengono riproposti – seppur ampliati – quelli recati circa le forme di pubblicità dall’art. 80 del DPR n. 554/1999 e dagli artt. 79 e 81 del medesimo regolamento per i termini di ricezione delle domande e di presentazione delle offerte), nel comma 9 che estende, ai contratti sotto-soglia aggiudicati con il criterio del prezzo più basso, l’esclusione automatica delle offerte anomale con il medesimo meccanismo previsto attualmente dall’art. 21 della legge n. 109/1994.

Appalti di servizi e forniture sotto soglia (art. 124)

L’art. 124 riproduce i principi generali recati dall’art. 122 per i lavori pubblici e, analogamente a quell’articolo, provvede per i servizi e le forniture a garantire una maggiore semplificazione, flessibilità e riduzione dei tempi riguardo alle procedure di aggiudicazione e agli obblighi di pubblicità.

Concessioni di lavori pubblici(ambito di applicazione e disciplina applicabile (art. 142)

Vengono recepite nell’ordinamento nazionale le norme sulle concessioni di lavori pubblici contenute nella direttiva 2004/18/CE al Titolo III, dall’art. 56 al 65 e che hanno sistematizzato le varie disposizioni relative alle modalità di scelta del concessionario e l’affidamento degli appalti da parte del concessionario stesso a terzi recate dalla precedente direttiva 93/37/CE.

 

La direttiva ha, infatti, chiarito (dedicandogli due distinti Capi) che la natura pubblica o privata del concessionario si configura quale fattore discriminante per l’applicazione della direttiva stessa, infatti:

§       per i lavori che saranno eseguiti da terzi, il concessionario, che sia esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice è tenuto a rispettare la direttiva (art. 62);

§       è demandata, invece, agli Stati membri la definizione delle norme affinché i concessionari, che non siano amministrazioni aggiudicatici, applichino le disposizioni in materia di pubblicità in sede di aggiudicazione di appalti a terzi allorché il relativo valore sia pari o superiore alla soglia comunitaria di 5.278.000 euro (art. 63).

 

La disciplina recata dall’art. 142 del codice provvede a delineare il regime delle concessioni dei lavori pubblici e degli appalti di lavori indetti dal concessionario con valore superiore alla soglia prevista per i lavori pubblici dalla direttiva (5.278.000 euro), distinguendo in modo più chiaro, rispetto alla normativa delineata dalla legge quadro, all’interno di tale ultima fattispecie, le ipotese in cui  il concessionario è un’amministrazione aggiudicatrice e quelle in cui non lo è (mentre l’art. 2 della legge n. 109, come sottolinea la relazione all’art. 148 del codice fa riferimento agli appalti del concessionario “che riguardano solo l’ipotesi in cui il concessionario, non sia, a sua volta, un’amministrazione aggiudicatrice”).

Pertanto nei primi due casi – concessioni e appalti del concessionario/amministrazione aggiudicatrice – verrà applicata pressoché integralmente, la normativa recata dal codice; per i casi, invece, di appalti di lavori a terzi da parte del concessionario/non amministrazione aggiudicatrice, verrà applicata (come dispone l’art. 63 della direttiva) la specifica disciplina sulla pubblicità prevista ai successivi artt. 149 e segg., sempre che il valore degli appalti affidati superi l’importo previsto per i lavori pubblici dalla direttiva (comma 4, primo periodo).

Rispetto alle disposizioni comunitarie, il secondo periodo del comma 4 prevede poi, sempre nel caso di appalti di lavori a terzi da parte del concessionario/non amministrazione aggiudicatrice, anche l’applicabilità, in quanto compatibili, di una serie di ulteriori norme del codice.

Caratteristiche delle concessioni di lavori pubblici (art. 143)

L’articolo, anche se riproduce nella sostanza il contenuto dell’art. 19, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater e 3 della legge n. 109, in materia di concessioni, reca anche alcune modifiche di carattere sostanziale.

Il comma 1 sembra ampliare l’oggetto della concessione di lavori pubblici prevedendo che essa abbia “di regola”, ad oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità. L’inserimento della locuzione “di regola” sembrerebbe, pertanto, far riferimento anche ad altre fattispecie (nell’art. 3, al comma 11 del presente codice essa ha ad oggetto anche la sola “esecuzione, ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione……., che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo, in conformità al presente codice”).

Il comma 4 prevede la possibilità di stabilire un prezzo in sede di gara, non solo per assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare, ma anche nel caso in cui al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla remunerazione degli investimenti e alla somma del costo del servizio e dell’ordinario utile di impresa.

Il comma 6 reintroduce la disposizione introdotta dalla legge n. 415 del 1998 e poi modificata dall’art. 7 della legge n. 166 del 2002, che prevede che la durata della concessione non sia “di regola” superiore ai trenta anni.

Naturalmente vengono poi mantenute le deroghe disposte al successivo comma 8 che prevedono la possibilità di stabilire, da parte della stazione appaltante (l’amministrazione aggiudicatrice nel comma 2-bis dell’art. 19 della legge n. 109), una durata della concessione superiore ai trenta anni, al fine di assicurare il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti del concessionario. 

Il comma 7 introduce due novità rispetto alle corrispondenti norme dell’art. 19, comma 2-bis, ultimo periodo, della legge n. 109:

-            la previsione che oltre al contratto, anche l’offerta debba contenere il piano economico –finanziario di copertura degli investimenti;

-            entrambi – offerta e contratto – devono contenere altresì la connessa gestione per tutto l’arco temporale prescelto.

Nel comma 8 non trovano spazio le norme relative ai casi di recesso del concessionario per le quali l’art. 19, comma 2-bis, qui parzialmente riprodotto, rinviava all’art. 37-bis della legge n. 109 che disciplinava, appunto, i casi di risoluzione dei rapporti di concessione.

Procedure di affidamento e pubblicazione del bando relativo alle concessioni di lavori pubblici (art. 144)

L’innovazione maggiormente significativa è contenuta nel comma 1, ove viene previsto che le concessioni possano essere affidate, non solo con procedura ristretta (licitazione privata, come dispone l’art. 20, comma 2, della legge n. 109), ma anche con procedura aperta (asta pubblica o pubblico incanto), utilizzando il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa (come già dispone l’art. 21, comma 2, della legge n. 109).

Sembra applicabile, altresì, anche la procedura negoziata (cfr. art. 149, comma 2 e art. 151, comma 1) in quanto la relazione precisa che il recepimento della direttiva “comporta il superamento dell’art. 20, l. 109 del 1994, che da un lato vietava il ricorso alla trattativa privata per l’affidamento delle concessioni….”

La relazione sottolinea che la previsione come unico criterio di aggiudicazione di quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa (già previsto dall’art. 21, comma 2, della legge n. 109), “risponde ad un criterio logico, apparendo il criterio del prezzo più basso intrinsecamente incompatibile con la complessità della concessione dei lavori pubblici”.

Le altre disposizioni dell’articolo recano le norme relative al contenuto ed alla pubblicazione del bando da parte delle stazioni appaltanti in conformità a quanto previsto dall’art. 58 della direttiva 2004/18/CE. Le norme relative al contenuto del bando di gara hanno un contenuto più puntuale rispetto a quelle recate dal corrispondente art. 85 del DPR 554 del 1999.

Obblighi e facoltà del concessionario in relazione all’affidamento di lavori a terzi di una parte dei lavori (art. 146)

Rispetto alle norme già vigenti (art. 2, comma 3, secondo par. della legge n. 109) che prevedono già la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici (nel testo dell’art. 146 stazioni appaltanti) di imporre al concessionario di affidare a terzi appalti corrispondenti ad una percentuale non inferiore al 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione, viene specificato che tale aliquota deve essere indicata, non solo nel contratto di concessione, ma anche nel bando di gara. Si rinvia alla scheda Affidamento di lavori nelle concessioni per un breve commento all’Atto di segnalazione AS336 con cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici hanno richiesto – invece – la modifica sostanziale di tale normativa.

Affidamento al concessionario di lavori complementari (art. 147)

L’articolo, recependo puntualmente l’art. 61 della direttiva, disciplina nel dettaglio i lavori complementari, vale a dire quei lavori non contemplati nel progetto iniziale, per i quali le disposizioni della legge quadro dettavano, invece, una disciplina più generica (art. 2, comma 3, della legge n. 109).

L’articolo prevede che il loro importo non debba superare il 50% del valore dell’opera iniziale oggetto della concessione e deve trattarsi, comunque, di lavori divenuti necessari a seguito di circostanza imprevista, la cui esecuzione non può essere separata tecnicamente o economicamente dall’appalto iniziale senza gravi inconvenienti. Tali lavori possono essere affidati direttamente, senza l’osservanza delle procedure previste dal codice. La finalità della disposizione, in armonia con la volontà del legislatore comunitario, è, pertanto, quella  di salvaguardare l’esecuzione dell’opera da portare a termine, sicché viene previsto che l’esecuzione di tali lavori sia direttamente eseguita dal concessionario o per il tramite di imprese collegare o controllate.

Disposizioni applicabili agli appalti aggiudicati dai concessionari che sono amministrazioni aggiudicatici (art. 148)

L’articolo riproduce quanto già previsto dal precedente art. 142, comma 3, del codice in esame, prevedendo che alle concessioni di lavori pubblici nonché agli appalti di lavori pubblici affidati dai concessionari che sono amministrazioni aggiudicatici si applichino le disposizioni del codice in quanto non derogate (vedi commento all’articolo 142).

Disposizioni in materia di pubblicità applicabili agli appalti aggiudicati dai concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatici (art. 149)

L’articolo specifica, rispetto alla disciplina già delineata dal precedente art. 142, comma 4, sull’applicabilità delle disposizioni in materia di pubblicità per gli appalti di lavori con valore superiore alla soglia prevista per i lavori pubblici dalla direttiva (5.278.000 euro) indetti dai concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatici, le  “imprese collegate” nel caso in cui le imprese, e quelle collegate, si raggruppino per ottenere la concessione.

Non è necessaria alcuna pubblicità se l’appalto di lavori rientra tra quelli affidati con procedura negoziata (comma 2).

Nel comma 7è stata introdotta una procedura di controllo sul rispetto delle disposizioni in materia di pubblicità da parte dei concessionari/non amministrazioni aggiudicatici, volta ad attivare la vigilanza dell’Autorità dei lavori pubblici.

Pubblicazione del bando negli appalti aggiudicati dai concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatici (art. 150); Termini per la ricezione delle candidature e per la ricezione delle offerte negli appalti aggiudicati dai concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatici (art. 151)

I due articoli, che recepiscono gli artt. 64 e 65 della direttiva 2004/18/CE, rinviano, per la disciplina da adottare in materia di pubblicità alle norme contenute nell’art. 66 relative alla modalità di pubblicazione degli avvisi e dei bandi. Inoltre l’art. 151 fissa termini diversi rispetto a quelli previsti dalla disciplina generale all’art. 70 sia per la presentazione delle domande (non inferiore a 37 giorni dalla data di spedizione del bando) che per la ricezione delle offerte (non inferiore a 40 giorni).

Opere strategiche - Progetto preliminare, procedura di valutazione di impatto ambientale e localizzazione (art. 165, comma 10)

Il comma 10 è stato inserito al fine di tener conto delle disposizioni recate dal decreto legge n. 63 del 2005, artt. 2-ter, 2-quater e 2 quinquies, che hanno introdotto, durante la fase della progettazione preliminare, una particolare procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico nelle aree oggetto di progettazione.

Si osserva l’erroneo rinvio all’art. 40, comma 2, dell’allegato tecnico di cui all’allegato XXI, che dovrebbe, invece, essere sostituito con il riferimento all’art. 38, comma 2, recante, appunto, le specifiche norme in materia di verifica preventiva dell’interesse archeologico.

Opere strategiche - Concessioni relative ad infrastrutture (art. 174, comma 2)

Dal comma 2, nel quale sono trasfuse le norme del comma 3 dell’art. 7 del d.lgs. n. 190, sono state espunte le disposizioni indicate nella lett. a) del citato comma 3 relative al subappalto e che prevedono, nei rapporti del concessionario con i propri appaltatori, che il soggetto aggiudicatore possa alternativamente :

a) imporre al concessionario di lavori pubblici di affidare a terzi appalti corrispondenti a una percentuale non inferiore al 30% del valore globale dei lavori oggetto della concessione, pur prevedendo la facoltà per i candidati di aumentare tale percentuale; detta aliquota minima deve figurare nel contratto di concessione di lavori; oppure

b) invitare i candidati a dichiarare la percentuale, ove sussista, del valore globale dei lavori oggetto della concessione che intendono affidare a terzi.

Tali disposizioni, contenute, appunto, nella lettera a) dell’art. 7 del d.lgs. n. 190 e che recepisce l’art. 60 della direttiva 2004/18/CE, sono, però, ore confluite nell’art. 146 del testo in esame.

Opere strategiche - Procedure di aggiudicazione (art. 177, commi 1, 2 e 3)

Nei commi 1 e 2 sono state soppresse, rispetto alle norme vigenti (art. 10 del d.lgs. n. 190), le disposizioni che fanno riferimento ad una delle due procedure - l’appalto concorso - per l’aggiudicazione delle concessioni e degli affidamenti a contraente generale, mantenendo solo la licitazione privata.

Si ricorda, infatti, che ai sensi di tale art. 10, comma 1, l'aggiudicazione delle concessioni e degli affidamenti a contraente generale avviene, a scelta del soggetto aggiudicatore, o mediante licitazione privata oppure tramite appalto concorso. Inoltre, per la scelta della procedura, non è richiesto il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Il comma 3mantiene, per le infrastrutture strategiche, il numero minimo di concorrenti invitati a presentare l’offerta a cinque (mentre per i settori ordinari esso viene elevato a dieci) nell’esigenza di mantenere procedure più “elastiche e snelle” nello specifico settore delle infrastrutture strategiche, ma, nel rispetto delle direttive comunitarie, viene aggiunta la previsione che il numero dei candidati deve comunque essere sufficiente ad assicurare una effettiva concorrenza.

Opere strategiche - Disciplina regolamentare (art. 180)

L’articolo è stato riformulato, rispetto all’art. 15 del decreto legislativo n. 190 in esso parzialmente trasfuso, tenendo conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003 che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità dei primi 4 commi dell’art. 15 del d.lgs. n. 190 (e la norma delegante - art. 1, comma 3, ultimo periodo della legge n. 443) relativi all’autorizzazione al Governo ad emanare regolamenti integrativi delle norme regolamentari vigenti e attuativi delle nuove norme di rango primario. La Corte ha ricordato che – per giurisprudenza consolidata – ai regolamenti di delegificazione (quali quelli previsti dai commi in oggetto, ora espunti) è inibito disciplinare materie di competenza regionale, in quanto fra norme statali e norme regionali non sussiste un rapporto gerarchico, ma di separazione di competenze.

L’art. 180 riproduce, quindi, soltanto le disposizioni del comma 5 dell’art. 15 in quanto esse non sono state investite dalla censura costituzionale a causa del loro oggetto diverso ed autonomo, poiché riguardano l’attività di monitoraggio tesa a prevenire e reprimere tentativi di infiltrazione mafiosa

Opere strategiche - Contenuto della valutazione di impatto ambientale (art. 184)

Si osserva che l’articolo in commento non ha tenuto conto del recente schema di T.U. in materia ambientale (decreto legislativo n. 152 del 2006), nel quale si è provveduto a riordinare, tra l’altro, anche le disposizioni relative alla VIA. Anche se la disciplina speciale e derogatoria delle opere infrastrutturali e strategiche è stata esclusa da tale riordino normativo, rimanendo incardinata all’interno della normativa speciale di cui al d.lgs. n. 190, la competenza sull’istruttoria relativa alla VIA di tali opere viene ora assegnata ad una nuova “Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali”, che dovrà svolgere, attraverso le sottocommissioni previste, tutte le attività già di competenza della Commissione per la VIA ordinaria, di quella per la VIA speciale relativa alle grandi opere, di quella per l’IPPC.

Pertanto i commi 2 e 3 dell’articolo in esame dovrebbero essere espunti in quanto oggetto di abrogazione espressa ai sensi dell’art. 48 dello stesso decreto legislativo n. 152 del 2006 (vedi scheda Novità relative alla VIA, VAS e IPPC).

Opere strategiche - Compiti della Commissione speciale VIA (art. 185)

Per il titolo della rubrica si rinvia a quanto appena accennato nel precedente art. 184.

Le disposizioni recate dall’art. 185 riproducono nella sostanza le norme vigenti (art. 20 del d.lgs. n. 190), salvo quella contenuta nel comma 6 dell’articolo 20, che prevede che le disposizioni del comma in questione vengano applicate anche nel caso di violazioni progettuali intervenute nella fase di progettazione esecutiva.

Si ricorda che il comma 6 del d.lgs. n. 190 prevede che nel caso vengano riscontrate modifiche del progetto che comportino significative variazioni dell’impatto ambientale, il Ministro dell’ambiente può ordinare al soggetto gestore di adeguare l’opera e, se necessario, richiedere al Cipe la sospensione dei lavori ed il ripristino della situazione ambientale a spese del responsabile. Il comma prevede, quindi, che tale procedura venga applicata anche alle variazioni progettuali intervenute nella fase della progettazione esecutiva.

Opere strategiche - Norme di partecipazione alla gara (art. 191)

Non sono stati trasposti nell’articolo 191 i commi 4 e 10 dell’art. 20 octies relativi rispettivamente ad ulteriori criteri (oltre a quelli ora confluiti nell’art. 177, comma 4) per individuare i soggetti aggiudicatari ai fini degli affidamenti a contraenti generali con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa ed alla possibilità per il soggetto aggiudicatore di annullare, in via di autotutela, l’aggiudicazione intervenuta.

Opere strategiche - Interventi per lo sviluppo infrastrutturale (art. 194)

Vengono codificati all’interno della disciplina per le opere strategiche i primi 11 commi dell’art. 5 del decreto legge n. 35 del 2005 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni dalla legge n. 80 del 2005, che contengono - tra le altre- una serie di disposizioni attraverso le quali da una parte Il CIPE destina una quota del Fondo per le aree sottoutilizzate di cui agli articoli 60 e 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, al finanziamento di interventi che, in coerenza con le priorità strategiche e i criteri di selezione previsti dalla programmazione comunitaria per le aree urbane, consentano di riqualificare e migliorare la dotazione di infrastrutture materiali e immateriali delle città e delle aree metropolitane in grado di accrescerne le potenzialità competitive e dall’altra assoggettano alla disciplina speciale prevista per le opere strategiche alcuni interventi di riqualificazione della dotazione infrastrutturale delle aree urbane e le opere/lavori previsti nell’ambito delle concessioni autostradali già assentite e la cui realizzazione o il cui completamento sono indispensabili per lo sviluppo economico del Paese.

 

Si ricordano le norme dell’art. 5, commi 1-11 del decreto legge n. 35 del 2005 ora trasfusi nell’art. 194.

Con il comma 1, si autorizza il CIPE a finanziare, in via prioritaria, a valere sugli stanziamenti dei fondi per le aree sottoutilizzate, gli interventi inclusi nel programma per le infrastrutture strategiche utilizzando a tal fine anche le risorse, che si rendono disponibili per effetto della revisione della disciplina di concessione delle agevolazioni alle attività produttive, di cui alla legge n. 488/1992.

I commi 2 e 3 dispongono in merito alla destinazione di una quota del fondo per le aree sottoutilizzate ad interventi di riqualificazione e miglioramento della dotazione infrastrutturale delle aree urbane, considerati interventi strategici.

Il comma 4 prevede che, per la realizzazione di infrastrutture con modalità di project financing, possano essere destinate risorse costituenti investimenti immobiliari degli enti previdenziali pubblici.

I commi 5 e 6 prevedono la possibilità di assoggettare alla disciplina delle cd. opere strategiche le opere ed i lavori previsti nell’ambito delle concessioni autostradali già assentite la cui realizzazione o il cui completamento sono indispensabili per lo sviluppo economico del Paese.

I commi 7, 8, 11 e 13 prevedono la possibilità di istituire la nuova figura del commissario straordinario per le opere autostradali, disciplinano i poteri di tale organo, anche in connessione al complesso normativo vigente in materia di commissari straordinari e recano le norme relative ai compensi spettanti allo stesso commissario.

Il comma 10 dispone che gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e dei permessi necessari alla realizzazione e al potenziamento dei terminali di rigassificazione sono tenuti ad esprimersi entro il termine perentorio di 60 giorni dalla richiesta, stabilendo altresì che nel caso di ritardo ingiustificato o di inerzia, il Ministero delle attività produttive provveda, senza necessità di diffida, alla nomina un commissario ad acta per gli adempimenti di competenza.

 

Si segnala una modifica apportata al comma 6, rispetto al corrispondente comma trasfuso del decreto legge, che prevede che siano i “soggetti aggiudicatori”, anziché le “stazioni appaltanti”, a provvedere all’applicazione della disciplina speciale per le opere strategiche alle opere e ai lavori di cui al comma 5 solo qualora lo ritengano più opportuno (previo parere dei commissari straordinari, ove nominati).

Appalti nel settore della difesa (artt.195 e 196)

Viene dettata – anche attraverso il riaccorpamento di norme sparse - una disciplina che deroga alla normativa generale per quel che riguarda gli appalti di lavori, servizi e forniture nel settore della difesa.

Più in particolare, l’articolo 195 elenca una serie di norme che si applicano agli appalti della difesa e lascia a un regolamento la possibilità di derogare ad altre norme(quelle della parte II).

Si osserva che per gli appalti della difesa l’articolo 10 della direttiva n. 18prevede l’applicazione di tutte le norme generalmente applicabili agli altri appalti, rinviando per quel che riguarda possibili deroghe all’articolo 296 del Trattato.

L’articolo 296 del Trattato prevede che ogni Stato membro può adottare misure per garantire la propria sicurezza, in particolare per quanto riguarda la produzione o il commercio di armi, munizioni e materiale bellico.

Si ricorda inoltre che i lavori nel settore della difesa sono attualmente disciplinati dal d.p.r. n. 170 del 2005. Le norme in commento rinviano a un regolamento la disciplina delle procedure di aggiudicazione dei lavori, dei servizi e delle forniture, senza abrogare il regolamento esistente. Il comma 5 dell’articolo 196 prevede che fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento si applichino le norme attualmente vigenti.

Contratti relativi ai beni culturali (artt. 197-205)

Gli articoli da 197 a 203 e l’art. 205 riproducono nella sostanza le norme recate dal d.lgs. n. 30/2004.

Alcune modifiche si riscontrano, invece, nell’articolo 204. In particolare al comma 3, che – come segnalato nella relazione illustrativa – non riproduce le norme dettate dall’art. 9, comma 3, del citato d.lgs. 30/2004, in merito alle regole da utilizzare nella valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, poiché ritenute incompatibili con il diritto comunitario.

Le altre disposizioni recate dall’art. 204 sono anch’esse talvolta diverse da quelle recate negli articoli 7 e 9 del citato decreto n. 30 e ciò trova giustificazione nell’esigenza di coordinamento e adeguamento con le disposizioni generali previste in altre parti dello schema di decreto (per i lavori in economia, ad esempio, le soglie vengono adeguate a quelle previste in via generale dall’art. 125).

Soggetti aggiudicatori (art.207)

Vengono recepiti gli articoli 2 e 8 della direttiva n. 17 del 2004. Novità fondamentale rispetto alla disciplina vigente è la soppressione, in coerenza con quanto previsto dalla direttiva n. 17 del 2004 della disposizione contenuta nel comma 4 dell’articolo 2 del dlgs. n. 158 del 1995, che elenca le condizioni in base alle quali deve ritenersi che il soggetto agisca secondo un diritto speciale o esclusivo

Importi delle soglie dei contratti pubblici di rilevanza comunitaria nei settori speciali (art.215)

Vengono ridefinite le soglie in base a quanto richiesto dal recepimento dell’articolo 16 della direttiva n.17 del 2004.

Estensione agli appalti di lavori e forniture dell’esenzione dell’affidamento ad imprese collegate e joint-venture(art. 218)

Viene recepito l’articolo 23 della direttiva n. 17 del 2004, che estende l’esenzione dell’affidamento ad imprese collegate dal rispetto delle prescrizioni previste dalla direttiva n. 17 del 2004 anche agli appalti di lavori e forniture, mentre in precedenza tale esenzione riguardava esclusivamente gli appalti di servizi.

Nuove ipotesi per lo svolgimento di procedura negoziata senza previa indizione di gara (articolo 221)

Vengono introdotte due nuove ipotesi di svolgimento di procedura negoziata, -sulla base delle innovazioni introdotte dalla direttiva n. 17 del 2004 - senza previa di indizione di gara: mancanza di candidatura nel caso di gara andata deserta e l’ipotesi in cui l’appalto di servizi in questione consegue a un concorso di progettazione organizzato secondo le disposizioni del codice e debba, in base alle norme vigenti essere aggiudicato al vincitore o ad uno dei vincitori di tale concorso (In tal caso i vincitori, tutti i vincitori del concorso di progettazione devono essere invitati a partecipare  ai negoziati).

Avvisi relativi agli appalti aggiudicati (art. 225)

Vengono recepite fedelmente le disposizioni delladirettiva 2004/17,che innovano rispetto alla disciplina previgente in quanto prevedono un maggiore dettaglio relativamente alle informazioni da fornire relativamente agli appalti aggiudicati. In particolare, vengono anche previste forme di comunicazione tramite avvisi per quel che riguarda i sistemi di qualificazione

Informazioni da fornire in sede di  inviti a presentare offerte (art. 226)

Viene riprodotto fedelmente l’articolo 47della direttiva che indica in modo più dettagliato rispetto alla normativa previgente le informazioni da fornire. In particolare vengono meglio specificate le informazioni da fornire nel caso di gare indette con avviso periodico indicativo.

Termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte (art. 227)

Viene recepito fedelmente l’articolo 45 della direttiva 17 del 2004 che prevede in particolare la possibilità di concordare i termini con i candidati selezionati per tutti gli enti aggiudicatori e non solo per le imprese pubbliche e i soggetti privati che godono di diritti speciali o esclusivi.

Vengono inoltre disciplinati i termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte relativamente agli avvisi periodici indicativi.

Sistemi di qualificazione (art. 228)

Viene recepito fedelmente l’articolo 49 par 3,4,5 della direttiva n. 17 del 2004. La modifica principale apportata da tale articolo alla disciplina previgente riguarda la previsione di un termine massimo (15 gg) per la comunicazione della reiezione della domanda di ammissione al sistema di qualificazione

Mutuo riconoscimento delle condizioni amministrative, tecniche o finanziarie(art. 231)

Viene recepito fedelmente l’articolo 52 della direttiva n. 17 del 2005.Rispetto alla normativa previgente tale articolo salvaguarda in modo più penetrante le prerogative dei partecipanti alle gare per quel che concerne la verifica dei requisiti per la partecipazione. In particolare, viene affermato il principio in base al quale non si possono imporre condizioni amministrative, tecniche o finanziarie a taluni operatori senza imporle ad altri e esigere prove già presenti nella documentazione disponibile.

Contenzioso (artt. 239-246)

Gli articoli 240-243 riproducono, nella sostanza, le norme vigenti in materia di accordo bonario e arbitrato, provvedendo agli adeguamenti necessari (ad esempio l’estensione anche ai servizi e alle forniture, nei limiti della compatibilità, di norme oggi previste solo per i lavori).

L’articolo 239 rappresenta invece una novità nella disciplina dei contratti pubblici, anche se – come si legge nella relazione illustrativa – deriva da una codificazione di principi di diritto vivente dettati dal codice civile.

L’articolo 244 conferma la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie in materia di contratti pubblici, provvedendo a specificare una serie di tipologie che vi rientrano, sulla scorta di quanto affermato da recenti pronunce giurisprudenziali.

Gli articoli 245-246, relativi agli strumenti di tutela e ad ulteriori norme processuali, adeguano le norme vigenti, provenienti da diverse fonti, sulla base dell’esigenza di recepire il dettato degli articoli 72 e 81, rispettivamente, delle direttive 2004/17 e 2004/18. Tali articoli richiamano, infatti, al rispetto di direttive comunitarie (89/665/CE e 92/13/CE) che – secondo quanto affermato nella relazione illustrativa – non hanno mai trovato in Italia un recepimento unitario e sistematico.

 

Affidamento di lavori nelle concessioni

Con l’Atto di segnalazione AS336 (inviato il 28 marzo 2006 al Presidente del Senato, al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro delle Attività produttive, al Ministro delle Infrastrutture e Trasporti) l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, congiuntamente, hanno espresso una serie di osservazioni e rilievi in merito alle “Modalità di affidamento di lavori nell’ambito di concessioni pubbliche”.

Scopo del documento è soprattutto quello di denunciare l’estensione dei casi nei quali tali lavori sono stati realizzati senza ricorrere a gare pubbliche.

Le considerazioni sono state formulate al termine di una verifica generale sugli effetti della “legge Merloni”, la quale prevedeva (art. 2, comma 3) che i concessionari di lavori pubblici debbano affidare a terzi almeno il 30% cento del valore globale dei lavori. La ratio di tale norma è da ricercare nella volontà del legislatore di garantire alle piccole e medie imprese dell’area in cui vengono realizzati i lavori possibilità concrete di partecipare alla realizzazione dei lavori, e di assicurare – per questa strada – il mantenimento di un adeguato livello di concorrenza. Si ricorda anche che la soglia del 30% fu introdotta perché molte concessioni, soprattutto del settore autostradale, erano state assegnate con trattativa privata, e procrastinate con apposite leggi successive.

Queste finalità risultano – dall’Atto di segnalazione inviato dalle due Authority – del tutto o in gran parte disattese.

Dall’indagine condotta dalle due autorità indipendenti, risulta – ad esempio - che Autostrade per l’Italia Spa avrebbe realizzato nel periodo considerato (1999-2005) lavori superiori a 1 milione di euro per un ammontare totale di 4 miliardi di euro. Di questi lavori, ben il 37% sarebbero stati affidati a società controllate o partecipate. Percentuali analoghe sono state riscontrate nell’intero settore delle concessioni autostradali in generale (34%).

Occorre poi considerare che molte delle concessioni attualmente in essere (e la totalità di quelle relative al settore autostradale) non sono state affidate attraverso procedure di evidenza pubblica, ma a trattativa privata (in quanto tali affidamenti sono stati effettuati prima dell’entrata in vigore della legge n. 109 del 1994).

Pertanto si è venuta a creare - in questo particolare settore dei lavori pubblici - una elusione completa della concorrenza, sia a monte, sia a valle della concessione.

Le due autorità indipendenti hanno quindi richiesto una opportuna revisione della normativa (con eventuale innalzamento della percentuale minima di lavori da affidare a terzi a mezzo di procedure ad evidenza pubblica) e comunque – indipendentemente dalla revisione normativa – hanno raccomandato sin d’ora ai soggetti concessionari di ricorrere nella più alta misura possibile a procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, al fine di garantire un più ampio confronto concorrenziale.

L’art. 146, comma 1, lettera a), del Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163 del 2006) non ha invece modificato l’ammontare dell’aliquota minima.

 

 

 

Viabilità stradale e autostradale – Le tariffe autostradali

 

La base normativa del settore è rappresentata dall’art. 11 della legge n. 498 del 1992.

Tale disposizione, al comma 1, prevede che il CIPE eserciti competenze, attraverso l’emanazione di specifiche direttive, su due fronti: il metodo di regolazione tariffaria del sistema di rete autostradale e la revisione delle tariffe autostradali.

Con la delibera 20 dicembre 1996 recante “Direttive per la revisione delle tariffe autostradali”, il CIPE ha stabilito il meccanismo di adeguamento annuale delle tariffe autostradali mediante la formula del price-cap[505]. Ha inoltre previsto che la convenzione che regola la concessione debba fissare in un quinquennio l’intervallo temporale per la revisione tariffaria e la possibilità di individuare le cause e le modalità per eventuali revisioni straordinarie della formula del price-cap.

 

È utile più in generale richiamare la convenzione del 4 agosto 1997 che regola i rapporti tra Anas e società Autostrade Spa (attualmente Autostrade per l’Italia Spa). Essa definisce il quadro complessivo degli impegni delle società concessionarie; allegato alla convenzione è il piano finanziario delle medesime società che reca gli investimenti relativi alla rete autostradale ed in base al quale si riconosce alla società la possibilità di applicare incrementi tariffari proporzionati allo stato di avanzamento del piano. Il piano finanziario è soggetto ad una revisione quinquennale.

La convenzione si articola in quattro punti cardine:

§         regime tariffario: si prevede un meccanismo di revisione delle tariffe autostradali di tipo “price-cap” con aumenti parametrati sulla base di tre variabili (inflazione programmata, recupero della produttività[506], qualità del servizio), modificabile dopo il primo quinquennio di applicazione con l’introduzione di ulteriori parametri;

§         piano d’investimenti e contributi: la convenzione e il I atto aggiuntivo(stipulato il 15 gennaio 1998) prevedono il potenziamento del collegamento autostradale tra Firenze e Bologna e la realizzazione di terze e quarte corsie su specifiche tratte;

§         definizione del contenzioso con l’ente concedente (in particolare, è stato definito il contenzioso con l’Anas relativo agli anni pregressi);

§       proroga della concessione: la convenzione fissa al 2038 la data (originariamente fissata al 2018) di cessazione della concessione.

Alla convenzione possono essere apportate delle parziali modifiche attraverso lo strumento dell’atto aggiuntivo (cd. addendum). Fino alla data odierna sono stati approvati quattro atti aggiuntivi alla convenzione, l’ultimo dei quali è stato siglato il 23 dicembre 2002.

Con la stipula del IV atto aggiuntivo le società hanno previsto di poter procedere alla realizzazione di un programma di infrastrutture con nuovi investimenti pari a 4.686 milioni di euro nel periodo 2004-2009.

Rispetto ai precedenti atti aggiuntivi, vengono inserite due sostanziali innovazioni[507]:

§         la diluizione su dieci anni degli incrementi tariffari specifici per ogni singolo nuovo investimento nell’arco del quinquennio 2003-2007 e 2008-2012

§         l’applicazione degli incrementi dal 1° gennaio successivo alla data di approvazione del progetti da parte della Conferenza dei servizi (o da parte del Cipe per le opere inserite nella legge obiettivo) e i successivi in relazione allo stato di avanzamento degli investimenti risultante dalla relazione trimestrale della società risultante al 30 settembre di ciascun anno.

Contestualmente al IV atto aggiuntivo l’ANAS e la Società Autostrade Spa hanno stipulato un verbale di accordo finalizzato all’adeguamento annuale delle tariffe autostradali[508].

 

Su tale impianto normativo è intervenuto l'art. 21 del decreto legge n. 355 del 2003[509].

Tale disposizione ha mantenuto fermi due punti peculiari del precedente impianto legislativo, vale a dire l'applicazione della regola del price cap e la periodicità quinquennale della revisione della formula tariffaria, salvo specifiche eccezioni[510].

Contestualmente, esso ha previsto:

§      ai commi 5 e 6, la procedura per l’applicazione delle variazioni  tariffarie (comunicazione della medesime da parte del concessionario al concedente, entro il 30 settembre di ogni anno; verifica da parte del concedente, nei quarantacinque giorni successivi, della correttezza delle variazioni tariffarie[511]; tempestiva comunicazione dal concedente ai Ministeri delle infrastrutture e dei trasporti e dell'economia e delle finanze e applicazione delle variazioni dal 1° gennaio dell'anno successivo);

§      al comma 7, l’approvazione a tutti gli effetti del citato IV atto aggiuntivo (con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze)[512].

 

L’indagine conoscitiva svolta dalla Commissioni riunite VIII e IX sulle prospettive di sviluppo del settore autostradale ha messo in evidenza l’esigenza di verificare quale sarà l’effettiva attuazione della nuova normativa in materia di tariffe, anche per comprendere se essa debba richiedere ulteriori interventi normativi o applicativi.

Nel corso dell’indagine, è emerso il collegamento tra la modernizzazione delle infrastrutture stradali e la ricerca di nuovi sistemi di tariffazione, che tengano conto dei costi reali dei trasporti, della necessità di un riequilibrio tra le diverse modalità di trasporto, dell'individuazione di parametri per la misurazione della qualità, della definizione dei meccanismi per la revisione delle tariffe medesime.

Le audizioni svolte, inoltre, hanno evidenziato elementi di criticità e perplessità e hanno fornito dati talvolta tra loro divergenti se non addirittura contrastanti sull’applicazione della nuova normativa[513].

 

Torino 2006 – La legge n. 48 del 2003

Al fine di permettere la realizzazione delle infrastrutture olimpiche, degli impianti necessari allo svolgimento dei giochi, delle opere viarie e delle altre opere connesse e di accompagnamento, nel corso della XIV legislatura è stata approvata dapprima la specifica legge 26 marzo 2003, n. 48 Modifiche ed integrazioni alla legge 9 ottobre 2000, n. 285, recante interventi per i Giochi olimpici invernali "Torino 2006” e, successivamente, all’approssimarsi dell’evento olimpico, una serie di singole norme contenute all’interno di alcuni decreti legge adottati per far fronte ad emergenze riscontrate in altri settori (vedi la scheda Torino 2006 – Le ulteriori disposizioni)

Le modifiche introdotte dalla legge n. 48 del 2003

Preliminarmente è opportuno illustrare sinteticamente l’impianto normativo sul quale la legge n. 48 del 2003 è intervenuta al fine di correggerne alcuni limiti riscontrati nella prima fase di attuazione.

 

Si ricorda che la legge 9 ottobre 2000, n. 285 Interventi per i Giochi olimpici invernali «Torino 2006», ha introdotto una disciplina speciale per la realizzazione sia degli impianti sportivi che delle opere infrastrutturali previste per lo svolgimento dei XX Giochi olimpici invernali «Torino 2006».

La legge ha disciplinato, altresì, la realizzazione delle opere connesse allo svolgimento dei Giochi olimpici, sulla base della “valutazione di connessione”, dichiarata con DPCM, previa intesa con il presidente della regione Piemonte, previo parere del Comitato organizzatore dei Giochi olimpici (cd TOROC).

La legge ha quindi istituito una serie di organi coinvolti nella realizzazione dell’evento, ognuno con compiti e funzioni specifiche, e in particolare l’Agenzia per lo svolgimento dei giochi e il Comitato di alta sorveglianza e garanzia.

La legge ha quindi introdotto norme procedurali speciali per la convocazione di conferenze di servizi preliminari e per la accelerazione delle procedure di VIA per i singoli interventi e di coordinamento fra interventi progettati e strumenti urbanistici, prevedendo in particolare la convocazione da parte della regione Piemonte di apposita conferenza di servizi per le necessarie variazioni, anche integrative, agli strumenti urbanistici ed ai piani territoriali (le quali divengono efficaci quando è esecutiva la determinazione di conclusione positiva del procedimento).

Tutte le opere previste dal provvedimento (le opere olimpiche propriamente dette comprese nei tre allegati con le eventuali variazioni e le opere connesse) quindi, sia quelle già individuate che quelle ancora da indicare, sono state dichiarate di pubblica utilità ai fini delle procedure di esproprio.

E’ stata, altresì, introdotta, per la prima volta nell’ordinamento nazionale, la procedura di valutazione ambientale strategica (VAS) prevista dalla direttiva 2001/42/CE[514] approvata in data 9 aprile 2000 (Decreto Giunta Regionale 45-2741)[515].

Disposizioni speciali sono state, infine, previste in materia di garanzia fidejussoria a cui è obbligato l’esecutore dei lavori e di destinazione finale dei beni (sia immobili, sia mobili e attrezzature di proprietà dell’Agenzia).

 

Con l’approvazione della legge n. 48 del 2003 si è, pertanto, ritornati sulla disciplina speciale introdotta con la legge n. 285 del 2000 apportandovi alcune modifiche e le necessarie integrazioni volte non solo a favorire una più efficace applicazione della legge ed a rendere più spediti e coordinati gli interventi necessari per lo svolgimento dell'evento olimpico, ma anche a dare soluzione ad alcuni rilievi mossi dalla Commissione europea.

La struttura organizzativa

Si è provveduto, in primo luogo, a precisare le competenze e le responsabilità degli enti e degli organi coinvolti nell'organizzazione dell'evento.

L’innovazione principale, in tal senso, è stata la costituzione – presso la regione Piemonte - di un nuovo organismo, il “Comitato di regia dei Giochi olimpici invernali Torino 2006[516] con funzioni di «cabina di regia», in particolare con compiti di indirizzo e coordinamento delle attività inerenti la preparazione dei Giochi e di verifica dei tempi e dei modi di attuazione degli interventi. Ad esso è stato sostanzialmente riconosciuto il compito di raccordare le competenze degli enti istituzionali e territoriali, del TOROC e dell'Agenzia finalizzate all'attuazione degli interventi medesimi.

Accanto a tali funzioni di carattere generale, è stata conferita al Comitato di regia, d'intesa con il TOROC, la specifica competenza relativa alla definizione dei singoli stralci del piano degli interventi ed alle rimodulazioni all'interno del piano medesimo (art. 14-bis della legge n. 285 del 2000).

Dallo spirito e dalla lettera delle nuove disposizioni, il Comitato di regia è stato chiamato essenzialmente a svolgere funzioni di supervisore, di raccordo e di coordinamento dell'azione generale utile alla realizzazione dell'evento, rappresentando in particolare la sede ove i problemi ed i contrasti sorti nel corso dell'organizzazione dei Giochi, a fronte di più soluzioni individuate, tecnicamente istruite e rappresentate dai governi locali e dal TOROC, sono stati risolti[517].

Sono state infine trasferite al Comitato di regia alcune competenze originariamente assegnate al TOROC: la titolarità della richiesta di variazioni alle opere olimpiche propriamente dette comprese nei tre allegati alla legge n. 285 e, in armonia con le generali funzioni di indirizzo e di coordinamento ad esso attribuite delle attività inerenti le finalità della legge, anche la definizione del piano degli interventi.

 

Sono state quindi definite al meglio le attività del TOROC[518], con riferimento alla esigenza di definirne la natura privatistica ed il ruolo di ente strumentale con funzioni operative ai fini della realizzazione dell'evento.

D'altra parte, il TOROC, nell'ambito della funzione di controllo sulla realizzazione complessiva dell'evento, è stato chiamato a svolgere il controllo sull'azione dell'Agenzia per lo svolgimento dei Giochi olimpici che, già per effetto della legge del 2000, e anche alla luce del nuovo interventi legislativo, ha costituito l'organo che ha operato, in coerenza con le strategie definite dal TOROC nel piano generale riepilogativo degli interventi, al fine della migliore riuscita dell'evento olimpico[519].

Al TOROC sono state, inoltre, attribuite generali funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività inerenti le finalità delle legge, tra cui quella di fornire all’Agenzia le indicazioni in merito ad una serie di attività che vanno dalla predisposizione del piano degli interventi, alla quantificazione dell’onere economico di ciascuna delle opere in esso comprese.

Al TOROC è stata, poi, assegnata la redazione per stralci del piano degli interventi, sulla base di un piano generale riepilogativo (redatto anch’esso dal TOROC).

 

Praticamente, il TOROC ha avuto, quindi, la responsabilità di organizzare le competizioni sportive e le cerimonie di apertura e chiusura dei giochi (in relazione al protocollo olimpico), gestire i villaggi olimpici ospitanti gli atleti e i tecnici, i villaggi media, il centro stampa principale e l'International Broadcasting Center. Esso ha avuto altresì il compito di coordinare i trasporti, i servizi medici, allestire le strutture temporanee necessarie ad atleti e spettatori, pianificare i servizi necessari nei siti olimpici (competitivi e non), organizzare l'accommodation e il trasporto per atleti, tecnici, sportivi, media e personale coinvolti nell'evento.

 

Le nuove disposizioni concernenti l'Agenzia per lo svolgimento dei Giochi olimpici[520] hanno offerto la soluzione ai rilievi principali segnalati in corso di attuazione della normativa previgente e, cioè, la definizione dei compiti e, dunque le responsabilità di tale organismo, anche a fronte dei rilievi formulati dalla Commissione europea con una lettera di messa in mora del settembre 2001.

Si è intervenuti, prioritariamente, al fine di definire e rafforzare il ruolo essenzialmente operativo dell'Agenzia, quale stazione appaltante nell'ambito degli interventi volti alla realizzazione delle opere strumentali allo svolgimento dei Giochi.

Il nuovo dettato normativo ha, innanzitutto, confermato che l'Agenzia, nella realizzazione del piano degli interventi predisposto dal Comitato di regia ai sensi dell'art. 14-bis della legge, doveva operare in coerenza con le indicazioni impartite dal TOROC, sulla base del piano generale riepilogativo, e ciò relativamente agli interventi, alla localizzazione degli stessi, alle caratteristiche delle opere, nonché ai tempi di attuazione.

Le novità introdotte, pertanto, dalla legge n. 48 in merito ai compiti dell’Agenzia hanno riguardato principalmente:

§         la precisazione della natura giuridica dell'organismo. È stata in particolare ribadita la personalità di diritto pubblico dell'Agenzia, che si è evidenziata nello svolgimento dei propri compiti istituzionali, e cioè nello svolgimento delle funzioni di stazione appaltante, al fine di superare in modo definitivo i rilievi comunitari[521].

§         la facoltà dell’Agenzia di delegare le funzioni di stazione appaltante ad altra amministrazione o soggetto pubblico, al fine di consentire una razionale ed efficace gestione dell'ingente carico di lavoro in relazione all'avvio contestuale delle gare d'appalto;

§         ai fini del superamento di ulteriori problemi applicativi, con particolare riguardo allo snellimento ed alla razionalizzazione delle procedure, si è reso indispensabile disporre la competenza dell’Agenzia, in quanto stazione appaltante, per le procedure espropriative e di occupazione d'urgenza, nell'area della regione Piemonte, preordinate alla realizzazione degli interventi previsti dalla legge. Tale previsione, concentrando in un unico soggetto anche tale competenza, ha consentito la velocizzazione dei tempi di attuazione delle opere. Inoltre, è stato disposto che per le opere per le quali il piano degli interventi ha individuato la definitiva destinazione, l’Agenzia deleghi le suddette funzioni espropriative all’ente beneficiario finale;

§         mentre la legge originaria stabiliva che l’Agenzia aveva la funzione di stazione appaltante per gli interventi previsti dalla stessa legge, con alcune specifiche eccezioni, con le modifiche introdotte è stato specificato che, invece, per le opere connesse - oltre alle specifiche eccezioni - l’Agenzia non eserciti la funzione di stazione appaltante (art. 3, comma 2, della legge n. 240). Nel suo insieme, la modifica è comunque da leggere in connessione con le modifiche introdotte dalla legge alla disciplina generale delle opere connesse, modifiche che hanno da un lato ammesso con chiarezza le opere connesse ai finanziamenti della legge, dall’altro introdotto norme più articolate per la loro definizione e approvazione: è infatti previsto che i soggetti competenti alla realizzazione delle opere connesse devono essere di volta in volta individuati con DPCM[522]. Naturalmente, è rimasta ferma la possibilità per tale DPCM di individuare, per le specifiche opere connesse, la stessa Agenzia quale soggetto competente alla realizzazione e stazione appaltante.

 

Si ricorda, da ultimo, che il Comitato di alta sorveglianza e garanzia ha conservato le proprie competenze come definite dalla disciplina previgente: accertamenti specifici sulla gestione, conduzione ed esecuzione degli appalti ed compito di informazione, in particolare, verso le autorità competenti sull'esito degli accertamenti effettuati.

Le opere connesse

Per opere connesse sono da intendersi quegli interventi infrastrutturali aventi una spiccata dimensione locale e comunque accessori a quelli principali relativi allo svolgimento dei Giochi olimpici invernali.

Introdotte dalla legge n. 285, la legge n. 48 del 2003 ne ha precisato la disciplina con la finalità di garantire una maggiore trasparenza nella loro realizzazione, soprattutto in relazione al fatto che, mancando una definizione di opera connessa, avrebbero potuto rientrarvi anche interventi estranei, beneficiando quindi delle procedure accelerate e semplificate previste dalla legge, oltre che delle risorse finanziarie.

Pertanto, con le integrazioni disposte dalla legge n. 48, le opere connesse sono state sottoposte ad una specifica procedura per la loro definizione ed approvazione, che ha previsto una valutazione di connessione dichiarata con DPCM, previa intesa con il presidente della regione Piemonte e previo parere del TOROC.

Con un altro DPCM, su proposta del presidente della regione Piemonte, e con l’intesa degli enti locali interessati e del TOROC, sono stati poi individuati i soggetti competenti alla loro realizzazione e, in alcuni casi, anche la destinazione finale delle stesse.

In merito alle risorse finanziarie, anche se la legge n. 48 non ha stanziato nuove risorse, tuttavia essa ha chiarito che le risorse stanziate dalla legge n. 240 avrebbero dovuto essere impegnate anche per il finanziamento delle opere connesse allo svolgimento dei giochi e, pertanto, si sono inseristi fra i soggetti autorizzati a contrarre mutui, oltre a quelli previsti originariamente dalla legge n. 240 (vale a dire l’Agenzia e l’ANAS), anche la Società italiana per il traforo autostradale del Frejius (SITAF), nonché – limitatamente alle opere connesse – la regione Piemonte, la Provincia di Torino, il comune di Torino e la società Gruppo Torinese Trasporti spa.

Relativamente all’attuazione di tali disposizioni, si ricorda che la valutazione di connessione[523] è stata effettuata con il DPCM 18 dicembre 2002[524] Approvazione delle opere connesse ai Giochi olimpici invernali Torino 2006, con il quale sono stati individuati 77 interventi prioritari connessi con i giochi olimpici, per un costo complessivo pari a 348,6 milioni di euro, di cui 246,4 finanziati con la legge n. 240 e 102,2 milioni di euro dalla Regione, la Provincia e dai Comuni interessati.

Successivamente, con il DPCM 6 giugno 2003[525] sono stati individuati i soggetti realizzatori delle opere connesse e con il DPCM 15 settembre 2003[526], sono state quindi ripartite una parte delle risorse previste dalla finanziaria del 2003 (legge n. 289/2002)[527] per il finanziamento delle 77 opere connesse (ad esclusione degli interventi sul sistema fognario, acquedotti e collettori).

Da ultimo, con il DPCM del 9 aprile 2004[528] sono state assegnate alla Regione Piemonte le risorse residue previste dalle leggi finanziarie 2002, 2003 e 2004 (leggi n. 448/2001, n. 289/2002 e n. 350/2003) da utilizzare per il finanziamento delle opere connesse (sempre ad esclusione di quelle “temporalmente differibili”)[529].

In relazione allo stato di avanzamento dei lavori delle opere connesse, la legge n. 48 ha previsto, infine, un obbligo di relazione al Parlamento, entro il 31 dicembre di ogni anno, da parte del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Il Ministro ha, pertanto, trasmesso, l’ultima relazione in data 6 giugno 2005 (Doc. CCV, n. 2).

Nella relazione è stata allegato un promemoria dell’Agenzia Torino 2006 che svolge attività di monitoraggio su tali opere, ove è stato dichiarato che le  opere non realizzate entro la fine dell’evento olimpico hanno rappresentato solo il 13% dell’importo complessivo (pari a 355 milioni di euro di cui 246 a carico dello Stato ed il resto a carico degli enti territoriali) e che il differimento delle stesse non ha compromesso il regolare svolgimento dei giochi, trattandosi di opere di generico miglioramento del bacino territoriale.

Si ricorda, da ultimo che l’art. 9-bis del decreto legge 25 ottobre 2002, n. 236 Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi in scadenza, convertito in  legge, con modificazioni dall’art. 1 della legge 27 dicembre 2002, n. 284, ha prorogato i termini concernenti la vita tecnica, le revisioni speciali e le revisioni generali degli impianti ricompresi nell’elenco delle opere connesse di cui al D.P.G.R. Piemonte n. 96 del 12 novembre 2002.

Le procedure espropriative, l’occupazione d’urgenza e temporanea

Le integrazioni recate dalla legge n. 48 hanno affidato all’ Agenzia, qualora stazione appaltante, la competenza per le procedure espropriative e di occupazione d’urgenza[530] preordinate alla realizzazione delle opere previste dalla legge n. 240. Inoltre, è stato disposto che per le opere per le quali il piano degli interventi aveva individuato già la definitiva destinazione, l’Agenzia potesse delegare le suddette funzioni espropriative all’ente beneficiario finale

 

Si ricorda che, ai sensi del TU sull’esproprio DPR n. 327 del 2001, l'autorità competente alla realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità è anche competente – in via generale - all'emanazione degli atti del procedimento espropriativo che si renda necessario (art. 6, comma 1). Quanto alla possibilità di delegare l’esercizio delle funzioni in materia di espropriazione ad altri soggetti, ai sensi dell’art. 6, comma 8, se l'opera pubblica o di pubblica utilità va realizzata da un concessionario o contraente generale, l'amministrazione titolare del potere espropriativo può delegare, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi, determinando chiaramente l'ambito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo.

 

E’ stata, inoltre, prevista la facoltà dell’Agenzia di procedere all’occupazione temporanea e – sussistendone i presupposti – d’urgenza anche dei beni attigui a quelli essenziali per la realizzazione delle opere. Ciò qualora l’occupazione si fosse resa necessaria ad integrare le finalità delle infrastrutture e degli impianti stessi e a soddisfare le prevedibili esigenze future.

L’Agenzia è stata autorizzata a procedere all’occupazione temporanea anche nel caso in cui l’occupazione è stata necessaria per la realizzazione - anche da parte del TOROC o degli enti pubblici - delle infrastrutture temporanee funzionali allo svolgimento dei giochi. Sono state quindi specificate le modalità attraverso quali esercitare tale facoltà, ovvero mediante ordinanza nella quale è stata determinata, altresì, in via provvisoria l’indennità di occupazione (art. 7-septies, commi 4 e 5, del decreto legge n. 7 del 2005, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 31 marzo 2005, n. 43).

 

In via generale, l’occupazione temporanea di aree non soggette ad esproprio è stata già prevista dal Capo XI (artt. 49 e 50) del TU n. 327. In particolare, l’art. 49, comma 1, ha disposto che l'autorità espropriante possa disporre l'occupazione temporanea di aree non soggette al procedimento espropriativo “se ciò risulti necessario per la corretta esecuzione dei lavori previsti”. In tema di indennità per l’occupazione temporanea, si ricorda che l’art. 50 stabilisce che sia dovuta al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua. Vengono, quindi, disciplinate le ipotesi di mancato accordo sull’ammontare dell’indennità e di opposizione alla stima da parte del proprietario.

Quanto, invece, all’occupazione d’urgenza, l’art. 22-bis del TU ha stabilito che, qualora l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza (tale da non consentire, in relazione alla particolare natura delle opere, l'applicazione delle disposizioni relative alla determinazione provvisoria dell’indennità, determinazione che si realizza anche in contraddittorio e acquisite le osservazioni del proprietario interessato), può essere emanato, senza particolari indagini e formalità, un decreto motivato che determina in via provvisoria l'indennità di espropriazione, e che dispone anche l'occupazione anticipata dei beni immobili necessari. L’esecuzione di tale decreto deve avvenire entro il termine perentorio di tre mesi dalla data di emanazione del decreto stesso.

Le garanzie fidejussorie e le polizze assicurative

Da ultimo la legge n. 48 ha introdotto una nuova disciplina delle garanzie fidejussorie e delle polizze assicurative alla cui stipula sono tenuti i soggetti realizzatori delle opere.

E’ stato introdotto, per l’esecutore dei lavori delle opere riguardanti i giochi olimpici di Torino, un regime di doppia garanzia fideiussoria, in luogo dell’unica garanzia disposta dall’art. 30, comma 2, della legge n. 109 del 1994. In tal modo, infatti, la garanzia fideiussoria prevista nella cd. legge Merloni si applica anche alle opere rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 285 e, a questa garanzia, si aggiunge una ulteriore garanzia speciale, del 20 per cento dell’importo dei lavori, destinata a garantire l'ultimazione delle opere olimpiche entro il termine fissato dal bando di gara[531].

Un’ultima modifica introdotta dalla legge n. 48 è consistita nella previsione che la cauzione pari al 2 per cento dell'importo dei lavori che - in base all’art. 30, comma 1, della legge n. 109 deve accompagnare l'offerta da presentare per l'affidamento dell'esecuzione dei lavori pubblici – fosse essere corredata dall’impegno del fideiussore a rilasciare, oltre alla garanzia prevista dall’art. 30, comma 2, della stessa legge n. 109, anche la garanzia speciale prevista, proprio a fronte dell’istituzione di un doppio regime di garanzia.

 

In deroga alle previsioni in tema di coperture assicurative dettate sempre dall’art. 30, commi 3 e 4, della legge n. 109 del 1994, si è consentito all’Agenzia la stipulazione di un’unica polizza assicurativa, avente ad oggetto il rischio per i danni di esecuzione, la responsabilità civile verso terzi e l’assicurazione indennitaria decennale.

 

Si ricorda che in base all’art. 30, commi 3 e 4, della legge n. 109 del 1994, l'esecutore dei lavori è obbligato a stipulare le seguenti polizze assicurative:

§         una polizza assicurativa (che tenga indenni le amministrazioni aggiudicatrici e gli altri enti aggiudicatori o realizzatori) contro tutti i rischi di esecuzione da qualsiasi causa determinati, salvo quelli derivanti da errori di progettazione, insufficiente progettazione, azioni di terzi o cause di forza maggiore, e che preveda anche una garanzia di responsabilità civile per danni a terzi nell'esecuzione dei lavori sino alla data di emissione del certificato di collaudo provvisorio;

§         una polizza indennitaria decennale, nonché una polizza per responsabilità civile verso terzi, a copertura dei rischi di rovina totale o parziale dell'opera, ovvero dei rischi derivanti da gravi difetti costruttivi.

Le risorse finanziarie

In relazione alle risorse finanziarie destinate alla realizzazione degli interventi previsti dalla legge n. 240 del 2000, esse sono state pari a un limite d'impegno quindicennale di lire 110 miliardi(56,81 milioni di euro) per l'anno 2001.

La legge n. 240 ha, inoltre, concesso alla Agenzia per il suo funzionamento, un contributo straordinario nel limite massimo di lire 5 miliardi (2,58 milioni di euro) per l'anno 2000, di lire 20 miliardi (10,33 milioni di euro) per l'anno 2001 e di lire 10 miliardi (5,16 milioni di euro) per l'anno 2002.

I finanziamenti previsti per la realizzazione degli interventi dalla legge n. 240 sono stati integrati attraverso una serie di limiti di impegno autorizzati dalle successive leggi finanziarie, come risulta dal seguente prospetto riepilogativo:

 

 (Importi in milioni di euro)

Legge

2001

2002

2003

2004

2005

Totale[532]

Legge n. 285/2000

art. 10, c. 1

56,81[533]

56,81

56,81

56,81

56,81

642,91

Legge n. 388/2000

art. 144, c. 1

 

17,56[534]

17,56

17,56

17,56

193,16

Legge n. 448/2001

art. 45, c. 1

 

17,123

31,446

31,446

31,446

345,9

Legge n. 289/2002

art. 79, c. 1

 

 

10

20

20

220

Legge n. 350/2003

art. 3, c. 128

 

 

 

 

3,5

38,5

Totale

56,81

91,493

115,816

125,816

129,316

1.440,47

 

In merito ai finanziamenti, si ricorda che, con il DPCM 14 dicembre 2001 si è  provveduto a ripartire le risorse previste dalla legge, assegnando 69,72 milioni di euro (56,81 più i contributi per l’Agenzia previsti per il 2000 e il 2001) all’Agenzia per i Giochi olimpici ed 4,65 milioni di euro all’ANAS e, successivamente si è provveduto ad un nuovo riparto con il DPCM del 30 aprile 2003.

Con il DPCM 9 aprile 2004 sono state ripartite le residue disponibilità di cui ai limiti di impegno autorizzati dalle leggi finanziarie n. 448/2001 e n. 289/2002 ed anche dal nuovo limite di impegno previsto dalla legge finanziaria n. 350/2003 (dei 3,5 milioni di euro:1,2 alla SITAF e 2,4 all’Anas).

 

Torino 2006 –Le ulteriori disposizioni

 

Al fine di garantire il completamento delle infrastrutture olimpiche per le scadenze stabilite, è stata introdotta, successivamente all’approvazione della legge n. 48 del 2003 (vedi la scheda Torino 2006 - La legge n. 48 del 2003), anche una serie di norme contenute all’interno di alcuni decreti legge adottati per far fronte ad emergenze riscontrate in altri settori.

Le varianti in corso d’opera

Ravvisata la necessità di garantire l’ultimazione delle opere funzionali allo svolgimento delle gare olimpiche, è stata in primo luogo introdotta una procedura abbreviata per l’approvazione delle varianti intervenute nel corso della realizzazione dei lavori di completamento delle opere stesse (art. 5-bis del decreto legge n. 136 del 2004[535]).

Tale nuova procedura (art. 9-bis della legge n. 240)ha disposto che le varianti intervenute per i motivi previsti dall’art. 25 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, contenute in apposita perizia suppletiva e di variante, potessero essere autorizzate dalla stazione appaltante[536] trascorsi trenta giorni dalla presentazione della richiesta - da parte della stessa - delle autorizzazioni e dei pareri obbligatori agli enti e agli uffici coinvolti, in mancanza di una comunicazione formale di motivato dissenso da parte di questi ultimi, ma a condizione che fosse assicurata la copertura economica della eventuale maggiore spesa nel quadro economico dell’intervento (si fa riferimento ad una eventuale maggiore spesa in quanto si potrebbero avere anche varianti in diminuzione migliorative).

Gli enti e gli uffici cui sono stati richiesti autorizzazioni e pareri, potevano comunque domandare una sola volta, entro dieci giorni dalla presentazione della richiesta da parte della stazione appaltante, eventuali integrazioni alla documentazione loro presentata.

Pertanto, la finalità e l’effetto della norma sono stati fondamentalmente quello di introdurre il silenzio-assenso laddove la normativa vigente non prevedeva alcun termine per l’espressione di pareri ed autorizzazioni.

Si segnala, inoltre, che la normativa ordinaria di riferimento, su questo specifico punto, non è l’art. 25 della legge n. 109 del 1994[537], che disciplina la tipologia di varianti, bensì il regolamento di attuazione, DPR n. 554 del 1999 (art. 134), cui si affiancano alcune determinazioni interpretative dell’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici, tra cui si segnala la n. 1 dell'11 gennaio 2001[538] e il DM 19 aprile 2000, n. 145 (Capitolato generale d’appalto)[539].

 

L’art. 134 del DPR n. 554 del 1999 e l’art. 10 del Capitolato generale, dispongono che tutte le variazioni al progetto appaltato che non rientrino nelle ipotesi tassativamente elencate all’art. 25 della legge n. 109 sono da considerarsi illegittime. In particolare, nessuna modificazione ai lavori appaltati può essere attuata ad iniziativa esclusiva dell'appaltatore, se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante, la violazione di tale divieto comporta l'obbligo per l'appaltatore di demolire a sue spese le opere eseguite in difformità, senza poter vantare diritti per compensi, rimborsi o indennizzi per i lavori effettuati.

Quanto alla procedura di approvazione delle varianti, il comma 3 del citato art. 134 dispone che il direttore dei lavori, verificata la necessità e l'ammissibilità della variante e sentiti preliminarmente il responsabile del procedimento ed il progettista, promuove la redazione della relativa perizia suppletiva e di variante, precisandone in particolare le motivazioni in una apposita relazione, da inoltrare alla stazione appaltante. Tale relazione dovrà essere predisposta dal responsabile del procedimento e dovrà contenere le motivazioni della variante, le cause, le condizioni e i presupposti della stessa, con riferimento specifico alla casistica prevista dall'art. 25 della legge n. 109.

Successivamente si dovranno acquisire i pareri e le autorizzazioni necessarie – per i quali l’art. 134 del regolamento non indica precisi limiti temporali[540]. Una volta acquisiti tali pareri e autorizzazioni, si potrà quindi procedere all'approvazione della perizia suppletiva e di variante.

 

Quindi, la nuova procedura, nel rispetto di quella ordinaria di cui all’art. 134 del DPR n. 554 del 1999 per l’autorizzazione di variante che richiede una perizia suppletiva e di variante e l’autorizzazione da parte della stazione appaltante, ha provveduto ad accelerarla nel caso di varianti relative “esclusivamente agli interventi per i giochi olimpici invernali di Torino del 2006[541].

Accanto a tale abbreviazione procedurale, come si è accennato, è stata comunque inserita la norma di garanzia con la finalità di tutelare il completamento integrale dell’opera, che non poteva essere pregiudicato dall’approvazione della variante stessa, prevedendo che il completamento integrale venisse comunque assicurato a valere sulle risorse disponibili, e non su ulteriori risorse necessarie a causa dell’approvazione della variante stessa.

Le opere di accompagnamento

Oltre alle opere connesse ed alle opere olimpiche propriamente dette (vedi la scheda Torino 2006 - La legge n. 48 del 2003), l’art. 21 della legge n. 166 del 2002 (cd. collegato infrastrutture) ha introdotto un’altra tipologia di opere, le opere di accompagnamento, da approvare con apposita procedura.

Tali opere che hanno compreso infrastrutture, sportive e turistiche localizzate sul territorio della Regione Piemonte, sono state individuate con apposito Programma deliberato dalla giunta regionale.

 

Le opere di accompagnamento hanno riguardato la costruzione di nuovi impianti di risalita e collegamenti sciabili, bacini d'accumulo e impianti di innevamento artificiale, sistemazione e adeguamento di piste da sci anche omologate per gare, strutture per il fondo, centri di assistenza per atleti e attrezzature, parcheggi e infrastrutture di supporto. In generale, tali opere hanno puntato allo sviluppo delle aree turistiche montane in generale, alla valorizzazione del sistema dei parchi e delle aree protette, alla promozione del turismo ecologico, a basso impatto ambientale e dei percorsi cicloturistici.

 

In merito alla procedura per la loro individuazione, si ricorda che la Giunta regionale del Piemonte, con la delibera del 13 gennaio 2003, n. 36-8210[542] ha provveduto ad approvare il“Documento di indirizzo programmatico e procedurale per la definizione e l’approvazione del Programma regionale delle Infrastrutture turistiche e sportive Piemonte 2006”[543], finalizzato alla realizzazione di circa 132 interventi a sostegno dello sviluppo turistico e sportivo in territori non direttamente coinvolti nello svolgimento dei giochi olimpici, con l’obiettivo di colmare il divario di infrastrutture e di servizi turistici che, a seguito dei giochi, caratterizzerebbe queste aree rispetto a quelle olimpiche.

Tale documento ha stabilito, altresì, che la formazione del Programma regionale previsto dall’art. 21 della legge n. 166, avvenga attraverso la predisposizione di Piani degli interventi su base provinciale – ognuno con caratteristiche di stralcio funzionale del Programma regionale – da definire attraverso protocolli d’intesa da sottoscriversi tra la regione, le province e gli enti locali e da attuare mediante la successiva stipula di accordi di programma promossi dalla regione.

Per essere ammesse nei Piani degli interventi, le opere di accompagnamento hanno dovuto rispondere ai seguenti criteri:

§         coerenza e funzionalità dell'intervento al perseguimento degli obiettivi regionali specifici e conformità ai filoni tipologici individuati;

§         impegno dei soggetti locali, direttamente interessati alla realizzazione dell'intervento, a garantire la propria quota di cofinanziamento;

§         compatibilità con gli strumenti urbanistici, di programmazione e di pianificazione sovralocale nonché con eventuali vincoli territoriali;

§         disponibilità delle aree e/o degli immobili oggetto degli interventi.

Il coordinamento attuativo del cosiddetto Programma regionale Piemonte 2006[544] è stato affidato poi a una specifica Cabina di regia regionale, prevista dal citato documento di indirizzo, e la cui composizione e compiti sono stati definiti dalla D.G.R. n. 55-9902 dell’8 luglio 2003[545].

Si ricorda, infine, che il Programma regionale Piemonte 2006 è stato sostenuto dalle risorse rese disponibili dall’art. 21, comma 3, della legge n. 166 del 2002 che ha consentito alla Regione Piemonte l’accensione di mutui a carico dello Stato, per un importo complessivo di oltre 170 milioni di euro (mediante limiti di impegno quindicennali di10,329 milioni di euro per l'anno 2003 e di 5,165 milioni di euro per il 2004).

Il cofinanziamento della Regione, a favore di ciascun opera inserita nei Piani di intervento, utilizzando le risorse messe a disposizione dall'art. 21 della legge n. 166, è stato previsto, salvo casi di particolare rilevanza strategica, fino alla misura massima del 70% del costo di investimento totale, mentre il restante 30% è rimasto a carico dell'ente locale direttamente interessato alla realizzazione dell'opera.

Le opere di accompagnamento del Comune di Limone Piemonte e disposizioni sulle opere connesse

Al fine di permettere il completamento delle opere di accompagnamento localizzate nel Comune di Limone Piemonte e inserite nel Programma degli interventi Piemonte 2006, è stata prevista una deroga in favore di tale Comune al limite massimo di indebitamento degli enti locali (art. 14-quater del decreto-legge n. 115 del 2005[546]).

Il Comune di Limone Piemonte è stato, pertanto, autorizzato, in deroga alla disciplina introdotta dalla legge finanziaria per il 2005 (comma 44 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311), a contrarre un indebitamento fino ad un massimo del 25% nell’anno 2005, al fine di garantire la realizzazione delle opere previste dal piano degli interventi Piemonte 2006, nel limite di spesa complessivo di 250.000 euro.

 

Si ricorda che il citato comma 44ha novellato l’art. 204 del TU dell’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, recante le regole e limiti per il ricorso all’indebitamento. In particolare, il comma 44 ha limitato la possibilità di indebitamento degli enti locali riducendo dal 25 al 12% delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto del penultimo anno precedente l’entità delle spese per interessi che rappresentano il livello massimo di indebitamento degli enti locali, come risultante non soltanto dall’accensione di mutui ma anche da qualunque altra forma di finanziamento reperibile sul mercato cui l’ente possa accedere. E’ stata, comunque, anche prevista (comma 45) una disciplina transitoria volta a permettere, agli enti locali che registrano i più alti livelli di indebitamento, una progressiva riduzione nel tempo dell’entità del debito.

 

Per quanto riguarda le opere di accompagnamento del Comune di Limone Piemonte, si ricorda che con la deliberazione della Giunta Regionale 16 aprile 2003, n. 3-9077[547] è stato approvato lo schema di Protocollo d’intesa[548] comprensivo del “Piano degli interventi” del Cuneese - tra cui figura anche il Comune di Limone Piemonte – e, con il D.P.G.R. del 21 aprile 2004, n. 29[549], è stato quindi approvato l’accordo di programmasiglato il 5 febbraio 2004.

Il Piano degli interventi - allegato 1 all’accordo di programma – ha compreso le seguenti opere di accompagnamento relative al Comune di Limone Piemonte[550]:

§         Nuovo impianto di arroccamento che collega il capoluogo con l’area sciabile zona Alpetta;

§         Sostituzione della seggiovia biposto “Cabanaira” con una seggiovia quadriposto;

§         Sostituzione degli impianti di Limonetto con unico impianto in due tronchi successivi;

§         Parcheggi fronte neve Panice Soprana;

§         Parcheggi fronte neve Limoneto;

§         Parcheggio interrato nel Capoluogo – Asilo;

§         Parcheggio interrato nel Capoluogo (piazza San Sebastiano).

 

Le ulteriori disposizioni recate dall’art. 14-quater del decreto legge hanno riguardato, invece, le spese per gli interventi relativi alle opere connesse allo svolgimento dei giochi olimpici che sono state escluse, limitatamente all’anno 2005, dal novero delle spese considerate ai fini del rispetto del patto di stabilità interno per gli enti locali relativo al triennio 2005-2007 (la cui disciplina è recata dai commi da 21 a 41, dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004).

 

Si ricorda che i commi da 138 a 150 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (finanziaria 2006) dettano la disciplina del patto di stabilità interno per le regioni e per gli enti locali con riferimento al triennio 2006-2008, modificando quanto stabilito per il 2006 e per gli anni successivi dall’art. 1, commi da 21 a 41, della legge n. 311 del 2004 (finanziaria 2003), e successive modificazioni.

Come già lo scorso anno, le nuove disposizioni definiscono una disciplina del Patto di stabilità interno uniforme per tutte le tipologie di enti territoriali, mantenendo un’impostazione basata sul principio dell’evoluzione controllata della spesa. Rispetto alla normativa in vigore nel 2005, che imponeva un vincolo all’incremento delle spese finali degli enti territoriali, le nuove regole del Patto di stabilità interno perseguono l’obiettivo del contenimento delle spese definendo vincoli diversificati con riferimento alle spese correnti e alle spese di conto capitale. In particolare, la nuova disciplina del Patto impone una riduzione delle spese correnti, consentendo, invece, una crescita programmata delle spese di investimento. La disciplina relativa al patto di stabilità interno per gli anni 2006-2008, dettata dai commi 138-150 della legge finanziaria, è stata illustrata dalla Circolare del Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato n. 8 del 17 febbraio 2006. Nella Circolare si evidenzia, come già per l’anno 2005, che le regole del patto di stabilità interno vanno ad incidere esclusivamente sul versante della spesa dell’ente locale, senza tener in alcun conto le entrate già previste o di nuova realizzazione (salvo quanto disposto dai commi 145 e 146). Pertanto, il livello di spesa resta comunque determinato entro il limite stabilito dalle nuove regole indipendentemente dalla dimensione o finalizzazione delle entrate.

Sviluppo Italia

Con alcune norme contenute in due decreti legge (art. 7-septies del decreto legge n. 7 del 2005[551], come modificato ed integrato dall’art. 8-bis del decreto legge n. 35 del 2005[552]) si è data sostanzialmente attuazione alla previsione di affidare una serie di attività, complementari o strumentali all’organizzazione dei giochi olimpici, alla società Sviluppo Italia[553], con l’impegno, da parte di questa ultima, di garantire il miglior esito dell'evento e delle ricadute promozionali per il territorio.

A tal fine è stata prevista la costituzione di una società a capitale interamente pubblico controllata da Sviluppo Italia S.p.A. per il coordinamento delle iniziative finalizzate ad un più efficace inserimento nel contesto territoriale dei compiti e delle attività svolte dal TOROC, cui è stato assegnato un contributo di 80 milioni di euro, incrementati a 130 milioni di euro dall’art. 8-bis del decreto legge n. 35 del 2005.

 

Si ricorda che l’eventualità di costituire una società controllata da Sviluppo Italia era già stata contemplata anche a fronte dei gravi problemi finanziari connessi con l'organizzazione delle olimpiadi torinesi, dovuti soprattutto alle difficoltà di pareggio di bilancio del TOROC alla fine del 2004. Nel corso dell’indagine conoscitiva sulle politiche di privatizzazione, svoltasi presso la Commissione Bilancio della Camera dei deputati, durante l’audizione di alcuni rappresentanti di Sviluppo Italia il 18 gennaio 2005, erano stati richiesti chiarimenti in merito all’eventualità dell’intervento di Sviluppo Italia che avrebbe potuto costituire una forma di sponsorizzazione da parte di tale società nei confronti del TOROC. In merito a tale tematica erano stati presentati anche una serie di atti parlamentari di indirizzo e di controllo (interpellanza n. 2-01384 del 2 dicembre 2004, alcune interrogazioni a risposta scritta n. 4-12411 e n. 4-12412 entrambe del 17 gennaio 2005 e n. 4-11373 del 21 ottobre 2004).

 

E’ stato disposto che, per il coordinamento delle iniziative previste, la nuova società potesse avvalersi - in via prioritaria - degli enti pubblici quali la regione Piemonte, la provincia di Torino ed il Comune di Torino e, limitatamentealla realizzazione di interventi temporanei,anche dellAgenzia per lo svolgimento dei giochi olimpici.

Ai fini dell’attuazione di tali disposizioni, è stato sottoscritto tra TOROC e Sviluppo Italia, in data 10 giugno 2005, un protocollo di intesa con il quale sono state coordinate le attività di rispettiva competenza, nell'ambito dei limiti previsti, appunto, dall’art. 7-bis del decreto legge n. 7 del 2005, come modificato dall’art. 8-bis del decreto legge n. 35 del 2005.

 

 


Protezione civile


La Protezione civile - Recenti riforme

L’ordinamento della protezione civile prima del 2001

La legge n. 225 del 1992

Il concetto di protezione civile, che in passato consisteva essenzialmente nell’azione di soccorso in favore delle popolazioni colpite da calamità, negli ultimi anni ha subito una profonda evoluzione, includendo nel proprio ambito anche la previsione e la prevenzione dei disastri naturali, oltre ad una adeguata organizzazione dell’attività di soccorso ed i successivi interventi volti al ripristino delle attività socio-economiche.

E’ su queste linee che si è articolata la legge 24 febbraio 1992, n. 225,primo significativo intervento unitario in materia, il cui principio ispiratore è stato quello di realizzare un efficace coordinamento delle attività svolte dalle diverse realtà istituzionali operanti nel settore della protezione civile, al fine di garantire nel contempo l'efficienza del sistema e la peculiarità di ogni singola competenza e funzione.

A tale scopo è stato istituito il Servizio nazionale della protezione civile quale struttura finalizzata a tutelare l'integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi. Si è scelta la formula organizzativa del “Servizio”, e cioè di un sistema organico di competenze rimesso a più enti e strutture coordinate da un’autorità centrale, per rispondere ad una logica di maggiore efficienza dell’apparato della pubblica amministrazione nella quale, accanto alle amministrazioni dello Stato e agli enti locali, assumono crescente importanza anche organizzazioni di volontariato o gruppi di privati cittadini. Infatti, fanno parte del Servizio, secondo i rispettivi ordinamenti e competenze, le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli enti pubblici, gli istituti e i gruppi di ricerca scientifica con finalità di protezione civile ed ogni altra istituzione ed organizzazione anche privata avente la medesima finalità. Al coordinamento della struttura provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, attraverso il Dipartimento della Protezione civile, operante nell'ambito della Presidenza del Consiglio.

La legge ha istituito, quali organi del Servizio nazionale, il Consiglio nazionale della protezione civile, la Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi ed il Comitato operativo della protezione civile e, quale organo di supporto, il Dipartimento della protezione civile.

 

Il Consiglio nazionale della protezione civile fissa i criteri di massima in ordine ai programmi di previsione e prevenzione, ai piani di emergenza, all’impiego coordinato delle componenti del Servizio nazionale della protezione civile.

Funzioni più propriamente strumentali ed attività di studio e ricerca sono, invece, svolte dalla Commissione nazionale per la previsione e prevenzione dei grandi rischi, mentre funzione ausiliaria del Ministro ha il Comitato operativo della protezione civile, del quale il Ministro si avvale per assicurare la direzione unitaria ed il coordinamento delle attività.

Accanto a tali organi, vengono previste le strutture operative nazionali del Servizio della protezione civile: il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, le Forze armate e di polizia, il Corpo forestale dello Stato, i Servizi tecnici nazionali, i gruppi nazionali di ricerca scientifica, l'Istituto nazionale di geofisica ed altre istituzioni di ricerca, la Croce rossa italiana, le strutture del Servizio sanitario nazionale, le organizzazioni di volontariato ed il Corpo nazionale soccorso alpino-CNSA (CAI). Tali strutture operative, in base ai criteri determinati dal Consiglio nazionale della protezione civile, sono chiamate a svolgere, a richiesta del Dipartimento della protezione civile, le attività previste dalla legge, nonché compiti di supporto e consulenza per tutte le amministrazioni componenti il Servizio nazionale della protezione civile.

 

La legge ha provveduto, inoltre, a distinguere in tre tipologie gli interventi che richiedono l’intervento della protezione civile: a) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria; b) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che comportano un intervento; c) calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari.

Al verificarsi degli eventi eccezionali di cui alla lett. c), l’art. 5 della legge ha conferito, quindi, poteri eccezionali che si esplicano attraverso la deliberazione, da parte del Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, dello stato di emergenza. Per l'attuazione degli interventi di emergenza conseguenti alla predetta dichiarazione, si provvede, nel quadro delle competenze attribuite a regioni, province e comuni, anche a mezzo di ordinanze d’urgenza in deroga ad ogni disposizione vigente. Rimane fermo solo il “rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico”. Il Presidente del Consiglio può attribuire i poteri straordinari di ordinanza ad un suo delegato.

Tale previsione di poteri straordinari è stata ovviamente indispensabile per potere effettuare gli interventi. Si pensi alle complesse normative sugli appalti pubblici, o alle discipline sul rapporto di lavoro, il cui scrupoloso rispetto avrebbe impedito – in molti casi – ogni intervento, mettendo a rischio la vita e i beni dei cittadini.

Per quanto riguarda l'assetto delle competenze normative configurato dalla legge n. 225, quest'ultima, oltre a disciplinare direttamente le competenze riservate allo Stato, rappresenta legge di principio nei confronti della potestà legislativa regionale, in particolare per quanto riguarda le attività di previsione, prevenzione e soccorso di protezione civile.

Si ricorda, infatti, che, successivamente all’emanazione di tale legge, la quasi totalità delle regioni ha provveduto a legiferare nella materia della protezione civile e che il relativo quadro normativo è caratterizzato di regola dalla convivenza di leggi attuative delle previsioni di cui alla legge n. 225 del 1992 (in particolare dell’art. 12 che disciplina le competenze regionali), accanto a leggi successive al 1998 emanate in attuazione dell’art. 108 del decreto legislativo n. 112, e di alcune leggi regionali emanate in seguito alla riforma costituzionale del 2001. Tra esse si segnalano quelle della regione Marche dell’11 dicembre 2001, n. 32, della regione Lombardia del 22 maggio 2004, n. 16, della regione Piemonte del 14 aprile 2003, n. 7 e della regione Toscana del 29 dicembre 2003, n. 67.

 

Per quanto concerne, infine, l'organizzazione delle funzioni amministrative, la legge n. 225 ha previsto la ripartizione delle competenze tra Stato, regioni ed enti locali, formazioni sociali (istituzioni ed organizzazioni, anche private, ivi compresi i cittadini ed i gruppi associati di volontariato civile; istituti e gruppi di ricerca scientifica con finalità di protezione civile; ordini e collegi professionali), in relazione alla tipologia degli eventi da affrontare ed alla dimensione degli interventi richiesti.

Il trasferimento di funzioni alle Regioni

Il nuovo processo di distribuzione delle competenze fra Stato, regioni ed enti locali, attuato con le cd “leggi Bassanini” del 15 marzo 1997, n. 59, ha riguardato anche il settore della protezione civile, prevedendo il mantenimento allo Stato dei soli compiti di rilievo nazionale.

Successivamente, con il decreto attuativo n. 112 del 31 marzo 1998 (artt. 107 - 109), è stato disposto il trasferimento di tutte le funzioni amministrative alle regioni ed agli enti locali, ad eccezione di una serie di compiti e di funzioni, espressamente indicati. Ai fini della ripartizione di competenze, il decreto legislativo ha poi adottato sostanzialmente due criteri di carattere generale:

§         allo Stato[554] competono le funzioni di generale indirizzo e coordinamento e il compito di prestare le operazioni di soccorso in occasione di eventi di una gravità tale da richiedere poteri e mezzi straordinari[555];

§         a regioni ed enti locali compete invece il soccorso in occasione di tutti gli eventi fronteggiabili in via ordinaria. Questo decentramento ha comportato anche il trasferimento alle regioni e agli enti locali di beni e risorse finanziarie da parte dello Stato.

 

In particolare è affidata alle regioni la redazione dei programmi di prevenzione e previsione (secondo gli indirizzi nazionali), la cui attuazione è poi rimessa alle province ed ai comuni; l’attuazione di interventi urgenti; la determinazione delle linee di indirizzo dei piani provinciali d’emergenza e degli interventi necessari per il ripristino della normalità nelle zone colpite da eventi calamitosi e la dichiarazione dell’esistenza di eccezionali avversità atmosferiche. Ai comuni spetta, invece, il compito di predisporre le attività di prevenzione stabilite dai piani e programmi regionali, nonché le attività relative al primo soccorso, elaborando i piani comunali di emergenza nell’ambito del proprio territorio.

 

Per quanto attiene, invece, alle attività di previsione dei rischi, è stato attribuito a regioni, province e comuni un numero consistente di funzioni, nuove rispetto al modello della legge n. 225 del 1992.

Com’è noto, le premesse del decentramento amministrativo - realizzato in materia di protezione civile dagli artt. 107-109 del decreto legislativo n. 112 - sono successivamente approdate ad una disciplina di rango costituzionale con la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, cheha inserito la protezione civile fra le materie di legislazione concorrente fra Stato e regioni. A seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale, pertanto, spetta alle regioni la potestà legislativa in materia di protezione civile, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Inoltre, con l’introduzione del principio di sussidiarietà da parte dell’art. 118 della Costituzione si è instaurato un rapporto di cooperazione tra i diversi livelli di amministrazione, nell’ambito del quale l’intervento statale è legato alle attività ad esso riservate dalla legge o nei casi di mancato esercizio delle competenze proprie delle Regioni o degli enti locali, delineando in tale modo un sistema caratterizzato da una tendenza volta all’integrazione tra i diversi livelli di intervento statale e locale.

Il risultato è stato, pertanto, quello di una gestione del Servizio di protezione civile articolata su diversi livelli di competenza e coordinata a livello centrale dal presidente del Consiglio dei Ministri, attraverso le strutture del Dipartimento della protezione civile.

Si ricorda, infatti, in merito alla pianificazione degli interventi (sia di previsione, sia di prevenzione, sia di gestione dell’emergenza) ed alla struttura decentrata della protezione civile che il sistema prevede sia una serie di piani nazionali, che una intensa attività pianificatoria a livello regionale e provinciale.

 

In particolare, all’art. 12 si prevede che “le regioni provvedono alla predisposizione ed attuazione dei programmi regionali di previsione e prevenzione in armonia con le indicazioni dei programmi nazionali”, mentre all’art. 13 si prevede che “le province partecipano all'organizzazione ed all'attuazione del Servizio nazionale della protezione civile, assicurando lo svolgimento dei compiti relativi alla rilevazione, alla raccolta ed alla elaborazione dei dati interessanti la protezione civile, alla predisposizione di programmi provinciali di previsione e prevenzione e alla loro realizzazione, in armonia con i programmi nazionali e regionali”.

Regioni, province e comuni non hanno poi solo una funzione programmatoria, ma svolgono funzioni di intervento diretto al verificarsi dell’evento calamitoso.

La legge prevede infatti la istituzione, in ogni capoluogo regionale di un Comitato regionale di protezione civile, e – in ogni capoluogo provinciale - di un Comitato provinciale di protezione civile.

Strutture dedicate alla protezione civile sono poi previste anche a livello comunale (art. 15, comma), mentre il Sindaco (e quindi la principale autorità a livello di ciascun comune) è qualificato dalla legge come “autorità comunale di protezione civile”.

“Al verificarsi dell'emergenza nell'ambito del territorio comunale, il sindaco assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al presidente della giunta regionale.

Quando la calamità naturale o l'evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile” (art. 15, commi 3 e 4).

L’istituzione dell’Agenzia di protezione civile

La riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, operata con i decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999, ha ridotto il numero dei Ministeri, prevedendo l’accorpamento di funzioni in precedenza svolte da più dicasteri, e ne ha delineato una struttura più snella, trasferendo le competenze di carattere tecnico operativo a 12 agenzie, tra cui anche l’Agenzia di protezione civile.

All'Agenzia di protezione civile, disciplinata dagli artt. da 79 a 87[556] del decreto legislativo n. 300, venivano trasferite le funzioni tecnico - operative esercitate in materia dalla Direzione della protezione civile e dei servizi antincendi del Ministero dell'interno, dal Dipartimento della protezione civile e dal Servizio sismico nazionale.

L'Agenzia, posta sotto la vigilanza del Ministero dell’interno, veniva dotata di personalità giuridica e di autonomia regolamentare, amministrativa, finanziaria, patrimoniale e contabile; essa avrebbe operato in un regime di tipo privatistico (la sua attività si prevedeva fosse disciplinata, oltre che dalle norme dello stesso decreto legislativo n. 300, da quelle del codice civile) ma comunque, soggetta al controllo successivo della Corte dei conti.

Tuttavia tale processo non ha avuto completa attuazione: la nomina degli organi ha subìto ritardi e l’adozione dello Statuto, avvenuta in data 9 maggio 2001, è stato oggetto di rilievi da parte della Corte dei conti. Contestualmente all’adozione dello Statuto e dei regolamenti doveva anche avere luogo il trasferimento all’Agenzia dei compiti svolti dalla Direzione generale della protezione civile e dei servizi antincendi del Ministero dell'interno, dal Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Servizio sismico nazionale e la contestuale soppressione delle strutture stesse.

A questo stadio del processo di attuazione del decreto legislativo n. 300 è intervenuto, invece, il decreto legge n. 343 del settembre 2001, che ha invertito il senso di marcia, sopprimendo l’Agenzia e riconducendo nuovamente in capo al Dipartimento della protezione civile il coordinamento di tutte le attività relative alla protezione civile.

La protezione civile nelle recenti riforme

Il decreto-legge n. 343 del 2001

Con l’approvazione del decreto legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, si è di nuovo intervenuti sull’assetto istituzionale delle strutture della protezione civile, modificando ancora gli indirizzi che erano stati affermati – nel contesto del riordino dell’organizzazione del Governo - con i decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999.

Con un netto cambiamento rispetto a tali linee ispiratrici, è stata soppressa l’Agenzia di protezione civile e sono state nuovamente affidate al Dipartimento della protezione civile, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, le competenze precedentemente assegnate all’Agenzia, ripristinando, da un lato, la situazione prevista dalla legge n. 225 del 1992, ma facendo anche salva, dall’altro, la ripartizione di competenze nel frattempo intervenuta con il decreto legislativo n. 112 del 1998.

Scopo di tale inversione di tendenza è stato quello di rispondere all’esigenza di “garantire una centralità politico-operativa indispensabile per assicurare il corretto e regolare funzionamento di tutte le strutture e gli organismi chiamati ad operare in questo delicato settore”[557] e alla necessità di realizzare un maggior coordinamento tra le attività di protezione civile e una centralità politico – operativa in grado di assicurare il funzionamento di tutte le strutture chiamate ad intervenire.

A tal proposito, è stato previsto che il Capo del Dipartimento della protezione civile rivolga, nel rispetto delle indicazioni fornite dal Presidente del Consiglio, alle amministrazioni statali e locali, le indicazioni necessarie a realizzare un coordinamento operativo (art. 5, comma 5).

 

In attuazione dell'art. 5, comma 5, è stata emanata recentemente la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 6 aprile 2006 relativa alla “Gestione del flusso delle informazioni con la Sala situazione Italia del Dipartimento della protezione civile - Presidenza del Consiglio dei Ministri”, pubblicata sulla G.U. n. 87 del 13 aprile 2006. La direttiva riguarda il coordinamento operativo delle emergenze dovute ad incidenti stradali, ferroviari, aerei e di mare, ad esplosioni e crolli di strutture e ad incidenti con presenze di sostanze pericolose.

 

Con l’art. 5 del decreto sono state, quindi, ricondotte al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero al Ministro dell’interno da lui delegato, le competenze in materia di protezione civile indicate dalle disposizioni della legge n. 225 del 1992 che erano state abrogate dal decreto legislativo n. 300 del 1999.

E’ stato confermato il ruolo centrale del Presidente del Consiglio (ovvero al Ministro dell’interno da lui delegato), al quale è stato affidato il potere di promuovere e coordinare le attività delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, degli enti pubblici nazionali e territoriali e di ogni altra istituzione ed organizzazione pubblica e privata presente sul territorio nazionale. Ad esso è stato affidato il compito, non espressamente indicato dalla legge n. 225, di determinare le politiche di protezione civile, di detenzione del potere di ordinanza (come, invece, già previsto dall’art. 5, comma 3, della legge n. 225) e di promozione e coordinamento delle attività delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, degli enti pubblici nazionali e territoriali e di ogni altra organizzazione pubblica e privata presente sul territorio nazionale.

Nello svolgimento di tali compiti, il Presidente del Consiglio, ai fini del coordinamento con le regioni e gli enti locali, è affiancato da un nuovo organo, il Comitato paritetico Stato–regioni–enti locali, al quale sono tenuti a partecipere rappresentanti della conferenza unificata. Le modalità di composizione e funzionamento di tale Comitato sono state determinate con DPCM del 23 settembre 2002.

Al Presidente del Consiglio dei Ministri è stata, altresì, affidata la predisposizione degli indirizzi operativi dei programmi di previsione e prevenzione dei rischi, nonché i programmi nazionali di soccorso e i piani per l'attuazione delle conseguenti misure di emergenza, di intesa con le regioni e gli enti locali. La legge n. 225 prevedeva, invece, che gli indirizzi relativi ai programmi nazionali di cui sopra (programmi di previsione, ecc.) fossero approvati dal Consiglio dei ministri, in conformità ai criteri determinati dal Consiglio nazionale della protezione civile, e che i programmi stessi fossero approvati con DPCM, sempre previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e prevedeva, infine, la loro trasmissione al Parlamento.

 

Va a questo proposito segnalato che il decreto legislativo n. 112 del 1998 ha riservato allo Stato la competenza ad adottare “gli indirizzi per la predisposizione e l’attuazione dei programmi di previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio” (art. 107, comma 1, lettera f), n. 1), ma non quella di predisposizione dei programmi nazionali di previsione e prevenzione, già previsti dall’art. 4 della legge n. 225; infatti è alle regioni che viene attribuita la funzione di predisposizione dei programmi di previsione e prevenzione dei rischi sulla base degli indirizzi nazionali (art. 108, comma 1, lettera a), n. 1).

Il successivo decreto legislativo n. 300 aveva poi attribuito il compito di predisporre gli indirizzi in questione all’Agenzia di protezione civile, affinché fossero poi sottoposti al Ministro dell’interno per la successiva approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, ed aveva abrogato l’art. 4 della legge n. 225 che prevedeva i programmi nazionali di previsione e prevenzione, nonché i programmi nazionali di soccorso ed i piani per l’attuazione delle conseguenti misure di emergenza.

Al fine di mettere ordine nelle incertezze interpretative derivanti dal sovrapporsi di tali disposizioni normative, è intervenuta la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 febbraio 2004[558]con l’obiettivo di chiarire l’attribuzione delle competenze amministrative nell’attività di protezione civile.

 

In relazione alle strutture operanti presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di protezione civile, il decreto n. 343 ha ricondotto il Servizio sismico nazionale, la Commissione grandi rischi ed il Comitato operativo della protezione civile, nell’ambito della Presidenza del Consiglio, mentre, con il decreto legislativo n. 300 tali ultime due strutture avrebbero dovuto operare presso l’Agenzia di protezione civile.

In merito alle funzioni di tali organi previste dalla legge n. 225 del 1992, sono state confermate le funzioni della Commissione grandi rischi, costituitasi con il DM 12 aprile 2002[559], quale organo consultivo tecnico - scientifico e propositivo con compiti di previsione e prevenzione delle varie situazioni di rischio e le cui modalità di funzionamento sono state, successivamente, modificate dall’art. 4 del decreto legge 30 novembre 2005, n. 245[560].

Per quanto riguarda, invece, il Comitato operativo della protezione civile, massimo organismo operativo in caso di emergenza, è stato confermato l’impianto della legge n. 225, ma con alcune significative eccezioni quali la definizione dei compiti del Comitato nella direzione e coordinamento delle attività di emergenza, precisando gli interventi di tutte le amministrazioni e gli enti interessati al soccorso e l’integrazione della composizione del Comitato anche con due rappresentanti regionali ed uno del Comitato nazionale del volontariato di protezione civile. Si ricorda che il Comitato si è costituito con il DM 2 marzo 2002[561] e successivamente, con DPCM 28 marzo 2002, ne è stata integrata la composizione. Infine, è stato previsto che la presidenza spetti al capo del Dipartimento della protezione civile, e non più al Presidente del Consiglio, come invece aveva disposto la legge n. 225.

Per quanto riguarda, poi, i compiti del Dipartimento della protezione civile, essi hanno ripreso, in parte, quelli previsti dalla legge 225, riconfermando il Dipartimento quale struttura di riferimento di cui il Presidente del Consiglio (o il Ministro dell’interno da lui delegato) si avvale per lo svolgimento delle attività di sua competenza[562]. Al Dipartimento è stato attribuito il potere di promuovere periodiche esercitazioni, stabilite d’intesa con le regioni e gli enti locali, mentre la legge n. 225 aveva attribuito tale potere di promozione al Presidente del Consiglio o al Ministro delegato, senza prevedere l’intesa con gli enti territoriali.

Oltre a tali funzioni, il decreto legge ne ha indicate delle nuove, non previste dalla legge 225, in particolare:

§         l'attività di informazione alle popolazioni interessate, per gli scenari nazionali;

§         l'attività tecnico operativa, volta ad assicurare i primi interventi, effettuati in concorso con le Regioni e da queste in raccordo con i Prefetti, fermo restando quanto previsto dall'art. 14 della legge 24 febbraio 1992, n. 225[563];

§         l'attività di formazione in materia di protezione civile, in raccordo con le Regioni;

§         la definizione, d'intesa con le Regioni, in sede locale e sulla base dei piani d'emergenza, degli interventi e della struttura organizzativa per fronteggiare gli eventi calamitosi da coordinare con il Prefetto anche per gli aspetti dell'ordine e della sicurezza pubblica.

 

In relazione alle funzioni relative al raccordo con i Prefetti, si segnala il problema della sovrapposizione di competenze tra la provincia e il Prefetto in materia di protezione civile, insorto soprattutto con l’emanazione delle leggi regionali successive alla riforma costituzionale che hanno conferito alla provincia la funzione di coordinamento delle emergenze di rilevanza provinciale. Al fine di mettere chiarezza nel riparto delle funzioni, è stata emanata dapprima la Circolare 8 maggio 2002 del Ministero dell’Interno, Dipartimento dei Vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile e, successivamente, in seguito a numerosi rilievi da parte regionale, la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2002, n. 5114[564].Nella circolare è stata sottolineata l’ineludibile esigenza di collaborazione con e tra enti territoriali nelle forme di intese ed accordi al fine di realizzare un sistema integrato di protezione civile, in grado di fornire risposte tempestive alle necessità emergenziali, evitando, al tempo stesso, il rischio di sovrapposizioni funzionali in una materia così delicata ove occorre individuare con certezza e immediatezza le responsabilità di chi coordina le attività necessarie a fronteggiare l’emergenza. Sono state, quindi, fornite una serie di indicazioni volte soprattutto ad:

§         agevolare la ricognizione del quadro normativo delle competenze in materia di protezione civile;

§         individuare i livelli di responsabilità e gestione delle emergenze;

§         indicare, per le fasi di  programmazione e pianificazione, i compiti in capo al Dipartimento della protezione civile e agli enti territoriali.

 

Inoltre, il Dipartimento della protezione civile, la cui organizzazione generale, amministrativa e contabile è stata regolamentata con il DPCM 12 dicembre 2001, formula gli indirizzi e i criteri generali nelle attività in materia di protezione civile mantenute allo Stato dal decreto legislativo n. 112 del 1998[565] che vengono poi sottoposti al Presidente del Consiglio dei Ministri per l'approvazione del Consiglio dei Ministri. Il Dipartimento, inoltre, svolge i compiti relativi alle attività concernenti la predisposizione di ordinanze da emanarsi dal Presidente del Consiglio dei Ministri ovvero dal Ministro da lui delegato.

 

Si ricorda, infine, che con il decreto legge n. 343, è stato anche esteso il campo di applicazione previsto per la dichiarazione dello stato di emergenza, includendovi anche Ia dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della protezione civile, diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza (art. 2, comma 1, lett. c) della legge n. 225).

La tematica della gestione dei c.d. “grandi eventi” comporta delicate interrelazioni con il sistema della autonomie e in primo luogo con le Regioni, considerando che la protezione civile è materia ricompresa dall’art. 117 Cost. nella legislazione concorrente

 

In relazione ai grandi eventi che hanno caratterizzato il mese di aprile 2005 (esequie del Papa Giovanni Paolo II ed elezione del nuovo Papa Benedetto XVI) il Dipartimento della Protezione civile ha provveduto alla definizione ed attuazione delle iniziative per il conseguimento urgente della disponibilità di beni, forniture e servizi necessari e strumentali per la organizzazione funzionale degli eventi stessi e delle connesse manifestazioni, per assicurare le condizioni di accoglienza ai partecipanti alle celebrazioni, anche per gli aspetti dell’assistenza e della mobilità.

Il Dipartimento, per opera del Commissario delegato – Capo Dipartimento, ha realizzato, inoltre, i necessari coordinamenti con le amministrazioni, gli enti pubblici e privati e le società di servizi, per assicurare la gestione unitaria delle iniziative e degli interventi, anche garantendo l’interscambio delle informazioni utili, in un contesto di sinergie operative[566].

 

In questo ambito assume rilievo la Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 22 ottobre 2004[567], con la quale sono stati dettati indirizzi in materia di protezione civile in relazione all’attività contrattuale riguardante gli appalti pubblici di lavori, di servizi e di forniture di rilievo comunitario.

L’emanazione della Direttiva è stata resa necessaria dall’avvio da parte della Commissione europea di procedure d’infrazione nei confronti dello Stato italiano sul presupposto che alcune ordinanze di protezione civile non sarebbero state supportate da una situazione di estrema urgenza in grado di giustificare il ricorso a procedure in deroga alla normativa comunitaria e pertanto avrebbero violato le norme comunitarie in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori di servizi e di forniture.

La direttiva ha stabilito che le ordinanze di protezione civile adottate ex art. 5, comma 2, della legge 225/1992, non devono prevedere deroghe alle disposizioni contenute nelle direttive comunitarie e che, nel caso in cui le ordinanze stesse si riferiscano a situazioni di emergenza e a “grandi eventi” ancora in atto, esse siano modificate nel senso di assicurare il rispetto delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

 

Da ultimo, al fine di diffondere in maniera più efficace la cultura della protezione civile e della prevenzione delle calamità, il decreto legge n. 343 ha introdotto anche norme dirette ad incentivare una serie di iniziative di sensibilizzazione e di informazione, quali la realizzazione di un “programma informativo nazionale di pubblica utilità”, per la cui  operatività è stata assegnata una frequenza radio nazionale in modulazione di frequenza e la garanzia di un sistema di telecomunicazioni per lo svolgimento dei compiti istituzionali del Dipartimento, sia in situazioni ordinarie che di emergenza.

 

Calamità naturali – I finanziamenti

Al verificarsi delle calamità naturali, dopo il superamento di una fase di prima emergenza, cui si fa fronte con le ordinanze che seguono alla dichiarazione dello stato di emergenza, il Governo sulla base dell’accertamento dell’effettiva entità dei danni, di solito provvede anche mediante appositi decreti legge con cui spesso destina nuove risorse finanziarie per fronteggiare le esigenze nel frattempo accertate, connesse alla prosecuzione degli interventi e all’opera di ricostruzione nei territori colpiti.

Ulteriori disposizioni volte ad integrare le somme stanziate dai provvedimenti d’urgenza, nonché a definire misure di carattere organizzativo, vengono, in genere, inserite durante l’approvazione dell’annuale legge finanziaria, che costituisce lo strumento normativo ordinario per la concessione di ulteriori finanziamenti sulla base della rimodulazione delle somme iscritte in bilancio.

Inoltre, si ricorda che con le ordinanze di urgenza possono anche essere mobilitate risorse finanziarie, a valere su un apposito Fondo, il Fondo per la protezione civile, alimentato anch’esso annualmente con la legge finanziaria[568].

 

Relativamente al Fondo per la protezione civile si ricorda che esso è stato costituito - nello stato di previsione della spesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 2 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 428,convertito con modificazioni dalla legge 12 agosto 1982, n. 547. Lo stesso decreto legge, poi abrogato dall’art. 13 della legge 21 novembre 2000, n. 353, aveva previsto la gestione del Fondo mediante contabilità speciale, istituita presso la Tesoreria provinciale di Roma, autorizzandone l'utilizzazione anche in deroga alle vigenti disposizioni, comprese quelle di contabilità generale dello Stato. Gli ordini di pagamento venivano emessi a firma del Ministro per la protezione civile o di uno o più suoi delegati. Il Ministro per la protezione civile concordava con le amministrazioni statali competenti in ragione delle loro funzioni istituzionali le rispettive modalità di intervento e trasferiva dal Fondo sui singoli stati di previsione delle spese le risorse occorrenti.

In tema di finanziamento delle attività di protezione civile è successivamente intervenuto, quindi, l’art. 19 della legge n. 225 del 1992 che ha disposto la soppressione della contabilità speciale del Fondo ed il rientro del medesimo alla contabilità ordinaria stabilendo che il Ministro del tesoro apporti, con propri decreti, su proposta del Ministro per il coordinamento della protezione civile, le variazioni compensative necessarie nel corso dell'esercizio in relazione agli interventi da effettuare. Le somme relative alle autorizzazioni di spesa a favore del Fondo per la protezione civile sono iscritte, in relazione al tipo di intervento previsto, in appositi capitoli, anche di nuova istituzione, dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Successivamente, il decreto-legge 3 maggio 1991, n. 142, convertito con modificazioni dalla legge 3 luglio 1991, n. 195, all'art. 6, comma 1, ha previsto che, a decorrere dall'anno 1994, alla determinazione delle somme da destinare all'integrazione del Fondo per la protezione civile, si provveda annualmente con la legge finanziaria (Tabella C).

Infine, si ricorda che, a seguito della riforma della Presidenza del Consiglio operata dal decreto legislativo n. 303 del 1999, il Fondo è stato trasferito nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze.

 

Al riguardo, occorre, infine ricordare che con due direttive del Presidente del Consiglio dei ministri, la prima del 29 settembre 2005[569] e la seconda del 19 gennaio 2006[570], al fine di sostenere e favorire le iniziative che competono alle amministrazioni locali e alle regioni per la realizzazione di programmi urgenti di attività manutentive finalizzate alla risoluzione di specifiche e circoscritte situazioni di criticità idraulica, il Governo ha provveduto a ripartire, tra le singole regioni, 42,475 milioni di euro a valere sul Fondo per la protezione civile. I relativi interventi, segnalati dalle regioni (ma di competenza anche degli enti territoriali) dovranno iniziare e concludersi entro termini stabiliti dalla direttiva del 19 gennaio 2006 (artt. 2 e 3), pena la revoca del finanziamento.

 

Per i finanziamenti disposti dai decreti legge, dalle leggi finanziarie emanate nel corso della XIV legislatura, nonché per gli stanziamenti a valere sul Fondo nazionale per la protezione civile, si vedano le seguenti tabelle.

 


Leggi finanziarie e decreti-legge recanti finanziamenti per interventi relativi a specifiche calamità naturali (XIV legislatura)

Dati in milioni di euro

Riferimento normativo

Calamità

Importo

Tipo di stanziamento

Anno di riferimento

Legge n. 448/2001

(L.F. 2002)

 

 

 

 

art. 52, co. 51

Alluvioni 1994-2000

Piemonte

10

10

Lim. Imp.

Lim. Imp.

Dal 2002

Dal 2003

art. 52, co. 64

Sisma BasilicataCalabria 1998

2,5

 

2002

art. 45, co. 1, Tab. 2

Sisma Marche Umbria 1998

Sisma Basilicata Campania 1980-82

41,90

 

5

Lim. Imp.

 

Dal 2002

Tab. D

 

Belice 1968

5

 

2002

L. n. 166/2002

 

 

 

 

art. 42, co. 4

Sisma Foggia 1982

3

 

2002-2004

D.L. n. 245/2002

 

 

 

 

art. 5

Etna e sisma Catania 2002

Sisma Campobasso e Foggia 2002

10

 

50

 

 

2002

Legge n. 289/2002

(L.F. 2003)

 

 

 

 

art. 80, co. 21

Piano straord. edilizia scolastica

 

Quota art. 13 L. 166/2002

 

art. 80, co. 29

Alluvioni 1994, 2000/02

20

Lim. Imp.

Dal 2004

art. 80, co. 59

Avversità atmosf. 2002

50

 

2003

D.L. n. 15/2003[571]

 

 

 

 

art. 1, co. 1

Art. 5 L. n. 225/92

38

10

Lim. Imp.

Lim. Imp

Dal 2003

Dal 2004

art. 1, co. 2

Art. 5 L. n. 225/92

20

Lim. Imp.

Dal 2003

D.L. n. 269/2003

 

 

 

 

art. 32-bis

Fondo interventi straordinari

273,49

 

2003-2005


 

Legge n. 350/2003

(L.F. 2004)

 

 

 

 

art. 4, co. 87

Belice 1968

5

Lim. Imp.

Dal 2004

art. 4, co. 91

Avversità atmosf. 2002

5

Lim. Imp.

Dal 2005

art. 4, co. 91

Sisma Basilicata Campania 1980-82

5

Lim. Imp.

Dal 2005

art. 4, co. 91

Avversità atmosf. 2002

5

 

Dal 2006

art. 4, co. 91

Sisma Basilicata Campania 1980-82

5

 

Dal 2006

art. 4, co. 95

Sisma Italia centrale 1984

1

Lim. Imp.

Dal 2005

art. 4, co. 97

Valtellina alluvione 1987

2

Lim. Imp.

Dal 2005

Art. 4, co. 176, Tab. 1

Sisma MarcheUmbria 1998

15

Lim. Imp.

Dal 2005

D.L. n. 355/2003

 

 

 

 

art. 20

Sisma Campobasso Foggia 2002 e avv. atm. Massa Carrara e Taranto 2003

5

5

Lim. Imp.

Lim. Imp.

Dal 2005

Dal 2006

art. 20-bis

sisma BO 2003 e avv. atm. Friuli 2003

12

12,5

Lim. Imp.

Lim. Imp.

Dal 2004

Legge n. 311/2004

(L.F. 2005)

 

 

 

 

art. 1, co. 203

Art. 5 L. n. 225/92 con vincoli destinazione.[572]

58,5

Lim. Imp.

Dal 2005

art. 1, co. 204

Sisma Brescia 2004

30

 

2005

 

 

 

 

 

D.L. n. 273/2005

 

 

 

 

art. 39 undecies

Belice 1968

5

 

2006-2008

art. 39 duodecies

Sisma Sicilia 1981

1

 

2006-2008

Legge n. 266/2005

(L..F. 2006)

 

 

 

 

art. 1, co. 100

Art. 5 L. n. 225/92 con vincoli destinazione[573]

41

Lim. Imp.

Dal 2006

 


 

Finanziamenti ordinari al Fondo della protezione civile (XIV legislatura

Dati in milioni di euro

Riferimento normativo

Stanziamento

 

Anno di riferimento

Legge n. 448/2001 (finanziaria 2002)

 

 

Tab. C (DL 142/91, art. 6, co. 1)

 

 

Tab. D (DL 142/91, art. 6, co. 1)

154,937

92,96

 

103,291

 

2002-2004

Legge n. 289/2002 (finanziaria 2003)

 

 

Tab. C (DL 142/91, art. 6, co. 1)

 

 

Tab. D (DL 142/91, art. 6, co. 1)

154,937

92,96

 

77,000

 

2003-2005

 

Legge n. 350/2003 (finanziaria 2004)

 

 

Tab. C (DL 142/91, art. 6, co. 1)

 

154,937

103,29

2004-2006

Legge n. 311/2004 (finanziaria 2005)

 

 

Tab. C (DL 142/91, art. 6, co. 1)

 

202,888

80,45

2005-2007

Legge n. 266/2005 (finanziaria 2006)

 

 

Tab. C (DL 142/91, art. 6, co. 1)

 

203,000

80,40

2006-2008

 

 

 

 


Politiche abitative


 

Disagio abitativo

Tra gli interventi volti a dare nuovo impulso alle politiche abitative adottati nel corso della XIV legislatura, si segnalano:

§      l’avvio di alcuni programmi nazionali per l’edilizia abitativa nuova e di recupero manutentivo (in attuazione della legge n. 21 del 2001);

§      le misure dirette a favorire lo sblocco degli interventi costruttivi con finalità pubbliche e a garantire maggiore efficienza e produttività agli interventi stessi;

§      l’istituzione di due nuovi Fondi rivolti al sostegno di determinate fasce sociali: il primo destinato all’attuazione di programmi finalizzati alla costruzione o al recupero di unità immobiliari destinate a locazione a canone speciale per soggetti dotati di determinati requisiti di reddito ed il secondo per favorire l’accesso delle giovani coppie alla prima casa di abitazione.

I programmi nazionali per l’edilizia abitativa

All’avvio della XIV legislatura è stata data attuazione al maggior intervento statale nel settore dell’edilizia residenziale che era stato approvato negli ultimi mesi della legislatura precedente, la legge 8 febbraio 2001, n. 21 (Misure per ridurre il disagio abitativo ed interventi per aumentare l'offerta di alloggi in locazione), attraverso l’emanazione dei relativi decreti attuativi.

 

Con tale legge sono state introdotte misure volte a finanziare alcuni programmi nazionali per la riduzione del disagio abitativo mediante interventi di edilizia residenziale pubblica rivolti a categorie sociali deboli ed alla riqualificazione delle periferie. La legge ha altresì previsto che i fondi di edilizia sovvenzionata ed agevolata, già ripartiti tra le regioni, possano essere da queste riprogrammati, per rispondere alle specifiche esigenze delle singole realtà territoriali, anche senza tenere conto dei vincoli posti da precedenti delibere del CIPE[574].

 

I tre decreti attuativi,emanati tutti in data 27 dicembre 2001[575],hanno riguardato:

§         l’avvio di un programma, "Ventimila abitazioni in affitto", destinato alla realizzazione ed al recupero di alloggi da concedere in locazione a canone convenzionato;

§         la realizzazione di un piano di edilizia residenziale per anziani, “Alloggi in affitto per gli anziani del 2000", con affitti agevolati permanenti;

§         l’avvio di “Programmi innovativi in ambito urbano”, volti alla riqualificazione di quartieri periferici o comunque degradati di comuni e città dove è più forte il disagio abitativo.

Al fine di garantire la piena realizzazione di tali programmi, sono stati successivamente adottati anche diversi decreti ministeriali[576].

I nuovi Fondi per il sostegno di determinate fasce sociali

Al fine di darenuovo impulso alle politiche abitative, sono stati istituiti due nuovi Fondi per il sostegno di determinate fasce sociali, che si collocano accanto al Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione (istituito dall’art. 11 della legge n. 431 del 1998)[577].

In particolare, l’art. 3, commi 108-115, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 la (legge finanziaria 2004) ha istituito il Fondo per l’edilizia a canone speciale finalizzato all’attuazione di programmi di costruzione e recupero di unità immobiliari, con il vincolo di destinazione delle unità suddette alla locazione a canone speciale a soggetti dotati di determinati requisiti di reddito. La ripartizione annuale del Fondo per l’edilizia a canone speciale, la cui prima dotazione è pari complessivamente a 20 milioni di euro per il triennio 2004-2006, avviene, tramite DPCM, solo fra le regioni nei cui territori si trovino comuni ad alta tensione abitativa[578].

Il comma 113 della disposizione da ultimo citata definisce i requisiti di reddito dei soggetti che possono accedere alla locazione a canone speciale, prevedendo che ad essere ammessi siano i nuclei familiari il cui reddito annuo è superiore a quello massimo previsto per la concessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma inferiore all'importo massimo determinato dalla regione nel cui territorio si trovano gli alloggi. La regione può comunque differenziare tale importo in funzione dell’andamento del mercato delle locazioni e dell’incidenza delle situazioni di disagio abitativo sul totale della popolazione residente.

Tale normativa riprende, parzialmente, i contenuti di una proposta di legge all’esame della VIII Commissione (Ambiente), AC 3004 Verro ed altri[579], recante un insieme di misure integrative della riforma attuata con la legge n. 431 del 1998, con la finalità di favorire, tra l’altro, la locazione della prima abitazione a canoni più contenuti rispetto alle quotazioni del mercato[580], sulla scia di una tendenza, rafforzata anche dall’esperienza del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, che rivaluta le politiche di locazione (piuttosto che quelle di proprietà dell’alloggio) quale più efficace strumento per favorire l’accesso all’alloggio da parte di soggetti in difficoltà rispetto alle condizioni del mercato immobiliare. Per un approfondimento delle disposizioni in materia di locazioni si veda la scheda Modiche alla normativa sulle locazioni.

 

Sui contenuti complessivi dei commi 108-115 deve segnalarsi un profilo di problematicità derivante dalla più recente giurisprudenza costituzionale relativa agli interventi speciali dello Stato (ex art. 119 Cost.) in ambiti materiali esclusi dalla competenza normativa statale. In particolare, le due sentenze n. 16 e n. 49 del 2004 sembrano considerare non compatibili con i nuovi principi del riparto materiale di competenze legislative fra Stato e regioni e del federalismo fiscale le norme che dispongono la creazione di fondi separati a gestione ministeriale con finalità “non riconducibili a materie o compiti di competenza esclusiva dello Stato” (sent. n. 16/2004).

Secondo la Corte costituzionale, infatti, non sarebbe possibile invocare il quinto comma dell’art. 119 Cost. nei casi in cui le risorse aggiuntive non abbiano quel carattere di specialità e quelle finalità di perequazione su cui è centrata la norma costituzionale. In tema di destinazione da parte dello Stato di “risorse aggiuntive”, la Corte richiede la sussistenza di almeno uno dei due requisiti:

§       ambito materiale riconducibile ad un competenza esclusiva dello Stato;

§       individuazione dei soggetti destinatari (o per lo meno non indeterminatezza dei soggetti destinatari);

La mancanza di entrambi i requisiti configurerebbe lo stanziamento di risorse aggiuntive come lesivo delle competenze regionali in quanto tali competenze ne risulterebbero indirettamente svuotate. D’altro canto tale effetto non troverebbe giustificazione nelle finalità perequative, negate dalla indeterminatezza stessa dei soggetti destinatari.

 

Con la legge finanziaria per il 2005 (art. 1, comma 111, legge 30 dicembre 2004, n. 311) è stata, invece, introdotta una normativa speciale per agevolare l’accesso alla prima casa per le giovani coppie, attraverso l’istituzione, per l’anno 2005, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, di un Fondo per il sostegno finanziario all’acquisto di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale in regime di edilizia convenzionata dalle seguenti tipologie di imprese: cooperative edilizie; aziende territoriali di edilizia residenziale pubbliche (cd. ATER) ed imprese private.

La dotazione finanziaria del fondo per l’anno 2005 è stata fissata in 10 milioni di euro ed un apposito decreto interministeriale, che non è stato ancora emanato, dovrà provvedere alla fissazione dei criteri per l’accesso al fondo e dei limiti di fruizione dei benefici previsti.

 

Con l’espressione “edilizia convenzionata” si fa riferimento alla tipologia di realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica introdotta dall'art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (cd. legge sulla casa) e successivamente disciplinata dall’art. 7 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli). La legge n. 865 ha previsto, per la realizzazione di interventi nelle aree comprese nei piani di zona, approvati ai sensi della legge n. 167 del 1962, la concessione da parte dei comuni o di loro consorzi del diritto di superficie per la costruzione di alloggi e dei relativi servizi urbani e sociali. La concessione è deliberata unitamente alla convenzione, da stipularsi tra ente concedente e soggetti concessionari. È prevista altresì la possibilità di cessione delle aree in proprietà. In caso di concessione del diritto di superficie, la convenzione può essere stipulata sia con privati, singoli o riuniti in cooperative, che con gli enti pubblici operanti istituzionalmente nel settore dell'edilizia residenziale pubblica. Le aree cedute in proprietà possono essere assegnate, indifferentemente, a singoli o a cooperative, a proprietà indivisa o meno, con preferenza per i proprietari delle aree espropriate.

La materia è attualmente disciplinata dagli artt. 17 e 18 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico edilizia). In particolare l’art. 17, comma 1, prevede testualmente che “nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall'articolo 18”; il successivo comma 2 dispone che il contributo per la realizzazione della prima abitazione sia pari a quanto stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore. Il comma 3 disciplina i casi in cui il contributo di costruzione non è dovuto e il successivo comma 4 prevede che relativamente agli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato il contributo di costruzione sia commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione.

 

Disposizioni aventi analoga finalità erano contenute anche nell’art. 46 della legge n. 289 del 2002 (finanziaria 2003) che - nel dettare nuove regole per l’impiego e la gestione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali[581] - ha prevedeva che la ripartizione annuale del Fondo fosse effettuata dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza unificata e che almeno il 10% delle disponibilità dovesse essere destinato a sostegno delle politiche a favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l'acquisto della prima casa di abitazione e per il sostegno alla natalità.

La sentenza della Corte costituzionale n. 423/2004 ha, tuttavia, dichiarato l'illegittimità costituzionale della di tale vincolo di destinazione, in quanto ritenuto lesivo del sistema di autonomia finanziaria regionale, delineato dall’art. 119 Cost. Conseguentemente, nell’ultimo decreto con cui sono state ripartite le risorse del Fondo (DM 22 luglio 2005) non compare più lo stanziamento previsto quale contributo per la prima casa presente, invece, nel precedente DM del 1° luglio 2004 (con 173,435 milioni di euro).

 

L’art. 1, comma 598, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (leggefinanziaria per il 2006) prevede che, nell’ambito di una serie di disposizioni di semplificazione in materia di alienazioni di immobili di proprietà degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP), i proventi conseguenti alle predette alienazioni vengano destinati, oltre che alla realizzazione di nuovi alloggi ed a promuovere il recupero sociale dei quartieri degradati e ad azioni in favore di famiglie in particolare stato di bisogno, anche al contenimento degli oneri dei mutui sottoscritti da giovani coppie per l’acquisto della prima casa.

 

Nella stessa legge finanziaria (art. 1, comma 336) è stata prevista anche l’istituzione, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, di un altro Fondo avente la funzione di agevolare la concessione, da parte degli intermediari finanziari bancari e non bancari,di mutui diretti all’acquisto o costruzione della prima casa di abitazione in favore di soggetti privati in possesso di determinati requisiti[582]. Il contributo offerto ai privati si aggiunge alle ipoteche ordinarie sugli immobili e consiste nella prestazione di una “garanzia di ultima istanza” da parte del Fondo nei confronti degli stessi soggetti. In sostanza, attraverso l’istituzione di tale Fondo si mettono a disposizione risorse in favore dei soggetti privati che normalmente incontrano difficoltà nell’ottenere un mutuo per l’acquisto della prima casa.

Disposizioni specifiche a favore di determinate categorie sociali

Numerosi interventi sono stati adottati a favore di un’altra specifica categoria di destinatari, i dipendenti delle amministrazioni dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, attraverso in particolare la modifica della legislazione vigente relativa agli interventi di edilizia residenziale pubblica finalizzati alla realizzazione del programma straordinario di edilizia residenziale di cui all’art. 18 del decreto legge n. 152 del 1991.

 

L'art. 18 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 ha dato avvio ad un programma straordinario di edilizia residenziale da concedere in locazione o in godimento ai dipendenti delle amministrazioni dello Stato “quando è strettamente necessario alla lotta alla criminalità organizzata, con priorità per coloro che vengano trasferiti per esigenze di servizio”. Il medesimo articolo ha affidato la realizzazione degli interventi (tanto di recupero che di nuova costruzione) ai comuni, agli IACP, ad imprese di costruzione e loro consorzi e a cooperative e loro consorzi. Esso ha disposto, inoltre, l’assegnazione di un finanziamento attraverso un limite di impegno di 50 miliardi di lire per l'edilizia agevolata, e un finanziamento di 900 miliardi di lire per l'edilizia sovvenzionata.

 

Tali misure, contenute sia in provvedimenti legislativi ordinari sia aventi carattere d’urgenza, sia in alcune leggi finanziarie, hanno previsto:

§         disposizioni per la realizzazione degli interventi di cui al programma straordinario volte a favorire, da una parte, lo svolgimento delle gare per la realizzazione dei lavori nel caso in cui esse siano andate deserte, dall’altro la possibilità per il concessionario di contribuire con fondi propri al finanziamento statale. Sono stati quindi disciplinati ilimiti di costo applicabili alle gare di appalto e il prezzo al quale gli alloggi realizzati con il finanziamento privato possono essere ceduti agli enti locali, agli istituti autonomi case popolari o enti assimilati. È stato stabilito che i finanziamenti siano attivati comunque subordinatamente alle disponibilità esistenti - alla data di ratifica da parte del comune dell’accordo di programma – sullo stanziamento destinato alla realizzazione del programma stesso (art. 2, commi 5-8 della legge 1° agosto 2002, n. 166);

§         la rilocalizzazione del programma in altra regione, nel caso in cui la regione interessata non provveda all’attivazione degli accordi di programma entro trenta giorni dalla richiesta del soggetto proponente. A tal fine, il presidente della giunta regionale ed il sindaco del comune interessati alla nuova localizzazione, sottoscrivono un accordo di programma da ratificare entro il 31 dicembre 2007[583] (art. 4, comma 150 della legge 24 dicembre 2003, n. 350);

§         l’aumento del limite numerico degli alloggi da realizzare prevedendo, altresì, che tale modifica lasci invariato il limite volumetrico complessivo degli interventi oggetto dei programmi stessi (art. 1, comma 110, legge 30 dicembre 2004, n. 311).

 

Occorre, infine, rammentare che all’interno delle leggi finanziarie approvate nel corso della XIV legislatura (art. 61 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, art. 4, commi 223 e 225, della legge 24 dicembre 2003, n. 350; art. 1, comma 442, della legge 30 dicembre 2004, n. 311), sono state introdotte anche alcune disposizioni in materia di alienazione di alloggi ai profughi.Tra di esse alcune recano l’interpretazione autentica del comma 24 dell'art. 1 della legge 24 dicembre 1993, n. 560 in materia di alienazione di alloggi pubblici realizzati per i profughi che era stato oggetto, per la sua genericità relativa all’ambito di applicazione, di oscillanti e contrastanti pronunce giurisprudenziali[584].

Ulteriori norme relative al patrimonio abitativo

Alcune norme sul patrimonio abitativo sono state introdotte anche con l’art. 5-bis del decreto-legge 27 maggio 2005, n. 86[585], che ha previsto, tra l’altro:

§         alcune disposizioni sulle modalità di attuazione dei piani e dei programmi di edilizia residenziale pubblica in base alle quali essi possono essere portati a compimento qualora, entro sei mesi dalla data di scadenza del piano ovvero entro la data prevista per la realizzazione del programma, siano adottati gli atti o siano iniziati i procedimenti comunque preordinati all'acquisizione delle aree o all'attuazione degli interventi;

§         una modifica dell’art. 21-bis del decreto-legge 23 giugno 1995, n. 244[586], relativa alla cessione in proprietà, a titolo gratuito, a coloro che ne hanno avuto formale assegnazione, degli alloggi prefabbricati realizzati con parziale ricorso a tecniche di edilizia tradizionale costruiti dallo Stato nei territori dei comuni della Campania e della Basilicata a seguito degli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Viene fatta salva la facoltà del comune cedente di determinare un prezzo di cessione commisurato agli eventuali oneri di manutenzione sostenuti[587].

§         la possibilità per i comuni, al fine di incrementare la disponibilità di alloggi da destinare ad abitazione principale, di ridurre anche al di sotto del limite minimo previsto dalla legislazione vigente, le aliquote dell'ICI stabilite per gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, ma nel rispetto di determinate condizioni[588].

 

Tra gli interventi volti a dare nuovo impulso alle politiche abitative sono ancora da segnalare anche quelli recanti norme di semplificazione in materia di alienazioni di immobili di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti Autonomi Case Popolari (I.A.C.P.), previsti dalla legge finanziaria del 2006 (art. 1, commi 597-600, della legge n. 266 del 2005).

Tali disposizioni prevedono una modifica delle procedure di alienazione attraverso un apposito DPCM, da emanarsi entro il 1° luglio 2006, per il quale vengono fissati anche appositi  principi, relativi in particolare alle modalità di esercizio del diritto di opzione e la destinazione dei proventi delle alienazioni (tra cui la realizzazione di nuovi alloggi ed il contenimento degli oneri dei mutui sottoscritti da giovani coppie per l’acquisto della prima casa).

Viene altresì previsto che, al fine di consentire la corretta e puntuale realizzazione dei programmi di dismissione immobiliare, gli enti e gli Istituti proprietari possono affidare a società di comprovata professionalità ed esperienza in materia immobiliare e con specifiche competenze nell'edilizia residenziale pubblica, la gestione delle attività necessarie al censimento, alla regolarizzazione ed alla vendita dei singoli beni immobili.

 

Si ricorda brevemente che le norme vigenti per l’alienazione degli Istituti autonomi per le case popolari (IACP) sono quelle relative all’alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (e.r.p.), contenute nella legge n. 560 del 1993.

Il comma 1 dell’art. 1 della legge n. 560 dispone che sono alloggi di e.r.p. quelli acquisiti, realizzati o recuperati, ivi compresi quelli di cui alla legge n. 52 del 1976, a totale carico o con concorso o con contributo dello Stato, della regione o di enti pubblici territoriali, nonché con i fondi derivanti da contributi dei lavoratori ai sensi della legge n. 60 del 1963 e successive modifiche, dallo Stato, da enti pubblici territoriali, nonché dagli IACP e dai loro consorzi comunque denominati e disciplinati con legge regionale.

Talelegge prevede inoltre chele regioni, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa, formulano, su proposta degli enti proprietari, sentiti i comuni ove non proprietari, piani di vendita al fine di rendere alienabili determinati immobili nella misura massima del 75% del patrimonio abitativo vendibile nel territorio di ciascuna provincia fermo restando che gli alloggi di cui al comma 2, lett. a), possono essere venduti nella loro globalità. Trascorso tale termine, gli enti proprietari, nel rispetto dei predetti limiti, procedono alle alienazioni in favore dei soggetti aventi titolo a norma di legge. Hanno titolo all'acquisto degli alloggi gli assegnatari o i loro familiari conviventi, i quali conducano un alloggio a titolo di locazione da oltre un quinquennio e non siano in mora con il pagamento dei canoni e delle spese all'atto della presentazione della domanda di acquisto. In caso di acquisto da parte dei familiari conviventi è fatto inoltre salvo il diritto di abitazione in favore dell'assegnatario.

Il prezzo degli alloggi è invece determinato dal valore che risulta applicando un moltiplicatore pari a 100 alle rendite catastali determinate dalla Direzione generale del catasto e dei servizi tecnici erariali del Ministero delle finanze a seguito della revisione generale disposta con DM finanze del 20 gennaio 1990 (pubblicato nella G. U. n. 31 del 7 febbraio 1990), e di cui all'art. 7 del decreto legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e delle successive revisioni. Al prezzo così determinato si applica la riduzione dell'1% per ogni anno di anzianità di costruzione dell'immobile, fino al limite massimo del 20%. Il pagamento del prezzo viene infine effettuato entro quindici giorni dal perfezionamento del contratto di alienazione.

 

L’art. 1 della legge finanziaria per il 2006 contempla, comma 285, ulteriori norme relative agli immobili di edilizia residenziale pubblica (in particolare, la ridefinizione dei requisiti necessari per potere diventare proprietari di case costruite da cooperative mutuatarie della Cassa depositi e prestiti o fruenti del solo contributo erariale)e, al successivo comma 285-bis, alcune norme per favorire la dismissione di immobili non adibiti ad uso abitativo attribuiti in forza di legge ad enti privati e fondazioni, non più utili al perseguimento delle esigenze istituzionali. Viene, pertanto, previsto che la cessione di tali immobili fa venire meno l'uso governativo, ovvero l'uso pubblico, e l'eventuale diritto di prelazione spettante ad enti pubblici anche in caso di rivendita, nonché gli eventuali vincoli di destinazione. Restano fermi comunque gli obblighi derivanti dalle prescrizioni urbanistiche vigenti e dagli eventuali vincoli storici, artistici, culturali, architettonici e paesaggistici.

 

Si rammentano, infine, anche alcune disposizioni recate dalla precedente legge finanziaria del 2005 (art. 1, comma 441, della legge n. 311 del 2004) che hanno previsto il trasferimento in proprietà a titolo gratuito ai Comuni, degli alloggi e delle pertinenze di proprietà dello Stato costruiti in base a disposizioni speciali di finanziamento per sopperire ad esigenze abitative pubbliche, anche quando gli alloggi stessi siano stati affidati ad appositi enti gestori, nell’ambito del ben più ampio programma di dismissione del patrimonio abitativo pubblico (la materia delle dismissione di immobili pubblici residenziali è però riconducibile all’ordinamento tributario e contabile dello Stato e, pertanto, si veda la scheda Cartolarizzazioni di immobili pubblici).

 

Durante la XIV legislatura sono state presentate anche alcune proposte di legge volte a favorire l’accesso alla casa di abitazione, in proprietào in locazione, da parte delle famiglie con reddito insufficiente all’accesso al mercato immobiliare, soprattutto attraverso il recupero di alloggi con vincolo di destinazione ovvero l’erogazione diretta alle famiglie di contributi e agevolazioni per l’accesso alla prima abitazione.

Tra esse si ricordano, in particolare, l’AC 1411 Susini e l’AC 3607 Pagliarini che, insieme ad altre proposte di legge, sono confluite in un testo unificato che ha previsto, oltre ad alcune modifiche alla legge n. 431 del 1998 in materia di locazioni (si veda la scheda Modiche alla normativa sulle locazioni), anche delle integrazioni della legge n. 560 del 1993 sull’alienazione degli alloggi di e.r.p.

 

Le disposizioni del testo unificato prevedono che vengano ricompresi nell’ambito di applicazione della legge n. 560 anche gli alloggi di e.r.p. sottoposti alla tutela dei beni artistici, storici e architettonici, purché destinati ad abitazione civile e inseriti nei piani di vendita proposti dagli enti gestori ed approvati dalle regioni. Sono quindi introdotte norme con la finalità di agevolare gli enti locali nella vendita del proprio patrimonio di e.r.p., attraverso l’attribuzione della facoltà agli enti proprietari di procedere direttamente alla alienazione degli alloggi compresi nei piani di vendita e che si rendano liberi, anziché segnalarne la disponibilità al comune ai fini di una nuova assegnazione prima della loro vendita effettiva. Inoltre, viene prevista una soluzione alternativa nei casi in cui l’assegnatario non intenda acquistare l'alloggio condotto a titolo di locazione ed abbia diritto a rimanervi, in quanto titolare di reddito familiare complessivo inferiore al limite fissato dalle norme vigenti ai fini della decadenza dal diritto all'assegnazione, ovvero se ultrasessantenni o portatori di handicap. In tal caso, qualora l’assegnatario abbia preventivamente espresso il proprio consenso, l’ente proprietario può alienare l'alloggio a terzi, a condizione che venga garantita la prosecuzione della locazione in altri alloggi non compresi nei piani di vendita e preferibilmente ubicati in quartieri residenziali adiacenti.

 

Numerose altre proposte di legge assegnate alla Commissione VI finanze (AC 1923 Pepe ed altri, AC 394 Rodeghiero, AC 692 Turco ed altri , AC 3207 Sergio Rossi ed altri, AC 3269 Benvenuto ed altri) prevedevano,inoltre, misure di sostegno di carattere fiscale e creditizio a favore di alcuni nuclei familiari, quali le famiglie di nuova costituzione ovvero le giovani coppie.

 

Modiche alla normativa sulle locazioni

Le modifiche alla legge n. 431 del 1998

Nel corso della XIV legislatura il legislatore ha apportato alcune modifiche alla legge n. 431 del 1998, con la quale è stata attuata una riforma organica delle locazioni di immobili ad uso abitativo[589].

Tali modifiche hanno in particolare riguardato i seguenti due aspetti della legge:

§         la procedura per la stipula dei contratti appartenenti al cosiddetto “secondo canale” (sulla quale sono intervenuti la legge n. 2 del 2002 e il decreto-legge n. 240 del 2004);

§         le modalità di ripartizione del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione (modificate dal citato decreto-legge n. 240 del 2004).

 

Prima di illustrare il contenuto di tali modifiche è utile ricordare che con la legge n. 431 del 1998 è stato superato il regime vincolistico introdotto dalla cosiddetta “legge sull’equo canone” (legge n. 392 del 1978). Con essa, in particolare, pur senza pervenire alla completa liberalizzazione del canone, è stato attribuito un più ampio spazio all’autonomia contrattuale nella determinazione del medesimo. Il nucleo fondamentale del provvedimento è contenuto nell'art. 2, che individua due distinte tipologie contrattuali per le locazioni abitative. La prima tipologia è caratterizzata dalla libera contrattazione delle parti (comma 1)[590], mentre la seconda - cosiddetto “secondo canale” (comma 3) - si basa sul sostanziale recepimento, da parte del locatore e del conduttore, di contratti-tipo stipulati in sede di accordi locali tra le organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative (locazioni convenzionate). Gli accordi locali sono stipulati sulla base dei criteri generali fissati in apposito decreto del Ministro dei lavori pubblici, adottato di concerto con il Ministro delle finanze. Il contratto-tipo disciplina diversi elementi contrattuali, fra i quali, in primo luogo, l’entità del canone. La durata minima del contratto è invece fissata per legge. In particolare, i contratti del “secondo canale” non possono avere una durata inferiore a 3 anni, salvo il caso di esigenze di natura transitoria[591].

Con riferimento al primo profilo, la legge n. 2 del 2002, introducendo l’art. 4-bis nella legge n. 431, ha sostituito i contratti-tipo concordati in sede locale con i tipi di contratto definiti nel quadro della convenzione nazionale.

 

La precedente previsione secondo la quale i singoli contratti di locazione dovevano uniformarsi a contratti-tipo concordati in sede locale fra le organizzazioni maggiormente rappresentative della proprietà edilizia e dei conduttori di fatto subordinava la piena attuazione dell’art. 2, comma 3, della legge n. 431 all’iniziativa delle strutture locali delle organizzazioni di categoria. Ciò determinava un’eccessiva frammentazione, individuata dal legislatore come una delle cause dello scarso ricorso al “secondo canale”.

 

La convenzione nazionale vieneconvocata ogni tre anni per individuare i criteri generali per la definizione dei canoni  (prima quindi della stipula degli accordi in sede locale)[592]. Inoltre, i tipi di contratto possono indicare scelte alternative, da definire negli accordi locali, in relazione a specifici aspetti contrattuali, con particolare riferimento ai criteri per la misurazione delle superfici degli immobili.

 

Più specificamente, per quanto riguarda la procedura per la definizione di tali contratti tipo, l’art. 4 della legge n. 431 prevede la seguente articolazione:

§         il Ministero dei lavori pubblici (ora delle infrastrutture e trasporti) convoca le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentativi ogni tre anni, al fine di promuovere una convenzione nazionale con cui sono definiti i criteri generali per la definizione dei canoni e le modalità per garantire particolari esigenze delle parti;

§         un apposito DM, adottato di concerto con il Ministro delle finanze, indica i criteri generali su cui dovranno basarsi gli accordi locali, nonché le modalità di applicazione delle agevolazioni fiscali, previste dall’art. 8 della legge stessa[593];

§         un ulteriore DM, anch’esso adottato di concerto con il Ministro delle finanze, fissa le condizioni alle quali possono essere stipulati i contratti tipo, nel caso in cui non vengano convocate da parte dei comuni le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori ovvero non siano definiti gli accordi previsti.

 

Nell’ambito delle modifiche apportate dalla legge n. 2 del 2002 al procedimento della stipula dei contratti del secondo canale, si richiama anche un intervento di manutenzione normativa sul comma 3 dell’art. 5 della legge n. 431. Tale disposizione prevedeva la possibilità (e quindi non un obbligo come negli altri casi già descritti) per i comuni di convocare le organizzazioni sindacali e istituzioni universitarie al fine di stipulare accordi locali per la definizione di contratti-tipo per gli studenti universitari.

Con la modifica intervenuta viene eliminato il riferimento ai contratti-tipo, sostituendolo con quello relativo ai “tipi di contratto” e, conseguentemente, i tipi di contratto (di cui all’art. 4-bis) definiti dalla convenzione nazionale o dal decreto ministeriale, devono già prendere in considerazione gli studenti universitari.

 

La procedura per la stipula dei contratti del secondo canale è stata ulteriormente modificata dall’art. 7, comma 1, del decreto n. 240 del 2004[594], che ha disposto un altro intervento di coordinamento normativo relativo al meccanismo di garanzia previsto dal vigente comma 3 dell’art. 4 della legge n. 431.

 

La formulazione della norma precedente a tale intervento prevedeva che il decreto per la definizione delle condizioni per la stipula dei contratti del “secondo canale”, nel caso di mancata convocazione delle organizzazioni sindacali o di mancato accordo delle organizzazioni, dovesse riguardare solo i contratti di cui all’art. 2 comma 3 (contratti di durata non inferiore a tre anni) e non anche quelli di cui all’art. 5 (contratti di durata inferiore a tre anni per soddisfare specifiche esigenze di natura transitoria o degli studenti universitari), pur essendo tali contratti assoggettati allo stesso procedimento (definizione di criteri generali e tipi di contratto, stipula di accordi in sede locale).

 

Il legislatore è intervenuto quindi a correggere un errore di coordinamento interno della normativa, specificando che in caso di mancato accordo o mancata convocazione delle organizzazioni sindacali, il decreto dovrà definire le condizioni per la stipula sia dei contratti di cui all’art. 2, comma 3, sia di quelli di cui all’art. 5.

 

L’art. 7, commi 2 e 2-bis[595], del decreto-legge n. 240 del 2004, ha apportato una seconda rilevante modifica alla legge n. 431, relativa in particolare alle modalità di ripartizione del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione.

Tale Fondo – istituito dall’art. 11 della legge n. 431, con la finalità di destinare le sue risorse per la concessione di contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione, a favore dei conduttori appartenenti alle fasce di reddito più basse – rappresenta, a tutt’oggi, uno dei principali strumenti attraverso il quale viene fronteggiata l’emergenza abitativa.

 

In attuazione del comma 4 del citato art. 11 della legge n. 431 che prevede che siano definiti, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della legge, i requisiti minimi dei conduttori al fine di poter beneficiare dei contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione e i criteri per la determinazione dei contributi stessi in relazione al reddito familiare e all'incidenza sul reddito medesimo del canone di locazione, è stato emanato il DM Lavori pubblici del 7 giugno 1999[596].

Si segnala, inoltre, che la legge n. 21 del 2001 ha modificato le precedenti procedure di distribuzione delle risorse del Fondo. Essa in particolare ha previsto che, a decorrere dall’anno 2001, le risorse disponibili vengano ripartite, entro il 31 gennaio di ogni anno, tra le regioni e le province autonome, dal Ministro dei lavori pubblici, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, in relazione al fabbisogno accertato dalle stesse per l’anno precedente, nonché in rapporto alla quota di risorse messe a disposizione dalle singole regioni e province autonome, ai sensi del comma 6. Tale fabbisogno è comunicato al Ministero dei lavori pubblici entro il 30 ottobre di ciascun anno. È previsto, inoltre, che qualora tali risorse non siano trasferite ai comuni entro 90 giorni dall’effettiva attribuzione delle stesse alle regioni e alle province autonome, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, previa diffida alla regione o alla provincia autonoma inadempiente, nomina un commissario ad acta.

 

Le modifiche recate dal citato art. 7 riguardano:

§         il posticipo della ripartizione delle risorse del Fondo alle regioni dal 31 gennaio al 31 marzo di ogni anno;

§         a decorrere dall’anno 2005, la previsione della ripartizione delle risorse del Fondo con decreto ministeriale, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, sulla base dei criteri fissati con apposito decreto ministeriale, nonché in rapporto alla quota di risorse messe a disposizione dalle singole regioni e province autonome e non più in relazione al fabbisogno accertato dalle regioni e dalle province autonome per l’anno precedente;

§         la facoltà per i i comuni di prevedere, con delibera della propria giunta, che i contributi integrativi destinati ai conduttori vengano, in caso di morosità, erogati al locatore interessato a sanatoria della morosità medesima, anche tramite l’associazione della proprietà edilizia designata per iscritto dallo stesso locatore, che attesta l’avvenuta sanatoria con dichiarazione sottoscritta anche dal locatore. La finalità della norma è quella di perfezionare il funzionamento del Fondo nazionale, assicurando che l’erogazione di contributi integrativi a favore delle fasce di reddito più basse venga effettivamente destinata alle finalità del Fondo: il pagamento dei canoni di locazione.

 

In merito poi all’attuazione di tali nuove disposizioni, con un primo decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti del 14 settembre 2005[597]sono stati fissati i criteri di ripartizione delle risorse assegnate al Fondo, mentre con un successivo decreto del 28 novembre 2005[598] è stata effettuata l’ultima ripartizione delle risorse del Fondo alle regioni.

Si ricorda, infine, che la dotazione del Fondo è quantificata ogni anno dalla legge finanziaria (si veda la tabella allegata), mentre le singole Regioni ed i comuni possono mettere a disposizione ulteriori risorse.

Nei primi anni di applicazione della legge è stato riscontrato, a fronte di una graduale riduzione della dotazione finanziaria del Fondo da parte delle leggi finanziarie approvate, un notevole e costante incremento del fabbisogno manifestato da coloro che hanno partecipato ai bandi emanati annualmente dai comuni. Pertanto, nel 2004, si è provveduto ad incrementare la dotazione del Fondo anche con l’art. 1-bis, comma 3, del decreto-legge 12 luglio 2004, n. 168[599], autorizzando, per tale anno, una spesa di ulteriori 110 milioni di euro.

 

Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione

 

Anno

Leggi finanziarie

Stanziamenti

(in milioni di euro)

2000

L. 23 dicembre 1999, n. 488

366,68

2001

L. 23 dicembre 2000, n. 388

335,70

2002

L. 28 dicembre 2001, n. 448

249,18

2003

L. 27 dicembre 2002, n. 289

246,50

2004

L. 24 dicembre 2003, n. 350

246,01

2005

L. 30 dicembre 2004, n. 311

230,14

2006

L. 23 dicembre 2005, n. 266

310,66

Ulteriori modifiche alla normativa in materia di locazioni

L’art. 7-bis del decreto-legge n. 240 del 2004 ha introdotto ulteriori modifiche alla disciplina delle locazioni e in particolar modo alle norme di carattere processuale. Tale disposizione ha sostituito l’art. 56 della legge 27 luglio 1978, n. 392, sulle modalità di rilascio dell’alloggio locato con la finalità di garantire una maggiore tutela degli interessi delle parti(il locatore e il conduttore) interessate al provvedimento del giudice.

 

Si ricorda che il precedente testo dell’art. 56 della legge n. 392 del 1978 stabiliva che con il provvedimento che dispone il rilascio, il giudice, tenuto conto delle disposizioni del conduttore e del locatore e delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio stesso, fissa anche la data della esecuzione entro il termine massimo di mesi sei ovvero, in casi eccezionali, di mesi dodici dalla data del provvedimento.

 

Attraverso tali modifiche, viene previsto l’obbligo di motivazione del provvedimento del giudice che, disponendo il rilascio dell’immobile locato, fissa anche la data dell’esecuzione dopo la valutazione delle condizioni del conduttore e del locatore e delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio stesso e, nei casi di finita locazione, del tempo trascorso dalla disdetta.

Il nuovo comma 3 dell’art. 56 introduce inoltre, con un’evidente  finalità di garanzia, la possibilità di opposizione, sia del locatore sia del conduttore, contro i provvedimenti esecutivi di rilascio dell’immobile per finita locazione (di cui all’art. 6, comma 4, della legge n. 431), “limitatamente alla data fissata dell’esecuzione”. Non si tratta quindi di una opposizione sul diritto controverso oggetto del provvedimento, bensì soltanto sulla data fissata dal giudice per l’esecuzione.

 

Si ricorda, infine, l’introduzione, con l'art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (finanziaria 2005), di una disposizione sanzionatoria che, dalla mancata registrazione dei contratti di locazione, fa discendere la nullità degli stessi.

La finalità della norma è quella di scoraggiare la mancata registrazione dei contratti di locazione[600], attraverso una sanzione che mette nelle condizioni una delle due parti del contratto di sottrarsi agli obblighi previsti dal vincolo contrattuale in qualunque momento, qualora il contratto non sia stato registrato.

 

Proroga degli sfratti

I decreti legge adottati nella prima fase della legislatura

Nel corso della XIV legislatura, si è fatto frequente ricorso alla decretazione d’urgenza per prorogare il termine relativo alla concessione dell’assistenza della forza pubblica per l’esecuzione dei provvedimenti di sfratto, di cui all’art. 80, comma 22, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001).

Attraverso tale strumento,  nel primo periodo, si è realizzata la mera proroga generalizzata di tale termine; successivamente, ne è stata gradualmente ridotta la portata applicativa e sono state introdotte specifiche misure a sostegno dei conduttori.

 

Preliminarmente, può essere utile richiamare i due distinti filoni normativi ai quali è riconducibile la tematica del blocco degli sfratti:

§      il differimento delle esecuzioni di rilascio per immobili abitativi previsto dall'art. 6 della legge n. 431 del 1998[601], che si applica ai soli contratti regolati dalla legge sull’equo canone e da quella sui patti in deroga e ai soli comuni ad alta tensione abitativa (individuati originariamente dall’art. 1 del decreto-legge n. 551 del 1988);

§      la sospensione delle esecuzioni di rilascio per immobili abitativi prevista – solo per finita locazione e non per morosità - per determinate categorie di conduttori dall'art. 80, comma 22, della legge n. 388 del 2000. Anche in questo caso, la disposizione di sospensione è comunque limitata agli immobili ubicati in comuni ad alta tensione abitativa.

 

 

L'art. 80, commi 20-22, della legge n. 388 del 2000 reca specifiche disposizioni volte a fronteggiare il disagio abitativo nei comuni ad alta tensione abitativa. Il comma 20, in particolare, prevede che tali comuni possano destinare fino al 10% delle somme ad essi attribuite sul Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione alla locazione di immobili ad inquilini assoggettati a procedure esecutive di sfratto, purché tali soggetti abbiano nel nucleo familiare persone ultrasessantacinquenni, o handicappati gravi e non dispongano di altra abitazione o di redditi sufficienti per poter accedere alla locazione di una nuova casa.

Il successivo comma 21 fa obbligo ai comuni di disporre, entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge (termine coincidente con il 29 giugno 2001), apposite graduatorie degli inquilini interessati.

Infine, il comma 22 prevede la sospensione delle procedure esecutive di sfratto - iniziate contro inquilini che si trovavano nelle condizioni di cui al comma 20 - fino al termine assegnato ai comuni per la predisposizione delle graduatorie, al fine di consentire a tali inquilini di usufruire dei benefici previsti dalla legge finanziaria per il 2001.

 

 

I decreti-legge adottati nella prima fase della XIV legislatura vanno collegati al secondo di tali filoni normativi. Essi infatti hanno provveduto a differire più volte il termine originariamente fissato al 29 giugno 2001 dal citato art. 80, comma 22, della legge n. 388 del 2000 e in particolare:

·         al 31 dicembre 2001 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 2 luglio 2001, n. 247);

·         al 30 giugno 2002 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 27 dicembre 2001, n. 450);

·    al 30 giugno 2003 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 20 giugno 2002, n. 122);

·         al 30 giugno 2004 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 147).

 

 

Successivamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 155 del 2004, si è espressa in senso sfavorevole ad una eventuale nuova proroga degli sfratti, sulla base della considerazione che la sospensione “può trovare giustificazione soltanto se incide sul diritto alla riconsegna dell’immobile per un periodo transitorio ed essenzialmente limitato”.

La sentenza ha avuto origine dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze, con ordinanza emessa il 3 gennaio 2003, avente ad oggetto l’art. 1, comma 1, del decreto legge 20 giugno 2002, n. 122 (Disposizioni concernenti proroghe in materia di sfratti, di edilizia e di espropriazione) in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 42, secondo comma, e 111, primo (recte: secondo) comma, della Costituzione,.

Con la citata pronuncia, la Corte ha ribadito il proprio orientamento in materia già espresso nella sentenza n. 310 del 2003 (nella quale aveva affermato che il legislatore, pur dovendo farsi carico delle esigenze di coloro che si trovano in particolari situazioni di disagio, anche attraverso agevolazioni, non possa tuttavia “indefinitamente limitarsi, per di più senza alcuna valutazione comparativa, a trasferire l’onere relativo in via esclusiva a carico del privato locatore, che potrebbe trovarsi in identiche o anche peggiori situazioni di disagio”). Nella sentenza n. 155, la Corte ha aggiunto che la violazione di alcune delle norme costituzionali evocate ed il pregiudizio dei diritti che esse tutelano sono “tanto più gravi in quanto non soltanto non è prevista alcuna comparazione tra la condizione del conduttore e quella del locatore, ma neppure è stabilita alcuna congrua misura che, addossando alla collettività l’onere economico inerente alla protezione degli inquilini appartenenti alle categorie svantaggiate, allevii il sacrificio dei locatori”. Infine, la Consulta ha avvertito che se le scelte del legislatore dovessero ulteriormente seguire la logica fin qui adottata non potrebbero sottrarsi alle proposte censure d’illegittimità costituzionale, “anche in considerazione del vulnus che il protrarsi delle proroghe arreca al principio della ragionevole durata del processo e alla coerenza dell’ordinamento”.

 

In relazione a tale tematica, inoltre, la Corte europea dei diritti dell’uomo, pronunciandosi su taluni ricorsi aventi ad oggetto i procedimenti avviati dai proprietari per ottenere il rilascio degli immobili da parte dei conduttori, ha condannato lo Stato italiano per violazione dell’art. 1, Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) e dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (diritto ad un equo processo sotto il profilo della ragionevole durata). Sul punto si rinvia alla scheda Sfratti - Le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo.

 

Al fine di evitare una nuova proroga generalizzata esposta al rischio di declaratoria di illegittimità costituzionale, il Governo, a partire dal settembre 2004, ha varato tre decreti-legge nei quali non si è limitato alla mera proroga degli sfratti (anzi, ne ha ridotto la portata applicativa) ma ha anche introdotto misure finalizzate ad agevolare i conduttori assoggettati a procedura esecutiva di rilascio.

Il decreto-legge n. 240 del 2004

Il decreto-legge 13 settembre 2004, n. 240, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 269, ha previsto misure in materia di locazioni ad uso abitativo, finalizzate – da un lato - ad agevolare i conduttori assoggettati a procedura esecutiva di rilascio che versano in condizioni di particolare disagio, dall’altro a modificare alcune norme procedurali relative al rilascio degli immobili.

Con riferimento al primo profilo, l’ambito soggettivo di applicazione delle nuove disposizioni è stato limitato esclusivamente ai soggetti appartenenti a categorie socialmente deboli, cioè anziani ultrasessantacinquenni e portatori di handicap assoggettati a procedure esecutive di rilascio che non dispongono di altra abitazione o di redditi sufficienti ad accedere alla locazione di una nuova unità immobiliare e che sono in possesso dei requisiti economici previsti dal Ministero  dei lavori pubblici (ora, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti) ai sensi della legge n. 388 del 2000.

 

In relazione ai requisiti previsti, il Ministero dei lavori pubblici ha emanato una Circolare esplicativa in data 23 febbraio 2001[602], con la quale sono stati forniti gli opportuni chiarimenti in merito alle disposizione volte a fronteggiare il disagio abitativo nei comuni ad alta tensione abitativa previste dai commi 20-22 dell'art. 80 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001). La circolare, in particolare, ha chiarito, al punto 4.3, cosa debba intendersi per redditi insufficienti per accedere all’affitto di una nuova casa,  precisando che è da ritenere che la situazione reddituale del conduttore ai fini del beneficio in argomento vada riferita al possesso dei requisiti economici previsti dalle singole normative regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano per conseguire l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica (legge 5 agosto 1978, n. 457, art. 22)[603]..Il superamento di tali limiti di reddito è ritenuto, infatti, dal legislatore condizione sufficiente perché il locatario possa rivolgersi all’offerta di alloggi in locazione disponibili sul mercato.

 

Sono state, quindi istituite cinque nuove tipologie contrattuali (oltre a quelle previste dalla legge n. 431 del 1998), per le quali sono state previste sia agevolazioni fiscali sia contributi diretti.

Tre di queste nuove tipologie (commi 2, 5 e 6 dell’art. 2) riguardano contratti che possono essere stipulati direttamente dai soggetti disagiati (con i proprietari dell’immobile occupato o anche con proprietari di altri immobili); le altre due tipologie (commi 3 e 4) sono invece riservate agli enti locali, che possono stipulare contratti di locazione in qualità di conduttori con i proprietari degli immobili, facendosi al contempo garanti del puntuale pagamento del canone di locazione, del rilascio dell’immobile alla scadenza prevista, nonché del risarcimento al proprietario di eventuali danni all’immobile arrecati dall’inquilino disagiato. Per quest’ultimo l’immobile viene reso disponibile attraverso una concessione amministrativa.

Le cinque tipologie contrattuali si differenziano, a loro volta, anche in relazione alla durata del contratto di locazione ed alla misura del relativo canone (si veda la tabella Quadro delle nuove tipologie contrattuali introdotte dal DL n. 240 del 2004allegata alla fine della scheda).

Al fine di fornire assistenza ai conduttori, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti può avvalersi degli ex istituti autonomi case popolari (I.A.C.P.), mediante la costituzione, presso i comuni interessati,di un apposito «sportello emergenza sfratti», la cui istituzione è stata disposta con la Circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 10 marzo 2005, n. 452[604].

In relazione alla misura del contributo diretto, esso è proporzionato al numero di abitanti del comune (in quanto si assume che l’entità media dei canoni segua tale proporzione) e può essere erogato sia ai proprietari (quale integrazione dell'importo del canone previsto nel nuovo contratto) sia agli enti locali e consiste in una assegnazione unica, relativa all’intero contratto.

Si ricorda che i comuni interessati sono comunque quelli ad alta tensione abitativa, cioè i comuni indicati nell'art. 6 della legge n. 431 del 1988 che fa rinvio all’art. 1 del decreto-legge n. 551 del 1988[605].

Le agevolazioni fiscali (comunque diverse a seconda della tipologia contrattuale) possono, invece, riguardare sia l’IRPEF, sia l’IRES, che l’imposta di registro o l’ICI.

L’adesione ai nuovi contratti di locazione costituisce requisito per beneficiare della nuova proroga fino al 31 marzo 2005.

Il decreto ha infine introdotto anche alcune modifiche di manutenzione normativa alla legge n. 431 del 1998 (relative alla ripartizione annuale delle risorse del Fondo per le locazioni e alle modalità di erogazione dei contributi da parte dei comuni), ed all’art. 56 della legge n. 392 del 1978, relativamente alle modalità di rilascio dell’alloggio locato (obbligo di motivazione e possibilità di opposizione).

Per un maggior approfondimento in merito al contenuto di tali ultime disposizioni vedi la scheda Modifiche alla normativa sulle locazioni.

Il decreto-legge n. 86 del 2005

La nuova disciplina dei contratti riservati ha trovato una applicazione limitatissima. La scadenza dell’ultimo termine di proroga ha creato quindi una nuova situazione di grave emergenza, a fronte della quale il Governo ha emanato il decreto-legge 27 maggio 2005, n. 86, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 26 luglio 2005, n. 148.

Con tale decreto sono state ridisciplinate le misure a sostegno dei conduttori disagiati e, contestualmente, è stata ridotta la portata applicativa della proroga degli sfratti.

La proroga, anche in questo decreto-legge concessa solo al fine di favorire la fuoriuscita definitiva dalla situazione di blocco attualmente esistente, è stata circoscritta ad un numero più ristretto di comuni, rispetto alle precedenti proroghe che hanno invece riguardato la totalità dei comuni ad alta tensione abitativa. Il differimento del termine per l’esecuzione del provvedimento di rilascio al 30 settembre 2005 è stato infatti limitato ai comuni da individuare con successivo decreto del Ministro delle infrastrutture e nei quali i procedimenti esecutivi in corso fossero superiori a 400[606].  Con il decreto ministeriale di attuazione del 28 settembre 2005 (Differimento del termine di esecuzione dei provvedimenti di rilascio immobili ad uso abitativo)[607] sono stati individuati i comuni di Milano, Firenze, Roma, Napoli.

Con riferimento alle misure a sostegno dei conduttori, il provvedimento ha ridestinato le risorse già previste dal decreto-legge n. 240 e ancora disponibili (pari a 104.940.000 euro) e hamodificato i meccanismi agevolativi previsti dal precedente decreto.

In particolare, esso ha disposto che tali risorse vengano erogate, previa una distribuzione proporzionale fra i comuni interessati, direttamente ai conduttori che versano in condizioni disagiate e che abbiano già usufruito di una sospensione dello sfratto.

Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione di tali disposizioni, il provvedimento ha una portata più ridotta rispetto al precedente decreto, riferendosi esclusivamente ai soggetti residenti nei comuni capoluogo di 14 aree metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Cagliari, Trieste) e nei comuni ad alta tensione abitativa con essi confinanti (art. 1, comma 2).

Per quanto riguarda le modalità di distribuzione di tale risorse fra i soggetti interessati (artt. 2 e 3) il decreto prevede che la procedura abbia inizio con una richiesta di contributo al comune da parte del conduttore disagiato, da presentare entro il 30 settembre 2005. Entro il 31 ottobre 2005ognuno dei comuni interessatideve inviare, quindi, una comunicazione al Ministero delle infrastrutture indicando l’ammontare complessivo delle richieste.

Nel caso, invece, che il comune interessato non provveda entro tale termine, esso decade dal beneficio e le risorse non assegnate verranno destinate al finanziamento di interventi speciali per la realizzazione di alloggi sperimentali e di alloggi di edilizia sociale nei 14 comuni capoluogo di maggiore emergenza abitativa e nei comuni ad alta tensione abitativa confinanti.

Gli interventi speciali devono avere prioritariamente (ma non esclusivamente) come beneficiari i soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art. 1, comma 1, del decreto (anziani ultrasessantacinquenni e portatori di handicap con problemi economici, che abbiano beneficiato della proroga relativa all’esecuzione dei rilasci per finita locazione ai sensi dell’art. 80, comma 22, della legge n. 388 del 2000).

In sede di conversione del decreto, è stato, inoltre, previsto che entro dodici mesi dall'emanazione del decreto ministeriale, il Governo trasmetta al Parlamento una relazione sullo stato dell'assegnazione e dell'impiego delle risorse assegnate ai comuni.

La platea dei conduttori beneficiari degli interventi speciali finalizzati ad aumentare la disponibilità di alloggi di edilizia sociale è statasuccessivamenteampliata con un intervento di manutenzione normativa operato dal successivo decreto-legge n. 23 del 2006 (art. 2, comma 3). In essa sono stati ricompresi anche i conduttori che abbiano nel proprio nucleo familiare almeno un figlio di età inferiore ai tre anni o almeno due figli minorenni fiscalmente a carico, ovvero abbiano sostenuto spese mediche documentate superiori al dieci per cento del reddito annuo netto complessivo o abbiano componenti del nucleo familiare affetti da malattie invalidanti o che non ne consentono il trasferimento, purché non dispongano di altra abitazione, né di redditi sufficienti ad accedere alla locazione di un nuovo immobile.

 

Si ricorda, infine, che in sede di conversione è stato aggiunto un articolo (art. 5-bis) recante alcune disposizioni relative al patrimonio abitativo, per il cui contenuto si veda la scheda sul Disagio abitativo.

Il decreto-legge n. 23 del 2006

Il decreto-legge 1° febbraio 2006, n. 23, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 3 marzo 2006 n. 86, ha ridotto ulteriormente, rispetto ai precedenti decreti n. 240 del 2004 e n. 86 del 2005, la portata applicativa della sospensionedella procedura esecutiva di sfratto .

La procedura esecutiva di sfratto viene infatti sospesa per la durata di sei mesi (fino al 3 agosto 2006), solo nei comuni con più di un milione di abitanti, vale a dire nelle città di Roma, Milano e Napoli (la precedente proroga includeva anche Firenze).

Anche l’ambito soggettivo viene limitato: anche se il blocco delle procedure esecutive di sfratto riguarda soggetti appartenenti a categorie socialmente deboli, quali anziani ultrasessantacinquenni e portatori di handicap che non dispongono di altra abitazione o di redditi sufficienti ad accedere alla locazione di un nuovo immobile[608], viene precisata la definizione di handicap grave, per la quale è richiesta una invalidità superiore al 66%.

Vengono quindi previsti due casi in cui non è possibile ricorrere alla sospensione dello sfratto: per mancato regolare pagamento del canone d'affitto e nell’eventualità che il proprietario dimostri di trovarsi nelle stesse condizioni richieste dall'affittuario per ottenere la sospensione.

Il decreto reca anche norme agevolative dal punto di vista fiscale, prevedendo che, per tutta la durata della sospensione, vengano azzerate le imposte sul reddito dovute allo Stato e ai Comuni dai proprietari degli immobili locati ai conduttori in condizioni di particolare disagio. Inoltre tutti i Comuni (e non solo a quelli con più di un milione di abitanti come dispone l’art. 1) potranno, nel rispetto dell’equilibrio di bilancio, concedere esenzioni o riduzioni dell'ICI e dell'addizionale comunale, per l’anno fiscale 2006, anche a quei proprietari che sospendono volontariamente per il 2006 le esecuzioni degli sfratti a conduttori che si trovano in condizioni familiari o patrimoniali particolarmente disagiate.

Il decreto, infine, come accennato in precedenza, reca, infine, una norma integrativa delle disposizioni del decreto n. 86, diretta ad ampliare la platea dei conduttori beneficiari degli interventi speciali per la realizzazione di alloggi sperimentali e di alloggi di edilizia sociale nei 14 comuni capoluogo di maggiore emergenza abitativa.


Quadro delle nuove tipologie contrattuali introdottedal DL n. 240 del 2004

Art. 2, comma 2

Contratti stipulati dai conduttori con i rispettivi locatori

 

DURATA

minima 1 anno, massima 18 mesi

CANONE

libero

CONTRIBUTI ai proprietari

quale integrazione dell'importo del canone previsto nel nuovo contratto: 5.000 euro (Comuni con oltre 500.000 abitanti), 4.000 euro (Comuni da 100.000 a oltre 500.000 abitanti), 3.000 euro (Comuni fino a 100.000 abitanti)

AGEVOLAZIONI fiscali

erariali nessuna, aliquota ridotta Ici nei Comuni che l'abbiano decisa o esenzione totale

Tipologia contrattuale

regolata esclusivamente dagli articoli 1571 e seguenti del Codice civile

 

 

Art. 2, comma 3

Contratti stipulati da enti locali in qualità di conduttori con qualsiasi proprietario

 

DURATA

fino a 2 anni, non rinnovabili né prorogabili. Possibilità di sostituirli con contratti stipulati direttamente tra locatore e soggetto beneficiario della concessione, ai sensi art. 2, comma 3, legge n. 431 del 1998.

CANONE

libero

GARANZIA degli enti locali

per puntuale pagamento del canone, rilascio dell'immobile alla scadenza e risarcimento dei danni

CONCESSIONE AMMINISTRATIVA

della durata massima del singolo contratto per la cessione in uso degli immobili ai soggetti di cui all’art. 1

CONTRIBUTI agli enti locali

5.000 euro (Comuni con oltre 500.000 abitanti), 4.000 euro (da 100.000 a oltre 500.000 abitanti, 3.000 euro (fino a 100.000 abitanti)

AGEVOLAZIONI fiscali ai proprietari degli immobili locati

Irpef e Ires (ex Irpeg) (limitatamente al 59,5% del canone; per Venezia centro e isole Giudecca, Murano e Burano al 52,5%); Registro (limitatamente al 70% del canone); aliquota ridotta Ici nei Comuni che l'abbiano decisa o esenzione totale

Tipologia contrattuale

regolata esclusivamente dagli articoli 1571 e seguenti del Codice civile

 

 

Art. 2, comma 4

Contratti stipulati da enti locali in qualità di conduttori con qualsiasi proprietario

 

DURATA

3 anni, prorogabili di 2 in presenza di accordo delle parti contraenti (3+2)

CANONE

stabilito secondo l'accordo locale o il decreto ministeriale sostitutivo

GARANZIA degli enti locali

per puntuale pagamento del canone, rilascio dell'immobile alla scadenza e risarcimento dei danni

CONCESSIONE AMMINISTRATIVA

della durata massima del singolo contratto per la cessione in uso degli immobili ai soggetti di cui all’art. 1

CONTRIBUTI agli enti locali

5.000 euro (Comuni con oltre 500.000 abitanti), 4.000 euro (da 100.000 a oltre 500.000 abitanti), 3.000 euro (fino a 100.000 abitanti)

AGEVOLAZIONI fiscali ai proprietari degli immobili locati

Irpef e Ires (limitatamente al 25% del canone; per Venezia centro e isole Giudecca, Murano e Burano al 22,5%); Registro (limitatamente al 70% del canone); aliquota ridotta Ici nei Comuni che l'abbiano decisa o esenzione totale

Tipologia contrattuale

regolata dagli articoli 1571 e seguenti del Codice civile, tranne per il canone

 

 

Art. 2, comma 5

Contratti stipulati dai conduttori con qualsiasi proprietario

 

DURATA

3 anni, prorogabili di 2 in presenza di accordo delle parti contraenti (3+2)

CANONE

stabilito secondo l'accordo locale o il decreto ministeriale sostitutivo

CONTRIBUTI ai proprietari, in conto canoni ancora da corrispondere:

5.000 euro (Comuni con oltre 500.000 abitanti), 4.000 euro (Comuni da 100.000 a oltre 500.000 abitanti), 3.000 euro (Comuni fino a 100.000 abitanti)

AGEVOLAZIONI fiscali ai proprietari degli immobili locati

Irpef e Ires (limitatamente al 25% del canone; per Venezia centro e isole Giudecca, Murano e Burano al 22,5%); Registro (limitatamente al 70% del canone), aliquota ridotta Ici nei Comuni che l'abbiano decisa o esenzione totale

Tipologia contrattuale

regolata dagli articoli 1571 e seguenti del Codice civile tranne per il canone

 

 

Art. 2, comma 6

Contratti stipulati dai conduttori con qualsiasi proprietario

 

DURATA

4 anni, prorogabili fino ad altri 4 in presenza di accordo delle parti contraenti (4+4)

CANONE

libero

CONTRIBUTI ai proprietari, in conto canoni ancora da corrispondere:

5.000 euro (Comuni con oltre 500.000 abitanti), 4.000 euro (Comuni da 100.000 a oltre 500.000 abitanti), 3.000 euro (Comuni fino a 100.000 abitanti)

AGEVOLAZIONI fiscali ai proprietari degli immobili locati

Irpef e Ires (limitatamente al 59,5% del canone; per Venezia centro e isole Giudecca, Murano e Burano al 52,5%) Registro (limitatamente al 70% del canone), aliquota ridotta Ici nei Comuni che l'abbiano decisa o esenzione totale

Tipologia contrattuale

regolata esclusivamente dagli articoli 1571 e seguenti del Codice civile

 

Sfratti - Le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è recentemente pronunciata su alcuni ricorsi proposti nei confronti dello Stato italiano dai proprietari di immobili in relazione ai procedimenti avviati per ottenerne il rilascio da parte dei conduttori.

 

Può essere utile in questa sede qualche notazione di carattere generale sulle competenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e sull’efficacia delle relative decisioni.

Preliminarmente, si ricorda che tale organismo è competente a pronunciarsi sui ricorsi presentati dagli Stati firmatari o dai singoli individui in merito alla violazione, da parte di uno Stato membro, di diritti tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e dai suoi protocolli[609].

In relazione ai rapporti tra la CEDU e le fonti del nostro diritto interno, occorre precisare che, secondo l'impostazione classica della dottrina, poiché le relative norme sono state introdotte nell'ordinamento italiano con l'ordinario procedimento di adattamento al trattati internazionali, la CEDU, da un punto di vista strettamente formale, dovrebbe avere la forza della fonte che la recepisce e, perciò, quella della legge ordinaria[610].

A questo orientamento tradizionale sembra contrapporsi il nuovo testo dell’articolo 117, Cost., primo comma, (come modificato dalla legge cost. n. 3 del 2001), secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve esercitarsi nel rispetto, oltre che della Costituzione, "dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Il particolare riferimento al necessario rispetto, da parte del legislatore statale, degli obblighi internazionali risulta significativamente innovativo, al punto che molti interpreti sostengono che, con esso, si sia voluto "costituzionalizzare" i trattati internazionali, le cui leggi di ratifica, pertanto, sarebbero dotate di speciale forza di resistenza passiva rispetto alle fonti di rango ordinario.

Si evidenzia, inoltre, che l'art. 6, par. 2, del Trattato sull'Unione europea ha sostanzialmente "comunitarizzato" i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, in quanto li ha espressamente riconosciuti come "principi generali del diritto comunitario". E, da ultimo, va sottolineata l'importanza della formale adesione dell'Unione Europea alla CEDU e l'inclusione dei diritti fondamentali da quest'ultima sanciti nella parte Il del "Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa", firmato a Roma il 29 ottobre 2004.

In questa prospettiva, possono spiegarsi alcune recenti sentenze di giudici di merito, i quali, con un procedimento ermeneutico del tutto simile a quello utilizzato nell'applicazione del diritto comunitario, hanno ritenuto di dover "disapplicare" la legge italiana contrastante con le norme della CEDU.

Particolarmente significative infine sono quattro recenti sentenze delle SS.UU. della Corte di cassazione (n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004) che, innovando rispetto all'orientamento interpretativo in precedenza maturato, hanno riconosciuto la vincolatività nel confronti del giudice italiano delle sentenze della Corte europea, quanto meno nella materia della liquidazione dell'equo indennizzo per violazione del principio della ragionevole durata del processo.

Infine, quanto alla questione del valore programmatico o immediatamente precettivo delle disposizioni della CEDU, sembra che la giurisprudenza più recente sia ormai pacificamente attestata sulla tesi favorevole a riconoscere l'immediata precettività delle disposizioni stesse, in quanto “le norme della Convenzione sul diritti dell'uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955 n. 848, sono di immediata applicazione (self executing) e attribuiscono, quindi, al soggetti dell'ordinamento diritti soggettivi perfetti"[611]

 

La Corte di Strasburgo è stata chiamata a giudicare sulla compatibilità delle disposizioni nazionali che disciplinano tali procedimenti con l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 (Protezione della proprietà) e con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (Diritto ad un equo processo), quest’ultimo richiamato  sotto il profilo della ragionevole durata del processo.

 

L’art. 1, Protocollo 1, della CEDU contiene la definizione del diritto di proprietà e ne i individua i possibili limiti[612]. Al secondo comma, in particolare, contempla il diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale.

L’articolo 6 della CEDU contempla il diritto ad un equo processo, prevedendo in particolare al primo comma il diritto di ciascuna persona “a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”[613]. Attraverso la formalizzazione di tale diritto, sono stati ribaditi alcuni principi per la maggior parte già recepiti dai singoli Stati.

 

 

Molte delle cause avviate innanzi alla Corte sono state cancellate dal ruolo a seguito di un regolamento amichevole delle controversie tra i ricorrenti e lo Stato italiano[614].

In diversi altri procedimenti, invece, la Corte - rilevando la violazione dei diritti indicati - ha deciso in via equitativa, ai sensi dell’articolo 41 CEDU, condannando l’Italia al pagamento delle spese di giudizio e al risarcimento dei danni, pecuniari e non, derivanti ai proprietari ricorrenti dal ritardo nella restituzione degli immobili[615].

 

L’articolo 41 della CEDU prevede che, in presenza di una violazione della CEDU o dei suoi protocolli, qualora il diritto interno dello Stato non permetta se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda un’equa soddisfazione della parte lesa.

 

In questa sede, è opportuno soffermarsi sulle ragioni di diritto che hanno condotto la Corte ad una decisione di condanna nella sentenza del 29 gennaio 2004 (causa Sorrentino Prota c. Italia – ricorso n. 40465), più volte richiamate nella giurisprudenza successiva.

In tale occasione, la Corte, nell’esaminare la legislazione nazionale in materia di locazioni (dalle disposizioni dell'art. 1591 c.c., alle leggi n. 392 del 1978  e n. 431 del 1998, fino ai numerosi provvedimenti di proroga degli sfratti), ha preso atto della giurisprudenza costituzionale in materia (e, in particolare, della sentenza della Corte costituzionale n. 482 del 2000) ed ha ritenuto meritevoli di considerazione anche i rilievi del Governo italiano in merito all'esigenza dì evitare tensioni sociali e turbative dell'ordine pubblico conseguenti all'esecuzione contemporanea di numerosi provvedimenti di sfratto.

 

Nella sentenza 25 ottobre-9 novembre 2000, n. 482, la Corte costituzionale italiana ha affermato in termini generali “che la funzione sociale della proprietà, intesa quale «dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali» (sentenza n. 108 del 1986), legittima interventi legislativi finalizzati all'attuazione di esigenze di carattere primario”; con specifico riferimento alla disciplina vincolistica ne ha ribadito la legittimità, a condizione che essa abbia un carattere straordinario e temporaneo. Si ricorda, peraltro, che con la recente sentenza 24-28 maggio 2004 n. 155, la Corte si è espressa in senso sfavorevole ad una eventuale nuova proroga degli sfratti, posto che la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di sfratto “può trovare giustificazione soltanto se incide sul diritto alla riconsegna dell’immobile per un periodo transitorio ed essenzialmente limitato”.

 

Con particolare riferimento al diritto di proprietà, la Corte di Strasburgo si è soffermata sulla finalità dell’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU di realizzare un equo compromesso tra le esigenze di tutela dell'interesse pubblico e le istanze di protezione dei diritti individuali fondamentali In relazione a tale finalità, la Corte ha individuato una relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito,per cui lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità sia nella scelta degli strumenti di attuazione dei provvedimenti, sia nell'accertare se le conseguenze dell'attuazione si giustificano nella prospettiva dell'interesse pubblico all'attuazione della legge. Pertanto le scelte legislative nazionali in merito all'interesse pubblico da perseguire devono essere tenute in considerazione, a meno che non siano manifestamente prive di ragionevole fondamento.

Relativamente al caso specifico, la Corte ha ritenuto che, in linea di principio, il sistema italiano di scaglionamento dell'attuazione degli sfratti non è di per sé suscettibile di critica, in considerazione dei margini di apprezzamento consentiti a livello nazionale dal secondo paragrafo dell'art. 1 del Protocollo n. 1. Tuttavia, secondo la Corte è insito in tale sistema il rischio di porre a carico dei locatori un eccessivo fardello dal punto di vista della facoltà di disporre della proprietà, sicché occorre approntare garanzie procedurali di salvaguardia per evitare conseguenze arbitrarie ed imprevedibili sul diritto di proprietà dei locatori.

 

Le considerazioni svolte in tale sentenza ricalcano quelle contenute nella sentenza Immobiliare Saffi c. Italia del 28 luglio 1999, nella quale la Corte – sul presupposto generale che un'ingerenza della legislazione nazionale nella sfera dell'individuo, così come previsto dal secondo paragrafo dell'art. 1 del Protocollo n. 1, deve realizzare un "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale e la necessità di proteggere i diritti fondamentali individuali – ha affermato che il sistema italiano di scaglionare l'esecuzione delle ordinanze dei tribunali non è di per sé oggetto di critica, avendo riguardo in particolare al margine di apprezzamento permesso dal secondo paragrafo dell'art. I. Tuttavia, tale sistema porta con sé il rischio di imporre ai locatori un eccessivo carico, in relazione alla loro capacità di disporre dei propri beni e deve, di conseguenza, prevedere alcune protezioni procedurali tali da assicurare che l'azione del sistema ed il suo impatto sul diritti di proprietà dei locatori non siano né arbitrari né imprevedibili.

 

Con riferimento all’articolo 6 CEDU, la Corte ha osservato che il diritto alla tutela giurisdizionale comprende anche il diritto all'attuazione dei provvedimenti giurisdizionali divenuti definitivi, attuazione che non può essere indebitamente ritardata. Tuttavia, una sospensione nell'esecuzione dei provvedimenti può essere giustificata, in circostanze eccezionali, per consentire una soluzione soddisfacente dei problemi di ordine pubblico.

 

È utile infine un accenno alla sentenza del 21 aprile 2005 (causa Lo Tufo contro Italia – ricorso n. 64663/01), nella quale la Corte europea ha condannato lo Stato italiano per violazione degli articoli 1, Prot. 1,  e 6 della CEDU,  ma ha contestualmente rigettato la domanda di equa soddisfazione proposta dai ricorrenti in relazione ai danni materiali patiti per il tardivo rilascio dell’immobile, in considerazione del fatto che l’articolo 1591 c.c. consente, nell’ambito dell’ordinamento nazionale, di cancellare le conseguenze materiali della violazione.

In tale occasione, la Corte europea ha richiamato la giurisprudenza costituzionale italiana (e, in particolare, la sentenza n. 155 del 2004) che ha affermato la legittimità costituzionale delle proroghe, delle sospensioni e degli scaglionamenti degli sfratti in considerazione del loro carattere transitorio e limitato, nonché della limitazione dell’indennizzo in favore dei proprietari disposta dall’articolo 6 della legge n. 61 del 1989 (successivamente abrogato dall’articolo 14 delle legge n. 431 del 1998), in quanto stabilita nell’ambito di una legislazione di tipo eccezionale.

 

 


Questioni all'esame delle istituzioni dell'Unione europea
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione Europea)

 


Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa

Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, riunisce tutte le disposizioni contenute nei differenti Trattati e protocolli vigenti in un unico testo composto da:

·         Preambolo;

·         Parte I, che contiene le norme propriamente costituzionali, nonché le disposizioni generali per la politica estera, di sicurezza e di difesa e per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;

·         Parte II, che contiene la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;

·         Parte III, relativa alle politiche dell'Unione;

·         Parte IV, recante le disposizioni generali e finali,

·         Protocolli e dichiarazioni allegati al Trattato.

Il Trattato è stato fino ad ora ratificato da 14 Stati membri: Austria, Belgio, Cipro, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Slovacchia, Slovenia, Spagna ed Ungheria.

A seguito dell’esito negativo dei referendum sulla ratifica del Trattato costituzionale in Francia e nei Paesi Bassi, i Capi di Stato e di governo hanno adottato, al Consiglio europeo del 16 e 17 giugno 2005, una dichiarazione che prende atto dei risultati dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi e, pur sottolineando che tali risultati non rimettono in discussione l’interesse dei cittadini per la costruzione dell’Europa, riconosce la necessità di svolgere una riflessione comune. Si invita a promuovere in questo periodo di riflessione un ampio dibattito che coinvolga cittadini, parti sociali, Parlamenti nazionali e partiti politici.

La dichiarazione ribadisce la validità della prosecuzione dei processi di ratifica, prevedendo altresì un eventuale adeguamento del loro calendario in relazione agli sviluppi nei vari Stati membri.  Il Consiglio europeo del 15 e 16 giugno 2006 dovrebbe procedere ad una valutazione globale dei dibattiti nazionali e decidere sul seguito del processo.

 

Tra le novità introdotte dal Trattato si segnala in particolare:

·         l’inserimento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, nel testo del Trattato come sua Parte II;

·         il conferimento della personalità giuridica all’Unione europea e l’eliminazione della struttura a “pilastri” (Comunità europea; politica estera e di sicurezza comune; cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) in cui si articola attualmente l’Unione;

·         la generalizzazione della procedura legislativa ordinaria, modellata sull’attuale procedura di codecisione di Parlamento europeo e Consiglio;

·         l’elezione di un Presidente del Consiglio europeo con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile, con il compito in particolare di assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione;

·         la modifica (a partire dal 2014) del numero dei membri della Commissione europea, fissato ai due terzi degli Stati membri;

·         l’istituzione del Ministro per gli affari esteri dell’Unione, con il compito diguidare la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione;

·         il superamento (a partire dal 2009) dell’attuale sistema di voto ponderato, con un sistema che si fonda sul principio della doppia maggioranza del 55% degli Stati membri dell’Unione – con un minimo di 15 - che rappresentino almeno il 65% della popolazione;

·         la ripartizione delle competenze tra Unione europea e Stati membri in competenze esclusive, per le quali l'Unione è l'unica a poter legiferare e adottare atti giuridicamente obbligatori; competenze concorrenti, per le quali sia l'Unione, sia gli Stati membri hanno la facoltà di legiferare; e azioni di sostegno, di coordinamento o di completamento, per le quali l’Unione può condurre azioni che completano l’azione degli Stati membri;

·         la semplificazione (da quindici a sei) degli atti giuridici dell’Unione, con una distinzione tra atti legislativi, atti non legislativi ed atti esecutivi e l’introduzione del nuovo strumento dei regolamenti delegati;

·         il rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali, in particolare attraverso la possibilità per ciascun Parlamento nazionale di sollevare obiezioni sulla corretta applicazione del principio di sussidiarietà in relazione alle proposte legislative della Commissione;

·         l’introduzione dell’iniziativa legislativa popolare: un milione di cittadini europei, provenienti da un rilevante numero di Stati membri possono invitare la Commissione a presentare una proposta legislativa.


Lo stato delle ratifiche del Trattato

 


STATO MEMBRO

PROCEDURA DI RATIFICA

DATA DI SVOLGIMENTO DELL’EVENTUALE REFERENDUM

Austria

Il Trattato è stato approvato dal Nationalrat l’11 maggio 2005 e dal Bundesrat il 25 maggio 2005.

 

Belgio

Il Trattato è stato ratificato sia dal Parlamento nazionale sia dalle sette Assemblee regionali. La procedura si è conclusa con la pronuncia della Comunità fiamminga l’8 febbraio 2006.

 

Cipro

Il Parlamento della Repubblica di Cipro ha ratificato il Trattato il 30 giugno 2005.

 

Danimarca

La ratifica è prevista con referendum popolare giuridicamente vincolante. Il Governo danese e i partiti favorevoli alla Costituzione europea hanno deciso il 23 giugno 2005 la sospensione del processo di ratifica, rinviando a data da definire il referendum.

Il referendum è stato sospeso

Estonia

La ratifica avverrà per via parlamentare. L’esame è stato avviato ai primi di febbraio 2006.

 

Finlandia

La ratifica dovrebbe avvenire per via parlamentare. E’ richiesta la maggioranza semplice del Parlamento monocamerale, o la maggioranza di 2/3 qualora si ritenga che il Trattato implica modifiche alla Costituzione (tale valutazione non risulta ancora effettuata). Il Governo ha deciso di sospendere il processo di ratifica.

 

Francia

La ratifica del Trattato costituzionale è stata sottoposta referendum popolare il 29 maggio 2005. Su un totale di partecipanti pari al 69,34% degli aventi diritto al voto, il 54,68% ha votato no ed il 45,32%  ha votato sì.

29 maggio 2005

Germania

Il disegno di legge di ratifica è stato approvato dal Bundestag il 12 maggio 2005. Il 27 maggio 2005 è stato approvato dal Bundesrat.

 

Grecia

Il Parlamento greco ha ratificato il Trattato il 19 aprile 2005

 

Irlanda

La Costituzione prevede due fasi: il referendum popolare e, a seguire, la ratifica parlamentare. Il Governo ha deciso di sospendere il processo di ratifica.

Il referendum è stato sospeso

Italia

La Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge di ratifica del Trattato il 25 gennaio 2005 (436 voti favorevoli, 28 voti contrari e 5 astensioni). Il Senato della Repubblica ha approvato definitivamente il disegno di legge di ratifica il 6 aprile 2005 (217 voti favorevoli, 16 contrari e nessun astenuto).

 

Lettonia

Il Parlamento lettone ha ratificato il Trattato il 2 giugno 2005.

 

 

Paesi che hanno ratificato il Trattato

Paesi che non hanno ancora ratificato il Trattato

Paesi che hanno respinto la ratifica del Trattato


 

STATO MEMBRO

PROCEDURA DI RATIFICA

DATA DI SVOLGIMENTO DELL’EVENTUALE REFERENDUM

Lituania

Il Parlamento ha ratificato il Trattato l’11 novembre 2004.

 

Lussemburgo

Il Parlamento ha ratificato il Trattato in prima lettura il 29 giugno 2005 e in seconda il 25 ottobre 2005. Il 10 luglio 2005 si è svolto un referendum popolare consultivo. I voti favorevoli sono stati il 56,52%, i voti contrari il 43,48%. L'affluenza è stata pari all’87,7% degli aventi diritto.

10 luglio 2005

Malta

Il Parlamento di Malta ha ratificato il Trattato il 6  luglio 2005 .

 

Paesi Bassi

La ratifica del Trattato costituzionale è stata sottoposta a referendum popolare il 1° giugno 2005. Su un totale di partecipanti pari al 69% degli aventi diritto al voto, il 61,70% ha votato no ed il 38,30%  ha votato sì.

1° giugno  2005

Polonia

Il Governo polacco era inizialmente orientato a procedere alla ratifica del Trattato costituzionale attraverso una consultazione referendaria (l’alternativa è l’approvazione da parte delle due Camere a maggioranza di 2/3). Il 21 giugno 2005 il Presidente Kwasniewski ha annunciato la sospensione del referendum sul Trattato costituzionale.

Il referendum è stato sospeso

Portogallo

Il Governo ha rinviato il referendum sulla Costituzione europea, precedentemente previsto nell’autunno 2005.

Il referendum è stato rinviato

Regno Unito

Era prevista una procedura di ratifica a doppio livello, con il voto popolare a conferma e completamento del processo parlamentare di ratifica. Il progetto di legge di ratifica è stato approvato in seconda lettura dalla House of Commons il 9 febbraio 2005. L'iter parlamentare del disegno di legge sul referendum di ratifica è stato sospeso il 6 giugno 2005.

La decisione sullo svolgimento del referendum è stata sospesa

Repubblica Ceca

Il Primo Ministro ha annunciato l’intenzione di modificare la Costituzione al fine di sottoporre la ratifica del Trattato a referendum. Tale modifica richiede la maggioranza di 3/5 dei componenti di ciascuna delle due Camere.

Il referendum è stato rinviato alla fine del 2006

Slovacchia

Il Parlamento ha ratificato il Trattato l’11 maggio 2005.

 

Slovenia

Il Parlamento ha ratificato il Trattato il 1° febbraio 2005.

 

Spagna

Il Trattato è stato sottoposto a referendum consultivo il 20 febbraio 2005: i voti favorevoli sono stati il 76%, i voti contrari il 17% e le schede bianche sono state il 6%. Il Trattato è stato poi ratificato dalla Camera dei deputati il 28 aprile e dal Senato il 18 maggio 2005.

20 febbraio 2005

Svezia

Il Governo ha dichiarato che non intende indire un referendum sul Trattato costituzionale. Il processo di ratifica  parlamentare è al momento sospeso.

 

Ungheria

Il Parlamento ha ratificato il Trattato il 20 dicembre 2004.

 

 


L’allargamento e i Balcani occidentali

Grazie al processo di allargamento, che costituisce da sempre un elemento chiave del progetto europeo, l’Unione europea è passata dagli originali 6 membri (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi bassi) agli attuali 25. L’ultimo allargamento risale al 1° maggio 2004, quando Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Slovenia e Ungheria sono divenuti a pieno titolo Stati membri dell’Unione Europea.

Le fasi del processo di adesione - In base all’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea, ogni paese europeo può presentare richiesta di adesione se rispetta i principi di libertà, democrazia,  Stato di diritto, tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, principi che sono comuni agli Stati membri. Il medesimo articolo stabilisce che sulla richiesta di adesione il Consiglio si esprime all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo. A conclusione di tale procedura, è il Consiglio europeo ad attribuire lo status di paese candidato.

L’apertura formale dei negoziati tra gli Stati membri e lo Stato candidato avviene sulla base di una decisione in tal senso del Consiglio europeo e dopo l’approvazione del mandato negoziale da parte del Consiglio.

Una volta che, a seguito dei negoziati, tutti i capitoli siano stati positivamente esaminati, il risultato dei negoziati confluisce nel testo del Trattato di adesione, che è concordato tra gli Stati membri e il paese candidato e successivamente sottoposto alla Commissione per il parere. Sul testo del Trattato di adesione è richiesto il parere conforme del Parlamento europeo. Dopo la firma, il Trattato di adesione è sottoposto alla ratifica da parte di tutti gli Stati membri, nonché del paese interessato, conformemente allo rispettive norme costituzionali.

L’adesione può essere conseguita soltanto se il paese soddisfa i cosiddetti criteri di Copenaghen, stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen del giugno 1993 e rafforzati dal Consiglio europeo di Madrid del 1995:

·         criteri politici: istituzioni stabili in grado di garantire democrazia, Stato di diritto, diritti umani e protezione delle minoranze;

·         criteri economici: economia di mercato funzionante e capacità di far fronte alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato all’interno dell’Unione;

·         capacità di fare fronte agli obblighi derivanti dall’adesione, ivi compresi gli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria;

·         adozione dell’acquis comunitario e sua effettiva attuazione attraverso adeguate strutture amministrative e giudiziarie.

In aggiunta, come ribadito in particolare in occasione dell’apertura dei negoziati di adesione della Turchia, nei futuri allargamenti si terrà conto anche della capacità di assorbimento dell’Unione europea.

Nel corso del processo di adesione, l’Unione europea sostiene gli sforzi di ciascun paese attraverso una strategia di pre-adesione che si compone di diversi strumenti e meccanismi, tra i quali la partecipazione ai programmi, ai comitati e alle agenzie dell’UE, il dialogo politico, il programma nazionale di adozione dell’acquis comunitario, il cofinanziamento da parte di istituzioni internazionali, l’assistenza di preadesione, attraverso specifici strumenti finanziari. Inoltre, il livello di preparazione di ciascun paese è costantemente monitorato dalla Commissione europea. I risultati dell’attività di monitoraggio e lo stato di attuazione delle riforme vengono resi pubblici attraverso relazioni periodiche.

 

Le prospettive future

I paesi aderenti sono attualmente due, Bulgaria e Romania, la cuiadesione è prevista per il 1° gennaio 2007.

La Turchia e la Croazia hanno avviato formalmente, il 3 ottobre 2005, i negoziati per l’adesione.

La ex Repubblica iugoslava di Macedonia ha ottenutolo status di paese candidato nel dicembre 2005.

Bulgaria e Romania

Il processo di adesione della Bulgaria e della Romania è quasi concluso. Il Trattato di adesione è stato firmato il 25 aprile 2005, dopo l’espressione del parere da parte del Parlamento europeo, il 13 aprile 2005. Al momento, il trattato risulta ratificato, oltre che dall’Italia (legge n. 16 del 9 gennaio 2006), da quattordici paesi. Con la firma del Trattato, la Bulgaria e la Romania sono considerati paesi aderenti e partecipano come osservatori attivi a tutti i comitati e organi dell’UE.

Va segnalato che nel Trattato di adesione è stata inserita una clausola di salvaguardia addizionale che prevede che il Consiglio, su proposta della Commissione, possa decidere a maggioranza qualificata di rinviare l’adesione di un anno se non dovessero essere rispettati gli impegni assunti in materia di preparazione all’adesione, soprattutto per quanto riguarda i settori della giustizia e affari interni e della concorrenza.

ll 25 ottobre 2005 la Commissione ha pubblicato le relazione globali di verifica del grado di preparazione della Bulgaria e della Romania in vista dell’adesione all’Unione europea. Le relazioni segnalano che entrambi i paesi hanno compiuto buoni progressi e dovrebbero essere in grado di rispettare i criteri previsti dall’Unione europea per il 1° gennaio 2007, a condizione che concentrino tutti i loro sforzi sulle riforme, in particolare sulla loro reale attuazione. La prossima revisione del processo di preparazione di Bulgaria e Romania è prevista per il mese di maggio 2006.

Croazia

La Croazia, dichiarata paese candidato dal Consiglio europeo del 17 e 18 giugno 2004, ha avviato formalmente i negoziati per l’adesione il 3 ottobre 2005.

L’apertura dei negoziati di adesione con la Croazia era stata fissata dal Consiglio europeo di dicembre 2004 per il 17 marzo 2005, a condizione che il paese collaborasse pienamente con il Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia. Solo il 3 ottobre 2005, una volta constatata la piena collaborazione del paese con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, il Consiglio ha dato il via libera all’apertura dei negoziati.

In quanto paese candidato la Croazia usufruisce, a partire dal 1° gennaio 2005, degli attuali strumenti finanziari di preadesione.

Turchia

La Turchia ha ottenuto lo status di paese candidato dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999.

Sulla base della relazione periodica e della raccomandazione presentate dalla Commissione il 6 ottobre 2004, il Consiglio europeo del 16 e 17 dicembre 2004 ha deciso che la Turchia soddisfa sufficientemente i criteri politici di Copenaghen, fissando per il 3 ottobre 2005 la data di avvio dei negoziati di adesione, a condizione che entrassero in vigore alcuni specifici atti legislativi (legge sulle associazioni; nuovo codice penale; giurisdizione d’appello; codice di procedura penale; istituzione della polizia giudiziaria; esecuzione delle pene). Tale condizione è stata soddisfatta dalla Turchia il 1° giugno 2005.

Determinante per la decisione favorevole del Consiglio europeo di dicembre 2004 è stata la disponibilità manifestata dal Governo turco a firmare, prima dell’avvio dei negoziati, il protocollo che estende ai dieci nuovi Stati membri, compresa la Repubblica di Cipro, l’Accordo di associazione stipulato nel 1963 con la Comunità europea (cosiddetto Accordo di Ankara).

Il 3 ottobre 2005 il Consiglio ha approvato il quadro negoziale con la Turchia, consentendo l’apertura formale dei negoziati per l’adesione del paese all’Unione europea, nella data stabilita dal Consiglio europeo del dicembre 2004.

Alla decisione del Consiglio si è arrivati dopo una lunga e delicata trattativa. Il principale ostacolo è stato rappresentato dalla richiesta austriaca di prevedere, quale sbocco alternativo dei negoziati con la Turchia, l’ipotesi di un partenariato privilegiato che questa non era disposta ad accettare. L’approvazione del quadro negoziale è stata resa possibile dalla rinuncia dell’Austria a tale ipotesi, a fronte di un rafforzamento nel testo dell’importanza della capacità di assorbimento dell’UE quale criterio di valutazione per le future adesioni.

Anche in considerazione delle diffuse preoccupazioni manifestate in alcuni Stati membri rispetto all’adesione della Turchia all’Unione europea nonché dell’esperienza acquisita nel corso dei precedenti allargamenti, il quadro negoziale approvato per la Turchia è per alcuni aspetti più stringente rispetto al passato.

Facendo seguito alle conclusioni del Consiglio europeo di Helsinki del 1999, l’8 marzo 2001 il Consiglio ha adottato un Partenariato per l’adesione della Turchia, aggiornato da ultimo il 23 gennaio 2006, che riunisce in un unico strumento-quadro le priorità per la preparazione all’adesione e le risorse finanziarie disponibili.

Ex Repubblica iugoslava di Macedonia

La ex Repubblica iugoslava di Macedonia, che ha avanzato domanda di adesione all’Unione europea il 22 marzo 2004, ha ottenuto lo status di paese candidato dal Consiglio europeo del 15 e 16 dicembre 2005. Sulla base del parere favorevole espresso dalla Commissione, il Consiglio europeo ha tenuto conto in particolare dei progressi compiuti dal paese nell’attuazione dell’accordo di stabilizzazione ed associazione, entrato in vigore il 1° aprile 2004. Il Consiglio europeo ha precisato che ulteriori misure dovranno tenere conto delle discussioni sulla strategia per l’allargamento, del rispetto dei criteri e dei requisiti richiesti per l’adesione da parte dell’ex Repubblica iugoslava di Macedonia nonché della capacità di assorbimento dell’Unione europea.

Al momento non è prevista l’apertura dei negoziati di adesione.

La strategia della Commissione

Il 9 novembre 2005, congiuntamente alle relazioni sullo stato di preparazione dei singoli paesi, la Commissione ha presentato il documento di strategia 2005 sull’ampliamento (COM (2005) 561), in cui ha esposto i tre principi su cui si basa la strategia futura della Commissione in materia di allargamento:

·         consolidamento degli impegni che i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea hanno assunto nei confronti della Turchia e dei Balcani, tenendo in considerazione la capacità di assorbimento dell’UE e salvaguardando il buon funzionamento delle proprie istituzioni;

·         rispetto delle condizioni per l’adesione, manifestando rigore nell’esigere dai paesi il rispetto dei criteri richiesti ed equità nel riconoscere e ricompensare i progressi compiuti;

·         miglioramento della comunicazione per fugare le preoccupazioni e rendere più chiari i vantaggi dei futuri allargamenti, inaugurando un reale dialogo con i cittadini.

Il 16 marzo 2006, il Parlamento europeo ha adottato a larga maggioranza una risoluzione (397 voti a favore, 95 contrari e 37 astensioni) sul documento di strategia della Commissione.

Rapporti tra l’Unione europea e i Balcani occidentali

Come ribadito in più occasioni dalle istituzioni europee, la prossima fase del processo di allargamento riguarderà i paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Serbia-Montenegro e Kosovo) che, già in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Feira il 19 e 20 giugno 2000, sono stati definiti “candidati potenziali all’adesione all’Unione europea”. Tale approccio è stato ribadito da ultimo il 10 e 11 marzo 2006, nel corso del Consiglio affari esteri informale che si è tenuto a Salisburgo e al quale hanno partecipato anche i paesi candidati e potenziali candidati dei Balcani occidentali.

L’impegno dell’Unione europea nei confronti dei Balcani è confermato anche nella citata strategia per l’allargamento presentata il 9 novembre 2005, in cui la Commissione segnala l’importanza di una prospettiva europea convincente per il proseguimento del processo di riforma in atto in questi paesi.

Peraltro, nell’ambito delle riforma dell’assistenza esterna, proposta dalla Commissione nel quadro delle nuove prospettive finanziarie 2007-2013, è previsto che i Balcani occidentali beneficino dei finanziamenti dell’UE attraverso lo strumento dedicato all’assistenza preadesione.

Il Processo di stabilizzazione ed associazione

Attualmente le relazioni tra l’Unione europea e i cinque paesi dei Balcani occidentali si svolgono prevalentemente nel quadro del Processo di stabilizzazione ed associazione (PSA), istituito nel 1999.

Su proposta della Commissione (COM (1999) 235), il PSA è stato approvato dal Consiglio il 21 giugno 1999. Gli strumenti che compongono il PSA, formalizzati al Vertice UE-Balcani di Zagabria del 2000, sono stati arricchiti da elementi ispirati al processo di allargamento nel giugno 2003, con l’approvazione da parte del Consiglio europeo della cosiddetta “Agenda di Salonicco”.

Il processo è la cornice entro cui diversi strumenti sostengono gli sforzi compiuti da questi paesi nella fase di transizione verso democrazie ed economie di mercato stabili; come già anticipato, nel lungo periodo la prospettiva è quella della piena integrazione nell’Unione europea, sulla base delle previsioni del Trattato sull’Unione europea e dei criteri di Copenaghen.

Lo stato di avanzamento del processo viene costantemente seguito dalla Commissione che, attraverso la pubblicazione di una relazione annuale, fornisce indicazioni sui progressi realizzati dai paesi dei Balcani occidentali rispetto alla situazione dell’anno precedente. Tale relazione rappresenta l’indicatore principale per valutare se ciascun paese sia pronto per una relazione più stretta con l’UE.

Le componenti principali del PSA sono quattro: accordi di stabilizzazione ed associazione, elevato livello di assistenza finanziaria, misure commerciali e dimensione regionale.

La strategia futura

Il 27 gennaio 2006, la Commissione ha adottato la comunicazione “I Balcani occidentali sulla strada verso l’UE: consolidare la stabilità e rafforzare la prosperità” (COM (2006) 27), in cui propone di promuovere commercio, sviluppo economico, movimento di persone, istruzione e ricerca, cooperazione regionale e dialogo con la società civile nel Balcani occidentali come parte della strategia europea di integrazione dei popoli della regione. La comunicazione definisce misure concrete per rafforzare la politica dell’UE e gli strumenti a sua disposizione. L’obiettivo è quello di aiutare  questi paesi a rafforzare la prospettiva europea, che rappresentaun forte incentivo ad attuare riforme politiche ed economiche e ha favorito la riconciliazione tra i popoli della regione. Nella comunicazione la Commissione sottolinea infatti i progressi compiuti dai paesi della regione negli ultimi tre anni, in particolare in termini di stabilizzazione e riconciliazione, riforma interna e cooperazione regionale.

 

La politica europea di vicinato

La “politica europea di vicinato” (PEV) si rivolge ai nuovi Stati indipendenti (Bielorussia, Moldova, Ucraina), ai paesi del Mediterraneo meridionale (Algeria, Autorità palestinese, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Siria, Tunisia) e agli Stati del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia). L’obiettivo è quello di prevenire l’emergere di nuove linee di divisione tra l’Unione europea allargata e i suoi vicini, condividendo con questi ultimi i benefici dell’allargamento e consentendo loro di partecipare alle diverse attività dell’UE, attraverso una cooperazione politica, economica e culturale rafforzata.

La politica europea di vicinato, nettamente distinta dalla questione della potenziale adesione all’UE, propone un nuovo approccio nei confronti dei paesi interessati: in cambio dei progressi concreti compiuti in termini di riconoscimento dei valori comuni e di attuazione effettiva di riforme politiche, economiche e istituzionali, si riconosce loro una partecipazione al mercato interno dell’UE, nonché un’ulteriore integrazione e liberalizzazione per favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali.

Tra le azioni concrete che l’UE intende mettere in campo per realizzare la politica di vicinato, si segnalano in particolare:

·         l’istituzione, per il periodo 2004-2006, di programmi di vicinato volti a garantire la sicurezza delle frontiere esterne, a rafforzare la cooperazione transfrontaliera su temi comuni (ambiente, salute pubblica, lotta alla criminalità organizzata) e a favorire l’integrazione nello spazio europeo della ricerca e nei settori delle reti di trasporto, delle telecomunicazioni e dell’energia. Tali programmi saranno finanziati con un importo globale di 955 milioni di euro, nell’ambito degli strumenti finanziari esistenti;

·         a partire dal 2007, nel quadro delle prospettive finanziarie 2007-2013, l’istituzione di un unico strumento finanziario (Strumento europeo di vicinato e partenariato);

·         la pubblicazione di country reports che danno conto dei progressi compiuti da ciascun paese nell’attuazione degli accordi bilaterali e delle relative riforme;

·         la predisposizione di piani d’azione per ciascuno dei paesi interessati. Si tratta di strumenti considerati cruciali dalla Commissione nel processo di avvicinamento all’Unione, che non sostituiscono gli accordi di associazione o di cooperazione vigenti ma si avvalgono dell’esperienza acquisita nella loro attuazione. I piani d’azione saranno differenziati, per riflettere lo stato delle relazioni di ciascun paese con l’UE, le sue necessità e capacità, nonché gli interessi comuni, e definiranno il percorso da seguire nei prossimi 3-5 anni. I primi sette piani d’azione (Autorità palestinese, Giordania, Israele, Marocco, Moldova, Tunisia e Ucraina), presentati dalla Commissione il 9 dicembre 2004, sono stati approvati dal Consiglio nella riunione del 13 e 14 dicembre 2004. Per quanto riguarda gli altri paesi (Egitto, Libano, Armenia, Azerbaigian e Georgia), il 25 aprile 2005 il Consiglio, su proposta della Commissione, ha deciso di intensificare le relazioni reciproche. Per Egitto e Libano si tratta di predisporre al più presto i piani d’azione (la decisione di negoziare i piani d’azione è stata già presa dal Consiglio nel dicembre 2004); per i paesi del Caucaso meridionale il Consiglio ha invitato la Commissione ad avviare i lavori congiunti per allestire i piani d’azione.

 

Aiuto ai Paesi terzi

Il 29 settembre 2004, nel quadro delle prospettive finanziarie 2007-2013, la Commissione ha presentato proposte volte a sostituire l'attuale insieme di strumenti finanziari destinati all’erogazione dell'aiuto ai Paesi terzi (“assistenza esterna”) con un quadro più semplice ed efficace. La Commissione propone:

·         uno strumento per l’assistenza preadesione (anche detto IPA) dedicato ai paesi candidati (Turchia e Croazia) e ai paesi candidati potenziali (Balcani occidentali), che dovrebbe sostituire gli strumenti esistenti PHARE, ISPA, SAPARD, CARDS, come pure una serie di specifici regolamenti (COM (2004) 627);

·         uno strumento europeo di vicinato e partenariato (anche detto ENPI) dedicato ai Paesi terzi che partecipano alla politica europea di vicinato, (COM (2004) 628). Dovrebbe sostituire il programma MEDA e, in parte, il programma TACIS. Lo strumento fornirà sostegno anche al partenariato strategico dell’Unione europea con la Russia. Una componente specifica e innovativa di questo strumento consiste nella cooperazione transfrontaliera, la quale interesserà regioni degli Stati membri e dei paesi vicini che condividono una frontiera comune;

·         uno strumento per la cooperazione allo sviluppo e la cooperazione economica dedicato a tutti quei paesi, territori e regioni che non possono beneficiare dell’assistenza erogata dai due precedenti strumenti (COM (2004) 629);

·         uno strumento per la stabilità,finalizzato a reagire alle situazioni di crisi e di instabilità nei paesi terzi e ad affrontare i problemi di carattere transfrontaliero, con particolare riguardo alla sicurezza e alla non proliferazione nucleare nonché alla lotta contro i traffici illegali, la criminalità organizzata e il terrorismo (COM (2004) 630).

Le proposte avanzate dalla Commissione sono in attesa di essere esaminate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, ad eccezione di quella relativa allo strumento di cooperazione allo sviluppo e cooperazione economica, che è stata respinta dal Parlamento europeo in prima lettura e ritirata dalla Commissione il 15 marzo 2006.

Nel quadro della riforma dell’assistenza esterna proposta dalla Commissione, i nuovi strumenti forniranno gli atti giuridici di base per le spese comunitarie a sostegno dei programmi di cooperazione esterna, compresi i programmi tematici, vale a dire i programmi di natura orizzontale, specializzati per tema. In questo contesto, il 25 gennaio 2006 la Commissione ha adottato sette nuovi programmi tematici (diritti umani e democratizzazione; Investire nelle persone; ambiente e gestione sostenibile delle risorse naturali, compresa l’energia; sicurezza alimentare; organizzazioni non governative e autorità locali; migrazione e asilo; cooperazione con i paesi industrializzati), destinati a sostituire i 15 attualmente esistenti. Tali programmi si propongono di corrispondere ad obiettivi politici che non sono geograficamente delimitati e che non possono essere raggiunti attraverso programmi a carattere nazionale e regionale.

 


Prospettive finanziarie dell’UE 2007-2013

 

Le prospettive finanziarie stabiliscono, in relazione alle priorità politiche da esse individuate, il quadro delle grandi categorie di spesa del bilancio dell’Unione europea, indicando il massimale e la composizione delle spese prevedibili per ogni categoria nell’intero periodo di riferimento e in ciascuno degli anni in esso ricompresi. L’adozione delle prospettive finanziarie, che non è espressamente prevista dal Trattato CE, è operata - a partire dal 1988 - mediante la conclusione di un accordo interistituzionale tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione.

Le risorse proprie sono i mezzi di finanziamento dell’Unione. Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, stabilisce le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie della Comunità di cui raccomanda l’adozione da parte degli Stati membri, in conformità delle loro rispettive norme costituzionali.

L'accordo sulle prospettive finanziarie e la decisione sulle risorse proprie in vigore sono state adottate per il periodo 2000-2006 e scadono il 31 dicembre 2006.

 

Il 4 aprile 2006 Parlamento europeo, Consiglio dell'UE e Commissione europea hanno raggiunto un accordo sulle prospettive finanziarie e sulle risorse proprie 2007-2013, al termine di un negoziato complesso, caratterizzato da forti divergenze tra istituzioni europee e soprattutto tra Stati membri in merito al volume complessivo del bilancio dell’UE, nonché alle priorità politiche e ai relativi stanziamenti. L’intesa dovrà ora essere trasfusa in un accordo interistituzionale approvato formalmente dalle tre istituzioni.

L’accordo prevede un massimale complessivo di spesa dell’1,048% del reddito nazionale lordo (RNL) europeo in stanziamenti di impegno (pari a 864,316 miliardi di euro) e dell' 1% in stanziamenti di pagamento (pari a 820,780 miliardi di euro).

Il Consiglio europeo del 15-16 dicembre 2005 aveva concordato un massimale in stanziamenti di impegno dello 1,045% del RNL europeo (pari a 862,4 miliardi di euro),rispetto all'1,24 (pari a 1025 miliardi di euro) proposto originariamente dalla Commissione e all'1,18% (pari a 974,8 miliardi di euro) richiesto dal Parlamento europeo.

 

L'accordo del 4 aprile 2006 prevede inoltre, alla fine del 2009, una verifica intermedia del funzionamento delle prospettive finanziarie da parte della Commissione europea, cui dovrà essere associato il Parlamento europeo.

 

La Camera dei deputati ha seguito attivamente e costantemente il negoziato sulle prospettive finanziarie 2007-2013, attraverso diversi strumenti e procedure.

In particolare, le Commissioni V e XIV hanno svolto a partire da marzo 2004 un’indagine conoscitiva sulle prospettive finanziarie e sulla politica di coesione.

Specifici impegni al Governo in merito al negoziato sulle prospettive finanziarie sono inoltre contenuti nelle risoluzioni approvate dalla Camera in esito all’esame dellerelazioni sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea per l’anno 2003 e per l’anno 2004, nonché nella risoluzione approvata a conclusione dell’esame del programma di lavoro per il 2005 della Commissione europea e del programma operativo annuale per il 2005 del Consiglio.

Le questioni relative alle prospettive finanziarie 2007-2013 hanno inoltre costituito oggetto di approfondimento nell’ambito di riunioni ed incontri interparlamentari cui hanno partecipato delegazioni della Camera dei deputati.

 


La strategia di Lisbona

Gli obiettivi

Il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 ha definito una serie di azioni volte a far sì che entro il 2010 l’Unione europea consegua l’obiettivo di diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.

Gli obiettivi della strategia - rilanciati nella revisione intermedia della primavera 2005, che ha riorientato le priorità verso la crescita e l’occupazione - consistono in:

·         migliorare le politiche in materia di società dell’informazione e di ricerca e sviluppo tecnologico;

·         modernizzare il modello sociale europeo;

·         promuovere un contesto economico sano e prospettive di crescita favorevoli applicando un’adeguata combinazione di politiche macroeconomiche;

·         integrare pienamente la dimensione ambientale nelle politiche per lo sviluppo.

Il Consiglio europeo di Lisbona, inoltre, ha previsto che il Consiglio europeo si riunisca ogni primavera, sulla base di una relazione annuale della Commissione, per valutare lo stato di attuazione della strategia.

Con la revisione intermedia si è inteso anche coinvolgere tutte le forze interessate (Parlamenti, autorità locali, parti sociali e società civile) nella migliore realizzazione della strategia, che è stata orientata in un ciclo triennale.

La Commissione ha presentato le linee direttrici integrate per la crescita e l’occupazione per il periodo 2005-2008, approvate dal Consiglio europeo di giugno 2005.

Sulla base delle linee direttrici, gli Stati membri hanno definito programmi di riforma nazionali, che sono stati oggetto di consultazione con le parti interessate e successivamente esaminati dalla Commissione europea.

Come complemento dei programmi nazionali di riforma, a luglio 2005 la Commissione ha presentato una comunicazione sul programma comunitario di Lisbona 2005-2008 relativo alle azioni da intraprendere a livello comunitario a favore della crescita e dell’occupazione.

 

Il Consiglio europeo di primavera 2006

Il Consiglio europeo di primavera del 23 e 24 marzo 2006, accogliendo favorevolmente la relazione annuale presentata dalla Commissione sui progressi nell’attuazione della strategia di Lisbona rinnovata, ha convenuto quanto segue:

·         definizione di settori specifici per azioni prioritarie da attuare entro la fine del 2007:

-          aumentare gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione;

-          liberare il potenziale delle imprese, in particolare delle piccole e medie imprese;

-          accrescere le opportunità di lavoro per le categorie prioritarie (giovani, donne, lavoratori anziani, immigrati legali e minoranze etniche);

·         definizione di una nuova politica energetica per l’Europa

·         misure che devono essere assunte a tutti i livelli per mantenere lo slancio in tutti i pilastri del partenariato per la crescita e l’occupazione.

 


La proposta di direttiva sui servizi nel mercato interno

Il 16 febbraio 2006 il Parlamento europeo ha approvato in prima lettura – con 394 voti favorevoli, 215 contrari e 33 astensioni – la relazione predisposta dall’on. Evelyne Gebhardt (Partito socialista europeo) sulla proposta di direttiva relativa ai servizi nel mercato interno (COM(2004)2) (cosiddetta “direttiva Bolkenstein”).

La proposta, che segue la procedura di codecisione, è stata presentata dalla Commissione il 13 gennaio 2004 e si inserisce nel processo di riforme economiche varato dal Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000) al fine di fare dell’Unione europea, entro il 2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo.

L’obiettivo della proposta è quello di stabilire un quadro giuridico che elimini gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi ed alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri.

La proposta iniziale della Commissione – che aveva sollevato in tutti i gruppi politici del Parlamento europeo preoccupazioni sui possibili rischi di riduzione dell’acquis comunitario nel settore sociale – è stata sostanzialmente modificata dall’esame parlamentare.

Il testo approvato dal Parlamento europeo ribadisce l’obiettivo della proposta iniziale relativamente alla liberalizzazione dei servizi, sottolineando al contempo la necessità di assicurare un elevato livello di qualità dei servizi stessi. E’ stabilito, inoltre, che la direttiva non pregiudica le disposizioni comunitarie in materia di concorrenza e aiuti di Stato.

L’esame del Parlamento europeo si è focalizzato, in particolare, su alcuni punti controversi:

·         campo di applicazione (art. 2): relativamente a questo aspetto, il testo adottato dal Parlamento europeo ribadisce quanto previsto nella proposta della Commissione, ovvero l’esclusione dei servizi di interesse generale. A questo riguardo gli Stati membri restano liberi di definire, conformemente al diritto comunitario, quelli che essi considerano servizi d'interesse generale, nonché di determinare le modalità di organizzazione e di finanziamento di tali servizi e gli obblighi specifici cui essi devono sottostare. La direttiva si applica, tuttavia, ai servizi di interesse economico generale, ovvero ai servizi che corrispondono ad un’attività economica e sono aperti alla concorrenza quali i servizi postali, i servizi di trasmissione, distribuzione e fornitura di energia elettrica e di gas o i servizi di distribuzione e di fornitura idrica. Oltre a tutta una serie di settori indicati espressamente nel testo adottato dal Parlamento europeo, sono inoltre escluse dal campo di applicazione della direttiva le materie disciplinate da disposizioni comunitarie specifiche come quelle sul distacco dei lavoratori, l’esercizio delle attività televisive o le qualifiche professionali;

·         principio del Paese di origine (art. 16): la formulazione iniziale prevedeva la possibilità per un prestatore di fornire i propri servizi in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza unicamente in base alla legislazione dello Stato membro di origine. Il Parlamento europeo ha sostituito questo principio con quello della “libera circolazione dei servizi” in base al quale per la fornitura dei servizi si applica la legislazione del paese in cui essi vengono effettivamente prestati. Inoltre, si fa obbligo agli Stati membri di rispettare il diritto del prestatore di fornire i propri servizi liberamente sul suo territorio senza imporre requisiti discriminatori, ingiustificati e sproporzionati tranne che per motivi di pubblica sicurezza, protezione dell'ambiente e sanità pubblica;

·         distacco dei lavoratori (artt. 24 e 25): il Parlamento europeo ha soppresso le disposizioni relative al distacco dei lavoratori, ritenendo che questa questione ricada nel campo di applicazione della direttiva 96/71/CE relativa al distacco di lavoratori nell’ambito di una disciplina di servizi.

Il 4 aprile 2006 la Commissione ha presentato una proposta modificata che riprende in larga misura il testo adottato in prima lettura dal PE, in particolare per quanto riguarda la soppressione del principio del Paese di origine e la sua sostituzione con quello relativo alla libera circolazione dei servizi, nonché l’inclusione dei servizi di interesse economico generale nel campo di applicazione della direttiva proposta. La Commissione ha, inoltre, deciso di escludere dal campo di applicazione della direttiva proposta una serie di servizi, fra cui i servizi sanitari, alcuni dei quali saranno oggetto di iniziative specifiche.

Nella stessa data la Commissione ha presentato una comunicazione relativa agli “Orientamenti riguardanti il distacco dei lavoratori effettuato nell’ambito di una prestazione di servizi” al fine di facilitare l’applicazione della citata direttiva 96/71/CE.

Il testo modificato della proposta sarà ora trasmesso al Consiglio che, nelle intenzioni della Presidenza austriaca, dovrebbe raggiungere un accordo politico nel mese di giugno.

 

Esame presso la Camera dei deputati

La Camera dei deputati ha promosso una serie di iniziative dedicate all’esame della proposta di direttiva, anche al fine di definire una posizione italiana da difendere nelle opportune sedi europee.

La proposta è stata esaminata dalle Commissioni riunite X (Attività produttive) e XIV (Politiche dell’Unione europea) che hanno anche proceduto all’audizione congiunta di eurodeputati italiani e rappresentanti del Governo.

In conclusione dei lavori, il 25 gennaio 2006, le Commissioni hanno adottato un documento finale con il quale si invita il Governo ad adoperarsi nelle competenti sedi decisionali comunitarie affinché la proposta di direttiva si configuri come un atto giuridico “quadro” senza la previsione di norme di dettaglio, preveda l’elencazione puntuale dei settori a cui si applica, definisca meglio il principio del paese di origine per scongiurare forme di dumping sociale ed eviti il rischio di intaccare i sistemi nazionali volti ad assicurare un’alta qualità dei servizi e la tutela dei consumatori.

 

Biocarburanti

Il 7 dicembre 2005, la Commissione ha presentato una comunicazione relativa ad un piano d’azione per la biomassa (COM(2005)628), con la quale vengono  illustrate alcune misure volte a: intensificare lo sviluppo di energia dalla biomassa ricavata dal legno, dai rifiuti e dalle colture agricole, comprese le barbabietole, al fine di promuovere i biocarburanti nell’UE; avviare i preparativi per un uso su vasta scala dei biocarburanti; sostenere i paesi in via di sviluppo in cui la produzione di biocarburanti potrebbe promuovere una crescita economica sostenibile.

Il 23 gennaio 2006 il Consiglio agricoltura ha svolto un primo dibattito sulla comunicazione nel corso del quale la maggior parte delle delegazioni ha sottolineato l’impatto positivo dell’utilizzo dei biocarburanti soprattutto dal punto di vista della dipendenza dell’UE dalle energie fossili. Alcune delegazioni hanno suggerito di incrementare il livello del premio per le colture energetiche. Il 23 marzo 2006 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione con la quale appoggia la promozione dello sfruttamento di colture per scopi energetici.

 

A completamento del piano d’azione per la biomassa, l’ 8 febbraio 2006 la Commissione ha presentato una comunicazione sulla  strategia comunitaria per la promozione dei biocarburanti (COM(2006)34), volta ad incentivare la produzione di combustibili da materie prime agricole. Nel documento vengono stabilite le direttrici principali delle misure che la Commissione intende adottare per promuovere i biocarburanti: incentivare la domanda di biocarburanti, sfruttare i benefici ambientali, sviluppare la produzione e la distribuzione dei biocarburanti, ampliare la fornitura di materie prime, potenziare le opportunità commerciali, sostenere i paesi in via di sviluppo, sostenere la ricerca nel settore.

Sulla comunicazione, che è in attesa di essere esaminata dal Parlamento europeo,  il Consiglio ha iniziato una prima discussione il 20 febbraio 2006.

 

Cambiamento climatico

Il 24 ottobre 2005 la Commissione ha avviato la seconda fase del programma europeo per il cambiamento climatico (ECCPII), volto a definire la politica comunitaria in materia per il periodo successivo al 2012.

Nell’ambito del programma, strumento principale della strategia europea per l’attuazione del Protocollo di Kyoto, la Commissione intende valutare la possibilità di intraprendere nuove azioni per sfruttare le soluzioni economicamente efficaci disponibili per l’abbattimento delle emissioni, in sinergia con la strategia di Lisbona: in questo contesto l’attenzione è rivolta all’efficienza energetica, alle fonti rinnovabili, ai trasporti e alla cattura e stoccaggio del carbonio.

In merito al cambiamento climatico il Consiglio ambiente del 9 marzo 2006, nelle sue conclusioni, ha tra l’altro sottolineato l’esigenza di garantire coerenza tra le questioni relative all’energia e quelle relative al clima, sfruttando le sinergie tra promozione della sicurezza energetica, offerta di energia sostenibile, innovazione e riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

 

Scambio di quote di emissione

La Commissione ha preannunciato la presentazione di una proposta di modifica della direttiva 2003/87/CE, che definisce il sistema europeo di scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra. L’obiettivo della proposta è di estendere il campo di applicazione della direttiva anche al trasporto aereo.

Al riguardo, si ricorda che la Commissione ha presentato, il 27 settembre 2005, la comunicazione “Ridurre l’impatto del trasporto aereo sui cambiamenti climatici”, nella quale delinea una strategia volta ad impedire che il traffico aereo comprometta il raggiungimento dell’obiettivo generale di limitare l’aumento della temperatura della superficie terrestre (COM (2005) 459). Tale strategia si prefigge, tra l’altro, di: sviluppare la ricerca per un trasporto aereo più pulito; migliorare la gestione del traffico aereo, per diminuire il consumo di carburante; applicare più coerentemente la fiscalità energetica, attraverso la tassazione generalizzata del carburante utilizzato per il trasporto aereo commerciale.

 

Reti TEN

Il 20 luglio 2005 la Commissione ha presentato una serie di misure intese a favorire lo sviluppo delle reti transeuropee di trasporto:

·         una comunicazione (SEC(2005)965) che traccia un quadro dell’attuazione delle reti TEN e prospetta una serie di misure volte a dare un nuovo impulso alla realizzazione delle infrastrutture TEN tra cui l’istituzione di un gruppo di pilotaggio per favorire la coerenza delle politiche per lo sviluppo  delle reti transeuropee;

·         un progetto di decisione per il conferimento a 6 coordinatori europei di un mandato per facilitare l’attuazione di 5 progetti prioritari e di un progetto orizzontale a tutte le reti TEN (C 2754) con cui la Commissione intende assicurare l’avanzamento dei lavori di importanti progetti per la cui realizzazione si sono registrate forti difficoltà;

·         un progetto di decisione  per l’istituzione dell’Agenzia esecutiva europea per la Rete transeuropea dei trasporti (COM(2005)1011), incaricata dell’esecuzione dei progetti e della concessione dei contributi comunitari.

Libro verde energia

L’8 marzo 2006 la Commissione europea ha presentato il Libro verde “Una strategia per un’energia sostenibile, competitiva e sicura” (COM(2006)105), chedelinea tre obiettivi fondamentali per una strategia europea in campo energetico: la sostenibilità, la competitività e la sicurezza dell’approvvigionamento. Il Libro verde è aperto alla consultazione pubblica fino al 24 settembre 2006.

Il libro verde indica sei settori prioritari di intervento per raggiungere questi obiettivi:

·         completare i mercati interni del gas e dell’energia elettrica

·         rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento assicurando la solidarietà tra gli stati membri

·         scegliere un mix energetico più sostenibile, efficiente e diversificato

·         puntare sull’efficienza energetica e sull’energia rinnovabile per far fronte al riscaldamento globale

·         elaborare un piano strategico per le tecnologie energetiche per garantire che le industrie europee siano leader mondiali nel crescente mercato delle nuove tecnologie

·         elaborare una politica energetica esterna comune e parlare con una sola voce a livello internazionale.

Il Consiglio europeo del 23 e 24 marzo 2006, ha sostenuto i tre obiettivi fondamentali della Commissione ed ha accolto con favore l’intenzione della Commissione di presentare, periodicamente, un riesame strategico della politica energetica che, a partire dal 2007, potrà servire da base di discussione per i prossimi vertici di primavera.

 



[1] Per un esame più approfondito di tale processo di riorganizzazione generale dei Ministeri si veda il capitolo Riordino dei ministeri.

[2] In merito alle modifiche di carattere generale è stata rivista radicalmente la scelta della dipartimentalizzazione di quasi tutti i ministeri, operata dal precedente decreto legislativo n. 300 prevedendo, in via generale, quali strutture di primo livello, alternativamente i dipartimenti oppure le direzioni generali. Sostanzialmente, è stata quindi data alle singole amministrazioni l’opportunità di scegliere la propria struttura organizzativa, decidendo tra i dipartimenti e le direzioni generali.

[3] Il decreto legislativo n. 287 ha infatti disposto – in via generale – che nei Ministeri in cui le strutture di primo livello sono costituite da direzioni generali può essere istituito l’ufficio di segretario generale” (art. 2), mentre “nei Ministeri organizzati in dipartimenti l’ufficio di segretario generale, ove previsto da precedenti disposizioni di legge o regolamento, è soppresso. I compiti attribuiti a tale ufficio sono distribuiti tra i capi dipartimento” (art. 1).

[4] Si ricorda che già l’art. 8 della legge n. 150 del 1992 ha attribuito, in via generale, al Ministero dell’ambiente, la competenza a curare l'adempimento della Convenzione di Washington del 3 marzo 1973, demandando, invece, la disciplina delle modalità relative ai controlli in ambito doganale a successivi decreti interministeriali.

[5] La dotazione organica del personale è costituita dai contingenti individuati nelle tabelle A e B allegate al DPR n. 261 del 2003 e risultava (al momento dell’emanazione del DPR) pari a 998 unità (900 provenienti dal soppresso Ministero dell’ambiente e 98 dalla Direzione generale della difesa del suolo del soppresso Ministero dei lavori pubblici). La dotazione, invece, è stata rideterminata a 945 unità con DPCM del 14 ottobre 2005, a seguito dell’approvazione dell’art. 1, comma 93, della legge n. 311 del 2004 (finanziaria 2005), che ha disposto una riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni.

[6] Relazioni della Corte dei Conti sul Rendiconto generale dello Stato per gli esercizi finanziari 2003 e 2004.

[7] La Relazione della Corte sul Rendiconto generale per l’esercizio 2003 aveva sottolineato che, solo con riferimento alla Direzione della difesa del suolo (per le funzioni relative alla programmazione, realizzazione e gestione delle reti infrastrutturali di interesse nazionale, comprese le reti elettriche, idrauliche, ed acquedottistiche), non era sembrato ben definito il riparto delle competenze esercitate dai Ministeri interessati (ambiente, attività produttive e infrastrutture e trasporti).

[8] Parere favorevole della I Commissione (Affari costituzionali) della Camera reso in data 22 dicembre 2005.

[9] Recante Disposizioni in materia ambientale (cd. collegato ambientale alla finanziaria 2002).

[10] Recante Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione (cd. delega ambientale).

[11] Con successivo decreto ministeriale dell’8 maggio 2003 è stata determinata la struttura organizzativa del nuovo reparto, che è stato messo subito in grado di operare.

[12]Sono state modificate le norme riguardanti il Comitato dei Ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo (art. 4, legge n. 183), cui viene attribuita una nuova competenza trasversale di coordinamento delle politiche settoriali connesse con la pianificazione di bacino; le norme dell’art. 5 della stessa legge sulle competenze del Ministro dei lavori pubblici (trasferite al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio); le norme sulla presidenza dei comitati istituzionali delle Autorità di bacino di rilievo nazionale (art. 12).

[13] Tale Segreteria avrà il compito, ai sensi dell’art. 207 del decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, di affiancare l’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche per l’espletamento dei propri compiti.

[14] In merito alle funzioni dell’Osservatorio nazionale sulle fonti rinnovabili si veda la scheda Fonti rinnovabili - Il decreto legislativo n. 387/2003.

[15] Si ricorda che anche la V Commissione e la XIV Commissione hanno esaminato lo schema di decreto (rispettivamente, nelle due sedute dell’11 gennaio 2006 e nelle due sedute del 20 dicembre 2005 e dell’11 gennaio 2006).

[16] La V Commissione ha esaminato l’Atto del Governo n. 596 nelle sedute del 26 e del 31 gennaio, mentre la XIV Commissione ha esaminato lo schema nella seduta del 1° febbraio 2006.

[17] Il primo parere approvato dalla VIII Commissione della Camera nella seduta del 12 gennaio 2006 recava 21 condizioni e 78 osservazioni. L’intervento del relatore On. Foti nella seduta del 25 gennaio, di illustrazione del nuovo testo trasmesso dal Governo (Atto del Governo n. 596), sottolineava che – delle 21 condizioni proposte nel primo parere – 20 risultavano essere state accolte nel nuovo testo. Analoga soddisfazione veniva espressa per il significativo numero di osservazioni che avevano trovato un sostanziale accoglimento da parte del Governo.

[18]Art. 6 della legge n. 349 del 1986, DPCM n. 377 del 1988 e DPCM 27 dicembre 1988.

[19] DPR 12 aprile 1996, in seguito modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000.

[20] Piani di settore a carattere nazionale.

[21] Si ricorda che l’art. 30 della legge n. 183 del 1989 aveva previsto l’individuazione di un bacino-pilota (scelto per le particolari condizioni di dissesto idrogeologico, di rischio sismico e di inquinamento delle acque), nel quale procedere alla predisposizione del piano di bacino e alla sperimentazione delle normative tecniche e delle più opportune modalità di coordinamento con i piani di risanamento delle acque e di smaltimento dei rifiuti. Tale bacino era stato individuato nel bacino del Serchio. In quanto bacino-pilota, il bacino del Serchio è dotato di piena autonomia funzionale ed organizzativa, come i bacini di rilievo nazionale.

[22] Più precisamente l’art. 159, comma 1, prevede che il Comitato assuma la denominazione di Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, in cui confluisce anche l’Osservatorio nazionale sui rifiuti. L’art. 207, comma 2, dispone quindi che l’Autorità, “oltre alle attribuzioni individuate dal presente articolo, subentra in tutte le altre competenze già assegnate dall’articolo 26 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 all’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il quale continua ad operare sino all’entrata in vigore del regolamento” che, ai sensi del comma 4 dell’articolo 159 del presente decreto, dovrà disciplinare l’organizzazione e il funzionamento, anche contabile, dell’Autorità stessa. Per tale regolamento, ai sensi del citato comma 4, è prevista l’adozione con delibera del Consiglio dell’Autorità e l’emanazione con DPCM ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988.

[23] Le direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi.

[24] Ad esempio Agenzie regionali di protezione ambientale o soggetti titolari del servizio pubblico locale di raccolta e gestione dei rifiuti.

[25] Ad esempio imprese, consorzi di imprese, associazioni di categoria.

[26] In particolare, il comma 6 dell’art. 181 fa riferimento ai “metodi di recupero dei rifiuti utilizzati per ottenere materia prima secondaria, combustibili o prodotti”.

[27] L’art. 4, comma 4, del “decreto Ronchi” disponeva che “Le autorità competenti promuovono e stipulano accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati al fine di favorire il riutilizzo, il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti, con particolare riferimento al reimpiego di materie prime e di prodotti ottenuti dalla raccolta differenziata con la possibilità di stabilire agevolazioni in materia di adempimenti amministrativi nel rispetto delle norme comunitarie ed il ricorso a strumenti economici”.

[28] L’articolo citato della direttiva prevede che “possono essere dispensati dall'autorizzazione di cui all'articolo 9 o all'articolo 10:

a) gli stabilimenti o le imprese che provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi di produzione, e

b) gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti.

Tale dispensa si può concedere solo qualora si verifichino le seguenti due circostanze:

§       le autorità competenti abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l'attività può essere dispensata dall'autorizzazione;

§       i tipi o le quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di recupero siano tali da rispettare le condizioni imposte all'articolo 4”.

[29]Legge 31 luglio 2002, n. 179.

[30] Si ricorda – in proposito – che, secondo il recente III Rapporto FISE-Assoambiente (aprile 2006), nel settore della gestione dei servizi urbani (raccolta e trasporto), le società pubbliche sono aumentate, a confronto con il 2002, del 4,8% (dal 30% al 34,8% complessivo), mentre le società miste del 4%. Parallelamente, le società private nello stesso periodo sono diminuite del 5%: oggi, solo il 28,2% dei comuni italiani dichiara di gestire il trasporto e la raccolta di rifiuti urbani attraverso imprese a capitale privato, mentre il 2002 tale percentuale raggiungeva il 33,2%.

[31] La prima legge in materia viene considerata anche la prima legge ecologica comparsa nell’ordinamento italiano, in quanto costituisce il primo modello di intervento dello Stato nella disciplina dell’inquinamento: la legge 13 luglio 1966, n. 615. L’origine di questa legge da una nuova finalità, di carattere ecologico appunto, si rileva nella circostanza che essa recava una disciplina unitaria, estesa a tutte le fonti di possibili emissioni in atmosfera di fumi o gas nocivi.

[32] Ai sensi del primo comma dell’art. 844 c.c. “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”. Il secondo comma specifica la regola generale contenuta nel primo prevedendo che "nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”. La giurisprudenza in materia ha assunto – nell’ultimo trentennio – un carattere fortemente evolutivo.

[33] L'art. 2043 cod. civ. rappresenta invece la norma generale sul risarcimento del danno da fatto illecito. Tale norma è in vario modo coniugabile con l'art. 844 cod. civ.

[34] E’ utile ricordare che il concetto di danno ambientale non era comunque del tutto sconosciuto al nostro sistema giuridico al tempo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente: sin dagli anni ’70 il giudice contabile aveva ricondotto il danno ambientale alla nozione di danno erariale, con conseguente competenza decisoria della Corte dei Conti stessa.

[35] Quali proprietà e salute.

[36] Ai sensi del successivo comma 3 dello stesso articolo, l’azione per il risarcimento del danno , anche se esercitata in sede penale, era promossa dallo Stato e dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo, mentre la risarcibilità del danno era riconosciuta solo a favore delloStato.

Si deve ricordare, in proposito, che – con modifica alla legge n. 142 del 1990 – la legge n. 265 del 1999 ha introdotto una importante novità in materia di legittimazione ad agire, stabilendo che le associazioni di protezione ambientale (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione.

Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

[37] Ai sensi del comma 7, “ nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della più propria responsabilità individuale”.

[38] Il comma 6 stabilisce, inoltre, che il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

[39] Anche se agli articoli 304 e 305, sembra invece riaffacciarsi un principio di responsabilità oggettiva (almeno per l’”operatore”, senza peraltro specificare se con tale termine debba intendersi colui che svolge attività pericolosa o meno).

[40] Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

[41] COM (2003) 301 def. Tale documento può essere consultato all’indirizzo internet http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2003/com2003_0301it01.pdf.

[42] Nel corso della XIII legislatura, la Commissione ambiente della Camera ha approvato la risoluzione n. 7-00525, a firma Gerardini e altri, che impegnava il Governo ad elaborare una proposta del nostro Paese che contenesse chiari riferimenti per la definizione di "rifiuto" e del termine "disfarsi", nonché per la distinzione tra rifiuto e prodotto, attivandosi presso l'Unione europea perché fosse discussa tutta la materia.

[43] La necessità che sia precisata “la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è” è stata segnalata nel I(cfr. http://europa.eu.int/eur-lex/it/com/pdf/2001/it_501PC0031.pdf), e ribadita dalla citata comunicazione della Commissione del 27 maggio 2003, secondo cui “la definizione di rifiuto è una costruzione giuridica certamente migliorabile”.

[44] Si vedano, in proposito, i box contenuti nel paragrafo “Definizioni e limiti al campo di applicazione“ della scheda Il riordino del diritto ambientale - Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

[45] Formata dalla direttiva quadro sui rifiuti (75/442/CEE), dalla direttiva sui rifiuti pericolosi (91/689/CEE), nonché dal regolamento sulle spedizioni di rifiuti (Regolamento n. 259/1993).

[46] Cfr. articolo 174 del trattato CE.

[47] Convertito con modificazioni dalla legge 15 aprile 2005, n. 53.

[48] Convertito con modificazioni dalla legge 26 luglio 2005, n. 152.

[49] Convertito con modificazioni dalla legge 27 gennaio 2006, n. 21.

[50] Più precisamente, l’art. 1, comma 6, del decreto prevede la proroga degli stati di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nelle regioni Campania, Calabria, Lazio, Puglia e Sicilia, mentre per il settore delle bonifiche la proroga riguarda solamente le regioni Calabria, Campania e Puglia.

Sulla situazione emergenziale nel territorio e sui commissariamenti la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha prodotto diversi documenti (Doc. XXIII, nn. 1, 4, 5, 15 e 17) disponibili sul sito internet della Camera all’indirizzo www.camera.it/_bicamerali/leg14/rifiuti/inddoc.htm.

[51] Tale relazione, approvata nella seduta del 15 febbraio 2006, è disponibile all’indirizzo internet www.camera.it/_dati/leg14/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/023/019/intero.pdf.

[52] Una breve panoramica sullo stato di attuazione del Programma viene fornita nel capitolo 4 della citata relazione finale della Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti disponibile all’indirizzo internet www.camera.it/_dati/leg14/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/023/019/intero.pdf

[53] Gli interventi di interesse nazionale contemplati dall’art. 1 della legge n. 426 del 1998 – inclusi nell’Allegato A al D.M. n. 468 del 2001 – riguardano 14 siti: Porto Marghera (Veneto); Napoli Orientale e Litorale Domizio-Flegreo-Agro Aversano (Campania); Gela-Priolo (Sicilia); Manfredonia, Taranto e Brindisi (Puglia); Cengio-Saliceto (Liguria-Piemonte); Piombino e Massa-Carrara (Toscana); Casale Monferrato, Balangero e Pieve Vergonte (Piemonte); Pitelli (Liguria).

L’Allegato C al D.M. n. 468 del 2001 riporta i 3 siti di interesse nazionale individuati dalla legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001): Sesto San Giovanni e Pioltello-Rodano (Lombardia) e Napoli Bagnoli-Coroglio (Campania).

Il D.M. n. 468/2001 ha individuato – nell’Allegato E - altri 23 siti: Tito (Basilicata); Fiumi Saline e Alento (Abruzzo); Crotone-Cassano-Cerchiara (Calabria); Sassuolo-Scandiano e Fidenza (Emilia Romagna); Trieste e Laguna di Grado e Marano (Friuli Venezia Giulia); Frosinone (Lazio); Cogoleto-Stoppani (Liguria); Cerro al Lambro e Milano-Bovisa (Lombardia); Basso bacino del fiume Chienti (Marche); Campobasso-Guglionesi II (Molise); Basse di Stura (Piemonte); Bari-Fibronit (Puglia); Sulcis-Iglesiente-Guspinese (Sardegna); Biancavilla (Sicilia); Livorno (Toscana); Terni-Papigno (Umbria); Emarese (Valle d’Aosta); Mardimago-Ceregnano-Rovigo (Veneto); Bolzano e Trento nord.

[54] A tali risorse devono essere aggiunte quelle provenienti dall’applicazione del DM ambiente 14 ottobre 2003 recante la disciplina delle modalità di funzionamento ed accesso al fondo di rotazione istituito, per l’effettuazione di interventi di bonifica, dal comma 9-bis dell'art. 18 della legge n. 349/1986, e alimentato dalle “somme derivanti dalla riscossione dei crediti a favore dello Stato per risarcimento del danno ambientale, ivi comprese quelle derivanti dall'escussione di fidejussioni a favore dello Stato, assunte a garanzia del risarcimento medesimo” (art. 4, comma 1, del citato DM).

[55] L’art. 14 della legge n. 179 del 2002 ha modificato l’art. 1, comma 4, della legge n. 426 del 1998, individuando altri 9 siti di interesse nazionale: Brescia-Caffaro, Broni e Laghi di Mantova e polo chimico (Lombardia); Falconara Marittima (Marche); Serravalle Scrivia (Piemonte); Orbetello area ex Sitoco (Toscana); Aree del litorale vesuviano (Campania); Aree industriali di Porto Torres (Sardegna); Area industriale della Val Basento (Basilicata).

[56] Si fa notare che gli interventi da considerare sono in realtà 50, atteso che i siti di Gela e Priolo (sito unico nella legge n. 426 del 1998) rappresentano due realtà geografiche ben distinte.

[57] Delineata dalla legge n. 426 del 1998 e dal DM n. 468/2001.

[58] Il problema dell’individuazione di un deposito nazionale per lo stoccaggio e lo smaltimento delle scorie radioattive è stato posto all’attenzione, non solo del mondo scientifico, ma anche degli organi di governo e del Parlamento, da diversi anni. In particolare, dalla metà degli anni ’90, sono state frequenti le sollecitazioni agli organi di governo affinché fosse assunta una decisione in tal senso. Possono ricordarsi i principali documenti ufficiali recanti questo espresso indirizzo, vale a dire l’accordo del 1999 fra Governo e Regioni per la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi italiani (da cui è scaturito, nel maggio 2001, il Rapporto sulle condizioni per la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi) ed il documento del dicembre 1999 del Ministero dell’industria, trasmesso al Parlamento “Indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare”. Si ricorda, altresì, che il d.lgs n. 230/1995, come modificato dal d.lgs. n. 241/2000, nel dare attuazione alle direttive Euratom 89/618, 90/641, 92/3 e 96/29 in materia di radiazioni ionizzanti, ha previsto nel Capo VI (“Regime giuridico per le installazioni e particolari disposizioni per i rifiuti radioattivi) un’articolata disciplina dei rifiuti radioattivi.

[59] Lo stato di emergenza è stato da ultimo prorogato fino al 31 dicembre 2006 dal DPCM 17 febbraio 2006, Proroga dello stato di emergenza in relazione all'attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi, dislocati nelle centrali nucleari di Trino, Caorso, Latina, Garigliano, nella piscina di Avogadro in località Saluggia e ITREC di Trisaia, in condizioni di massima sicurezza (G.U. n. 50 del 1° marzo 2006).

[60] Il documento conclusivo può essere consultato sul sito internet della Camera all’indirizzo www.camera.it/_dati/leg14/lavori/stencomm/08/indag/sicurezza_ambientale/2003/0313/pdf001.pdf.

[61] Sulla classificazione dei rifiuti radioattivi nelle tre categorie I, II e III, si veda la Guida Tecnica n. 26 “Gestione dei rifiuti radioattivi” dell’ENEA (1987), disponibile anche all’indirizzo internet http://info.casaccia.enea.it/conferenza-statoregioni/atti/doc_attori/11 - guidatecnica26.pdf.

[62] Sulle possibilità di rispetto di tale scadenza, anche alla luce delle esperienze maturate negli altri Paesi del mondo, si veda A. Costa, Deposito nazionale di rifiuti radioattivi di terza categoria: un decreto inutile?, in “Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa”, n. 8/2004.

[63] Recante Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia e pubblicata nella G.U. 13 settembre 2004, n. 215.

[64]Per una rassegna delle iniziative intraprese in altri Paesi cfr. A. Sileo, H. Franchini, Scorie radioattive: uno sguardo oltre i confini italiani, all’indirizzo www.ambientediritto.it/dottrina/Politiche energetiche ambientali/politiche e.a/Scorie_radioattive.htm.

[65] Il testo tradotto della Convenzione può essere consultato su www.admin.ch/ch/i/as/2005/33.pdf.

[66] COM (2003)32, reperibile sull’indirizzo internet: http://europa.eu.int/eur-lex/it/com/pdf/2003/com2003_0032it01.pdf.

[67] Si segnalano in proposito anche la Convenzione di Rotterdam sulla procedura del consenso informato a priori per alcuni prodotti chimici e pesticidi pericolosi nel commercio internazionale, con allegati fatta a Rotterdam il 10 settembre 1998 (ratificata con la legge 11 luglio 2002, n. 176) e  l’Emendamento al Protocollo di Montreal sulle sostanze che impoveriscono lo strato di ozono, adottato durante la XI Conferenza delle Parti a Pechino il 3 dicembre 1999, ratificato con la legge 30 giugno 2004, n1. 185.

[68] Pubblicata in G.U. n. 68 del 22 marzo 2003.

[69] In base all’articolo 3, lettera a) della direttiva, per "quota di emissioni" si intende “il diritto di emettere una tonnellata di biossido di carbonio equivalente per un periodo determinato, valido unicamente per rispettare le disposizioni della presente direttiva e cedibile conformemente alla medesima”. In base all’articolo 16, la mancata resa di una quota d’emissione comporta una sanzione pecuniaria di 40 Euro nel periodo 2005-2007 e di 100 Euro nei periodi successivi; le emissioni oggetto di sanzione non sono esonerate dall’obbligo di resa di quote.

[70] Convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 316.

[71] Pubblicato nella G.U. n. 57 del 9 marzo 2006 - Suppl. Ordinario n. 56.

[72] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, 2004/101/CE del 27 ottobre 2004, recante modifica della direttiva 2003/87/CE che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità, riguardo ai meccanismi di progetto del Protocollo di Kyoto.

[73] COM(97) 88 def.

[74] Vale a dire "l'ozono cattivo" presente a bassa quota, da distinguere dall'ozono stratosferico, che non è un inquinante, ma un composto naturale della stratosfera.

[75] La direttiva 2004/107/CE è inserita nell’allegato A della legge 25 gennaio 2006, n. 29 (legge comunitaria 2005). Il relativo termine per la trasposizione nell’ordinamento nazionale non è ancora scaduto, essendo fissato al 15 febbraio 2007.

[76] In tal senso, si veda, da ultimo, la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 21 settembre 2005 (COM[2005] 446 def.) – Strategia tematica sull’inquinamento atmosferico.

[77] Si noti che l’obbligo, sancito dal decreto per le imprese che riforniscono direttamente di combustibili gli impianti di distribuzione, di garantire la commercializzazione di benzina senza piombo e combustibile diesel con un tenore massimo di zolfo pari a 10 mg/kg e conforme alle altre specifiche di cui all'Allegato I è contestuale alla commercializzazione dei veicoli EURO 4, progettati in modo da funzionare al meglio con tali combustibili.

[78] Pubblicato nel S.O. n. 72/L alla G.U. del 22 aprile 2005.

[79] Tra cui, in particolare, i commi 3, 4 e 5 dell'articolo 77 (Interventi ambientali) della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003).

[80] La normativa comunitaria in materia di COV è stata recentemente integrata con l’emanazione della direttiva 2004/42/CE relativa alla limitazione delle emissioni di composti organici volatili dovute all'uso di solventi organici in talune pitture e vernici e in taluni prodotti per carrozzeria e recante modifica della direttiva 1999/13/CE. Un apposito decreto legislativo per il recepimento di tale direttiva è in corso di pubblicazione (alla data di chiusura della XIV legislatura).

[81] Si ricorda in proposito che il citato DM 8 maggio 1989 aveva consentito di recepire nell’ordinamento nazionale la direttiva 88/609/CEE di cui la citata direttiva 2001/80/CE costituisce un aggiornamento.

[82] Pubblicata in G.U. 3 agosto 2002, n. 181, S.O.

[83] Alla ripartizione dei contributi previsti dall’art. 13, comma 2, si è provveduto con D.M. 5 maggio 2003 (G.U. n. 229/2003), con due decreti datati 25 febbraio 2004 (G.U. n. 88/2004), con D.Dirett. 27 ottobre 2004 (G.U. n. 289/2004), con Decreto 18 febbraio 2005 (G.U. n. 96/2005), con Decreto 7 marzo 2005 (G.U. n. 104/2005) e con D.Dirett. 21 novembre 2005 (G.U. n. 31/2006). L’attuazione del disposto dell’art. 17 è invece avvenuta con il D.M. 24 maggio 2004 (G.U. n. 243/2004).

[84] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 22 aprile 2005, n. 58.

[85] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002 n. 178.

[86] Per una breve sintesi della materia è possibile consultare il sito internet http://www.municipio.re.it/ambiente/infoambsito.nsf/36a7e79ff0233917c1256e9a003b59ea/ccf7e485549c9605c12570990040fbf4?OpenDocument.

[87] Recante Differimento di misure agevolative in materia di tasse automobilistiche e convertito dalla legge 14 marzo 2003, n. 39.

[88] Il cui documento conclusivo è consultabile al seguente indirizzo internet:

www.senato.it/documenti/repository/commissioni/comm13/Indagini conoscitive/aree-010d.pdf.

[89] Si richiama inoltre la legge 29 dicembre 2003, n. 376, che ha finanziato specifici interventi di particolare interesse locale, molti dei quali finalizzati al potenziamento di infrastrutture stradali.

[90] Il DPCM 8 marzo 2002 è stato poi modificato dal successivo DPCM 8 ottobre 2004 al fine di incentivare lo sviluppo delle biomasse (v. capitolo Energie rinnovabili), attraverso la ridefinizione dei vincoli connessi con il loro impiego termico, nell’ambito delle politiche per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni posti dal Protocollo di Kyoto (v. capitolo L’attuazione del Protocollo di Kyoto).

[91] Vengono aggiunti (lettere t)-z) dell’Allegato IV – Parte I) rispetto alla normativa vigente, nell’elenco degli impianti ed attività in deroga, numerosi tipi di attività di carattere agricolo e zootecnico.

[92] In questa definizione sono compresi sia gli impianti radiotelevisivi che quelli di telecomunicazioni.

[93] Raccomandazione del Consiglio, del 12 luglio 1999, relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici da 0 Hz a 300 GHz.

[94] Si ricorda inoltre che, nel novembre 1994, il CENELEC (Comité Européen de Normalisation Electrotecnique) aveva approvato le linee guida sperimentali relative all’esposizione umana applicabili agli intervalli 0 – 10 kHz e 10 kHz – 300 GHz. Tali norme, che fissavano valori limite coerenti con le linee guida ICNIRP, sono state pubblicate in Italia dal CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano) nel maggio 1995 e successivamente ritirate dopo la pubblicazione della citata raccomandazione.

[95] Volt/metro (V/m) 1 kV = 1000 V.

[96] A causa della difficoltà di effettuare paragoni puntuali – derivante principalmente dai diversi intervalli di riferimento considerati dalle differenti normative – il confronto viene effettuato in corrispondenza delle due frequenze puntuali considerate di consueto nella letteratura scientifica come tipiche della telefonia mobile (900 Mhz - ripetitori per cellulari e 1800 Mhz – dual band), anche in considerazione della loro presenza ormai capillare sul territorio.

[97] Gli obiettivi di qualità coincidono, nel DPCM 8 luglio 2003 relativo alle alte frequenze, ai valori di attenzione.

[98] V. Giampietro, Campi elettromagnetici: applicazione nazionale dei limiti europei, in Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa, n. 2/2004.

[99] Tale provvedimento di fatto derogava all’art. 8, comma 1, lettera c) della legge n. 36 del 2001, che assegna alle regioni la competenza a definire “le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla installazione degli impianti”.

[100] Vedi la scheda La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale.

[101] Vale a dire entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, pubblicata nella G.U. n. 32 dell'8 febbraio 2006 – S.O. n. 34.

[102] Limitazioni all’esposizione a campi elettromagnetici direttamente basate su effetti sanitari accertati e su considerazioni biologiche. Il rispetto di questi limiti assicura che i lavoratori esposti siano protetti da tutti gli effetti nocivi noti.

[103] Parametri direttamente misurabili a cui si devono intraprendere una o più delle misure specificate nella direttiva. Il rispetto di questi valori assicura il rispetto dei pertinenti limiti di esposizione.

[104] Nell’ambito dell’ambiente abitativo sono ricompresi anche i locali pubblici. Si ricorda, inoltre, che la legge quadro non comprende, invece, nel proprio ambito applicativo l’ambiente lavorativo, per il quale il riferimento normativo di base è costituito dal d.lgs. 15 agosto 1991, n. 227.

[105] A rigore, pur essendo completo il quadro generale, devono ancora essere emanati alcuni decreti relativi a materie specifiche: il DM lavori pubblici (ora Infrastrutture e trasporti) con i criteri per la progettazione, esecuzione e ristrutturazione delle costruzioni edilizie e delle infrastrutture dei trasporti, ai fini della tutela dell’inquinamento acustico (art. 3, co. 1, lett. f, legge n. 447 del 1995) e il DM Ambiente sulle campagne di informazione del consumatore e di educazione scolastica (art. 3, co. 1, lett. n), legge n. 447).

[106] Un’analisi della giurisprudenza più recente è affrontata nell’artico di G. Benedetti, Le emissioni sonore dei locali pubblici non sono più di competenza statale, in Ambiente & sicurezza, n. 17 del 1 ottobre 2002.

[107] Tale decreto indica i criteri e le modalità di risanamento nel caso di superamento dei limiti definiti dal DPCM 14 novembre 1997.

[108] Per quanto concerne gli aspetti connessi al risparmio energetico, risulta che potrebbe essere risparmiata una frazione oscillante tra il 30 e il 35% dell'energia utilizzata a scopo di illuminazione. Si tratta di una quantità di energia pari, in Italia, a circa 2.500 milioni di Kw/anno, per un valore complessivo circa 200 milioni di euro e collegato alla produzione di circa 1,2 milioni di tonnellate di CO2... Fonte: F. Arecco, Quando le stelle non si fanno guardare…, in: Ambiente & sviluppo, n. 11 del 2005.

[109] Si ricorda che l’elenco ufficiale delle aree naturali protette attualmente in vigore è quello relativo al 5° Aggiornamento approvato con Delibera della Conferenza Stato Regioni del 24 luglio 2003 (S. O. n. 144 alla G. U. n. 205 del 4 settembre 2003). L'elenco raccoglie tutte le aree naturali protette, marine e terrestri, che rispondono a particolari criteri ed è periodicamente aggiornato a cura del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio - Direzione per la protezione della natura.

[110] In questo contesto, si può citare una serie di programmi diretti a finanziare, con appositi contributi, il potenziamento delle attuali infrastrutture dei parchi, come il programma di «solarizzazione» di cui alla legge finanziaria n. 388/2000 (che ha destinato risorse pari a 2,5 milioni di euro per l'utilizzo delle energie rinnovabili nei parchi nazionali) o il programma comunitario Life Natura (che finanzia le attività di studio e ricerca sulla fauna presente nei parchi). La legge n. 388/2000 ha inoltre destinato 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2001, 2002, 2003 per la realizzazione di interventi di carattere infrastrutturale e produttivo nei parchi.

[111] Occorre considerare che l’art. 32, comma 3, della legge n. 448/2001 (legge finanziaria 2002) aveva però stabilito un taglio del 10,43% di tutte le voci della tabella C, e che, pertanto, lo stanziamento a favore del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio è passato da circa 63,5 a 55,8 milioni di euro.

[112] Lo stanziamento previsto per il 2005 di 54,1 milioni di euro è stato ridotto a 53,3 milioni di euro a causa delle disposizioni del decreto legge n. 106/2005 recante Disposizioni urgenti in materia di entrate che ha ridotto gli stanziamenti di parte corrente autorizzati dalla tabella C della legge n. 311/2004.

[113] Decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248.

[114] Decreto legge 24 dicembre 2003, n. 355, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 febbraio 2004, n. 47.

[115] Si ricorda che l’area di Portofino è, allo stato attuale, per la parte terrestre ente parco regionale, per la parte marina, area protetta marina ed è conseguentemente gestita da due diversi organismi. Finalità della proposta di legge è quella di elevare le due aree protette al rango di Parco nazionale e, conseguentemente, di unificarne la gestione.

[116] Cfr. http://europa.eu.int/comm/energy/res/legislation/doc/electricity/member_states/it_2002_report_it.pdf

[117] Pubblicato nella G.U. 31 gennaio 2004, n. 25, S.O.

[118] Per un’analisi approfondita si rinvia al recente Rapporto dell’ENEA Le Fonti Rinnovabili 2005 - Lo sviluppo delle rinnovabili in Italia tra necessità e opportunità all’indirizzo internet http://www.enea.it/com/web/pubblicazioni/rinnovabili/indicerapporto.html.

[119] C.L. Boroni, D.Lgs. n. 387/2003 e impianti fotovoltaici: che prospettive di sviluppo del mercato?, in “Ambiente e sicurezza” n. 14/2004.

[120] Adottati dal Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell’ambiente.

[121] Si tratta dei combustibili cosiddetti verdi, cioè i combustibili liquidi impiegati nei mezzi di trasporto e prodotti dalla biomassa, tra cui i più comuni sono il biodiesel ottenuto da grassi e oli e il bioetanolo sintetizzato dai carboidrati.

[122] Si pensi ad esempio, limitando l’analisi ai provvedimenti emanati nel corso della XIV legislatura, al D.M. economia e finanze 20 febbraio 2004, n. 96 recante “Regolamento recante agevolazioni fiscali al bioetanolo di origine agricola, da adottare ai sensi dell'articolo 22 della legge 23 dicembre 2000, n. 388”.

[123] Il precedente programma (art. 21 della legge n. 388/2000) esentava da imposta un contingente annuo di 300.000 tonnellate di biodiesel.

[124] La data inizialmente fissata, per l’avvio di tale progetto, dall’art. 22 della legge n. 388/2000, era il 1° gennaio 2001, poi differita al 1° gennaio 2003 dall’art. 19, comma 6, della legge n. 289/2002. Quanto al limite di spesa, inizialmente era previsto in 30 miliardi di lire (58,1 milioni di euro).

[125] L’agevolazione, disposta inizialmente per l’ultimo trimestre del 2000 dall’art. 4, comma 4-bis, del D.L. n. 268/2000 (convertito dalla legge n. 354/2000) è stata ininterrottamente prorogata sino, da ultimo (art. 1, comma 115, lett. d), della legge n. 266/2005), al 31 dicembre 2006.

[126] Combustibile Derivato dai Rifiuti. Per approfondimenti si veda il box contenuto nella scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di rifiuti e bonifiche.

[127] Per un commento si veda l’articolo intitolato D.Lgs. n. 192/2005: luci ed ombre sul recepimento della direttiva n. 2002/91/CE, a cura del Comitato termotecnico italiano, in “Ambiente e sicurezza” del 20 dicembre 2005.

[128] S. Colombo, F. Giola, F. Soma, Il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, pubblicato all’indirizzo internet www.edilclima.it/download/p2000/2029art1.pdf.

[129]www.enea.it/com/web/pubblicazioni/rinnovabili/ExecutiveSummaryRinnovabili.pdf.

[130] Uno dei sondaggi più accurati è stato svolto dall’Abacus nell’ottobre 2003 (una sintesi dei risultati è contenuta nel box “Le aspettative degli italiani su alcune tematiche ambientali” a pagina 105 del Rapporto Energia e Ambiente 2003 – Le fonti rinnovabili dell’ENEA, disponibile all’indirizzo internet http://www.enea.it/com/web/pubblicazioni/REA_03/fonti_03.pdf.

[131] Ovvero “non nel mio cortile”.

[132] Per completezza, si ricorda che la Commissione ambiente, in congiunta con la Commissione trasporti, ha svolto inoltre l’indagine conoscitiva sullo stato e sulle prospettive di sviluppo del settore autostradale (conclusa l’11 gennaio 2006 con l’approvazione del documento Doc. XVII, n. 17), sulla quale si rinvia al capitolo Viabilità stradale a autostradale.

[133] Invero anche in alcune delle legislature repubblicane precedenti (fra cui la XIII) furono esaminati dal Parlamento disegni e proposte di legge di riforma urbanistica, ma senza mai pervenire all’approvazione di uno dei due rami.

[134] Alla data del 28 aprile il decreto legislativo non risulta pubblicato in GU.

[135] Che non viene illustrato in questo dossier, in quanto approvato al termine della XIII Legislatura.

[136] Anche in questo caso, non si è inserita – nel presente dossier – una sintesi, in quanto il DPR n. 327 è stato approvato nel corso della XIII legislatura.

[137] Si tratta di tre condizioni che vengono elencate alla lettera c) del comma 36 (comma 1 ter dell’articolo 181 del codice:

a) i lavori, realizzati in assenza o difformita` dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;

b) i lavori realizzati con l’impiego di materiali in difformita` all’autorizzazione paesaggistica;

c) i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380  “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”

[138] Secondo quanto disposto, in via ordinaria per tutte le somme riscosse ai sensi dell’art. 167, dal comma 4 dello stesso articolo, nel testo vigente. Tuttavia, come si è sopra illustrato, la lettera b) del comma 36 del provvedimento in esame sostituisce il comma 4. Pertanto anche le somme in oggetto verrebbero utilizzate per le finalità come nuovamente definite dalla novella recata dal ddl in commento.

[139] Tale disposizione richiedeva per il ricorso a semplice DIA, la sussistenza delle seguenti ulteriori due condizioni:

§          che gli immobili interessati non fossero assoggettati ai vincoli previsti dalla normativa statale sulla tutela delle cose d'interesse artistico e storico, delle bellezze naturali e delle aree naturali protette, ovvero a disposizioni immediatamente operative dei piani paesistici, dei piani urbanistico-territoriali e dei piani di bacino e non fossero comunque assoggettati dagli strumenti urbanistici a discipline espressamente volte alla tutela delle loro caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storico-archeologiche, storico-artistiche, storico-architettoniche e storico-testimoniali.

§          che gli immobili interessati fossero oggetto di prescrizioni di vigenti strumenti di pianificazione, nonché di programmazione, immediatamente operative e le trasformazioni progettate non siano in contrasto con strumenti adottati.

[140] Per i profili applicativi della disciplina della denuncia di inizio attività in edilizia, cfr. gli schemi contenuti in D. Foderini, DIA a efficacia rinforzata, in Consulente immobiliare, 2006, n. 763, 427.

[141] Legge 28 febbraio 1985, n. 47 e legge 23 dicembre 1994, n. 724.

[142] In particolare, l’art. 2, comma 70, della legge n. 350 del 2003 ha soppresso alcune norme onerose, finalizzate al finanziamento di programmi per il risanamento e la riqualificazione delle aree maggiormente interessate dal fenomeno dell’abusivismo edilizio; il comma 125 dell’articolo 4,al fine di evitare il rischio di dubbi interpretativi,ha esplicitato l’esclusione dal condono edilizio di tutte le opere realizzate nei porti, nelle aree appartenenti al demanio marittimo, lacuale e fluviale e nei terreni gravati da usi civici (esclusione che comunque era probabilmente già ricavabile dal comma 14 dell’articolo 32); il comma 50 dell’articolo 3 esclude dal calcolo del disavanzo finanziario degli enti territoriali le spese per l’attività istruttoria dei comuni, connessa con il rilascio delle concessioni in sanatoria; infine, il comma 53 dell’articolo 2 modifica una disposizione del decreto legge n. 269 che aveva triplicato i canoni per le concessioni d’uso di aree demaniali.

[143] Si ricorda che alcune regioni, nei rispettivi ricorsi, hanno proposto anche istanza di sospensione dell’atto impugnato, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 87 del 1953 (come novellato dall’articolo 9 della legge n. 131 del 2003). Tali istanze sono state successivamente ritirate e quindi la Corte si è potuta pronunciare direttamente sul merito.

[144] In particolare: Basilicata, Emilia Romagna, Friuli V.G., Marche, Toscana, Valle d’Aosta, Puglia, Sardegna, Umbria, Campania, Calabria, Liguria, Provincia di Trento, Provincia di Bolzano, Sicilia e Veneto.

[145] Il termine – di valore sostanziale - entro il quale l’abuso deve essere stato compiuto per poter ricadere nell’ambito di applicazione della sanatoria è invece quello del 31 marzo 2003. Si ricorda che quest’ultimo termine, determinato dal testo originario del decreto legge n. 269, non è successivamente variato, in quanto le successive vicende, di seguito descritte, hanno riguardato i soli termini procedurali di presentazione delle domande e di pagamento dell'oblazione.

[146] E’ il caso di ricordare la normativa antisismica comprende sia la classificazione sismica del territorio nazionale recante la definizione delle zone sismiche, che la normativa tecnica che prevede, per ciascuna zona sismica, specifici criteri progettuali e costruttivi, definiti per edifici, ponti ed opere di fondazione e di sostegno dei terreni. 

[147] Il testo dell’ordinanza con le successive modifiche è consultabile al seguente sito internet http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/classificazione/ordinanze_class.htm

[148] Il testo coordinato dell’ordinanza è consultabile al seguente sito internet: http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/classificazione/ordinanze_class.htm.

[149] Pubblicato nella G.U. del 23 settembre 2005, S.O. n. 159.

[150] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 luglio 2004, n. 186, Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione. Disposizioni per la rideterminazione di deleghe legislative e altre disposizioni connesse.

[151] L’allegato 2 riguarda le norme tecniche per il progetto, la valutazione e l’adeguamento sismico degli edifici, mentre l’allegato 3 reca le norme tecniche per il progetto sismico dei ponti.

[152] Ai sensi dell’art. 3 del DM 14 settembre 2005 e dell’art. 52 del T.U. n. 380 del 2001, le norme tecniche sono entrate in vigore 30 giorni dopo la pubblicazione nella G.U., il 23 ottobre 2005.

[153] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 agosto 2005, n. 168, Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione. Disposizioni in materia di organico del personale della carriera diplomatica, delega al Governo per l'attuazione della direttiva 2000/53/CE in materia di veicoli fuori uso e proroghe di termini per l'esercizio di deleghe legislative.

[154] Convertito, in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 28 maggio 2004, n. 139, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza di grandi dighe e di edifici istituzionali.

[155] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici.

[156] Il Fondo rotativo per la progettualità è stato istituito presso la Cassa depositi e prestiti dall’art. 1, co. 54-58, della legge n. 549 del 1995, successivamente modificato dal decreto legge n. 67 del 1997 e dall’art. 70 della legge n. 289 del 2002, con lo scopo di anticipare agli enti territoriali le spese necessarie per gli studi di fattibilità, per l'elaborazione dei progetti preliminari, definitivi ed esecutivi, incluse le valutazioni di impatto ambientale e altre rilevazioni e ricerche, al fine di razionalizzare la spesa per investimenti pubblici di competenza degli enti territoriali stessi.

[157] Termine prorogato al 31 dicembre 2006 dall'art. 9, del decreto legge 9 novembre 2004, n. 266, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge del 27 dicembre 2004, n. 306, Proroga o differimento di termini previsti da disposizioni legislative.

[158] Per quanto riguarda la previsione normativa di tale intesa (secondo le modifiche alla legge n. 443 introdotte dall’articolo 13, comma 3, della legge n. 166 del 2002), si ricorda che sul valore di essa è stato fondata dalla Corte costituzionale la valutazione di legittimità costituzionale della legge n. 443 (sentenza n. 303 del 2003). V. la scheda La legge obiettivo – Giurisprudenza costituzionale.

[159] Convertito, con modificazioni, dalla legge n. 112 del 15 Giugno 2002.

[160] Recante Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, pubblicato nella G.U. 16 marzo 2005, n. 62 e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80.

[161] Istituito dall’art. 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003).

[162] AS 3533 (www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Ddlpres&leg=14&id=142295), approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati (AC 5736) nella seduta del 5 luglio 2005.

[163] Convertito, con modificazioni dalla legge n. 43 del 2005.

[164] Gli organismi di attestazione istituiti dalla “legge Merloni”.

[165] Tale modifica ha comportato la necessità di disporre una proroga delle attestazioni già rilasciate (decreto legge 26 aprile 2004, n. 107) e una modifica del regolamento che disciplina la qualificazione delle imprese (DPR 30 aprile 2000, n. 34) operata dal DPR 10 marzo 2004, n. 93.

[166] Si ricorda che già numerose sentenze (a partire dalla n. 432/99 del TAR Molise) avevano censurato tale divieto, in quanto incompatibile con il diritto comunitario. Conseguentemente a questa convergente giurisprudenza, le stazioni appaltanti avevano iniziato a disapplicare il divieto.

[167] La licitazione privata è stata introdotta per la prima volta dalle legge n. 109 del 1994 ed è utilizzabile solo per lavori di importo inferiore ai 750.000 euro. Essa si basa su un meccanismo di inviti a rotazione che vengono effettuati dai soggetti appaltanti scegliendo nell’ambito di elenchi di fiducia (preventivamente definiti). Gli elenchi devono essere costituiti comunque attraverso forme di pubblicizzazione previste dalla legge.

[168] Convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

[169] Procedura d’infrazione n. 2001/2182.

[170] Il beneficio consisteva nella previsione che - in caso di appalto concorso - le stazioni appaltanti prendevano in considerazione la certificazione del sistema di qualità, ovvero la dichiarazione della presenza di elementi significativi e tra loro correlati di tale sistema, in aggiunta agli elementi variabili (indicati al comma 2 dell'articolo 21 della stessa “legge Merloni).

[171]  Procedura di infrazione 2001/2182 e parere motivato del 15 ottobre 2003.

[172] In particolare, la lettera a) del comma 1, dell’art. 25 della legge n. 62 del 2005 reca l’espressione “compilazione di un unico testo normativo recante le disposizioni legislative in materia di procedure di appalto disciplinate dalle due direttive […]”: com’è noto, il concetto di “compilazione” è, in questo contesto, di solito contrapposto a quello di “innovazione” normativa.

[173] Si ricorda che un problema rilevante – segnalato anche nelle periodiche relazioni della Corte dei conti al Parlamento – era rappresentato dall’accumulo di “residui attivi” (fondi stanziati in bilancio e non effettivamente spesi entro la fine dell’anno) accumulati fino a raggiungere, nel 2002, la quota di 11 miliardi di euro (superiore al doppio dell’intero bilancio dell’Ente).

[174] Si ricorda che, secondo le regole contabili europee, una società di proprietà pubblica non rientra in tale settore se è possibile dimostrare che almeno il 50 per cento dei costi di produzione sono coperti della vendita di beni e servizi sul mercato.

[175] Si ricorda che con lo stesso articolo 76 (comma 2) sono stati disposti stanziamenti per il completamento di interventi di adeguamento infrastrutturale previsti dall’articolo 19, comma 1, lettera i), della legge 1º agosto 2002, n. 166 (infrastrutture viarie nell'area industriale denominata “bacino del salotto”).

[176] La pubblicazione di tale decreto nella Gazzetta Ufficiale produce, in favore dell’ANAS S.p.A., gli effetti indicati dall’articolo 2644 del codice civile (disciplina degli effetti dell’avvenuta trascrizione di atti, cioè pubblicità dell’avvenuto trasferimento dei diritti relativi a beni), nonché gli effetti sostitutivi dell’iscrizione dei beni in catasto. Gli uffici competenti hanno la facoltà, se necessario, di procedere alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura dei beni costituenti la rete.

[177] Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 26 del 2 febbraio 2005

[178] Dei 1.247 chilometri complessivi, 894 sono autostrade vere e proprie, mentre 353 chilometri sono raccordi autostradali.

[179] Le prime realizzazioni furono: la Milano-Laghi (1924), 84 chilometri; la Milano-Bergamo (1927), 50 chilometri; la Napoli-Pompei (1929), 23 chilometri; la Brescia-Bergamo (1931), 48 chilometri; la Milano-Torino (1932), 127 chilometri; la Firenze-Mare (1932), 81 chilometri; la Padova-Mestre (1932), 25 chilometri. La prima definizione normativa si deve invece al Regio Decreto n. 1740 del 1933 che fissò a livello legislativo una definizione delle nuove arterie autostradali, considerate come strade riservate alla circolazione esclusiva degli autoveicoli.

[180] Azienda Autonoma delle Strade, istituita con il Decreto legislativo Presidenziale 27 giugno 1946, n. 38.

[181] Taluni rilievi critici sui tempi di elaborazione del decreto e sull’attribuzione della presidenza del Centro al direttore del Servizio Polizia stradale sono contenuti nell’intervento del Presidente dell’VIII Commissione on. Armani reso, in occasione dell’audizione del Ministro Lunardi presso l’VIII e IX Commissione, nella seduta del 1° febbraio 2005.

[182] Presso le Commissioni riunite VIII e IX si sono svolte due successive audizioni sui disagi verificatisi al sistema dei trasporti stradali ed autostradali a seguito di fenomeni meteorologici avversi (audizione del Sottosegretario per l'interno, Antonio D'Alì - Seduta del 15 dicembre 2005; audizione del Viceministro delle infrastrutture e dei trasporti, Ugo Martinat - Seduta del 14 dicembre 2005).

[183] Approvato con d.P.R. 14 marzo 2001.

[184] Di questi, 51.442,75 milioni di euro riguardano interventi di interesse nazionale o interregionale; 22.207,074 milioni di euro interventi sulla rete autostradale in concessione; 2.573,760 milioni di euro interventi sulla rete autostradale in gestione diretta; 10.191,308 milioni di euro interventi di ambito regionale.

[185] I rilievi critici di ANCI e UPI sono reperibili all’indirizzo Conferenza Unificata 28 ottobre 2004 Punto 2) all’odg.

[186] Pubblicata in G.U., 18 luglio 2005, n. 165.

[187] Pubblicata in G.U. n. 244 del 19 ottobre 2005.

[188] Per un approfondimento della disciplina normativa del project financing si veda la scheda Il project financing, per quella relativa al general contractor la scheda La legge obiettivo – La disciplina del contraente generale.

[189] Convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8 agosto 2002, n. 178.

[190] Nel documento conclusivo dell’indagine si richiamano in particolare:

§       l'articolo 76, comma 1-bis, della legge n. 289 del 2002, relativo al trasferimento all'ANAS della rete autostradale e stradale nazionale in conto aumento del capitale sociale. Tale disposizione è rimasta inattuata non essendo stato emanato il decreto al quale essa faceva riferimento;

§       l'articolo 1, comma 450, della legge n. 311 del 2004, che disponeva la possibilità di trasferire, a prezzo di mercato, a Infrastrutture SpA, tratti di rete stradale nazionale assoggettabili a «pedaggio figurativo» comunque non a carico degli utenti e, tra l’altro, rinviava ad un successivo decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, per la ridefinizione dei rapporti finanziari tra ANAS, Infrastrutture SpA e i Ministeri interessati. Anche tale decreto non è stato emanato.

§       L’articolo 6-bis del decreto-legge n. 163 del 2005, che tuttavia non è stato convertito definitivamente in legge, che recava incisive modifiche alla normativa vigente in materia.

[191] Convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 2 dicembre 2005, n. 248.

[192] Si tratta, in particolare, dell'articolo 21 del decreto-legge n. 355 del 2003 (convertito nella legge n. 47 del 2004), che ha parzialmente modificato la base normativa del settore, rappresentata dalla legge n. 498 del 1992.

[193] Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione, convertito, con modificazioni dalla legge 27 luglio 2004, n. 186.

[194] Disposizioni urgenti per l'università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43.

[195] Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, convertito, con modificazioni, dalla legge, 14 maggio 2005, n. 80.

[196] Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 agosto 2005, n. 168.

[197] Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155.

[198] Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'amministrazione dell'interno. disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.

[199] Si ricorda che, l’art. 5- bis, comma 5, del decreto legge n. 343 del 2001, convertito in legge, con modificazioni dall’art. 1 della legge n. 401 del 2001, prevede che le disposizioni relative alla deliberazione dello stato di emergenza e al potere di ordinanza (di cui all'art. 5 della legge n. 225 del 1992) vengano applicare anche con riferimento alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della protezione civile.

[200] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 novembre 2001, n. 401, Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile e per migliorare le strutture logistiche nel settore della difesa civile.

[201] Il coordinamento di tutte le attività relative alla protezione civile è affidato al Dipartimento della protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

[202] Ai sensi della legge n. 225 del 1992, tali poteri sono elencati e definiti all’art. 5: deliberazione dello stato di emergenza, emanazione di ordinanze, predisposizione di piani di emergenza.

[203] Per il testo della circolare si veda il link internet:

http://www.interno.it/stampa.php?sezione=18&id=21 oppure si può consultare la G.U. n. 236 dell’8 ottobre2002, ove è stata pubblicata. Per un sintetico commento alla circolare si veda la scheda di lettura La Protezione civile – Recenti riforme.

[204] Convertito in legge, con modificazioni dall’art. 1 della legge 26 luglio 2005, n. 152,  Disposizioni urgenti in materia di protezione civile.

[205] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 gennaio 2006, n. 21, Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile.

[206] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 luglio 2004, n. 186, Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione.

[207] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 dicembre 2004, n. 306, Proroga o differimento di termini previsti da disposizioni legislative.

[208] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 febbraio 2004, n. 47, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative.

[209] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 28 maggio 2004, n. 140, Disposizioni urgenti in materia di enti locali.

[210] G.U. del 27 agosto 2001, n. 198.

[211] G.U. del 21 settembre 2001, n. 242.

[212] Dati elaborati sulla base delle informazioni relative alle catastrofi verificatesi dal 1950 al 1998 nei paesi dell’Unione, contenuti nel “Vademecum of civil protection in the European union”, Commissione europea, 1999.

[213]Ultimo anno di riferimento dell’Annuario APAT, disponibile per la consultazione all’indirizzo internet http://www.apat.gov.it/site/it-IT/APAT/Pubblicazioni/Annuario_dei_dati_ambientali/Documento/annuario2004.html.

[214] Il frequente e diffuso manifestarsi dei dissesti può essere imputato, per una buona parte, alla natura del nostro territorio ed a cause "naturali", anche se vanno però assumendo un peso sempre più rilevante le cause di origine antropica legate, da un lato, ai cambiamenti climatici e dall’altro ad un uso del territorio non attento alle caratteristiche ed ai delicati equilibri idrogeologici dei suoli italiani. In Italia effetti particolarmente dannosi derivano dall’abbandono di aree rurali dove non è più presente alcuna attività primaria.

[215] Rimane fermo solo il “rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico”. Il Presidente del Consiglio può anche attribuire i poteri straordinari di ordinanza ad un suo delegato.

[216] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 8 aprile 2003, n. 62, Misure urgenti per il finanziamento di interventi nei territori colpiti da calamità naturali e per l'attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 13, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166. Disposizioni urgenti per il superamento di situazioni di emergenza ambientale.

[217] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 dicembre 2002, n. 286. coordinato con la legge di conversione 27 dicembre 2002, n. 286, Interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali nelle regioni Molise, Sicilia e Puglia, nonché ulteriori disposizioni in materia di protezione civile.

[218] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art, 1 della legge 31 maggio 2005, n. 88, Disposizioni urgenti in materia di enti locali.

[219]Per un approfondimento della normativa relativa al patto di stabilità si veda il capitolo Riforma del Patto di stabilità e crescita e la specifica scheda Il Patto di stabilità e crescita

[220] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 dicembre 2002, n. 286, Interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali nelle regioni Molise, Sicilia e Puglia, nonché ulteriori disposizioni in materia di protezione civile.

[221] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici.

[222] DPCM 8 luglio 2004 (Liguria ed Emilia-Romagna), DPCM 28 ottobre 2004 (comune di Tolentino), DPCM 19 novembre 2004 (magistrato alle Acque di Venezia e presidente della provincia autonoma di Bolzano), DPCM 24 marzo 2005 (comuni di Ancona e Orbetello), con una serie di DPCM tutti emanati in data 6 giugno 2005 (Campania, Calabria, Emilia-Romagna, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Veneto, Basilicata, Abruzzo, Umbria, Toscana, provincia autonoma di Trento, Sicilia, Puglia, Piemonte, Marche, Lombardia. Da ultimo è stato emanato il DPCM 16 luglio 2005 recante Assegnazione di risorse finanziarie a valere sul Fondo di cui all'articolo 32-bis del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.

[223] Pubblicata nella G.U. del 16 luglio 2004, n. 165. Con tale ordinanza la Protezione civile ha ripartito i fondi per le verifiche tecniche di stabilità sismica degli edifici, pari a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004 e 2005 che sono stati suddivisi in due quote: 67,5 milioni di euro alle Regioni e 32,5 milioni di euro allo Stato. La ripartizione regionale copre solo il 2004, in attesa della nuova mappa sismica per il 2005. Le modalità di ripartizione del Fondo sono state successivamente modificate con l’art.. 13 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3469 del 13 ottobre 2005 (G.U. 21 ottobre 2005, n. 246).

[224] G.U. 16 marzo 2006, n. 63.

[225] In materia di contributi erariali agli enti locali si ricorda, però, che sono intervenute due sentenze della Corte costituzionale (sentenza n. 16 del 10-16 gennaio 2004 e sentenza n. 49 del 20-29 gennaio 2004), che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale, rispettivamente, dell’articolo 25, comma 10 della legge n. 448/2001 (istituzione del Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni) e degli artt. 54 e 55 della legge n. 448/2001 (Istituzione del Fondo per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle regioni e degli enti locali e del Fondo per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale).

[226] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 28 maggio 2004, n. 140, Disposizioni urgenti in materia di enti locali. Proroga di termini di deleghe legislative.

[227] Il regolamento dovrà prevedere anche l’esclusione dell’intervento del Fondo per i danni prodotti a fabbricati abusivi  anche nel caso in cui, pur avendo il proprietario presentato domanda di condono, non siano stati corrisposti per intero l’oblazione e gli oneri accessori previsti dalla legge.

[228] Dossier incendi boschivi 2005 (disponibile per la consultazione all’indirizzo internet www.legambiente.com/documenti/2005/0701dossierIncendi2005/dossierincendi2005.pdf).

[229] Il testo dell’art. 10, comma 1, della legge quadro prevedeva, invece, da un lato un divieto generale di variazione di destinazione - valido 15 anni - per le zone boschive ed i pascoli i cui soprassuoli siano percorsi dal fuoco e un corrispondente divieto di costruzione - esteso per 10 anni. Dall’altro, permetteva la realizzazione di edifici o di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, prima che fossero decorsi dieci anni dall’incendio, solamente se la relativa autorizzazione o concessione era stata rilasciata in data anteriore all'incendio e sulla base degli strumenti urbanistici vigenti a tale data. Una tale applicazione non aveva alcun effetto disincentivante dell’attività dolosa (finalità a cui è mirata la normativa di cui all’art. 10) dal momento che la destinazione urbanistica era precedente (e non successiva) al verificarsi dell’incendio.

[230] Convertito in legge, con modificazioni dall'art. 1 della legge 18 giugno 2002, n. 118, Disposizioni urgenti per il settore zootecnico e per la lotta agli incendi boschivi.

[231] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 30 luglio 2004, n. 191, Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica.

[232] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 26 luglio 2005, n. 152, Disposizioni urgenti in materia di protezione civile.

[233] Per un approfondimento della tematica della condizione abitativa della popolazione anziana, l’istituto di ricerca “Scenari immobiliari” ha pubblicato il Rapporto 2004 – L’evoluzione della domanda residenziale - Anziani e nuovi modelli alloggiativi, consultabile sul sito internet http://www.scenari-immobiliari.it

[234] Tali dati sono tratti dal censimento ISTAT del 2001. Per la loro consultazione si veda il sito http://dawinci.istat.it/daWinci/jsp/MD/dawinciMD.jsp

[235] Il decreto legislativo n. 112 (artt. 59-64) ha altresì previsto la soppressione del Comitato per l'edilizia residenziale pubblica (CER) e la diretta attribuzione alle Regioni dei fondi volti al finanziamento degli interventi e della competenza in ordine alla fissazione dei criteri per l'assegnazione degli alloggi e per la definizione dei canoni. La ripartizione di competenze operata dal decreto legislativo n. 112 presenta carattere di marcata novità rispetto alla precedente che aveva mantenuto allo Stato le funzioni di programmazione nazionale dei finanziamenti dell’edilizia residenziale pubblica (DPR n. 616 del 1977). Nel ristretto e definito nucleo di competenze mantenute allo Stato dall’art. 59 del decreto n. 112, non compare più infatti tale funzione, mentre al successivo art. 60, fra le funzioni conferite alle regioni viene indicata la “programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore” (programmazione/localizzazione). Tali norme vengono integrate dal successivo art. 61 che reca l’insieme delle disposizioni di dettaglio necessarie a rendere effettivo l’accreditamento alle singole regioni delle risorse finanziarie previste dalle numerose leggi vigenti che hanno previsto finanziamenti di interventi di edilizia residenziale pubblica.

[236] L’art. 7, commi 2 e 2-bis ,del decreto-legge 13 settembre 2004, n. 240 (convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 269) è intervenuto sulle modalità di ripartizione del Fondo; tale ultimo decreto e la legge 8 gennaio 2002, n. 2 hanno invece modificato la procedura per la stipula dei contratti appartenenti al cosiddetto “secondo canale”, ovvero alla tipologia contrattuale, contemplata dalla legge n. 431 del 1998, basata sul recepimento, da parte del locatore e del conduttore, di contratti-tipo stipulati in sede di accordi locali tra le organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative (locazioni convenzionate). Su tali profili, si rinvia alla scheda Modifiche alla normativa sulle locazioni.

[237] Il Fondo è stato istituito con l’art. 3, commi 108-115, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria 2004).

[238] Il Fondo è stato istituito con l’art. 1, comma 111, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (finanziaria 2005).

[239] Modifiche apportate dalle seguenti disposizioni: art. 2, commi 5-8,della legge 1° agosto 2002, n. 166; art. 4, comma 150, della legge finanziaria 2004 e art. 1, comma 110, della legge finanziaria 2005 (per quanto riguarda la realizzazione del programma straordinario per i dipendenti delle amministrazioni dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità organizzata); art. 61 della legge finanziaria 2002, art. 4, commi 223 e 225, della legge finanziaria 2004 e art. 1, comma 442, della legge finanziaria 2005 (per quanto riguarda l’alienazione di alloggi ai profughi).

[240] L’art. 52 prevede che la parte Seconda del decreto entri in vigore 120 giorni dopo la pubblicazione nella G.U.

[241] Il termine e la procedura per l’emanazione del decreto sono fissati dall’art. 281, comma 5.

[242] Il termine e la procedura per l’emanazione del decreto sono fissati dall’art. 281, comma 5.

[243] Si tratta, ai sensi dell’art. 282, degli impianti termici civili aventi potenza termica nominale superiore alle pertinenti soglie stabilite dall’art. 269, comma 14, nonché degli impianti termici civili che utilizzano carbone da vapore, coke metallurgico, coke da gas, antracite, prodotti antracitosi o miscele di antracite e prodotti antracitosi, aventi potenza termica nominale superiore a 3 MW.

[244] A titolo di esempio si veda la sentenza n. 9361 del 28 febbraio 2003 della Corte di cassazione - Sez. III Penale, disponibile all’indirizzo www.ambientediritto.it/sentenze/2003/Cassazione/Corte Cassazione 2003 n.9361.htm.

[245] Del resto la pratica di questi anni ha mostrato che i tempi celeri previsti dal DPR n. 203/1988 spesso non vengono rispettati: “ricevuto il parere del comune competente, gli uffici regionali danno inizio all’istruttoria tecnica sulla documentazione presentata dall’azienda, che dovrebbe concludersi entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di autorizzazione; nonostante gli uffici provvedano a diffidare i sindaci che non esprimono il parere entro il termine loro assegnato, si verificano spesso inadempienze in tal senso, il che comporta un mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento. Ulteriori difficoltà nell’istruttoria delle pratiche relative agli impianti più complessi fanno sì che, realisticamente, si stimi il tempo medio per il rilascio dell’autorizzazione in circa sei mesi dalla presentazione della richiesta” (Cfr. sito internet http://www.1sportello.net/servizi/emis_inquin.html dello Sportello Unico per le attività produttive presso la Camera di commercio di Milano.

[246] Nota del 28 novembre 2005.

[247] Si ricorda che tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera i) del comma 1) quelli che, alla data del 1° luglio 1988 (entrata in vigore del DPR n. 203/1988), erano in esercizio o costruiti in tutte le loro parti o autorizzati ai sensi della normativa previgente.

[248] Si tratta degli impianti di combustione, ubicati all'interno di impianti di smaltimento dei rifiuti, alimentati da gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas, di potenza termica nominale non superiore a 3 MW, se l’attività di recupero è soggetta alle procedure autorizzative semplificate previste dalla parte quarta del presente decreto e tali procedure sono state espletate.

[249] Si ricorda che tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera l) del comma 1) quelli che non ricadono nella definizione di cui alla lettera i) e che, alla data di entrata in vigore della parte quinta del presente decreto, sono autorizzati ai sensi del DPR 24 maggio 1988, n. 203, purché in funzione o messi in funzione entro i successivi ventiquattro mesi. Sono considerati anteriori al 2006 anche gli impianti anteriori al 1988 la cui autorizzazione è stata aggiornata ai sensi del DPR n. 203/1988.

[250] Si ricorda in proposito che il citato DM 8 maggio 1989 aveva consentito di recepire nell’ordinamento nazionale la direttiva 88/609/CEE di cui la citata direttiva 2001/80/CE costituisce un aggiornamento.

[251] Si ricorda che il d.lgs. n. 192/2005 di recepimento della direttiva comunitaria 2002/91/CE sul rendimento energetico nell’edilizia, costituisce il nuovo quadro di normativo di riferimento della disciplina vigente in materia di efficienza energetica, riprendendo la normativa nazionale esistente; infatti, il nuovo decreto rafforza i contenuti della precedente legge n. 10/1991, introducendo alcune significative novità per quanto riguarda i modelli operativi e di calcolo, le competenze e le funzioni dei diversi attori che operano nel campo dell’edilizia dalla progettazione dell’edificio e dei suoi impianti fino alla loro messa in esercizio e manutenzione.

[252] Recante “Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione”. Si ricorda che l’art. 297 prevede l’abrogazione di tale decreto, le cui norme vengono trasposte nel titolo III.

[253] 860 Kcal/h equivalgono a 1 KW.

[254] In realtà questo controllo viene previsto solamente a regime (la norma prevede infatti che decorra dal termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della parte V del decreto).

[255] Anche a livello europeo, tanto da portare la Commissione europea ad avviare una specifica procedura di infrazione C(2002)2002.

[256] Per un approfondimento dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia si veda S. Maglia e M.V. Balossi, Terre e rocce da scavo: rifiuto o non rifiuto? Il punto alla luce del nuovo “T.U. ambientale”, in “Ambiente e sviluppo” n. 2/2006.

[257] Fino all’emanazione di tale DM si continueranno ad applicare i valori limite previsti dall'Allegato 1, tabella 1, colonna B, del DM 471/999.

[258] Recepita, nel nostro ordinamento, dall’art. 4 del decreto legislativo n. 22/1997.

[259] Le caratteristiche specifiche del CDR sono state dettate dal D.M. 5 febbraio 1998 recante Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22.

[260] Si rammenta che nel corso della conversione in legge (avvenuta ad opera della legge 27 febbraio 2002, n. 16) l’inclusione del CDR tra i rifiuti speciali venne condizionata al fatto che il combustibile “non rivesta le caratteristiche qualitative individuate da norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale”. Tuttavia, poiché tale specificazione risultava piuttosto ambigua e contrastante con la definizione recata dall’art. 6 del Ronchi, essa è stata eliminata dall’art. 23 comma 1 lettera a), della legge n. 179/2002 (cd. collegato ambientale).

[261] Refuse Derived Fuel.

[262]http://www.ambientediritto.it/sentenze/2005/Cassazione/Cassazione 2005 n.16351.htm.

[263] Emanato in attuazione dell'art. 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179.

[264] Si ricorda, in proposito, l’emanazione della direttiva 9 aprile 2002 del Ministero dell'ambiente recante Indicazioni per la corretta e piena applicazione del regolamento comunitario n. 2557/2001 sulle spedizioni di rifiuti ed in relazione al nuovo elenco dei rifiuti, pubblicata nella G.U. n. 108 del 10 maggio 2002 – S.O. n. 102.

[265] Si noti, in proposito, che rispetto a quanto previsto dalla legge n. 308/2004 la lettera u) in esame aggiunge la specificazione “la cui utilizzazione è certa e non eventuale”, che recepisce quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza interpretativa 11 novembre 2004 C 457/02, secondo cui un residuo di produzione non è da considerare rifiuto nel caso in cui venga utilizzato in maniera certa e non eventuale nell’ambito di uno stesso processo produttivo e senza trasformazioni preliminari.

[266] Convertito dalla legge n. 82 del 2002.

[267] L’esempio più significativo è probabilmente offerto dalla regione Veneto (legge n. 3 del 2000, come modificata dalla legge n. 22 del 2004), dove alla gestione dei rifiuti urbani e assimilati i comuni provvedono attraverso l’Autorità d’ambito. La consultazione fra gli enti locali avviene attraverso la “Conferenza d’ambito”. Si veda, inoltre, anche l’esperienza della Liguria (legge n. 18 del 1999, modificata dalla legge n. 8 del 2002).

[268] Si ricorda che il decreto Ronchi (art. 23, commi 1-3) prevedeva che, di regola, gli ATO per la gestione dei rifiuti urbani fossero le Province che, in essi, dovevano assicurare una gestione unitaria dei rifiuti urbani e predisporre piani di gestione dei rifiuti, sentiti i Comuni, in applicazione degli indirizzi e delle prescrizioni del decreto medesimo. Veniva inoltre disposto che, per esigenze tecniche o di efficienza nella gestione dei rifiuti urbani, le Province potessero autorizzare gestioni anche a livello subprovinciale e che i comuni di ciascun ATO organizzassero la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità. Tuttavia tali norme non hanno trovato applicazione su tutto il territorio nazionale, in quanto non tutte le regioni hanno organizzato il servizio sulla base di ambiti territoriali ottimali.

[269] Definizione introdotta nell’ordinamento dall’art. 183, comma 1, lettera o), del decreto n. 152.

[270] Istituito dall’articolo 3, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, al fine di favorire la minore produzione di rifiuti e il recupero dagli stessi di materia prima e di energia.

[271] Più precisamente l’art. 159, comma 1, prevede che il Comitato assuma la denominazione di Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, in cui confluisce anche l’Osservatorio nazionale sui rifiuti. L’art. 207, comma 2, dispone quindi che l’Autorità, “oltre alle attribuzioni individuate dal presente articolo, subentra in tutte le altre competenze già assegnate dall’articolo 26 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 all’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il quale continua ad operare sino all’entrata in vigore del regolamento” che, ai sensi del comma 4 dell’articolo 159 del presente decreto, dovrà disciplinare l’organizzazione e il funzionamento, anche contabile, dell’Autorità stessa. Per tale regolamento, ai sensi del citato comma 4, è prevista l’adozione con delibera del Consiglio dell’Autorità e l’emanazione con DPCM ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988.

[272] Secondo le osservazioni sollevate da Federambiente nel corso dell’audizione presso le Commissioni riunite di Camera e Senato preliminari alla formulazione del parere sullo schema di decreto, poi emanato come d.lgs. n. 152/2006, “la tutela della concorrenza appare tuttavia compito eccessivo e di competenza propria dell’Autorità per la concorrenza ed il mercato. Se si trattasse di concorrenza ex art. 113 del T.U.E.L. le modalità formali di espletamento della gara dovrebbero essere definite in ciascuna sede regionale, come deliberato dalla sentenza della Corte costituzionale 272/2004”.

[273] Si vedano in proposito le norme agevolative per le imprese eco-certificate recate dal d.lgs. n. 59/2005 in materia di AIA (v. scheda L’autorizzazione integrata ambientale).

[274]Si vedano l’art. 37 e l’allegato E del decreto.

[275]Fonte: CONAI, Programma generale di prevenzione e gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, 2005 (disponibile all’indirizzo www.conai.org/hpmdoc.asp?IdDoc=622).

[276]Programma generale di prevenzione e gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio – CONAI, 2005, pagina 12.

[277]www.agcm.it/agcm_ita/DSAP/DSAP_IC.NSF/0/f893f8bc57ffb0d2c1256fe1003bce01?OpenDocument

[278] Si ricorda che l’accordo di programma quadro tra ANCI e CONAI stipulato in data 8 luglio 1999 per la raccolta ed il recupero dei rifiuti di imballaggio, in attuazione delle previsioni dell’art. 41, comma 3, del decreto Ronchi, è stato recentemente sostituito da un nuovo accordo, siglato in data 14 dicembre 2004, valido fino al 2008 e comprensivo di appositi allegati tecnici per filiera di materiale, sottoscritti dai relativi consorzi (acciaio, alluminio, carta, legno e plastica, con esclusione del vetro), che su tale base organizzano le proprie attività. Secondo il Programma generale di prevenzione e gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio per l’anno 2003 (pagina 5) del CONAI “Le convenzioni stipulate con i Comuni, nel quadro dell’accordo ANCI-CONAI, coprono ormai oltre i due terzi della popolazione nazionale ed hanno prodotto una crescita del 116% dei rifiuti recuperati, provenienti dalla raccolta pubblica”.

[279] Convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1987, n. 441.

[280] Consorzio obbligatorio batterie al piombo esauste e rifiuti piombosi (http://www.cobat.it).

[281] Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene (http://www.polieco.it).

[282] Convertito con modificazioni dalla legge 27 febbraio 2002, n. 16. Tale articolo è stato successivamente modificato dall’art. 18 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 (recante Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 24 novembre 2003, n. 326) che ha provveduto a risolvere i problemi emersi dalla formulazione originaria (si veda, in proposito, N. Biancani Oli usati: dalla rigenerazione alla produzione di combustibili a specifica, in “Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa” n. 4/2003.

[283] Consorzio obbligatorio degli oli usati (http://www.coou.it).

[284] La nuova tariffa include anche i costi per lo smaltimento in discarica (indicati nell’art. 13 del d.lgs. n. 36/2003).

[285] Il comma 11 dell’art. 238 prevede, infatti, che sino a quando non sarà emanato il regolamento che individuerà i criteri generali per la determinazione della nuova tariffa, e comunque fino al compimento di tutti gli adempimenti necessari per l’applicazione della stessa, restano ferme le discipline regolamentari attualmente vigenti in materia.

[286] Precedentemente erano intervenuti l’art. 31, comma 21, della legge finanziaria per il 2003 (legge 27 dicembre 2002, n. 289), indi l’art. 4, comma 116, della legge finanziaria per il 2004 (legge 24 dicembre 2003, n. 350), e infine l’art. 1, comma 523, della legge finanziaria per il 2005 (legge 30 dicembre 2004, n. 311).

[287] Secondo quanto precisato dal Ministero delle finanze con la circolare 17 febbraio 2000 n. 25, le decorrenze per la transizione dalla TARSU alla tariffa erano originariamente:

a)   1° gennaio 2003 per i comuni con un grado di copertura dei costi superiore all'85% nel 1999;

b)   1° gennaio 2005 per i comuni con copertura dei costi tra il 55% e l'85% nel 1999;

c)   1° gennaio 2008 per i comuni con copertura dei costi sotto al 55% nel 1999, nonché per tutti i comuni fino a 5.000 abitanti, a prescindere dalla copertura dei costi raggiunta nel 1999.

[288] Contenuta nel capo III del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507.

[289] Secondo quanto riportato nella relazione illustrativa del ddl (AC 5310), le attività di accertamento svolte da alcune amministrazioni locali hanno consentito di ricuperare un rilevante scostamento (fino al 30%) fra gli effettivi dati di superficie delle unità immobiliari e quelli denunziati dagli occupanti per la determinazione della tassa.

[290] COM (2003) 301 def. Tale documento può essere consultato all’indirizzo internet http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2003/com2003_0301it01.pdf.

[291] http://europa.eu.int/comm/environment/gpp/pdf/handbook_it.pdf.

[292] L’elenco delle circolari emanate, ed il relativo tesato, può essere consultato all’indirizzo internet http://acquistiverdi.it/contenuti/leggi_e_bandi/leggi/110.

[293]www.ance.it/ance/jsp/home.jsp?sItemId=2114178&sTipoPagina=dettaglio&sListId=2151310#.

[294] Si ricorda che norme che connettono gli interventi di bonifica ad una preventiva analisi di rischio sono – da anni - ampiamente diffuse in numerosi paesi europei. Si ricorda, inoltre, che anche la direttiva 99/31/CE relativa alle discariche di rifiuti (recepita nell’ordinamento nazionale con il d.lgs. n. 36 del 2003) contempla l’adozione dell’analisi di rischio in relazione alla valutazione dell’efficacia delle soluzioni progettuali e gestionali previste per le nuove discariche ed alla verifica della conformità delle vecchie discariche ai criteri prescritti ed alle prestazioni ambientali da raggiungere.

[295] Si ricorda, in collegamento con quanto detto, che le nuove disposizioni recate dall’art. 257 escludono che possa essere punito chi causa il rischio di superamento dei limiti: viene punito solo chi cagiona il superamento effettivo degli stessi.

[296] La VAS prende in considerazione gli effetti dell’attuazione dei piani e programmi che possono avere conseguenze significative sull’ambiente, durante la loro elaborazione e prima della loro adozione, mentre la VIA approfondisce gli effetti sull’ambiente di singole opere o progetti pubblici e privati che possono avere ripercussioni ambientali rilevanti.

[297] Il decreto n. 152 del 2006 è stato pubblicato sul S.O. n. 96/L alla G.U. del 14 aprile 2006, n. 88.

[298] Occorre sottolineare che, nell’esercizio della delega conferita dall’art. 25 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004) per il recepimento delle direttive quadro in materia di appalti (2004/17/CE e 2004/18/CE), il Governo, nel riscrivere l’intera legge Merloni (v. capitolo La riforma della “legge Merloni e la scheda Il Codice dei contratti pubblici) ha provveduto, ai fini di un coordinamento delle norme esistenti per la creazione di un testo unico degli appalti, a trasporre nel cd. codice appalti approvato con il decreto legislativo n. 163 del 2006 (in particolare nella Parte II, Titolo III, Capo IV, comprendente gli articoli 161-194) anche la disciplina speciale prevista per le cd. opere strategiche dal d.lgs. n. 190/2002 (di cui è prevista l’aborgazione da parte dell’art. 256 del citato codice).

Si noti che, attualmente, il codice appalti è in attesa di pubblicazione sulla G.U., pertanto i commenti e/o i riferimenti a tale normativa riguardano il testo presentato alle Camere per il parere.

[299] Il recepimento da parte degli Stati membri, previsto entro il 21 luglio 2004, era stato dapprima anticipato dallo Stato italiano al 26 marzo 2003 con la legge 1° marzo 2002 n. 39 (comunitaria 2001), e poi successivamente posticipato al 31 dicembre 2003 dall’art. 13-nonies del decreto legge 25 ottobre 2002, n. 236.

[300] Per un approfondimento della disciplina speciale prevista per la realizzazione delle infrastrutture olimpiche si veda il capitolo Giochi olimpici Torino 2006.

[301] Nel caso in cui si faccia riferimento alla procedura di VAS regionale, il contraddittorio per la determinazione delle informazioni da inserire nel rapporto, dovrà essere, invece, con l’autorità competente, ai sensi dell’art. 9, comma 4.

[302] Fra le numerose tipologie di pianificazione territoriale (molte delle quali disciplinate ormai da fonte regionale), possono citarsi: i piani territoriali di area vasta e i piani territoriali regionali di coordinamento (PTRC) - approvati dalle regioni - i piani di assetto del territorio (PAT) con le scelte strategiche di assetto e di sviluppo per il governo del territorio comunale, e il piano degli interventi (PI) - approvati dai comuni.

[303] L’Apat ha svolto, a questo proposito, una analisi di confronto regionale di detti atti normativi, attraverso specifici parametri, al fine di individuare gli elementi comuni e le discordanze nelle modalità di attuazione della direttiva comunitaria in assenza di un decreto nazionale. I dati, aggiornati al mese di settembre 2005, sono rinvenibili sul sito internet http://www.apat.gov.it/site/_files/quadroRifLegislativo_VAS.pdf

[304] Per l’individuazione delle regioni con le relative leggi, si veda, in questo caso, la tabella n. 3 del documento citato dell’APAT

[305] Per l’individuazione delle regioni con le relative leggi, si veda, in questo caso, la tabella n. 2 del documento citato dell’APAT

[306] Giova ricordare che il citato DPR 12 aprile 1996 era stato emanato in seguito ai richiami da parte comunitaria per l'incompleta applicazione della direttiva 337/85/CEE. Il DPR aveva conferito alle regioni ed alle province autonome il compito di attuare la direttiva per tutte quelle categorie di opere (allegati A e B al DPR) non comprese nella normativa statale, ma previste dalla direttiva all’allegato II. Le opere dell'allegato A venivano sottoposte a VIA regionale obbligatoria (se localizzate in un parco, ai sensi della legge n. 394/1991, la soglia dimensionale veniva dimezzata); le opere dell'allegato B erano sottoposte a VIA regionale obbligatoria, con soglie dimezzate, solo nelle aree a parco, mentre al di fuori dei parchi venivano sottoposte ad una fase di verifica.

[307] Per la cui illustrazione si veda l’apposita scheda Legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA.

[308] Decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 aprile 2002, n. 55; decreto legge 18 febbraio 2003, n. 25, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 aprile 2003, n. 83; legge 23 agosto 2004, n. 239 e decreto legislativo 27 dicembre 2004, n. 330.

[309] Artt. 14-14 quater della legge 7 agosto 1990, n. 241, da ultimo modificati ed integrati dagli artt. 9-14 della legge 24 novembre 2000, n. 340 e dagli artt. 8-12 della legge 11 febbraio 2005, n. 15.

[310] Artt. 16 e seguenti della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modifiche.

[311] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 16 gennaio 2004, n. 5.

[312] Ai sensi dell’art. 30, per i progetti sottoposti a VIA è facoltà del proponente, prima dell'avvio del procedimento di VIA, richiedere alla competente direzione del MATT un parere in merito alle informazioni che devono essere contenute nello SIA (fase di scoping).

[313] Si segnala che al fine di approfondire la portata ed il significato della normativa vigente, l’Apat ha predisposto un rapporto tecnico recante “Dispositivi legislativi internazionali, comunitari e nazionali in materia di VIA. Quadro legislativo internazionale, comunitario e nazionale aggiornato al mese di giugno 2005” ed una raccolta della produzione giurisprudenziale più significativa. I due documenti sono disponibili nel sito internet dell’Apat ai seguenti indirizzi:

http://www.apat.gov.it/site/_files/RT_VIAnazionale_giugno2005.pdf; http://www.apat.gov.it/site/_files/VIAgiurisprudenzafinale.pdf

[314] I dati sono stati tratti da un rapporto tecnico predisposto dall’APAT “La VIA a livello regionale. Quadro di riferimento normativo” (marzo 2005) e da una analisi comparata del contenuto delle leggi regionali e provinciali sempre a cura dell’APAT (novembre 2001), in cui sono analizzate le tipologie di opere previste nei singoli dispositivi legislativi. Il testo dei due documenti è disponibile nei seguenti siti internet:

http://www.apat.gov.it/site/_files/Sviluppo_Sostenibile/VIARegionale_marzo2005.pdf  e

http://www.apat.it/site/_files/Sviluppo_Sostenibile/Rapporto%20T4_Comparazione%20VIA%20regionale%20-%20Link%20analisi%20comparata.zip

[315] Per citare un esempio, allo Stato spettava la VIA degli impianti di smaltimento di rifiuti ex tossici e nocivi (DPCM n. 377 del 1988, art. 1, comma 1, lett. i), che sono, invece, autorizzati dalle regioni (art. 27 del decreto legislativo n. 22 del 1997). In base alla nuova normativa ora la VIA spetta, quindi, non più allo Stato, bensì alle regioni, organo cui compete l’autorizzazione alla costruzione/esercizio.

[316] Tale disposizione adegua la normativa italiana alla direttiva 85/337/CEE, il cui recepimento è stato, tra l’altro, anche disposto con l’art. 30 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004), a seguito dell’apertura della procedura di infrazione 2003/2049.

[317] Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 aprile 2002, n. 55, ai soli fini del rilascio della VIA, per la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 Mw termici, si applicano le disposizioni relative alla VIA statale e, fino all’emanazione dello specifico decreto legislativo (n. 59 del 2005), tale autorizzazione integra e sostituisce, ad ogni effetto, singole autorizzazioni ambientali di competenza delle Amministrazioni interessate e degli enti pubblici territoriali. Inoltre, l’esito positivo della VIA costituisce parte integrante e condizione necessaria del procedimento autorizzatorio. L’istruttoria si conclude, quindi, una volta acquisita la VIA, in ogni caso entro il termine di 180 gg. dalla data di presentazione della richiesta, comprensiva del progetto preliminare e del SIA.

[318] Per «impatto transfrontaliero» deve intendersi ogni impatto, e non esclusivamente un impatto di natura mondiale, derivante, entro i limiti di una zona che dipende dalla giurisdizione di una Parte, da una attività prevista la cui origine fisica sia situata in tutto o in parte nella zona dipendente dalla giurisdizione di un'altra Parte.

[319] Per un’illustrazione dettagliata di tale disciplina si veda la scheda Legge obiettivo – Disciplina speciale di VIA

[320] Art. 6, comma 6, della legge n. 349 del 1986 e art. 4 del DPCM n. 377 del 1988.

[321] Tale facoltà era già prevista dalla normativa sulla VIA regionale all’art. 1, comma 7, del DPR 12 aprile 1996, ma tali soglie potevano essere non solo incrementate ma anche diminuite nella misura percentuale del 30, anziché del 20%.

[322] Si ricorda, infatti, che con il DPCM 27 dicembre 1988successivamente modificato ed integrato (per talune categorie di opere) dal DPR 2 settembre 1999, n. 348, sono state definite le norme tecnicheper la redazione del SIA, con una serie di Allegati in cui vengono descritti i contenuti specifici dei fattori ambientali che devono essere considerati nella redazione dei SIA suddivisi per ogni categoria di opera sottoposta a VIA nazionale. Le norme tecniche di tale DPCM sono altresì richiamate esplicitamente nell’art. 18, comma 1 del decreto legislativo n. 190 del 2002.

[323] La Corte, a un certo punto (paragrafo 7) chiarisce che se i valori-soglia avessero il solo fine della tutela della salute, allora sarebbero ammissibili interventi delle Regioni che fissassero valori più rigorosi, “in coerenza con il principio, proprio anche del diritto comunitario, che ammette deroghe alla disciplina comune, in specifici territori, con effetti di maggiore protezione dei valori tutelati (cfr. sentenze n. 382 del 1999 e n. 407 del 2002)”.

[324] Pubblicato nella G.U. 8 luglio 2002, n. 158 e convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178.

[325] Si veda, per esempio, l’ordinanza 21 dicembre 2001, n. 80 del Tribunale di Udine – Sezione penale (commentata da M. Santoloci in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa”, n. 87/2002) con cui viene confermata la validità del sequestro di rottami ferrosi effettuato dalla polizia giudiziaria in data 16 novembre 2001 e confermato con decreto del Pubblico ministero presso il Tribunale di Udine datato 19 novembre 2001. Si veda anche l’ordinanza del Tribunale di Trieste del 18 ottobre 2001.

[326] Si tratta della sentenza con la quale il GIP presso il Tribunale di Udine ha rigettato l'istanza di dissequestro di rottami ferrosi (il cui sequestro era stato effettuato nel novembre 2001), che invocava l'applicazione del citato art. 14.

[327] In proposito, si veda G. Amendola, Interpretazione autentica di rifiuto: le prime sentenze della Cassazione, in “Il Foro Italiano” n. 3/2003.

secondo il Giudice comunitario

[328] Sentenza n. 543 del 30 agosto 2001.

[329] Per un commento di queste due prime sentenze si vedano gli articoli di P.Giampietro e M. Medugno in “Ambiente e sicurezza” nn. 13 e 23 del 2005.

[330] http://www.ambientediritto.it/sentenze/2005/Cassazione/Cassazione 2005 n.20499.htm.

[331]Disponibile all’indirizzo internet www.ambientediritto.it/sentenze/2006/Cassazione/Cassazione 2006 n.1414.htm.

[332] Tale decreto (pubblicato sulla G.U. 12 marzo 2003, n. 59 – S.O. n. 40) è stato emanato dal Governo sulla base della delega contenuta nell’art. 12 della legge 24 dicembre 2000, n. 422 (comunitaria 2000) e rinnovata dall’art. 42, comma 1 della legge 1 marzo 2002, n. 39 (comunitaria 2001), che ha prorogato il termine per la relativa attuazione al 10 aprile 2003.

[333] Il termine previsto dalla direttiva per il recepimento negli Stati membri era fissato al 16 luglio 2001. Il tardivo recepimento da parte dell’Italia ha causato l’avvio di una procedura comunitaria di infrazione nei confronti del nostro Paese.

[334] Regolamento recante norme per lo smaltimento in discarica dei rifiuti e per la catalogazione dei rifiuti pericolosi smaltiti in discarica.

[335] Ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo n. 22/1997.

[336] Tale tipologia (vedi nota seguente) è stata abrogata dal DM 26 giugno 2000, n. 219.

[337] Il punto 4.2. della Delibera 27 luglio 1984 prevedeva anche una categoria discariche di Tipo C, nelle quali era ammesso lo smaltimento di particolari categorie di rifiuti speciali (residui derivanti da lavorazioni industriali, da attività agricole, artigianali, commerciali e di servizi non assimilabili ai rifiuti urbani, nonché residui dell'attività di trattamento dei rifiuti e residui derivanti dalla depurazione degli effluenti) e rifiuti tossici e nocivi, anche contenenti sostanze appartenenti ai gruppi 9-20 e 24, 25, 27 e 28 dell'allegato al D.P.R. n. 915 del 1982, in concentrazioni superiori a quelle indicate come soglia massima per le discariche di Tipo B. Tuttavia, tali disposizioni non risultano più vigenti, a seguito dell’intervenuta abrogazione da parte del DM 26 giugno 2000, n. 219.

[338] Si ricordano, a titolo di esempio, i rifiuti allo stato liquido, quelli classificati come esplosivi, comburenti e infiammabili, quelli contenenti una o più sostanze corrosive, i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo, i rifiuti contaminati da PCB, diossine e furani, ecc.

[339] G.U. n. 67 del 21 marzo 2003.

[340] Secondo alcuni Autori, peraltro, nemmeno tale decreto è del tutto esaustivo sulla materia. Si veda, sul punto, A. Muratori, Nuove regole per l’ammissibilità dei rifiuti in discarica con il D.M. 3 agosto 2005, in “Ambiente e sviluppo” n. 11/2005, utile anche per un approfondimento sui contenuti del citato decreto.

[341] Per ulteriori approfondimenti, rispetto a quanto illustrato nella presente scheda, sulle norme recate dal d.lgs. n. 133/2005, si rinvia al numero speciale n. 3/2005 della rivista “Ambiente e sicurezza” intitolato Rifiuti – I nuovi decreti su Raee, incenerimento e discariche oppure all’inserto Incenerimento di rifiuti: in vigore anche in Italia le nuove regole, in “Ambiente e sviluppo” n. 9/2005.

[342] Convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51.

[343] Ciò forse deriva dal fatto che un impianto di coincenerimento nasce tipicamente come impianto produttivo che può prescindere dal coincenerimento di rifiuti, che può intervenire in qualsiasi momento dell’esercizio dell’impianto senza che sia necessaria una specifica progettazione a monte, poiché ad esempio basta semplicemente aggiungere rifiuti al combustibile principalmente usato nell’impianto.

[344] In realtà negli allegati al D.M. n. 124/2000 (cfr. all.1, lettera O, e all. 2, lettera L) vi sono alcune disposizioni di raccordo con la normativa in materia di acque reflue prevista dal d.lgs. n. 152/99.

[345] Tale regolamento dispone, tra l’altro, che “L'incenerimento e coincenerimento di sottoprodotti di origine animale sono effettuati conformemente alla direttiva 2000/76/CE o, ove essa non sia d'applicazione, conformemente alle disposizioni del presente regolamento. Gli impianti di incenerimento e coincenerimento sono soggetti a riconoscimento ai sensi di detta direttiva”.

[346] In realtà occorre però notare che vi è un precedente nell’ordinamento nazionale, costituito dall’art. 2 dell’Ordinanza del Ministero della sanità 30 marzo 2001 (recante Misure sanitarie ed ambientali urgenti in materia di encefalopatie spongiformi trasmissibili relative alla gestione, al recupero energetico ed all'incenerimento del materiale specifico a rischio e dei materiali ad alto e basso rischio) che ha previsto che “Le proteine animali ed i grassi fusi ottenuti da materiale specifico a rischio, e da materiali ad alto e a basso rischio presso gli impianti autorizzati, rispettivamente, ai sensi dell'art. 7 del decreto del Ministro della sanità 29 settembre 2000 e degli articoli 3, comma 2, e 5, comma 1, del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 508, possono essere oggetto di attività di recupero energetico, ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo n. 22/1997, a condizione che siano rispettati i requisiti, le modalità di esercizio e le prescrizioni riportate nell'allegato 1 alla presente ordinanza”.

[347] Recante Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole.

[348] Formata dalla direttiva quadro sui rifiuti (75/442/CEE), dalla direttiva sui rifiuti pericolosi (91/689/CEE), nonché dal regolamento sulle spedizioni di rifiuti (Regolamento n. 259/1993).

[349] Cfr. articolo 174 del trattato CE.

[350] COM (2003) 301 def. Tale documento può essere consultato all’indirizzo internet:

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2003/com2003_0301it01.pdf.

[351] La direttiva 2000/53/CE avrebbe dovuto essere attuata entro il 21 aprile 2002, circostanza che ha determinato l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria (n. 2002/0168) nei confronti del nostro Paese.

[352] A cui si sono affiancate le norme del DM 22 ottobre 1999, n. 460 Regolamento recante disciplina dei casi e delle procedure di conferimento ai centri di raccolta dei veicoli a motore o rimorchi rinvenuti da organi pubblici o non reclamati dai proprietari e di quelli acquisiti ai sensi degli articoli 927-929 e 923 del codice civile. Sul medesimo argomento è successivamente intervenuto anche l’art. 50 della legge n. 448/2001 (finanziaria 2002), poi abrogato dal comma 13 dell'art. 38 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269.

[353] Si ricorda, in proposito, che i primi due commi dell’art. 46 del d.lgs. n. 22/1997 (ora art. 231 del d.lgs. n. 152/2006) prevedono, infatti, che il proprietario di un veicolo a motore o di un rimorchio “che intenda procedere alla demolizione dello stesso deve consegnarlo ad un centro di raccolta per la messa in sicurezza, la demolizione, il recupero dei materiali e la rottamazione” e che lo stesso proprietario “può altresì consegnarlo ai concessionari o alle succursali delle case costruttrici per la consegna successiva ai centri di cui al comma 1 qualora intenda cedere il predetto veicolo o rimorchio per acquistarne un altro”.

[354] A. Merlin, Con il d.lgs. 24 giugno 2003, n. 209, veicoli fuori uso smaltiti correttamente, in “Ambiente e sicurezza” n. 19/2003.

[355] Le percentuali fissate sono tutte superiori all’80% del peso medio per veicolo e per anno.

[356] Sul punto si veda C. Diani, La gestione dei veicoli fuori uso alla luce del d.lgs. n. 209/2003, in “Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa”, n. 11/2003.

[357] Restriction of Hazardous Substances in Electrical and Electronic Equipment.

[358] Waste Electrical and Electronic Equipment.

[359] La direttiva 2003/108/CE ha modificato l'articolo 9 (recante Finanziamento relativo ai RAEE provenienti da utenti diversi dai nuclei domestici) della direttiva 2002/96/CE.

[360] Pubblicato nella G.U. n. 175 del 29 luglio 2005 – S.O. n. 135.

[361] Per un approfondimento sulle norme recate dal decreto e sulle criticità da risolvere si veda R. Laraia, Con il decreto legislativo n. 151/2005 al via il sistema di gestione dei RAEE, in “Ambiente e sicurezza” – n. speciale 3/2005.

[362] L’art. 4 prevede inoltre, sempre per le medesime finalità, che il Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministero delle attività produttive, adotti misure dirette a favorire ed incentivare, da parte dei produttori di AEE, l'impiego di modalità di progettazione e di fabbricazione che agevolino lo smontaggio, il recupero e, in particolare, il reimpiego ed il riciclaggio dei RAEE e dei loro componenti e materiali.

[363] Secondo i dati riportati nell’Appendice A3 del Rapporto rifiuti 2004 redatto dall’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (disponibile all’indirizzo internet http://www.apat.gov.it/site/it-IT/APAT/Pubblicazioni/Rapporto_rifiuti/Documento/rapporto_rifiuti_2004.html), il quantitativo complessivamente raccolto di RAEE nel 2003, a livello nazionale, è stato “pari a 66.700 tonnellate, corrispondenti ad un valore pro capite di 1,2 kg/abitante per anno”.

[364] Tale scadenza (prevista dall’art. 20, comma 5, del decreto), che proroga di un anno quella prevista dalla direttiva deriva da ritardo con cui è stata recepita la direttiva.

[365] Un elenco dei decreti di attuazione previsti dal d.lgs. n. 151/2005 è disponibile nel sito internet del Consorzio Ecoqual’It all’indirizzo:

http://www.ecoq.it/updown/normative/Regolamenti_attuazione.pdf.

Il Consorzio Ecoqual’It per l’information tehnology è uno dei consorzi recentemente nati nel nostro Paese al fine di prepararsi al corretto recepimento dei nuovi obblighi imposti dalla direttiva 2002/96/CE. Tale consorzio ha siglato un accordo di programma per il recupero delle cartucce toner a fine vita con la spedizione postale gratuita per il cliente con l'Ente Poste, il Ministero dell'ambiente e l'Osservatorio nazionale dei rifiuti ed ha lanciato il progetto Eco-Dealer per la gestione dei prodotti hi-tech a fine vita.

Oltre ad Ecoqual’It, si ricordano i due consorzi sorti nel 2004 in seno all'Anie (la Federazione dei produttori di elettronica ed elettrotecnica): Ecolight, che riunisce i produttori e gli importatori di apparecchi per l'illuminazione ed Ecodom, formato dalle aziende del settore grandi e piccoli elettrodomestici, climatizzatori portatili e scaldacqua. Un terzo consorzio, Eco-Dealer, è stato fondato da un gruppo di aziende dell'Information technology e dovrebbe riunire i rivenditori che si impegnano a raccogliere gli apparecchi usati. Per il recupero e lo smaltimento delle sorgenti luminose (lampadine) si è invece costituito il consorzio Ecolamp.

[366] http://www.imo.org/Conventions/contents.asp?doc_id=678&topic_id=258.

[367] Pubblicato nella G.U. 29 dicembre 2005, n. 302.

[368] Pubblicata nella G.U. 15 marzo 2004, n. 62.

[369] Vale a dire un anno dall’entrata in vigore del decreto.

[370] Diversamente, la notifica va effettuata non appena il porto di scalo è noto, qualora conosciuto a meno di 24 ore dall'arrivo oppure prima della partenza dal porto di scalo precedente, se la durata del viaggio è inferiore a 24 ore.

[371] http://unfccc.int

[372] Previsto dall’art. 3 del Protocollo.

[373] Prevista dall’art. 6 del Protocollo.

[374] Previsti dall’art. 12 del Protocollo.

[375] Le percentuali di responsabilità nelle emissioni globali sono le seguenti: gli Stati membri UE sono responsabili del 22,1%, gli USA del 30,3%, il Giappone del 3,7%, il Canada del 2,3%.

[376] La percentuale di riduzione globale che il Protocollo si prefigge quale obiettivo è scesa - dopo l’abbandono del negoziato da parte degli Stati Uniti - dal 5,2% al 3,8%.

[377] I programmi pilota sono stati definiti: con il DM 3 novembre 2004 (programmi pilota a livello nazionale), con il D.M. 2 febbraio 2005 (programmi pilota a livello nazionale in materia di afforestazione e riforestazione) e con il D.M. 11 febbraio 2005 (programmi pilota a livello internazionale).

[378] Tale Piano è consultabile all’indirizzo internet:

www2.minambiente.it/Sito/settori_azione/pia/att/pna_c02/docs/delibera_cipe_19_12_02_n123.pdf.

[379] Pubblicata nella G.U. n. 68 del 22 marzo 2003 e consultabile anche all’indirizzo internet http://www2.minambiente.it/sito/settori_azione/pia/docs/deliberaCIPE_19_12_02.pdf.

[380] Si ricorda, in proposito, che nel corso della COP7 di Marrakech (2001) si è stabilito che il commercio dei permessi di emissione tra i paesi industrializzati non sia soggetto a limiti quantitativi.

[381] Tale permesso è rilasciato dall’autorità nazionale competente previa verifica da parte della stessa della capacità dell’operatore dell’impianto di monitorare nel tempo le proprie emissioni di gas serra.

[382] La mancata resa di una quota d’emissione prevede una sanzione pecuniaria di 40 Euro nel periodo 2005-2007 e di 100 Euro nei periodi successivi; le emissioni oggetto di sanzione non sono esonerate dall’obbligo di resa di quote.

[383] Ogni anno i gestori degli impianti regolati dalla direttiva 2003/87 sono tenuti a restituire un numero di quote corrispondenti alle emissioni reali prodotte. L’eventuale surplus di quote (differenza positiva tra le quote assegnate ad inizio anno e le emissioni effettivamente immesse in atmosfera) potrà essere accantonato o venduto sul mercato, mentre il deficit potrà essere coperto attraverso l’acquisto delle quote. Gli Stati membri dovranno quindi assicurare la libera circolazione delle quote di emissioni all’interno della Comunità Europea consentendo lo sviluppo effettivo del mercato europeo dei diritti di emissione.

[384] In particolare dei CERs a partire dal 2005 e delle ERUs a partire dal 2008.

[385] Previsto dall’art. 14 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004), che ha delegato il Governo al recepimento della direttiva 2003/87 nella legislazione nazionale entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge (vale a dire entro il 12 novembre 2006).

[386] Le successive versioni del Piano Nazionale di Assegnazione sono consultabili nel sito internet del Ministero dell’ambiente ai seguenti indirizzi:

www2.minambiente.it/Sito/settori_azione/pia/att/pna_c02/pna_c02.asp ;

www2.minambiente.it/Sito/settori_azione/pia/att/pna_c02/pnac02_schema_assegnazione.asp

[387] Su cui hanno espresso il loro parere sia le Commissioni parlamentari competenti (nel dicembre 2005), sia la Conferenza Stato-Regioni, sia la Commissione europea, che ha trasmesso il proprio parere favorevole con nota protocollo DG ENV/C2/IB/sad/D(06) 3537 del 22 febbraio 2006.

[388] Le quote di emissione assegnate dal PNA ai gestori regolati dalla Direttiva 2003/87 possono essere scambiate attraverso contrattazioni bilaterali (OTC) oppure attraverso piattaforme di scambio organizzate (le cd. borse dei fumi).

Nel corso del 2005 era stato annunciato che nei primi mesi del 2006 sarebbe stata attivata la prima piattaforma italiana per lo scambio delle quote di emissione da parte del gestore del mercato elettrico (GME). Tale piattaforma, tuttavia, non è ancora attiva.

Per ulteriori approfondimenti si veda il documento presentato dal GME alla fiera “CO2 Expo”, tenutasi a Roma nel settembre 2005, e disponibile sul sito internet del GME all’indirizzo www.mercatoelettrico.org/GmewebItaliano/MenuBiblioteca/Documenti/PresentazioneCO2.pdf. Si rammenta, altresì, che sul medesimo sito è consultabile la bozza di Regolamento del mercato delle quote di emissione all’indirizzo:

http://www.mercatoelettrico.org/GmeWebItaliano/MenuBiblioteca/Documenti/20051003RegolamentoET.pdf.

[389] Si veda, ad esempio, L. De Simone, A. Nobili “Con i certificati verdi ed emission trading sviluppo economico sempre più sostenibile”, in Ambiente e sicurezza – Supplemento n. 4/2003.

[390] Una rassegna delle iniziative della Banca Mondiale in materia è contenuta nel sito http://carbonfinance.org.

[391] Per approfondimenti si rinvia al documento di presentazione dell’iniziativa predisposto congiuntamente dal Ministero dell’ambiente e dalla Banca mondiale e disponibile all’indirizzo internet http://carbonfinance.org/docs/ItalianCarbonFundItalianLanguage.pdf.

[392] Pubblicato nella G.U. del 22 aprile 2005, n. 93 – S.O. n. 72.

[393] Ciò in considerazione del fatto che “approcci distinti nel controllo delle emissioni nell'aria, nell'acqua o nel terreno possono incoraggiare il trasferimento dell'inquinamento tra i vari settori ambientali anziché proteggere l'ambiente nel suo complesso” (7° considerando della direttiva).

[394] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 maggio 2003, che prevede la partecipazione del pubblico nell'elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all'accesso alla giustizia.

[395] Convenzione sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico al processo decisionale e sull’accesso alla giustizia in materia ambientale. Il testo tradotto della Convenzione è disponibile all’indirizzo www.arpat.toscana.it/comunicazione/co_aarhus.pdf.

[396] La direttiva, pubblicata sulla GUCE del 10 ottobre 1996, n. 257G, è entrata in vigore il 30 ottobre 1996.

[397] Le informazioni, riferite all’anno 2002, sono state fornite da 670 stabilimenti IPPC presenti sul territorio nazionale e raccolte sulla base dei criteri stabiliti dal D.M. 23 novembre 2001. Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare il sito internet www.eper.sinanet.apat.it.

[398] Tali norme attribuiscono al sindaco alcune competenze in materia di autorizzazione e controllo dell’attività di manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti.

[399] Convertito con modificazioni dall'art. 1 della legge 27 febbraio 2004, n. 47.

[400] La nozione di impianto nuovo recata dall’art. 2, lett. e), che ovviamente non compariva nel decreto n. 372/1999, ha carattere residuale, qualificando come nuovo ogni impianto che non ricade nella definizione di impianto esistente, nozione quest’ultima, che fa riferimento alll’entrata in vigore del d.lgs. n. 372 (avvenuta il 10 novembre 1999), considerando come esistente ogni impianto che “al 10 novembre 1999, aveva ottenuto tutte le autorizzazioni ambientali necessarie all'esercizio, o il provvedimento positivo di compatibilità ambientale, o per il quale a tale data erano state presentate richieste complete per tutte le autorizzazioni ambientali necessarie per il suo esercizio, a condizione che esso sia entrato in funzione entro il 10 novembre 2000”.

Anche la nozione di modifica sostanziale è stata ritoccata al fine di recepire le modifiche introdotte dall’art. 4 della direttiva 2003/35 che ha aggiunto un periodo alla definizione prevista dall’art. 2 della direttiva 96/61/CE volto a definire come sostanziali le modifiche o gli ampliamenti dell'impianto che “di per sé sono conformi agli eventuali valori limite stabiliti nell'allegato I”.

[401] Volte a recepire la rettifica della direttiva 96/61/CE, pubblicata sulla G.U.C.E. 30 maggio 2002 n. L 140 (punto 4.1) o a rendere il testo maggiormente aderente alla versione inglese della direttiva, in attesa di una rettifica che il Governo – secondo quanto indicato nella relazione illustrativa allo schema di decreto – intende chiedere alla Commissione Europea (punto 6.2).

[402] Si ricorda che tale elencazione attua il disposto del secondo criterio di delega recato dall’art. 22, lettera b), della legge 31 ottobre 2003, n. 306.

[403] Si ricorda che tale disposizione, insieme ad altre introdotte dal d.lgs. n. 59, consente di attuare il terzo criterio di delega previsto dall’art. 22, comma 1, lettera c), della legge comunitaria 2003.

[404] Indicate in letteratura anche con l’acronimo di derivazione inglese BAT (Best Availables Techniques).

[405] G.U. n. 135 del 13 giugno 2005 – S.O. n. 107.

[406] L’art. 6 prevede, infatti, che “Con uno o più decreti del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri delle attività produttive e della salute e d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, possono essere emanati indirizzi per garantire l'uniforme applicazione delle disposizioni del presente decreto legislativo da parte delle autorità competenti”.

[407] L’art. 4, comma 3, dispone che “Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta dei Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri delle attività produttive e della salute e d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, possono essere determinati dei requisiti per talune categorie di impianti, che tengano luogo dei corrispondenti requisiti fissati per ogni singola autorizzazione, purché siano garantiti un approccio integrato ed una elevata protezione equivalente dell'ambiente nel suo complesso”.

[408] Che diventano 300 qualora, in considerazione del “particolare e rilevante impatto ambientale, della complessità e del preminente interesse nazionale dell'impianto”, le parti coinvolte intendano concludere uno specifico accordo di programma (art. 5, comma 20).

[409] Ove l'autorità competente non provveda a concludere il procedimento relativo al rilascio dell'AIA entro i termini previsti, si applica il potere sostitutivo di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 112/1998 (art. 5, comma 17, del d.lgs. n. 59).

[410] Si ricorda, in proposito, che tale decreto è stato recentemente modificato dal decreto legislativo 21 settembre 2005, n. 238 recante Attuazione della direttiva 2003/105/CE, che modifica la direttiva 96/82/CE, sul controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose,pubblicato nella G.U. n. 271 del 21 novembre 2005 – S.O. n. 189.

[411] Salve le specifiche esclusioni per gli impianti indicati all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 59.

[412] Nelle materie per le quali il Governo era delegato ad emanare uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative erano comprese anche le procedure per l’AIA.

[413] Per ulteriori approfondimenti sulle varie pronunce della Corte si legga R.Chieppa, Inquinamento elettromagnetico ed installazione di infrastrutture per comunicazioni: è finita l’incertezza dopo le sentenze della Corte costituzionale?, tratto dalla rivista internet www.giustizia-amministrativa.it.

[414] Nello stesso anno è stato emanato anche il decreto legislativo n. 277 sui limiti di esposizione al rumore e ad altri agenti fisici, chimici e biologici in ambienti di lavoro (in attuazione di alcune direttive comunitarie).

[415] La legge n. 447 non comprende, nel proprio ambito applicativo, l’ambiente lavorativo, che – come si è detto - trova una propria disciplina nelle norme dedicate alla sicurezza e alla salute dei lavoratori.

[416] Infatti, anche l’art. 8 del successivo DPCM 14 novembre 1997 rinvia, in attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall'art. 6, comma 1, lettera a), della legge n. 447 del 1995, ai limiti indicati dall’art. 6, comma 1, del DPM 1 marzo 1991.

[417] Le sei classi previste sono state successivamente riproposte anche dal DPCM 14 novembre 1997.

[418] Centralità che deriva dall’applicazione dei principi di competenza e sussidiarietà, dal momento che il rumore ambientale è comunque un fenomeno a diffusione locale, non implicante l’approccio a scala più ampia che deve, invece, informare la tutela di altre matrici ambientali, quali le acque superficiali e sotterranee o l’aria. 

[419] Occorre chiarire che, ai sensi dell’art. 2 della legge quadro, sono da intendersi per: “valori limite di emissione” il livello massimo di rumore che può essere emesso da una sorgente sonora, misurato in prossimità della sorgente stessa; per “valori limite di immissione” il livello massimo di rumore che può essere immesso nell’ambiente dall’insieme di tutte le sorgenti sonore, misurato in prossimità dei ricettori; “valori di attenzione” il livello di rumore che segnala la presenza di un potenziale rischio per la salute umana o per l'ambiente e “valori di qualità” il livello di rumore da conseguire nel breve, medio e lungo periodo con le tecnologie e le metodiche di risanamento disponibili.

[420] Viene, invece, escluso dall’ambito di applicazione il rumore generato dalla persona, dalle attività domestiche o dal vicinato, quello sul posto di lavoro o a bordo dei mezzi di trasporto.

[421] Intesi come quantità fisiche che descrivono il rumore ambientale avente un rapporto con effetti nocivi per la salute umana.

[422] Vengono definite, dall’art. 3 della direttiva quali: "asse stradale principale", una strada regionale, nazionale o internazionale, designata dallo Stato, su cui transitano ogni anno più di 3 milioni di veicoli, "asse ferroviario principale", una ferrovia, designata dallo Stato, su cui transitano ogni anno più di 30.000 treni e un "aeroporto principale", un aeroporto civile, designato dallo Stato, in cui si svolgono più di 50.000 movimenti l'anno (intendendosi per movimento un'operazione di decollo/atterraggio), esclusi i movimenti a fini di addestramento su aeromobili leggeri.

 

[423] La definizione di descrittore acustico riveste particolare importanza poiché permette di individuare, per i diversi periodi della giornata il valore limite da rispettare. L’innovazione più significativa della direttiva (rispetto alla disciplina nazionale consolidata) è l’introduzione di nuovi descrittori acustici, sostitutivi di quelli già in vigore. In luogo della separata considerazione, in arco diurno e notturno dei valori di esposizione a lungo termine, si opta, ora, per un “indice integrato” Lden (Livello giorno-sera-notte). Lden è il descrittore acustico giorno-sera-notte usato per qualificare il disturbo legato all'esposizione al rumore, Lnight è il descrittore acustico notturno relativo ai disturbi del sonno. I descrittori Lden e Lnight servono ad elaborare le mappe acustiche strategiche ed i loro sono definiti nell'allegato II della direttiva.

[424] I periodi di riferimento previsti dalla legislazione vigente prevedono due periodi di riferimento: il giorno dalle 6.00 alle 22.00 e la notte dalle 22.00 alle 6.00. Con i nuovi parametri introdotti con il recepimento della direttiva i periodi di riferimento sono tre: il giorno dalle 6.00 alle 20.00. la sera dalle 20.00 alle 22.00 e la notte dalle 22.00 alle 6.00.

[425] Ai sensi dell’art. 2 nel quale sono state trasfuse le definizioni recate dalla direttiva, per mappatura acustica si intende la caratterizzazione del rumore generato da un’infrastruttura principale singolarmente presa, in particolare per quanto riguarda gli effetti del superamento dei limiti previsti in un determinato contesto territoriale; la mappatura acustica strategica è costituita dalla redazione di “una mappa finalizzata alla determinazione globale dell'esposizione al rumore in una certa zona a causa di varie sorgenti di rumore, ovvero alla definizione di previsioni generali per tale zona”.

 

[426] Si tratta dei seguenti regolamenti di esecuzione: per il traffico ferroviario, il DPR 18 novembre 1998, n. 459, relativamente alle emissioni sonore prodotte nello svolgimento delle attività motoristiche, il DPR 3 aprile 2001, n. 304 e, per il traffico veicolare, il DPR 30 marzo 2004, n. 142.

[427] Le prestazioni acustiche degli aeromobili sono disciplinate dall’Annesso 16 della Convenzione di Chicago sull’Aviazione civile internazionale e dalla conseguente normativa emanata dall’ICAO (Organizzazione Aviazione Civile Internazionale).

[428] La risoluzione ICAO A33/7 (adottata in occasione della 33a Assemblea generale dell’ICAO, 25 settembre/5 ottobre 2001) ha introdotto il concetto di approccio equilibrato che informa i contenuti della direttiva. Qui vale la pena ricordare quanto emerso, nel corso della procedura di codecisione, sulla proposta di direttiva (poi divenuta la 2002/30/CE), secondo cui “adottando il sistema ICAO dell'«approccio equilibrato» per la riduzione del rumore nel traffico aereo l'UE compie un cambiamento di sistema. Mentre finora, ai fini del contenimento del rumore, sono stati ritirati dalla circolazione alcuni tipi di velivoli ovvero è stata bloccata l'utilizzazione di aerei rumorosi, d'ora in poi la riduzione del rumore deve essere valutata in funzione del singolo aeroporto, di modo che le restrizioni operative per i velivoli vengano eventualmente disposte in tale aeroporto”. Il testo è disponibile (in lingua inglese) all’indirizzo internet www.icao.int/icao/en/env/a33-7.htm.

[429] La direttiva è stata recepita con il decreto legislativo n. 194 del 2005 (vedi la scheda Gestione del rumore ambientale

[430] Col termine di restrizioni operative si intendono tutte quelle misure relative alle emissioni acustiche mediante le quali viene limitato, ridotto, ovvero, nel caso di velivoli marginalmente conformi, anche vietato, l’accesso di velivoli subsonici civili a reazione in uno specifico aeroporto.

[431] Mentre la direttiva si limita a prescrivere che le misure da adottare per dare esecuzione alle sue disposizioni non siano più restrittive di quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo ambientale di ciascun aeroporto, in certo qual senso ribaltando i termini di tale approccio, il legislatore nazionale ha consentito, invece, di prendere in considerazione l’ipotesi di restrizioni operative solo ad “accertato superamento dei limiti acustici”, a loro volta definiti – o da definire – in conformità a quanto disposto dall’art. 6 e dagli allegati A e B del DM 31 ottobre 1997, Metodologia di misura del rumore aeroportuale, tenuto conto degli adempimenti previsti dall’art. 4 del DM 3 dicembre 19999, Procedure antirumore e zone di rispetto negli aeroporti.

[432] Commissioni Riunite VIII e IX, seduta del 29 luglio 2004.

[433] Disposizioni di un certo rilievo sono comunque contenute in norme non espressamente dedicate a tale argomento quali: la disciplina delle immissione di cui all’art. 844 del Codice civile che tutela, in via privatistica, contro le immissioni luminose che superano la normale tollerabilità., l’art. 23 del decreto legislativo n. 285 del 1992 (Codice della Strada) che vieta le sorgenti luminose che possono distrarre o abbagliare gli utenti delle strade, l’art. 11 della legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991che indica le emissioni luminose tra le attività che il regolamento del parco deve disciplinare, la legge n. 10 del 1991 sul risparmio energetico e due DM delle Ministero per le attività produttive del 20 luglio 2004.

[434] Per ulteriori approfondimenti sulla disciplina regionale in materia di inquinamento luminoso e sulle principali prescrizioni si consulti l’articolo: F. Arecco, Quando le stelle non si fanno guardare…, in: Ambiente & sviluppo, n. 11 del 2005.

 

[435] Che nell’elencazione delle materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma) ha compreso anche il governo del territorio.

[436] Nel DPCM 21 luglio 1989 – avente ad oggetto la materia ambientale, e più specificamente l’attuazione del DPR n. 203 del 1988, di disciplina della tutela della qualità dell’aria – si ritrova, nelle premesse: “Rilevato che le regioni esercitano le attività previste dal citato decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203, nell'ambito dei poteri di governo del territorio ed in funzione di una regolamentazione e di un controllo generale dei flussi di inquinamento presenti nell'ambiente atmosferico”.

Il decreto legislativo 16 dicembre 1989, n. 418, finalizzato al riordinamento delle funzioni della Conferenza permanente Stato-regioni, all’articolo 6 – nell’individuare le materie per le quali si dà vita a comitati generali a competenza integrata funzionale – indica i seguenti settori: “affari istituzionali e generali, affari finanziari, governo del territorio e tutela dell'ambiente, servizi sanitari e sociali, attività produttive”.

Il DPCM 29 settembre 1998, emanato per l’attuazione degli adempimenti previsti dal cd “decreto Sarno”, (decreto legge n. 180/1998) in materia di dissesto idrogeologico, nelle premesse fa riferimento a “un'efficace e positiva azione di governo del territorio e di difesa del suolo”, impedendo l'aumento dell'esposizione al rischio in termini quantitativi e qualitativi.”all’articolo 1 adopera l’espressione come sinonimo di “difesa del suolo”.

Possono vedersi anche: l’articolo 3 della legge 29 marzo 2001, n. 135 Riforma della legislazione nazionale del turismo, in cui si fa ancora riferimento alle competenze regionali in tale materia; l’articolo 1, comma 3, del DM 9 maggio 2001, recante Requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante;

[437] Criterio residuale di cui al quarto comma dello stesso articolo 117.

[438] E’ infatti evidente che – se la Corte costituzionale avesse aderito alla terza fra le ipotesi interpretative indicate – qualunque prescrizione statale nella materia urbanistica (anche di principio) avrebbe potuto essere giudicata illegittima.

[439] P.L. Portaluri, Riflessioni sul “governo del territorio” dopo la riforma del Titolo V, Rivista giuridica dell’edilizia, Parte II, 2002, p. 357-386.

[440] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, Giuffrè, 2002.

[441] Ma si possono vedere numerose altre interferenze, anche rispetto alle materie apparentemente meno affini (si pensi alle problematiche legate alla collocazione sul territorio di opere attinenti la difesa e le Forze armate).

[442] A. Predieri, Paesaggio, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1981; F. Merusi, Art. 9, in Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, 1975.

[443] Con queste disposizioni era stato fissato all’11 novembre 2004 il termine entro il quale le regioni (in attuazione di quanto previsto dalla sentenza n. 196) avrebbero dovuto adottare le norme integrative e di dettaglio della disciplina statale.

[444] Tra essi il DM 7 marzo 1981, il DM 3 giugno 1981 ed il DM 29 febbraio 1984.

[445] Con DM 4 maggio 1990 è stato approvato l'aggiornamento delle norme tecniche per la progettazione, l'esecuzione e il collaudo dei ponti stradali; con DM 12 dicembre 1985 sono state approvate le norme tecniche per le tubazioni; con DM 9 gennaio 1987, integrato dal DM 20 novembre 1987, sono state approvate le norme tecniche per la progettazione, esecuzione e collaudo degli edifici in muratura e per il loro consolidamento e con DM 3 dicembre 1987 sono state emanate le norme tecniche per la progettazione, esecuzione e collaudo delle costruzioni prefabbricate.

[446] Come illustrato nel capitolo Norme antisismiche, l’ordinanza n. 3274 è stata oggetto di numerose e significative correzioni, apportate prevalentemente con l’ordinanza n. 3316 del 2 ottobre 2003. Il testo coordinato è consultabile al seguente sito internet: http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/classificazione/ordinanze_class.htm.Si veda anche l’ordinanza del 3 maggio 2005, n. 3431, pubblicata nel S.O. alla G.U. del 10 maggio 2005, n. 107.

[447] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 luglio 2004, n. 186, Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione. Disposizioni per la rideterminazione di deleghe legislative e altre disposizioni connesse.

[448] Per un approfondimento dei contenuti e delle procedure previste dall’ordinanza n. 3274, il Consiglio nazionali degli ingegneri ha predisposto un rapporto, le cui conclusioni si possono consultare nell’articolo di G. Angotti e A. Vignoli, “CNI: con l’ordinanza 3274 lievitano del 54% i costi di costruzione in zona sismica”, pubblicato in Edilizia e territorio n. 17 del 2/7 maggio 2005.

[449]Le tipologie degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile e quelle degli edifici e delle opere che possono assumere rilevanza in relazione alle conseguenze di un eventuale collasso, nonché le indicazioni per le verifiche tecniche da realizzare su edifici ed opere rientranti nelle predette tipologie, sono state individuate con il decreto 21 ottobre 2003 recante Disposizioni attuative dell'art. 2, commi 2, 3 e 4, dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20 marzo 2003, recante "Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica" (G.U. n. 252 del 29 ottobre 2003).

[450] Per la nota si veda il sito internet:

http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/classificazione/ordinanze_class.htm, ove si veda anche la precedente Nota esplicativa del 4 giugno 2003.

[451] Il testo è consultabile al sito internet:

http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/class_materiale/dcr_113-04mit.pdf

[452] Il decreto è consultabile al sito internet:

http://www.rete.toscana.it/sett/pta/sismica/class_materiale/dcr_123-04dpc.pdf  

[453] Si ricorda che il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici, è il massimo organo tecnico consultivo dello Stato in questo ambito materiale.

[454] Si possono consultare, in merito i recenti articoli di A. Galeotto, “Norme tecniche, monito UNI: più di 100 elementi di conflitto tra edurocodici e testo unico”, in Edilizia e territorio n. 41 del 24/29 ottobre 2005 e P.De Paola, “Con il testo unico costruzione mai più progetti realizzati senza il modello geologico”, in Edilizia e territorio n. 43 del 7/12 novembre 2005.

[455] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 agosto 2005, n. 168, Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione. Disposizioni in materia di organico del personale della carriera diplomatica, delega al Governo per l'attuazione della direttiva 2000/53/CE in materia di veicoli fuori uso e proroghe di termini per l'esercizio di deleghe legislative.

[456] L’allegato 2 riguarda le norme tecniche per il progetto, la valutazione e l’adeguamento sismico degli edifici, mentre l’allegato 3 reca le norme tecniche per il progetto sismico dei ponti.

[457] Che, all’epoca dell’esame parlamentare della legge obiettivo, era già stato approvato.

[458]Con delibera Cipe del 29 settembre 2004 (n. 21) sono stati destinati 1.107 milioni di euro del FAS al finanziamento di un insieme di progetti della legge obiettivo. A tale somma vanno sommati i 50 milioni di euro, destinati all’autostrada Messina-Palermo dalla delibera CIPE 68/2003.

[459] Nel Bilancio dello Stato per il 2006, le risorse stanziate insistono nell’U.P.B. 1.2.10.2 dello Stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dotata di una dotazione in termini di competenza di 776,1 milioni di euro.

[460] Per un’analisi approfondita degli importi indicati nella tabella si rinvia al 2° rapporto per la VIII Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici redatto dal Servizio studi dal titolo Le infrastrutture strategiche in italia: l’attuazione della “legge obiettivo del luglio 2005.

[461] LI = Limite di impegno; VA = Volume attivabile.

[462] Fonte: Delibera CIPE n. 121/2001.

[463]www.camera.it/_dati/leg14/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/057/005alle/INTERO.pdf.

[464] Il contratto di esecuzione “con qualsiasi mezzo" era già contemplato dalla direttiva n. 89/440/CEE ed è stato confermato successivamente dalla direttiva 93/37/CE (direttiva quadro sugli appalti pubblici di lavori) che ha individuato tre diverse tipologie di contratto di appalto: accanto all’appalto di sola esecuzione e all’appalto di progettazione ed esecuzione (cd. integrato), si pone l’appalto avente ad oggetto l’esecuzione con qualsiasi mezzo di un’opera rispondente alle esigenze specifiche dell’amministrazione aggiudicatrice. Questa terza tipologia di appalto è stata, invece, ignorata dalla legge Merloni, che prevede quale strumento ordinario l’appalto di sola esecuzione, cui viene affiancato, solo in alcune ipotesi determinate (ancorché ampliate a seguito delle modifiche apportate con l’art. 7, comma 1, lettera l), n. 1, della legge n. 166/2002 che ha disposto che le amministrazioni possano normalmente fare ricorso all'appalto integrato ed affidare quindi insieme la progettazione e l'esecuzione dell'opera, sia per i piccoli lavori di valore inferiore ai duecentomila euro, sia per i grandi lavori pari o al di sopra dei dieci milioni di euro), l’appalto integrato di progettazione ed esecuzione. La ragione di una tale esclusione discende dall’ispirazione generale di quella legge, e dal suo schema operativo volutamente finalizzato a tenere sempre distinti e separati i tre momenti della programmazione (di competenza dell'amministrazione), di progettazione (di competenza del progettista, ma possibilmente interno all’amministrazione stessa) e di realizzazione dell'opera (di competenza dell'impresa di costruzioni), ammettendo solo in rari casi "commistioni di ruoli".

[465] Pubblicato nella G.U. del 2 maggio 2006, n. 100, S.O.

[466] Caratteristiche queste, che rispecchiano le qualità proprie di tutte quelle imprese operative sul mercato, in forma di “società di engineering and contracting”.

[467] Si ricorda che tale disposizione deroga alla previsione dell’articolo 53 del codice appalti (che riscrive l’art. 19 della legge Merloni) che contempla, come modalità di realizzazione dei lavori pubblici, contratti di appalto o di concessione.

[468] Nell’art. 176 del codice appalti si fa rinvio al regolamento di attuazione di cui è prevista (dall’art. 253) l’emanazione entro un anno dall’entrata in vigore del decreto. Fino a tale data l’art. 253 citato prevede, per i requisiti di qualificazione, la vigenza delle norme recate dal DPR n. 34/2000.

[469] Anche i terzi subaffidatari possono subaffidare i lavori nei limiti ed alle condizioni previste per gli appaltatori di lavori pubblici. Si ricorda, al riguardo, che l’affidamento al contraente generale, nonché gli affidamenti e subaffidamenti di lavori del contraente generale, sono soggetti alle verifiche antimafia, con le modalità previste per i lavori pubblici (art. 176, comma 8).

[470] L’art. 176, comma 10, prevede che tale società può essere costituita in forma di società consortile, ovvero di una società per azioni o, ancora, di una società a responsabilità limitata, e che il capitale minimo sia in ogni caso indicato nel bando di gara. Viene inoltre previsto che alla società di progetto possano partecipare, oltre ai soggetti componenti il contraente generale, anche istituzioni finanziarie, assicurative e tecnico operative, che però dovranno essere preventivamente indicate in sede di gara.

[471] Il loro pagamento è infatti garantito dall’ente committente, anche se nei limiti di quanto da esso dovuto al general contractor in base agli stati di avanzamento emessi (durante l’esecuzione dei lavori) o al conto finale o al relativo certificato di collaudo (a lavori ultimati).

[472] F. Vigliano, Decreto 190-tris, sono cedibili i crediti delle Spa di progetto (compreso il prefinanziamento), in “Edilizia e territorio” n. 38/2005.

[473] Definizione aggiunta dal d.lgs. n. 189/2005 ed ora recata dall’art. 162, comma 1, lettera l), del codice appalti.

[474] G.U. n. 54 del 5 marzo 2004.

[475] In un primo momento, il decreto legislativo n. 190 del 2002, all’articolo 15, comma 3, lettera d), aveva rinviato ad un successivo regolamento “l'istituzione di un sistema di qualificazione dei contraenti generali, le modalità di scelta del contraente generale ed i connotati principali del relativo rapporto contrattuale, anche in deroga alle previsioni degli articoli da 8 a 13, 20, 21 e 23 della legge quadro ed assicurando il rispetto delle normative comunitarie applicabili la disciplina della qualificazione”. Ma la sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003 ha dichiarato illegittima tale autorizzazione all’emanazione di norme regolamentari in quanto non riferibile a materia di competenza esclusiva dello Stato e quindi contrastante con quanto disposto dal comma sesto dell’articolo 117 della Costituzione in materia di riparto della potestà regolamentare fra Stato e Regioni (art. 117, comma sesto della Costituzione).

Per questo motivo il Governo ha disposto l’emanazione di un decreto legislativo integrativo del precedente d.lgs. n. 190 del 2002.

[476] Il sistema di qualificazione degli appaltatori rapporta i requisiti massimi del costruttore ad opere di 40 miliardi di lire, mentre al contraente generale (art. 16, comma 3, del d.Igs. n. 190/2002) sono riferibili opere superiori a 250 milioni di euro, pari a quasi 500 miliardi di vecchie lire.

[477] L’art. 1, comma 2, alinea, della legge delega, nel definire l’oggetto stesso delle delega, adopera la seguente formulazione: “un quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati ai sensi del comma 1, a tal fine riformando le procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA) e l’autorizzazione integrata ambientale, limitatamente alle opere di cui al comma 1 e comunque nel rispetto del disposto dell’art. 2 della direttiva 85/337/CEE del Consiglio del 27 giugno 1985, come modificata dalla direttiva 97/11/CE del Consiglio del 3 marzo 1997 e introducendo un regime speciale […]”. Ulteriori richiami alla procedura di VIA sono poi rinvenibili – fra i criteri e principi direttivi della delega – alla lett. b) e c) (dello stesso comma 2).

[478] Per un approfondimento delle norme relative alla nuova Commissione si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di VIA, VAS e IPPC.

[479]  Ai sensi del successivo art. 4, lo stesso organo è titolare della approvazione del progetto definitivo, mentre l’approvazione del progetto esecutivo e delle varianti è rimessa al soggetto aggiudicatore (vedi: art. 9, comma 3, lettera b).

[480] Occorre sottolineare che, nell’esercizio della delega conferita dall’art. 25 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004) per il recepimento delle direttive quadro in materia di appalti (2004/17/CE e 2004/18/CE), il Governo, nel riscrivere l’intera legge Merloni (v. capitolo La riforma della “legge Merloni e scheda Il Codice dei contratti pubblici) ha provveduto, ai fini di un coordinamento delle norme esistenti per la creazione di un testo unico degli appalti, a trasporre nel cd. codice appalti approvato con il decreto legislativo n. 163 del 2006 (in particolare nella Parte II, Titolo III, Capo IV, comprendente gli articoli 161-194) anche la disciplina speciale prevista per le cd. opere strategiche dal d.lgs. n. 190/2002 (di cui è prevista l’abrogazione da parte dell’art. 256 del citato codice).

[481] In merito all’esclusione della Conferenza di servizi da tale fase dall’approvazione dei progetti preliminari, il TAR del Lazio, Sezione I, nella sentenza n. 5118 del 2004 (sulla quale ci si soffermerà più ampiamente in seguito), sottolinea che “in tema di infrastrutture strategiche, ai sensi del decreto legislativo n. 190 del 2002, la previsione dell’art. 3 di tale fonte, che esclude le conferenze di servizi dall’approvazione dei progetti preliminari delle opere soggette alla relativa disciplina speciale, essendo stata collocata ad apertura dello stesso comma, il 5, che si occupa principalmente della partecipazione al procedimento delle autonomie regionali e comunali, deve essere riferita anche ai segmenti procedurali che attendono a tale partecipazione”.

[482] Al riguardo si segnala che nella pronuncia del TAR del Lazio da ultimo citata si afferma che la previsione dell’art. 3, comma 5 secondo la quale “la pronuncia dei presidenti delle regioni per l’intesa sulla localizzazione debba essere resa nel termine necessario prescritto di novanta giorni anche ove i comuni interessati non siano tempestivamente espressi, pur permettendo di prescindere dall’acquisizione delle osservazioni invano richieste a tali enti è manifestamente inidonea a ledere le prerogative riconosciute nel nuovo assetto costituzionale agli enti locali, poiché a questi è comunque normativamente assicurata la possibilità di una partecipazione attiva al procedimento (laddove, per converso, se la disciplina positiva imponesse di attendere comune e senza limiti di tempo un’espressa presa di posizione da parte loro, sarebbe un simile assetto a presentare seri profili di incompatibilità con la Carta, per il fatto di sancire un’incongrua subordinazione degli interessi statali a quelli locali e di violare il canone del buon andamento)”.

[483] Per un approfondimento della disciplina transitoria si veda la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di VIA, VAS e IPPC.

[484] Si ricorda che il comma 3 dell’art. 8 della legge n. 349 del 1986 prevede che in caso di mancata attuazione o di inosservanza da parte delle regioni, delle province o dei comuni, delle disposizioni di legge relative alla tutela dell'ambiente e qualora possa derivarne un grave danno ecologico, il Ministro dell'ambiente, previa diffida ad adempiere entro congruo termine, adotta con ordinanza cautelare le necessarie misure provvisorie di salvaguardia, anche a carattere inibitorio di opere, di lavoro o di attività antropiche, dandone comunicazione preventiva alle amministrazioni competenti. Ai sensi del successivo comma 4, per la vigilanza, la prevenzione e la repressione delle violazioni compiute in danno dell'ambiente, il Ministro dell'ambiente si avvale del nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri, nonché del Corpo forestale dello Stato, degli appositi reparti della Guardia di finanza e delle forze di polizia. Il comma 3 del successivo art. 9 prevede l’ipotesi di poteri sostitutivi del Ministro dell’ambiente in caso di persistente inattività degli organi regionali nell'esercizio di funzioni delegate in materia ambientale.

[485] Il richiamo è ripreso anche nei punti 18, 21, 27.

[486] Può risultare di interesse confrontare tale passaggio della sentenza con alcune osservazioni (in senso del tutto convergente) presenti nel parere sullo schema di decreto delegato reso dall’VIII Commissione della Camera nella seduta del 17 luglio 2002.

[487] Nel merito, la Corte valuta tali procedure – nel testo sottoposto a scrutinio - adeguate e sufficientemente diversificate (punto 24).

[488] Resta ovviamente ferma la possibilità delle Regioni di impugnare il provvedimento laddove esse ravvisino una violazione del principio di lealtà, cioè un pretestuoso uso del potere statale di superamento del dissenso.

[489] Istituita, nell’ambito del CIPE, dall’art. 7 della legge 17 maggio 1999, n.144, con il compito di: promuovere, all’interno delle pubbliche amministrazioni, l’utilizzo di tecniche di finanziamento di infrastrutture con ricorso a capitali privati.

[490] Art. 19 della legge n. 109 del 1994.

[491] Dal 1929.

[492]  Questi elementi sono:

§          il prezzo per il riequilibrio economico finanziario previsto dall’art. 19, comma 2 nel caso in cui la gestione dell’opera sia sottoposta a prezzi amministrati (prezzo che comunque non può superare il 50% dell’importo totale dei lavori)

§          il valore tecnico ed estetico dell’opera progettata

§          il tempo di esecuzione dei lavori

§          il rendimento

§          la durata della concessione

§          le modalità di gestione, il livello e i criteri di aggiornamento delle tariffe da praticare all’utenza

§          ulteriori elementi da individuare in base al tipo di lavoro da realizzare

[493] Tuttavia, anche l’esperienza di altri Paesi ha visto un primo periodo di non pieno decollo, dovuto sia ai tempi di adeguamento e assestamento normativo, sia – soprattutto - agli adattamenti necessari sul piano del funzionamento del mercato finanziario.

[494] Il testo del comma 2 dell’articolo 19 della legge n. 109 del 1994 – come riformato dalla legge n. 166 del 2002 - ha esteso tale possibilità, introducendo la formula “qualora necessario”.

[495] Le società di progetto sono quei soggetti (società per azioni o srl) che possono essere costituiti, dopo l’aggiudicazione, dal soggetto aggiudicatario, per subentrare all’aggiudicatario nel rapporto di concessione.

[496]Sono "diritti speciali o esclusivi"  quelli “concessi da un'autorità competente di uno Stato membro mediante qualsiasi disposizione legislativa, regolamentare o amministrativa, avente l'effetto di riservare a uno o più enti l'esercizio di una attività di cui agli articoli da 3 a 7 e di incidere sostanzialmente sulla capacità di altri enti di esercitare tale attività” (art.2, par. 3).

[497]Le soglie di seguito riportate sono quelle risultanti dalle modifiche introdotte successivamente  alla approvazione della direttiva (vedi l’articolo 1 del regolamento CE n. 1874/2004 e successivamente l'articolo 1 del regolamento CE n. 2083/2005).

[498]L’art. 54, par. 3, prevede che “nel caso delle procedure ristrette o negoziate, i criteri possono fondarsi sulla necessità oggettiva, per l'ente aggiudicatore, di ridurre il numero dei candidati a un livello che corrisponda a un giusto equilibrio tra caratteristiche specifiche della procedura di appalto e i mezzi necessari alla sua realizzazione. Il numero dei candidati prescelti tiene conto tuttavia dell'esigenza di garantire un'adeguata concorrenza”.

[499]Partecipazione ad organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio dei proventi di attività illecite.

[500]Cfr. il punto 53 dei Considerando che prevede che “Nei casi appropriati, in cui l'applicazione di misure o sistemi di gestione ambientale durante l'esecuzione dell'appalto è giustificata dalla natura dei lavori e/o dei servizi, può essere richiesta l'applicazione di tali misure o sistemi”. Cfr. anche l’art. 52, par. 3, ove si dispone che “Per gli appalti di lavori e di servizi e solo in determinati casi, per accertare la capacità tecnica dell'operatore economico, gli enti aggiudicatori possono chiedere che l'operatore economico indichi i provvedimenti di gestione ambientale che egli sarà in grado di applicare in occasione della realizzazione dell'appalto”.

[501] Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni [COM(2004) 327 definitivo].

[502] Vedi, Comunicazione della Commissione dell' 11 novembre 2003 - Un'iniziativa europea per la crescita - Investire nelle reti e nella conoscenza per la crescita e l'occupazione - relazione finale al Consiglio europeo [COM(2003) 690 definitivo].

[503] Oggi, ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 109, tale limite è fissato nella somma di lire 1.250.000.000 annue.

[504] Lo stesso comma ha poi disposto che - in sede di prima applicazione - il totale dei contributi versati non dovrà, comunque, superare lo 0,25 per cento del valore complessivo del mercato di competenza.

[505]Il meccanismo del price cap prevede l’applicazione di una formula che consta di quattro variabili:

§          la variazione tariffaria ponderata;

§          il tasso di inflazione programmato

§          il tasso di produttività attesa per ogni singola impresa (fattore “x” della formula);

§          l’indicatore legato alla qualità del servizio.

[506] Fissato uguale  a zero per il quinquennio 1998-2002 in considerazione del piano di opere oneroso assegnato alla società Autostrade Spa.

[507]  Sui nuovi contenuti del IV atto aggiuntivo, cfr. l’audizione dall’amministratore dell’Anas Spa, dott. Pozzi, tenutasi presso la 8a Commissione del Senato in data 25 febbraio 2003 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla situazione infrastrutturale del Paese. L’ing. Pozzi si è in particolare soffermato sulla possibilità di legare la variabile “x” della formula del price cap all’effettiva realizzazione degli investimenti previsti nel piano finanziario; in tal modo le società potranno beneficiare dei suddetti incrementi solo in presenza di un effettivo avanzamento dei lavori programmati.

[508]  Si ricorda che nel verbale di accordo sono stabiliti i valori della variabili “x” della formula del price cap per ciascuno degli anni del quinquennio di riferimento. Alla variabile “x” di per sé negativa (recupero di produttività meno il differenziale di inflazione) devono essere sommate le due variabili positive dell’inflazione programmata e del parametro di qualità del servizio, definiti di anno in anno.

[509] Convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, della legge 27 febbraio 2004, n. 47.

[510] In particolare, al comma 1, si prevede la possibilità che l’intervallo temporale tra revisioni della formula tariffaria possa essere fissato in un periodo fino a dieci anni, in presenza di un nuovo piano di interventi aggiuntivi, comportante rilevanti investimenti.

[511] In presenza di un nuovo piano di interventi aggiuntivi, comportante rilevanti investimenti, la disposizione prevede che il concessionario comunichi al concedente entro il 15 novembre di ogni anno la componente investimenti del parametro X relativo a ciascuno dei nuovi interventi aggiuntivi, che va ad integrare le variazioni tariffarie comunicate dal concessionario entro il 30 settembre. Il concedente verifica nei quindici giorni successivi al ricevimento della predetta comunicazione la correttezza delle suddette integrazioni tariffarie.

[512]Ai soli fini di tale atto aggiuntivo, lo stesso subordina l'applicazione del primo incremento tariffario annuale relativo a ciascuno dei nuovi interventi aggiuntivi all'approvazione del relativo progetto ai sensi della vigente normativa; i successivi incrementi tariffari annuali devono essere applicati in funzione del progressivo stato di avanzamento dei lavori di realizzazione del singolo intervento.

[513] In particolare, si ricorda che nella seduta del 26 luglio 2005, i rappresentanti dell’ANAS hanno evidenziato che è allo studio un’ipotesi di modifica del price cap, consistente nell’introduzione di un ulteriore parametro legato ai tempi di percorrenza e all'attesa ai caselli, anche con delle penalizzazioni per le società concessionarie. Per un’analisi dell’applicazione dell’articolo 21 del decreto-legge n. 355 del 2003, cfr.: l’audizione del Presidente di Autostrade per l'Italia SpA nella seduta del 30 settembre 2004, il quale in particolare si è soffermato sul fatto che la formula dell’incremento tariffario contemplata in Italia presenta, dal punto di vista dei mercati finanziari, degli elementi di discrezionalità che invece mancano nelle formule tariffarie previste nel resto d’Europa; l’audizione del rappresentante dell'Associazione Italiana Società Concessionarie Autostrade e Trafori (AISCAT) nella seduta del 18 maggio 2004, il quale, anche in considerazione del fatto che nel corso degli ultimi dieci anni la tariffa media applicata sulla rete autostradale a pedaggio ha perduto più di sette punti percentuali rispetto all'inflazione maturata dall'ISTAT, ha affermato la necessità che la tariffa sia messa al riparo da tutte quelle situazioni che possono mettere a rischio l'equilibrio del piano finanziario; l’audizione di rappresentanti del Nucleo di attuazione e regolazione dei servizi di pubblica utilità (NARS) nella seduta dell’11 maggio 2004, nel corso della quale si sono evidenziati taluni profili problematici nell’applicazione della normativa in materia di adeguamento e revisione delle tariffe e si sono prospettate due soluzioni: la prima, dell'«irrobustimento istituzionale», consistente in un intervento sull’ANAS e sul CIPE, al fine di rafforzarne le funzioni di ente regolatori del settore; la seconda, la via legislativa, consistente in una modifica della normativa, al fine di disciplinare gli elementi mancanti della normativa tariffaria.

[514] L’introduzione della VAS nell’ordinamento è stata disposta solo recentemente, dapprima all’interno della legge delega n. 308/2004, e poi dal successivo decreto legislativo n. 152 del 2006 (si veda, in proposito, la scheda Il riordino del diritto ambientale – Novità in materia di VIA, VAS e IPPC

[515] www.regione.piemonte.it/to2006/vas/piano.htm

[516] Si deve ricordare, in proposito, che l’intervento normativo viene dà rilievo legislativo ad una situazione di fatto già sussistente. Infatti, per iniziativa della Regione Piemonte, era stato già istituito – a partire dal settembre 2002 - un Tavolo Istituzionale con funzioni di Comitato di Regia.

[517] Tali precisazioni sulle competenze del Comitato di Regia sono state chiarite nella circolare del Ministero degli affari esteri del 29 aprile 2003, Modalità applicative della legge 26 marzo 2003, n. 48 recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 9 ottobre 2000, n. 285, recante interventi per i Giochi olimpici invernali Torino 2006”, pubblicata nella G.U. n. 150 del 1 luglio 2003.

[518] Si ricorda che il TOROC è stato costituito a Torino il 27 dicembre 1999 dal Comitato olimpico  nazionale italiano (CONI) e dalla città di Torino  mediante l’approvazione dello statuto che ha istituito la fondazione di diritto privato senza fini di lucro, con lo scopo di curare l’organizzazione e lo svolgimento dei XX Giochi Olimpici Invernali del 2006 e dei Giochi paraolimpici, in attuazione e nel rispetto delle disposizioni contenute nella Carta Olimpica e nell’accordo (Host City Contract) firmato a Seul nel 1999 ove l’assemblea del CIO assegnò a Torino l’organizzazione dei XX Giochi olimpici invernali. L’attività del TOROC è documentata sul sito: http://www.torino2006.org/ITA/OlympicGames/dietro_quinte/toroc.html 

[519] Per una precisazione delle funzioni del TOROC in relazione agli altri organi, è intervenuta la citata circolare del 29 aprile 2003.

[520] L’attività dell’Agenzia è documentata sul sito: http://www.agenziatorino2006.it ove sono elencate tutte le opere olimpiche, il relativo costo, le gare di appalto, i soggetti aggiudicatori dei lavori e le date di apertura e chiusura dei cantieri.

[521] D'altra parte, in questo senso, è stata concepita la nuova formulazione dell'art. 3, comma 2, della legge n. 285 del 2000, secondo cui l'Agenzia, proprio ai fini dello svolgimento delle funzioni istituzionali di stazione appaltante, è assimilata alle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, agli enti pubblici, compresi quelli economici, agli enti ed alle amministrazioni locali, alle loro associazioni e consorzi nonché agli altri organismi di diritto pubblico, cioè ai soggetti a cui, ai sensi della normativa sui lavori pubblici, si applicano – senza esclusioni. L’assoggettamento dell’Agenzia alla disciplina dei lavori pubblici non contrasta con la natura privatistica dell'attività strumentale dell'Agenzia stessa, e cioè dell'attività necessaria al funzionamento della stessa, nell'ambito della quale è evidentemente compresa la gestione del personale (Circolare del 29 aprile 2003 del Ministro degli affari esteri)

[522] Naturalmente, resta ferma la possibilità che il DPCM appena citato individui – per specifiche opere connesse – la stessa Agenzia quale soggetto competente alla realizzazione e stazione appaltante.

[523]  La valutazione di connessione è stata dichiarata dopo che con il DPGR Piemonte n. 51 del 26 giugno 2002 sono state individuate 116 opere da considerarsi connesse ai giochi olimpici, distinte in 77 prioritarie e 39 inseribili. I criteri per la definizione di un’opera connessa sono stati stabiliti dalla regione Piemonte con delibera di Giunta del 25 giugno 2002. Con DPGR Piemonte 12 novembre 2002, n. 96, è stata raggiunta l’intesa in merito all’elenco delle opere da dichiarare "connesse", dopo aver acquisito il parere del TOROC, reso in data 11 novembre 2002.

[524] http://www.regione.piemonte.it/to2006/opere/dwd/dpcm_18_12_02.pdf

[525] http://www.regione.piemonte.it/to2006/opere/dwd/dpcm_06_06_03.pdf

[526]http://www.regione.piemonte.it/to2006/opere/dwd/dpcm_15_09_03.pdf.

[527]  Il DPCM 15 settembre 2003 ha reso disponibili una parte dei fondi previsti per le opere connesse nella Finanziaria 2003, in quanto, sono stati considerati temporalmente prioritari gli interventi sul Sistema fognario, acquedotti e collettori. La deliberazione di indirizzo del Comitato di Regia del 24 novembre 2003, n. 6, ha individuato le opere connesse temporalmente differibili ed attivabili esclusivamente a seguito di sopravvenute disponibilità finanziarie http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2003/53/siste/00000030.htm

Successivamente, con DPCM 16 gennaio 2004 è stato recepito l'elenco delle opere temporalmente differibili e contestualmente sono stati assegnati i corrispettivi fondi alle opere del Sistema fognario-acquedotti e collettori. http://www.regione.piemonte.it/to2006/opere/dwd/dpcm_16_01_04.pdf.

[528] http://www.regione.piemonte.it/to2006/opere/dwd/dpcm_09_04_04.pdf

[529] Per informazioni relative allo stato di avanzamento procedurale dei progetti relativi alle opere connesse, si veda il sito internet http://www.regione.piemonte.it/to2006/servizi/stato2.htm

[530] Si ricorda che la disciplina sulle espropriazioni per pubblica utilità è stata riformata ed unificata dal TU “misto” (contenente cioè – in un unico testo - norme di rango legislativo e regolamentare) di cui al DPR 8 giugno 2001, n. 327, successivamente modificato ed integrato daidecreti legislativi 27 dicembre 2002, n. 302 e 27 dicembre 2004, n. 330.

[531] Si ricorda che con le modifiche introdotte al comma 2 dell’art. 30 della legge n. 109 dall’art. 4, comma 146 della legge n. 350 del 2003, la prestazione obbligatoria da parte dell’esecutore dei lavori di una garanzia fideiussoria del 10% dell'importo degli stessi, aumentata – secondo precise modalità - in caso di aggiudicazione con ribasso d’asta superiore al 10%. Nei commi successivi introdotti dalla stessa legge n. 350 è altresì previsto lo svincolo di tale garanzia in modo progressivo “a misura dell’avanzamento dell’esecuzione, nel limite massimo del 75% dell’iniziale importo garantito”.

[532] Il totale delle risorse attivabili è calcolato in modo approssimativo sulla base dei tassi correnti.

[533] Nella legge n. 285 compare l’importo in lire, pari esattamente a 110 miliardi.

[534] Nella legge finanziaria per il 2001 viene indicato l’importo in lire, pari esattamente a 34 miliardi.

[535] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 luglio 2004, n. 186.

[536]Come già previsto dall’art. 134, comma 9, del D.P.R. n. 554 del 1999.

[537] L’art. 25 della legge n. 109 del 1994 elenca tassativamente  le tipologie delle varianti in corso d'opera che la stazione appaltante può introdurre rispetto alle indicazioni progettuali originarie. Pertanto, nessuna altra tipologia di variante è ammissibile, se non inquadrabile in una delle fattispecie previste dal citato art. 25, vale a dire:

§          per esigenze derivanti da sopravvenute disposizioni normative;

§          per cause impreviste e imprevedibili accertate nei modi stabiliti dal Regolamento (D.P.R. 554 del 1999) oppure per l’intervenuta possibilità di utilizzare materiali, componenti e tecnologie non esistenti al momento della progettazione che possono determinare, senza aumento di costo, significativi miglioramenti nella qualità dell’opera o di sue parti (cosiddette varianti migliorative) e sempre che non alterino l’impostazione progettuale;

§          per la presenza di eventi inerenti la natura e specificità dei beni sui quali si interviene verificatisi in corso d'opera, o di rinvenimenti imprevisti o non prevedibili nella fase progettuale;

§          nei casi previsti dall’art. 1664, secondo comma, del codice civile, cosiddetta sorpresa geologica;

§          per il manifestarsi di errori o di omissioni nel progetto esecutivo (elencati tassativamente nel successivo comma 5-bis)che pregiudicano, in tutto o in parte, la realizzazione dell'opera ovvero al sua utilizzazione.

[538]  Profili interpretativi in materia di varianti – art. 25 della legge quadro e art. 134 del regolamento di attuazione.

[539]  Regolamento recante il capitolato generale d'appalto dei lavori pubblici, ai sensi dell'art. 3, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni (G.U. n. 131 del 7 giugno 2000).

[540] La norma introdotta per le varianti alle opere sui giochi olimpici stabilisce, invece, come si è detto sopra, il termine di trenta giorni decorsi i quali tali pareri e autorizzazioni si intendono resi a meno che non pervenga un motivato dissenso (silenzio-assenso).

[541] Precisazione del relatore nella seduta in sede referente n. 411 del 30 giugno 2004 presso la Ia Commissione del Senato.

[542] Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte n. 6 del 6 febbraio 2003.

[543] http://www.regione.piemonte.it/opereacc/dwd/indiriz_progr.pdf

[544] www.regione.piemonte.it/opereacc/programma.htm

[545] http://www.regione.piemonte.it/opereacc/dwd/cabinaregia.pdf

[546] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 dealla legge 17 agosto 2005, n. 168.

[547] Bollettino Ufficiale n. 21 del 22 maggio 2003.

[548] Con il citato Protocollo d’intesa è stato definito il relativo Piano degli interventi costituito da n. 29 interventi proposti dai soggetti firmatari dello stesso per un totale di investimento di euro 50,1 milioni di euro, di cui 32 milioni a carico della Regione Piemonte che utilizza le risorse rese disponibili allo scopo dall’art. 21 della legge n. 166 del 2002 e 2,5 milioni di euro a carico della Provincia di Cuneo.

[549] Bollettino Ufficiale n. 17 del 29 aprile 2004.

[550] L’elenco degli interventi previsti per Limone Piemonte, con i relativi stanziamenti, è contenuto in allegato all’accordo di programma al sito internet: http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2004/17/attach/dec29.pdf

[551] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1della legge 31 marzo 2005, n. 43.

[552] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1della legge 14 maggio 2005, n. 80.

[553] Si ricorda che la società per azioni Sviluppo Italia, interamente posseduta dal Ministero dell’economia e delle finanze, è stata istituita il 26 gennaio 1999, ai sensi del decreto legislativo n. 1 del 1999 , come integrato dal decreto legislativo n. 3 del 2000, con il compito di svolgere funzioni di coordinamento, riordino, indirizzo e controllo delle attività di promozione dello sviluppo industriale e dell'occupazione nelle aree depresse del Paese, nonché di attrazione degli investimenti. In Sviluppo Italia sono state riordinate ed accorpate, attraverso fusione per incorporazione, le attività e le strutture delle società SPI, ITAINVEST, IG – Società per l’imprenditoria giovanile, INSUD, RIBS e FINAGRA.

[554] Il coordinamento di tutte le attività relative alla protezione civile è affidato al Dipartimento della protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

[555] Ai sensi della legge n. 225 del 1992, tali poteri sono elencati e definiti all’art. 5: deliberazione dello stato di emergenza, emanazione di ordinanze, predisposizione di piani di emergenza.

[556]Articoli successivamente abrogati dal decreto legge n. 343 del 2001.

[557]Dalla relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto legge, AS 624.

[558] Per il testo della direttiva si veda il sito internet:

http://www.protezionecivile.it/cms/attach/editor/centroFunzionale/direttiva_idro.pdf

[559]Che ha abrogato il DM 18 maggio 1998, n. 429.

[560] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 27 gennaio 2006, n. 21, Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile.

[561]Che ha abrogato il DPCM 22 ottobre 1992.

[562] Si veda anche la recente Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 6 aprile 2006 recante Coordinamento delle iniziative e delle misure finalizzate a disciplinare gli interventi di soccorso e di assistenza alle popolazioni in occasione di incidenti stradali, ferroviari, aerei ed in mare, di esplosioni e crolli di strutture e di incidenti con presenza di sostanze pericolose, in G.U. 13 aprile 206, n. 87

[563]Ove vengono definite le competenze del Prefetto.

[564] Per il testo della circolare si veda il link internet: http://www.interno.it/stampa.php?sezione=18&id=21 oppure si può consultare la G.U. n. 236 dell’8 ottobre2002, ove è stata pubblicata. 

[565] Si tratta in particolare dell'indirizzo, promozione e coordinamento delle attività di tutte le amministrazioni (nazionali, locali, pubbliche e private) in materia di protezione civile e delle funzioni operative riguardanti:

§          gli indirizzi per la predisposizione e l'attuazione dei programmi di previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio;

§          la predisposizione, d'intesa con le regioni e gli enti locali interessati, dei piani di emergenza in caso di eventi calamitosi di cui all'art. 2, comma 1, lett. c), della legge 225 del 1992;

§          il soccorso tecnico urgente, la prevenzione e lo spegnimento degli incendi e lo spegnimento con mezzi aerei degli incendi boschivi;

§          lo svolgimento di periodiche esercitazioni relative ai piani nazionali di emergenza.

[566]Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2004, presentata alle Camere il 24 giugno 2005 (doc. XIV, n. 5).

[567]Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 22 ottobre 2004, Indirizzi in materia di protezione civile in relazione all’attivita’ contrattuale riguardante gli appalti pubblici di lavori, di servizi e di forniture di rilievo comunitario, pubblicata nella G.U. 21 dicembre 2004, n. 298.

[568] Il Fondo può anche venire finanziato con interventi straordinari. Tra questi, si ricorda il decreto legge 31 maggio 2005, n. 90 del 2005 (art. 7, co. 2-ter), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 26 luglio 2005, n. 152.

[569] Indirizzi operativi per prevenire e fronteggiare eventuali situazioni di emergenza connesse a fenomeni idrogeologici ed idraulici, G.U. del 19 ottobre 2005, n. 244.

[570] Finanziamento di interventi urgenti da realizzare in attuazione degli indirizzi operativi per prevenire e fronteggiare eventuali situazioni di emergenza connesse a fenomeni idrogeologici ed idraulici, di cui alla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2005, G.U. del 6 aprile 2006, n. 81.

[571] Il comma 3 dell’art. 1 prevede che il 60% dei limiti di impegno previsti vada alle calamità verificatesi nel secondo semestre del 2002, a seguito dell’eruzione dell’Etna, del sisma nelle province di Campobasso e Foggia, e delle alluvioni del mese di novembre 202 che hanno colpito vaste zone del Centro e Nord Italia. La restante parte di finanziamenti, fino al 40%, è destinata a precedenti calamità naturali per le quali lo stato di emergenza non sia ancora cessato, tra le quali gli eventi alluvionali verificatesi in tutta Italia alla fine del 2002 e nel Centro e Nord Italia all’inizio del 2003.

[572] La norma prevede i seguenti vincoli di destinazione: 5% San Giuliano di Puglia sisma 2002, 5%, Marche e Umbria sisma 1997, 5% Brescia sisma 2004, 2% Sardegna calamità 2004, 4 milioni di euro annui avversità atmosferiche Friuli 2004, 5 milioni di euro annui Basilicata/Campania sisma 1980-82.

[573] Dei quali: 25 milioni di euro sisma Molise 2002, 4 milioni di  euro Marche e Umbria sisma 1997, 2 milioni di euro Brescia sisma 2004, 2 milioni di euro Puglia (Foggia-Subappenino Dauno) 1980-81 e 1 milione di euro fiume Po.

[574] Con il termine di “edilizia residenziale pubblica” (e.r.p.) si intende quel complesso di attività dirette alla provvista di alloggi per i soggetti a basso reddito. Il termine e.r.p. è comprensivo degli interventi di edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata. Le leggi che hanno autorizzato la vendita di un certo numero di alloggi di e.r.p. - definendo anche quali soggetti potessero accedere all’acquisto, quali criteri adottare per scegliere gli alloggi da porre in vendita e con quali criteri determinare il prezzo di vendita - sono principalmente le seguenti: la legge 8 agosto 1977, n. 513 (Provvedimenti urgenti per l'accelerazione dei programmi in corso, finanziamento di un programma straordinario e canone minimo dell'edilizia residenziale pubblica) e la legge 24 dicembre 1993, n. 560 (Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica). La legge 513 del 1977 costituisce una delle prime leggi che hanno consentito agli assegnatari di acquistare l’alloggio. Essa ha avviato il finanziamento di un programma straordinario di intervento nel settore dell'e.r.p., fissando le condizioni generali sia per l’edilizia residenziale "agevolata" (dove per "agevolazioni" si devono intendere i contributi a parziale copertura del conto interesse dei mutui bancari), sia per l’edilizia "sovvenzionata" (dove per "sovvenzioni" si intende la copertura dei costi in conto capitale per la realizzazione dell’opera). La legge n. 560 del 1993 ha successivamente consentito agli enti proprietari di alloggi di e.r.p. di porre in vendita parte dei patrimonio immobiliare amministrato. La disciplina introdotta con tale legge, come modificata dalla legge 30 aprile 1999, n. 136, ha definito i requisiti richiesti agli acquirenti, i criteri per la determinazione del prezzo di vendita, la destinazione delle risorse così acquisite, fissando altresì una percentuale massima, pari al settantacinque per cento, del patrimonio alienabile nel territorio di ciascuna provincia.

[575] Pubblicati nella G.U. del 17 luglio 2002 n. 162, S.O. n. 142.

[576] DM 29 dicembre 2003, Ammissione ai finanziamenti di cui all'art. 2 del decreto ministeriale 27 dicembre 2001 dei Piani operativi regionali, trasmessi dalle regioni, nell'ambito del programma sperimentale denominato «20.000 abitazioni in affitto» (G.U: 27 maggio 2004, n. 123); DM 29 dicembre 2003, Approvazione dell'elenco finale delle proposte considerate ammissibili dalla Commissione per la valutazione e selezione delle proposte, relative al Programma sperimentale denominato «Alloggi in affitto per gli anziani degli anni 2000» di cui al decreto ministeriale 27 dicembre 2001, (G.U: 27 maggio 2004, n. 123) e DM 15 settembre 2004, Termine di scadenza per l'approvazione dei provvedimenti regionali di rimodulazione dei Piani operativi, relativi al programma sperimentale denominato «20.000 abitazioni in affitto», (G.U. 29 settembre 2004, n. 123.

[577] Durante la XIV legislature sono state, altresì, apportate alcune modifiche alla disciplina del Fondo nazionale, per le quali si veda la scheda Modifiche alla normativa sulle locazioni.

[578] Per l’individuazione dei comuni ad alta tensione abitativa si veda la scheda Proroga degli sfratti.

[579] Si ricorda che, nella seduta del 22 gennaio 2003 della VIII Commissione (Ambiente), la proposta di legge AC 3004 è stata abbinata ad altre due proposte di legge, AC 3143 (Lupi) e AC 3628 (Foti), vertenti su materia analoga e per le quali si è costituito un comitato ristretto.

[580] Come si legge nella relazione illustrativa alla pdl AC 3004, i soggetti destinatari delle risorse del Fondo sono “quei soggetti il cui reddito, essendo superiore ai limiti stabiliti dalle regioni, non consente loro di accedere agli alloggi di proprietà pubblica (IACP o enti ad essi assimilati e comunque denominati) ovvero di permanervi nel godimento e nello stesso tempo di prendere in locazione un alloggio di proprietà privata”.

[581] Istituito dall’art. 59, comma 44, della legge27 dicembre 1997, n. 449.

[582] Età non superiore a 35 anni, reddito complessivo annuo, ai fini IRPEF, inferiore a 40.000 euro, possesso di un contratto di lavoro a tempo determinato o prestazione di lavoro subordinato in base a una delle forme contrattuali previste dal decreto legislativo n. 276 del 2003.

[583] Tale termine è stato introdotto dalla legge di conversione 23 febbraio 2006, n. 51, con la quale è stato convertito il decreto legge n. .273 del 2005, recante Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti.

[584] Attraverso tale interpretazione autentica, si è previsto che che, per la determinazione delle condizioni di vendita, incluse la fissazione del prezzo e le modalità di pagamento, debba farsi riferimento alla normativa in vigore alla data di presentazione della domanda di acquisto dell'alloggio e non più alle condizioni di maggior favore previste. In tal modo viene superata la precedente interpretazione autentica disposta dall’art. 5, comma 2, del D.L. n. 542 del 1996, attraverso cui si prevedeva che l’alienazione degli alloggi avvenisse secondo le condizioni di miglior favore previste dall’art. 26 del D.P:R. 17 gennaio 1959, n. 2 (come sostituito dall'art. 14 della legge n. 231 del 1962), cioè ad un prezzo di cessione pari al 50% del costo di costruzione di ogni singolo alloggio alla data di ultimazione della costruzione stessa ovvero di assegnazione dell'alloggio, se anteriore.

[585] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 26 luglio 2005, n. 148, Misure urgenti di sostegno nelle aree metropolitane per i conduttori di immobili in condizioni di particolare disagio abitativo conseguente a provvedimenti esecutivi di rilascio. Per il contenuto delle disposizioni recate dal decreto legge si veda la scheda Proroga degli sfratti.

[586] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 341, Misure dirette ad accelerare il completamento degli interventi pubblici e la realizzazione dei nuovi interventi nelle aree depresse.

[587] Per le ulteriori disposizioni in materia di calamità naturali si veda l’apposito capitolo Gli interventi per le calamità naturali.

[588] A condizione che resti invariato il gettito totale dell'imposta comunale e previo contestuale incremento delle aliquote da applicare alle aree edificabili, anche in deroga al limite massimo previsto dalla legislazione vigente e con esclusione dei casi in cui il proprietario delle aree edificabili si impegna all'inalienabilità delle stesse nei termini e con le modalità stabiliti con regolamento comunale.

[589] La legge n. 431 esclude dal proprio ambito di applicazione alcune tipologie di locazione, tra cui quelle riguardanti usi commerciali, per le quali si applica la legge n. 392 del 1978.

[590] Anche in relazione a tale tipologia contrattuale sono presenti tuttavia taluni vincoli, il primo dei quali è rappresentato dalla durata minima del contratto, fissata in quattro anni, decorsi i quali i contratti sono rinnovati per un periodo di ulteriori quattro anni, senza possibilità per il locatore di non rinnovare, se non nelle ipotesi ammesse dalla legge e tassativamente elencate al successivo art. 3.

[591] È previsto un meccanismo di “garanzia” del sistema, che prevede che in caso in cui non siano convocate le organizzazioni sindacali o non vengano stipulati gli accordi locali, sia un apposito decreto a stabilire le condizioni per la stipula dei contratti del secondo canale. Si ricorda, inoltre, che la legge n. 431 ha previsto misure fiscali, sia per il locatore che per il conduttore, che tendono a favorire il ricorso al “secondo canale”.

[592] In tale sede i rappresentanti delle organizzazioni nazionali della proprietà edilizia e dei conduttori definiscono non solo i criteri generali per la determinazione dei canoni, ma anche i tipi di contratto (per le locazioni convenzionate di cui all’art. 2, comma 3, per i contratti di locazione di natura transitoria e per i contratti di locazione per gli studenti universitari) in cui vengono fissati tutti gli elementi del contratto che non richiedono specifiche previsioni derivanti da particolari condizioni locali. Agli accordi locali rimane solo la definizione dei canoni, della durata dei contratti  e di eventuali altri elementi legati a specificità locali. Nel caso in cui non vengano definiti nell’ambito della convenzione nazionale, i tipi di contratto saranno definiti nel decreto relativo ai criteri generali per la stipula degli accordi in sede locale.

[593] In applicazione di tale disposizione sono stati emanati i due DM 5 marzo 1999 e il D.M. 30 dicembre 2002.

[594] Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 269, Misure per favorire l'accesso alla locazione da parte di conduttori in condizioni di disagio abitativo conseguente a provvedimenti esecutivi di rilascio, nonché integrazioni alla legge 9 dicembre 1998, n. 431.

[595] Si ricorda che il comma 2-bis  riproduce esattamente il contenuto dell’art. 1 della proposta di legge AC 4159 Foti, successivamente confluito in un testo unificato insieme ad altre proposte di legge (AC 1411 Susini, AC 2423 Riccio, AC 3607 Pagliarini e AC 3811 Sandri) elaborato dal Comitato ristretto nella seduta della VIII Commissione (Ambiente) il 25 febbraio 2004.

[596] Con il DM lavori pubblici del 7 giugno 1999 sono stati definiti i requisiti minimi dei conduttori al fine di poter beneficiare dei contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione e i criteri per la determinazione dei contributi stessi in relazione al reddito familiare e all'incidenza sul reddito, come previsto dall’art. 11, comma 4. Tali requisiti minimi consistono in:

§          reddito annuo imponibile complessivo non superiore a due pensioni minime INPS, rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 14%;

§          reddito annuo imponibile complessivo non superiore a quello determinato dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 24%.

[597] Pubblicato nella G. U. del 2 dicembre 2005, n. 281.

[598] Pubblicato nella G. U. del 3 febbraio 2006, n. 28.

[599] Convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 30 luglio 2004, n. 191, Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica.

[600] Oggetto della norma sono tutti i contratti di locazione, sia quelli ad uso abitativo, sia quelli ad uso commerciale, disciplinati sia dalle norme generali contenute nel codice civile (artt. 1571-1614), sia da apposite leggi speciali.

[601] Legge 9 dicembre 1998, n. 431, Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo.

[602] Pubblicata in G.U. 30 marzo 2001, n. 75 (S.O.).

[603] Per la quantificazione del reddito si applica il decreto del Ministro dei lavori pubblici 7 giugno 1999 che richiede la "sussistenza" - in relazione al nucleo familiare del locatario – di un reddito annuo imponibile complessivo non superiore a quello determinato dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Pertanto, tali requisiti economici consistono nel possesso di un reddito annuo imponibile non superiore a due pensioni minime Inps e rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione sia maggiore del 14%. Per le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, il limite fissato è pari a quello per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, posto che l'incidenza del canone sia maggiore del 24% del reddito.

[604]Pubblicata in G.U. 17 marzo 2005, n. 63.

[605] All'aggiornamento dell'elenco dei comuni ad alta tensione abitativa provvede, ai sensi dell’art. 8, comma 4, della legge n. 431 del 1998, il CIPE con propria delibera, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, di intesa con i Ministri dell'interno e della giustizia. Si ricorda che il CIPE ha provveduto ad aggiornare gli elenchi con una serie di delibere: 14 febbraio 2002, n. 4, modificata dalla delibera 29 settembre 2002, n. 84, e, da ultimo, con delibera 13 novembre 2003, n. 87 (G.U. 18 febbraio 2004, n. 40). Per l’elenco dei comuni si veda anche il sito internet: http://www.confedilizia.it/ELENCO%20COMUNI%20ALTA%20TENSIONE%20ABITATIVA.htmQuanto ai problemi applicativi posti dall’aggiornamento degli elenchi dei comuni ad alta tensione abitativa, si ricorda che, per i differimenti ex art. 6 della legge n. 431, il termine temporale di riferimento, ai fini della presenza del comune all’interno degli elenchi è quello della richiesta al giudice, indipendentemente dal fatto che si tratti di comune già ricompreso nel previgente elenco o meno. Per i comuni – poi – espunti dall'elenco, si deve ritenere che possa essere presentata al giudice dell'esecuzione istanza di revoca dei differimenti eventualmente già concessi. Quanto alla sospensione delle esecuzioni disposta dall’art. 80, comma 22, della legge finanziaria per il 2001, la stessa è applicabile alle sole esecuzioni già in corso prima dell’1 gennaio 2001 (data di riferimento del primo blocco, poi – semplicemente – sempre prorogato) e già allora sospese. Il “blocco”, quindi, continuerebbe in tutto e per tutto per gli sfratti in località che erano (e sono) ricomprese in Comuni ad alta tensione abitativa. L’ingresso di un nuovo comune nell’elenco non sembrerebbe esercitare alcun effetto, mentre si potrebbe ritenere che debbano riprendere le esecuzioni già bloccate nei comuni che dall'elenco sono stati espunti.

[606] Secondo la relazione tecnica, questa ipotesi si sarebbe verificata solo nei comuni di Roma e Napoli.

[607] Pubblicato in G.U. n. 227 del 29 settembre 2005.

[608] Si veda la nota n. 3.

[609] La CEDU è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955. Sono stati adottati quattordici protocolli addizionali, attraverso i quali è stato ampliato il catalogo dei diritti e delle libertà tutelati, è stato riconosciuto anche agli individui, oltre che agli Stati, il diritto di adire la Corte ed è stato semplificato il complessivo sistema di decisione dei ricorsi per violazione dei diritti e delle libertà.

[610] Secondo altra impostazione invece alle norme internazionali pattizie deve essere attribuita una forza peculiare in virtù del principio pacta sunt servanda di cui al primo comma dell'art. 10 della Costituzione. Con specifico riferimento alla questione della “costituzionalizzazione" della CEDU, non sembra potersi affermare un orientamento univoco della giurisprudenza costituzionale. Si richiama ,da un lato, la sentenza n. 10 del 1993 che riconosce la provenienza delle norme della CEDU da fonte atipica e attribuisce ad esse peculiare resistenza di fronte alla legge ordinaria successiva, dall'altro, di avviso diverso, la sentenza n. 388 del 1999.

[611] Cass. Sez. 11, sent. n. 2823 del 20 maggio 1991.

[612]L’art. 1, Prot. 1, così recita: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

[613] L’articolo 6 CEDU così recita:

“1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia.

2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

3. In particolare, ogni accusato ha diritto a :

a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico;

b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

c) difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all'udienza”.

[614] Si ricordano, tra le altre, le cause Gianturco contro Italia – ricorsi nn. 40672/98, 40680/98, 40681/98 e 40884/98 (Sentenza del 22 gennaio 2004); la causa Carnasciali contro Italia – ricorso n. 66754/01 (sentenza 29 gennaio 2004); la causa Rossi e Naldini contro Italia – ricorso n. 31011/96 (sentenza 11 marzo 2004); la causa Quintarelli contro Italia – ricorso n. 67873/01 (sentenza 11 marzo 2004); le cause Quattrini contro Italia – ricorso n. 68189/01, Cecere P. contro Italia – ricorso n. 68344/01; Cecere E. contro Italia – ricorso n. 70585/01 (sentenza 24 novembre 2005); Comellini e Otello de Luca contro Italia - ricorso n. 17644/03 (sentenza 9 febbraio 2006)

[615] Si ricordano, tra le altre: la causa Sorrentino Prota contro Italia – ricorso n. 40465/98 (sentenza 29 gennaio 2004); la causa Bellini contro Italia – ricorso n. 64258/01 (sentenza 29 gennaio 2004); la causa Fossi e Mignolli contro Italia – ricorso n. 48171/01 (sentenza 4 marzo 2004). Nelle cause Mascolo contro Italia – ricorso n. 68792/01 (sentenza 16 dicembre 2004), Lo Tufo contro Italia – ricorso n. 64663/01 (sentenza 21 aprile 2005); Stornelli e Sacchi contro Italia – ricorso n. 68706/01 (sentenza 28 luglio 2005), Federici contro Italia n. 2 – ricorso n. 66327/01 e 66556/01; Frateschi contro Italia– ricorso n. 68008/01; Cuccaro Granatelli contro Italia– ricorso n. 19830/03 (sentenze 8 dicembre 2005); Mazzei contro Italia – ricorso 69502/01 (sentenza del 6 aprile 2006), la Corte ha condannato l’Italia al risarcimento dei soli danni non pecuniari, ritenendo che, nei casi in esame, l’ordinamento nazionale consentisse di recuperare il danno materiale connesso alla restituzione tardiva dell’immobile.