Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Commissione affari costituzionali - Politiche legislative e attività istituzionale nella XIV legislatura - Parte seconda
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 2    Progressivo: 1
Data: 19/05/2006
Descrittori:
COMMISSIONI E GIUNTE PARLAMENTARI     


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 
SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

Commissione AFFARI COSTITUZIONALI

Politiche legislative e attività istituzionale

nella XIV legislatura

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 2/1
Parte seconda

Maggio 2006

 

 

 


Il “dossier di inizio legislatura” si propone di fornire un quadro sintetico delle principali politiche e degli interventi normativi che hanno interessato nella XIV legislatura nei settori di competenza delle Commissioni permanenti.

Il dossier si compone di due volumi:

§         parte prima (Note di sintesi; Politiche legislative e attività istituzionale; Questioni all’esame dell’Unione europea);

§         parte seconda (Schede di approfondimento).

Alla redazione del dossier hanno partecipato il Servizio Commissioni e l’Ufficio Rapporti con l’Unione europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIPARTIMENTO istituzioni

SIWEB

 

I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

File: AC0001a.doc

 


INDICE

 

Schede di approfondimento

affari costituzionali e ordinamento della repubblica

Ordinamento della Repubblica –  Il testo approvato dalle Camere  5

§      L’iter parlamentare  5

§      La riforma del bicameralismo  6

§      Il procedimento legislativo  8

§      Il Primo Ministro e il rapporto Governo-Parlamento  11

§      Gli strumenti di garanzia  14

§      Il Presidente della Repubblica  15

§      Le Regioni e le autonomie locali16

§      La Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura  20

§      La disciplina transitoria  20

Leggi costituzionali– Casa Savoia (XIII disp. trans. fin.)25

§      La legge costituzionale n. 1 del 2002  25

§      La XIII disposizione e la sua interpretazione  25

§      I lavori parlamentari nella XIV legislatura e nelle legislature precedenti27

Iniziative costituzionali– Tutela dell’ambiente (art. 9)29

Sistema elettorale – La legge n. 270 del 2005  31

§      Le “insufficienze” del c.d. Mattarellum e i tentativi di “correzione”31

§      Il nuovo sistema di elezione della Camera dei deputati34

§      Il nuovo sistema di elezione del Senato della Repubblica  39

Iniziative costituzionali– Pena di morte (art. 27)41

Sistema elettorale – La questione dei seggi vacanti43

§      Una legislatura senza plenum   43

§      La nuova disciplina per la copertura dei seggi vacanti45

Sistema elettorale – La revisione dei collegi uninominali47

Sistema elettorale – La legge n. 270 del 2005  51

§      I tentativi di “correzione” della legge elettorale (c.d. “Mattarellum”)51

§      Il nuovo sistema di elezione della Camera dei deputati54

§      Il nuovo sistema di elezione del Senato della Repubblica  59

Elezioni – Voto degli italiani all’estero  61

§      Elettorato attivo  62

§      Elettorato passivo e presentazione delle candidature  66

§      Distribuzione dei seggi tra le ripartizioni69

§      Espressione del voto  69

§      Attribuzione dei seggi70

§      Vacanza dei seggi71

§      Campagna elettorale  71

§      Limiti alle spese elettorali73

§      Intese per garantire l’esercizio del diritto di voto  73

§      Agevolazioni di viaggio  74

§      La partecipazione ai referendum   75

Elezioni – Campagna elettorale e finanziamenti77

§      Par condicio” ed emittenza locale  77

§      Rimborsi per spese elettorali e finanziamento dei partiti81

Titolo V e norme di attuazione  87

§      Profili generali del nuovo Titolo V  87

§      L’attuazione nella legislazione ordinaria (legge “La Loggia”): aspetti generali90

§      Vincoli alla potestà legislativa regionale e alla potestà normativa degli enti locali91

§      Partecipazione in materia comunitaria e attività internazionale delle Regioni101

§      Norme per l’esercizio di funzioni amministrative  104

§      I poteri sostitutivi107

§      I ricorsi alla Corte costituzionale  113

§      Il Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie  114

§      Applicazione della riforma alle Regioni a statuto speciale  115

§      Attuazione nelle procedure parlamentari117

Titolo V e giurisprudenza costituzionale  119

§      Premessa  119

§      Le “materie trasversali”120

§      Principio di sussidiarietà  125

§      La “concorrenza di competenze”127

§      Autonomia finanziaria delle regioni129

§      Potestà legislativa concorrente e princìpi fondamentali131

Immunità – La legge attuativa dell’art. 68 Cost.135

§      L’articolo 68 della Costituzione e la riforma del 1993  135

§      L’attività legislativa tra il 1993 e il 2001  136

§      La legge n. 140 del 2003  136

Immunità – Le alte cariche dello Stato  141

§      L’articolo 1 della legge n. 140 del 2003  141

§      La sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004  142

Immunità – Corte costituzionale e insindacabilità  145

§      Gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale anteriori alla legge n. 140 del 2003  145

§      La legge n. 140 del 2003 e la giurisprudenza della Corte  147

Conflitti di interessi – La legge n. 215 del 2004  151

§      L’attività parlamentare nelle precedenti legislature  151

§      L’iter della legge  151

§      Il contenuto della legge  152

Grazia e amnistia – La concessione della grazia  161

Diritti e libertà fondamentali

Immigrazione – Le politiche di programmazione  167

§      La programmazione dei flussi migratori167

§      Il documento programmatico  168

§      Il decreto flussi173

Immigrazione – Permesso di soggiorno  179

§      L’ingresso nel territorio dello Stato  179

§      Il soggiorno dello straniero  181

§      La carta di soggiorno  184

§      La disciplina del lavoro  184

Immigrazione – Contrasto dell’immigrazione clandestina  187

§      Il respingimento e il controllo delle frontiere  187

§      L’espulsione:profili generali194

§      L’espulsione amministrativa  195

§      L’espulsione disposta dal giudice  208

§      La revoca del permesso di soggiorno per la violazione delle norme sul diritto d’autore  210

§      L’attuazione della normativa comunitaria in materia di espulsione  211

§      Gli accordi di riammissione e la “politica estera” dell’immigrazione  213

Immigrazione – Le politiche di integrazione  215

§      Il diritto all’unità familiare  216

§      Il diritto alla salute  219

§      Il diritto all’istruzione  219

§      Il diritto all’abitazione e all’assistenza sociale  221

§      L’integrazione sociale degli stranieri222

§      Lotta alla discriminazione razziale  224

Immigrazione – La regolarizzazione  231

§      Le modalità  231

§      I risultati232

§      I costi233

Immigrazione – Diritto d’asilo e status di rifugiato  235

§      La Convenzione di Ginevra  236

§      La Convenzione di Dublino  237

§      La “legge Martelli” e la “legge Bossi-Fini”238

§      L’assistenza ai rifugiati242

§      Le misure di protezione temporanea  244

§      Le proposte di riforma  245

Immigrazione – Il diritto di voto degli stranieri247

§      Le proposte di legge costituzionale  247

§      I princìpi costituzionali in materia di libertà fondamentali degli stranieri250

§      Diritti politici e diritto di voto  252

§      Il diritto di voto dei cittadini dell’Unione europea  254

§      Le autonomie locali e il diritto di voto degli stranieri255

Immigrazione – L’accesso alla cittadinanza  257

§      Il riacquisto della cittadinanza italiana  257

§      L’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati259

§      La modifica dell’art. 48 Cost.262

Pari opportunità – La modifica dell’art. 51 Cost.263

Pari opportunità – Altri provvedimenti e iniziative  267

§      Accesso delle donne alle cariche elettive  267

§      Il progetto di Codice delle pari opportunità  269

§      Le pari opportunità nella pubblica amministrazione  271

§      La riforma della Commissione per le pari opportunità  272

Non discriminazione – Il decreto legislativo n. 215 del 2003  275

§      Il quadro normativo  275

§      Il decreto legislativo n. 215 del 2003  278

Libertà religiosa – Il progetto di riforma  283

§      Il contenuto del progetto di riforma  285

§      Libertà di coscienza e di religione (capo I)286

§      Confessioni e associazioni religiose (capo II)289

§      Stipulazione di intese (capo III)293

§      Disposizioni finali e transitorie (capo IV)296

Libertà religiosa – La stipulazione delle intese  297

§      I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica  297

§      I rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche  298

Pubblica Amministrazione; semplificazione normativa e amministrativa

Dirigenza – Il riordino della dirigenza statale  313

§      La “legge Frattini”313

§      Ulteriori provvedimenti329

Dirigenza – Riforma della Scuola superiore della P.A.333

Dirigenza – La carriera dirigenziale penitenziaria  337

§      La legge n. 154 del 2005  337

§      Il decreto legislativo n. 63 del 2006  341

Azione amministrativa – Le modifiche alla legge n. 241 del 1990  351

§      Princìpi generali351

§      La partecipazione al procedimento amministrativo  353

§      La conferenza di servizi354

§      La dichiarazione di inizio attività e il silenzio-assenso  356

§      Efficacia e invalidità del provvedimento  357

§      L’accesso ai documenti amministrativi359

§      Le competenze delle Regioni e degli enti locali362

Amministrazione digitale – La “Società dell’informazione”  365

§      Le strutture di governo in materia di tecnologie dell’informazione e della comunicazione  365

§      Le politiche per lo sviluppo della Società dell’informazione  368

§      Documenti391

Amministrazione digitale – Il Codice  393

§      I rilievi del Consiglio di Stato  395

§      Princìpi generali: diritti dei cittadini e delle imprese  396

§      Organizzazione delle pubbliche amministrazioni e rapporti fra Stato, Regioni e autonomie locali399

§      Documento informatico e firme elettroniche; pagamenti, libri e scritture  400

§      Formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici403

§      Trasmissione informatica dei documenti405

§      Dati delle pubbliche amministrazioni e servizi in rete  406

§      Sviluppo, acquisizione e riuso di sistemi informatici nelle pubbliche amministrazioni409

§      Regole tecniche  410

§      Le modifiche e integrazioni al Codice  410

Semplificazione – Il processo di codificazione  413

§      La modifica dell’articolo 20 della legge n. 59 del 1997  413

§      Il disegno di legge per la semplificazione e il riassetto normativo  414

§      Gli strumenti della semplificazione: decreti legislativi e regolamenti416

§      I princìpi e i criteri direttivi generali per l’adozione dei decreti legislativi416

§      La procedura di adozione dei decreti legislativi e dei regolamenti422

§      I princìpi e criteri per l’adozione dei regolamenti423

§      Altre disposizioni424

Semplificazione – AIR e VIR   427

§      La fase sperimentale dell’AIR   427

§      Le competenze del Dipartimento affari giuridici e legislativi429

§      La disciplina introdotta dalla legge di semplificazione 2005  431

Semplificazione – La “norma taglialeggi”  433

§      L’abrogazione generalizzata di norme legislative  433

§      Prima fase: ricognizione della legislazione vigente  433

§      Seconda fase: individuazione delle disposizioni legislative indispensabili anteriori al 1970 e semplificazione o riassetto delle relative materie  434

§      La Commissione bicamerale  436

§      Terza fase: abrogazione generalizzata della legislazione anteriore al 1970; interventi integrativi e correttivi437

Servizi pubblici locali – Le norme del Testo unico enti locali439

§      Ambito di applicazione  439

§      La proprietà e la gestione delle reti441

§      L’erogazione dei servizi442

§      Altre disposizione in materia di servizi pubblici locali448

§      La gestione dei servizi privi di rilevanza industriale  450

Ordine pubblico e sicurezza; forze di polizia; protezione civile

Forze di polizia – Personale direttivo e dirigente  453

Forze di polizia – Altri provvedimenti459

Antiterrorismo – Il decreto-legge n. 144 del 2005  465

Servizi di informazione – Il progetto di riforma  471

§      Le iniziative di riforma nella XIII legislatura  471

§      L’attività parlamentare nella XIV legislatura  472

§      Il contenuto del disegno di legge di riforma  473

Vittime del terrorismo – Il quadro normativo  479

Vittime del terrorismo – I provvedimenti della XIV legislatura  485

§      La legge n. 206 del 2004  485

§      Le vittime della strage di Kindu  486

§      Gli altri interventi normativi della XIV legislatura  487

Iniziative sulla sicurezza sussidiaria  491

§      Premessa  491

§      Disposizioni generali e regime autorizzatorio  491

§      Istituti di vigilanza e di sicurezza e guardie giurate  497

§      Servizi di trasporto di valori e di scorta a valori499

§      Servizi di custodia e altri servizi500

§      Attività di investigazione e ricerca  501

§      Attività di recupero dei crediti502

§      Disposizioni finali e transitorie  502

Vigili del fuoco – Il rapporto d’impiego  505

§      La delega per la riforma del rapporto d’impiego del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco  505

§      Il nuovo ordinamento del personale del Corpo dei vigili del fuoco  507

 

 

 


Schede di approfondimento


affari costituzionali e ordinamento della repubblica

 


Ordinamento della Repubblica –
Il testo approvato dalle Camere

L’iter parlamentare

Nell’autunno del 2005 le Camere hanno approvato, dopo un iter durato circa due anni, una legge di revisione costituzionale volta a modificare o sostituire la maggior parte degli articoli della Parte II della Costituzione, che disciplina l’ordinamento della Repubblica.

Ripercorrendo brevemente l’iter che ha portato all’approvazione del testo di riforma, si ricorda che il 17 ottobre 2003 il Governo ha presentato al Senato della Repubblica un disegno di legge di revisione costituzionale[1], che fin dall’origine si proponeva di modificare nel suo complesso la Parte II della Costituzione.

Sia il Senato (A.S. 2544) sia, successivamente, la Camera dei deputati (A.C. 4862) hanno apportato numerosi emendamenti al progetto, approvandolo quindi nel medesimo testo in prima deliberazione, rispettivamente, il 25 marzo 2004 (con il nuovo titolo Modifiche alla Parte II della Costituzione) ed il 15 ottobre 2004.

Come prevede l’articolo 138 della Costituzione per i progetti di legge costituzionale, il testo è stato quindi sottoposto all’esame di entrambe le Camere per una seconda deliberazione[2]. La Camera dei deputati ha approvato il testo nella seduta del 20 ottobre 2005, ed il Senato della Repubblica nella seduta del 16 novembre 2005. In entrambe le Camere il testo è stato approvato con la maggioranza assoluta dei componenti, e non con la maggioranza dei due terzi[3], condizione quest’ultima che avrebbe escluso, alla stregua del vigente art. 138, la possibilità di sottoporre il testo a referendum popolare.

Lalegge costituzionale è stata dunque pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005, ma non è ancora entrata in vigore, in quanto è stata chiesta la sua sottoposizione a referendum popolare, ai sensi del citato art. 138 Cost..

 

Tale articolo dispone che, nel caso in cui nella seconda votazione la legge non sia approvata da entrambi i rami del Parlamento a maggioranza dei due terzi dei componenti, il testo può essere sottoposto a referendum popolare se ne fanno richiesta un quinto dei membri di una Camera, o 500.000 elettori, o cinque consigli regionali. Nel caso di specie, la richiesta è stata presentata da tutti i soggetti legittimati, e la data per lo svolgimento del referendum è stata individuata nel 25-26 giugno 2006 con l’emanazione del D.P.R. 28 aprile 2006 (pubblicato in G.U. n. 100 del 2 maggio 2006).

 

Nella formulazione finale risultante dall’esame parlamentare, la legge risulta composta da 57 articoli (a fronte dei 35 dell’originario progetto governativo), che sostituiscono o modificano 50 degli 80 articoli che compongono la Parte II della Costituzione, vi inseriscono 3 nuovi articoli e novellano altresì 4 articoli appartenenti ad altre leggi costituzionali.

Di seguito si offre un quadro dei principali elementi di novità, in rapporto alla Costituzione vigente, introdotti dal testo che sarà sottoposto al voto referendario.

La riforma del bicameralismo

Tra le principali linee direttrici del testo di riforma costituzionale figura in primo luogo la riforma del bicameralismo la quale, abbandonando il sistema del c.d. bicameralismo “perfetto”, introduce significative differenze tra le due Camere con riguardo a composizione e funzioni.

Quanto alla composizione, si prevede il ridimensionamento del numero dei parlamentari: i senatori passano da 315 a 252 e i deputati da 630 a 500; a questi si aggiungono i 18 deputati eletti all’estero[4] e i deputati di diritto e a vita, che prendono il posto degli attuali senatori di diritto e a vita (si tratta degli ex Presidenti della Repubblica nonché dei deputati di nomina presidenziale, il cui numero complessivo è limitato a tre, in luogo degli attuali cinque senatori).

L’età minima per il conseguimento dell’elettorato passivo alla Camera si abbassa da 25 a 21 anni.

Trasformazioni ancor più profonde interessano il Senato che, mutando la sua denominazione in “Senato federale della Repubblica”, evidenzia l’opzione federalista del progetto di riforma, che pure non attribuisce direttamente alla Repubblica la qualifica di “federale”[5]: in tale organo si intende principalmente realizzare il raccordo tra le potestà normative delle autonomie e quelle dello Stato.

I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto “su base regionale”. La connessione tra il sistema politico delle Regioni e quello nazionale è data da vari fattori, e in primo luogo dalla piena corrispondenza tra la durata in carica di ciascun consiglio regionale e quella dei senatori eletti nella medesima Regione: le rispettive elezioni sono contestuali, il che equivale a dire che il Senato non ha più una durata predefinita ma è soggetto a rinnovi parziali, più o meno ampi, in occasione del rinnovo dei singoli consigli regionali (o, nella Regione Trentino Alto-Adige, dei consigli delle province autonome di Trento e di Bolzano)[6].

Il sistema elettorale, rimesso alla legge dello Stato, dovrà “garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori”. Quanto all’elettorato passivo, in ciascuna Regione sono eleggibili a senatore gli elettori che hanno compiuto i 25 anni di età (in luogo dei 40 anni oggi richiesti) e che:

§         hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali o locali, all’interno della Regione, o

§         sono stati eletti deputati o senatori nella Regione, oppure

§         risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni.

Partecipano ai lavori del Senato federale, ma senza diritto di voto, rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali, in numero di due per ogni Regione o provincia autonoma: un delegato eletto dal Consiglio regionale e un sindaco o presidente di provincia o di città metropolitana eletto dal Consiglio delle autonomie locali.

Il Senato federale è, per altro verso, integrato dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle province autonome in occasione dell’elezione di quattro giudici della Corte costituzionale.

I rapporti tra Senato federale ed autonomie territoriali sono definiti da un apposito nuovo articolo (il 127-ter), inserito nel Titolo V della Costituzione e dedicato al coordinamento interistituzionale da parte del Senato[7], ed emergono in varie altre disposizioni. In particolare, si ricorda che:

§         il quorum di validità per le deliberazioni del Senato federale è modificato rispetto all’attuale, in quanto occorre che siano presenti i senatori espressi da almeno un terzo delle Regioni (art. 64, terzo comma)

§         i Consigli regionali, sentiti i Consigli delle autonomie locali, possono esprimere parere sui disegni di legge che fissano i princìpi fondamentali nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni (art. 64, sesto comma).

§         il Senato federale esprime parere sullo scioglimento autoritativo del Consiglio regionale e sulla rimozione del Presidente della Giunta regionale; scompare contestualmente dalla Costituzione il riferimento alla Commissione parlamentare per le questioni regionali (v. art. 126, primo comma e 72, sesto comma Cost.);

§         le proposte di legge di iniziativa regionale, con priorità per quelle presentate da più Regioni in coordinamento tra loro, sono poste all’ordine del giorno della Camera competente entro termini fissati dai regolamenti (v. art. 72, settimo comma Cost.).

Con riferimento ad entrambe le Camere, è confermato il divieto di mandato imperativo; l’art. 67 Cost. è tuttavia modificato precisandosi che ogni deputato o senatore “rappresenta la Nazione e la Repubblica”.

È altresì confermato il potere di ciascuna Camera di giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti, ma si prevede che le relative deliberazioni siano adottate, entro termini prestabiliti, a maggioranza dei componenti.

L’indennità parlamentare non è cumulabile, nei casi previsti dalla legge, con emolumenti relativi ad altre cariche pubbliche.

Il procedimento legislativo

La riforma del bicameralismo ed il superamento dell’attuale “bicameralismo perfetto” – in virtù del quale ciascun progetto di legge deve essere approvato, in eguale testo, da entrambi i rami del Parlamento – si esprime anche (oltre a quanto segnalato nel paragrafo precedente) in rilevanti modifiche del procedimento legislativo.

Essenzialmente, viene introdotto un criterio generale in base al quale il procedimento legislativo è, di norma e in prevalenza, “monocamerale”. Secondo tale criterio:

§         alla Camera dei deputati compete esaminare i progetti di legge nelle materie (espressamente elencate nella Costituzione) riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato secondo il nuovo assetto del riparto di competenze Stato-regioni (l’art. 70 Cost. rinvia all’art. 117 Cost., secondo comma);

§         al Senato federale spetta invece l’esame dei progetti di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie (anche queste indicate dalla Costituzione) attribuite alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni (l’art. 70 Cost. rinvia in tal caso all’art. 117 Cost., terzo comma).

Per entrambi i rami del Parlamento permane comunque la possibilità di  proporre modifiche al progetto di legge (“richiamandolo” a sé): più specificamente, è prevista la facoltà, per la Camera non competente, di chiedere, entro trenta giorni dalla approvazione del testo, di proporre modifiche; sulle modifiche proposte dalla seconda Camera decide, comunque, in via definitiva, il ramo del Parlamento competente in via primaria[8].

Le disposizioni appena illustrate fanno salvo quanto previsto dall’art. 70, terzo comma, in ordine al procedimento bicamerale che permane – ma in forma diversa rispetto a quanto previsto dalla Costituzione vigente – in relazione ad alcune materie ed ipotesi tassativamente indicate. Tale procedimento bicamerale si applica all’esame dei disegni di legge concernenti:

§         la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

§         la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane;

§         l’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali;

§         l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato nei confronti di Regioni ed enti locali;

§         il sistema elettorale di Camera e Senato;

§         una serie di casi, partitamente elencati, in cui la Costituzione fa espresso rinvio alla legge dello Stato o della Repubblica[9] (ciò al fine di evitare, verosimilmente, che della norma si possa dare un’ interpretazione diversa rispetto a quella letterale);

§         altre materie previste in vari punti del nuovo testo costituzionale (che richiamano espressamente l’art. 70, terzo comma): determinazione dei casi di ineleggibilità ed incompatibilità con il mandato parlamentare (art. 65, terzo comma); indennità spettante ai membri delle Camere (art. 69); istituzione di Commissioni di inchiesta (art. 82, secondo comma); disciplina delle Autorità indipendenti (art. 98-bis); istituzione della Conferenza Stato-Regioni per realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi e intese, nonché sostegno alle forme associative tra Comuni piccoli o montani (art. 118, ultimo comma); promozione del coordinamento tra il Senato federale della Repubblica e i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (art. 127-ter, primo comma).

Una rilevante novità, rispetto all’attuale procedimento bicamerale, è data dal fatto che, in caso di disaccordo tra le due Camere su eventuali modifiche del progetto di legge, ai Presidenti delle Camere è rimessa la scelta se affidare ad una commissione mista paritetica, composta da 30 deputati e 30 senatori (scelti secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere), l’elaborazione di un “testo unificato”, che sarà sottoposto ad entrambe le Camere solo per l’approvazione finale. Tale procedimento è finalizzato ad evitare il meccanismo della “navette” tra le due Camere.

Va al riguardo segnalato che la procedura di approvazione da parte di Commissioni in sede legislativa risulta limitata alle sole leggi “bicamerali”.

Il superamento del bicameralismo perfetto, nel senso qui descritto, comporta la possibilità che sorgano conflitti di competenza tra le due Camere – concernenti l’interpretazione da dare in ordine alla materia (o alle materie) oggetto del disegno di legge – la cui soluzione è rimessa ai rispettivi Presidenti, i quali, d’intesa fra loro, possono deferire la decisione ad un Comitato composto da quattro deputati e da quattro senatori.

La decisione adottata “non è sindacabile in alcuna sede”. Sembra potersi desumere da tale formulazione l’intendimento di derogare alla competenza generale attribuita alla Corte costituzionale in ordine alla legittimità costituzionale delle leggi, sotto questo particolare profilo di error in procedendo (non è invece precisato se il Capo dello Stato possa sollevare tale profilo in sede di rinvio alle Camere della legge ex art. 74 Cost.).

Al medesimo fine di ridurre incertezze e contenzioso, il testo precisa che “un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi”. I criteri per l’applicazione di tale principio sono rimessi a un’intesa tra i Presidenti delle Camere, su proposta del Comitato e sulla base dei rispettivi regolamenti.

 

Ne potrebbero derivare incisivi poteri presidenziali in ordine allo stralcio o all’ammissibilità di disegni di legge ed emendamenti; in ogni caso, sembra che le iniziative legislative di più ampia portata debbano giocoforza articolarsi in più disegni di legge, da esaminare “in parallelo”, secondo procedure differenziate. Tale prassi, volta a rispettare il nuovo testo costituzionale (ove definitivamente approvato), potrebbe d’altro canto – nel caso di interventi legislativi complessi e organici – “spezzarne” le interne correlazioni[10].

 

In tale quadro generale, occorre evidenziare che per il Senato federale, benché estraneo al rapporto di fiducia (che – in base alla riforma – si instaura solo con la Camera – v. oltre), il permanere di costanti e incisivi rapporti con il Governo, dei quali si ha espressa menzione in più parti del nuovo testo, appare un dato fisiologico: ciò in particolare in considerazione del complesso delle funzioni attribuite a tale ramo del Parlamento e, in primo luogo, dell’ampio spazio ad esso assegnato nell’esercizio della funzione legislativa, che comporta in re ipsa la partecipazione al circuito dell’indirizzo politico.

Pare volta ad assecondare tale dinamica l’introduzione nel procedimento legislativo, nelle materie di competenza del Senato, della previsione secondo la quale il Governo può dichiarare che talune modifiche, proposte dalla Camera su sua iniziativa, sono essenziali per l’attuazione del suo programma o per la tutela delle istanze unitarie della Repubblica. La dichiarazione è sottoposta ad autorizzazione da parte del Capo dello Stato: qualora, entro 30 giorni, il Senato non accolga le modifiche proposte, il disegno di legge è trasferito alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta. La disposizione appare volta ad assicurare la coerenza con l’indirizzo politico delle scelte legislative del Senato federale nelle materie di sua competenza “monocamerale”.

Occorre infine segnalare che resta fermo il procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.. L’unica modifica apportata a tale articolo  dal testo di riforma costituzionale, la soppressione del terzo comma, rende sempre possibile il ricorso al referendum popolare, anche nell’ipotesi in cui la legge costituzionale sia approvata in seconda deliberazione, da parte di ciascuna Camera, a maggioranza di due terzi dei componenti[11].

Per quanto riguarda più strettamente il procedimento di approvazione della legge costituzionale all’interno delle Camere, considerata la formulazione del primo comma (“le leggi […] sono approvate da ciascuna Camera […]”), che resta invariata, e l’assenza di qualunque richiamo dell’art. 138 tra le ipotesi cui è prevista l’applicazione del nuovo procedimento bicamerale di cui all’art. 70, terzo comma (v. supra), potrebbe configurarsi un’ipotesi interpretativa secondo la quale per tali leggi sopravviva il procedimento bicamerale “perfetto”, proprio dell’ordinamento attualmente vigente.

Il Primo Ministro e il rapporto Governo-Parlamento

Vari aspetti qualificanti della legge di riforma appaiono rispondere all’intento di un sostanziale rafforzamento del potere esecutivo o, più specificamente, del Presidente del Consiglio dei ministri, figura che muta significativamente la sua denominazione in quella di “Primo ministro”.

Il Primo ministro “determina” (non più “dirige”, come nel testo vigente dell’art. 95 Cost.) la politica generale del Governo e “garantisce” (non più “mantiene”) l’unità di indirizzo politico e amministrativo: a tal fine l’attività dei ministri è dal Primo ministro diretta, e non soltanto promossa e coordinata. Ancor più rilevante in tal senso è il potere di nomina e di revoca dei ministri, che lo stesso articolo attribuisce al solo Primo ministro.

Viene meno, dunque, il ruolo riconosciuto al Presidente della Repubblica nella determinazione della compagine ministeriale e, prima ancora, nella scelta del capo dell’esecutivo: il meccanismo di nomina del Primo ministro, come delineato dal nuovo art. 92 Cost., si traduce infatti, nella sostanza, in una designazione del premier da parte dell’elettorato. Non si tratta però di una vera e propria elezione diretta in quanto la candidatura alla carica ha luogo mediante collegamento con i candidati (o con liste di candidati) all’elezione della Camera dei deputati.

In altre parole, il voto per l’elezione della Camera si tradurrà in una dichiarazione di preferenza per il candidato premier formalmente e previamente collegato al candidato o alla lista prescelta. Non è espressamente richiesta (ma neppure è esclusa) la pubblicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato Primo ministro.

La legge elettorale dovrà comunque disciplinare l’elezione dei deputati “in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”.

L’atto di nomina del Primo ministro resta affidato al Presidente della Repubblica, ma la scelta presidenziale non presenta margini di discrezionalità: essa ha luogo infatti “sulla base dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati”.

Quanto ai rapporti con il Parlamento, il rapporto di fiducia non viene meno ma interessa, nel nuovo testo costituzionale, la sola Camera dei deputati. Il peculiare ruolo attribuito al Senato federale lo lascia fuori, infatti, dal circuito fiduciario.

Il nuovo testo dell’art. 94 Cost. prevede dunque non più che il Governo, entro dieci giorni dalla sua formazione, si presenti alle Camere per ottenerne la fiducia, ma che il Primo ministro illustri il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere. Lo stesso articolo prevede che la Camera dei deputati si esprima sul programma con un voto, ma non precisa gli effetti di tale votazione.

Il Primo ministro presenta ogni anno un rapporto sull’attuazione del programma e sullo stato del Paese.

 

Una sostanziale innovazione rispetto all’attuale forma di governo consiste nell’attribuzione al Primo ministro del potere di scioglimento della Camera. Pur se il Presidente della Repubblica mantiene la formale titolarità dell’atto di scioglimento, questo è infatti adottato “su richiesta del Primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità”.

Si procede analogamente allo scioglimento della Camera in caso di morte o impedimento permanente del Primo ministro, ovvero in caso di sue dimissioni.

Il Capo dello Stato non emana, tuttavia, il decreto di scioglimento se, entro venti giorni dalla richiesta, sopravviene alla Camera una mozione che dichiari la volontà di continuare nell’attuazione del programma e indichi il nome di un nuovo Primo ministro. La mozione dev’essere sottoscritta e approvata, per appello nominale, da deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, e in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti la Camera.

Qualora tuttavia le dimissioni del Primo ministro conseguano all’approvazione di una mozione di sfiducia, ad esse consegue necessariamente lo scioglimento della Camera dei deputati.

Il rigido collegamento tra Primo ministro e maggioranza espressa dalle elezioni emerge anche dalla disposizione che obbliga il Primo ministro alle dimissioni non solo nel caso in cui la mozione di sfiducia sia approvata, ma anche quando la sua reiezione si debba al voto determinante di deputati non appartenenti a tale maggioranza.

Alla medesima ratio risponde la disciplina della “sfiducia costruttiva”: la Camera ha infatti la possibilità di sostituire il Primo ministro ricorrendo a una apposita mozione, che può essere tuttavia presentata e approvata solo “da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera”.

Nelle ipotesi esposte il meccanismo permette dunque alla Camera di determinare la sostituzione del Primo ministro, ma non consente il formarsi di una maggioranza diversa da quella espressa dalle elezioni.

Quanto alla posizione del Governo in Parlamento, si ricorda che:

§         il Primo ministro può porre la questione di fiducia alla Camera nei casi previsti dal suo regolamento (e con esclusione delle leggi costituzionali), chiedendole di esprimersi, con priorità su ogni altra proposta, conformemente alla proposta del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro si dimette. Si tenga presente che la questione di fiducia non è attualmente  regolata né dalla Costituzione vigente, né da altre norme di rango costituzionale[12];

§         il Governo può inoltre chiedere ad entrambe le Camere l’esame, entro tempi certi, dei disegni di legge da esso presentati o fatti propri; decorso il termine può chiedere, limitatamente alla Camera dei deputati, il “voto bloccato” (sugli articoli e finale) nel testo da esso proposto o fatto proprio.

Il Senato federale è estraneo a tali meccanismi (compreso quello dello scioglimento anticipato), in quanto tra il Governo e tale Camera non si instaura il rapporto di fiducia; tuttavia, come si è già accennato, permane in capo al Senato un ampio spazio per l’esercizio della funzione legislativa (rispetto al quale si è tentato di introdurre qualche “correttivo”, in specie per questioni ritenute essenziali per il programma di governo: v. supra).

Gli strumenti di garanzia

Ancora in relazione al rapporto Governo-Parlamento, occorre ricordare che varie disposizioni della riforma costituzionale intervengono, sotto diversi profili, sugli strumenti di garanzia istituzionale, con particolare riguardo alla tutela delle opposizioni in Parlamento.

Esse introducono in Costituzione, tra l’altro, una maggioranza qualificata per l’elezione dei Presidenti di Camera e Senato[13] e per l’adozione del regolamento della Camera dei deputati[14], nonché alcune disposizioni che intendono delineare una forma di “statuto dell’opposizione”.

Nel nuovo art. 64 Cost. è innanzitutto sancito il principio per cui nel suo complesso il regolamento della Camera deve garantire sia le prerogative ed i poteri del Governo e della maggioranza, sia i diritti delle opposizioni (per quanto attiene al Senato, si prevede che il regolamento garantisca i diritti delle minoranze). A tale principio generale si riconnettono disposizioni più specifiche, contenute anche in articoli diversi del testo di riforma costituzionale, tra le quali si ricordano in particolare:

§         la riserva, alla Camera, a favore dei gruppi di opposizione, della presidenza delle Commissioni, giunte e organismi interni ai quali sono attribuiti compiti ispettivi, di controllo o di garanzia, e delle Commissioni d’inchiesta monocamerali (della sola Camera – v. sempre art. 64) ;

§         la previsione di casi (la cui individuazione è rimessa ai regolamenti parlamentari) nei quali il Governo deve essere necessariamente rappresentato dal Primo ministro o dal ministro competente nelle sedute delle Camere (v. sempre art. 64);

§         l’inserimento nei regolamenti parlamentari (v. art. 72, quinto comma) delle modalità di iscrizione all’ordine del giorno di proposte e iniziative indicate dalle opposizioni (o dalle minoranze), con determinazione dei tempi d’esame; tale previsione fa da contraltare a quella – più stringente – della garanzia di esame, entro tempi certi e con previsione del voto finale stabilita dalla medesima disposizione a favore del Governo (v. supra)[15].

 

Nel quadro degli elementi che concorrono a definire un sistema di garanzie, in specie in rapporto ai poteri del Governo, si segnala l’introduzione in Costituzione, ad opera del nuovo articolo 98-bis, dell’istituto delle Autorità indipendenti, la cui istituzione, con funzioni di garanzia o vigilanza su diritti di libertà o in materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (ex art. 117, secondo comma), è rimessa a leggi approvate con procedimento bicamerale. L’articolo 98-bis non individua direttamente una disciplina generale delle Autorità indipendenti, rimettendo la definizione della durata del mandato, dei requisiti di eleggibilità e delle condizioni di indipendenza alla legge bicamerale che ne potrà prevedere l’istituzione.

Per quanto concerne il profilo della nomina dei presidenti delle Autorità, una disposizione di carattere generale – introdotta nel nuovo art. 87 – stabilisce che questa spetta al Capo dello Stato, sentiti i Presidenti delle due Camere.

Il Presidente della Repubblica

Completando il quadro delle innovazioni che riguardano il Presidente della Repubblica, ad alcune delle quali si è già accennato trattando della forma di governo, si segnala che la riforma modifica sia la composizione dell’organo chiamato ad eleggere il Capo dello Stato, sia il quorum richiesto per la sua elezione (art. 83 Cost.). In particolare:

§         in luogo del Parlamento in seduta comune, integrato da tre delegati per ciascuna Regione, è istituito un nuovo organo, denominato “Assemblea della Repubblica”, presieduto dal Presidente della Camera e composto da

-          i membri delle due Camere;

-          due delegati eletti da ciascun consiglio regionale (per le province autonome, ciascun consiglio provinciale elegge un delegato, mentre la Valle d’Aosta ha un solo delegato);

-          i Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle province autonome;

-          un numero ulteriore di delegati eletti dalle Regioni in ragione di uno per ogni milione di abitanti (l’elezione di tutti i delegati deve avvenire in modo che sia comunque assicurata la rappresentanza delle minoranze);

§         il quorumper l’elezione è modificato, prevedendosi

-          nei primi tre scrutini, la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea della Repubblica;

-          nel quarto e nel quinto scrutinio, la maggioranza dei tre quinti dei componenti;

-          dopo il quinto scrutinio, la maggioranza assoluta (oggi si prevede la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea nei primi tre scrutini e, dal quarto, la maggioranza assoluta).

Infine, l’età minima per essere eletti si abbassa da cinquanta a quaranta anni.

Il nuovo art. 87 Cost. precisa che il Presidente della Repubblica rappresenta la Nazioneed è garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica.

Nell’individuare i poteri presidenziali, è confermato per alcuni aspetti il testo vigente; assume tuttavia particolare importanza l’esclusione del potere di nominare i ministri, mentre, come si è detto, la nomina del Primo ministro è espressamente condizionata al risultato elettorale, ed è sostanzialmente trasferito al Primo ministro il potere di scioglimento della Camera. Si segnala altresì il venir meno del potere di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi.

Tra i nuovi poteri figurano, oltre alla già citata nomina (sentiti i Presidenti delle due Camere) dei presidenti delle Autorità amministrative indipendenti, quella del presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

 

Nel corso dell’iter parlamentare sono state valutate varie ipotesi di modifica dell’istituto della controfirma ministeriale, nessuna delle quali è stata poi approvata. In particolare, era stata proposta la soppressione della controfirma ministeriale per una serie di atti ritenuti “strettamente” presidenziali, tra i quali era compresa la concessione della grazia (su quest’ultimo punto, v. parte I, capitoloIniziative in materia di grazia e amnistia).

Le Regioni e le autonomie locali

Il Titolo V della Parte II della Costituzione – sul quale, com’è noto, ha inciso in misura rilevante la riforma costituzionale[16] approvata alla fine della XIII legislatura (v. parte I, capitoloRapporti Stato-autonomie territoriali) – è oggetto di ulteriori modifiche, ampie e sostanziali, riguardanti in primo luogo l’allocazione delle competenze legislative, ma anche altri profili del rapporto Stato-regioni-autonomie locali.

Con riferimento al primo profilo, si fa presente che, a parte l’introduzione della categoria della competenza legislativa esclusiva delle regioni (nella quale è compresa la competenza “residuale”, già presente nella Costituzione vigente), sono riallocate e “ritagliate” alcune materie già previste dall’art. 117 attualmente in vigore (con il trasferimento di alcuni rilevanti ambiti materiali dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato), e ne sono inserite di nuove.

Una modifica di portata più generale riguarda l’art. 114, primo comma, ove l’espresso richiamo ai princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà li pone alla base dell’esercizio di tutte le funzioni attribuite alle autonomie locali, alle Regioni e allo Stato.

Per quanto concerne le ampie modifiche relative al sistema delle competenze legislative di cui all’art. 117 Cost., si segnala in particolare che:

§         al primo comma, gli “obblighi internazionali” sono espunti dai limiti posti alla legislazione statale e regionale (permane il limite del rispetto della Costituzione e degli obblighi comunitari)[17].

§         il secondo e il terzo comma sono modificati in più punti, trasferendo nell’ambito della potestà legislativa esclusiva dello Stato varie competenze in precedenza non menzionate, almeno esplicitamente (“promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale”; “politica monetaria” accanto a “moneta”; “tutela del credito” accanto a “tutela del risparmio”; “organizzazioni comuni di mercato”), ovvero trasferendo in parte la competenza su materie già comprese tra quelle di legislazione concorrente. Per quest’ultimo profilo,si fa riferimento in particolare alle seguenti materie, inserite – secondo il testo di riforma costituzionale – nell’ambito del secondo comma dell’art. 117 (potestà esclusiva dello Stato): “norme generali sulla tutela della salute; sicurezza e qualità alimentari”; “sicurezza del lavoro”; “grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza”; “ordinamento della comunicazione”[18]; “professioni intellettuali”; “ordinamento sportivo nazionale”; “produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”.

 

A titolo esemplificativo: dalla materia indicata con “grandi reti di trasporto e di navigazione” nel vigente terzo comma dell’art. 117 (potestà concorrente) è estrapolata la materia “grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza”, ricollocata appunto al secondo comma, mentre resta riservato alla potestà concorrente l’ambito di intervento “reti di trasporto e di navigazione”.

 

§         il quarto comma recepisce la proposta che è stata comunemente denominata, nel dibattito politico, con il termine “devoluzione”, introducendo un elenco di materie (assistenza e organizzazione sanitaria, polizia amministrativa locale e, per taluni aspetti, istruzione[19]) nelle quali alle Regioni spetta la potestà legislativa esclusiva (nell’ambito della quale è collocata la competenza residuale, già oggi prevista per le materie non menzionate nell’art. 117).

Anche l’art. 118 Cost., afferente il riparto delle funzioni amministrative, è ampiamente riscritto. Nell’ambito delle varie modifiche, si segnala in particolare: 

§         l’ampliamento delle materie e degli ambiti per i quali la legge statale disciplina forme di intesa e coordinamento amministrativo tra Stato e Regioni;

§         l’introduzione di una “copertura costituzionale” della Conferenza Stato-Regioni del sistema delle Conferenze quale strumento per “realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi e intese” tra Stato e autonomie[20];

§         il riconoscimento, nell’ambito del principio di sussidiarietà orizzontale, degli enti di autonomia funzionale, che devono essere favoriti “anche attraverso misure fiscali”; l’ordinamento generale di tali enti è rimesso a una legge dello Stato (approvata dalla Camera).

Il potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, è significativamente ridisegnato, precisandosi che, a tutela delle ivi elencate istanze unitarie, lo Stato (non più il Governo) può sostituirsi a Regioni (ed enti locali) nell’esercizio delle funzioni legislative, oltre che di quelle amministrative.

All’art. 127 Cost., è inoltre reintrodotto il limite di merito dell’interesse nazionale per le leggi regionali. Con riguardo alla procedura, si prevede che sia il Governo a sollevare la questione relativa al mancato rispetto dell’interesse nazionale da parte di una legge regionale, invitando la Regione a rimuovere le disposizioni pregiudizievoli. Se la Regione non accoglie l’invito, la questione è rimessa al Parlamento in seduta comune, che delibera sull’annullamento (anche parziale) della legge a maggioranza assoluta dei componenti. Il decreto di annullamento è emanato dal Presidente della Repubblica.

A Roma, capitale della Repubblica, sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, anche normativa, nelle materie di competenza regionale. Queste ultime sono demandate allo statuto della Regione Lazio; l’ordinamento della Capitale è invece disciplinato con legge dello Stato.

Di grande rilievo è il nuovo art. 127-bis Cost., che legittima i Comuni, le Province e le Città metropolitane a ricorrere alla Corte costituzionale avverso leggi, statali o regionali, lesive delle proprie competenze costituzionalmente attribuite (come già spetta attualmente alle Regioni). Condizioni, forme e termini di proponibilità dell’azione sono rimessi a una futura legge costituzionale.

Ulteriori disposizioni riguardano alcuni profili della forma di governo regionale: si stabilisce in particolare che la legge dello Stato fissi non solo la durata, ma anche i criteri di composizione dei Consigli regionali, eviene sancita la non immediata rieleggibilità, dopo il secondo mandato consecutivo, dei Presidenti di Giunta regionale che siano eletti a suffragio universale e diretto[21]; sono altresì apportate alcune modifiche riguardo alle ipotesi di scioglimento dei Consigli regionali, escludendosi lo scioglimento in caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta[22].

Viene altresi’ disciplinato il procedimento per l’istituzione di Città metropolitane nell’ambito di una Regione, che richiede una legge dello Stato, approvata con il procedimento bicamerale, su iniziativa dei Comuni interessati, sentite le Province interessate e la stessa Regione (art. 133, primo comma).

Con riguardo al procedimento di approvazione degli statuti delle Regioni ad autonomia speciale, si stabilisce che essi debbano essere adottati (con legge costituzionale) previa intesa con la Regione interessata.

Si ricorda altresì che risulta invece soppressa la disposizione, di cui terzo comma del vigente art. 116, che consente l’estensione di forme e condizioni particolari di autonomia ad altre Regioni, diverse da quelle a statuto speciale[23].

Va infine ricordata, tra le disposizioni transitorie, la possibilità di formare, entro cinque anni dall’entrata in vigore della riforma, nuove Regioni con almeno un milione di abitanti, con legge costituzionale (è soppresso il parere dei Consigli regionali) e con la sola condizione di sentire le popolazioni interessate, intendendosi per “popolazioni interessate” i cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si chiede il distacco.

La Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura

Tra le ulteriori disposizioni introdotte, si ricordano in particolare la modifica della composizione della Corte costituzionale e delle modalità di elezione del Consiglio superiore della magistratura.

Per quanto concerne la prima, fermo restando il numero complessivo dei giudici, fissato a 15 dall’art. 135 Cost., è stabilito che spetta al Senato federale (integrato dai presidenti delle Giunte delle Regioni e delle province autonome) la nomina di quattro giudici ed alla Camera la nomina di tre giudici della Corte. Il numero della componente di nomina parlamentare (già spettante al Parlamento in seduta comune) è dunque portato a 7. È in conseguenza ridotto il numero dei membri nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature (4 ciascuno).

Ulteriori disposizioni attengono all’indipendenza dei giudizi costituzionali: si prevede che, nei tre anni successivi alla cessazione della carica, il giudice costituzionale non possa ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche elettive o di nomina governativa, o svolgere funzioni in organi o enti pubblici individuati dalla legge. È inoltre modificata per alcuni aspetti la disciplina relativa alla scelta dei 16 cittadini chiamati ad integrare il collegio nei giudizi di accusa contro il Presidente della Repubblica.

Per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura, anche in questo caso, la quota di membri di nomina parlamentare (un terzo) non è più eletta dal Parlamento in seduta comune, bensì per un sesto dalla Camera e per un sesto dal Senato federale (art. 104).

La disciplina transitoria

Gli ultimi cinque articoli della legge di revisione costituzionale recano infine un’articolata disciplina transitoria, differenziata in relazione alle diverse parti della riforma. In estrema sintesi:

§         una parte delle disposizioni introdotte, tra le quali pressoché tutte quelle modificative del titolo V, sono immediatamente applicabili a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale;

§         la maggior parte della restante disciplina troverà applicazione con riferimento alla prima legislatura successiva all’entrata in vigore della riforma;

§         una parte di essa, e segnatamente quella concernente la riduzione del numero dei deputati e dei senatori e la “contestualità piena” tra elezioni dei senatori e dei Consigli regionali, si applicherà invece a partire dalla legislatura che interverrà dopo il quinto anno successivo alla prima formazione della Camera e del Senato federale secondo il nuovo ordinamento;

§         sino all’adeguamento della legge elettorale alle nuove disposizioni sulla forma di governo, il rapporto di fiducia tra Governo e Camera dei deputati resterà regolato da disposizioni analoghe a quelle vigenti.

Specifiche disposizioni regolano lo svolgimento delle più vicine scadenze elettorali; altre concernono il graduale rinnovo della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura, l’applicazione della riforma alle Regioni a statuto speciale e la progressiva attuazione dell’autonomia finanziaria attribuita a Regioni ed enti locali dall’art. 119 Cost..

 

Di seguito si riportano alcune tabelle che elencano sinteticamente le principali disposizioni recate dalla riforma, raggruppandole secondo i rispettivi tempi di applicazione fissati dalla disciplina transitoria.

 


 


Applicazione immediata

Parlamento

§         disciplina con legge dei casi di non cumulabilità dell’indennità spettante ai parlamentari con altri emolumenti relativi a cariche pubbliche

§         parereparlamentare su tutti gli schemi di decreti legislativi

Presidente della Repubblica

§         diminuzione della età minima per la eleggibilità alla carica

Amministrazione

§         costituzionalizzazione delle Autorità indipendenti

 

Regioni ed enti locali

§         introduzione dei princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà con portata generale

§         nuova procedura di adozione degli statuti speciali

§         nuovo riparto di materie fra Stato e Regioni; “devoluzione”

§         costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze Stato-autonomie

§         ridefinizione del potere sostitutivo dello Stato

§         annullamento delle leggi regionali pregiudizievoli dell’interesse nazionale

§         nuova disciplina delle dimissioni della Giunta e dello scioglimento del consiglio regionale

§         divieto di un terzo mandato consecutivo per i Presidenti di Giunta

§         ricorso alla Corte costituzionale da parte degli enti locali, secondo norme da stabilire con legge costituzionale

§         emanazione entro 3 anni dalla data di entrata in vigore del d.d.l. cost. delle leggi statali di attuazione del federalismo fiscale

§         individuazione entro 5 anni dei beni e delle risorse da trasferire a Regioni ed enti locali per rendere effettivo l’esercizio delle loro funzioni

§         formazione di nuove Regioni in deroga all’art. 132, con il solo l’obbligo di sentire le popolazioni interessate (per i cinque anni successivi alla data di entrata in vigore del d.d.l. cost.)

 


 


Applicazione riferita alla prima legislatura successiva all’entrata in vigore della legge costituzionale

Parlamento

§         nuova denominazione del Senato (Senato federale della Repubblica)

§         partecipazione all’attività del Senato federale di rappresentanti delle Autonomie territoriali

§         nuovi requisiti l’elezione al Senato (età minima 25 anni; aver ricoperto cariche pubbliche elettive all’interno della Regione o residenti alla data dell’elezione)

§         parere del Senato (e non più della Commissione parlamentare per le questioni regionali) sullo scioglimento coattivo del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta ex art. 126 Cost.

§         deputati di diritto e a vita

§         quorum per l’elezione dei Presidenti delle Camere, nuovi quorum per l’approvazione dei regolamenti parlamentari, nuovo quorum costitutivo per il Senato federale, nuovi contenuti necessari dei regolamenti parlamentari; modifiche in tema di giudizio delle Camere sui titoli di ammissibilità dei rispettivi componenti;

§         modifica del procedimento legislativo

§         riserva all’opposizione della presidenza degli organismi con poteri ispettivi, di controllo e di garanzia e delle Commissioni d’inchiesta istituite dalla Camera

 

Presidente della Repubblica

§         nuove modalità di elezione del Presidente della Repubblica (Assemblea della Repubblica)

§         nuove funzioni del Presidente della Repubblica

§         nuova disciplina dello scioglimento (della sola Camera dei deputati)

 

Governo

§         nuova denominazione del capo dell’Esecutivo (Primo ministro) e suoi poteri (nomina e revoca dei ministri, etc.)

§         nuove modalità di formazione dell’Esecutivo

§         costituzionalizzazione del programma e della questione di fiducia, mozione di sfiducia e suoi effetti, meccanismi “anti-ribaltone” e sfiducia costruttiva (salva la speciale disciplina prevista in attesa dell’adeguamento della legislazione elettorale)

 

Magistratura

§         nuove modalità di nomina dei membri non togati del CSM

 

Corte costituzionale

§         nuova composizione della Corte costituzionale e nuove modalità di nomina dei giudici

 

Procedimento di revisione costituzionale

§         possibilità di promuovere il referendum costituzionale anche nel caso di approvazione di legge costituzionale con maggioranza di due terzi

 


 

Applicazione riferita alla legislatura che interverrà dopo il quinto anno successivo alla prima formazione delle due Camere secondo il nuovo ordinamento

Parlamento

§         riduzione a 518 del numero dei deputati

§         età minima per l’eleggibilità a deputato a 21 anni

§         riduzione a 252 del numero dei senatori; nuovo numero minimo di senatori per regione

§         “contestualità piena” fra elezione dei senatori ed elezione dei consigli regionali o delle Province autonome; nuova disciplina della proroga delle Camere (rectius: della Camera e dei Consigli regionali)

 

 


Leggi costituzionali– Casa Savoia (XIII disp. trans. fin.)

La legge costituzionale n. 1 del 2002

La L.Cost. 1/2002[24] ha disposto la cessazione degli effetti dei commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.

I commi in questione prevedono che i membri e i discendenti di casa Savoia non possano:

§         essere elettori;

§         ricoprire cariche elettive o pubblici uffici;

§         entrare e soggiornare nel territorio nazionale (tale ultimo divieto concerne gli ex Re di Casa Savoia, le loro consorti e i loro discendenti maschi).

In esito alla legge costituzionale i due commi, pertanto, non risultano abrogati, ma “esauriscono i loro effetti” con decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale medesima (10 novembre 2002[25]).

La L.Cost. 1/2002 non ha in alcun modo inciso sul terzo comma della XIII disposizione, che ha disposto l’avocazione allo Stato dei beni, siti nel territorio nazionale, degli ex Re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi.

La XIII disposizione e la sua interpretazione

La XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione ha precluso a tutti i membri e i discendenti di Casa Savoia l’esercizio del diritto di elettorato attivo e passivo e la possibilità di ricoprire uffici pubblici (primo comma).

Agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai discendenti maschi è stato inoltre interdetto l’ingresso e il soggiorno nel territorio italiano (secondo comma); i relativi beni esistenti nel territorio nazionale vengono, infine, avocati allo Stato, ed è in conseguenza disposta ex lege la nullità dei trasferimenti e delle costituzioni di diritti reali sui beni stessi avvenuti dopo il 2 giugno 1946 (comma 3).

 

Per quanto riguarda la locuzione “membri della famiglia reale” cui si riferisce il primo comma della XIII disposizione, la Commissione elettorale mandamentale di S. Giovanni Valdarno, nella decisione relativa alla spettanza del diritto di voto ad Amedeo d’Aosta, ha stabilito che tale espressione va intesa in senso restrittivo, con riferimento alla nozione dell’articolo 77 del codice civile (famiglia nucleare) e non con riferimento alla precedente nozione ricavabile dalla disciplina normativa speciale della Famiglia reale. Il R.D. 1 gennaio 1890 ricomprendeva infatti, in tale ambito, i discendenti fino al settimo grado e non fino al sesto grado, come invece previsto dal disposto dell’art. 77 c.c..

Per quanto riguarda il divieto di ingresso e soggiorno nel territorio nazionale (comma 2), esso non ha riguardato i discendenti di sesso femminile degli ex Re di Casa Savoia: il Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria (seduta del 10 dicembre 1987), ha ritenuto che per la vedova dell’ex Re Umberto II, tale divieto non fosse applicabile, in quanto nella nozione di “consorte” deve presupporsi l’esistenza di un rapporto di coniugio in atto che, in base all’articolo 149 c.c., viene meno con la morte di uno dei coniugi.

Relativamente alle conseguenze processuali della impossibilità, per i membri di Casa Savoia, di rientrare in Italia per partecipare ad un procedimento intentato nei loro confronti, la Corte costituzionale (ordinanza n. 480 del 31 luglio 1989) ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (sollevata dal Tribunale di Torino in riferimento agli artt. 3, 24, 112, 139 e XIII disp. trans. Cost.) degli artt. 497 e 498 del c.p.p.. La Corte, infatti, ha ritenuto che lo stesso giudice a quo ha implicitamente riconosciuto l’impossibilità dell’intervento della Corte costituzionale, “dato l’ostacolo ‘alla celebrazione del giudizio nei confronti di Vittorio Emanuele di Savoia’ derivante proprio dal comma 2, XIII disp. trans. e fin. Cost., ispirata, stando all’avviso espresso nella parte iniziale dell’ordinanza di rimessione, ad una ‘ratio che […] si propone – in stretta connessione con l’art. 139 Cost., che sancisce la non modificabilità in perpetuo del nuovo ordine repubblicano – di precludere senza limiti di tempo l’ingresso e la permanenza nel territorio italiano di soggetti che il costituente ha considerato particolarmente capaci, in quanto possibili pretendenti al trono, di divenire punto di riferimento di temute iniziative restauratrici’”.

Infine, il comma 3, disponendo l’avocazione allo Stato dei beni degli ex Re, detta una norma immediatamente applicabile, che non necessita dell’intermediazione di un atto legislativo o amministrativo. Si segnala che, relativamente alla nullità retroattiva dei trasferimenti antecedenti al 2 giugno 1946, la giurisprudenza (cfr. Tribunale di Roma, 6 giugno 1950 e Cass., 6 febbraio 1971, n. 311) ha inteso l’espressione in senso restrittivo, limitandola ai soli atti di disposizione del diritto da parte del titolare (negozi traslativi) e non anche ai casi di successione mortis causa.

Nel mese di febbraio 2001 la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, sottopose al parere del Consiglio di Stato la questione relativa alla possibilità di pervenire, per via di interpretazione evolutiva, a una diversa applicazione del contenuto impeditivo della XIII disposizione, sulla cui vigenza ed applicabilità la Presidenza esprimeva perplessità attraverso una pluralità di argomentazioni fondate sulle evoluzioni del contesto storico-istituzionale e sui princìpi della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Il Consiglio di Stato, con parere n. 153/2001 reso dall’Adunanza Generale il 1 marzo del 2001, respinse la tesi interpretativa sostenuta dalla Presidenza del Consiglio, partendo dall’assunto che la XIII disposizione non sia norma transitoria ma norma finale e di puntuale portata precettiva, la cui abrogazione non può in alcun modo derivare da un’attività di interpretazione evolutiva bensì dall’ordinario procedimento di revisione dettato dall’articolo 138 della Costituzione.

I lavori parlamentari nella XIV legislatura e nelle legislature precedenti

Nelle passate legislature la XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione è stata più volte oggetto di iniziative legislative volte alla sua modifica o abrogazione.

 

Nella X legislatura, nella seduta del 20 giugno 1990 la I Commissione (affari costituzionali) della Camera ha approvato, in sede referente, la proposta di legge costituzionale A.C. 1075, la quale prevedeva l’abrogazione dei commi primo e secondo della XIII disposizione.

Anche nella XI legislatura sono state presentate, sia alla Camera sia al Senato, numerose proposte di legge costituzionali, delle quali non è stato avviato l’esame.

Nella XII legislatura la questione è stata ripresa al Senato, dove la Commissione affari costituzionali ha proceduto, nelle sedute del 30 maggio 1995, del 15 e 21 giugno, del 19 luglio e del 21 e 28 novembre, all’esame in sede referente di cinque proposte di legge (A.S. 374 ed abb.) aventi contenuto abrogativo; l’esame, tuttavia, non si è concluso. Le sette proposte di legge in materia assegnate alla Commissione affari costituzionali della Camera, invece, non sono state esaminate.

Nella XIII legislatura il Governo ha presentato un proprio disegno di legge (A.C. 3754) per l’abrogazione del solo secondo comma della XIII disposizione (ingresso e soggiorno), che ha iniziato il suo iter alla Camera unitamente a sei proposte di iniziativa parlamentare.

Nel corso del dibattito in sede referente emerse tra le soluzioni praticabili, oltre alla formale abrogazione della disposizione (limitatamente ai primi due commi o al solo secondo comma), anche l’indicazione, mediante l’inserimento di un comma aggiuntivo, di una data a decorrere dalla quale si sarebbe prodotta la cessazione degli effetti dei primi due commi.

Ed in effetti, l’11 dicembre 1997 la Camera approvava, in prima deliberazione, un testo unificato che, aggiungendo un nuovo comma alla XIII disposizione, dichiarava esauriti gli effetti dei primi due commi alla data del 1° gennaio 1998. Il Senato iniziò l’iter in I Commissione (A.S. 2941) senza, tuttavia, pervenire alla sua conclusione.

 

Nella seduta del 5 luglio 2001 il Parlamento europeo, nella risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea, ha raccomandato “al nuovo Parlamento italiano di onorare la promessa fatta dal precedente Governo italiano di abrogare rapidamente l’articolo XIII transitorio della Costituzione italiana”.

 

Nella XIV legislatura, la I Commissione (Affari costituzionali) del Senato ha avviato, il 31 luglio 2001, l’esame in sede referente di otto disegni di legge costituzionale di iniziativa parlamentare (A.S. 77 e abb.), ai quali è stato congiunto l’esame della petizione n. 78. Il 23 gennaio 2002 è stato licenziato per l’Aula un testo unificato che, riprendendo l’impostazione adottata nella XIII legislatura, disponeva non l’abrogazione, ma la cessazione degli effetti della disposizione transitoria.

La discussione sulle linee generali in Assemblea si è tenuta il 31 gennaio; il 5 febbraio è stato quindi approvato, senza emendamenti, il testo proposto dalla Commissione.

La I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha iniziato l’esame del progetto il 26 febbraio, per concluderlo nella seduta del 19 marzo. L’esame in sede referente ha avuto ad oggetto, oltre al testo approvato dal Senato (A.C. 2288), nove proposte di legge costituzionale di iniziativa parlamentare ed una di iniziativa del Consiglio regionale del Piemonte.

L’esame in Assemblea ha avuto luogo nella seduta dell’8 aprile, per concludersi il 10 aprile con l’approvazione senza modifiche del testo trasmesso dal Senato.

In seconda lettura, il progetto di revisione costituzionale è stato riesaminato dalla 1ª Commissione del Senato nella seduta del 14 maggio 2002. L’esame in Assemblea ha avuto luogo il 15 maggio e si è concluso con l’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti del Senato.

La I Commissione della Camera ha quindi esaminato il testo nella seduta del 4 luglio e l’Assemblea nelle sedute dell’8 e dell’11 luglio 2002. L’approvazione ha avuto luogo, anche in questo caso, a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei componenti l’Assemblea.

 

 


 

Iniziative costituzionali– Tutela dell’ambiente (art. 9)

Il 24 settembre 2003 l’Assemblea del Senato, recependo senza modifiche il testo unificato di quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare (A.S. 553 ed abb.) licenziato in sede referente dalla 1ª Commissione, ha approvato in prima deliberazione un progetto di legge costituzionale che, riformulando il secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione, vi introduceva il riferimento all’“ambiente naturale” quale ulteriore oggetto di tutela da parte della Repubblica, insieme al paesaggio e al patrimonio storico e artistico della Nazione.

 

Nel testo approvato dal Senato l’art. 9, co. 2°, Cost. assumeva la seguente formulazione: “[La Repubblica] Tutela l’ambiente naturale, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Dal dibattito parlamentare è emersa la comune consapevolezza del fatto che la Corte costituzionale ha da tempo intrapreso la via della tutela dell’ambiente, ritenendola implicita nel sistema dei princìpi e dei precetti costituzionali espressamente previsti dalla Costituzione: l’integrazione delle disposizioni costituzionali è apparsa comunque opportuna ai sostenitori della modifica costituzionale, allo scopo di rendere chiara e definitiva una tutela già implicita nel sistema[26].

 

Corte costituzionale e tutela dell’ambiente. Già prima della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che ha introdotto all’art. 117, secondo comma, lettera s), la “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” tra le materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, pur non essendo presente un riferimento specifico all’ambiente nella Costituzione la Corte costituzionale ha proceduto, in via di elaborazione giurisprudenziale, all’individuazione e al riconoscimento di esso come valore costituzionale. Si segnalano, tra le molte:

§         la sent. 210/1987, in cui la Corte, pronunziandosi sulla L. 349/1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente, ha riconosciuto “lo sforzo [del legislatore] in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione”, tendendo “ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali”;

§         la sent. 167/1987, in cui la Corte ha associato i concetti di “paesaggio” e di “ambiente” sostenendo che “il patrimonio paesaggistico e ambientale costituisce eminente valore cui la Costituzione ha conferito spiccato rilievo (art. 9, secondo comma), imponendo alla Repubblica – a livello di tutti i soggetti che vi operano e nell’ambito delle rispettive competenze istituzionali – di perseguirne il fine precipuo di tutela”;

§         la sent. 641/1987, in cui la Corte ha affermato con forza il principio di unitarietà dell’ambiente come valore costituzionalmente tutelato.

 

La scelta di un testo unificato che si limitasse esclusivamente ad integrare il disposto dell’articolo 9 con il riferimento all’ambiente naturale rifletteva la volontà – evidenziata in molti tra gli interventi in Commissione e in Assemblea – di una integrazione normativa minima della disposizione costituzionale, al fine di evitare l’inserimento nella Carta fondamentale di contenuti di dettaglio o poco chiari che non avessero la capacità di resistere nel tempo o che avessero un carattere ridondante e inutilmente ripetitivo.

L’espressione “ambiente naturale” è stata peraltro giudicata restrittiva da parte di alcuni intervenuti: l’aggiunta di tale aggettivo, si è sostenuto, rischierebbe di indebolire il riconoscimento e l’affermazione di un diritto fondamentale, quale quello all’ambiente, stante che l’ambiente è da considerarsi un bene immateriale unitario – come più volte precisato dalla Corte costituzionale – sebbene possa avere varie componenti ciascuna delle quali può anche costituire isolatamente oggetto di cura e di tutela. In tal senso l’ambiente arriva a connettersi con valori non direttamente naturalistici, quali gli elementi territoriali, i sistemi urbanistici e paesaggistici, meritevoli di tutela uniforme e coordinata vista l’unitarietà del loro valore.

il dibattito, ripreso in questi termini nel corso dell’esame alla Camera, ha condotto ad una riformulazione del testo in termini più ampi.

 

Alla Camera, il testo licenziato dal Senato veniva esaminato dalla I Commissione in sede referente (A.C. 4307) congiuntamente ad otto proposte di legge di iniziativa parlamentare. A seguito di un approfondito dibattito, ed anche in esito ai lavori di un comitato ristretto, la Commissione elaborava un nuovo e più articolato testo unificato, che l’Assemblea approvava, nella seduta del 28 ottobre 2004, senza ulteriori modifiche.

Il nuovo testo abbandonava l’aggettivo “naturale” e introduceva di converso in Costituzione, accanto a quello di “ambiente”, concetti e valori nuovi. Lasciando immutato il secondo comma dell’art. 9 Cost., esso aggiungeva al medesimo articolo un comma ulteriore, ai sensi del quale la Repubblica “tutela l’ambiente e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Protegge le biodiversità e promuove il rispetto degli animali”.

Trasmesso al Senato, il nuovo testo veniva assegnato alla 1ª Commissione in sede referente. Questa, nella seduta del 13 dicembre 2005, conferiva al relatore il mandato a riferire favorevolmente all’Assemblea rinunziando ad apportare ulteriori emendamenti. Con la fine della legislatura, tuttavia, l’iter parlamentare si interrompeva.

 


Sistema elettorale – La legge n. 270 del 2005

Le “insufficienze” del c.d. Mattarellum e i tentativi di “correzione”

La vicenda dei 12 seggi non assegnati (v. scheda Sistema elettorale – La questione dei seggi vacanti), le critiche rivolte da molte parti alla disciplina dello “scorporo” e al ricorso alle “liste civetta”, l’osservazione che molti elettori avevano utilizzato il voto disgiunto fra proporzionale e maggioritario, a danno di quest’ultimo perché, probabilmente, non avevano trovato nella scheda del voto uninominale il contrassegno della propria lista ed, infine, le aspirazioni di taluni gruppi ad aumentare il numero dei seggi assegnati con il metodo proporzionale, hanno fatto si che, sin dall’inizio della XIV legislatura, si manifestasse l’esigenza di “correggere” la legge elettorale vigente.

Sulle due principali questioni sono state avanzate molte proposte emendative con riguardo:

§         alla disciplina dello scorporo, per rendere inefficace il ricorso alle “liste civetta”;

-          alcune proposte erano intese a rendere obbligatorio (non evitabile) lo scorporo, introducendo il cosiddetto “scorporo di coalizione” (A.C. 2620, 3304, 5613, 5908). Una articolata disciplina della presentazione delle liste e delle dichiarazioni di collegamento avrebbe consentito agli uffici elettorali di dichiarare il collegamento d’ufficio ed operare lo scorporo dei voti anche quando i presentatori di liste e candidature avessero reso dichiarazioni elusive;

-          altre proposte, invece, tendevano a cancellare lo scorporo e consentire che in sede proporzionale (sia alla Camera, sia al Senato) le liste (o i raggruppamenti di candidati) potessero concorrere con tutti i voti ottenuti (C. 2712, 3560);

§         alla scheda ed alle modalità di espressione del voto;

-          intese a consentire che nella scheda per la votazione uninominale alla Camera e nella scheda per il voto al Senato, potessero comparire i contrassegni delle liste proporzionali in numero tale da consentire la “presenza” visibile di tutte le liste partecipanti alla coalizione (delle principali, almeno) (A.C. n. 5651, n. 5652). In queste, una proposta era intesa a unificare, per la Camera, in un’unica scheda, voto uninominale e proporzionale per consentire all’elettore di votare in ogni caso “la propria lista” rendendo questo voto efficace anche ai fini della scelta del candidato della coalizione nel collegio uninominale;

La terza linea di intervento – quella intesa a modificare il rapporto del voto tra maggioritario e proporzionale in favore di quest’ultimo – pur presente nel dibattito politico che accompagnava le proposte di revisione, non era stata tradotta in una proposta di legge da abbinare nell’esame in Commissione.

Le prime proposte di intervento sulle leggi elettorali – intese ad impedire che in futuro si potesse ricorrere nuovamente alle liste civetta – furono presentate nell’aprile del 2002 ma la Commissione ne avviò concretamente l’esame – di queste e delle altre sopravvenute – nel marzo 2005, ad un anno dalla scadenza della legislatura.

 

Al termine di una prima fase del dibattito, fase nella quale la Commissione tentava di definire l’ambito e l’ampiezza delle modifiche da apportare alle due leggi elettorali, il relatore presenta, il 16 giugno 2005, una proposta di testo unificato composto di otto articoli che concernono:

§         l’abolizione dello scorporo nel computo dei voti proporzionali alla Camera e nell’assegnazione dei seggi con metodo proporzionale al Senato. Scartata l’opzione contrapposta – quella intesa a rendere “inevitabile” lo scorporo – la proposta del relatore elimina uno dei tratti caratteristici del sistema introdotto dalle leggi elettorali del 1993: il principio di compensazione fra i due sistemi. Le liste ammesse alla ripartizione dei seggi proporzionali della Camera ed i gruppi di candidati al Senato, concorrendo ai seggi proporzionali con l’intera cifra elettorale, assorbono seggi con cui la disciplina dello scorporo – correttamente applicato – voleva compensare minoranze e liste minori per gli effetti maggioritari dei collegi uninominali; la minore “connessione” fra le due parti del sistema – maggioritario e proporzionale – induce anche ad aumentare da tre a quattro quinti il numero minimo delle candidature nei gruppi di candidati al Senato;

§         la facoltà di contraddistinguere con più contrassegni – fino al numero di otto – le candidature nei collegi uninominali alla Camera ed al Senato. Alla Camera restano le due schede ed il possibile voto disgiunto, ma l’elettore può trovare il contrassegno della lista favorita accanto al nome del candidato uninominale. Al Senato i contrassegni trasformano il “gruppo di candidati” in gruppo di partiti. A questa innovazione si connette l’altra, che consente all’elettore di tracciare nella scheda più segni su più contrassegni, purché del medesimo candidato e all’interno del rettangolo che identifica quella candidatura.

Pochi altri articoli propongono modifiche, non di sistema, alla presentazione delle candidature e alla disciplina dei reati elettorali.

Gli emendamenti presentati il 23 giugno al testo unificato ripetevano in gran parte le proposte iniziali, con pochi ulteriori temi: le commissioni elettorali comunali e la nomina degli scrutatori, la disciplina delle sottoscrizioni di liste e candidature, disposizioni speciali per le liste presentate da minoranze linguistiche, la disciplina dei simboli e dei contrassegni, lo spoglio delle schede e la redazione dei verbali. I rappresentanti del gruppo UDC, gruppo che sin dall’inizio si era dichiarato favorevole ad una modifica che accentuasse significativamente il carattere proporzionale della legge, presentarono invece emendamenti intenzionalmente dilatori. Il dibattito restò interlocutorio sino alla chiusura estiva.

Alla ripresa dei lavori, è ancora un rappresentante del gruppo UDC che chiede la riapertura del termine per la presentazione di emendamenti al testo unificato; un termine breve, fissato al 13 settembre.

 

Tra gli emendamenti annunciati in Commissione nella seduta del 13 settembre 2005, ve ne sono due a firma congiunta dei rappresentanti dei gruppi di maggioranza che propongono l’abbandono del sistema misto introdotto dalle leggi del 1993 e l’adozione di un sistema interamente proporzionale, con liste circoscrizionali e assegnazione dei seggi nel collegio unico nazionale, sistema che – affiancato da soglie di sbarramento e premio di maggioranza – garantisce l’esito maggioritario della votazione. Questi due emendamenti – modificati ed integrati per taluni aspetti anche significativi – vanno a formare il nuovo testo base che sostituisce il precedente e diviene il nucleo della nuova legge per l’elezione della Camera e del Senato.

Liste e coalizioni di liste concorrono nelle ventisei circoscrizioni esistenti, ma il computo dei voti, la determinazione delle soglie di accesso, l’assegnazione dei seggi alle coalizioni e alle liste, l’attribuzione del premio di maggioranza sono concentrati al livello nazionale.

 

In una prima formulazione del testo, sia alla Camera, sia al Senato, coalizione o lista vincente sarebbe stata – separatamente per ciascun ramo - quella che avesse ottenuto il maggior numero di seggi dalla ripartizione proporzionale effettuata in sede nazionale, con il metodo dei quozienti naturali interi e dei maggiori resti. Se questa ripartizione non avesse garantito alle due coalizioni o liste vincenti, rispettivamente, almeno 340 seggi della Camera e 170 del Senato, le assegnazioni sarebbero state integrate a quelle cifre.

Nel corso del dibattito, accanto a numerose variazioni ed integrazioni di carattere prevalentemente “tecnico”, il testo iniziale subì due modifiche di rilievo: il riferimento al maggior numero di voti ottenuti, in luogo dei seggi, come parametro per determinare la coalizione o lista vincente cui assegnare il premio di maggioranza e, per l’elezione del Senato, l’abbandono della maggioranza “nazionale”, in favore di maggioranze e relativi premi determinati separatamente in ciascuna regione.

Quest’ultima modifica fu il risultato di un dibattito politico e dottrinale che aveva come obiettivo sia una corretta interpretazione del vincolo della elezione “a base regionale” posto per il Senato dall’articolo 57 della Costituzione, sia la necessità di adottare una scelta che non corresse il rischio di incorrere in una censura di incostituzionalità, eventualmente, in sede di promulgazione da parte del Capo dello Stato o, magari, drammaticamente, ad elezioni avvenute, in sede di giudizio di costituzionalità, se qualche “maglia procedurale” avesse offerto la via dell’azione.

Il testo, proposto, modificato ed approvato dalla maggioranza fu avversato e contrastato, con il ricorso all’ostruzionismo, dai gruppi di opposizione che contestavano alla maggioranza la legittimità – politica, in primo luogo, ma per qualche aspetto anche istituzionale – di modificare radicalmente il sistema di elezione delle Camere al termine della legislatura quando, di fatto, la campagna elettorale era già iniziata.

 

Il 13 ottobre 2005 il testo fu approvato dall’Assemblea della Camera, il 14 dicembre definitivamente dal Senato, il 30 dicembre pubblicato in Gazzetta ufficiale: legge 21 dicembre 2005, n. 270, Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Il nuovo sistema di elezione della Camera dei deputati

Profili generali

Il sistema introdotto dalla L. 270/2005 per l’elezione della Camera dei deputati è, di fatto, un sistema maggioritario, o “eventualmente maggioritario”, o ancora, più esattamente, ad esito maggioritario, nel quale i seggi spettanti a ciascuna lista e coalizione di liste sono assegnati con metodo proporzionale. La competizione maggiore, quella “per il governo”, tra coalizioni o liste alternative, avviene in base al sistema maggioritario per eccellenza: il maggioritario semplice; proporzionale è, invece, la competizione tra liste, quella per il numero dei seggi spettanti a ciascuna di esse, sia che esse appartengano alla coalizione vincente, sia che si spartiscano i seggi spettanti alle minoranze. Alla assegnazione dei 617 seggi delle circoscrizioni del territorio nazionale concorrono, in un collegio unico nazionale, liste e coalizioni di liste presentate nelle ventisei circoscrizioni istituite dalla L. 277/1993.

Sistemi elettorali diversi sono stabiliti per la circoscrizione Valle d”Aosta (un deputato eletto con sistema maggioritario nel collegio uninominale) e per la circoscrizione Estero (dodici deputati eletti, con metodo proporzionale in quattro “ripartizioni” (v. scheda Elezioni – Voto degli italiani all’estero).

Secondo la formula del “maggioritario semplice”, nelle ventisei circoscrizioni del territorio nazionale la vittoria è assegnata alla lista, o alla coalizione di liste, che ottiene il maggior numero di voti validi in sede nazionale. Come è stato detto ripetutamente nel corso del dibattito che ha accompagnato l’approvazione della legge, vince e governa – dacché il sistema associa, di fatto, esito elettorale e designazione al governo – la lista o la coalizione di liste che ottiene anche un solo voto in più delle liste o coalizioni concorrenti.

La “vittoria delle elezioni” ha come conseguenza l’assegnazione di almeno 340 seggi; il 55 per cento degli eletti sul territorio nazionale. La lista o la coalizione vincente può ottenerli in forza dei voti conseguiti, se quel numero di seggi, o ancora più, le spettano secondo una prima assegnazione effettuata con metodo proporzionale; li ottiene invece per assegnazione diretta se la ripartizione proporzionale gliene avrebbe assegnato un numero inferiore. In questo caso il “premio di maggioranza” consiste nel numero di seggi necessario a colmare il divario tra i seggi che la lista o coalizione vincente otterrebbe secondo la ripartizione proporzionale e i 340 seggi che le sono comunque assegnati.

Un articolato sistema di soglie di accesso alla ripartizione dei seggi accompagna entrambi i criteri di assegnazione; più quello maggioritario che non quello proporzionale. Una lista non coalizzata accede alla ripartizione dei seggi soltanto se consegue almeno il 4 per cento dei voti validi in sede nazionale: un numero di voti che si aggira, da ultimo, intorno al milione e quattrocentomila voti. Una lista coalizzata deve ottenere solo il 2 per cento; è ammessa al riparto dei seggi, inoltre, una lista per ciascuna coalizione che non abbia raggiunto la soglia (quella che ha ottenuto il miglior risultato)[27]. Queste soglie scoraggiano, quindi, le liste minori dal concorrere al di fuori di una coalizione.

Per le coalizioni è posta una soglia “composita”: almeno 10 per cento del totale nazionale dei voti validi e, al suo interno, almeno una lista che superi la soglia individuale di lista (4 per cento). Questo doppio sbarramento, funzionale al criterio maggioritario di assegnazione dei seggi, scoraggia la formazione di coalizioni che, altrimenti, potrebbero raccogliere e favorire la polverizzazione del voto.

Un terzo elemento caratterizza il sistema: le liste bloccate e, corrispettivamente, l’assenza del voto di preferenza. I candidati sono proclamati in ordine di successione nella lista e queste sono decise e presentate dai responsabili nazionali dei partiti o da loro delegati. Inoltre, l’assenza di un limite alla candidatura in più circoscrizioni (sino a ventisei) consegna molta parte delle proclamazioni alla successione delle opzioni da parte dei candidati che precedono.

In termini sommari il sistema di elezione e la formula di assegnazione dei seggi possono essere riassunti come segue.

Liste e candidature

Alla assegnazione dei seggi concorrono liste di candidati presentate nelle singole circoscrizioni; non vi è limite o vincolo al numero delle circoscrizioni in cui la lista deve essere presente con propri candidati; ciascuna lista è composta da un elenco di candidati, in numero non inferiore a un terzo e non superiore al numero dei seggi assegnati alla circoscrizione.

Ciascuna lista è contraddistinta da un contrassegno presentato in sede nazionale. Ai fini della assegnazione dei seggi – con effetto, in particolare, sul computo della cifra elettorale nazionale – le liste possono dichiarare di collegarsi in “coalizione”. Tali dichiarazioni di collegamento devono essere reciproche e hanno effetto per tutte le liste aventi il medesimo contrassegno. Le coalizioni – che non hanno un proprio contrassegno – concorrono alla assegnazione del premio di maggioranza (rectius, alla vittoria delle elezioni) con il totale dei voti validi ottenuti da tutte le liste che la compongono. Non vi è obbligo a che le liste collegate siano tutte presenti in tutte le circoscrizioni. Una volta accertata la regolarità delle dichiarazioni, l’elenco dei collegamenti è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

I partiti o gruppi politici organizzati “che si candidano a governare” devono depositare il programma elettorale, nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica o della coalizione.

 

È una formula la cui interpretazione non appare univoca Sembrerebbe che la legge preveda che alle elezioni possano concorrere partiti o gruppi politici che non si candidano a governare e che, quindi, non sarebbero tenuti alla presentazione del programma e alla indicazione del “capo”. In questo caso, non si vedrebbe però in forza di quale principio costituzionale, in caso di successo elettorale, quei partiti o forze politiche (o, soltanto, i deputati ed i senatori eletti in quella lista) potrebbero essere esclusi dal governo. Più certa e prescrittiva è invece la seconda disposizione: se collegati in coalizione, quei partiti e quelle forze politiche depositano un unico programma elettorale, nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione.

 

Nessun candidato può essere incluso in più liste aventi diverso contrassegno, né essere candidato, contestualmente, alla Camera ed al Senato; non vi è limite invece alla possibilità di essere inclusi in liste presentate in più circoscrizioni, purché aventi il medesimo contrassegno.

La scheda e l’espressione del voto

Nella scheda sono raggruppati in successione, su di un’unica riga, i contrassegni delle liste appartenenti alla medesima coalizione e, singolarmente su una propria riga, il contrassegno di ciascuna lista non coalizzata; un rettangolo ricomprende al suo interno tutti i contrassegni di ciascuna riga; le coalizioni, dunque, non sono identificate da un proprio contrassegno ma dal rettangolo che comprende i contrassegni delle liste che ne fanno parte; la successione di liste non coalizzate e di coalizioni nelle righe della scheda dall’alto in basso è stabilita per sorteggio in ciascuna circoscrizione; analogamente, in ciascuna circoscrizione è stabilita la successione, da sinistra a destra, dei contrassegni di ciascuna coalizione.

Non sono presenti altre indicazioni; non dunque le candidature, l’indicazione del capo unico della forza politica o coalizione, il nome della coalizione stessa.

L’elettore vota tracciando un unico segno sul contrassegno della lista da lui prescelta; la scheda è nulla, tra l’altro, se l’elettore vota due o più contrassegni, pur se appartenenti alla medesima coalizione; non è prevista l’espressione del voto di preferenza.

La trasformazione dei voti in seggi

La ripartizione e l’assegnazione dei seggi alle coalizioni ed alle liste è fatta direttamente dall’Ufficio centrale nazionale; questi provvede anche alla distribuzione nelle circoscrizioni dei seggi assegnati a ciascuna lista. Gli uffici centrali circoscrizionali si limitano a determinare e trasmettere all’Ufficio centrale nazionale il totale dei voti validi ottenuti da ciascuna lista ed il totale dei voti validi complessivamente espressi nella circoscrizione. Al termine delle operazioni di ripartizione e assegnazione dei seggi gli uffici elettorali circoscrizionali procedono alla proclamazione degli eletti secondo le indicazioni dell’Ufficio centrale nazionale.

Gli uffici elettorali circoscrizionali determinano e comunicano all’Ufficio elettorale centrale nazionale la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista; essa è costituita dalla somma dei voti validi ottenuti dalla lista nelle sezioni della circoscrizione.

L’Ufficio elettorale centrale nazionale determina:

§         la cifra elettorale nazionale di ciascuna lista; essa è data dalla somma delle cifre elettorali circoscrizionali di quella lista;

§         la cifra elettorale nazionale di ciascuna coalizione; essa è data dalla somma delle cifre elettorali nazionali delle liste che appartengono a quella coalizione;

§         le coalizioni ammesse alla ripartizione dei seggi; sono ammesse alla ripartizione dei seggi le coalizioni la cui cifra elettorale nazionale sia pari o superiore al 10 per cento del totale nazionale dei voti validi e alle quali appartenga almeno una lista che abbia ottenuto almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

§         le liste ammesse alla ripartizione dei seggi: sono ammesse alla ripartizione dei seggi

-          le liste non coalizzate che hanno conseguito almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          le liste appartenenti ad una coalizione che ha ottenuto il 10 per cento dei voti validi e che hanno conseguito individualmente almeno il 2 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          le liste appartenenti ad una coalizione che non ha conseguito il 10 per cento dei voti validi ma che ottengono individualmente almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          per ciascuna coalizione ammessa al riparto dei seggi, la lista che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale inferiore alla soglia del 2 per cento;

-          le liste espressione di minoranze linguistiche riconosciute che hanno ottenuto almeno il 20 per cento del totale dei voti validi espressi nella rispettiva circoscrizione; sono espressione di minoranze linguistiche riconosciute le liste presentate in una soltanto delle circoscrizioni comprese in Regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela di tali minoranze linguistiche; tali liste, indipendentemente dalla cifra elettorale nazionale, sono ammesse alla ripartizione dei seggi singolarmente, o nell’ambito della coalizione cui abbiano dichiarato di appartenere;

§         la lista, o la coalizione di liste – tra quelle ammesse alla ripartizione dei seggi – che ha ottenuto la più alta cifra elettorale nazionale; questa lista, o coalizione di liste, è quella cui spetta l’assegnazione di almeno 340 seggi, mentre tutte le altre liste e coalizioni, si ripartiscono i restanti 277 seggi; questa lista, o coalizione di liste, è la lista o coalizione vincente;

Individuata la lista, o la coalizione di liste, vincente, le operazioni di ripartizione e assegnazione dei seggi comprendono tre principali fasi:

§         la ripartizione e assegnazione dei seggi in sede nazionale tra le liste non coalizzate e le coalizioni; queste operazioni si concludono con l’assegnazione dei seggi in sede nazionale complessivamente alle coalizioni e quindi, singolarmente, alle liste ammesse al riparto che vi appartengono; a questo fine l’Ufficio elettorale centrale nazionale:

-          effettua una prima ripartizione proporzionale dei 617 seggi fra coalizioni e liste non coalizzate ammesse; determina il quoziente elettorale nazionale e assegna i seggi sulla base dei quozienti interi e dei maggiori resti;

-          verifica se in base a questa prima ripartizione la lista o la coalizione “vincente” ha ottenuto almeno 340 seggi; in caso positivo procede direttamente a ripartire fra le liste in sede nazionale i seggi assegnati cumulativamente alle coalizioni e, successivamente, ad assegnare quei seggi nelle circoscrizioni;

-          in caso negativo, assegna 340 seggi alla lista vincente e ripartisce proporzionalmente i restanti 277 seggi fra le altre coalizioni e liste non coalizzate; anche in questo caso la formula di ripartizione è quella dei quozienti interi e dei maggiori resti;

-          utilizzando ancora il metodo proporzionale dei quozienti interi e dei maggiori resti ripartisce fra le liste che vi appartengono i 340 seggi assegnati alla coalizione vincente; i 340 seggi sono invece ripartiti direttamente fra le circoscrizioni se a vincere le elezioni sia stata una lista non coalizzata;

-          ripartisce infine tra le liste che vi appartengono i seggi eventualmente assegnati ad altra coalizione;

-          al termine di questa prima fase i 617 seggi risultano assegnati in sede nazionale cumulativamente alle coalizioni e singolarmente alle liste che vi appartengono.

§         l’assegnazione dei seggi nelle circoscrizioni alle coalizioni e alle liste non coalizzate; queste operazioni sono anch’esse sostanzialmente proporzionali e sono dirette a far si che i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione in base alla popolazione residente, siano ripartiti fra le coalizioni e le liste non coalizzate in base al numero di voti che ciascuna di esse ha ottenuto nella circoscrizione e – se attribuito – in base al rapporto proporzionale stabilito dal premio di maggioranza. Al termine di queste operazioni la somma dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni a ciascuna coalizione e liste non coalizzata dovrà essere uguale al totale dei seggi ad esse spettanti secondo la ripartizione effettuata in sede nazionale e, contestualmente, la somma dei seggi assegnati a tutte le coalizioni e liste non coalizzate in ciascuna circoscrizione dovrà essere uguale al numero di seggi assegnati alla circoscrizione in base alla popolazione residente;

§         la ripartizione fra le liste ammesse al riparto che vi appartengono dei seggi spettanti a ciascuna coalizione nelle circoscrizioni. La formula utilizza il quoziente circoscrizionale di coalizione; il numero dei seggi assegnati nella circoscrizione a ciascuna lista è proporzionale ai voti che essa ha ottenuto sia nei confronti delle altre liste della coalizione nella circoscrizione, sia nei confronti dei voti ottenuti dalla stessa lista nelle altre circoscrizioni. Il sistema di assegnazione prevede alcune modalità di correzione del risultato meramente proporzionale quando esso abbia assegnato seggi in eccedenza o in difetto a liste e circoscrizioni.

Al termine delle operazioni l’Ufficio elettorale nazionale comunica le assegnazioni agli uffici elettorali circoscrizionali e questi procedono alla proclamazione dei candidati, determinandoli in ordine di successione nella lista, sino a concorrenza del numero che a spetta a ciascuna di esse.

L’elezione del deputato del collegio uninominale della Valle d”Aosta

Come già ricordato, la circoscrizione Valle d”Aosta, ventisettesima circoscrizione, è costituita in collegio uninominale e il deputato ad essa spettante (in base alla popolazione residente) è eletto con il metodo del maggioritario semplice. La L. 270/2005 non ha modificato il sistema in vigore, come disciplinato, da ultimo, dalla L. 277/1993. Nella circoscrizione Valle d”Aosta concorrono infatti candidature individuali e non liste di candidati.

Il nuovo sistema di elezione del Senato della Repubblica

Anche il sistema di elezione del Senato si ispira alla medesima combinazione di maggioritario e proporzionale alla quale è informata l’elezione della Camera dei deputati: maggioritario per la competizione sul governo, proporzionale per la ripartizione dei seggi fra le liste. Con la fondamentale differenza però che la sommatoria di venti competizioni regionali per il governo – determinata dall’assegnazione del premio di maggioranza in ambito regionale – non garantisce una maggioranza in ambito nazionale.

Si è detto delle ragioni che hanno motivato il legislatore a trasformare la prima proposta di esito maggioritario nazionale in esito maggioritario regionale: in ossequio al principio della “elezione a base regionale” prescritto dall’art. 57 Cost., la garanzia di esito maggioritario che assegna ad una lista o ad una coalizione “vincente” almeno il 55 per cento dei seggi è stata circoscritta nella regione. Ne deriva che i premi di maggioranza ottenuti dalle coalizioni concorrenti nelle diverse regioni tendono a compensarsi.

Per il resto il sistema di elezione del Senato ricalca fedelmente quello della Camera; solo il sistema delle soglie – rese già naturalmente più alte dalla ridotta dimensione della circoscrizione – è ulteriormente innalzato dalla legge: 20 per cento per le coalizioni e 3 per cento per le sue liste, 8 per cento per le liste non coalizzate, nessun “recupero” di liste sotto soglia.

Da questo sistema restano fuori:

§         i sei senatori eletti nella circoscrizione Estero con sistema formalmente proporzionale, ma di fatto maggioritario perché uninominale o “binominale” nelle quattro ripartizioni;

§         i sette senatori spettanti alla Regione Trentino-Alto Adige i quali, in ossequio alla misura n. 111 del cosiddetto “Pacchetto” di autonomia, restano eletti con il sistema misto uninominale-maggioritario introdotto dalla legge n. 276 del 1993;

§         il senatore spettante alla Regione Valle d’Aosta, eletto con metodo maggioritario nell’unico collegio della Regione.

Il sistema delle liste e delle candidature, la struttura della scheda e le modalità di votazione ripetono quelle già viste per l’elezione della Camera. Le dichiarazioni di collegamento hanno, ovviamente, efficacia soltanto all’interno della regione.

Le medesime regole sono seguite anche per la determinazione della lista o della coalizione “vincente”: in ciascuna regione la lista, o la coalizione di liste, che ottiene il maggior numero di voti validi deve comunque ottenere almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione. Il numero di seggi che costituisce quella cifra è determinato con approssimazione della parte decimale all’unità superiore.

Analogamente a quanto avviene per la Camera, l’Ufficio elettorale regionale – determinate le cifre elettorali e verificate le soglie di accesso – procede ad una prima assegnazione dei seggi in base alla formula proporzionale dei quozienti interi e dei maggiori resti. Se da questa ripartizione la lista o la coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti nella regione ottiene anche un numero di seggi corrispondenti al 55 per cento determinato con approssimazione all’unità superiore, l’Ufficio prosegue ripartendo fra le liste i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione; in caso contrario assegna il 55 per cento dei seggi alla coalizione o lista maggioritaria e ripartisce fra le altre i seggi che restano.

Anche in questo caso le liste di candidati sono chiuse e le proclamazioni avvengono secondo la loro successione nella lista.

 


Iniziative costituzionali– Pena di morte (art. 27)

Il 4 giugno 2002 la Camera dei deputati ha approvato in prima deliberazione, ad amplissima maggioranza, il testo unificato di cinque proposte di legge costituzionale (A.C. 1436 ed abb., sottoscritte da esponenti di tutti i gruppi politici), nelle quali si prevedeva la soppressione, al quarto comma dell’art. 27 della Costituzione, dell’inciso “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Tale modifica avrebbe espunto dal testo costituzionale ogni residua ipotesi di introducibilità della pena capitale nel nostro ordinamento[28].

L’intendimento dichiarato dei proponenti era, per l’appunto, quello di adeguare la Costituzione all’abolizione totale della pena di morte già disposta dalla L. 589/1994[29], legge che ha soppresso ogni riferimento a tale pena nel codice penale militare di guerra; ciò allo scopo di rendere impossibile, anche per il futuro, la reintroduzione della pena capitale, sotto qualsiasi forma, nell’ordinamento giuridico[30].

Il testo approvato dalla Camera riprendeva quello già approvato in prima deliberazione, nel corso della XIII legislatura, dal medesimo ramo del Parlamento.

 

Nella seduta del 23 luglio 1997[31], infatti, la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera aveva approvato il testo unificato delle proposte di legge costituzionale A.C. 3484 e 3680, dal tenore analogo a quello del testo in commento. Successivamente, nella seduta del 14 aprile 1999, l’Assemblea di Montecitorio aveva proceduto alla prima approvazione. L’iter, tuttavia, non era stato ripreso al Senato.

 

Trasmesso al Senato della Repubblica, il progetto di legge è stato assegnato alla 1ª Commissione (Affari costituzionali) in sede referente (A.S. 1472), il quale ne ha concluso l’esame il 18 dicembre 2002, senza apportare modificazioni al testo.

Nella prima seduta dell’Assemblea dedicata al provvedimento – il 13 febbraio 2003 – il relatore on. Maffioli chiedeva tuttavia il rinvio in Commissione del disegno di legge, “avendo ricevuto diverse sollecitazioni ad un’ulteriore riflessione e ritenendo opportuno che una legge costituzionale venga approvata con un’ampia maggioranza”.

Nella seduta del 25 febbraio l’Assemblea accoglieva la richiesta del relatore.

Il successivo esame in Commissione si è concluso, nella seduta del 2 luglio 2003, con l’approvazione di un nuovo mandato al relatore a riferire favorevolmente all’Assemblea sul testo approvato dalla Camera. L’Assemblea del Senato, tuttavia, non ha avviato la discussione sul provvedimento prima della fine della legislatura.

 


Sistema elettorale – La questione dei seggi vacanti

Una legislatura senza plenum

Le votazioni del 13 maggio 2001 hanno consegnato alla Camera della XIV legislatura 11 componenti in meno rispetto ai 630 deputati che la Costituzione le assegna. Seggi che sarebbero spettati alla lista Forza Italia alla quale tuttavia, tra liste circoscrizionali e collegamenti nei collegi uninominali, sono mancati 13 candidati per completare l’assegnazione dei 62 seggi della quota proporzionale ai quali avrebbe avuto diritto in base ai risultati elettorali.

La strategia del ricorso alle “liste civetta”, già collaudata in abbozzo nelle elezioni del 1994 e un po’ più estesamente nelle elezioni del 1996, ha trovato grande applicazione nelle candidature per l’elezione del 2001; l’intento di evitare la penalizzazione dovuta al meccanismo dello scorporo ha suggerito a varie forze politiche di ridurre al minimo il numero dei candidati uninominali che dichiaravano il collegamento alle liste del partito di appartenenza.

In presenza di un grande numero di voti attribuito a queste liste – come nel caso della lista Forza Italia – i candidati nella quota proporzionale (il cui numero è al massimo un terzo di quello dei seggi proporzionali spettanti a ciascuna circoscrizione) non sono stati sufficienti a raccogliere il successo elettorale.

 

Per i 62 seggi ad essa spettanti, la lista Forza Italia disponeva di 56 candidati nelle liste circoscrizionali e di 4 nei collegi uninominali; questi ultimi collegati alla sua lista e non proclamati nella medesima circoscrizione. L’Ufficio elettorale nazionale, “ripescando” i possibili candidati in ogni circoscrizione, ha assegnato 11 dei 13 seggi ancora “scoperti’. È stato invece impossibile trovare candidati di Forza Italia per gli ultimi due seggi che le sarebbero ancora spettati.

L’Ufficio elettorale nazionale ha fatto perciò ricorso all’articolo 11 del regolamento di attuazione della legge elettorale (L. 277/1993), approvato con D.P.R. 5 gennaio 1994, n. 14. Questo disponeva che, se l’Ufficio non può procedere alla proclamazione per insufficienza di candidature in tutte le circoscrizioni, i seggi non assegnati sono ripartiti proporzionalmente fra tutte le altre liste ammesse alla ripartizione dei seggi. Esperito quel calcolo, i due seggi sono spettati a due liste appartenenti alla coalizione avversaria: la lista Democratici di sinistra e la lista La Margherita - Democrazia e libertà con Rutelli.

Gli 11 seggi assegnati sono venuti a mancare alla lista Forza Italia quando, effettuate le opzioni, la Giunta delle elezioni della Camera si è trovata nella impossibilità di indicare i candidati subentranti. Per questi si sono immediatamente contrapposte due tesi:

§         la prima – sostenuta dai gruppi parlamentari di minoranza – che riteneva doversi applicare ancora l’articolo 11 del Regolamento di attuazione, come aveva già fatto l’Ufficio elettorale nazionale,

§         la seconda – sostenuta in primo luogo dal gruppo parlamentare Forza Italia e insieme dagli altri gruppi di maggioranza – che quei seggi – per rispettare il voto espresso dagli elettori – avrebbero dovuto essere assegnati a candidati che, sebbene formalmente collegati ad una “lista civetta” (“Per l’abolizione dello scorporo e contro i ribaltoni”), di fatto erano (stati) espressi dalla coalizione Casa delle libertà ed erano “collegati” alle sue liste dal contrassegno unitario che questa aveva presentato per le candidature nei collegi uninominali.

Presupposto alla seconda tesi era, ovviamente, il riconoscimento della inapplicabilità e della illegittimità dell’articolo 11 del regolamento il quale – si è sostenuto – disciplinando una modalità di assegnazione dei seggi, aveva disposto con norma regolamentare in una materia, quella elettorale, per la quale l’articolo 48 della Costituzione pone una riserva di legge.

Una terza tesi – ed insieme autonoma questione pregiudiziale – era rappresentata dalla ipotesi che non si procedesse ad alcuna proclamazione per quei seggi, con l’implicita assunzione che la Camera dovesse ritenersi legittimamente e pienamente costituita pur restando vacanti (per l’intera legislatura) alcuni dei suoi seggi.

 

Sulla questione pregiudiziale – se cioè potesse ritenersi legittima una “composizione della Camera inferiore al plenum – la Giunta delle elezioni aveva rapidamente definito una risposta positiva. Ciò alla stregua della natura dell’organo, delle varie disposizioni che ne prevedono e ne disciplinano il funzionamento in mancanza del plenum ed alla stregua della giurisprudenza costituzionale che, affermando il “principio della necessità che la normativa elettorale sia idonea ad assicurare la rinnovazione dell’organo [...] non ha affermato esplicitamente che da questo possa farsi discendere il principio dell’effettivo e concreto conseguimento del plenum[32].

Non così per il merito della decisione. Non fu accolta alcuna delle due tesi e la decisione venne rimessa all’Assemblea; sia per trovare modo di definire una soluzione sulla quale far convergere l’intesa dei gruppi, sia perché nel decidere dei seggi non assegnati l’Assemblea potesse accompagnare quella scelta con un intervento legislativo inteso a disciplinare il caso per la restante parte della legislatura. Anche perché, nel frattempo, era deceduto un deputato eletto nella lista Forza Italia con il sistema proporzionale e non era stato possibile procedere alla sua sostituzione.

 

La questione si ripresentò nei medesimi termini in Assemblea; anche l’ammissibilità che la Camera potesse non conseguire il plenum fu nuovamente posta in discussione.

Sulle due tesi contrapposte e riaffermate in altrettanti ordini del giorno prevalse però – nella seduta del 15 luglio 2002 – la volontà di non assumere una decisione che, in entrambi i casi, sarebbe risultata in contrasto o con le norme vigenti, o con il voto espresso dagli elettori. L’Assemblea approvò un ordine del giorno – presentato dall’onorevole Filippo Mancuso – con il quale la Camera prendeva atto che “non sussistono le condizioni per assegnare i seggi corrispondenti ai deputati plurieletti della lista Forza Italia non attribuiti per insufficienza di candidature della medesima lista in tutte le circoscrizioni”.

Quella decisione chiuse la vicenda stabilendo che:

§         l’articolo 11 del regolamento (D.P.R. 14/1994) andava disapplicato perché in contrasto con la riserva di legge stabilita dall’articolo 48 della Costituzione e perché, nel merito, la sua applicazione avrebbe comportato l’assegnazione di parte di quei seggi a candidati della coalizione e delle liste di opposizione;

§         i 12 seggi non assegnati alla lista Forza Italia sarebbero rimasti vacanti per l’intera legislatura; il ricorso al criterio della “coalizione di fatto” avrebbe infatti violato le norme legislative in vigore, le quali consentivano di “recuperare” soltanto candidati uninominali “formalmente” collegati con la lista in questione;

§         la decisione di disapplicare l’articolo 11 del regolamento non avrebbe però comportato la revoca delle due proclamazioni alle quali aveva proceduto l’Ufficio elettorale nazionale in forza di quella norma: quei deputati restarono confermati;

§         la Camera riaffermava la “piena legittimità costituzionale della propria composizione” in un numero inferiore al plenum previsto dall’articolo 56 della Costituzione.

La nuova disciplina per la copertura dei seggi vacanti

La decisione di non procedere alla assegnazione dei 12 seggi rimasti vacanti per insufficienza delle candidature lasciava irrisolta la questione per il futuro; quale cioè potesse essere la “regola” per procedere al subentro nei seggi che, eventualmente, si sarebbero resi vacanti tra i deputati eletti nella lista Forza Italia e, più in generale, in ogni lista che si fosse trovata nelle medesime condizioni.

A questa eventualità il Parlamento ha inteso dare una risposta con la legge 4 aprile 2005, n. 47, Modifiche agli articoli 83, 84 e 86 del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, in materia di attribuzione dei seggi nell’elezione della camera dei deputati. Sull’impianto immutato della disciplina con la quale si erano svolte le elezioni dell’aprile 2001 – condizione perché la nuova disciplina potesse operare anche nella legislatura in corso – quella legge ha inserito nuove disposizioni che consentono l’identificazione di “coalizioni” attraverso il contrassegno che contraddistingue i candidati nei collegi uninominali. Le nuove disposizioni integrano la disciplina di assegnazione dei seggi ed operano in via residuale quando – in presenza di seggi da assegnare ad una lista – questa abbia esaurito le candidature identificate dalla disciplina del “collegamento”.

L’innovazione – ora abrogata insieme alla restante disciplina del sistema dei collegi uninominali introdotto dalle leggi 276 e 277 del 1993 – disponeva che se al termine delle assegnazioni di seggi secondo la disciplina del collegamento fossero residuati ancora seggi da attribuire ad una lista carente di candidature, quei seggi – nelle circoscrizioni nelle quali si erano determinate le carenze – sarebbero stati assegnati a candidati non proclamati nei collegi uninominali appartenenti al gruppo politico organizzato di cui faceva parte la lista. Per identificare il gruppo politico organizzato ed i candidati che vi appartenevano si sarebbe fatto ricorso al contrassegno comune con il quale quei candidati si erano presentati nei collegi uninominali. A loro volta le liste proporzionali appartenenti a quel gruppo politico sarebbero state identificate dal collegamento dichiarato con quella lista da almeno uno dei candidati uninominali presentatisi con il contrassegno comune.

 


Sistema elettorale – La revisione dei collegi uninominali

Le elezioni dell’aprile 2001 non avevano tenuto conto della nuova disciplina costituzionale sul diritto di voto degli italiani all’estero introdotta, al termine della XIII legislatura, con le modifiche apportate agli articoli 48, 56 e 57 della Costituzione dalle leggi costituzionali 17 Gennaio 2000, n. 1, Modifica all’articolo 48 della Costituzione concernente l’istituzione della circoscrizione Estero per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero, e 23 Gennaio 2001, n. 1, Modifiche agli articoli 56 e 57 della Costituzione concernenti il numero di deputati e senatori in rappresentanza degli italiani all’estero.

Una disposizione transitoria recata dalla L.Cost. 1/2001, prevedeva che sino a quando non fosse entrata in vigore la legge ordinaria che avrebbe dovuto stabilire le modalità di attribuzione dei seggi assegnati alla circoscrizione estero, avrebbe continuato ad “applicarsi la disciplina costituzionale antecedente. Nulla”, recitava quel testo, “è modificato nel sistema vigente e non si procede all’elezione dei deputati della Circoscrizione estero”.

Tuttavia le leggi n. 276 e 277 del 1993 stabilivano che, tra le altre cause, occorreva procedere alla revisione delle circoscrizioni dei collegi uninominali:

§         quando fosse stato modificato il numero dei parlamentari stabilito dalla Costituzione;

§         quando fosse stata introdotta una “nuova disciplina sull’esercizio del voto da parte degli italiani all’estero”;

§         dopo ogni censimento generale della popolazione;

§         quando la Commissione ne avvertisse la necessità, perché le modifiche intervenute in uno o più dei parametri stabiliti dai criteri direttivi avessero reso i collegi non più rispondentialle indicazioni che quelle stesse leggi offrivano.

Per questa incombenza i Presidenti delle Camere avevano nominato i componenti della Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali prevista dall’art. 7, co. 6, della legge 4 agosto 1993, n. 277 e dall’art. 7, co. 4, della legge 4 agosto 1993, n. 276. A quella Commissione le due leggi affidano il compito di formulare, “le indicazioni per la revisione dei collegi”. Indicazioni intese a conservare, o ripristinare a seguito dei cambiamenti intervenuti, il rispetto dei criteri che esse hanno stabilito per la distribuzione dei seggi e la formazione dei collegi uninominali. La Commissione “riferisce ai Presidenti delle Camere”.

Una causa immediata di revisione si è determinata quando sulla Gazzetta ufficiale del 7 aprile 2003, supplemento ordinario n. 54, è stato pubblicato il DPCM 2 aprile 2003, Popolazione legale della Repubblica in base al censimento del 21 ottobre 2001. Come ricordato avanti, la determinazione della “nuova” popolazione legale è causa di revisione del numero e delle circoscrizioni dei collegi uninominali.

A questa si è aggiunta la disciplina “applicativa” del voto degli italiani all’estero. All’inizio della XIV legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 459 del 2001 (v. schedaElezioni – Voto degli italiani all’estero) che determina le modalità di attribuzione dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero. Senza intervenire sui due testi unici che disciplinano l’elezione dei deputati e dei senatori assegnati alle circoscrizioni del territorio nazionale, quella legge stabilisce che – nelle prime elezioni successive alla sua entrata in vigore – i seggi assegnati alla circoscrizione Estero sono sottratti a quelli da attribuire con metodo proporzionale sul territorio nazionale, “fermi restando i collegi uninominali di ciascuna circoscrizione (regione) già definiti in applicazione della legge elettorale vigente” (così l’articolo 22 di questa legge).

Per definire la sua proposta di revisione dei collegi uninominali la Commissione ha avanzato alcuni criteri interpretativi delle disposizioni che il legislatore aveva approvato in successione, senza offrire una lettura univoca del loro combinato disposto. In particolare, per l’articolo 22 della legge n. 459 del 2001, il vincolo a “tenere fermi” i collegi uninominali esistenti, il rapporto fra numero dei collegi uninominali e seggi proporzionali da assegnare a (e in) ciascuna circoscrizione e la banda di oscillazione della popolazione stabiliti dalle leggi 276 e 277 del 1993.

La proposta di interpretazione del citato articolo 22 e gli altri criteri per pervenire alla revisione dei collegi uninominali sono stati oggetto di comunicazione del Presidente della Commissione per la revisione, prof. Luigi Biggeri, ai Presidenti delle Camere (con lettere del dicembre 2003 e del maggio 2005) e di comunicazione, ancora del prof. Biggeri e dell’intera Commissione, alla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, quest’ultima in una audizione svoltasi il 26 febbraio 2004.

La Commissione Affari costituzionali della Camera, a sua volta, ha proseguito l’istruttoria sui criteri per la revisione dei collegi uninominali sia ascoltando in merito le comunicazioni del ministro dell’Interno on. Pisanu (4 maggio 2005), sia dibattendo del medesimo argomento, ancora con il ministro dell’Interno, nel corso dell’iter di conversione del decreto-legge 26 aprile 2005, n. 64, Disposizioni urgenti per la ripartizione di seggi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (18 maggio 2005).

Si era allora però (maggio 2005) già in fase avanzata della legislatura e ad un punto anch’esso avanzato, ma di sostanziale stallo, del lungo percorso delle proposte di revisione delle leggi elettorali di Camera e Senato.

Una eventuale e profonda revisione delle leggi elettorali avrebbe potuto rendere inattuale la questione dei collegi uninominali ma, in ogni caso, se nel frattempo si fosse dovuto procedere allo scioglimento delle Camere ed a nuove elezioni, la combinazione degli effetti della circoscrizione Estero e della nuova distribuzione della popolazione nelle circoscrizioni rendevano incerta la disciplina da applicare alla individuazione dei seggi da assegnare nei collegi uninominali e dei seggi da assegnare con metodo proporzionale. In questo nuovo contesto, infatti, gli articoli 57 e 56 della Costituzione facevano si che, rispetto ai seggi assegnati nel 2001, sia alla Camera, sia al Senato alcune circoscrizioni avrebbero “perso” uno o due seggi ed altre ne avrebbero acquistato uno. Con evidenti incertezze circa le “regole” per effettuare la ripartizione fra quota uninominale e quota proporzionale.

Per rendere certa quella disciplina ed indubitabile la possibilità di svolgere nuove elezioni qualora il Presidente della Repubblica avesse sciolto le Camere, il Governo emanò il già ricordato D.L. 64/2005. Questo stabiliva che, ferma la necessità di procedere alla revisione dei collegi uninominali, in caso di elezioni anticipate, il numero dei seggi proporzionali spettanti a ciascuna circoscrizione sarebbe stato determinato sottraendo il numero dei collegi uninominali esistenti dal numero dei seggi spettanti a ciascuna circoscrizione (Camera o Senato) ai sensi degli articoli 56 e 57 della Costituzione. Questa scelta permetteva di “assorbire” nei seggi spettanti alla quota proporzionale le variazioni di seggi in diminuzione o in aumento che si erano determinate in molte circoscrizioni a causa delle variazioni della popolazione e dei seggi sottratti dalla circoscrizione Estero. Soltanto per la circoscrizione Molise, alla Camera, alla quale sarebbero comunque spettati soltanto tre seggi, riduceva il numero dei collegi uninominali da tre a due – adottando anche per la Camera i due collegi del Senato – in modo da lasciare a quella circoscrizione la possibilità di eleggere un deputato in quota proporzionale.

La legge di conversione – legge 25 giugno 2005, n. 110, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 26 aprile 2005, n. 64, recante disposizioni urgenti per la ripartizione di seggi per l” elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica – ha limitato l’efficacia di quelle disposizioni al 30 settembre 2005. La scadenza di quel termine intervenne però quando era in fase avanzata l’esame della nuova legge elettorale che avrebbe abbandonato i collegi uninominali e introdotto un sistema di elezione proporzionale con esito maggioritario.

Anche la Relazione conclusiva dell’attività svolta dalla Commissione per la verifica e la revisione dei collegi elettorali (Doc. XXVII, n. 21) è intervenuta il 17 ottobre 2005, quando la maggioranza parlamentare – e con essa il Governo – avevano già avviato – per il voto che avrebbe eletto il Parlamento della XV legislatura – il superamento del sistema introdotto dalle leggi 276 e 277 del 1993.

 


Sistema elettorale – La legge n. 270 del 2005

I tentativi di “correzione” della legge elettorale (c.d. “Mattarellum”)

La vicenda dei 12 seggi non assegnati (v. scheda Sistema elettorale – La questione dei seggi vacanti), le critiche rivolte da molte parti alla disciplina dello “scorporo” e al ricorso alle “liste civetta”, l’osservazione che molti elettori avevano utilizzato il voto disgiunto fra proporzionale e maggioritario, a danno di quest’ultimo perché, probabilmente, non avevano trovato nella scheda del voto uninominale il contrassegno della propria lista ed, infine, le aspirazioni di taluni gruppi ad aumentare il numero dei seggi assegnati con il metodo proporzionale, hanno fatto si che, sin dall’inizio della XIV legislatura, si manifestasse l’esigenza di “correggere” la legge elettorale vigente.

Sulle due principali questioni sono state avanzate molte proposte emendative con riguardo:

§         alla disciplina dello scorporo, per rendere inefficace il ricorso alle “liste civetta”;

-          alcune proposte erano intese a rendere obbligatorio (non evitabile) lo scorporo, introducendo il cosiddetto “scorporo di coalizione” (A.C. 2620, 3304, 5613, 5908). Una articolata disciplina della presentazione delle liste e delle dichiarazioni di collegamento avrebbe consentito agli uffici elettorali di dichiarare il collegamento d’ufficio ed operare lo scorporo dei voti anche quando i presentatori di liste e candidature avessero reso dichiarazioni elusive;

-          altre proposte, invece, tendevano a cancellare lo scorporo e consentire che in sede proporzionale (sia alla Camera, sia al Senato) le liste (o i raggruppamenti di candidati) potessero concorrere con tutti i voti ottenuti (C. 2712, 3560);

§         alla scheda ed alle modalità di espressione del voto;

-          intese a consentire che nella scheda per la votazione uninominale alla Camera e nella scheda per il voto al Senato, potessero comparire i contrassegni delle liste proporzionali in numero tale da consentire la “presenza” visibile di tutte le liste partecipanti alla coalizione (delle principali, almeno) (A.C. n. 5651, n. 5652). In queste, una proposta era intesa a unificare, per la Camera, in un’unica scheda, voto uninominale e proporzionale per consentire all’elettore di votare in ogni caso “la propria lista” rendendo questo voto efficace anche ai fini della scelta del candidato della coalizione nel collegio uninominale;

La terza linea di intervento – quella intesa a modificare il rapporto del voto tra maggioritario e proporzionale in favore di quest’ultimo – pur presente nel dibattito politico che accompagnava le proposte di revisione, non era stata tradotta in una proposta di legge da abbinare nell’esame in Commissione.

Le prime proposte di intervento sulle leggi elettorali – intese ad impedire che in futuro si potesse ricorrere nuovamente alle liste civetta – furono presentate nell’aprile del 2002 ma la Commissione ne avviò concretamente l’esame – di queste e delle altre sopravvenute – nel marzo 2005, ad un anno dalla scadenza della legislatura.

 

Al termine di una prima fase del dibattito, fase nella quale la Commissione tentava di definire l’ambito e l’ampiezza delle modifiche da apportare alle due leggi elettorali, il relatore presenta, il 16 giugno 2005, una proposta di testo unificato composto di otto articoli che concernono:

§         l’abolizione dello scorporo nel computo dei voti proporzionali alla Camera e nell’assegnazione dei seggi con metodo proporzionale al Senato. Scartata l’opzione contrapposta – quella intesa a rendere “inevitabile” lo scorporo – la proposta del relatore elimina uno dei tratti caratteristici del sistema introdotto dalle leggi elettorali del 1993: il principio di compensazione fra i due sistemi. Le liste ammesse alla ripartizione dei seggi proporzionali della Camera ed i gruppi di candidati al Senato, concorrendo ai seggi proporzionali con l’intera cifra elettorale, assorbono seggi con cui la disciplina dello scorporo – correttamente applicato – voleva compensare minoranze e liste minori per gli effetti maggioritari dei collegi uninominali; la minore “connessione” fra le due parti del sistema – maggioritario e proporzionale – induce anche ad aumentare da tre a quattro quinti il numero minimo delle candidature nei gruppi di candidati al Senato;

§         la facoltà di contraddistinguere con più contrassegni – fino al numero di otto – le candidature nei collegi uninominali alla Camera ed al Senato. Alla Camera restano le due schede ed il possibile voto disgiunto, ma l’elettore può trovare il contrassegno della lista favorita accanto al nome del candidato uninominale. Al Senato i contrassegni trasformano il “gruppo di candidati” in gruppo di partiti. A questa innovazione si connette l’altra, che consente all’elettore di tracciare nella scheda più segni su più contrassegni, purché del medesimo candidato e all’interno del rettangolo che identifica quella candidatura.

Pochi altri articoli propongono modifiche, non di sistema, alla presentazione delle candidature e alla disciplina dei reati elettorali.

Gli emendamenti presentati il 23 giugno al testo unificato ripetevano in gran parte le proposte iniziali, con pochi ulteriori temi: le commissioni elettorali comunali e la nomina degli scrutatori, la disciplina delle sottoscrizioni di liste e candidature, disposizioni speciali per le liste presentate da minoranze linguistiche, la disciplina dei simboli e dei contrassegni, lo spoglio delle schede e la redazione dei verbali. Il dibattito restò interlocutorio sino alla chiusura estiva.

Alla ripresa dei lavori, un rappresentante del gruppo UDC chiede la riapertura del termine per la presentazione di emendamenti al testo unificato; un termine breve, fissato al 13 settembre.

 

Tra gli emendamenti annunciati in Commissione nella seduta del 13 settembre 2005, ve ne sono due a firma congiunta dei rappresentanti dei gruppi di maggioranza che propongono l’abbandono del sistema misto introdotto dalle leggi del 1993 e l’adozione di un sistema interamente proporzionale, con liste circoscrizionali e assegnazione dei seggi nel collegio unico nazionale, sistema che – affiancato da soglie di sbarramento e premio di maggioranza – garantisce l’esito maggioritario della votazione. Questi due emendamenti – modificati ed integrati per taluni aspetti anche significativi – vanno a formare il nuovo testo base che sostituisce il precedente e diviene il nucleo della nuova legge per l’elezione della Camera e del Senato.

Liste e coalizioni di liste concorrono nelle ventisei circoscrizioni esistenti, ma il computo dei voti, la determinazione delle soglie di accesso, l’assegnazione dei seggi alle coalizioni e alle liste, l’attribuzione del premio di maggioranza sono concentrati al livello nazionale.

 

In una prima formulazione del testo, sia alla Camera, sia al Senato, coalizione o lista vincente sarebbe stata – separatamente per ciascun ramo - quella che avesse ottenuto il maggior numero di seggi dalla ripartizione proporzionale effettuata in sede nazionale, con il metodo dei quozienti naturali interi e dei maggiori resti. Se questa ripartizione non avesse garantito alle due coalizioni o liste vincenti, rispettivamente, almeno 340 seggi della Camera e 170 del Senato, le assegnazioni sarebbero state integrate a quelle cifre.

Nel corso del dibattito, accanto a numerose variazioni ed integrazioni di carattere prevalentemente “tecnico”, il testo iniziale subì due modifiche di rilievo: il riferimento al maggior numero di voti ottenuti, in luogo dei seggi, come parametro per determinare la coalizione o lista vincente cui assegnare il premio di maggioranza e, per l’elezione del Senato, l’abbandono della maggioranza “nazionale”, in favore di maggioranze e relativi premi determinati separatamente in ciascuna regione.

Quest’ultima modifica fu il risultato di un dibattito politico e dottrinale che aveva come obiettivo sia una corretta interpretazione del vincolo della elezione “a base regionale” posto per il Senato dall’articolo 57 della Costituzione, sia la necessità di adottare una scelta che non corresse il rischio di incorrere in una censura di incostituzionalità, eventualmente, in sede di promulgazione da parte del Capo dello Stato o, magari, drammaticamente, ad elezioni avvenute, in sede di giudizio di costituzionalità, se qualche “maglia procedurale” avesse offerto la via dell’azione.

Il testo, proposto, modificato ed approvato dalla maggioranza fu avversato e contrastato, con il ricorso all’ostruzionismo, dai gruppi di opposizione che contestavano alla maggioranza la legittimità – politica, in primo luogo, ma per qualche aspetto anche istituzionale – di modificare radicalmente il sistema di elezione delle Camere al termine della legislatura quando, di fatto, la campagna elettorale era già iniziata.

 

Il 13 ottobre 2005 il testo fu approvato dall’Assemblea della Camera, il 14 dicembre definitivamente dal Senato, il 30 dicembre pubblicato in Gazzetta ufficiale: legge 21 dicembre 2005, n. 270, Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Il nuovo sistema di elezione della Camera dei deputati

Profili generali

Il sistema introdotto dalla L. 270/2005 per l’elezione della Camera dei deputati è, di fatto, un sistema maggioritario, o “eventualmente maggioritario”, o ancora, più esattamente, ad esito maggioritario, nel quale i seggi spettanti a ciascuna lista e coalizione di liste sono assegnati con metodo proporzionale. La competizione maggiore, quella “per il governo”, tra coalizioni o liste alternative, avviene in base al sistema maggioritario per eccellenza: il maggioritario semplice; proporzionale è, invece, la competizione tra liste, quella per il numero dei seggi spettanti a ciascuna di esse, sia che esse appartengano alla coalizione vincente, sia che si spartiscano i seggi spettanti alle minoranze. Alla assegnazione dei 617 seggi delle circoscrizioni del territorio nazionale concorrono, in un collegio unico nazionale, liste e coalizioni di liste presentate nelle ventisei circoscrizioni istituite dalla L. 277/1993.

Sistemi elettorali diversi sono stabiliti per la circoscrizione Valle d”Aosta (un deputato eletto con sistema maggioritario nel collegio uninominale) e per la circoscrizione Estero (dodici deputati eletti, con metodo proporzionale in quattro “ripartizioni” (v. scheda Elezioni – Voto degli italiani all’estero).

Secondo la formula del “maggioritario semplice”, nelle ventisei circoscrizioni del territorio nazionale la vittoria è assegnata alla lista, o alla coalizione di liste, che ottiene il maggior numero di voti validi in sede nazionale. Come è stato detto ripetutamente nel corso del dibattito che ha accompagnato l’approvazione della legge, vince e governa – dacché il sistema associa, di fatto, esito elettorale e designazione al governo – la lista o la coalizione di liste che ottiene anche un solo voto in più delle liste o coalizioni concorrenti.

La “vittoria delle elezioni” ha come conseguenza l’assegnazione di almeno 340 seggi; il 55 per cento degli eletti sul territorio nazionale. La lista o la coalizione vincente può ottenerli in forza dei voti conseguiti, se quel numero di seggi, o ancora più, le spettano secondo una prima assegnazione effettuata con metodo proporzionale; li ottiene invece per assegnazione diretta se la ripartizione proporzionale gliene avrebbe assegnato un numero inferiore. In questo caso il “premio di maggioranza” consiste nel numero di seggi necessario a colmare il divario tra i seggi che la lista o coalizione vincente otterrebbe secondo la ripartizione proporzionale e i 340 seggi che le sono comunque assegnati.

Un articolato sistema di soglie di accesso alla ripartizione dei seggi accompagna entrambi i criteri di assegnazione; più quello maggioritario che non quello proporzionale. Una lista non coalizzata accede alla ripartizione dei seggi soltanto se consegue almeno il 4 per cento dei voti validi in sede nazionale: un numero di voti che si aggira, da ultimo, intorno al milione e quattrocentomila voti. Una lista coalizzata deve ottenere solo il 2 per cento; è ammessa al riparto dei seggi, inoltre, una lista per ciascuna coalizione che non abbia raggiunto la soglia (quella che ha ottenuto il miglior risultato)[33]. Queste soglie scoraggiano, quindi, le liste minori dal concorrere al di fuori di una coalizione.

Per le coalizioni è posta una soglia “composita”: almeno 10 per cento del totale nazionale dei voti validi e, al suo interno, almeno una lista che superi la soglia individuale di lista (4 per cento). Questo doppio sbarramento, funzionale al criterio maggioritario di assegnazione dei seggi, scoraggia la formazione di coalizioni che, altrimenti, potrebbero raccogliere e favorire la polverizzazione del voto.

Un terzo elemento caratterizza il sistema: le liste bloccate e, corrispettivamente, l’assenza del voto di preferenza. I candidati sono proclamati in ordine di successione nella lista e queste sono decise e presentate dai responsabili nazionali dei partiti o da loro delegati. Inoltre, l’assenza di un limite alla candidatura in più circoscrizioni (sino a ventisei) consegna molta parte delle proclamazioni alla successione delle opzioni da parte dei candidati che precedono.

In termini sommari il sistema di elezione e la formula di assegnazione dei seggi possono essere riassunti come segue.

Liste e candidature

Alla assegnazione dei seggi concorrono liste di candidati presentate nelle singole circoscrizioni; non vi è limite o vincolo al numero delle circoscrizioni in cui la lista deve essere presente con propri candidati; ciascuna lista è composta da un elenco di candidati, in numero non inferiore a un terzo e non superiore al numero dei seggi assegnati alla circoscrizione.

Ciascuna lista è contraddistinta da un contrassegno presentato in sede nazionale. Ai fini della assegnazione dei seggi – con effetto, in particolare, sul computo della cifra elettorale nazionale – le liste possono dichiarare di collegarsi in “coalizione”. Tali dichiarazioni di collegamento devono essere reciproche e hanno effetto per tutte le liste aventi il medesimo contrassegno. Le coalizioni – che non hanno un proprio contrassegno – concorrono alla assegnazione del premio di maggioranza (rectius, alla vittoria delle elezioni) con il totale dei voti validi ottenuti da tutte le liste che la compongono. Non vi è obbligo a che le liste collegate siano tutte presenti in tutte le circoscrizioni. Una volta accertata la regolarità delle dichiarazioni, l’elenco dei collegamenti è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

I partiti o gruppi politici organizzati “che si candidano a governare” devono depositare il programma elettorale, nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica o della coalizione.

 

È una formula la cui interpretazione non appare univoca Sembrerebbe che la legge preveda che alle elezioni possano concorrere partiti o gruppi politici che non si candidano a governare e che, quindi, non sarebbero tenuti alla presentazione del programma e alla indicazione del “capo”. In questo caso, non si vedrebbe però in forza di quale principio costituzionale, in caso di successo elettorale, quei partiti o forze politiche (o, soltanto, i deputati ed i senatori eletti in quella lista) potrebbero essere esclusi dal governo. Più certa e prescrittiva è invece la seconda disposizione: se collegati in coalizione, quei partiti e quelle forze politiche depositano un unico programma elettorale, nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione.

 

Nessun candidato può essere incluso in più liste aventi diverso contrassegno, né essere candidato, contestualmente, alla Camera ed al Senato; non vi è limite invece alla possibilità di essere inclusi in liste presentate in più circoscrizioni, purché aventi il medesimo contrassegno.

La scheda e l’espressione del voto

Nella scheda sono raggruppati in successione, su di un’unica riga, i contrassegni delle liste appartenenti alla medesima coalizione e, singolarmente su una propria riga, il contrassegno di ciascuna lista non coalizzata; un rettangolo ricomprende al suo interno tutti i contrassegni di ciascuna riga; le coalizioni, dunque, non sono identificate da un proprio contrassegno ma dal rettangolo che comprende i contrassegni delle liste che ne fanno parte; la successione di liste non coalizzate e di coalizioni nelle righe della scheda dall’alto in basso è stabilita per sorteggio in ciascuna circoscrizione; analogamente, in ciascuna circoscrizione è stabilita la successione, da sinistra a destra, dei contrassegni di ciascuna coalizione.

Non sono presenti altre indicazioni; non dunque le candidature, l’indicazione del capo unico della forza politica o coalizione, il nome della coalizione stessa.

L’elettore vota tracciando un unico segno sul contrassegno della lista da lui prescelta; la scheda è nulla, tra l’altro, se l’elettore vota due o più contrassegni, pur se appartenenti alla medesima coalizione; non è prevista l’espressione del voto di preferenza.

La trasformazione dei voti in seggi

La ripartizione e l’assegnazione dei seggi alle coalizioni ed alle liste è fatta direttamente dall’Ufficio centrale nazionale; questi provvede anche alla distribuzione nelle circoscrizioni dei seggi assegnati a ciascuna lista. Gli uffici centrali circoscrizionali si limitano a determinare e trasmettere all’Ufficio centrale nazionale il totale dei voti validi ottenuti da ciascuna lista ed il totale dei voti validi complessivamente espressi nella circoscrizione. Al termine delle operazioni di ripartizione e assegnazione dei seggi gli uffici elettorali circoscrizionali procedono alla proclamazione degli eletti secondo le indicazioni dell’Ufficio centrale nazionale.

Gli uffici elettorali circoscrizionali determinano e comunicano all’Ufficio elettorale centrale nazionale la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista; essa è costituita dalla somma dei voti validi ottenuti dalla lista nelle sezioni della circoscrizione.

L’Ufficio elettorale centrale nazionale determina:

§         la cifra elettorale nazionale di ciascuna lista; essa è data dalla somma delle cifre elettorali circoscrizionali di quella lista;

§         la cifra elettorale nazionale di ciascuna coalizione; essa è data dalla somma delle cifre elettorali nazionali delle liste che appartengono a quella coalizione;

§         le coalizioni ammesse alla ripartizione dei seggi; sono ammesse alla ripartizione dei seggi le coalizioni la cui cifra elettorale nazionale sia pari o superiore al 10 per cento del totale nazionale dei voti validi e alle quali appartenga almeno una lista che abbia ottenuto almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

§         le liste ammesse alla ripartizione dei seggi: sono ammesse alla ripartizione dei seggi

-          le liste non coalizzate che hanno conseguito almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          le liste appartenenti ad una coalizione che ha ottenuto il 10 per cento dei voti validi e che hanno conseguito individualmente almeno il 2 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          le liste appartenenti ad una coalizione che non ha conseguito il 10 per cento dei voti validi ma che ottengono individualmente almeno il 4 per cento del totale nazionale dei voti validi;

-          per ciascuna coalizione ammessa al riparto dei seggi, la lista che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale inferiore alla soglia del 2 per cento;

-          le liste espressione di minoranze linguistiche riconosciute che hanno ottenuto almeno il 20 per cento del totale dei voti validi espressi nella rispettiva circoscrizione; sono espressione di minoranze linguistiche riconosciute le liste presentate in una soltanto delle circoscrizioni comprese in Regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela di tali minoranze linguistiche; tali liste, indipendentemente dalla cifra elettorale nazionale, sono ammesse alla ripartizione dei seggi singolarmente, o nell’ambito della coalizione cui abbiano dichiarato di appartenere;

§         la lista, o la coalizione di liste – tra quelle ammesse alla ripartizione dei seggi – che ha ottenuto la più alta cifra elettorale nazionale; questa lista, o coalizione di liste, è quella cui spetta l’assegnazione di almeno 340 seggi, mentre tutte le altre liste e coalizioni, si ripartiscono i restanti 277 seggi; questa lista, o coalizione di liste, è la lista o coalizione vincente;

Individuata la lista, o la coalizione di liste, vincente, le operazioni di ripartizione e assegnazione dei seggi comprendono tre principali fasi:

§         la ripartizione e assegnazione dei seggi in sede nazionale tra le liste non coalizzate e le coalizioni; queste operazioni si concludono con l’assegnazione dei seggi in sede nazionale complessivamente alle coalizioni e quindi, singolarmente, alle liste ammesse al riparto che vi appartengono; a questo fine l’Ufficio elettorale centrale nazionale:

-          effettua una prima ripartizione proporzionale dei 617 seggi fra coalizioni e liste non coalizzate ammesse; determina il quoziente elettorale nazionale e assegna i seggi sulla base dei quozienti interi e dei maggiori resti;

-          verifica se in base a questa prima ripartizione la lista o la coalizione “vincente” ha ottenuto almeno 340 seggi; in caso positivo procede direttamente a ripartire fra le liste in sede nazionale i seggi assegnati cumulativamente alle coalizioni e, successivamente, ad assegnare quei seggi nelle circoscrizioni;

-          in caso negativo, assegna 340 seggi alla lista vincente e ripartisce proporzionalmente i restanti 277 seggi fra le altre coalizioni e liste non coalizzate; anche in questo caso la formula di ripartizione è quella dei quozienti interi e dei maggiori resti;

-          utilizzando ancora il metodo proporzionale dei quozienti interi e dei maggiori resti ripartisce fra le liste che vi appartengono i 340 seggi assegnati alla coalizione vincente; i 340 seggi sono invece ripartiti direttamente fra le circoscrizioni se a vincere le elezioni sia stata una lista non coalizzata;

-          ripartisce infine tra le liste che vi appartengono i seggi eventualmente assegnati ad altra coalizione;

-          al termine di questa prima fase i 617 seggi risultano assegnati in sede nazionale cumulativamente alle coalizioni e singolarmente alle liste che vi appartengono.

§         l’assegnazione dei seggi nelle circoscrizioni alle coalizioni e alle liste non coalizzate; queste operazioni sono anch’esse sostanzialmente proporzionali e sono dirette a far si che i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione in base alla popolazione residente, siano ripartiti fra le coalizioni e le liste non coalizzate in base al numero di voti che ciascuna di esse ha ottenuto nella circoscrizione e – se attribuito – in base al rapporto proporzionale stabilito dal premio di maggioranza. Al termine di queste operazioni la somma dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni a ciascuna coalizione e liste non coalizzata dovrà essere uguale al totale dei seggi ad esse spettanti secondo la ripartizione effettuata in sede nazionale e, contestualmente, la somma dei seggi assegnati a tutte le coalizioni e liste non coalizzate in ciascuna circoscrizione dovrà essere uguale al numero di seggi assegnati alla circoscrizione in base alla popolazione residente;

§         la ripartizione fra le liste ammesse al riparto che vi appartengono dei seggi spettanti a ciascuna coalizione nelle circoscrizioni. La formula utilizza il quoziente circoscrizionale di coalizione; il numero dei seggi assegnati nella circoscrizione a ciascuna lista è proporzionale ai voti che essa ha ottenuto sia nei confronti delle altre liste della coalizione nella circoscrizione, sia nei confronti dei voti ottenuti dalla stessa lista nelle altre circoscrizioni. Il sistema di assegnazione prevede alcune modalità di correzione del risultato meramente proporzionale quando esso abbia assegnato seggi in eccedenza o in difetto a liste e circoscrizioni.

Al termine delle operazioni l’Ufficio elettorale nazionale comunica le assegnazioni agli uffici elettorali circoscrizionali e questi procedono alla proclamazione dei candidati, determinandoli in ordine di successione nella lista, sino a concorrenza del numero che a spetta a ciascuna di esse.

L’elezione del deputato del collegio uninominale della Valle d”Aosta

Come già ricordato, la circoscrizione Valle d”Aosta, ventisettesima circoscrizione, è costituita in collegio uninominale e il deputato ad essa spettante (in base alla popolazione residente) è eletto con il metodo del maggioritario semplice. La L. 270/2005 non ha modificato il sistema in vigore, come disciplinato, da ultimo, dalla L. 277/1993. Nella circoscrizione Valle d”Aosta concorrono infatti candidature individuali e non liste di candidati.

Il nuovo sistema di elezione del Senato della Repubblica

Anche il sistema di elezione del Senato si ispira alla medesima combinazione di maggioritario e proporzionale alla quale è informata l’elezione della Camera dei deputati: maggioritario per la competizione sul governo, proporzionale per la ripartizione dei seggi fra le liste. Con la fondamentale differenza però che la sommatoria di venti competizioni regionali per il governo – determinata dall’assegnazione del premio di maggioranza in ambito regionale – non garantisce una maggioranza in ambito nazionale.

Si è detto delle ragioni che hanno motivato il legislatore a trasformare la prima proposta di esito maggioritario nazionale in esito maggioritario regionale: in ossequio al principio della “elezione a base regionale” prescritto dall’art. 57 Cost., la garanzia di esito maggioritario che assegna ad una lista o ad una coalizione “vincente” almeno il 55 per cento dei seggi è stata circoscritta nella regione. Ne deriva che i premi di maggioranza ottenuti dalle coalizioni concorrenti nelle diverse regioni tendono a compensarsi.

Per il resto il sistema di elezione del Senato ricalca fedelmente quello della Camera; solo il sistema delle soglie – rese già naturalmente più alte dalla ridotta dimensione della circoscrizione – è ulteriormente innalzato dalla legge: 20 per cento per le coalizioni e 3 per cento per le sue liste, 8 per cento per le liste non coalizzate, nessun “recupero” di liste sotto soglia.

Da questo sistema restano fuori:

§         i sei senatori eletti nella circoscrizione Estero con sistema formalmente proporzionale, ma di fatto maggioritario perché uninominale o “binominale” nelle quattro ripartizioni;

§         i sette senatori spettanti alla Regione Trentino-Alto Adige i quali, in ossequio alla misura n. 111 del cosiddetto “Pacchetto” di autonomia, restano eletti con il sistema misto uninominale-maggioritario introdotto dalla legge n. 276 del 1993;

§         il senatore spettante alla Regione Valle d’Aosta, eletto con metodo maggioritario nell’unico collegio della Regione.

Il sistema delle liste e delle candidature, la struttura della scheda e le modalità di votazione ripetono quelle già viste per l’elezione della Camera. Le dichiarazioni di collegamento hanno, ovviamente, efficacia soltanto all’interno della regione.

Le medesime regole sono seguite anche per la determinazione della lista o della coalizione “vincente”: in ciascuna regione la lista, o la coalizione di liste, che ottiene il maggior numero di voti validi deve comunque ottenere almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione. Il numero di seggi che costituisce quella cifra è determinato con approssimazione della parte decimale all’unità superiore.

Analogamente a quanto avviene per la Camera, l’Ufficio elettorale regionale – determinate le cifre elettorali e verificate le soglie di accesso – procede ad una prima assegnazione dei seggi in base alla formula proporzionale dei quozienti interi e dei maggiori resti. Se da questa ripartizione la lista o la coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti nella regione ottiene anche un numero di seggi corrispondenti al 55 per cento determinato con approssimazione all’unità superiore, l’Ufficio prosegue ripartendo fra le liste i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione; in caso contrario assegna il 55 per cento dei seggi alla coalizione o lista maggioritaria e ripartisce fra le altre i seggi che restano.

Anche in questo caso le liste di candidati sono chiuse e le proclamazioni avvengono secondo la loro successione nella lista.

 


Elezioni – Voto degli italiani all’estero

A conclusione di un percorso intrapreso nella XI legislatura, due leggi di revisione costituzionale approvate nello scorcio finale della XIII legislatura (la L.Cost. 17 gennaio 2000, n. 1[34], di modifica dell’art. 48 Cost., e la L.Cost. 23 gennaio 2001, n. 1[35], di modifica degli articoli 56 e 57 Cost.), hanno attribuito ai cittadini italiani residenti all’estero il diritto di eleggere, nell’ambito di una circoscrizione Estero, sei senatori e dodici deputati.

 

La nuova disciplina costituzionale ha lasciato invariato il numero complessivo di componenti delle due Camere. Il numero dei seggi da distribuire nelle circoscrizioni nazionali – detratti i seggi da assegnare nella circoscrizione Estero – ne è risultato quindi ridotto e pari, rispettivamente, a 618 per la Camera e 309 al Senato.

L’art. 3 della L.Cost. n. 1 del 2001 ha demandato alla legge ordinaria il compito di stabilire contestualmente le modalità per l’attribuzione dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero e le modificazioni delle norme per l’elezione delle Camere conseguenti alla variazione del numero dei seggi assegnati nel territorio nazionale.

 

Nella XIV legislatura, con l’approvazione della L. 459/2001[36], cui è seguito il D.P.R. 104/2003[37], è stata attuata questa previsione costituzionale. La L. 459/2001 ha stabilito inoltre che, con le medesime modalità previste per le elezioni politiche, i cittadini italiani all’estero possano esprimere il proprio voto anche nei referendum abrogativi e per quelli costituzionali indetti rispettivamente sulla base dell’art. 75 e dell’art. 138 della Costituzione. Gli italiani all’estero hanno potuto in tal modo partecipare, votando nel Paese di residenza, alle consultazioni referendarie del 2003 e del 2005 e alle elezioni politiche.

 

La L. 459/2001 non ha inciso invece sulla partecipazione dei cittadini italiani residenti all’estero alle elezioni regionali e amministrative, in ordine alla quale resta ferma la normativa che consente, attraverso l’iscrizione all’AIRE[38], di prendere parte in Italia a tali consultazioni.

Elettorato attivo

Votano per l’elezione dei senatori e dei deputati da eleggere nella circoscrizione Estero i cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali dei cittadini italiani residenti all’estero.

La legge prevede che le liste degli elettori siano predisposte sulla base dell’elenco dei cittadini italiani residenti all’estero che il Governo deve realizzare (secondo le modalità dettate dal D.P.R. 104/2003, art. 5), unificando i dati dell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE, tenute dai comuni) e quelli degli schedari consolari (anch’essi contenenti i nominativi dei cittadini residenti all’estero); sui due elenchi si veda il successivo punto.

La legge consente tuttavia che gli elettori residenti all’estero possano anche esercitare, in occasione di ogni consultazione per l’elezione della Camera e del Senato, l’opzione per il voto in Italia. In questo caso i cittadini votano nel comune presso il quale sono iscritti come cittadini italiani all’estero.

I residenti all’estero sono iscritti in uno speciale elenco dell’anagrafe del comune presso il quale essi hanno avuto l’ultima residenza in Italia. Nel caso in cui tali cittadini non siano mai stati residenti in Italia, il comune che li registra come residenti all’estero è il comune di Roma.

Anche i cittadini cancellati dalle liste elettorali per irreperibilità possono votare, o all’estero, presentandosi presso i consolati, o in Italia, facendone richiesta all’ufficio elettorale del comune di origine. Essi possono presentarsi, entro l’11° giorno antecedente la data delle votazioni, all’ufficio consolare chiedendo di essere reiscritti nell’AIRE e di esercitare il voto per corrispondenza, oppure possono scegliere di votare in Italia purché presentino la relativa richiesta entro il 10° giorno successivo all’indizione delle votazioni.

Il Ministero dell’interno comunica al Ministero degli affari esteri, entro il 60° giorno antecedente la data delle votazioni in Italia, l’elenco provvisorio degli italiani residenti all’estero aventi diritto al voto.

L’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) e gli schedari consolari

L’AIRE è costituita presso i comuni di nascita o di ultima residenza del cittadino italiano trasferito all’estero o, nel caso di cittadini italiani nati all’estero, presso il comune di Roma. Un’anagrafe cumulativa dei dati contenuti presso i comuni è tenuta dal Ministero dell’interno. Oltre ai dati anagrafici, l’AIRE reca l’indicazione relativa all’iscrizione del cittadino nelle liste elettorali del comune di provenienza.

 

 

 

Sono iscritti all’AIRE:

§      i cittadini italiani che si sono trasferiti in modo permanente all’estero e che conseguentemente sono stati cancellati dall’anagrafe della popolazione residente (APR) nell’originario comune di residenza;

§      i cittadini italiani nati all’estero il cui atto di nascita sia stato registrato in Italia;

§      le persone residenti all’estero che acquisiscono la cittadinanza italiana;

§      i cittadini italiani per i quali la residenza all’estero possa essere accertata da un provvedimento dell’autorità giudiziaria;

§      i cittadini italiani nati e residenti all’estero, i cui ascendenti non sono nati, né sono mai stati residenti, in Italia.

L’AIRE viene aggiornata costantemente a seguito delle variazioni che intervengono nel tempo: gli ufficiali di anagrafe dei comuni che eseguono le iscrizioni e le cancellazioni hanno l’obbligo di darne tempestiva comunicazione al Ministero dell’interno, che le comunica a sua volta agli uffici consolari competenti.

I cittadini italiani che trasferiscono la loro residenza da un comune italiano all’estero devono dichiararlo all’ufficio consolare della circoscrizione di immigrazione entro 90 giorni dal trasferimento.

I cittadini italiani residenti all’estero che cambiano la residenza o l’abitazione devono farne dichiarazione entro 90 giorni all’ufficio consolare nella cui circoscrizione si trova la nuova residenza o la nuova abitazione.

Viene inoltre effettuata una rilevazione periodica dei cittadini italiani all’estero, che ha luogo contemporaneamente al censimento dei cittadini residenti in Italia.

Le cause di cancellazione dall’AIRE sono:

§      trasferimento dall’estero in Italia e conseguente iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente;

§      morte, compresa la morte presunta giudizialmente dichiarata;

§      irreperibilità presunta nei seguenti casi:

-      dopo che siano trascorsi cento anni dalla nascita;

-      dopo la effettuazione, con esito negativo, di due successive rilevazioni mediante censimento;

-      quando risulti inesistente l’indirizzo all’estero;

-      quando l’irreperibilità risulti dal ritorno, per mancato recapito e per due volte, della cartolina avviso spedita a tutti i residenti all’estero recante l’indicazione della data della votazione e le informazioni relative per l’esercizio del diritto di voto;

§      perdita della cittadinanza;

§      trasferimento nell’AIRE di un altro comune, pur mantenendo la residenza all’estero (in questo caso si tratta di una variazione, che comporta l’iscrizione nell’AIRE di un altro comune).

I cittadini cancellati dall’AIRE possono, in ogni momento, richiedere, con comunicazione rivolta al comune che ha provveduto alla cancellazione, recante l’indicazione delle proprie generalità e del luogo di residenza, di essere reiscritti nelle liste elettorali.

Gli schedari (anagrafi) consolari sono costituiti presso ogni ufficio consolare italiano all’estero. Nello schedario sono annotati: i dati anagrafici dei cittadini italiani residenti nella circoscrizione consolare; gli atti o fatti che producono o possono produrre la perdita della cittadinanza o dei diritti civili o una restrizione nell’esercizio degli stessi; ogni altro elemento utile per la tutela degli interessi del cittadino italiano residente all’estero (D.P.R. 200/1967, art. 67).

L’aggiornamento degli schedari è effettuato sulla base delle dichiarazioni che i cittadini italiani che trasferiscono la loro residenza all’estero, o che cambiano la loro residenza all’estero, sono tenuti a fare all’ufficio consolare di immigrazione entro 90 giorni dal trasferimento (L. 470/1988, art. 6).

Gli uffici consolari, scaduto il termine per la presentazione della dichiarazione volontaria e in assenza di quest’ultima, iscrivono d’ufficio nelle anagrafi consolari i cittadini che non abbiano presentato le dichiarazioni, ma dei quali gli stessi uffici consolari abbiano conoscenza attraverso i dati in loro possesso.

Il diritto di opzione per il voto in Italia

In alternativa al voto per corrispondenza, l’elettore residente all’estero può scegliere di esercitare il diritto di voto in Italia. In questo caso, l’elettore deve rientrare in Italia e votare per i candidati che si presentano nelle circoscrizioni del territorio nazionale in cui egli è iscritto, esprimendo il voto presso la sezione elettorale del comune nelle cui liste elettorali risulta iscritto come cittadino italiano all’estero. Se il cittadino non è mai stato residente in Italia, viene registrato, in qualità di residente all’estero, presso il comune di Roma.

L’elettore optante deve comunicare per iscritto, entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello previsto per la scadenza della legislatura, la sua intenzione di votare in Italia all’ufficio consolare operante nella circoscrizione consolare in cui risiede. In caso di scioglimento anticipato, l’elettore può esercitare l’opzione entro il 10° giorno successivo all’indizione delle elezioni. L’opzione per il voto in Italia può essere esercitata dall’elettore in occasione di ogni consultazione per l’elezione della Camera e del Senato.

L’opzione è valida soltanto per la votazione per la quale è effettuata. La comunicazione dell’opzione, redatta su carta libera, può essere consegnata direttamente, oppure inviata per posta, all’ufficio consolare. In ogni caso la comunicazione dell’opzione deve pervenire all’ufficio consolare non oltre il 10° giorno successivo all’indizione delle votazioni.

La richiesta di opzione, per essere valida, deve contenere i dati anagrafici, il luogo di residenza dell’elettore e la sua firma; qualora essa non riporti l’indicazione della consultazione per la quale l’elettore intende esercitare l’opzione, si intende esercitata per la prima consultazione elettorale o referendaria successiva alla data in cui è redatta.

La richiesta di opzione può essere revocata dall’interessato con le stesse modalità ed entro i termini previsti per il suo esercizio.

Non sono previste agevolazioni di viaggio (per le quali vedi infra) per gli elettori che optano per l’esercizio del voto in Italia, eccetto le riduzioni tariffarie applicate nel territorio nazionale. Gli elettori impossibilitati ad esercitare il voto per corrispondenza in quanto sono residenti in Stati in cui non vi sono rappresentanze diplomatiche italiane o in quelli con i cui Governi non sia stato possibile concludere le intese per garantire l’esercizio del diritto di voto in condizioni idonee, o in Stati che si trovino in situazioni di grave instabilità politica o sociale, hanno diritto al rimborso del 75 per cento del costo del biglietto di viaggio.

Il voto dei cittadini temporaneamente all’estero per motivi di servizio o missioni internazionali

Limitatamente alle elezioni politiche del 2006 e al referendum costituzionale che si svolgerà a giugno 2006, il D.L. 1/2006[39] ha ammesso a votare nella circoscrizione Estero anche determinate categorie di cittadini italiani che si trovano temporaneamente all’estero per motivi di servizio o missioni internazionali. Si tratta in particolare:

§      del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia impegnato temporaneamente all’estero in missioni internazionali;

§      dei dipendenti di amministrazioni statali che per ragioni di servizio si trovino all’estero in via transitoria e dei loro familiari;

§      dei professori universitari e ricercatori in servizio o impegnati in attività di ricerca per almeno sei mesi all’estero.

I soggetti appartenenti alle prime due categorie, i cui dati sono tempestivamente comunicati dalle amministrazioni di appartenenza ai comuni e al Ministero dell’interno, sono iscritti in appositi elenchi aggiuntivi alle anagrafi dei cittadini italiani residenti all’estero; il personale accademico deve invece registrarsi presso il consolato.

Gli elettori in questione votano per corrispondenza; possono anche esercitare il diritto di voto in Italia, nella circoscrizione relativa alla propria sezione elettorale, previa opzione da esprimere per ogni votazione.

Il personale delle forze di polizia, delle forze armate e gli elettori in servizio presso le sedi diplomatiche e consolari possono esercitare il diritto di voto per corrispondenza anche nelle ipotesi in cui non siano state concluse le opportune intese in forma semplificata con lo Stato di temporanea residenza o qualora la situazione politico-sociale dello Stato non garantisca l’esercizio del diritto di voto (condizioni che, secondo la L. 459/2001, escludono l’applicabilità della relativa disciplina per il voto dei residenti all’estero). Il Ministro della difesa e il Ministro degli affari esteri definiscono le modalità tecnico-organizzative per il corretto svolgimento dell’elezione, con particolare riguardo al recapito delle schede elettorali agli aventi diritto e al trasferimento delle schede votate.

Elettorato passivo e presentazione delle candidature

La circoscrizione Estero è suddivisa in quattro ripartizioni (vedi infra), in ciascuna delle quali è eletto almeno un senatore e un deputato, mentre gli altri due seggi per il Senato e gli altri otto per la Camera sono distribuiti tra le stesse ripartizioni in proporzione al numero dei cittadini che vi risiedono, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

Possono candidarsi per l’elezione dei senatori e dei deputati da eleggere all’estero esclusivamente i cittadini che siano residenti ed elettori in una delle ripartizioni della circoscrizione Estero.

Gli elettori residenti all’estero possono essere candidati nelle circoscrizioni del territorio nazionale soltanto a condizione che abbiano optato per votare in Italia.

Le cause di ineleggibilità

Per le cause di ineleggibilità, si applica la disciplina vigente per l’elezione dei senatori e dei deputati da eleggere nel territorio nazionale contenuta negli articoli 7-10 del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati (D.P.R. 361/1957[40]).

Il testo unico citato è stato inoltre modificato dalla L. 459/2001, al fine di comprendere tra le cause di ineleggibilità la titolarità di cariche analoghe a quelle nazionali[41] per le quali è stabilita l’ineleggibilità, rivestite presso corrispondenti organi in Stati stranieri.

Sono pertanto ineleggibili alla carica di senatore o di deputato nella circoscrizione Estero i cittadini italiani che rivestono, in organi corrispondenti degli Stati stranieri in cui risiedono, cariche analoghe a quelle di:

§      presidente di giunta provinciale;

§      sindaco di comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti;

§      capo, vice capo della polizia e ispettore generale di pubblica sicurezza;

§      capo di gabinetto di un ministro;

§      Commissario del Governo presso le regioni[42];

§      prefetto, viceprefetto e funzionario di pubblica sicurezza;

§      generale, ammiraglio e ufficiale superiore delle Forze Armate nella circoscrizione del rispettivo comando territoriale.

Queste cause di ineleggibilità non hanno effetto qualora l’esercizio delle relative funzioni sia cessato almeno 180 giorni prima della data di scadenza della legislatura; in caso di scioglimento anticipato delle Camere, le ineleggibilità non hanno effetto se le funzioni sono cessate entro i 7 giorni successivi alla data di pubblicazione del decreto di scioglimento.

Limitatamente alle elezioni politiche del 2006, l’art. 3-bis del D.L. ha stabilito che le cause di ineleggibilità di cui all’articolo 7 del D.P.R. 361/1957 non hanno effetto se le funzioni esercitate siano cessate entro i sette giorni successivi alla data di entrata in vigore (29 gennaio 2006), della L. di conversione del D.L., quindi entro il 5 febbraio 2006[43].

La disciplina delle incompatibilità è stata integrata dalla L. 459/2001, che ha stabilito l’incompatibilità dell’ufficio di membro del Parlamento o del Governo italiano con quello di componente di assemblee legislative o di organi esecutivi, anche regionali, in Stati stranieri.

Presentazione dei contrassegni di lista

Per la presentazione dei contrassegni e delle liste per l’attribuzione dei seggi da assegnare nella circoscrizione Estero, si osservano, in quanto compatibili, le norme stabilite in materia dal testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati (D.P.R. 361/1957, artt. 14 – 26).

Tra il 44° e il 42° giorno antecedente quello di votazione va depositato presso il Ministero dell’interno il contrassegno, con cui si intende contraddistinguere le liste, da parte dei rappresentanti dei partiti e dei gruppi politici organizzati, i quali designano contestualmente i delegati incaricati di presentare le liste per ciascuna ripartizione.

La stessa persona non può depositare più di un contrassegno. La legge vieta il deposito di contrassegni confondibili con altri già depositati o con simboli usati tradizionalmente da altri partiti. Non è ammessa la presentazione di contrassegni effettuata al solo scopo di precluderne l’uso ad altri. Per i partiti vige l’obbligo di presentare le proprie liste con un contrassegno che riproduca il simbolo di cui notoriamente fanno uso.

Presentazione delle liste

La presentazione delle candidature, sia per i senatori sia per i deputati, avviene per liste. Le liste devono essere presentate per ciascuna delle ripartizioni della circoscrizione Estero e devono essere sottoscritte da almeno 500 e da non più di 1000 elettori residenti nella relativa ripartizione. Le liste devono essere presentate alla cancelleria della corte di appello di Roma dalle ore 8 del 35° giorno alle ore 20 del 34° giorno antecedente quello delle votazioni.

Le firme dei sottoscrittori delle liste di candidati sono autenticate dall’’ufficio consolare, che provvede anche al rilascio dei certificati che attestano l’iscrizione degli elettori nelle liste elettorali della relativa ripartizione.

Analogamente a quanto previsto per la presentazione delle liste per le elezioni della Camera, nessuna sottoscrizione è richiesta:

§      per i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi;

§      per i partiti o gruppi politici che siano collegati in coalizione con almeno due partiti o gruppi di cui al punto precedente e che abbiano conseguito almeno un seggio in occasione delle ultime elezioni per il Parlamento europeo con un contrassegno identico a quello depositato ai fini della presentazione delle liste di candidati;

§      per i partiti o gruppi politici rappresentativi di minoranze linguistiche riconosciute che abbiano conseguito almeno un seggio in occasione delle ultime elezioni per la Camera o per il Senato.

In caso di scioglimento della Camera o del Senato, che ne anticipi di oltre 120 giorni la scadenza naturale, il numero di sottoscrizioni è ridotto alla metà.

Limitatamente alle elezioni politiche del 2006, il numero delle sottoscrizioni richieste è comunque stato ridotto alla metà dall’art. 3-bis del decreto-legge 1/2006 anche se lo scioglimento delle Camere è intervenuto successivamente allo scadere di tale termine.

Le liste devono essere formate da un numero di candidati almeno pari al numero di seggi spettanti alla ripartizione e non superiore al doppio di esso. Nessun candidato può essere incluso in più liste, anche se con il medesimo contrassegno.

È ammessa la presentazione di liste comuni di candidati da parte di più partiti o gruppi politici: in tal caso, le liste devono essere contrassegnate da un simbolo che riproduca i contrassegni di tutte le liste interessate.

Distribuzione deiseggi tra le ripartizioni

Per l’elezione sia dei senatori, sia dei deputati, la legge individua nell’ambito della circoscrizione Estero quattro ripartizioni, comprendenti gli Stati e i territori afferenti a:

a) Europa, compresi i territori asiatici della Federazione russa e della Turchia;

b) America meridionale;

c) America settentrionale e centrale;

d) Africa, Asia, Oceania e Antartide.

In ciascuna di tali ripartizioni è eletto almeno un senatore e un deputato, mentre gli altri due seggi per il Senato e gli altri otto per la Camera sono distribuiti tra le stesse ripartizioni in proporzione al numero dei cittadini italiani che vi risiedono, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

Espressione del voto

Il voto per i senatori e per i deputati da eleggere all’estero si esercita normalmente per corrispondenza, previa intesa in forma semplificata con i Governi degli Stati interessati volta a garantire l’esercizio del diritto di voto in condizioni idonee (su tali intese, vedi infra).

In assenza delle intese, non è consentito il voto per corrispondenza nei Paesi di residenza degli elettori: il diritto di voto può essere esercitato soltanto in Italia.

Non oltre il 18° giorno prima delle data per le votazioni in Italia, gli uffici consolari spediscono agli elettori che non abbiano esercitato l’opzione per il voto in Italia, un plico contenente il certificato elettorale, la scheda elettorale (o le schede, se si tratta di un elettore che vota sia per la Camera sia per il Senato in quanto ha compiuto il 25° anno di età) e due buste, una più piccola nella quale racchiudere le schede votate e una più grande, affrancata e recante l’indirizzo dell’ufficio consolare competente, nella quale inserire la busta con la scheda (o le schede) votata. Il plico contiene anche un foglio con le indicazioni delle modalità per l’espressione del voto, il testo della L. sull’esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini residenti all’estero e le liste dei candidati nella ripartizione di appartenenza.

L’ufficio consolare espone le liste dei candidati nei propri locali accessibili al pubblico.

L’elettore vota tracciando un solo segno sul simbolo della lista prescelta o comunque all’interno del rettangolo che lo contiene. Ciascun elettore può esprimere due voti di preferenza nelle ripartizioni alle quali sono assegnati due o più deputati o senatori e un voto di preferenza nelle altre, scrivendo il nome del candidato nell’apposita riga posta accanto al simbolo della lista votata.

Il voto di preferenza si esprime scrivendo il cognome del candidato nella riga posta accanto al contrassegno della lista votata.

Una volta espresso il proprio voto sulla scheda elettorale, l’elettore introduce nell’apposita busta la scheda o le schede elettorali, sigilla la busta, la introduce nella busta affrancata unitamente al tagliando, staccato dal certificato elettorale e comprovante l’esercizio del diritto di voto, e la spedisce, non oltre il 10° giorno precedente la data stabilita per le votazioni in Italia, all’ufficio consolare competente. Sono considerate valide ai fini del voto le buste arrivate agli uffici consolari entro le ore 16, ora locale, del giovedì che precede il giorno delle elezioni in Italia.

I responsabili degli uffici consolari inviano in Italia all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero, le buste comunque pervenute non oltre le ore 16, ora locale, del giovedì antecedente la data stabilita per le votazioni in Italia, unitamente alla comunicazione del numero degli elettori della circoscrizione consolare che non hanno esercitato l’opzione per votare in Italia.

Le buste sono inviate, con una spedizione unica, per via aerea e con valigia diplomatica accompagnata, all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero, istituito presso la corte di appello di Roma.

Per lo spoglio e lo scrutinio dei voti inviati dagli elettori, presso l’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero è costituito un seggio elettorale per ogni 5.000 elettori residenti all’estero che non hanno scelto di votare in Italia.

Le operazioni di scrutinio dei voti inviati per corrispondenza si svolgono contemporaneamente a quelle dei voti espressi nel territorio nazionale.

Attribuzione dei seggi

L’attribuzione dei seggi si effettua nell’ambito di ciascuna delle 4 ripartizioni in cui è suddivisa la circoscrizione Estero e segue il medesimo procedimento per l’elezione sia dei senatori sia dei deputati.

L’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero determina per ciascuna delle ripartizioni la cifra elettorale di ciascuna lista. Tale cifra è data dalla somma dei voti validi ottenuti nell’ambito della ripartizione. In secondo luogo l’Ufficio determina la cifra elettorale individuale di ciascun candidato, che risulta dalla somma dei voti di preferenza conseguiti dal candidato nella ripartizione.

L’Ufficio divide quindi la somma delle cifre elettorali di tutte le liste presentate nella ripartizione per il numero di seggi da assegnare in tale ambito; la cifra elettorale di ciascuna lista viene poi divisa per il quoziente ottenuto dall’operazione precedente. La parte intera del risultato di tale divisione rappresenta il numero di seggi da assegnare a ciascuna lista. I seggi che rimangono eventualmente ancora da attribuire sono assegnati alle liste per le quali le divisioni abbiano dato i maggiori resti e, in caso di parità di resti, alla lista con la più alta cifra elettorale.

L’Ufficio elettorale proclama quindi eletti, in corrispondenza dei seggi attribuiti a ciascuna lista, i candidati della lista stessa secondo l’ordine dei voti di preferenza conseguiti. A parità di voti sono proclamati eletti coloro che precedono nell’ordine della lista.

Vacanza dei seggi

Nel caso in cui un seggio rimanga vacante, per qualsiasi causa, anche sopravvenuta, esso è attribuito, nell’àmbito della medesima ripartizione, al candidato che nella lista segue immediatamente l’ultimo degli eletti nella graduatoria dei voti di preferenza o, in assenza di questi, nell’ordine della lista.

Campagna elettorale

La campagna elettorale all’estero si svolge secondo modalità definite sulla base di apposite forme di collaborazione che lo Stato italiano conclude, ove sia possibile, con gli Stati stranieri nel cui territorio risiedono gli elettori di cittadinanza italiana e nell’osservanza delle norme vigenti (vedi infra) in materia nel territorio italiano.

Mentre le intese con i Governi degli Stati interessati, volte a garantire l’esercizio del diritto di voto, costituiscono una condizione indispensabile per l’espressione del voto per corrispondenza, che non è consentito in assenza di intesa, la mancata conclusione delle forme di collaborazione in materia di campagna elettorale non preclude l’applicabilità delle disposizioni della L. 459/2001 che disciplinano il voto per corrispondenza.

Le rappresentanze diplomatiche promuovono la più ampia comunicazione politica sui mezzi di informazione in lingua italiana editi e diffusi all’estero, o comunque rivolti ai cittadini italiani all’estero, secondo i princìpi in vigore in Italia sulla parità di accesso e di trattamento e sull’imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici.

Per quanto riguarda il finanziamento della campagna elettorale, si applicano le disposizioni della L. 515/1993[44] (in particolare, l’art. 7, commi 3 e 4): dal giorno successivo all’indizione delle elezioni politiche coloro che intendono candidarsi nelle ripartizioni della circoscrizione Estero possono raccogliere fondi per il finanziamento della propria campagna elettorale esclusivamente per il tramite di un mandatario elettorale, il cui nome deve essere comunicato al Collegio regionale di garanzia elettorale avente sede in Roma.

Il mandatario è tenuto a registrare tutte le operazioni di raccolta di fondi in un unico conto corrente bancario o postale, nell’intestazione del quale è specificato che il titolare agisce in veste di mandatario elettorale di un candidato nominativamente indicato.

Entro il 5° giorno successivo all’indizione dei comizi elettorali, la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ciascuna nell’ambito della propria competenza, dettano i criteri ai quali, fino alla chiusura delle operazioni di voto, debbono conformarsi la RAI e le emittenti radiotelevisive private nei programmi di informazione destinati all’estero, per garantire la parità di trattamento per tutti i soggetti politici, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione.

 

Il provvedimento della Commissione parlamentare di vigilanza RAI e la deliberazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, adottati rispettivamente il 1 e il 3 febbraio 2006, hanno dettato le disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione relative alle campagne per le elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006. In particolare, l’art. 12 del provvedimento della Commissione di vigilanza RAI disciplina le trasmissioni del servizio pubblico radiotelevisivo per la circoscrizione Estero; l’art. 11 della deliberazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni stabilisce i principi generali cui devono conformarsi i programmi diffusi all’estero dalle emittenti televisive nazionali private.

 

Per quanto riguarda lo svolgimento della campagna elettorale nella circoscrizione Estero, l’art. 8 del D.P.R. 104/2003 richiama espressamente le seguenti leggi:

§      L. 212/1956[45]: regola l’affissione di stampati, giornali murali e manifesti di propaganda in periodo di campagna elettorale; è stata ampiamente riformulata e integrata dalla L. 130/1975[46]. L’art. 52 della L. 352/1970[47] ha esteso le disposizioni delle due leggi alla propaganda relativa allo svolgimento dei referendum;

§      L. 515/1993: la L. detta norme in materia di propaganda elettorale; fissa limiti alle spese elettorali dei candidati e dei partiti; disciplina le forme di pubblicità e di controllo di queste spese e detta sanzioni al riguardo; regola l’attribuzione del contributo statale a tali spese;

§      L. 28/2000[48]. È la c.d. legge sulla “par condicio”, avente lo scopo di promuovere e disciplinare, al fine di garantire la parità di trattamento e l’imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici, l’accesso ai mezzi di informazione per la comunicazione politica, in particolar modo (ma non esclusivamente) durante le campagne elettorali.

Limiti alle spese elettorali

Nello svolgimento della campagna elettorale nella circoscrizione Estero, i partiti, i gruppi politici e i candidati devono attenersi alle disposizioni previste dalla L. 515/1993, che, tra l’altro, fissa un limite alle spese sostenibili sia dai singoli candidati sia dai partiti e formazioni politiche che partecipano alla competizione elettorale.

Le disposizioni sui limiti delle spese elettorali dei candidati e di ciascun partito, movimento, o lista di candidati si intendono computate sul numero dei cittadini residenti nelle singole ripartizioni della circoscrizione Estero in cui sono presentate le liste, quale risulta dal decreto del ministro dell’interno, con cui è individuato annualmente il numero dei cittadini italiani residenti nelle ripartizioni della circoscrizione Estero.

 

Per le elezioni politiche del 2006 il riferimento è al D.M. Interno 31 gennaio 2006, , che ha determinato il numero dei cittadini italiani residenti nelle singole ripartizioni al 31 dicembre 2005.

 

Per quanto riguarda le spese dei singoli candidati, la spesa massima ammissibile è pari alla somma dell’importo fisso di 52.000 euro per ogni ripartizione e della cifra ulteriore pari al prodotto di 0,01 euro per ciascun cittadino residente nella ripartizione in cui il candidato si presenta.

Le spese elettorali dei partiti e movimenti politici o liste che partecipano alle elezioni non possono superare la somma risultante dalla moltiplicazione dell’importo di 1 euro per il numero complessivo dei cittadini residenti nelle ripartizioni in cui il partito o movimento presenta le liste.

Le funzioni di controllo sulle spese elettorali dei candidati attribuite dalla L. 515/1993 ai Collegi regionali di garanzia elettorale sono esercitate, per la circoscrizione Estero, dal Collegio di garanzia elettorale avente sede in Roma.

 

Il Collegio di garanzia elettorale, istituito presso la Corte d’appello del capoluogo di ciascuna regione, è l’organo competente a ricevere e verificare le dichiarazioni dei candidati alle elezioni politiche concernenti i finanziamenti ricevuti e le spese sostenute per la campagna elettorale e ad applicare le relative sanzioni.

Intese per garantire l’esercizio del diritto di voto

Le rappresentanze diplomatiche italiane concludono con i Governi stranieri intese in forma semplificata per garantire l’esercizio del voto per corrispondenza in condizioni di eguaglianza, libertà e segretezza, e in assenza di qualsiasi rischio di pregiudizio per il posto di lavoro e per i diritti individuali degli elettori e degli altri cittadini italiani.

Le rappresentanze diplomatiche italiane possono, con autonoma valutazione, considerare comunque concluse le intese con quegli Stati di consolidata democrazia elettorale per i quali risulti garantito, sulla base del loro ordinamento, che l’esercizio del diritto di voto si svolga nel rispetto delle condizioni sopra illustrate.

Negli Stati in cui non risieda un rappresentante diplomatico italiano, ma che intrattengono rapporti diplomatici per il tramite di un capo missione accreditato residente in un altro Stato, le rappresentanze diplomatiche italiane possono concludere le intese in forma semplificata a condizione che i sistemi postali dei Paesi interessati (quello dove risiede l’elettore e quello in cui ha sede l’ufficio consolare) forniscano adeguate garanzie di efficienza e riservatezza ai fini dell’esercizio del diritto di voto.

Negli Stati in cui non sia possibile concludere le intese, non trovano applicazione le disposizioni della legge in materia di voto per corrispondenza. Di tale circostanza, l’ufficio consolare informa – ove non risulti impossibile – gli elettori direttamente interessati, così da consentire loro l’esercizio del diritto di voto in Italia.

 

Al momento delle elezioni politiche dello scorso aprile, le Rappresentanze diplomatiche italiane hanno concluso con i Governi di 131 Stati le intese in forma semplificata volte a garantire l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero. Le intese non sono state concluse con i Governi di 59 Stati; in uno Stato (il Togo), infine, la situazione politica o sociale non garantisce neanche temporaneamente l’esercizio del diritto di voto secondo le condizioni previste dall’art. 19, comma 1, della L. 459/2001.

Agevolazioni di viaggio

Agli elettori residenti all’estero che optano per l’esercizio del voto in Italia non viene corrisposto alcun rimborso delle spese di viaggio. Essi usufruiscono però delle riduzioni tariffarie applicate nel territorio nazionale dagli enti interessati (Trenitalia S.p.a.; compagnie di navigazione; società autostradali, etc.).

Gli elettori che si trovano nell’impossibilità, per i motivi specifici più avanti indicati, di votare nello Stato di residenza, e che quindi possono esercitare il diritto di voto esclusivamente in Italia, hanno diritto al rimborso del 75 per cento del costo del biglietto di viaggio (riferito alla classe turistica per il trasporto aereo e alla seconda classe per il trasporto ferroviario o marittimo).

Si tratta degli elettori residenti negli Stati:

§      in cui non vi sono rappresentanze diplomatiche italiane;

§      con i cui Governi non sia stato possibile concludere intese in forma semplificata per garantire il pieno esercizio del diritto di voto;

§      la cui situazione politica o sociale comprometta lo svolgimento di tale diritto.

Per ottenere il rimborso, l’elettore deve presentare un’apposita richiesta all’ufficio consolare della circoscrizione in cui risiede o, in assenza di tale ufficio nello Stato di residenza, all’ufficio consolare di uno degli Stati limitrofi, allegando il certificato elettorale e il biglietto di viaggio.

La partecipazione ai referendum

Le persone iscritte nelle liste elettorali dei cittadini italiani residenti all’estero possono votare per i referendum abrogativi e per quelli costituzionali, indetti rispettivamente sulla base dell’art. 75 e dell’art. 138 della Costituzione, negli stessi termini e con le medesime modalità previste dalla L. 459/2001 per l’esercizio del voto per l’elezione delle Camere.

I cittadini italiani residenti all’estero, che votano per i referendum abrogativi e per quelli costituzionali, possono partecipare anche alla richiesta di indizione dei medesimi referendum. Peraltro, sia la legge, sia il regolamento, non specificano le relative modalità.


Elezioni – Campagna elettorale e finanziamenti

Par condicio” ed emittenza locale

La disciplina della propaganda elettorale nei mezzi di informazione è stata modificata dalla L. 313/2003[49], la quale ha novellato in misura rilevante la L. 28/2000[50] (c.d. legge sulla “par condicio”), che regolamenta la comunicazione politica e l’accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali, introducendovi il capo II (artt. 11-bis – 11-septies).

La L. 313/2003 ha introdotto una specifica e distinta disciplina per le emittenti radiofoniche e televisive locali e ha escluso per queste ultime l’applicazione delle disposizioni dettate dal capo I (artt. da 1 a 11) della L. 28/2000, che rimangono efficaci soltanto per le emittenti radiotelevisive nazionali, ad eccezione di quelle relative alla diffusione dei sondaggi e di alcune concernenti la trasmissione dei messaggi politici autogestiti.

 

La normativa in questione si applica alle emittenti radiofoniche e televisive locali come definite dall’art. 11-ter della L. 28/2000, vale a dire: “ogni soggetto destinatario di autorizzazione o concessione o comunque di altro titolo di legittimazione per l’esercizio della radiodiffusione sonora o televisiva in ambito locale”; è invece esclusa la programmazione regionale o locale della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e dei soggetti privati aventi titolo per trasmettere in ambito nazionale.

 

La legge stabilisce i princìpi fondamentali che le emittenti locali devono osservare nella trasmissione sia di programmi di informazione, nel rispetto della libertà di informazione, sia di programmi di comunicazione politica, vale a dire i principi del pluralismo – che deve esplicarsi attraverso la parità di trattamento – dell’obiettività, dell’imparzialità e dell’equità.

La legge individua espressamente i programmi d’informazione, che sono il telegiornale, il giornale radio e comunque il notiziario o altro programma di contenuto informativo, a rilevante presentazione giornalistica, caratterizzato dalla correlazione ai temi dell’attualità e della cronaca. La legge inoltre considera programmi di comunicazione politica quelli in cui assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche manifestate attraverso tipologie di programmazione che comunque consentano un confronto dialettico tra più opinioni, anche se conseguito nel corso di più trasmissioni.

Per garantire la parità di trattamento e l’imparzialità a tutti i soggetti politici, le emittenti locali devono operare in conformità alle disposizioni del codice di autoregolamentazione in materia di programmi di informazione e di programmi di comunicazione politica, adottato da parte dei rappresentanti delle emittenti locali ed emanato con il decreto del Ministero delle comunicazioni dell’8 aprile 2004.

La procedura per l’adozione del codice è fissata dalla legge:

§         entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della L. 313/2003 (cioè dal 19 novembre 2003), le organizzazioni delle emittenti locali che superano una determinata soglia di rappresentatività (almeno il 5 per cento del numero totale delle emittenti radiofoniche o televisive locali o dell’ascolto globale televisivo o radiofonico di queste) presentano al ministro delle comunicazioni uno schema di codice di autoregolamentazione;

§         qualora tale termine decorra senza che le organizzazioni abbiano provveduto a presentare uno schema, il ministro delle comunicazioni propone comunque uno schema di codice;

§         sullo schema predisposto dalle associazioni o su quello elaborato del ministro devono essere acquisiti i pareri della Federazione nazionale della stampa italiana, dell’Ordine nazionale dei giornalisti, della Conferenza Stato-regioni e delle competenti Commissioni parlamentari; ciascun organismo esprime il suo parere entro trenta giorni dalla ricezione dello schema;

§         lo schema, con i relativi pareri, è dunque immediatamente trasmesso all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che delibera entro quindici giorni dalla ricezione, tenuto conto dei pareri espressi;

§         entro i successivi trenta giorni le citate organizzazioni rappresentative sottoscrivono il codice di autoregolamentazione, come deliberato dall’Autorità;

§         il codice è infine emanato con decreto del ministro delle comunicazioni. Il ministro emana comunque il decreto anche se, decorso il termine di trenta giorni, il codice non risulti ancora sottoscritto dalle organizzazioni rappresentative;

§         il decreto del ministro delle comunicazioni è pubblicato nella Gazzetta ufficiale; l’efficacia del codice decorre dal giorno successivo a quello di pubblicazione.

 

Il codice di autoregolamentazione ha efficacia erga omnes, nei confronti cioè di tutte le emittenti radiofoniche e televisive locali, aderiscano o meno alle organizzazioni rappresentative che l’hanno sottoscritto.

Quanto al contenuto minimo del codice, il comma 3 dell’art. 11-quater della L. 28/2000 stabilisce che le sue disposizioni devono comunque:

§         consentire la comunicazione politica, dalla data di convocazione dei comizi elettorali, “secondo una effettiva parità di condizioni tra i soggetti competitori, anche con riferimento alle fasce orarie e al tempo di trasmissione”;

§         disciplinare le condizioni economiche di accesso ai messaggi politici autogestiti a pagamento; i criteri per la determinazione dei prezzi devono tener conto delle norme in materia di spese elettorali dei candidati e conformarsi al principio della “comprovata parità di costo” tra i candidati medesimi.

Alle emittenti locali che accettano di trasmettere messaggi politici autogestiti a titolo gratuito continua ad applicarsi la disciplina di cui all’art. 4, co. 3 e 5, della L. 28/2000.

 

La L. 28/2000 (art. 4, co. 3) stabilisce che nel secondo periodo della campagna elettorale (decorrente dalla data di presentazione delle candidature) possono essere trasmessi messaggi autogestiti gratuiti secondo le modalità specifiche dettate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sulla base dei princìpi fissati dalla legge. Gli spazi per i messaggi devono essere offerti in condizioni di parità di trattamento a tutti i soggetti politici. I messaggi devono essere inseriti in appositi contenitori – separati dalla restante programmazione – in misura non superiore a quattro al giorno e recare l’indicazione “messaggio autogestito”.

Le emittenti locali che trasmettono gratuitamente messaggi autogestiti hanno diritto ad un rimborso da parte dello Stato (art. 4, comma 5), nella misura annualmente definita con decreto del ministro delle comunicazioni di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze.

 

L’art. 11-quinquies conferisce all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni poteri di vigilanza e sanzionatori ai fini del rispetto dei princìpi indicati nel capo II, delle disposizioni del codice di autoregolamentazione, nonché delle norme regolamentari o attuative emanate dalla stessa Autorità.

 

Qualora, d’ufficio o su denuncia di soggetti politici interessati o del Consiglio nazionale degli utenti, siano accertate infrazioni, l’Autorità adotta ogni provvedimento, anche in via di urgenza, idoneo ad eliminarne gli effetti anche ordinando, se del caso, la programmazione di trasmissioni a carattere compensativo o, se ciò non fosse possibile, disponendo la sospensione delle trasmissioni per un massimo di trenta giorni.

In sede di verifica dell’ottemperanza ai propri provvedimenti, l’Autorità, in caso di riscontro negativo, può irrogare nei confronti dell’emittente responsabile della violazione una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro a 20.000 euro.

Quanto alla tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti dell’Autorità, l’articolo afferma la giurisdizione esclusiva degli organi di giustizia amministrativa, prevista in via generale dall’art. 23-bis della legge 1034/1971[51]. La competenza di primo grado è attribuita inderogabilmente al tribunale amministrativo regionale del Lazio. Non sembra pertanto più applicabile la specifica procedura prevista dall’art. 10, co. 10, della legge 28/2000[52].

L’art. 11-sexies prevede che l’Autorità adegui alla nuova disciplina le proprie disposizioni regolamentari e attuative.

 

L’art. 11-septies dispone che, dal giorno in cui il codice di autoregolamentazione acquista efficacia (il giorno successivo a quello di pubblicazione del relativo decreto) cessi di applicarsi alle emittenti locali la disciplina di cui al capo I della L. 28/2000, ad eccezione dei già citati co. 3 e 5 dell’art. 4 (che disciplinano i messaggi politici autogestiti a titolo gratuito, per le emittenti locali che accettano di trasmetterli), e dell’art. 8, in materia di sondaggi.

 

La L. 28/2000 (art. 8) vieta la pubblicazione di sondaggi sull’esito delle elezioni o sugli orientamenti politici degli elettori nei quindici giorni precedenti il voto. I criteri secondo i quali devono realizzarsi tali i sondaggi sono definiti dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Al di fuori del periodo elettorale i sondaggi possono essere diffusi solo se accompagnati da precise indicazioni (data, autore, committente, acquirente, criteri e metodologia applicata etc.) e se integralmente pubblicati su un apposito sito informatico.

 

Dalla data di presentazione delle candidature fino alla chiusura della campagna elettorale, le emittenti locali possono trasmettere messaggi politici autogestiti sia a titolo gratuito (ai sensi dell’art. 4, commi 3 e 5, della legge 28/2000, in precedenza illustrato), sia a pagamento (secondo la disciplina dettata dal Codice di autoregolamentazione delle emittenti locali agli artt. 5 e 6). In periodi diversi da quello elettorale non è concessa alle emittenti locali se non la comunicazione politica a pagamento (propaganda politica).

Le emittenti locali che intendono diffondere messaggi politici autogestiti a pagamento devono dare notizia dell’offerta dei relativi spazi mediante la trasmissione di un avviso, da trasmettere almeno una volta al giorno nella fascia oraria di maggiore ascolto.

Tale avviso costituisce “condizione essenziale” per la diffusione della propaganda elettorale; in caso di messa in onda oltre il termine di dieci giorni, la propaganda elettorale può iniziare il secondo giorno successivo alla trasmissione. L’avviso ha anche lo scopo di informare i soggetti politici dell’esistenza di un documento, depositato presso la sede dell’emittente e consultabile dagli interessati, nel quale devono essere fissate le condizioni e le modalità di prenotazione degli spazi di propaganda, le relative tariffe e le altre informazioni tecniche rilevanti. Per l’accesso agli spazi di propaganda elettorale devono essere praticate condizioni, anche economiche, uniformi a tutti i soggetti politici; le prenotazioni degli spazi sono prese in esame secondo l’ordine temporale; il valore dei contratti non può superare il 75% dei tetti previsti dalla vigente normativa per la spesa elettorale di ciascun candidato; a tutti i soggetti politici richiedenti spazi devono essere estese le condizioni di maggior favore eventualmente praticate ad uno di essi; la tariffa massima praticabile non può superare il 70 per cento del listino di pubblicità tabellare. È consentita ai soggetti politici interessati la verifica documentale dei listini; in caso di spazi di propaganda differenziati per area territoriale, vanno distintamente indicate le tariffe relative ad ogni area; ogni trasmissione deve essere preceduta da un annuncio in audio o in video, che dia conto della sua natura di propaganda elettorale a pagamento e che indichi il soggetto politico committente.

L’art. 3 della L. 313/2003, che in questo caso non ha novellato la legge 28/2000, stabilisce inoltre l’inapplicabilità alle emittenti locali delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 5, della L. 515/1993, che vietano la presenza di esponenti politici nelle trasmissioni radiotelevisive in campagna elettorale.

 

L’art. 1, co. 5, della L. 515/1993 dispone che a partire dalla data di indizione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto, la presenza di candidati, esponenti di partiti e movimenti politici, membri del Governo, delle giunte e dei consigli regionali e degli enti locali nelle trasmissioni radiotelevisive diverse da quelle di comunicazione politica è ammessa solo nelle trasmissioni informative riconducibili alla responsabilità di una specifica testata giornalistica e deve essere limitata esclusivamente alla esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione. La presenza dei soggetti sopra menzionati nelle altre trasmissioni è invece vietata.

 

In materia di parità di accesso ai mezzi di informazione di massa, si ricorda che la L. 112/2004[53] ha individuato, tra i principi generali in materia di informazione radiotelevisiva che la RAI è tenuta ad osservare, la garanzia dell’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità (v. scheda Il servizio pubblico radiotelevisivo, nel dossier relativo alla Commissione Trasporti).

 

Per quanto riguarda infine la propaganda elettorale effettuata con i mezzi tradizionali, è stata stabilita (con una disposizione introdotta nella legge finanziaria 2005: L. 311/2004[54], art. 1, co. 480-483) la responsabilità esclusiva di colui che materialmente è colto in flagranza nell’atto d’affissione di manifesti politici per quanto riguarda le sanzioni amministrative e la non sussistenza della responsabilità solidale del committente.

Rimborsi per spese elettorali e finanziamento dei partiti

Alcune disposizioni contenute in due provvedimenti d’urgenza approvati in prossimità delle elezioni politiche hanno inciso sulla disciplina dei rimborsi per spese elettorali e sui limiti delle stesse e sul finanziamento dei partiti politici.

 

L’art. 39-quaterdecies del D.L. 273/2005[55] ha introdotto puntuali ma significative modifiche alle leggi 659/1981[56], 157/1999[57] e 195/1974[58], concernenti i rimborsi per spese elettorali e il finanziamento dei partiti politici.

Il comma 1 dell’art. 39-quaterdecies ha inciso sugli obblighi di dichiarazione dei finanziamenti o contributi destinati a partiti politici, ad articolazioni politico-organizzative o a dirigenti dei medesimi, a gruppi parlamentari, nonché a membri del Parlamento, a membri italiani del Parlamento europeo, a consiglieri regionali, provinciali e comunali, ed ai candidati alle predette cariche.

 

Ai sensi dell’art. 7 della L. 195/1974 e dell’art. 4, primo comma, della L. 659/1981, possono versare contributi ai partiti ed agli altri soggetti testé indicati le persone fisiche, gli enti e le associazioni, le società; per queste ultime i finanziamenti sono ammessi solo se:

§         la società non ha una partecipazione pubblica superiore al 20% e non è controllata da una società con partecipazione pubblica superiore al 20%;

§         i finanziamenti sono deliberati dall’organo sociale competente e sono regolarmente iscritti in bilancio.

È invece vietata – e sanzionata penalmente – la contribuzione da parte di organi della pubblica amministrazione, di enti pubblici e di società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20% o di società controllate da queste ultime.

 

I finanziamenti e i contributi che non siano vietati ex art. 7, L. 195/1974, possono essere erogati senza limiti di importo; la legge impone tuttavia alcune formalità, la cui violazione è sanzionata penalmente. Tra queste[59], qui rileva l’obbligo di cui all’art. 4, commi terzo e seguenti, della legge 659/1981, che impone di effettuare una dichiarazione congiunta con il soggetto donatore al Presidente della Camera qualora il contributo privato superi, nell’arco dell’anno, un determinato importo.

 

La somma originaria di 5 milioni di lire indicata nell’art. 4, co. 3, della legge 659/1981 era stata rivalutata in 6.614 euro (pari a lire 12.806.471), da ultimo, dal decreto del Ministro dell’interno 23 febbraio 2001 (G.U. 14 marzo 2001, n. 61). La disposizione della legge 659/1981 richiamata disponeva infatti la rivalutazione nel tempo, secondo gli indici ISTAT dei prezzi all’ingrosso, di tale importo.

La dichiarazione va effettuata entro tre mesi (o entro il mese di marzo dell’anno successivo). L’obbligo di dichiarazione non si estende ai finanziamenti direttamente concessi da istituti di credito o da aziende bancarie, alle condizioni fissate dagli accordi interbancari; nell’ipotesi di contributi o finanziamenti di provenienza estera, l’obbligo è posto a carico del solo soggetto che li percepisce.

 

Il comma 1 ha modificato il terzo comma dell’art. 4 della legge 659/1981, ora illustrato, elevando da 6.614 euro a 50.000 euro la soglia oltre la quale sorge l’obbligo di dichiarazione congiunta, ed eliminando la periodica rivalutazione di tale soglia, prevista dal testo previgente.

Il comma 2 dell’articolo 39-quaterdecies ha novellato l’art. 1, co. 6 e ha aggiunto un nuovo articolo (l’art. 6-bis) alla L. 157/1999, che disciplina il rimborso per le spese elettorali sostenute da movimenti o partiti politici.

 

La L. 157/1999 (come modificata dalla L. 156/2002[60]) prevede un sistema di rimborso per le spese elettorali sostenute dai partiti e movimenti politici per le elezioni politiche, europee e regionali. I rimborsi sono corrisposti ripartendo, tra i movimenti o partiti politici aventi diritto, quattro fondi, corrispondenti agli organi da rinnovare (Senato della Repubblica; Camera dei deputati; Parlamento europeo; Consigli regionali); (art. 1, co. 1 e 3). L’ammontare di ciascuno dei quattro fondi è pari, per ciascun anno della legislatura degli organi interessati, alla somma che risulta dalla moltiplicazione di 1 euro per il numero dei cittadini della Repubblica italiana iscritti nelle liste elettorali della Camera dei deputati (art. 1, co. 5).

Il contributo è versato sulla base di quote annuali. Prima dell’approvazione dell’art. 39-quaterdecies del decreto-legge 273/2005, in caso di scioglimento anticipato del Senato o della Camera, il versamento delle quote annuali dei relativi rimborsi era interrotto: i movimenti o partiti politici avevano diritto esclusivamente al versamento delle quote dei rimborsi per un numero di anni pari alla durata della legislatura dei rispettivi organi (art. 1, co. 6).

La legge rinvia, per la determinazione degli aventi diritto alla ripartizione dei fondi e per il calcolo di tale ripartizione, alle leggi vigenti in materia (con riferimento ai rimborsi elettorali per le elezioni politiche, il rinvio è effettuato all’art. 9 della L. 515/1993[61]).

 

In virtù delle modifiche apportate al comma 6 dell’art. 1 della L. 157/1999:

§         il versamento delle quote annuali dei rimborsi per le spese elettorali non è più destinato a interrompersi in caso di scioglimento anticipato del Senato o della Camera, ma è comunque effettuato per intero;

§         le somme erogate o da erogare a titolo di rimborso per le spese elettorali possono costituire oggetto di operazioni di cartolarizzazione e sono comunque cedibili a terzi.

Tale ultima possibilità è estesa dalla novella ad “ogni altro credito, presente o futuro, vantato dai partiti o movimenti politici”.

 

La cartolarizzazione (o securitization) consiste nella “mobiliarizzazione” di attività, per cui si procede alla conversione in strumenti finanziari negoziabili di crediti. In sostanza, la cartolarizzazione si configura come una tecnica finanziaria mediante la quale i crediti derivanti da classi dell’attivo vengono selezionati e, almeno nella maggioranza dei casi, aggregati in base a tipologie omogenee, al fine di costituire un supporto finanziario a garanzia dei titoli (asset backed securities) rappresentativi di tali crediti emessi sul mercato dei capitali[62].

In base alla L. 130/1999[63], che ne ha introdotto la disciplina generale, la cartolarizzazione si articola in due distinte operazioni:

§         la prima consiste nella cessione, pro-solvendo o pro-soluto, di un portafoglio di crediti pecuniari omogenei (o di categorie omogenee), sia esistenti che futuri, da parte di una società (società cedente) ad un’altra società appositamente costituita (società cessionaria); questa – una società finanziaria avente quale oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione, che opera, in deroga al principio generale della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c., secondo principi di separatezza patrimoniale – procede all’emissione di titoli direttamente collegati alla cartolarizzazione, ovvero può ricorrere ad un finanziamento da parte di una società emittente titoli direttamente collegati all’operazione medesima;

§         La seconda consiste nella costituzione di garanzie dei crediti, per la protezione, totale o parziale, degli acquirenti dei titoli della società cessionaria o della società emittente che a sua volta finanzia la società cessionaria dalle perdite su crediti. Tale sistema di garanzia dei crediti trova applicazione limitatamente ai casi di collocamento dei titoli della società cessionaria, o della società emittente, sul mercato generalizzato e implica l’intervento obbligatorio di una società di rating, dotata di requisiti di indipendenza e professionalità, la quale esprime una valutazione sui crediti oggetto dell’operazione di cartolarizzazione.

 

Ai sensi del nuovo art. 6-bis della L. 157/1999, introdotto dall’art. 39-quaterdecies del D.L. 273/2005, i rimborsi elettorali erogati ai partiti ai sensi della legge 157/1999 sono posti a garanzia (ai sensi dell’art. 2740 del codice civile) dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte da parte dei partiti e movimenti politici che ne sono beneficiari.

 

Ai sensi del primo comma dell’art. 2740 c.c., il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni “con tutti i suoi beni presenti e futuri”. Il secondo comma aggiunge che “le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.

 

La responsabilità patrimoniale che può esser fatta valere dai relativi creditori non si estende agli amministratori dei partiti o movimenti politici, se non quando questi ultimi abbiano agito con dolo o colpa grave.

Il nuovo art. 6-bis della legge 157/1999 ha inoltre istituito un fondo di garanzia volto al soddisfacimento dei debiti dei partiti e movimenti politici maturati in epoca “antecedente all’entrata in vigore della presente legge[64]“.

Il fondo è alimentato dall’1 per cento delle risorse stanziate per i fondi destinati all’erogazione dei rimborsi elettorali (di cui all’art. 1 della L. 157/1999). Le modalità di gestione e funzionamento del fondo sono stabilite con decreto del ministro dell’economia e delle finanze. La disposizione di cui al nuovo art. 6-bis della legge 157/1999, si applica anche per i giudizi e procedimenti in corso.

L’art. 6-bis della L. 157/1999, in correlazione con l’istituzione del fondo di garanzia per i debiti dei partiti e movimenti politici da esso disposta, apporta infine una modifica all’art. 6 della L. 195/1974, che si concreta nella soppressione del divieto di cessione delle somme esigibili dai partiti politici a titolo di contributo per le spese elettorali, e della conseguente nullità dei patti contrari.

 

Gli articoli 3-ter e 3-quater del D.L. 1/2006[65] hanno modificato, rispettivamente, gli artt. 7 e 10 della L. 515/1993, anche al fine di adeguare al nuovo sistema elettorale la disciplina dei tetti alle spese per la campagna elettorale da tali articoli recata con riguardo, rispettivamente, ai singoli candidati ed ai partiti o movimenti politici che partecipano all’elezione. Nel loro complesso – anche in relazione alla nuova disciplina elettorale – le modifiche apportate hanno quale effetto un innalzamento dei limiti massimi di spesa, rispetto a quelli vigenti.

In sintesi, il testo dei due articoli:

§         fissa un limite massimo alle spese per la campagna elettorale di ciascun candidato, pari a 52.000 euro per ogni circoscrizione (o collegio) elettorale ed a una cifra ulteriore pari a 1 centesimo di euro per ogni cittadino residente nelle circoscrizioni (o collegi) in cui il candidato si presenta;

§         dispone che le spese per la campagna elettorale, anche se riferibili a un candidato (o gruppo di candidati) siano imputate – ai fini del computo del tetto di spesa – al committente che le ha effettivamente sostenute, purché sia un candidato o il partito di appartenenza;

§         non contempla più il limite (recato dall’art. 7, co. 3, nella precedente formulazione) ai contributi o servizi erogati da ciascuna persona fisica, associazione o persona giuridica;

§         eleva (da 6.500 a 20.000 euro) il limite di valore (di cui al comma 6 dell’art. 7) oltre il quale i contributi delle persone fisiche devono essere analiticamente dichiarati dal candidato;

§         fissa un tetto alle spese per la campagna elettorale di ciascun partito, movimento o lista che partecipa all’elezione, pari alla somma risultante dalla moltiplicazione di 1 euro per il numero dei cittadini iscritti nelle liste elettorali delle circoscrizioni (o collegi) in cui il partito o gruppo presenta candidature, a tal fine sommando le iscrizioni nelle liste elettorali per la Camera e quelle per il Senato.

 


Titolo V e norme di attuazione

Profili generali del nuovo Titolo V

L’8 novembre 2001 entrava in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante Modificazioni del titolo V della parte seconda della Costituzione, sulla quale il 7 ottobre si era svolto con esito favorevole il referendum previsto dall’art. 138 Cost..

Tra gli aspetti innovativi della complessa riforma costituzionale, con particolare riguardo a quelli più direttamente afferenti il riparto delle competenze tra Stato e autonomie territoriali, si possono innanzitutto ricordare l’attribuzione allo Stato, alle Regioni e agli enti locali di una “pari dignità” quali enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.)[66], nonché l’inversione del criterio di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, che comporta, ai sensi del nuovo art. 117 Cost.:

§         un primo elenco di materie la cui disciplina è demandata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma) che cessa così di essere soggetto a competenza generale per divenire soggetto a competenza enumerata;

§         un secondo elenco di materie – che la stessa norma costituzionale definisce “di legislazione concorrente” – in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, terzo comma);

§         una norma di chiusura, secondo cui la potestà legislativa su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato spetta alle Regioni (competenza generale “residuale”: art. 117, quarto comma).

Il sistema di riparto delle competenze normative è completato dal principio di attribuzione della potestà regolamentare, che vede una riduzione della competenza statale, ampliandosi quella delle Regioni e degli enti locali: allo Stato spetta emanare i regolamenti nelle materie riservate alla sua competenza esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, mentre alle Regioni spetta la potestà regolamentare in ogni altra materia (e quindi anche in quelle di competenza concorrente). Ai comuni, alle province, alle città metropolitane spetta la potestà regolamentare per la disciplina riguardante l’organizzazione e il funzionamento delle competenze loro attribuite.

Per quanto concerne i criteri per il riparto delle funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost., la riforma del titolo V ha stabilito in via generale l’attribuzione delle funzioni amministrative presso il livello di governo più vicino al cittadino, e dunque, in via generale ai comuni, salvo conferimento ad altri livelli di governo sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, mirando a superare con ciò il principio del parallelismo tra attribuzione di funzioni legislative e attribuzione di funzioni amministrative[67] (che invece ispirava la precedente formulazione del primo comma dell’art. 118 Cost.)[68]. Inoltre, ha stabilito che comuni, province e città metropolitane siano titolari di una serie di funzioni proprie (anche se esse non sono definite dalla Costituzione) e delle ulteriori funzioni ad esse attribuite dalle leggi statale e regionale[69].

Ulteriore rilevante aspetto è costituito dall’attribuzione alle Regioni, ed altresì agli enti locali, dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art. 119 Cost.). Tra i principali elementi di novità, figura anche la specificazione della potestà tributaria degli enti territoriali, con la facoltà di stabilire ed applicare tributi propri; la  compartecipazioni a tributi erariali, esplicitamente in base alla riferibilità del relativo gettito al rispettivo territorio; l’istituzione, rimessa alla legge statale, di un fondo perequativo destinato ai territori con minore capacità fiscale; la precisazione secondo la quale il complesso delle risorse derivante dalle entrate e dai tributi propri, dalle compartecipazioni ai tributi erariali e dalle disponibilità assicurate dal fondo perequativo debbono consentire agli enti territoriali di finanziare “integralmente” le funzioni pubbliche loro attribuite. La disposizione costituzionale delimita poi la possibilità dello Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali a favore di singoli enti territoriali: infatti, le finalità che possono giustificare la destinazione di tali risorse e l’effettuazione di tali interventi sono indicate nella promozione dello sviluppo economico, nella coesione e la solidarietà sociale, nella rimozione degli squilibri economici e sociali, nell’“effettivo esercizio dei diritti della persona”, ovvero nel provvedere a “scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni” (degli enti territoriali)[70].

Peraltro, le disposizioni in materia di autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e delle autonomie locali di cui all’art. 119 non hanno sinora trovato piena attuazione legislativa (al riguardo, si rinvia ai capitoli Art. 119 Cost.: il federalismo fiscale e Verso il federalismo fiscale, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio) nonché, per alcune rilevanti precisazioni della giurisprudenza costituzionale, alla scheda Titolo V e giurisprudenza costituzionale).

Di particolare rilievo, sempre in correlazione con l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni, anche la soppressione del visto sulle leggi regionali e dei controlli preventivi sugli atti delle Regioni e degli enti locali[71] prevedendosi comunque – a date condizioni – un generale potere sostitutivo del Governo, nonché la possibilità per lo Stato e le Regioni di ricorrere alla Corte costituzionale per l’instaurazione in via principale del giudizio di legittimità costituzionale avverso leggi, rispettivamente, regionali e statali, in condizioni (processuali) di sostanziale parità (artt. 120, secondo comma e 127 Cost.)[72].

Con specifico riguardo all’esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato (art. 120 Cost.)[73], rispetto agli organi delle Regioni, delle città metropolitane e dei comuni, la nuova disciplina ha previsto che tali poteri siano attivabili quando si riscontri da parte di questi enti il mancato adempimento di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza e l’incolumità pubblica, ovvero lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Si demanda alla legge dello Stato il compito di disciplinare l’esercizio dei poteri sostituitivi nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione[74].

 

L’entrata in vigore del nuovo Titolo V ha posto, sin dall’inizio della legislatura, la pressante esigenza – accentuata dall’assenza di una disciplina transitoria – di introdurre norme e prassi che adeguassero l’ordinamento della Repubblica al nuovo quadro costituzionale e ne rendessero in concreto applicabili le disposizioni, anche in considerazione di alcuni nodi interpretativi di immediata evidenza.

 

Ai principali aspetti delle norme di attuazione adottate in sede di legislazione ordinaria (nonché ad alcune procedure parlamentari ad hoc) sono destinati i paragrafi seguenti.

Si fa presente fin d’ora che un rilevante contributo per la soluzione di questioni interpretative emerse nell’applicazione del nuovo Titolo V - che hanno comportato un notevole incremento del contenzioso Stato-Regioni - è stato offerto dalla giurisprudenza costituzionale in materia, per i cui orientamenti di carattere generale si rinvia alla scheda Titolo V e giurisprudenza costituzionale.

Per quanto riguarda invece le iniziative di rango costituzionale volte a modificare le linee della riforma o ad inserirla in un più ampio disegno di revisione in senso “federalista” – iniziative che hanno trovato esito nelle rilevanti innovazioni introdotte dalla legge costituzionale di riforma della Parte II della Costituzione – si rinvia alla parte I, capitolo Riforma dell’ordinamento della Repubblica.

L’attuazione nella legislazione ordinaria (legge “La Loggia”): aspetti generali

Sul piano della legislazione ordinaria, all’esigenza di “attuare e chiarire” la riforma del Titolo V si è inteso far fronte, principalmente, attraverso la L. 131/2003[75] (c.d. legge “La Loggia”). La legge reca, in particolare, disposizioni concernenti:

§         l’esercizio della potestà legislativa regionale e della potestà normativa degli enti locali;

§         la partecipazione delle Regioni in materia comunitaria[76] e l’attività internazionale delle Regioni;

§         le procedure per il conferimento delle competenze amministrative ai diversi livelli di governo e il loro esercizio;

§         l’esercizio del potere sostitutivo del Governo ex art. 120, co. 2°, Cost.;

§         l’adeguamento delle norme di procedura dei giudizi di legittimità costituzionale alle previsioni di cui ai nuovi artt. 123, co. 2°, e 127 Cost.;

§         l’istituzione, in luogo del Commissario di Governo, di un Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie;

§         l’applicazione della riforma alle Regioni a statuto speciale.

Di seguito vengono illustrati i contenuti essenziali della legge.

Vincoli alla potestà legislativa regionale e alla potestà normativa degli enti locali

In materia di esercizio della potestà legislativa regionale, la legge “La Loggia” interviene, con l’articolo 1, in merito all’attuazione dei commi primo e terzo dell’art. 117 Cost., al fine di precisare la portata del limite del rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, nonché i limiti propri della potestà legislativa concorrente, e l’operatività del meccanismo della “cedevolezza”.

Vincoli internazionali e comunitari

L’art. 117, co. 1°, Cost., nel testo vigente, indica quali limiti alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, oltre al rispetto della Costituzione, il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

 

Una parte della dottrina ha ritenuto che la disposizione costituzionale riformata introdurrebbe un nuovo vincolo per la legislazione statale: quest’ultima, infatti verrebbe sottoposta ai “vincoli” derivanti “dagli obblighi internazionali”, con riflessi sul piano della sovranità dell’ordinamento italiano e in aperto contrasto con una consolidata giurisprudenza costituzionale (vedi infra). Da parte di altri si esclude, invece, ogni ipotesi di automatica “costituzionalizzazione” dei trattati internazionali, poiché il significato dei “vincoli” di cui al primo comma dell’art. 117 Cost. va ricercato altrove, ovvero nelle disposizioni che la Costituzione dedica ai rapporti con l’ordinamento internazionale (artt. 10 e 11 Cost.). Secondo tale interpretazione, il nuovo primo comma dell’art. 117 avrebbe l’esclusiva finalità di equiparare le posizioni della legge statale e della legge regionale sotto il profilo del rispetto dei vincoli derivanti da tali trattati.

Gli “obblighi internazionali” come limite al legislatore sarebbero infatti una novità solo per il Parlamento statale. Il limite era già esplicito in vari statuti speciali e veniva applicato anche all’esercizio della potestà legislativa concorrente delle Regioni a statuto ordinario.

 

Il comma 1 dell’articolo 1 appare orientato a chiarire la portata della disposizione, specificando che costituiscono “vincoli” quelli derivanti dalle seguenti fonti:

§         le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’art. 10 Cost.[77];

§         gli accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 Cost.[78];

§         l’ordinamento comunitario[79];

§         i trattati internazionali[80].

 

Si osserva in proposito che:

§         l’art. 117, comma primo, non rinvia ad alcun tipo di legge l’attuazione della norma da esso recata, che appare dunque immediatamente e direttamente prescrittiva nei confronti sia del legislatore statale sia di quello regionale.

§         al pari dell’art. 117, primo comma, Cost., anche il comma 1 in esame non incide unicamente sulla funzione legislativa (piena o concorrente) delle Regioni – come potrebbe desumersi dalla rubrica dell’articolo – ma anche su quella dello Stato;

§         i vincoli all’esercizio della funzione legislativa (statale e regionale) ordinaria vengono specificati dal comma in esame, con una fonte – quindi – equiordinata;

Alla luce di tali osservazioni andrebbe considerato che il comma in esame non sembra poter legittimamente vincolare l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni[81], se non nei limiti in cui esso risulti idoneo ad orientare l’interpretazione dell’art. 117, primo comma, Cost., nella direzione più conforme al complessivo quadro costituzionale (senza, ovviamente, poterne limitare la portata).

La reciproca “cedevolezza” delle norme vigenti

Il comma 2 dell’articolo 1 contiene due disposizioni in qualche modo simmetriche, volte a regolare – mediante il meccanismo della “cedevolezza” - il passaggio dal precedente all’attuale assetto delle potestà legislative con riguardo agli effetti delle vigenti disposizioni normative statali sulle materie (divenute) regionali, e viceversa. Il comma dispone che:

§         le disposizioni statali vigenti nelle materie divenute di competenza regionale esclusiva e concorrente (quest’ultima salvo per quanto concerne i princìpi fondamentali) continueranno ad applicarsi fino a quando saranno sostituite (nelle singole Regioni) dalle nuove disposizioni regionali;

§         le disposizioni regionali vigenti nelle materie divenute di competenza esclusiva statale continueranno ad applicarsi fino a quando saranno sostituite dalle nuove disposizioni statali.

Nel solo primo caso, relativo alle disposizioni statali vigenti, si fa salva la disposizione di cui al comma 3 (vedi infra), il quale individua i princìpi fondamentali che delimitano l’esercizio della potestà legislativa concorrente delle Regioni in quelli espressi, nonché in quelli desumibili dalla legislazione vigente.

 

Il riferimento al comma 3 sembra poter significare che, nelle materie di legislazione concorrente, anche al sopraggiungere della legislazione regionale sostitutiva della previgente legislazione statale, quest’ultima manterrà la sua vigenza limitatamente ai princìpi fondamentali in essa presenti, sia in forma espressa sia in quanto desumibili da disposizioni di dettaglio.

Nel riferirsi a “disposizioni normative”, il comma sembra trovare applicazione tanto per le disposizioni legislative che per quelle regolamentari. Va ricordato, al riguardo, che il sesto comma dell’art. 117 Cost. assegna la potestà regolamentare allo Stato sulle sole materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (salva delega alle Regioni), alle Regioni sulle altre.

 

Va inoltre segnalato che la norma sancisce l’applicabilità sia delle norme vigenti al momento dell’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001 di riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, sia delle norme entrate in vigore successivamente a tale data (l’8 novembre 2001) e sino alla data di entrata in vigore della legge “La Loggia”.

 

La conformità al dettato costituzionale della prima tra le due fattispecie sembra pacifica: il nuovo art. 117 Cost., ridefinendo il quadro delle competenze legislative, assume infatti rilievo ai fini del legittimo esercizio della relativa potestà, ma non incide sulla legittimità delle leggi approvate in vigenza del precedente ordinamento.

La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale appare chiaramente orientata nel senso che le norme approvate prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale – per il principio di continuità dell’ordinamento – non sono divenute incostituzionali a seguito del sopravvenire di questa[82].

Peraltro la disposizione in esame, con la seconda fattispecie, fa salva l’applicabilità delle norme (statali o regionali) adottate, al di fuori dei limiti di competenza sanciti dalla Costituzione, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo titolo V e fino all’entrata in vigore del testo di legge in esame. In virtù della prevalenza delle norme costituzionali sulle norme di legge, non sembra che tale disposizione possa comunque porre al riparo da giudizi di legittimità costituzionale eventuali disposizioni legislative intervenute in vigenza del nuovo assetto costituzionale delle competenze e in violazione del medesimo.

L’introduzione nel testo dell’inciso che fa salvi gli “effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale” sembra evidenziare che future sentenze della Corte costituzionale potranno ben dichiarare norme statali e regionali incostituzionali, senza che a ciò osti la statuizione della continuità di applicazione, sancita nel testo qui in esame.

Benché nulla il testo disponga espressamente, potrebbe dal suo tenore desumersi, a contrario, che il meccanismo della normazione statale “cedevole” nei confronti della successiva legislazione regionale non potrà essere adottato in futuro dallo Stato per legiferare su materie estranee alla propria competenza (lo stesso divieto vale, reciprocamente, per le Regioni).

Potestà legislativa concorrente e princìpi fondamentali

Per quanto attiene alla  individuazione dei princìpi fondamentali in materie di competenza concorrente, la legge “la Loggia”, sempre all’articolo 1, ha stabilito  che:

§         il legislatore regionale esercita la propria della potestà legislativa concorrente nell’ambito dei princìpi fondamentali “espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti” (comma 3): il testo riconosce dunque alle Regioni la possibilità di esercitare immediatamente la loro potestà legislativa concorrente, pur in assenza di leggi statali recanti i princìpi fondamentali, desumendosi tali princìpi dal complesso della legislazione statale vigente nelle relative materie. Tale scelta normativa riflette l’orientamento giurisprudenziale e legislativo consolidatosi in costanza del previgente art. 117 Cost., che appare confermato, all’indomani della riforma, dalla giurisprudenza costituzionale.

 

Successivamente alla riforma del Titolo V, infatti, la sentenza della Corte costituzionale n. 282/2002[83] ha affermato che, se “la nuova formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente dell’art. 117, primo comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie [di potestà concorrente] e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina”, “ciò non significa però che i principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore”.

Quanto poi all’inciso “in difetto”, presente nella formulazione del comma 3 dell’articolo 1 in esame, esso potrebbe favorire un’interpretazione secondo la quale solo nell’ipotesi in cui non sia stata approvata una “legge cornice” in una delle materie di cui all’articolo 117, comma terzo della Costituzione, il legislatore regionale debba rinvenire i princìpi fondamentali “impliciti” nella legislazione di settore; e, per converso, quando vi sia una “legge cornice” il legislatore regionale dovrebbe avere a riferimento solo tale fonte e non potrebbe essere vincolato anche ad altri princìpi desumibili aliunde nella legislazione statale. Tale principio di esclusività a vantaggio della “legge cornice” (ove presente) sembrerebbe confermato anche dal successivo comma 4 (vedi infra), ove si prevede, tra i princìpi di delega, per l’appunto, quello dell’“esclusività”.

 

§         il Governo è delegato ad emanare, ai sensi dei commi 4-6 dell’articolo 1  - entro un termine attualmente individuato nell’11 giugno 2006[84] - uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto la ricognizione dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti nelle materie attribuite alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni. Ciò avviene “in sede di prima applicazione, per orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi princìpi fondamentali”.

 

La norma di delega è stata oggetto di esame da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 280 del 2004), la quale, puntualizzando la natura meramente ricognitiva della delega, si è pronunciata nel senso di una “lettura minimale” della stessa: si tratta “di un quadro ricognitivo di principi già esistenti, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative regionali, determinato dal mutamento del Titolo V della Costituzione, andrà a regime”, cioè fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali. La Corte si è spinta ad affermare che “è soltanto un quadro di primo orientamento destinato ad agevolare – contribuendo al superamento di possibili dubbi interpretativi – il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza peraltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali”[85].

 

La norma di delega ha previsto una complessa procedura per l’adozione dei decreti legislativi delegati[86]

 

La procedura si articola nei seguenti passaggi:

§         la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri;

§         il concerto con i ministri interessati;

§         un primo parere della Conferenza Stato-Regioni (per il quale non è posto alcun termine, a differenza di quanto previsto per le Camere);

§         un primo parere delle Camere (Commissioni parlamentari competenti per materia e Commissione parlamentare per le questioni regionali), da rendersi entro 60 giorni dall’assegnazione alle competenti Commissioni parlamentari;

§         il riesame da parte del Governo;

§         il parere definitivo della Conferenza Stato-Regioni, da rendersi entro 30 giorni dalla ritrasmissione del testo eventualmente modificato dal Governo o corredato delle sue osservazioni;

§         il parere definitivo delle Camere (espresso dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali), da rendersi entro 60 giorni dalla ritrasmissione del testo.

La disposizione individua anche i parametri ai quali il parere parlamentare deve conformarsi: esso infatti dovrebbe rilevare la presenza di disposizioni che costituiscano princìpi fondamentali innovativi (e non meramente ricognitivi), ovvero che non costituiscano princìpi fondamentali (perché, ad esempio, norme di dettaglio)[87].

 

Quali princìpi di delega, il comma 4indica i seguenti: esclusività[88]; adeguatezza[89]; chiarezza; proporzionalità[90]; omogeneità[91].

I criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell’esercizio della delega sono elencati nelle lettere da a) ad e) del comma 6, e richiedono:

§         che il Governo, nella sua opera ricognitiva, proceda per settori organici della materia e utilizzi criteri oggettivi desumibili dal complesso delle funzioni attinenti alla materia stessa[92], in modo in modo da salvaguardare la potestà legislativa che la Costituzione riconosce alle Regioni in base al terzo comma dell’art. 117[93],

§         che abbiano considerazione prioritaria, ai fini dell’individuazione dei princìpi fondamentali, le disposizioni statali rilevanti per garantire l’unità giuridica ed economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il rispetto delle norme e dei trattati internazionali e della normativa comunitaria e la tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica[94]; quale ulteriore priorità, è richiesto il rispetto dei princìpi generali in materia di procedimenti amministrativi e di atti concessori o autorizzatori.

§         che abbia considerazione prioritaria il nuovo sistema di rapporti istituzionali derivante dagli articoli 114, 117 e 118 Cost.; tale criterio dà emersione, nell’opera di ricognizione dei princìpi fondamentali vigenti, alla c.d. “pari ordinazione” degli enti costitutivi della Repubblica (art. 114), nonché ai nuovi criteri di riparto delle competenze legislative ed amministrative, che si saldano con il principio di sussidiarietà (v. supra)

§         che abbiano, infine, “considerazione prioritaria” gli obiettivi generali assegnati alla legislazione regionale, in base al principio di pari opportunità espresso dal settimo comma dell’art. 117 Cost.[95], e dal primo comma dell’articolo 51 Cost[96].

§         il coordinamento formale delle disposizioni di principio e la loro eventuale semplificazione[97].

La delega in questione risulta allo stato esercitata solo con riguardo ad un ambito limitato di materie:

§         “professioni” (D.Lgs. 30/2006);

§         “armonizzazione dei bilanci pubblici” (D.Lgs. 170/2006);

§         “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale” (D.Lgs. 171/2006).

Risulta in corso di adozione il decreto legislativo concernente la materia “governo del territorio”.

Si ricordano infine due ulteriori deleghe legislative, recate dalla legge in esame:

§         la prima (articolo 2), avente ad oggetto l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., nonché l’adeguamento al nuovo Titolo V delle disposizioni vigenti in materia di enti locali, non ha trovato attuazione entro il termine per l’esercizio, fissato da ultimo al 31 dicembre 2005;

§         la seconda (articolo 3) per l’adozione - entro un anno dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui all’articolo 1 – di testi unici meramente compilativi delle disposizioni legislative vigenti non aventi carattere di principio fondamentale nelle materie di legislazione concorrente[98].

La potestà normativa degli enti locali

L’articolo 4 dà attuazione alle disposizioni costituzionali in materia di potestà normativa di comuni, province e città metropolitane recate negli articoli 114, comma secondo, e 117, comma sesto, della Costituzione.  In tali disposizioni:

§         i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono riconosciuti come enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione (art. 114, comma secondo);

§         si attribuisce la potestà regolamentare ai diversi enti territoriali secondo il seguente criterio di riparto (art. 117, comma sesto):

-       allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni;

-       alle Regioni in ogni altra materia;

-       a Comuni, Province e Città metropolitane, in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Anche nel caso dell’articolo in commento, come già per il precedente art. 1, non si rinviene nelle disposizioni costituzionali citate un rinvio ad una legge dello Stato per l’attuazione delle disposizioni stesse.

Il comma 1, che richiama l’assegnazione a Comuni, Province e Città metropolitane della potestà normativa secondo i princìpi fissati dalla Costituzione, specifica che tale potestà normativa consiste nella potestà statutaria e in quella regolamentare.

L’esercizio di tale potere normativo è esteso, anche alle forme associative tra gli enti locali, individuate specificamente nelle Unioni di comuni, Comunità montane e isolane (comma 5)[99].

Vengono poi individuati i limiti e il contenuto necessario dello statuto adottato dall’ente locale (o dalle forme associative tra enti locali) nell’esercizio della propria autonomia normativa (comma 2)[100].

Sotto il primo profilo, la disposizione precisa che lo Statuto deve essere adottato in armonia con la Costituzione[101], nonché in armonia con i princìpi generali in materia di organizzazione pubblica; nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione. Tale lett. p) affida alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.

Il contenuto proprio dello statuto[102] comprende i seguenti oggetti:

§         i princìpi di organizzazione e di funzionamento dell’ente[103];

§         le forme di controllo, anche sostitutivo;

§         le garanzie delle minoranze;

§         le forme di partecipazione popolare.

Alla potestà regolamentare degli enti locali è rimessa la disciplina dell’organizzazione dell’ente, nel rispetto delle norme statutarie[104] (comma 3)[105]. Sembra essere pertanto confermata la compresenza, in materia di organizzazione e funzionamento dell’ente locale, dello statuto, che detta i princìpi in materia (in armonia con la Costituzione, e con i princìpi generali in materia di organizzazione pubblica e nel rispetto della legge statale di cui s’è detto), e dei regolamenti, i quali dettano la disciplina di dettaglio, nel rispetto delle norme statutarie.

Alla potestà regolamentare degli enti locali è altresì riservata la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle proprie funzioni, nell’ambitodella legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità[106].

 

Tale competenza regolamentare è già direttamente contemplata dall’articolo 117, comma sesto, Cost. (richiamato dalla disposizione in esame accanto agli art. 114 e 118 Cost.), a norma del quale “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”; rispetto a tale formulazione, il comma 4 in esame reca l’ulteriore ambito di competenza relativo alla “gestione” delle funzioni stesse.

Va inoltre sottolineato che la richiamata disposizione costituzionale, individuando uno specifico ambito di competenza regolamentare degli enti locali, se da un lato sembra confermare le indicazioni già esistenti a livello di legislazione ordinaria – a partire dalla legge n. 142/1990, fino al testo unico degli enti locali – dall’altro lato conferisce a tale sfera di competenza un’espressa garanzia costituzionale, come espressione del principio di autonomia di cui all’articolo 114, comma secondo, Cost.

Ciò sembra sancire una sorta di “riserva di regolamento” a favore degli enti locali, con la conseguenza che altre fonti dell’ordinamento non potrebbero regolare gli aspetti riservati a tale fonte senza configurare una violazione della competenza così stabilita.

 

Il principio di cedevolezza viene infine applicato agli ambiti di competenza normativa degli enti locali, in quanto l’articolo in esame (comma 6) dispone che, fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali[107], fermo restando quanto previsto dal presente articolo. La dizione “norme” statali e regionali comprende sia quelle di rango primario, che quelle di rango secondario, ossia i regolamenti statali e regionali.

Partecipazione in materia comunitaria e attività internazionale delle Regioni

L’articolo 5 (comma 1) della L. 131/2003 reca disposizioni concernenti la partecipazione delle Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano alla formazione degli atti comunitari e dell’Unione europea (c.d. “fase ascendente”), in attuazione dell’articolo 117, quinto comma, della Costituzione[108].

L’articolo in esame non concerne l’attuazione da parte delle Regioni degli atti comunitari (c.d. “fase discendente”), che viceversa è oggetto della legge n. 11 del 2005, di riforma della legge c.d.”La Pergola”. Peraltro, tale riforma interviene anche sulla partecipazione degli enti territoriali alla fase ascendente, definendo in dettaglio tale partecipazione[109] (v. scheda La legge n. 11 del 2005, nel dossier relativo alla Commissione Politiche dell’Unione europea).

L’articolo in esame precisa che Regioni e Governo “concorrono direttamente”, (formula che sembra ampliare il “partecipano” previsto dal testo costituzionale), anche se il concorso diretto si concretizza poi nella medesima partecipazione.

La partecipazione è, nell’ambito delle delegazioni del Governo, alle attività del Consiglio e dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio medesimo nonché della Commissione, secondo modalità da concordare in sede di Conferenza Stato-Regioni. Sono previsti due limiti per le decisioni assunte in tale sede, vale  dire la garanzia dell’unitarietà della rappresentanza e della designazione del Capo delegazione, rappresentante unitario, da parte del Governo. Un ulteriore limite attiene alla particolarità delle Autonomie speciali: nelle delegazioni del governo deve essere presente almeno un rappresentante di tali autonomie.

Per le materie spettanti alla competenza “residuale” delle Regioni ex art. 117, quarto comma Cost., si prevede una particolare procedura per la designazione del Capo delegazione, che prevede un accordo generale di cooperazione tra Stato e Regioni, stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni. “In attesa o in mancanza dell’accordo”, il Capo delegazione è designato dal Governo[110].

Il comma 2 dell’articolo 5 prevede poi che nelle materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, il Governo può proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee avverso gli atti normativi comunitari ritenuti illegittimi anche su richiesta di una delle Regioni o delle Province autonome. Mentre in tal caso si configura quindi una mera facoltà, il Governo è invece tenuto a proporre tale ricorso qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni a maggioranza assoluta delle Regioni e delle Province autonome.

 

Il comma è riferibile alla procedura del ricorso per annullamento di atti di istituzioni comunitarie diversi dai pareri, prevista nell’articolo 173 del Trattato istitutivo delle comunità europee, divenuto l’articolo 230 del testo consolidato[111].

Con riguardo all’ambito applicativo, si osserva che l’articolo fa riferimento alle “materie di competenza legislativa (delle Regioni), mentre il testo costituzionale (art. 117, quinto comma) si riferisce semplicemente alle “materie di competenza” (dizione che appare indicare un ambito più ampio).

 

La stessa formulazione “materie di [loro] competenza legislativa” è utilizzata anche dall’articolo 6, relativo all’attuazione dell’art. 117, quinto e nono comma[112], in materia di accordi internazionali. Tale articolo autorizza infatti le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano[113]:

§         appunto, nelle materie di propria competenza legislativa (v. supra), a provvedere direttamente all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali ratificati[114], dandone preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per gli affari regionali, i quali, nei successivi trenta giorni dal relativo ricevimento, possono formulare criteri e osservazioni (comma 1, che si ricollega all’art. 117, primo comma Cost.);

§         a concludere, con enti territoriali interni ad altro Stato, intese dirette a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale, nonché a realizzare attività di mero rilievo internazionale, dandone comunicazione prima della firma alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per gli affari regionali ed al Ministero degli affari esteri, ai fini delle eventuali osservazioni di questi ultimi e dei Ministeri competenti, da far pervenire entro i successivi trenta giorni. Decorso  tale termine, le Regioni e le Province autonome possono sottoscrivere l’intesa. Si esclude espressamente che, con gli atti relativi alle attività sopra indicate, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possano esprimere valutazioni relative alla politica estera dello Stato, ovvero che possano assumere impegni dai quali derivino obblighi od oneri finanziari per lo Stato o che ledano gli interessi degli altri soggetti “costitutivi” della Repubblica ex art. 114, primo comma Cost. (comma 2, che si ricollega all’art. 117, nono comma Cost.);

§         a concludere con altri Stati accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, o accordi di natura tecnico-amministrativa, o accordi di natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale[115]. Anche in tal caso è previsto un meccanismo per garantire la preventiva, tempestiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri, anche per consentire al Ministero degli affari esteri di indicare principi e criteri da seguire nella conduzione dei negoziati[116] (comma 3, che si ricollega all’art. 117, nono comma Cost.).

Ulteriori disposizioni prevedono l’intervento del Ministro degli affari esteri per garantire – tramite un’interazione con la Regione o Provincia autonoma interessata – che siano considerate questioni di opportunità derivanti dalle scelte e dagli indirizzi di politica estera dello Stato. In caso di dissenso può chiedere che la questione sia rimessa al Consiglio dei ministri che, con l’intervento del Presidente della Giunta regionale o provinciale interessato, delibera sulla questione.

Per i casi di inadempienza (comma 1) o di violazione degli accordi (comma 3), ferma restando la responsabilità delle Regioni verso lo Stato, si applicano le disposizioni relative ai poteri sostitutivi (di cui all’articolo 8, commi 1, 4 e 5) in quanto compatibili.

Con riguardo alle Regioni a statuto speciale, si ricorda che anche il successivo articolo 11 (vedi infra) dispone, al comma 3, in materia di rapporti internazionali e comunitari di tali Regioni (e delle province autonome), prevedendo che le norme di attuazione dei rispettivi statuti possano recare disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali.

Norme per l’esercizio di funzioni amministrative

L’articolo 7 della L. 131/2003, intervenendo in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione (v. supra), prevede che lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, debbono provvedere a conferire le funzioni amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della legge, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (comma 1).

In correlazione con il disposto costituzionale che attribuisce tali funzioni in via generale ai Comuni, l’articolo stabilisce che sono attribuite agli enti posti a livello territorialmente superiore (Province, Città metropolitane, Regioni e Stato soltanto) quelle di cui occorra assicurare l’unitarietà di esercizio (sostanzialmente ribadendo la formulazione dell’art. 118, primo comma Cost.).

La disposizione non si limita a riconfermare il dato costituzionale, ma sembra specificarlo, allorché richiama, ai fini della valutazione sulle esigenze di unitarietà di esercizio, motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell’azione amministrativa ovvero motivi funzionali o economici o esigenze di programmazione o di omogeneità territoriale.

Si stabilisce esplicitamente che debbano essere rispettate, anche ai fini dell’assegnazione di ulteriori funzioni, le attribuzioni degli enti di autonomia funzionale, anche nei settori della promozione dello sviluppo economico e della gestione dei servizi.

Inoltre Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e Comunità montane sono tenute a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà (c.d. “orizzontale”).

Una norma di chiusura afferma che tutte le altre funzioni amministrative non diversamente attribuite spettano ai Comuni, che le esercitano in forma singola o associata, anche mediante le Comunità montane e le unioni dei Comuni.

 

Con riguardo ai principi espressamente indicati dall’art. 118, comma 1, primo periodo, riprodotti nella disposizione di legge qui in esame[117], si ricorda che:

§         il principio di sussidiarietà: in base ad esso la generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è attribuita “ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, all’autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati” [118]. In tale definizione si ritrovano le due articolazioni del principio di sussidiarietà: il principio di sussidiarietà verticale, in virtù del quale l’esercizio delle funzioni e dei servizi deve essere dislocato ad un livello di governo più vicino ai cittadini utenti, restando la possibilità di intervento dei livelli superiori di governo limitata ai casi di esercizio a livello unitario; il principio di sussidiarietà orizzontale, in base al quale sono demandate a soggetti pubblici solo ciò che non può essere utilmente svolto dai soggetti privati;

§         il principio di differenziazione: concerne l’allocazione delle funzioni  che deve avvenire “in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi”[119];

§         il principio di adeguatezza: l’amministrazione destinataria del conferimento di funzioni amministrative deve essere idonea, sotto il profilo organizzativo, “a garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni”[120].

 

Successive disposizioni stabiliscono, per le finalità poc’anzi enunciate, e comunque, ai fini del trasferimento delle occorrenti risorse:

§         la stipula di accordi con le Regioni e le autonomie locali, da concludere in sede di Conferenza unificata, diretti in particolare all’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative necessarie per l’esercizio delle funzioni e dei compiti da conferire;

§         la presentazione al Parlamento, da parte del Governo[121], uno o più disegni di legge collegati, ai sensi dell’articolo 3, comma 4, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, alla manovra finanziaria annuale, per il recepimento dei suddetti accordi[122]. Nel corso della XIV legislatura non sono stati peraltro presentati disegni di legge di tale genere;

§         una disciplina transitoria, che consente, sulla base dei medesimi accordi e nelle more dell’approvazione dei disegni di legge citati, di avviare i trasferimenti dei suddetti beni e risorse secondo princìpi di invarianza di spesa[123], presentando uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, che tengano conto delle previsioni di spesa risultanti dal bilancio dello Stato e del patto di stabilità, nonché delle indicazioni contenute nel Documento di programmazione economico-finanziaria, come approvato dalle risoluzioni parlamentari. Sugli schemi di decreto, ciascuno dei quali deve essere corredato di idonea relazione tecnica, deve essere acquisito il parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per le conseguenze di carattere finanziario, da rendere entro trenta giorni dall’assegnazione[124]. Anche con riferimento a questi atti, si fa presente che nel corso della XIV legislatura la disposizione non ha avuto concreta applicazione;

§         un’articolata disciplina delle funzioni della Corte dei conti, a fini di coordinamento della finanza pubblica: in particolare, la Corte è tenuta a verificare il rispetto degli equilibri di bilancio da parte degli enti territoriali[125], nonché (tramite le sezioni regionali di controllo) il rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei controlli interni[126]. Le Regioni[127] possono richiedere ulteriori forme di collaborazione alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

Disposizioni ulteriori riguardano la possibilità di integrare le medesime sezioni regionali di controllo con due componenti di designazione regionale, nonché i requisiti e lo status di tali componenti[128].

Per ulteriori elementi in materia di trasferimento delle risorse alle Regioni e agli enti locali, si rinvia ai capitoli Art. 119 Cost.: il federalismo fiscale e Verso il federalismo fiscale, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio).

I poteri sostitutivi

L’articolo 8 della L. 131/2003 detta norme attuative dell’articolo 120, comma secondo, della Costituzione (v. supra), il quale richiede espressamente l’adozione di una legge dello Stato che individui le procedure per l’esercizio dei poteri sostitutivi.

Va ricordato che la disciplina dei poteri sostitutivi nel contesto del novellato titolo V Cost. si accompagna all’abrogazione delle disposizioni costituzionali che prevedono forme di controllo preventivo sugli atti legislativi e amministrativi delle Regioni e sugli atti dei comuni[129].

Il testo in esame non precisa il contenuto specifico dei presupposti che condizionano l’esercizio concreto dei poteri sostitutivi del Governo, limitandosi  a far riferimento ai casi ed alle finalità previsti dall’articolo 120 della Costituzione.

Dalla lettera dell’articolo 120, secondo comma della Costituzione, potrebbero ricondursi alla categoria dei “casi” le ipotesi di:

§      mancato rispetto di norme e trattati internazionali;

§      mancato rispetto della normativa comunitaria;

§      pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica.

Le altre ipotesi delineate dal medesimo comma secondo potrebbero, invece, inquadrarsi nel criterio teleologico delle “finalità”: il potere sostitutivo può, infatti, essere esercitato “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Il comma 1 dell’articolo 8delinea un meccanismo che ruota attorno alla fissazione di un congruo termine per l’adozione da parte dell’ente degli “atti dovuti o necessari”.

La fissazione del termine e la previsione, dopo il suo inutile decorso, dell’intervento sostitutivo del Governo viene a configurare un’ipotesi di inadempienza avente ad oggetto atti che, in quanto “dovuti” dovrebbero trovare un proprio fondamento in una disposizione di legge o comunque normativa[130].

Viene individuata una procedura che può essere qualificata come “generale” (comma 1), sul cui tronco si innestano, poi, le procedure “settoriali” previste dai successivi commi per le specifiche ipotesi ivi indicate[131].

Alla fissazione del “congruo termine” per l’adozione degli atti “dovuti o necessari” provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali. Decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Ministri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei Ministri, esercita il potere sostitutivo, che può esprimersi adottando direttamente i “provvedimenti necessari, anche normativi”, ovvero nominando un apposito Commissario[132][133]. Alla riunione del Consiglio dei Ministri partecipa il Presidente della Giunta regionale della Regione interessata al provvedimento

Si tenga presente che il successivo articolo 10 affida l’esecuzione di provvedimenti costituenti esercizio del potere sostitutivo direttamente adottati dal Consiglio dei ministri al Rappresentante dello Stato, ossia al prefetto titolare dell’Ufficio territoriale del Governo del capoluogo di Regione, cui sono trasferite le funzioni del Commissario del Governo compatibili con la riforma costituzionale[134].

Il comma1dell’articolo 8, facendo espresso riferimento a provvedimenti “anche normativi”, prefigura la possibile adozione, da parte del Governo, di atti di natura regolamentare, nonché di natura legislativa.

Per quanto riguarda il potere sostitutivo in materia comunitaria, l’articolo 8 (comma 2) individua la prima “disciplina settoriale” che si innesta sul tronco della procedura generale di cui al comma 1, ed ha ad oggetto le ipotesi di violazione della normativa comunitaria.

La particolarità della disciplina specifica di cui al comma 2[135] attiene alla fase della proposta: si specifica, infatti, che nei casi in cui si renda necessario esercitare il potere sostitutivo al fine di porre rimedio ad una violazione della normativa comunitaria, il potere di proposta spetti al Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le politiche comunitarie, unitamente al Ministro competente per materia.

È stato conseguentemente abrogato l’articolo 11 della L. 86/1989 (c.d. “legge La Pergola”)[136], che dettava la disciplina vigente in tema di procedure per l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato nei casi di inadempimenti agli obblighi comunitari da parte di Regioni e province autonome.

Peraltro, è stata successivamente approvata la legge n. 11 del 2005, di riforma della “legge La Pergola”, la quale dispone anche, in attuazione all’art. 117, quinto commaCost. (v. supra), sotto il profilo della disciplina delle modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempimento degli obblighi comunitari[137]. Sul punto, v. scheda La legge n. 11 del 2005, nel dossier relativo alla Commissione Politiche dell’Unione europea).

La legge “La Loggia” prevede una seconda “procedura settoriale” (art. 8, comma 3) per i casi in cui l’esercizio del potere sostitutivo riguardi gli enti locali (Comuni, province o Città metropolitane)[138].

In questi casi si prevede che la nomina del Commissario debba tenere conto dei princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione[139] e si richiede, per l’adozione dei provvedimenti sostitutivi da parte del Commissario stesso, che sia sentito il Consiglio delle autonomie locali (qualora tale organo sia stato istituito).

Poiché anche tale disposizione pare innestarsi come specificazione di una particolare fase procedurale, nell’ambito della disciplina generale delineata dal comma 1, essa non comporta l’esclusione dell’esercizio dei poteri sostitutivi nei riguardi degli enti locali secondo l’altra opzione indicata dal comma 1, ossia attraverso l’adozione, direttamente da parte del Consiglio dei ministri, dei provvedimenti necessari, anche normativi.

 L’articolo 8 prevede poi  una  “procedura d’urgenza” (comma 4), ricalcando almeno in parte quanto disposto dall’articolo 5, comma 3 del decreto legislativo n. 112 del 1998[140]: si tratta di una procedura speciale, cui il Governo può fare ricorso nei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione: in questi casi, i provvedimenti necessari sono adottati dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali. I provvedimenti in questione sono poi immediatamente comunicati alla Conferenza Stato-Regioni o alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, allargata ai rappresentanti delle comunità montane, che possono chiederne il riesame.

 

Il comma 4 dell’articolo 8 in esame non fa alcun riferimento alla natura dei provvedimenti in questione e – quindi – trattandosi di provvedimenti adottati dal Consiglio dei ministri potrebbe trattarsi anche di decreti-legge. Tuttavia, la previsione secondo cui la Conferenza Stato-Regioni (o quella Stato-città) può chiedere il riesame dei provvedimenti stessi dovrebbe far propendere per un’interpretazione che individui la natura amministrativa o - al più - regolamentare dei “provvedimenti sostitutivi d’urgenza” qui disciplinati: altrimenti la possibilità di “riesame” da parte del Governo del provvedimento emanato non apparirebbe compatibile con l’istituto del decreto-legge e la sua conversione in legge come delineati dalla Costituzione. Va poi osservato che il comma 4 configura regole procedurali ridotte, rispetto a quelle recate dal comma 1: il “peso” del principio di “leale collaborazione”, richiesto dall’art. 120 della Costituzione, appare infatti minore[141].

Si segnala che il medesimo articolo 8 (comma 5) impone, per l’adozione dei provvedimenti sostitutivi, il criterio della proporzionalità degli stessi in rapporto alle finalità perseguite. Si ricorda che il criterio della proporzionalità è stato già individuato dalla giurisprudenza costituzionale in materia di poteri sostitutivi statali[142].

Infine, l’articolo 8 (comma 6) stabilisce che il Governo possa promuovere la stipula di intese in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire:

§         l’armonizzazione delle rispettive legislazioni[143];

§         il raggiungimento di posizioni unitarie;

§         il conseguimento di obiettivi comuni.

 

Nei casi in cui il Governo promuova tali intese, per il loro raggiungimento non si applicano – per espressa esclusione della disposizione in esame – i commi 3 e 4 dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, i quali individuano due meccanismi che consentono al Governo, quando non sia stato possibile giungere ad un’intesa in sede di Conferenza, di provvedere comunque[144].

L’esclusione dell’applicazione di queste due specifiche disposizioni dell’articolo 3 del d.lgs. n. 281/97 da un lato sembra indicare come necessario il positivo conseguimento di un’intesa, dall’altro riconduce le intese di cui qui si tratta nell’alveo della procedura delineata, appunto dal citato articolo 3, richiedendo, quindi, che esse si perfezionino “con l’espressione dell’assenso del Governo e dei presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano” (articolo 3, comma 2, D.Lgs. 281).

 

Da ultimo, l’articolo 8 (sempre comma 6) esclude espressamente che nelle materie per le quali si configura una competenza legislativa regionale, sia concorrente che residuale (art. 117, terzo e quarto comma), lo Stato possa adottare gli atti di indirizzo e di coordinamento[145].

 

La formulazione utilizzata potrebbe indurre a ritenere che invece nelle altre materie, ossia in quelle di legislazione esclusiva dello Stato (di cui al secondo comma dell’articolo 117) essi possano essere adottati. La disposizione svolgerebbe, inoltre, se interpretata in questo senso, la funzione di fornire la “copertura legislativa” che la costante giurisprudenza della Corte costituzionale ha richiesto – nel vigore del testo costituzionale precedente la riforma del 2001 – per escludere che atti governativi di indirizzo e coordinamento di natura non legislativa configurassero conflitti di attribuzione.

Peraltro, va ricordato sono state da più parti sollevate perplessità[146] sulla permanenza, nel nuovo assetto costituzionale delineato dalla riforma del Titolo V, di un generale potere di indirizzo e coordinamento dello Stato (fatti salvi i casi specificamente previsti dall’art. 118, comma terzo), in particolare essendo venuto meno l’espresso riferimento all’interesse nazionale, del quale il potere di indirizzo e coordinamento rappresentava (secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale) il “risvolto positivo”[147].

La Corte costituzionale ha avviato un indirizzo giurisprudenziale che sembra consentire allo Stato, in relazione alle materie rientranti, a titolo sia residuale che concorrente, nella competenza regionale, soltanto l’adozione di atti di mero coordinamento tecnico[148].

La recente giurisprudenza costituzionale esclude poi la possibilità per lo Stato di adottare regolamenti quali atti di indirizzo e coordinamento, in particolare in forza del combinato disposto dei “nuovi” artt. 117 e 118 Cost.[149]

I ricorsi alla Corte costituzionale

L’articolo 9 della L. 131/2003 apporta alcune modifiche alla procedura dei giudizi di legittimità costituzionale[150], al fine di adeguarla al nuovo testo degli articoli 123, secondo comma (come modificato dalla legge costituzionale n. 1 del 1999) e 127 della Costituzione (modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001). Le modifiche riguardano principalmente:

§         la promozione della questione di legittimità costituzionale nei confronti degli statuti regionali, che prima della legge n. 1 del 1999 non era prevista in quanto gli statuti erano approvati con legge statale (comma 1): la questione può, a norma del secondo comma dell’articolo 123 della Costituzione, essere promossa entro il termine di trenta giorni dalla pubblicazione.

§         la promozione della questione di legittimità costituzionale delle leggi regionali successivamente alla loro pubblicazione, dal momento che è venuto meno il controllo preventivo del Governo dopo la modifica dell’articolo 127 Cost. (comma 1); il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale della legge regionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione. La questione di legittimità costituzionale è sollevata, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, anche su proposta della Conferenza Stato-Città e autonomie locali, dal Presidente del Consiglio dei ministri mediante ricorso diretto alla Corte costituzionale e notificato, entro i termini previsti dal medesimo articolo, al Presidente della Giunta regionale.

§         la questione di legittimità costituzionale delle leggi statali, che può essere promossa dal Presidente della Giunta regionale, previa deliberazione della stessa Giunta ed anche su proposta del Consiglio delle autonomie locali, organismo da istituirsi in ogni Regione ai sensi del comma 3 dell’art. 123 Cost. (comma 2); il ricorso è diretto alla Corte costituzionale e notificato al Presidente del Consiglio dei ministri (anche in questo caso, entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto impugnati);

§         la promozione della questione di legittimità costituzionale delle leggi regionali da parte di un’altra Regione, disciplinata dall’articolo 33 della legge n. 87 del 1953: viene eliminato il riferimento alla legge costituzionale n. 1 del 1948 e sostituito da quello all’articolo 127 della Costituzione (comma 3);

§         l’indicazione di un termine di novanta giorni per la fissazione da parte della Corte costituzionale dell’udienza di discussione dei ricorsi di legittimità costituzionale, e la previsione di termini abbreviati qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini[151]  (comma 4);

§         l’obbligo, da parte delle Regioni, di assicurare la pronta reperibilità degli atti contenenti la pubblicazione degli statuti e delle leggi regionali (comma 5);

§         la regolazione della trattazione dei ricorsi per conflitto di attribuzioni proposti prima della data di entrata in vigore (8 novembre 2001) della legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001 (comma 6)[152].

Il Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie

L’articolo 10 della legge “La Loggia” prevede che, in ogni Regione a statuto ordinario, il prefetto preposto all’ufficio territoriale del Governo avente sede nel capoluogo della Regione svolga le funzioni di rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie[153], sostanzialmente attribuendogli le funzioni già esercitate dal Commissario del Governo (con l’eccezione di quelle soppresse con la riforma del titolo V della Costituzione[154]).

Il nuovo titolo V non richiede peraltro espressamente un intervento del legislatore ordinario in materia, in quanto si limita a non prevedere più né la figura del Commissario del Governo né le funzioni a questi attribuite[155]; è stato  peraltro ritenuto necessario un adeguamento della legislazione ordinaria alle modifiche costituzionali intervenute sul punto[156].

L’articolo, nel disciplinare la figura del Rappresentante dello Stato, reca anche disposizioni di attuazione parziale di alcune disposizioni del Titolo V[157].

Infatti, al Rappresentante dello Stato (prefetto) competono in particolare attività volte ad assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione tra Stato e Regione ed il raccordo tra le istituzioni dello Stato presenti sul territorio, la promozione dell’attuazione di intese e del coordinamento nelle materie di cui all’art. 118, terzo comma[158], l’esecuzione di provvedimenti adottati dal Consiglio dei Ministri nell’esercizio del potere sostitutivo di cui all’articolo 120, secondo comma, della Costituzione,  nonché un insieme di attività volte alla raccolta di dati ed alla tempestiva informazione degli organi statali di volta in volta competenti, in specie per le finalità di cui agli articoli 123 e 127 della Costituzione (ricorso del Governo avverso statuti e leggi regionali)[159].

Nell’esercizio delle sue funzioni il rappresentante dello Stato si avvale a tale fine delle strutture e del personale dell’ufficio territoriale del Governo.

Applicazione della riforma alle Regioni a statuto speciale

A parte alcune disposizioni ad hoc, presenti nei precedenti articoli della legge, l’articolo 11 della L. 131/2003 dispone in via generale sull’applicazione della riforma alle Regioni a  statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, in attuazione dell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, il quale così dispone: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.

In primo luogo, l’articolo 11 (comma 1) conferma, per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, che restano ferme le disposizioni previste dai rispettivi statuti speciali, dalle norme di attuazione degli statuti, dall’articolo 10 della legge cost. n. 3 del 2001, limitandosi sostanzialmente a rinviare ad altre norme.

Si prevede poi che le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale possano proporre l’adozione delle norme di attuazione occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative[160], in relazione alle ulteriori materie spettanti alla competenza legislativa di tali Regioni e province autonome, in forza del richiamato articolo 10 della legge cost. n. 3 del 2001.

Le norme proposte possono riguardare anche la disciplina delle attività di competenza regionale in materia di rapporti internazionali e comunitari (comma 3 – v. supra art. 5)

 

Relativamente alle ulteriori materie spettanti alle competenze legislative delle Regioni a statuto speciale, si deve fare riferimento, come s’è detto, all’articolo 10 della stessa legge costituzionale n. 3 del 2001, che delimita l’applicabilità della riforma in relazione alle parti che prevedono “forme più ampie di autonomia”.

Come da più parti è stato riconosciuto, il problema dell’identificazione delle materie “ulteriori” sulle quali si possa esplicare la potestà legislativa delle Regioni differenziate non è di facile soluzione. Da un lato, l’estensione pura e semplice alle cinque Regioni speciali del riparto effettuato dal nuovo articolo 117 (alcune materie di spettanza statale, altre a legislazione concorrente Stato - Regioni, le residuali alle Regioni) non sembra compatibile con il regime speciale. D’altra parte il nuovo sistema di riparto risponde ad una logica assai diversa da quella sottesa alla formulazione degli statuti speciali, ognuno dei quali contiene un elenco di materie sulle quali le rispettive Regioni possono esercitare una potestà legislativa esclusiva, elenchi più o meno ampi di quello recato dall’articolo 117 nella formulazione originaria, valido per le Regioni a statuto ordinario.

La giurisprudenza costituzionale pare conservare un orientamento sostanzialmente prudente, che sembra rifiutare un’interpretazione estensiva dell’art. 10 della L.Cost. 3/2001, con i conseguenti rischi di “demolizione” degli statuti speciali, e quindi di incertezza circa l’estensione dell’autonomia legislativa delle Regioni stesse.

Particolarmente significativa appare la sent. 213/2003 nella quale era stata impugnata una legge della Provincia di Bolzano per violazione dell’art. 117 Cost.: la Corte critica il fatto che il ricorso governativo non chiariva in alcun modo perché non dovesse considerarsi applicabile lo Statuto speciale del Trentino Alto-Adige (stante il fatto che la violazione dell’art. 117 Cost. avrebbe dovuto essere dimostrata in forza dell’art. 10, L.Cost. 3/2001, ciò che nella specie non era avvenuto)[161].

Nella sent. 314/2003 si legge poi testualmente che “l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 configura un particolare rapporto tra norme degli Statuti speciali e norme del Titolo V della seconda parte della Costituzione, un rapporto di preferenza, nel momento della loro ‘applicazione’, in favore delle disposizioni costituzionali che prevedono forme di autonomia ‘più ampie’ di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie. Condizione, dunque, dell’operatività di tale rapporto tra fonti è che il loro contenuto, con riferimento all’autonomia prevista, si presti a essere valutato comparativamente, secondo una scala omogenea di grandezze”.

Per quanto attiene all’individuazione dei limiti della potestà legislativa, nella sent. 274/2003, che chiarisce anche la portata di precedenti pronunce, la Corte ha affermato che, in forza dell’art. 10 della L.Cost. 3/2001, il limite delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica” di cui all’art. 3 dello Statuto sardo non si può ritenere più applicabile alla potestà esclusiva della Regione. Diversamente, infatti, “se […] il vincolo di quel limite permanesse pur nel nuovo assetto costituzionale, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province autonome) sarebbe irragionevolmente ristretta entro confini più angusti di quelli che oggi incontra la potestà legislativa ‘residuale’ delle Regioni ordinarie”, dato che per quest’ultima “valgono soltanto i limiti di cui al primo comma dello stesso articolo (e, se del caso, quelli indirettamente derivanti dall’esercizio da parte dello Stato della potestà esclusiva in “materie” suscettibili, per la loro configurazione, di interferire su quelle in esame) “.

Sempre in forza dell’art. 10 della L.Cost. 3/2001, la Corte ha chiarito che per tutte le competenze legislative delle Regioni ad autonomia particolare che trovino un fondamento nello Statuto speciale il parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative conserva la sua validità, mentre, per quelle riconosciute a tali Regioni in forza dello stesso art. 10, il trasferimento delle funzioni ha luogo, ex art. 11 della L. 131/2003, attraverso modalità previste dalle norme di attuazione e con l’indefettibile partecipazione della Commissione paritetica (sent. 236/2004). Viceversa, la stessa sentenza ha chiarito che la disciplina del potere sostitutivo dello Stato di cui all’art. 120 Cost. trova applicazione anche alle Regioni ad autonomia particolare ma solo dopo che le norme di attuazione degli Statuti speciali abbiano provveduto a trasferire alle stesse le ulteriori funzioni “attratte” in forza del nuovo Titolo V.

Attuazione nelle procedure parlamentari

Sul piano della procedura parlamentare, le due Camere hanno da subito affrontato l’esigenza di dare immediata attuazione al nuovo disposto costituzionale verificando in itinere la “base” costituzionale di tutti i progetti di legge al proprio esame. La Giunta per il regolamento della Camera ha affidato tale compito alla Commissione affari costituzionali, nell’esercizio della sua funzione consultiva che ha esteso, in via sperimentale, anche agli emendamenti presentati in Assemblea; analogo orientamento ha assunto la Giunta per il regolamento del Senato.

Non ha invece trovato attuazione – malgrado l’attività istruttoria svolta in tale direzione su iniziativa delle Giunte per il Regolamento delle due Camere – l’art. 11 della legge costituzionale di riforma, che avrebbe consentito l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie regionali e locali e l’attribuzione a tale Commissione del potere di incidere significativamente, con i propri pareri, sull’iter di approvazione delle leggi statali riguardanti le materie di competenza legislativa concorrente e l’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali.


Titolo V e giurisprudenza costituzionale

Premessa

Dall’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, che ha ampiamente riscritto il Titolo V della Parte II della Costituzione (sulle principali novità, v. la scheda Titolo V e norme di attuazione), la Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi su diverse questioni inerenti il riparto delle competenze tra Stato e regioni, dando un rilevante contributo all’interpretazione di non pochi aspetti problematici della riforma[162].

Un contributo significativo è derivato anche dall’attività consultiva delle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato (in quanto “commissioni filtro” per gli aspetti di costituzionalità), svolta sistematicamente sui provvedimenti all’esame delle Camere. È anzi da considerare che, specie in una prima fase, tali commissioni si sono trovate ad operare senza l’ausilio di una giurisprudenza costituzionale che offrisse spunti interpretativi per la soluzione dei nodi della riforma, e per qualche verso in taluni casi hanno anticipato interpretazioni poi confermate e sviluppate dalla Corte costituzionale[163]. Invero, alcuni orientamenti emersi dai pareri della I Commissione non sono stati confermati dalle interpretazioni poi espresse dalla giurisprudenza costituzionale; di fronte comunque al consolidarsi di tale giurisprudenza, la “giurisprudenza parlamentare” si è in larga parte avvicinata, se non uniformata agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale.

Considerati dunque anche i tempi fisiologici per l’avvio e lo svolgimento dei giudizi di legittimità costituzionale relativi al riparto di competenze Stato-regioni, si può individuare – quale punto di partenza della fase che ha visto il contributo maggiormente significativo della Corte – la sentenza n. 303 del 2003[164]: quest’ultima ha dato l’avvio ad un filone giurisprudenziale ampio ed articolato, il quale da un lato ha consentito di estendere - sulla base del principio di sussidiarietà - l’ambito delle competenze statali rispetto alla “lettera” della Costituzione, dall’altro ha promosso forme di concertazione e di collaborazione con le regioni, a salvaguardia delle attribuzioni loro conferite.

Prima di passare ad una sintetica illustrazione di alcune questioni centrali, si ricorda come alcuni in dottrina[165] abbiano osservato che la giurisprudenza costituzionale più recente, diversamente da quanto prospettato all’indomani dell’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, sembra avere ridimensionato drasticamente alcune potenzialità (o, se si vuole, alcuni “auspici”) che la riforma pareva avere aperto rispetto all’assetto costituzionale precedente. La giurisprudenza costituzionale pare avere ormai infatti ridimensionato (se non  addirittura smentito) alcune prospettazioni, quali:

§         la netta separazione tra criteri di individuazione delle competenze normative di cui all’art. 117, tendenzialmente rigidi, e i criteri flessibili di allocazione delle funzioni amministrative;

§         l’interpretazione restrittiva delle “materie trasversali” di competenza dello Stato;

§         l’elevazione della legge regionale al rango di fonte avente una competenza sostanzialmente generale, a seguito del ribaltamento della competenza legislativa di cui al novellato art. 117 Cost.;

§         le potenzialità “autoapplicative” di molte disposizioni della riforma (v. in part. l’art. 119 Cost., relativo all’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali);

§         l’elevazione dell’autonomia di Comuni e Province al rango costituzionale ai sensi del novellato art. 114 Cost..

 

Di seguito si dà conto di alcuni dei principali orientamenti emersi dalla giurisprudenza costituzionale, che appaiono rivestire un significato di carattere generale, suscettibile di applicazione in vari settori normativi (per approfondimenti sulla giurisprudenza costituzionale intervenuta in singoli settori, si rinvia ai dossier predisposti per le relative Commissioni).

Le “materie trasversali”

Tra le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sono state individuate “materie trasversali” (definite anche dalla stessa giurisprudenza costituzionale “non materie”, o “materie-funzione”), quali in particolare la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale”, la “tutela della concorrenza”, la “tutela dell’ambiente”, l”ordinamento civile”.

Appare utile premettere che il richiamo alle c.d. “competenze trasversali” nella giurisprudenza costituzionale, se ha comportato in molti casi un’attrazione di competenze normative a favore dello Stato[166], ha assunto un significato in un certo senso più ampio, nella direzione del superamento di una visione rigida della separazione di competenze.

Venendo ad aspetti più specifici, la Corte afferma che le materie oggetto di tali competenze “trasversali” “non hanno un oggetto predeterminato, ma quest’ultimo si determina attraverso il loro concreto esercizio, così come il regime dei rapporti tra competenze dello Stato e delle Regioni in queste particolari “non materie”[167].

Peraltro, l’atteggiamento della Corte nell’interpretazione dei titoli competenziali in questione sembra avere subito una qualche evoluzione.

In effetti, nelle prime pronunce successive all’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, la giurisprudenza costituzionale ha mostrato di disattendere tesi estensive riguardo alla portata di tali ambiti, potenzialmente idonei a limitare trasversalmente l’autonomia legislativa regionale[168]. Viceversa, la giurisprudenza costituzionale più recente ha in parte corretto in senso estensivo alcuni di tali titoli competenziali trasversali.

Particolarmente significativo appare il caso della “tutela della concorrenza”, rispetto alla quale la sent. n. 14 del 2004 fornisce una ricostruzione di carattere “sistematico”, tale da essere interpretata in senso ampliativo[169]: infatti proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza “rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, ma anche in quell’accezione dinamica che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”.

Sempre la stessa giurisprudenza ha precisato che una competenza statale quale quella in esame deve essere scrutinata, dal punto di vista del rispetto delle competenze regionali, avendo riguardo principalmente ai princìpi di proporzionalità e adeguatezza: “trattandosi infatti di una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un’estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per così dire ‘trasversale’ […] poiché si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni – connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, è evidente la necessità di basarsi sul criterio di proporzionalità-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato”[170].

Ulteriori conferme e sviluppi di tale orientamento si rinvengono nelle sentt. nn. 134 e 175 del 2005[171]: nella prima, la dimensione macroeconomica dell’intervento previsto dalla norma di legge statale risulta assicurata dallo strumento usato, e cioè dal ricorso ai contratti di programma, ricompresi nella più ampia nozione della “programmazione negoziata”[172]; con la seconda pronuncia, è stato ulteriormente precisato che le supposte ridotte dimensioni finanziarie dell’intervento statale non determinano di per sé l’estraneità alla materia della “tutela della concorrenza”, costituendo semmai un sintomo della manifesta irrazionalità della pretesa dello Stato di porre in essere, attraverso quell’intervento, uno strumento di politica economica idoneo ad incidere sul mercato; le scelte del legislatore sono in questa materia, censurabili solo quando “i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi” (sent. 14 del 2004). Pertanto, “il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla ‘tutela della concorrenza’ e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali” (sent. n. 272 del 2004)[173].

 

Anche per la materia dell’“ordinamento civile” sono stati evidenziati profili di trasversalità, in quanto la giurisprudenza (sent. 282/2004) sembra ricondurre tale materia sostanzialmente a quella del “diritto privato”, già affermata nella vigenza del vecchio art. 117 Cost.: il limite che ne deriva, per la legislazione regionale, consiste essenzialmente “nel divieto di alterare le regole fondamentali che disciplinano i rapporti privati”.

A titolo esemplificativo, si ricorda che sono state ricondotte all’ordinamento civile la materia del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro[174], nonchè la disciplina delle fondazioni bancarie[175] (attraverso una complessa ricostruzione della legislazione che le ha istituite e successivamente trasformate) e la disciplina degli enti di bonifica privati. Più recentemente, anche la disciplina della conciliazione delle controversie di lavoro e quella dell’emersione progressiva del lavoro irregolare sono state espressamente ricomprese nell’ambito dell’ordinamento civile[176], come pure la disciplina della protezione dei dati personali[177].   

Nello stesso senso, riguardo all’“ordinamento penale”, la Corte ha chiarito  che tale nozione “intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori; essa nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni. Si tratta per definizione di una competenza dello Stato strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia ulteriore, talaltra semplicemente inibite”[178].

 

In parte diverso appare l’orientamento della giurisprudenza in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, secondo comma, lett. m) Cost.), nei confronti della quale la Corte ha manifestato in più occasioni un atteggiamento tutto sommato cauto, rifiutandone con ciò un’interpretazione estensiva[179]. In particolare, è stato ripetutamente affermato che tale titolo di legittimazione legislativa può essere invocato solo in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione, risultando invece improprio il riferimento a tale “materia” per attrarre alla competenza legislativa statale interi settori materiali[180].

Peraltro, in taluni casi sembra aver assunto particolare rilievo, ai fini del giudizio costituzionale, il rapporto tra una specifica disciplina e l’attuazione di principi e diritti fondamentali (quali ad es. il pluralismo informativo): la finalità (più o meno diretta), dell’attuazione di tale principio è stata assunta come elemento idoneo a giustificare – sia pure in collegamento con altri parametri, quale quello della sussidiarietà - l’assunzione in capo allo Stato di funzioni amministrative e della stessa potestà regolamentare (v. sentenza n. 151 del 2005)[181].

Con riguardo ai rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, la giurisprudenza costituzionale appare piuttosto articolata[182]. Rifacendosi alla propria giurisprudenza precedente, la Corte, a partire dalla sent. 407/2002, definisce l’ambiente come un “valore” costituzionalmente protetto che “delinea una sorta di materia ‘trasversale’, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono alle esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale[183]”. In sostanza la “tutela dell’ambiente” è ricondotta, anche attraverso un espresso richiamo alla sent. 282/2002, a quei titoli competenziali dello Stato, che non si configurano come “materie” in senso stretto “poiché in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie”.

Se la sentenza in questione ricostruisce comunque una competenza legislativa regionale in un ambito nel quale un’interpretazione testuale sembrava averla esclusa[184], la giurisprudenza più recente mostra una qualche limitazione delle competenze regionali: così, ad esempio, la sent. 307/2003 ha affermato, con ciò correggendo in parte quanto affermato nella sent. 407/2002, che gli standards minimi di protezione fissati dallo Stato in materia di elettrosmog non sono derogabili dalle Regioni in senso più restrittivo, trattandosi dell’esplicitazione di un punto di equilibrio tra diverse istanze tra cui esigenze di rilevante interesse nazionale

Principio di sussidiarietà

Un ulteriore rilevante filone giurisprudenziale attiene all’applicazione del principio di sussidiarietà al riparto delle competenze legislative, oltre che amministrative, tra Stato e regioni, filone che, come si è già accennato, può dirsi chiaramente avviato con la sentenza n. 303 del 2003.

Con tale sentenza è stata innanzitutto esplicitata la necessità di una lettura sistematica del testo costituzionale, tale da saldare il riparto di competenze legislative definito dall’art. 117 Cost. con il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost.  

Sulla base del principio di appena citato la giurisprudenza ha giustificato interventi statali, anche penetranti, in casi in cui non si versava in ambiti di competenza legislativa esclusiva (o in casi in cui quanto meno ricorreva un concorso di competenze di diversa natura), subordinando comunque l’intervento statale all’individuazione di sedi e procedure di cooperazione e concertazione con le Regioni, per l’assunzione di decisioni che investono le loro competenze.

È stato dunque affermato che il riparto di competenze, amministrative ma anche legislative[185], può essere derogato sulla base del principio di sussidiarietà (enunciato dal primo comma dell’art. 118): quando l’istanza di esercizio unitario  trascende l’ambito regionale, anche in materie di competenza regionale “la legge può attribuire allo Stato funzioni amministrative e […], in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, […]. Tale possibilità è temperata dall’affermazione che i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e “possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata” (sentenza n. 303 del 2003)[186].

La Corte precisa che non è comunque sufficiente una semplice evocazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza per “modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione”.

Inoltre, i principi appena richiamati non possono assumere “la funzione che aveva un tempo l’interesse nazionale, la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost. Nel nuovo Titolo V l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale, il che “impone di annettere ai principî di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”[187].

 

In varie occasioni successive la Corte, alla luce di quanto affermato con la sent. n. 303, è giunta ad individuare, con riguardo alla singola disposizione sottoposta a giudizio, la forma di coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni o della singola regione interessata più idonea a garantire il rispetto del quadro costituzionale delle competenze[188].

Una giurisprudenza più recente, che pare in certa misura riconnettersi alla richiamata sentenza n. 303[189], ha ammesso la possibilità – in relazione all’individuazione di “un’esigenza unitaria” - di un’attrazione di competenze allo Stato anche con riguardo alla potestà regolamentare (in presenza di determinati presupposti)[190].

Per questo particolare profilo, sembra emergere una significativa attenuazione dei limiti desumibili dalla formulazione del sesto comma dell’art. 117 vigente, che riserva allo Stato la potestà regolamentare nelle sole materie rimesse alla sua potestà legislativa esclusiva[191].

Analogamente, un ridimensionamento dell’interpretazione puramente testuale dell’art. 117, sesto comma sembra da ricondurre ad alcune sentenze che, considerando le esigenze di unitarietà della gestione di una rete di trasmissione nazionale (finalizzata allo svolgimento di un servizio), tutelate dal legislatore nazionale, hanno affermato che la legge regionale è comunque soggetta al rispetto delle regole tecniche adottate dal gestore nazionale della rete[192].

La “concorrenza di competenze”

Un ulteriore filone giurisprudenziale è rappresentato da quelle sentenze che evidenziano una “concorrenza di competenze” (sentenza n. 50 del 2005)[193]- a seconda dei casi, esclusive, concorrenti, residuali di Stato e regioni -  riscontrabile in varie discipline, le quali non risultano agevolmente riconducibili a titoli competenziali unici: in tali casi le molteplici interferenze non consentono la soluzione delle questioni sulla base di criteri rigidi, e la sussistenza di una competenza legislativa regionale (anche residuale) non può escludere l’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa, per i profili inerenti a materie di sua competenza.

Constatata la “concorrenza di competenze”, la Corte prende atto che la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze, e risolve la questione ricorrendo al criterio della “prevalenza” quando si rende evidente, all’interno dell’intreccio delle materie, un “nocciolo duro” che appartiene ad una di esse, giungendo in taluni casi ad individuare la “sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, che renda dominante la relativa competenza legislativa”[194].

Ove non possa ravvisarsi tale sicura prevalenza, si rende necessario il ricorso al “canone della "leale collaborazione", che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze”[195].

Sia in applicazione del principio di leale collaborazione, sia in applicazione del principio di sussidiarietà (v. supra), la presenza di procedure di “coinvolgimento” delle Regioni e/o delle autonomie locali appare essere elemento determinante per il vaglio di costituzionalità, tanto più in quanto vi sia un fumus di deroga al riparto formale di competenze[196]. Peraltro, la Corte si è spinta in più occasioni a valutare la congruità tra strumento di raccordo Stato-regioni individuato dal legislatore e tutela degli interessi coinvolti, censurando la disposizione statale allorché è emersa la “debolezza” dello strumento previsto[197]. In altri casi la Corte ha invece evidenziato l’impossibilità di emendare il vizio di costituzionalità attraverso una pronuncia manipolativa, in quanto “il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato, poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso”[198].       

Si fa presente infine che, nell’ambito della giurisprudenza che fa capo alla sent. 303 del 2003, nonché alla sent. 50 del 2005, viene altresì chiarito che non tutte le “materie” non citate nei commi 2 e 3 dell’art. 117 (rispettivamente afferenti la potestà legislativa esclusiva dello Stato e quella concorrente Stato-regioni) sono automaticamente di competenza residuale regionale: “in via generale occorre affermare l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all’ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell’art. 117 della Costituzione” (sent. n. 370 del 2003); alcune materie come i “lavori pubblici” sono configurabili come “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (sent. n. 303 del 2003).

Autonomia finanziaria delle regioni

Interventi rilevanti della giurisprudenza costituzionale hanno poi riguardato anche l’applicazione del principio di autonomia finanziaria delle regioni di cui all’art. 119 Cost., sotto il duplice profilo dell’autonomia di entrata e di spesa.

In proposito è stata in varie occasioni sottolineata dalla Corte l’inattuazione del disegno di cui all’art. 119, il quale richiede il fondamentale intervento del legislatore statale: peraltro, fino all’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, il legislatore statale, nel disciplinare i tributi regionali e degli enti locali, incontra comunque “il limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’articolo 119 della Costituzione” e non può, pertanto, “sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali” o “procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo articolo 119”[199].

La Corte desume dal sistema complessivo l’inammissibilità di due tipologie di interventi finanziari statali in materie spettanti alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle regioni, che vengono di seguito sinteticamente illustrati.

Per quanto concerne il primo, relativo agli interventi finanziari a destinazione vincolata per Regioni e a enti locali, la Corte costituzionale ha precisato che tali interventi sono da ritenere legittimi solo se incidenti in un ambito materiale rimesso alla competenza legislativa esclusiva dello Stato o nell’ambito della disciplina degli speciali interventi finanziari in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni ai sensi dell’articolo 119, quinto comma, della Costituzione.

Con la sentenza n. 423 del 2004, che fa, per così dire, il punto in tema di federalismo fiscale[200], ribadendo che l’articolo 119 della Costituzione pone sin da ora “precisi limiti al legislatore statale nella disciplina delle modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie”, è stato tra l’altro specificato che “non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale, siano esse rientranti nella competenza esclusiva delle Regioni ovvero in quella concorrente, pur nel rispetto, per quest’ultima, dei principi fondamentali fissati con legge statale”; in proposito la Corte ha infatti rilevato, a partire dalla sentenza n. 16 del 2004, che “d’altronde….ove non fossero osservati tali limiti e criteri, il ricorso a finanziamenti ad hoc rischierebbe di divenire uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza”.

In applicazione dei principi indicati, la Corte costituzionale, con svariate sentenze, ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme con le quali, successivamente all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono stati istituiti nuovi Fondi vincolati[201].

Con la più recentesentenza n. 222 del 2005 la Corte costituzionale[202], nel ribadire che non sono consentiti “finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale”, enuclea le eccezioni a tale divieto, possibili solo nell’ambito e negli stretti limiti di quanto previsto dagli artt. 118, primo comma [attrazione di competenze per via del principio di sussidiarietà], 119, quinto comma [interventi “speciali” v. supra], 117 secondo comma, lettera e) Cost. [“tutela della concorrenza”, intesa “in senso dinamico”[203]][204].

Circa, poi, le misure finanziare destinate a soggetti privati, la Corte costituzionale[205] ha chiarito che esse, qualora vertenti su materie di competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto comporterebbero il riconoscimento in capo allo Stato di potestà sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle competenze.

Una giurisprudenza più recente (nella quale particolare rilievo assume la sentenza n. 417 del 2005[206]), è intervenuta sulla questione, distinta ma correlata, della ammissibilità di vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali[207].

Secondo tale giurisprudenza il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio, ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa dei suddetti enti, solo con “disciplina di principio” e “per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari”.

Sempre secondo la Corte “la previsione da parte della legge statale di limiti all’entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò ‘in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area [...] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri [...] ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi”.

Potestà legislativa concorrente e princìpi fondamentali

Da ultimo, per quanto riguarda la potestà legislativa concorrente, si fa presente che, a parte la giurisprudenza che precisa i reciproci confini dell’intervento legislativo dello Stato e della regione in specifiche materie, alcune pronunce offrono spunti di rilievo generale.

In primo luogo, la Corte costituzionale sembra limitare la possibilità per lo Stato di adottare nelle materie concorrenti anche la disciplina di dettaglio derogabile da parte del legislatore regionale. Una prassi che, già di dubbia legittimità alla luce del dettato originario dell’art. 117, aveva suscitato dubbi ancora maggiori in gran parte della dottrina alla luce del nuovo testo, che sembra marcare in modo assai più netto che in passato i ruoli dei due legislatori e riservare a quello nazionale la sola determinazione dei princìpi. A tale proposito, la sent. 303/2003 riconosce peraltro l’ammissibilità di una legislazione di dettaglio nazionale, ma solo in quanto strettamente ancorata al principio di sussidiarietà (e dunque in nome della tutela di precise esigenze unitarie[208]).

Nel caso in cui la legislazione statale di riferimento sia anteriore alla riforma costituzionale del 2001, e comprenda disposizioni di dettaglio, queste ultime sono state spesso ritenute ammissibili, in quanto considerate suppletive e  “cedevoli” rispetto alla legislazione regionale successiva; peraltro, maggiori perplessità può suscitare l’applicazione del criterio della “cedevolezza” alla legislazione nazionale di dettaglio (facendola “salva”) adottata successivamente alla medesima riforma costituzionale[209].  

La Corte ha poi confermato la propria giurisprudenza precedente alla riforma del Titolo V ribadendo che, in assenza di leggi cornice, i princìpi fondamentali sono desumibili dal complesso della legislazione statale vigente in materia[210]. In questi casi, i princìpi non debbono corrispondere senz’altro alla lettera delle disposizioni legislative statali, dovendo viceversa esserne dedotta la loro consistenza sostanziale[211].

Con la sent. 280/2004[212], la Corte ha tra l’altro chiarito che nelle materie di legislazione concorrente è generalmente possibile che la determinazione dei princìpi fondamentali sia rimessa ad un decreto legislativo, senza con ciò che siano lese le attribuzioni regionali[213]; sempre in materia di fonti idonee a individuare i princìpi fondamentali, la sent. 6/2004 ha ricompreso tra queste anche i decreti-legge[214].

Con riguardo agli elementi caratterizzanti dei principi fondamentali, un’indicazione di carattere generale è poi rintracciabile in particolare nella sentenza n. 50 del 2005, dove si afferma che la nozione di “principio fondamentale” non può avere carattere di rigidità e di universalità, poiché le “materie” hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. Spetta quindi al legislatore operare le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l’interprete deve valutare nella loro obiettività, senza essere condizionato in modo decisivo da eventuali autoqualificazioni[215].


Immunità – La legge attuativa dell’art. 68 Cost.

La L. 140/2003[216] ha legislativamente definito la questione concernente la disciplina di attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, concernente l’immunità parlamentare, questione che, sorta già all’indomani della riforma dell’art. 68 recata dalla L.Cost. 3/1993[217], aveva attraversato le successive tre legislature.

L’articolo 68 della Costituzione e la riforma del 1993

L’articolo 68 della Costituzione, nel testo approvato dall’Assemblea costituente ed entrato in vigore il 1° gennaio 1948, stabiliva che i membri del Parlamento:

§         non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (primo comma);

§         non possono essere sottoposti a processo penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza (secondo comma);

§         in assenza di analoga autorizzazione, non possono essere arrestati o altrimenti privati della libertà personale (anche in esecuzione di una sentenza), né sottoposti a perquisizione personale o domiciliare, salvo il caso di flagranza di un delitto per il quale sia obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura (secondo e terzo comma).

La L.Cost. 3/1993 ha modificato la disciplina dell’immunità parlamentare riformulando l’art. 68. Il nuovo testo, tuttora vigente:

§         conferma insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni, adottando peraltro una formulazione più ampia (“non possono essere chiamati a rispondere”), rispetto alla precedente (“non possono essere perseguiti”);

§         sopprime la richiesta di una previa autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di sottoporre i parlamentari a procedimento penale; l’autorizzazione resta dunque limitata alle ipotesi di perquisizione personale o domiciliare, di arresto o di altra misura privativa della libertà personale; sono altresì soggetti ad autorizzazione le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e il sequestro di corrispondenza;

§         esclude la necessità di richiedere l’autorizzazione qualora si tratti di dare esecuzione ad una sentenza irrevocabile di condanna, oltre che nel caso (già previsto) in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

L’attività legislativa tra il 1993 e il 2001

Sin dall’entrata in vigore della riforma del 1993 si era ritenuto opportuno regolare con una normativa organica gli aspetti sostanziali e procedurali connessi all’applicazione del nuovo art. 68 Cost., con particolare riguardo alla materia dell’insindacabilità ed ai rapporti fra procedimenti giudiziari e procedure parlamentari.

 

A tal fine intervenne, in una prima fase, una “catena” di decreti-legge (tutti decaduti per mancata conversione nei termini costituzionali) avviata con il D.L. 455/1993[218] e proseguita con 18 successive reiterazioni.

Nel corso della XIII legislatura, il disegno di legge di conversione dell’ultimo decreto-legge di tale “catena”, (D.L. 555/1996[219]), venne approvato dalla Camera in prima lettura (A.S. 1842) ma non dal Senato, comportando così il definitivo venir meno, con efficacia ex tunc, della relativa disciplina. Ciò non ha peraltro vanificato la piena efficacia dell’art. 68 Cost., posto che tale disposizione contiene una disciplina immediatamente applicabile, e dal momento che i relativi profili procedimentali sono stati risolti sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale (a partire dalla sent. 1150/1998; sul punto, v. la scheda Immunità – Corte costituzionale e insindacabilità) e della prassi parlamentare.

Nel prosieguo della XIII legislatura la Camera approvava, in prima lettura, il testo unificato di due proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 2939-2985-A), diretto anch’esso a dare attuazione all’art. 68 Cost. e largamente ispirato al testo del D.L. 555/1996. La Commissione affari costituzionali del Senato, a cui il testo era stato trasmesso, non ne avviava l’esame.

La legge n. 140 del 2003

La L. 140/2003, frutto dell’esame della proposta di legge A.C. 185, di iniziativa dell’on. Boato, assunta quale testo base, e di altre cinque proposte di legge presentate da esponenti sia di maggioranza, sia di opposizione, ripropone (con varie modifiche) l’impianto del testo approvato dalla Camera nella precedente legislatura, allo scopo di dettare una normativa organica destinata a regolare gli aspetti sostanziali e procedurali connessi all’applicazione dei princìpi sanciti dal nuovo art. 68 Cost..

 

Nel dare sinteticamente conto di tale disciplina si rinvia, con riguardo all’articolo 1 della legge – recante disposizioni relative alla sospensione dei processi penali che vedano coinvolte le più alte cariche dello Stato – all’apposita scheda Immunità – Le alte cariche dello Stato.

 

L’articolo 2 della L. 140/2003 riformula il secondo periodo del co. 3 dell’art. 343 del codice di procedura penale, dal quale vengono espunti i riferimenti a particolari organi costituzionali, sostituendoli con una formulazione di carattere generale rinviante a tutti i casi in cui l’autorizzazione a procedere ovvero l’autorizzazione al compimento di determinati atti siano prescritte da disposizioni contenute nella Costituzione o in leggi costituzionali. In tali casi si prevede che trovino applicazione le particolari disposizioni contenute in tali fonti di rango costituzionale nonché, in quanto compatibili con queste, nelle norme del c.p.p. (artt. 344, 345 e 346) in materia di autorizzazione a procedere.

 

L’articolo 3 è finalizzato a dettare “disposizioni attuative” della norma recata dal primo comma dell’art. 68 Cost., nel testo risultante dalla modifica intervenuta nel 1993, ai sensi del quale i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (su tale articolo è intervenuta la Corte costituzionale con la sent. 120/2004: su di essa, v. la scheda Immunità – Corte costituzionale e insindacabilità).

Il comma 1 individua una serie di atti (progetti di legge, emendamenti, atti di indirizzo o sindacato ispettivo, interventi in Assemblea e in altri organi delle Camere, espressioni di voto comunque formulate, ogni altro atto parlamentare, ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento) cui deve ritenersi applicabile “in ogni caso” la garanzia dell’insindacabilità di cui al primo comma dell’art. 68 Cost..

Il comma 2 stabilisce che, a seguito del rilievo o dell’eccezione di applicabilità dell’insindacabilità, il giudice, apprezzate le circostanze del caso, dispone, anche d’ufficio, l’immediata separazione del procedimento da quelli eventualmente riuniti.

Il comma 3 definisce i provvedimenti che il giudice è chiamato ad assumere, nel caso in cui ritenga applicabile l’art. 68, co. 1°, Cost.. In particolare:

§         nell’ambito del procedimento penale:

-       nella fase del processo, il giudice provvede, in ogni fase e grado, con sentenza resa ai sensi dell’art. 129 c.p.p.;

-       nella fase delle indagini preliminari, il giudice pronuncia decreto di archiviazione ex art. 409 c.p.p.. A tal fine, il pubblico ministero trasmette, entro dieci giorni dall’eccezione o dal rilievo, gli atti del giudice, perché provveda (comma 6).

§         nell’ambito del processo civile, le parti sono invitate a precisare immediatamente le conclusioni, con termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ridotti, rispetto a quanto stabilito dall’art. 190 c.p.c., rispettivamente a 15 e 5 giorni; il giudice pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla definizione del giudizio;

§         in ogni altro procedimento giurisdizionale, il giudice procede analogamente.

I commi 4 e 5 contemplano l’ipotesi in cui il giudice ritenga non fondata l’eccezione di applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost. sollevata da una delle parti. In tale caso il giudice provvede (senza ritardo, nel procedimento penale; in udienza o entro cinque giorni, nel processo civile) con ordinanza non impugnabile e direttamente trasmette copia degli atti al ramo del Parlamento a cui il parlamentare appartiene o apparteneva al momento del fatto. Dopo tale trasmissione, il procedimento è sospeso fino alla deliberazione della Camera, e comunque non oltre il termine di 90 giorni dalla ricezione degli atti da parte della Camera interessata, salva la possibilità di una proroga non superiore a 30 giorni, disposta dalla Camera medesima. La sospensione non impedisce, comunque, il compimento degli atti non ripetibili (nell’ambito del procedimento penale) e di quelli urgenti (negli altri procedimenti).

Il comma 7 introduce un “doppio binario”, in virtù del quale la questione dell’applicabilità dell’art. 68, comma primo, Cost., può essere posta direttamente alla Camera di appartenenza da parte dell’interessato, senza necessità di sollevare previamente la relativa eccezione innanzi all’autorità giudiziaria. In tal caso la Camera può domandare al giudice la sospensione del procedimento, ai sensi del co. 5.

Il comma 8 precisa l’efficacia della deliberazione parlamentare sull’insindacabilità: nel caso in cui essa sia favorevole all’applicazione dell’art. 68, primo comma, l’autorità giudiziaria non può che conformarsi ad essa (salvo che non ritenga di sollevare conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale): il giudice, quindi, adotta senza ritardo i provvedimenti indicati al co. 3 e il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione.

Le disposizioni illustrate sono applicabili, in quanto compatibili, anche nell’ambito dei procedimenti disciplinari (comma 9) La sospensione del procedimento disciplinare fino alla deliberazione della Camera, ove disposta, comporta la sospensione dei termini di decadenza e di prescrizione, e di ogni altro termine dal cui decorso possa derivare pregiudizio ad una parte.

 

L’articolo 4 è teso a dare attuazione ai co. 2° e 3° dell’art. 68 Cost., disciplinando l’esecuzione degli atti privativi o restrittivi della libertà personale (perquisizioni personali, ispezioni, intercettazioni, misure cautelari etc., ivi compresa l’acquisizione di tabulati di comunicazioni) nei confronti di parlamentari. Legittimata a richiedere direttamente l’autorizzazione alla Camera a cui il soggetto appartiene è l’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire: nelle more della deliberazione parlamentare, l’esecuzione del provvedimento è sospesa (commi 1 e 2). In conformità al dettato dell’art. 68, co. 2°, Cost., l’autorizzazione non è richiesta qualora il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, ovvero quando la misura sia adottata in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna (comma 3). Nel caso di scioglimento della Camera nelle more tra la presentazione della richiesta di autorizzazione e la deliberazione parlamentare, la richiesta perde efficacia dall’inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata e presentata alla Camera competente all’inizio della legislatura stessa (comma 4).

 

L’articolo 5 esplicita il contenuto degli atti con i quali il giudice o la diversa “autorità competente” (nel procedimento disciplinare) respingono l’eccezione di applicabilità dell’art. 68, co. 1°, Cost. e trasmettono gli atti alla Camera competente o richiedono l’autorizzazione al compimento di uno degli atti di cui all’art. 4. Si prevede che, nell’ambito dei suddetti atti, si provveda ad enunciare il fatto per il quale è in corso il procedimento, a indicare le norme di legge che si ritengono violate, a fornire gli elementi sui quali si fonda il provvedimento.

 

L’articolo 6 disciplina l’utilizzabilità in sede processuale (e, in conseguenza, la divulgabilità) delle “intercettazioni indirette”, ossia delle intercettazioni disposte nel corso di procedimenti riguardanti terzi e alle quali membri del Parlamento abbiano preso parte, le quali esulano, pertanto, dall’ambito di applicazione dell’art. 4 sopra illustrato.

Si prevede, così, che il giudice per le indagini preliminari – anche su istanza di una delle parti o del parlamentare interessato – nei casi in cui ritenga che le intercettazioni indirette del parlamentare siano in tutto o in parte irrilevanti ai fini della definizione dello stesso, ne decide, a tutela della riservatezza, la distruzione integrale o parziale ai sensi dell’art. 269, co. 2 e 3, c.p.p.. La decisione è presa in camera di consiglio, sentite le parti (comma 1).

Qualora il giudice per le indagini preliminari, su istanza di parte, ritenga invece rilevanti ai fini processuali le intercettazioni o i tabulati di cui al co. 1, egli può decidere con ordinanza la loro utilizzazione e richiedere, nei dieci giorni successivi, l’autorizzazione alla Camera competente, da individuare nella Camera alla quale il parlamentare appartiene o apparteneva al tempo dell’intercettazione (comma 2).

La richiesta di autorizzazione all’utilizzazione in sede processuale delle intercettazioni effettuate deve essere trasmessa direttamente alla Camera competente: la richiesta deve contenere l’enunciazione del fatto per il quale è in corso il procedimento e l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate e deve essere corredata dei verbali delle intercettazioni, delle relative registrazioni e degli altri elementi sui quali la richiesta è fondata (comma 3). In caso di scioglimento delle Camere la richiesta perde efficacia a decorrere dall’inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata all’inizio della legislatura stessa (comma 4).

Nel caso in cuila Camera competente neghi l’autorizzazione, la documentazione delle intercettazioni è distrutta immediatamente, e comunque non oltre dieci giorni dalla comunicazione del diniego della richiesta (comma 5).

Tutte le comunicazioni e i dati acquisiti in difformità da quanto previsto dallo stesso articolo devono essere dichiarate inutilizzabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento (comma 6). L’articolo 7 detta peraltro una disciplina di carattere transitorio, stabilendo che le disposizioni relative all’utilizzabilità processuale delle intercettazioni indirette devono essere osservate nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, solo se le intercettazioni non siano già state utilizzate in giudizio.

 

L’articolo 8 dispone la sanatoria di tutti gli effetti giuridici prodottisi sulla base dei decreti-legge emanati, dal 1993 al 1996, al fine di dare attuazione al riformato art. 68 Cost., e successivamente decaduti (v. supra), e l’articolo 9 reca la clausola relativa all’entrata in vigore della legge (il giorno successivo a quello della pubblicazione in Gazzetta ufficiale, avvenuta il 21 giugno 2003).


Immunità – Le alte cariche dello Stato

L’articolo 1 della legge n. 140 del 2003

L’articolo 1 della L. 140/2003[220], attuativo dell’articolo 68 della Costituzione in materia di immunità parlamentari (v. scheda Immunità – La legge attuativa dell’art. 68 Cost.) disponeva, al comma 1, che non possono essere sottoposti a processi penali:

§         il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’art. 90 Cost.[221];

§         il Presidente del Senato della Repubblica;

§         il Presidente della Camera dei deputati;

§         il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall’art. 96 Cost. per i reati compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (c.d. “reati ministeriali”);

§         il Presidente della Corte costituzionale.

La non sottoposizione a processo penale per le suddette cariche istituzionali è prevista:

§         per qualsiasi reato, anche relativo a fatti antecedenti l’assunzione delle cariche o delle funzioni;

§         fino alla cessazione delle cariche o delle funzioni.

Il comma 2 dell’articolo reca una norma transitoria che dispone la sospensione dei processi penali in corso, fatto comunque salvo quanto previsto dagli artt. 90 e 96 Cost.. In particolare, la sospensione:

§         opera dalla data di entrata in vigore della legge;

§         riguarda i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado;

§         concerne i processi pendenti per qualsiasi reato, anche relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime.

Il comma 3 prevede l’applicazione – nelle ipotesi contemplate dai due commi precedenti – delle disposizioni dell’art. 159 del codice penale, che disciplina la sospensione della prescrizione.

 

L’art. 159 c.p.[222] dispone la sospensione del corso della prescrizione nei casi – tra gli altri – di autorizzazione a procedere e quando la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge.

La sospensione nei casi di autorizzazione a procedere si verifica dal momento in cui il pubblico ministero effettua la relativa richiesta. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. In caso di autorizzazione a procedere, il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta.

 

Nel corso dell’esame parlamentare del relativo disegno di legge, i profili di legittimità costituzionale dell’articolo[223] avevano formato oggetto di viva ed approfondita discussione.

 

Da parte di esponenti di gruppi di opposizione venne sostenuta la tesi della illegittimità costituzionale della prevista sospensione processuale, con principale riguardo agli artt. 3 (in quanto deroghe al principio di eguaglianza davanti alla legge possono essere disposte unicamente da norme di rango costituzionale), 112 (ai sensi del quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”), 111 (ritenendosi che una sospensione di durata non determinabile confligga con il principio di ragionevole durata dei processi) e 24 Cost. (con riguardo sia al diritto ad agire in giudizio sia al diritto alla difesa, anche per il carattere irrinunciabile della prerogativa e per il pregiudizio che dalla sospensione deriverebbe alle parti civili).

A questi ultimi rilievi si replicò, da parte di esponenti della maggioranza, che l’irrinunciabilità della prerogativa dipende dalla ratio della norma, volta a tutelare la carica e non la persona, e che la parte offesa può sempre far valere le sue ragioni in sede civile. Si sostenne inoltre[224] la compatibilità della norma con l’art. 112 (considerata la temporaneità della sospensione e visto che “il termine processo, a differenza del termine procedimento, presuppone l’esercizio dell’azione penale” ex art. 405 c.p.p.), con l’art. 3 (trattandosi di “cinque posizioni specialissime, essendo le cariche di maggior rilievo dello Stato”), con l’art. 111 Cost. (anche considerando che la ragionevole durata del processo è stabilita soprattutto nell’interesse dell’imputato), e con l’art. 138 Cost. (la norma infatti non modifica l’art. 68, né gli artt. 90 e 96 Cost., che non riguardano i reati comuni; quanto a questi ultimi, anzi, il silenzio della Costituzione rafforzerebbe la tesi del corretto ricorso alla legislazione ordinaria, non essendo in gioco valori costituzionali, bensì problemi di opportunità).

La sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004

A distanza di non molti mesi dall’entrata in vigore della legge la Corte costituzionale, con la sent. 24/2004, ha dichiarato la illegittimità costituzionale del testé illustrato art. 1, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nei quali trovano fondamento, rispettivamente, il principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione e il diritto alla difesa.

 

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal tribunale di Milano con riferimento all’art. 3 Cost., in rapporto all’art. 112 Cost., che sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale; agli artt. 68, 90 e 96 Cost., in quanto attribuisce alle persone che ricoprono una delle menzionate alte cariche dello Stato una prerogativa non prevista dalle citate disposizioni della Costituzione, che verrebbero quindi ad essere illegittimamente modificate con legge ordinaria, in violazione anche dell’art. 138 Cost.; agli artt. 24, 111 e 117 Cost., perché non consente l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato e delle parti civili, in contrasto anche con la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La Corte ha ritenuto la questione fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., rimanendo assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.

 

Pur rilevando che l’interesse tutelato dalla disposizione (il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni inerenti alle più alte cariche dello Stato) appare apprezzabile e tutelabile in armonia con i princìpi fondamentali dello Stato di diritto, la Corte osserva che la prevista sospensione – generale, automatica e di durata non determinata – crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione penale e incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico rimanendo sotto il peso di un’imputazione in ipotesi anche assai grave, oppure dimettersi dalla carica al fine di ottenere un accertamento giudiziale prefigurato come favorevole, rinunciando con ciò al godimento di un diritto garantito dall’art. 51 della Costituzione.

Risulta, altresì, sacrificato il diritto della parte civile (la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dall’art. 75, co. 3, c.p.c.).

La Corte ha ritenuto la norma in contrasto con l’art. 3 Cost. anche perché accomuna in unica disciplina cariche diverse per investitura e per funzioni, distinguendo, per la prima volta, sotto il profilo della parità rispetto ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti; l’ha infine ritenuta viziata da irragionevolezza in quanto, pur facendo salvi gli artt. 90 e 96 Cost., tace sull’art. 3, co. 2°, L.Cost. 1/1948, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata nel secondo comma dell’art. 68 Cost. ai membri delle due Camere.


Immunità – Corte costituzionale e insindacabilità

Gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale anteriori alla legge n. 140 del 2003

L’articolo 68 della Costituzione, al primo comma, recita: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse o i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

In base alla prassi e alla costante giurisprudenza della Corte (a partire dalla sent. 1150/1988), consolidatesi entrambe anteriormente alle novità legislative del 2003 (sulle quali v. infra), i membri del Parlamento italiano possono far valere la prerogativa di cui al primo comma dell’art. 68 Cost. in due sedi:

§         possono eccepire la guarentigia dell’insindacabilità innanzi al giudice ordinario presso il quale siano stati chiamati a rispondere in sede penale o civile (a seguito di querela o di atto di citazione);

§         possono chiedere alla Camera di appartenenza di valutare la condotta addebitata e di pronunciarsi in ordine all’insindacabilità della condotta stessa.

I due percorsi non si escludono; è possibile, pertanto, che l’autorità giudiziaria e la Camera d’appartenenza si esprimano diversamente. Secondo la Corte costituzionale, tuttavia, se la Camera delibera nel senso dellinsindacabilità, allora lautorità giudiziaria – quale che sia il grado in cui pende il processo – è tenuta a conformarsi al giudizio del Parlamento oppure a elevare conflitto dattribuzioni innanzi alla Corte costituzionale stessa, ove ritenga di dolersi di un cattivo esercizio del potere deliberativo e di un’invasione nelle proprie attribuzioni.

Se la Corte costituzionale ritiene che la Camera abbia esercitato in modo esorbitante il suo potere di qualificare la condotta del parlamentare come pertinente all’esercizio del mandato parlamentare ed abbia pertanto errato nel dichiarare un’insindacabilità, accoglie il ricorso dell’autorità giudiziaria e annulla la delibera della Camera. In caso contrario, rigetta il ricorso.

Negli orientamenti della Corte si possono individuare tre fasi:

§         in un primo tempo, essa ha stabilito il principio della c.d. verifica esterna. Secondo questo principio, in sede di risoluzione dei conflitti, la Corte doveva limitarsi a controllare che la delibera parlamentare in relazione al caso concreto fosse il frutto di un procedimento parlamentare completo, regolare e motivato e non poteva spingersi a valutare la congruità di merito delle argomentazioni della Camera pronunciatasi sul punto[225].

§         in un secondo momento si è affermato un indirizzo lievemente diverso, secondo cui il controllo della Corte sulla delibera parlamentare (impugnata con il ricorso per conflitto d’attribuzione) non poteva arrestarsi alla verifica esterna dinanzi a deliberazioni nelle quali il nesso funzionale tra le dichiarazioni oggetto del contendere e il mandato parlamentare fosse palesemente inesistente[226];

§         nel corso del 2000 e del 2001, si è affermato un ulteriore indirizzo. Partendo dal presupposto che l’insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni costituisce un’eccezione al principio generale della soggezione di tutti i cittadini alla giurisdizione esercitata secondo la legge, la Corte ha stabilito che di essa occorre dare un’interpretazione rigorosa e aderente alla ratio costituzionale, che prevede un presidio a tutela della funzione e non una guarentigia personale di chi la ricopre. Sono pertanto sicuramente insindacabili gli atti tipici dell’attività parlamentare; quelli svolti “extra moenia” lo sono invece solo se e nella misura in cui siano “identificabili” come attività parlamentare, abbiano cioè una “corrispondenza sostanziale” di contenuto con atti parlamentari tipici. In buona sostanza, intanto una dichiarazione resa alla stampa o in televisione può ritenersi attività prodromica o conseguente all’esercizio del mandato parlamentare in quanto sia fedele riproduzione all’esterno, e dunque divulgazione e rappresentazione, dei contenuti esatti di atti tipici (c.d. teoria della divulgazione[227]). In sintesi:

-          sono insindacabili i contenuti degli atti funzionali tipici (proposte di legge, dichiarazioni di voto, atti di sindacato ispettivo, etc.);

-          sono insindacabili le dichiarazioni rese fuori dalle formali sedi parlamentari, purché siano la riproduzione del contenuto degli atti tipici della funzione;

-          non è sufficiente a rendere insindacabile una dichiarazione la sua mera coloritura politica o la semplice comunanza di argomento con temi trattati nei dibattiti parlamentari.

La legge n. 140 del 2003 e la giurisprudenza della Corte

La L. 140/2003[228], che ha introdotto norme per l’attuazione all’art. 68 Cost. (sulla quale, v. la scheda Immunità – La legge attuativa dell’art. 68 Cost.), all’articolo 3 dispone in materia di insindacabilità parlamentare.

Il comma 1 dell’articolo, in particolare, individua una serie di atti ai quali deve ritenersi applicabile “in ogni caso” la garanzia dell’insindacabilità, richiamando, oltre agli “atti tipici”[229], anche “ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”.

 

In base alla procedura delineata nei commi successivi, il giudice è chiamato a provvedere direttamente ove – d’ufficio o su eccezione di parte – ritenga doversi applicare l’art. 68, co. 1°, Cost.. Qualora, invece, ritenga non fondata l’eccezione di applicabilità sollevata da una delle parti, il giudice è tenuto a trasmettere copia degli atti al ramo del Parlamento a cui il parlamentare appartiene o apparteneva al momento del fatto. Il procedimento è sospeso fino alla deliberazione parlamentare; ma in assenza di questa, la sospensione ha termine decorsi 90 giorni dalla ricezione degli atti (salva la possibilità di una proroga per oltre 30 giorni)[230].

La questione può, per altro verso, essere posta direttamente alla Camera di appartenenza da parte dell’interessato, senza necessità di eccepirla previamente innanzi all’autorità giudiziaria. La Camera può chiedere che il giudice sospenda il procedimento.

Qualora la deliberazione parlamentare sia favorevole all’applicazione dell’art. 68, co. 1°, l’autorità giudiziaria non può che conformarsi ad essa (ferma restando la possibilità di elevare conflitto d’attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale).

 

Il co. 1 dell’art. 3 della L. 140/2003 è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che, con la sent. 120/2004, ha dichiarato infondata una questione di legittimità ad esso riferita.

 

Secondo i rimettenti tale disposizione, lungi dal limitarsi ad attuare l’art. 68, co. 1°, Cost., ne avrebbe modificato l’ambito applicativo: nel prevedere, infatti, che la disposizione costituzionale si applichi oltre che ad un elenco di atti funzionali tipici, anche per ogni altra attività connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento, il comma denunciato avrebbe ampliato la nozione di insindacabilità, violando anche l’art. 24 Cost. (giacché l’introduzione di una così ampia garanzia con una semplice legge ordinaria, anziché con legge costituzionale, avrebbe determinato una ingiustificata compressione dei diritti della persona offesa dal reato), e l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

 

A giudizio della Consulta, l’art. 3, co. 1, della L. 140/2003, nonostante l’ampia formulazione lessicale, può considerarsi una disposizione legislativa di attuazione, finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma, Cost.. Le attività ivi analiticamente indicate possono non essere esaustive del concetto di funzione parlamentare, ma, secondo la Corte, ne costituiscono comunque una forma di specificazione, ai fini della loro riconduzione nella sfera di applicabilità processuale dell’art. 68, primo comma, e comunque esse non fuoriescono dal campo materiale dello stesso articolo, dal momento che il legislatore stabilisce espressamente che tutte le attività indicate debbono comunque, anche se espletate fuori del Parlamento, essere connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri del Parlamento, in conformità con il primo comma dell’art. 68.

Infatti, per la Corte, “proprio in base a questa formulazione si può ritenere che con la norma in esame il legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale, ampliandone o restringendone arbitrariamente la portata, ma si limiti invece a rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini della immediata applicazione dell’art. 68, primo comma, gli ‘atti di funzione’ tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di ‘localizzazione’, in concordanza, del resto, con le indicazioni ricavabili al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia”.

 

Dopo aver affermato che “la vera costante di tutte le decisioni di merito sui conflitti” è l’enucleazione e l’applicazione del principio in base al quale “non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse ‘nell’esercizio delle funzioni’”, per cui l’insindacabilità parlamentare “non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera ‘qualità’ di parlamentare”, la Consulta ritiene nel caso di specie che la disposizione censurata si sottrae ai vizi di legittimità addebitati, poiché essa “non elimina affatto il nesso funzionale e non stabilisce che ogni espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo che li lega agli elettori, sia per ciò solo assistita dalla garanzia dell’immunità”; né, d’altra parte, ai fini dell’insindacabilità – ribadisce la Corte – “la prospettata necessità della connessione tra attività di critica o di denuncia politica e atti di funzione parlamentare può essere inficiata dalla precisazione che tali attività possano essere state espletate ‘anche fuori del Parlamento’. Tale precisazione, infatti, nulla aggiunge a quanto ormai è acquisito al patrimonio giurisprudenziale di questa Corte, che non ha mai limitato la garanzia alla sede parlamentare, giacché il criterio di delimitazione dell’ambito della prerogativa non è quello della ‘localizzazione’ dell’atto, ma piuttosto, come già detto, quello funzionale, cioè riferibile in astratto ai lavori parlamentari”.

 

Si può pertanto affermare che la sentenza si pone in sostanziale continuità con la giurisprudenza resa dalla Corte in sede di risoluzione dei conflitti d’attribuzione, con ciò confermando l’ineludibilità nel giudizio sull’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. di una ricerca seria e motivata del nesso funzionale[231].

Tale orientamento appare confermato da varie, successive pronunzie adottate dalla Corte in sede di risoluzione di conflitti di attribuzioni, con le quali ha annullato delibere delle Camere non rinvenendo in esse un nesso funzionale che giustificasse la dichiarazione di insindacabilità[232].

 

Corte europea dei diritti dell’uomo e insindacabilità. Sembra opportuno, in tale contesto, ricordare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 3 giugno 2004[233], che ha condannato lo Stato italiano al risarcimento del danno patito da un cittadino diffamato da un parlamentare e non soddisfatto nelle sue ragioni a motivo di una deliberazione d’insindacabilità della Camera.

La Corte europea ha ritenuto violato l’art. 6, co. 1, della Convenzione dei diritti dell’uomo, giacché l’estensione applicativa data all’insindacabilità parlamentare finisce per sacrificare in modo eccessivo il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti dei cittadini, inteso come diritto a una decisione sul merito delle proprie doglianze.

La Corte ammette che il diritto al giudice e a un equo processo possa essere compresso da istituti quali quelli applicativi delle immunità parlamentari, ma esige che tale compressione sia un mezzo proporzionato allo scopo per cui la limitazione medesima si realizza. Da questo punto di vista, secondo la sentenza, un’interpretazione troppo ampia dell’ambito applicativo delle immunità parlamentari, riferite spesso anche a fatti che non abbiano un legame evidente con le funzioni parlamentari, realizza un non proporzionato sacrificio della tutela giurisdizionale dei diritti.

Inoltre, il meccanismo per cui, dinanzi alla deliberazione parlamentare d’insindacabilità, il giudice procedente ha solo l’alternativa secca tra elevare conflitto o sottostare alla determinazione parlamentare vanifica, secondo la Corte, il diritto alla tutela giurisdizionale inteso come possibilità chiara e concreta di far valere le proprie ragioni.

Lo Stato italiano era stato altre tre volte condannato dalla Corte europea per la violazione dell’art. 6 della Convenzione, in relazione a vicende d’insindacabilità parlamentare[234]. Il caso in esame presenta tuttavia un elemento di novità rispetto ai precedenti: la Corte europea ha infatti ritenuto di pronunziarsi non ostante che il tribunale avesse a suo tempo proposto conflitto di attribuzione avverso la pronunzia parlamentare di insindacabilità, e la Corte costituzionale si fosse espressa nel merito in senso sfavorevole al ricorrente.

La Corte europea sembra dunque volersi affiancare alla Corte costituzionale italiana nella verifica della legittimità delle decisioni parlamentari in materia d’insindacabilità.


Conflitti di interessi – La legge n. 215 del 2004

L’attività parlamentare nelle precedenti legislature

La questione dei conflitti di interessi ha trovato una definizione legislativa nel nostro ordinamento per la prima volta nella XIV legislatura, con l’approvazione della L. 215/2004[235].

Il tentativo di disciplinare la materia, infatti, era già stato affrontato nelle precedenti due legislature senza alcun esito legislativo, nonostante l’iter parlamentare fosse giunto, in entrambi casi, all’avanzata fase della deliberazione da parte di una delle due Camere.

 

Nella XII legislatura, Il Presidente del Consiglio pro tempore Berlusconi, con D.P.C.M. 12 maggio 1994, aveva costituito un Comitato di esperti con il compito di studiare gli aggiornamenti e le integrazioni della legislazione vigente allo scopo di evitare qualsiasi ipotesi di commistione di interessi pubblici e privati in chi ricopre cariche di Governo. Nel settembre 1994 il Comitato presentava un documento conclusivo, recante uno schema di articolato successivamente formalizzato dal Governo (A.S. 1082) e presentato al Senato. Approvato il 13 luglio 1995 in un testo unificato con gli abbinati disegni di legge d’iniziativa parlamentare, il disegno di legge è stato trasmesso alla Camera, che non ne ha iniziato l’esame.

Nella XIII legislatura la Camera ha approvato il 22 aprile 1998 a larghissima maggioranza un testo unificato di alcune proposte di iniziativa parlamentare. Tra di esse, la proposta di legge A.C. 3612, d’iniziativa del deputato Veltri, riproponeva in larga misura i contenuti del testo unificato approvato in prima lettura dal Senato nella precedente legislatura, e la proposta di legge A.C. 4410 (on. Berlusconi ed altri) riproduceva, con alcune modifiche, il disegno di legge presentato dallo stesso Berlusconi nella XII legislatura. Al Senato il testo proveniente dalla Camera è stato esaminato congiuntamente ad altre proposte parlamentari nel corso di un iter a più riprese interrotto, fino alla sua approvazione con modificazioni, il 27 febbraio, in una situazione di forte divaricazione tra maggioranza e opposizione. La Camera non ne ha ripreso l’esame per il sopraggiunto scioglimento anticipato.

L’iter della legge

La L. 215/2004 prende le mosse da un’iniziativa governativa (C. 1707) presentata alla Camera il 4 ottobre 2001; ad essa sono state abbinate altre cinque proposte presentate da esponenti di opposizione.

La legge è stata deliberata a seguito di un lungo iter arricchito, in entrambe le Camere, con audizioni di accademici ed esperti.

 

All’originario disegno di legge sono state abbinate, durante l’esame in sede referente presso la Commissione affari costituzionali, le proposte di iniziativa parlamentare A.C. 210 (Piscitello), A.C. 1865 (Bressa ed altri), A.C. 2148 (Soda), A.C. 2191 (Bertinotti ed altri) e A.C. 2214 (Rutelli ed altri).

Nel corso dell’esame, la I Commissione ha svolto, nelle sedute del 28 e 29 gennaio 2002, alcune audizioni volte ad approfondire le problematiche inerenti la disciplina per la risoluzione dei conflitti di interessi.

Accanto alla relazione di maggioranza, presentata dalla I Commissione il 22 febbraio 2002 sul testo licenziato per l’Assemblea (A.C. 1707-A), sono state presentate due relazioni di minoranza (A.C. 1707-A-bis ed A.C. 1707-A-ter).

L’articolato, approvato dall’Assemblea della Camera il 28 febbraio 2002, è stato trasmesso al Senato (A.S. 1206); ad esso sono state abbinati i disegni di legge A.S. 9 (Angius e altri), A.S. 36 (Cambursano), A.S. 203 (Cavallaro e altri), A.S. 1017 (Ripamonti), A.S. 1174 (Malabarba e altri), A.S. 1250 (Angius e altri) ed A.S. 1255 (Villone e altri). La 1ª Commissione del Senato ha presentato, il 18 giugno 2002, una relazione di maggioranza (A.S. 1206-A) ed una di minoranza (A.S. 1206-A-bis).

L’Assemblea del Senato ha approvato il disegno di legge, con modificazioni, nella seduta del 4 luglio 2002.

Il disegno di legge è stato nuovamente approvato dalla Camera dei deputati, con ulteriori modifiche relative alle sole modalità di copertura finanziaria, il 22 luglio 2003 (A.C. 1707-B). Nel successivo passaggio al Senato, giunto a conclusione il 10 marzo 2004, è stata approvata una modifica che ha richiesto un’ulteriore trasmissione alla Camera, ove il testo (A.C. 1707-D) è stato definitivamente approvato il 13 luglio 2004.

Si segnala che il 30 marzo 2006, durante il periodo di scioglimento delle Camere, è stata presentata al Senato la proposta A.S. 3799 (Passigli) volta a introdurre nuove norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi e ad abrogare la L. 215/2004.

Il contenuto della legge

Composta da dieci articoli, la L. 215/2004 affronta il tema dei conflitti di interessi che possono riguardare determinati titolari di incarichi pubblici i quali siano, al contempo, titolari di attività economiche di rilevante portata.

Destinatari

Preliminarmente, la legge individua (articolo 1) i destinatari della disciplina nei “titolari di cariche di Governo”, nel cui ambito sono ricompresi il Presidente del Consiglio e i ministri, i vice ministri, i sottosegretari di Stato e i commissari straordinari del Governo. Ad essi, la legge impone di dedicarsi esclusivamente alla cura degli interessi pubblici e di astenersi dal compimento di atti – inclusa la partecipazione a deliberazioni collegiali – “in situazione di conflitto di interessi”.

La definizione di conflitto di interessi, ai fini dell’individuazione degli atti dai quali è obbligatorio astenersi, è resa dal successivo art. 3.

Incompatibilità e conflitto di interessi

La disciplina delle incompatibilità è recata dall’articolo 2, in cui sono elencate le cariche, gli uffici e le attività la cui titolarità o il cui esercizio risulta incompatibile con la titolarità di cariche di Governo. La disposizione colma una lacuna dell’ordinamento che, a livello nazionale, prevedeva cause di incompatibilità per i soli parlamentari ma non anche per i componenti del Governo.

L’incompatibilità riguarda:

§      ogni carica o ufficio pubblico, ad eccezione delle cariche o uffici inerenti alle funzioni svolte dal soggetto in quanto titolare di cariche di Governo; del mandato parlamentare; delle cariche che risultano compatibili con il mandato parlamentare ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della L. 60/1953[236];

§         cariche, uffici o funzioni in enti di diritto pubblico, anche economici;

§         cariche, uffici, funzioni o compiti di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale, o in associazioni o società tra professionisti. L’imprenditore individuale provvede a nominare uno o più institori, ai sensi del codice civile[237];

§         l’esercizio di attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di Governo;

§         l’esercizio di qualsiasi tipo di impiego o lavoro sia pubblico che privato.

Per effetto della successiva L. 88/2005[238], di conversione del D.L. 44/2005, è venuta meno l’incompatibilità tra le cariche di Governo e quella di amministratore locale: l’art. 3-ter del decreto, introdotto in sede di conversione, novella infatti il comma 1, lett. a) dell’art. 2 in commento per aggiungere alle eccezioni ivi elencate quella relativa alla carica di amministratore di enti locali, come definita dall’art. 77, co. 2, del Testo unico sugli enti locali[239].

 

Tale disposizione individua come segue gli amministratori degli enti locali:

§       i sindaci, anche metropolitani, e i presidenti delle province;

§       i consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province;

§       i componenti delle giunte comunali, metropolitane e provinciali;

§       i presidenti dei consigli comunali, metropolitani e provinciali;

§       i presidenti, i consiglieri e gli assessori delle comunità montane;

§       i componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali;

§       i componenti degli organi di decentramento.

 

Gli incarichi e le funzioni incompatibili cessano con effetto dalla data del giuramento relativo agli incarichi di Governo e comunque dalla data di effettiva assunzione delle cariche.

Dal tenore letterale della norma sembrerebbe configurarsi una cessazione ipso iure degli incarichi, uffici o funzioni; si segnala tuttavia che il successivo articolo 6 sembrerebbe invece richiedere o presupporre un apposito atto, prevedendo che sia l’Autorità garante della concorrenza e del mercato a promuovere, presso gli enti o organismi competenti, la rimozione o la decadenza dalla carica o dall’ufficio.

Dagli incarichi e funzioni incompatibili non può derivare, per tutta la durata della carica di Governo, alcuna forma di retribuzione o vantaggio per il titolare. Dopo il termine dell’incarico di Governo, l’incompatibilità sussiste per ulteriori dodici mesi nei confronti di cariche in enti di diritto pubblico e in società con fini di lucro che operano in settori connessi con la carica ricoperta. Quanto ai rapporti d’impiego o di lavoro pubblico o privato, è previsto il collocamento in aspettativa.

 

La legge individua quindi le situazioni in cui si determina il conflitto di interessi (artcolo 3).

Esso sussiste quando il titolare di cariche di Governo partecipa all’adozione di un atto – anche formulando la proposta – o omette un atto dovuto:

§         trovandosi in situazione di incompatibilità ai sensi del precedente art. 2;

§         avendo l’atto o l’omissione un’“incidenza specifica e preferenziale” sul patrimonio del titolare, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero delle imprese o società da essi controllate, con danno per l’interesse pubblico.

A fini interpretativi, giova rimarcare che:

§         la situazione di conflitto non concerne (solo) l’adozione di atti, bensì la partecipazione a tale adozione: può dunque trattarsi di deliberazioni collegiali ovvero di atti conseguenti all’adozione di un procedimento al quale il titolare di cariche di governo prende parte, anche attraverso la formulazione della proposta;

§         la situazione di conflitto può derivare anche da un’omissione, quando essa abbia ad oggetto un atto dovuto (non sembra dunque rilevare l’omissione di un atto qualora residui un margine di discrezionalità in ordine alla sua adozione);

§         l’incidenza patrimoniale dell’atto o dell’omissione dev’essere non solo specifica ma “preferenziale”: aggettivo che sembra di poter interpretare quale richiedente un diverso (e migliore) effetto patrimoniale nei confronti del titolare (o dei parenti), rispetto alla generalità dei soggetti in atto o potenzialmente destinatari dell’atto o dell’omissione;

§         l’incidenza dell’atto o dell’omissione può riguardare non solo il patrimonio (personale) del titolare, coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ma anche quello delle imprese o società da essi controllate. Il concetto di “controllo” è definito mediante rinvio all’art. 7 della L. 287/1990[240].

 

Ai sensi dell’art. 7 citato, si ha controllo:

§         nei casi contemplati dall’art. 2359 c.c., il quale considera controllate le società in cui un’altra società:

-          dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

-          dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

-          esercita un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali;

§         in presenza di diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, anche attraverso:

-          diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio;

-          diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi.

Il controllo è acquisito dal soggetto che sia titolare o beneficiario dei rapporti giuridici suddetti ovvero che, pur non essendo titolare o beneficiario, abbia il potere di esercitare i diritti che ne derivano.

 

Al di fuori delle ipotesi di incompatibilità, per le quali l’insorgenza del conflitto è in re ipsa, il conflitto è configurato, come si è detto, in termini di “incidenza specifica e preferenziale” sul patrimonio del titolare e degli altri soggetti individuati: assume dunque rilievo la sola natura patrimoniale degli interessi. Ulteriore condizione che deve ricorrere perché si abbia conflitto è la sussistenza di un danno per l’interesse pubblico in conseguenza dell’atto.

La sussistenza di una situazione di conflitto di interessi (potenziale, deve intendersi) fa sorgere nel titolare della carica di governo l’obbligo di astensione di cui all’articolo 1.

 

Viene ribadita la validità delle norme generali poste a tutela della concorrenza[241] (articolo 4), stabilendo, tra l’altro, che la violazione del divieto di atti e comportamenti che costituiscano o mantengano una posizione dominante nel settore delle comunicazioni (ai sensi dell’art. 2 della L. 249/1997[242] e dell’art. 14 della L. 112/2004[243]) è sanzionata anche quando sia compiuta dall’impresa facente capo al titolare di cariche di Governo avvalendosi di atti posti in essere dal titolare medesimo. Resta altresì ferma, in presenza dei rispettivi presupposti, l’applicabilità delle norme civili, penali, amministrative e disciplinari vigenti.

È opportuno segnalare in questa sede che il riferimento alla L. 112/2004 è stato introdotto nell’articolo in esame dal successivo D.L. 233/2004[244], che ha inteso adeguare e coordinare alcuni passaggi della L. 215 con il dettato della L. 112/2004 (così detta “legge Gasparri”), che regola l’assetto del sistema radiotelevisivo e introduce, in particolare, il concetto di “sistema integrato delle comunicazioni” (v. capitolo Il riassetto del sistema radiotelevisivo, nel dossier relativo alla Commissione Trasporti).

Il decreto-legge, nello specifico, novella la legge in esame in soli due punti (artt. 4 e 7) con il dichiarato intento di introdurre richiami alla “legge Gasparri” o in sostituzione di norme superate, o in aggiunta a norme che restano in vigore, ma che sono divenute insufficienti a regolare le funzioni previste dalla legge sul conflitto di interessi in materia di comunicazione.

Obblighi di dichiarazione

Chi assume la titolarità di cariche di Governo ha l’obbligo di rendere note (articolo 5) all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (così detta “Anti-trust”):

§         l’eventuale titolarità di cariche o attività incompatibili;

§         tutti i dati relativi alle attività patrimoniali di cui sia titolare, o di cui sia stato titolare nei tre mesi precedenti.

 

Il termine per la presentazione della dichiarazione, complessivamente pari a 90 giorni, è sdoppiato in 30 giorni per la dichiarazione delle situazioni di incompatibilità, e in ulteriori 60 giorni per quella concernente le attività patrimoniali. Si precisa inoltre che tra le attività patrimoniali da dichiarare sono comprese le partecipazioni azionarie.

 

Gli obblighi di dichiarazione sono estesi al coniuge ed ai parenti entro il secondo grado. Le dichiarazioni sono rese anche all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, quando le incompatibilità o i dati patrimoniali afferiscano a settori di sua competenza. Le dichiarazioni incomplete o non veritiere o la mancata effettuazione delle dichiarazioni stesse costituiscono reato.

Le due menzionate Autorità di garanzia provvedono agli accertamenti di competenza, con le modalità di cui ai successivi articoli 6 e 7, entro i 30 giorni successivi al ricevimento delle dichiarazioni.

Competenze delle Autorità di garanzia

L’articolo 6 individua le nuove funzioni assegnate dalla legge all’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di conflitti di interessi.

Nel dettaglio, l’Autorità è competente ad accertare la sussistenza di:

§         situazioni d’incompatibilità, di cui all’art. 2 della legge 215;

§         situazioni di conflitto d’interesse, ai sensi dell’art. 3.

Nel primo caso, l’Autorità promuove, nei casi d’inosservanza, gli adempimenti volti a superare la situazione di incompatibilità, eseguiti poi dagli organi di volta in volta competenti, e ne dà comunicazione ai Presidenti delle due Camere.

 

In particolare, l’Autorità, accertata la situazione di incompatibilità, promuove:

§         la rimozione o la decadenza dalla carica o dall’ufficio ad opera dell’Amministrazione competente o di quella vigilante l’ente o l’impresa;

§         la sospensione del rapporto di impiego o di lavoro pubblico o privato

§         la sospensione dall’iscrizione in albi e registri professionali, che deve essere richiesta agli ordini professionali per gli atti di loro competenza.

 

Nella seconda ipotesi, l’Autorità non ha poteri diretti nei confronti del titolare di cariche di Governo, ma comunica ai Presidenti delle Camere gli accertamenti svolti, indicando la situazione di privilegio. L’“Anti-trust” può invece diffidare ed eventualmente infliggere sanzioni pecuniarie alle imprese che pongano in essere comportamenti volti ad avvantaggiarsi degli atti adottati in situazioni di conflitto d’interesse.

La legge attribuisce all’Autorità anti-trust un potere di esame, controllo e verifica degli effetti dell’azione del titolare della carica di governo. Tale attività deve essere focalizzata a rilevare l’eventuale incidenza specifica e preferenziale, con danno per l’interesse pubblico, dell’azione del titolare della carica di governo sul proprio assetto patrimoniale, su quello del coniuge o dei parenti entro il secondo grado nonché su quello delle imprese o società da essi controllate.

È in ogni caso fatto salvo l’obbligo di denunzia all’autorità giudiziaria, quando i fatti abbiano rilievo penale.

Vengono indicate le modalità degli accertamenti dell’Anti-trust, che procede d’ufficio alle verifiche di competenza, valutate preventivamente e specificatamente le condizioni di proponibilità ed ammissibilità della questione.

 

A tale fine, l’Autorità corrisponde e collabora con gli organi delle Amministrazioni, acquisisce i pareri delle altre Autorità amministrative indipendenti competenti e le informazioni necessarie per l’espletamento dei compiti che il disegno di legge le affida, con i limiti opponibili all’autorità giudiziaria.

Nell’esercizio di tali funzioni, l’Autorità si avvale dei poteri riconosciuti dalla L. 287/1990, in quanto compatibili.

 

È garantita la partecipazione procedimentale dell’interessato ai sensi della L. 241/1990[245], ma viene fatto salvo quanto previsto dell’art. 14, co. 3, della L. 287/1990, che stabilisce che le notizie, le informazioni o i dati riguardanti le imprese oggetto di istruttoria da parte dell’Autorità sono tutelati dal segreto d’ufficio anche nei riguardi delle pubbliche amministrazioni.

Come si anticipava, a seguito degli accertamenti o dell’irrogazione di sanzioni pecuniarie previsti dall’articolo in esame, l’Anti-trust deve effettuare una comunicazione motivata diretta ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.

Tale comunicazione deve indicare:

§         i contenuti della situazione di privilegio;

§         gli effetti distorsivi realizzatisi sul mercato;

§         le conseguenze della situazione di privilegio;

§         le eventuali sanzioni inflitte alle imprese.

 

All’Anti-trust viene inoltre attribuito un potere regolatorio in riferimento alle procedure istruttorie, ai criteri di accertamento per lo svolgimento dei compiti ad essa assegnati dal provvedimento in esame, nonché in relazione alle modifiche organizzative interne. Tale potere è stato esercitato con l’adozione della Deliberazione del 16 novembre 2004, su Criteri di accertamento e procedure istruttorie relativi all’applicazione della legge 20 luglio 2004, n. 215, recante norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi[246].

 

Il successivo articolo 7 attribuisce anche all’Autorità per le garanzie nelle comunicazionispecifici compiti nella materia in esame.

Tali compiti – di vigilanza, di accertamento e sanzionatori – sono indirizzati non al titolare di cariche di governo ed ai suoi comportamenti, bensì ai comportamenti delle imprese che facciano capo al titolare medesimo – ovvero al coniuge o ai parenti entro il secondo grado, o che siano da essi controllate – qualora tali imprese operino nei settori del sistema integrato delle comunicazioni di cui all’art. 2, co. 1, lett. g) della L. 112/2004[247]: si tratta del “settore economico che comprende le seguenti attività: stampa quotidiana e periodica; editoria annuaristica ed elettronica anche per il tramite di Internet; radio e televisione; cinema; pubblicità esterna; iniziative di comunicazione di prodotti e servizi; sponsorizzazioni”[248].

Oggetto del controllo sono gli (eventuali) comportamenti che:

§         forniscano un “sostegno privilegiato” al titolare di cariche di governo;

§         vìolino, al contempo, le disposizioni di cui alla L. 223/1990[249], alla L. 249/1997[250], alla L. 28/2000[251], nonché alla L. 112/2004.

 

Tali leggi costituiscono i principali provvedimenti di ordine generale volti a disciplinare l’esercizio dell’attività radiotelevisiva, l’assetto complessivo del settore delle comunicazioni e la comunicazione politica attraverso i mezzi di informazione. Ciascuna di esse reca una pluralità di specifici obblighi e divieti a carico delle imprese operanti nel settore, nonché di sanzioni per la violazione dei medesimi, e pone in capo all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni specifiche competenze afferenti alla regolazione del settore, alla vigilanza, all’accertamento delle infrazioni ed all’irrogazione di sanzioni.

 

L’articolo in esame fa rinvio alle leggi sopra richiamate anche per definire i poteri attribuiti all’Autorità, le procedure che essa deve seguire e le sanzioni da questa irrogabili. In aggiunta a ciò, estende all’Autorità quanto già disposto nel precedente art. 6 con riguardo ai poteri ed alle modalità di accertamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Anche l’Autorità per le comunicazioni, come già previsto per l’Anti-trust, qualora accerti che l’impresa abbia adottato comportamenti che forniscono un sostegno privilegiato al titolare di cariche di governo in violazione delle disposizioni di cui alle quattro leggi sopra citate, ha il potere di comminare, previa diffida, le sanzioni specificamente previste per tali infrazioni dalle leggi medesime: le sanzioni pecuniarie, peraltro, sono aumentate sino a un terzo.

L’Autorità informa il Parlamento degli accertamenti effettuati e delle eventuali sanzioni irrogate.

La legge attribuisce anche all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni un potere regolatorio in ordine alle procedure istruttorie, ai criteri di accertamento per lo svolgimento dei compiti ad essa assegnati dal provvedimento in esame, nonchéin relazione alle modifiche organizzative interne. Tale potere è stato esercitato con l’adozione della Deliberazione del 1 dicembre 2004, Regolamento per la risoluzione dei conflitti di interessi[252], successivamente abrogata e sostituita dalla Deliberazione del 13 ottobre 2005, Modifiche e integrazioni al regolamento per la risoluzione dei conflitti di interessi[253].

 

Le due Autorità comunicano ogni sei mesi alle Camere, attraverso apposite relazioni, lo stato delle attività di controllo e vigilanza che sono ad esse attribuite[254] (articolo 8).

Le violazioni agli obblighi di dichiarazione di cui al precedente art. 5 (dichiarazioni di denuncia delle situazioni di incompatibilità e dei dati relativi alle proprie attività patrimoniali), di cui si siano resi responsabili i titolari delle cariche di Governo sono tutte sanzionate ai sensi dell’art. 328 del codice penale[255].

 

Si prevedono le seguenti ipotesi di violazione degli obblighi di dichiarazione:

§         la mancata effettuazione della dichiarazione;

§         l’effettuazione di dichiarazione non veritiera;

§         l’effettuazione di dichiarazione incompleta

 

Un’ulteriore condizione per l’applicazione dell’art. 328 c.p. scatta quando l’interessato non ottemperi ad una specifica richiesta dell’autorità competente in un termine stabilito dalla stessa autorità, e comunque non inferiore a 30 giorni. Le autorità competenti sono l’Autorità per le comunicazioni, nel caso le dichiarazioni relative alle incompatibilità o ai dati patrimoniali riguardino il settore delle comunicazioni, e l’Autorità anti-trust negli altri casi.

Entrambe le Autorità, una volta verificate le irregolarità, ne danno comunicazione documentata sia all’autorità giudiziaria competente, sia ai Presidenti delle Camere.

 

L’articolo 9 dispone un incremento del ruolo organico di ciascuna Autorità, in conseguenza dei nuovi compiti ad esse attribuiti in materia di conflitti di interessi.


Grazia e amnistia – La concessione della grazia

Ai sensi dell’articolo 174 del codice penale, la grazia ha l’effetto di condonare, in tutto o in parte, la sanzione penale inflitta, o di commutarla in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. La grazia non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e lascia immutati gli altri effetti penali della condanna.

La grazia può intervenire esclusivamente su una pena che sia stata comminata con sentenza divenuta irrevocabile. Nella prassi, essa è generalmente sottoposta a condizione (non riportare condanne penali entro un certo periodo di tempo successivo all’esecuzione della grazia; risarcire il danno; pagare una certa somma alla Cassa delle ammende etc.), pur se la dottrina ha espresso perplessità sulla costituzionalità della grazia condizionata.

 

L’articolo 87 della Costituzione annovera, al comma undicesimo, fra le attribuzioni del Presidente della Repubblica il potere di “concedere grazia e commutare le pene”.

Il decreto presidenziale di grazia (conforme la dottrina pressoché unanime e la prassi) deve essere controfirmato dal ministro della giustizia, secondo quanto dispone in via generale il primo comma dell’art. 89 Cost. (“Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”).

Il significato da attribuire, nella fattispecie, alla controfirma ministeriale è peraltro questione che ha impegnato la dottrina per lungo tempo. Tale questione è strettamente correlata a quella concernente l’individuazione dell’effettiva competenza per l’atto in questione, se cioè la grazia:

§         costituisca un atto solo formalmente presidenziale, ma nella sostanza rimesso all’iniziativa e alla decisione dell’esecutivo, sotto la responsabilità politica di questo (come ad es. l’emanazione dei decreti-legge, dei decreti legislativi o dei regolamenti)[256];

§         o, al contrario, rientri fra gli atti che la dottrina definisce sostanzialmente (oltre che formalmente) presidenziali (quali ad es. la nomina di cinque senatori a vita)[257];

§         o ancora, secondo una tripartizione accolta da vari autori, rientri nel “terzo genere” degli atti governativo-presidenziali (ad es., la nomina del Presidente del Consiglio), ovvero “a partecipazione eguale”, nei quali assume rilievo determinante il concorso della volontà dei due soggetti istituzionali. Da alcuni autori questa tesi è intesa nell’empirica e flessibile accezione che ricollega il prevalere della volontà dell’uno o dell’altro organo al concreto, reciproco atteggiarsi dei rapporti politico-istituzionali[258].

Dalla soluzione data alla sopra cennata questione dipende lo scioglimento di altri nodi interpretativi sorti in dottrina e, a volte, presentatisi in concreto: se, ad esempio, il Capo dello Stato possa concedere la grazia di propria iniziativa, in assenza cioè di proposta ministeriale o (all’opposto) se i termini in cui la proposta ministeriale è formulata vincolino in qualche modo la decisione presidenziale.

 

Nella prassi, affermatasi già in vigenza dello Statuto albertino e conservatasi fino alla vigilia della recente vicenda che ha visto l’insorgere di un conflitto di attribuzione tra Presidente della Repubblica e ministro della giustizia, risolto dalla Corte con l’affermazione che non spetta al ministro della giustizia impedire la prosecuzione di un procedimento per la concessione della grazia (v. parte I, capitolo Iniziative in materia di grazia e amnistia), l’istituto in esame è apparso fortemente procedimentalizzato e nei fatti ampiamente rimesso ai poteri istruttori e di iniziativa del Ministero della giustizia.

Non si registrano casi di decreti di grazia emanati in assenza di proposta ministeriale – pur se in alcuni casi è avvenuto che la proposta fosse sollecitata dal Capo dello Stato – e, d’altro canto, il Presidente della Repubblica non si è mai sentito vincolato dalla proposta medesima, che ha talvolta respinto e spesso modificato nel contenuto.

La procedura per la presentazione e l’esame delle domande di grazia, già contenuta nell’art. 595 del previgente codice, fa oggi capo all’art. 681 c.p.p., ai sensi del quale:

§      la domanda di grazia può essere sottoscritta, oltre che dal condannato, da un suo prossimo congiunto, dal convivente, dal tutore o curatore ovvero da un avvocato;

§      essa è diretta al Presidente della Repubblica, ma è presentata al ministro della giustizia;

§      se il condannato è libero, la domanda può anche essere presentata al procuratore generale presso la corte di appello competente; se il condannato è in stato di detenzione, può essere presentata al magistrato di sorveglianza e perviene al ministro, per l’ulteriore istruttoria da svolgere in quella sede, insieme con i dati raccolti da quest’ultimo e il suo parere motivato, e con le osservazioni del procuratore generale;

§      il presidente del consiglio di disciplina dell’istituto dove la pena è in esecuzione può sottoscrivere una proposta di grazia, che segue il medesimo iter delle domande;

§      la grazia può comunque essere concessa anche in assenza di domanda o proposta;

§      il relativo decreto è trasmesso al pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione, che lo fa eseguire;

§      nel caso di grazia sottoposta a condizioni, l’esecuzione della pena è sospesa sino alla scadenza del termine stabilito per l’adempimento di esse da parte del condannato: in caso positivo, la pena si estingue; altrimenti, il beneficio viene revocato.

In sede ministeriale, la procedura istruttoria delle domande di grazia è oggi svolta dalla Direzione generale della giustizia penale presso il Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 4, co. 2, lett. b), del regolamento di organizzazione del Ministero (D.P.R. 55/2001[259]).

Di norma, solo le domande di grazia che abbiano positivamente superato tale procedura hanno formato oggetto di proposta del ministro al Capo dello Stato; per le altre si è proceduto all’archiviazione.

 

Dal 1951 ai primi anni ‘90 il numero dei graziati è stato complessivamente molto elevato (circa 46.000); negli ultimi due decenni esso è andato progressivamente riducendosi, presumibilmente anche a causa dell’introduzione nell’ordinamento di nuovi benefìci penitenziari e di misure alternative alla detenzione.

 


Diritti e libertà fondamentali

 


Immigrazione – Le politiche di programmazione

Le linee generali delle politiche pubbliche in materia di immigrazione extracomunitaria in Italia, fissate dalla legge n. 40 del 1998[260] (cosiddetta “legge Turco – Napolitano”), sono state successivamente consolidate nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero del 1998[261].

 

Il testo unico costituisce il primo tentativo di definire un quadro giuridico completo e sistematico in una materia caratterizzata nel decennio precedente dal sovrapporsi di una serie di numerosi interventi normativi, talvolta non coordinati tra loro, di natura prevalentemente emergenziale. L’origine di tali interventi sono da individuare da un lato nel vincolo esterno costituito dalla normativa europea in materia di libera circolazione delle persone e dall’adesione dell’Italia all’accordo di Schengen, dall’altro nelle situazioni di emergenza venutesi a creare conseguenti a massicci afflussi di immigrati o di rifugiati.

 

Il testo unico interviene in entrambi gli ambiti principali del diritto dell’immigrazione: il diritto dell’immigrazionein senso stretto, concernente la gestione nel suo complesso del fenomeno migratorio: la definizione di regole di ingresso, di soggiorno, di controllo, di stabilizzazione dei migranti ed anche la repressione delle violazioni a tali regole; e il diritto dell’integrazione, che riguarda l’estensione, in misura più o meno ampia, ai migranti dei diritti propri dei cittadini (diritti civili, sociali, politici).

I princìpi fondamentali che sono alla base del testo unico sono essenzialmente tre: la programmazione dei flussi migratori e il contrasto all’immigrazione clandestina (per quanto riguarda il diritto dell’immigrazione); la concessione di una ampia serie di diritti volti all’integrazione degli stranieri regolari (diritto dell’integrazione).

La legge 189, mantenendo sostanzialmente inalterato nel complesso la struttura generale del testo unico, ne ha modificato la parte relativa alla gestione dell’immigrazione, non toccando, se non in minima parte, quella riguardante i diritti dei lavoratori immigrati (vedi il testo a fronte tra il D.Lgs. 286/1998 e le modifiche apportate dalla L. 189/2002).

La programmazione dei flussi migratori

In Italia l’immigrazione dei cittadini stranieri non appartenenti all’Unione europea è regolata secondo il principio delle quote programmatiche.

Ogni anno il Governo, sulla base della necessità di manodopera interna, stabilisce il numero di stranieri che possono entrare nel nostro Paese per motivi di lavoro.

Più in generale, la gestione dei flussi di immigrazione è realizzata attraverso una serie di strumenti:

il documento programmatico triennale relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri (articolo 3, comma 1, del citato testo unico).

§         il decreto sui flussi (art. 3, comma 4) che stabilisce ogni anno, in base alle indicazioni contenute sul documento programmatico, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per motivi di lavoro.

§         il decreto sugli ingressi degli studenti universitari (art. 39, comma 4) che fissa il numero massimo dei permessi di soggiorno per l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti stranieri.

Il documento programmatico

Il documento programmatico costituisce la base di riferimento della politica dell’immigrazione. È elaborato dal Governo ogni tre anni (a meno che non si renda necessario un termine più breve[262]) e viene presentato al Parlamento per il parere delle competenti Commissioni parlamentari.

Il documento è predisposto dal Presidente del Consiglio previa consultazione, oltre che dei ministri interessati, di una serie di soggetti:

§      il CNEL;

§      la Conferenza Stato-Regioni;

§      la Conferenza Stato-Città;

§      le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale;

§      gli enti e le associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati.

Una volta acquisiti i pareri, il documento viene approvato dal Consiglio dei Ministri. Il documento è quindi trasmesso al Parlamento per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari che devono pronunciarsi entro trenta giorni dal ricevimento dell’atto. Il documento programmatico – emanato con decreto del Presidente della Repubblica e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – deve tener conto dei pareri ricevuti.

Il documento programmatico, ai sensi dell’art. 3, commi 2 e 3, del testo unico, deve contenere:

§      gli interventi che lo Stato italiano intende svolgere in materia di immigrazione, anche attraverso accordi internazionali;

§      le linee generali per la definizione dei flussi d’ingresso nel territorio dello Stato di stranieri extracomunitari;

§      le misure di carattere economico e sociale nei confronti degli stranieri soggiornanti nelle materie che non devono essere disciplinate con legge;

§      gli interventi pubblici per favorire sia l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri regolari nel nostro Paese, sia il reinserimento dei Paesi di origine.

Inoltre, il documento è corredato dall’analisi quantitativa e qualitativa del fenomeno migratorio e dallo studio degli scenari futuri.

Il documento programmatico è materialmente redatto dagli uffici della Presidenza del Consiglio, ed in particolare dal Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA), struttura di supporto delle attività di competenza del Presidente del Consiglio.

Fino ad oggi sono stati predisposti dal Governo tre documenti programmatici, nel 1998, nel 2001 e nel 2005.

 

Il primo documento è stato approvato con il decreto del Presidente della Repubblica del 5 agosto 1998[263]. Il secondo documento programmatico, relativo agli anni 2001-2003, è stato approvato, alla fine della XIII legislatura, dal decreto del Presidente della Repubblica del 30 marzo 2001[264].

 

In questa legislatura (2005) è stato approvato il terzo documento programmatico, relativo al triennio 2004-2006, con il decreto del Presidente della Repubblica 13 maggio 2005[265].

Tra i principali obiettivi indicati nel documento relativamente al lavoro degli stranieri e alle linee generali per la definizione dei flussi, si possono segnalare i seguenti:

§         monitoraggio più sistematico degli ingressi per lavoro e delle caratteristiche del rapporto lavorativo, mediante lo Sportello unico informatizzato per l’immigrazione;

§         programmazione dei flussi di ingresso;

§         valorizzazione del ruolo della formazione nei Paesi di origine dei lavoratori che intendono fare ingresso in Italia;

§         monitoraggio dei flussi di ingresso dei cittadini dei nuovi Paesi membri dell’Unione europea per motivi di lavoro subordinato, considerato il regime transitorio adottato dall’Italia;

§         promozione di nuovi accordi con i Paesi interessati da flussi migratori in Italia, anche al fine di prevenire l’immigrazione clandestina;

§         completamento della gestione totalmente informatizzata delle procedure di ingresso.

 

Tali indicazioni si rintracciano principalmente nel primo capitolo del documento relativo alle politiche per il lavoro degli stranieri e alle linee generali per la definizione dei flussi di ingresso nel territorio italiano, articolato in 8 sezioni relative a:

§       i nuovi meccanismi d’ingresso per il lavoro, lo sportello unico e il contratto di soggiorno. In tale sezione si chiarisce l’innovazione introdotta dalla legge n. 189/2002 in materia di procedure di ingresso: sotto l’aspetto organizzativo, l’innovazione si sostanzia nell’istituzione, presso ogni prefettura – UTG, dello sportello unico per l’immigrazione che concentrerà un complesso di dati e notizie sinora distribuiti tra uffici diversi, facilitando così il monitoraggio degli effettivi ingressi per lavoro subordinato e dello svolgimento del rapporto lavorativo; sotto l’aspetto sostanziale, l’innovazione consta del collegamento dell’ingresso del lavoratore straniero all’esistenza di un’idonea proposta di contratto di lavoro (contratto di soggiorno);

§       l’utilizzo dell’informatica per la gestione delle procedure di ingresso dei lavoratori non comunitari. Si indica espressamente l’obiettivo del prossimo triennio: “raggiungere la gestione completamente informatizzata delle procedure di ingesso e del monitoraggio dell’andamento dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari”;

§       la programmazione dei flussi e l’analisi del fabbisogno lavorativo nel mercato del lavoro italiano. Considerando che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è chiamato a concorrere, assieme alle altre amministrazioni competenti, all’attività di programmazione dei flussi e svolge un ruolo centrale nella preliminare definizione del fabbisogno interno di manodopera straniera, si prevede che un efficace svolgimento del proprio compito richiede al Ministero suddetto un’attività di rilevazione che andrà sviluppata ulteriormente mediante: a) il monitoraggio dei fabbisogni a livello regionaleattraverso le indicazioni acquisite dalla amministrazioni regionali, dalle associazioni datoriali di categoria, dalle direzioni regionali del lavoro; b) la rilevazione delle dinamiche occupazionali nei diversi settori produttivi del sistema economico italiano, analizzando l’andamento generale del mercato del lavoro italiano nel suo complesso, dei settori nei quali vi siano riconosciute carenze di manodopera dovute all’insufficienza di personale altamente qualificato per lavori che richiedano un’elevata specializzazione oppure di lavoratori operanti nelle professioni a qualificazione e remunerazione ridotta e rifiutati dai lavoratori italiani;

§       l’allargamento e la libera circolazione dei lavoratori dei dieci nuovi paesi membri dell’Unione europea. In tale sezione si chiarisce che la scelta dell’Italia di usufruire del regime transitorio[266], in virtù del quale è stato emanato in data 20 aprile 2004 il DPCM che ha esteso a otto dei nuovi Stati membri un sistema analogo alla programmazione dei flussi di ingresso previsto dalla normativa vigente, ma gestito separatamente e in maniera più favorevole[267], è stata determinata “dalla necessità di verificare la capacità di assorbimento da parte del mercato del lavoro nazionale dei flussi di manodopera provenienti dai nuovi Stati membri”. In tale ottica si rende necessario monitorare i flussi di ingresso per motivi di lavoro subordinato dei cittadini dei nuovi Stati membri, ponendoli ad esempio in relazione al complesso delle domande rilevate, sia su scala nazionale che europea, alla capacità di assorbimento da parte del mercato nazionale, ovvero anche agli ingressi nel Paese per motivi diversi dal lavoro subordinato;

§       le funzioni e gli obiettivi delle diverse tipologie di quote programmate di lavoratori non comunitari. Attraverso la concessione di quote privilegiate di ingresso in favore di Paesi che collaborano si intende conseguire la stessa collaborazione, stante che, in assenza di una qualche forma di incentivo, tali Paesi “tendono a favorire l’emigrazione, anche quella clandestina, sia per alleggerire la situazione nazionale della disoccupazione, sia per assicurarsi le rimesse degli emigrati”. Si precisa, inoltre, che la predisposizione di quote riservate, se ha favorito un’effettiva collaborazione con i Paesi firmatari degli accordi di riammissione, ha comportato anche alcuni inconvenienti, quali la frammentazione delle quote e l’introduzione di un fattore di rigidità. Ne discende l’opportunità di “individuare misure alternative a favore di alcuni Paesi che garantiscono una collaborazione attiva” considerato che “In conclusione, la programmazione dei flussi dovrà tener conto in primo luogo della situazione del mercato del lavoro nazionale ed europeo, in secondo luogo, dell’offerta proveniente dai paesi comunitari di nuova adesione, in terzo luogo dell’offerta dei lavoratori provenienti da paesi non dell’Unione, che avranno stipulato con l’Italia accordi che prevedono quote privilegiate di ammissione ed, infine, dell’offerta dei lavoratori non dell’Unione ove non sono previste quote preferenziali”;

§       gli accordi bilaterali in materia di lavoro. In tale sezione si prevede l’opportunità di: 1) rivedere gli accordi bilaterali in materia di lavoro già sottoscritti per renderli uniformi e coerenti[268]; 2) valorizzare il ruolo della formazione nei Paesi di origine dei lavoratori che intendono fare ingresso nel nostro Paese in modo da rispondere con tempestività alle necessità di manodopera del nostro mercato interno e favorire così l’incontro tra domanda e offerta di lavoro;

§       la lotta al lavoro nero degli stranieri. In tale ambito si collocano: 1) il procedimento di regolarizzazione adottato nel 2002 che ha interessato 705.172 lavoratori stranieri residenti sul territorio italiano; 2) i controlli su datori di lavoro e sui loro dipendenti: al fine di potenziare tali funzioni – si precisa – che è in corso di revisione la struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL[269];

§       l’imprenditoria immigrata. Al fine di favorire lo sviluppo dell’imprenditoria tra gli stranieri, che risulta in costante crescita soprattutto al Centro Nord, si rende opportuno eliminare quelle difficoltà che rallentano il diffondersi del fenomeno e che sono riconducibili a: a) lacomunicazione e la comprensione della lingua; b) l’accesso ai finanziamenti; c) la carenza di supporto per l’avvio di attività imprenditoriali; d) le competenze ancora limitate nella gestione delle imprese.Da tale quadro discende l’opportunità di:1) prevedere corsi di formazione e di orientamento per l’avvio di attività imprenditoriali, anche in collaborazione con regioni ed enti locali; 2) avviare iniziative di informazione in materia di imprenditoria; 3) diffondere tutte le informazioni sull’avvio di un’attività imprenditoriale; 4) favorire l’accesso al credito finanziario.

 

Come si è detto, il documento indica una serie di obiettivi e di misure concrete di intervento in materia di immigrazione. Secondo quanto stabilito dall’art. 3, comma 1 del testo unico, sui risultati ottenuti attraverso i provvedimenti attuativi del documento programmatico il Governo riferisce al Parlamento con una relazione annuale, predisposta dal Ministro dell’interno.

 

La prima relazione sull’attuazione del documento di programmazione risale al 2000[270], e riguarda il periodo dal 27 marzo 1998 (data di pubblicazione della L. 40/1998) al 31 ottobre 1999, ossia la prima fase di attuazione della legge. Essa è articolata in due parti: una dedicata all’analisi della presenza straniera in Italia, alla programmazione di flussi, alle misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, alle misure relative ai rifugiati e alle attività svolte in ambito internazionale. La seconda parte riguarda le misure di integrazione degli immigrati.

Le relazioni successive sono incentrate esclusivamente sull’attività di contrasto all’immigrazione clandestina e all’attività di cooperazione transfrontaliera e di sicurezza[271].

Un rapporto annuale specificatamente dedicato allo stato di attuazione delle politiche di integrazione degli immigrati è previsto dall’articolo 46 del testo unico. Il compito di predisporre il rapporto è affidato alla Commissione per le politiche di integrazione, organismo della Presidenza del Consiglio istituito dallo stesso articolo 46. La Commissione ha curato due rapporti, nel 1999 e nel 2000 (v. scheda Immigrazione – Le politiche di integrazione).

Infine, si ricorda che la Corte di Conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione, ha deliberato nel 2001 una indagine sulla Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina. Nell’ambito di tale iniziativa sono state approvate tre relazioni (relative rispettivamente al 2002, 2003 e al 2004) che analizzano le politiche dell’immigrazione dal punto di vista dei risultati gestionali raggiunti, dell’efficienza e l’efficacia delle misure adottate, della regolarità delle procedure, della coerenza del disegno organizzativo con gli obiettivi indicati dalla normativa.

Il decreto flussi

Sulla base delle indicazioni contenute nel documento programmatico, ogni anno il Governo stabilisce le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per motivi di lavoro, attraverso l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (c.d. decreto flussi; per un elenco dei decreti emanati a partire dal 1998, con l’indicazione delle quote relative, si veda la tabella seguente).

 

I decreti sui flussi d’ingresso dei lavoratori stranieri (1998-2006)

 

Anno

Provvedimento

Quote

1998

DM Esteri 27 dicembre 1997, Programmazione dei flussi migratori per l’anno 1998

20.000

DPCM 16 ottobre 1998, Integrazione al D.M. 24 dicembre 1997 recante programmazione dei flussi di ingresso per l’anno 1998 di cittadini stranieri non comunitari

38.000

1999

Dir. PCM 4 agosto 1999, Programmazione dei flussi di ingresso per lavoro, nell’anno 1999, di cittadini stranieri non comunitari

58.000

2000

DPCM 8 febbraio 2000, Programmazione dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2000

63.000

2001

DPCM 9 aprile 2001, Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2001

83.000

DM Lavoro 12 luglio 2001

6.400

2002

DM Lavoro 4 febbraio 2002, Determinazione della quota massima di ingresso di lavoratori stagionali stranieri non comunitari per l’anno 2002

33.000

DM Lavoro 12 marzo 2002 2001, Determinazione per l’anno 2002 di un’ulteriore quota massima di ingresso di lavoratori stagionali stranieri non comunitari e di una quota massima di ingresso di lavoratori stranieri non comunitari per lavoro autonomo

9.400

DM Lavoro 22 maggio 2002, Determinazione per l’anno 2002 di un’ulteriore quota massima di ingresso di lavoratori stagionali stranieri non comunitari

6.600

DM Lavoro 16 luglio 200

10.000

DPCM 15 ottobre 2002, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2002

20.500

2003

DPCM 20 dicembre 2002, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2003

60.000

DPCM 6 giugno 2003, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2003

19.500

2004

DPCM 19 dicembre 2003, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori stagionali extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2004

50.000

DPCM 19 dicembre 2003, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori non stagionali extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2004

29.500

DPCM 20 aprile 2004, Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori cittadini dei nuovi Stati membri della Unione europea nel territorio dello Stato, per l’anno 2004

20.000

DPCM 8 ottobre 2004, Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori cittadini dei nuovi Stati membri della Unione europea nel territorio dello Stato, per l’anno 2004

16.000

2005

DPCM 17 dicembre 2004, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2005

79.500

DPCM 17 dicembre 2004, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori cittadini di nuovi Stati membri della UE nel territorio dello Stato per l’anno 2005

79.500

Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 22 aprile 2005, n. 3426, Disposizioni urgenti di protezione civile in relazione alla situazione di emergenza di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 20 marzo 2002, 7 novembre 2003, 23 dicembre 2004 e 21 aprile 2005

20.000

2006

DPCM 14 febbraio 2006, Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori cittadini dei nuovi Stati membri dell’Unione europea nel territorio dello Stato, per l’anno 2006

170.000

DPCM 15 febbraio 2006, Programmazione dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato, per l’anno 2006

170.000

 

Le quote sono suddivise per lavoro subordinato (stagionale e non) e autonomo. In alcuni anni è stata accordata una preferenza per lavoratori specializzati (informatici ed infermieri professionali).

Il decreto è adottato dal Governo con il parere delle Commissioni parlamentari, del Comitato interministeriale per il coordinamento e il monitoraggio delle politiche in materia di immigrazione e della Conferenza unificata Stato – regioni – enti locali.

Il decreto flussi, come si è detto, ha cadenza annuale e deve essere emanato entro il 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento[272].

Una norma di salvaguardia prevede che qualora non sia possibile emanare il decreto, il Presidente del Consiglio può adottare un decreto transitorio che però non deve superare le quote dell’anno precedente.

Per quanto riguarda il lavoro stagionale, è intervenuto di recente il decreto legge n. 35 del 2005[273] (il cosiddetto “decreto per la competitività”) introducendo, con l’art. 1-ter, la possibilità, attraverso un decreto del Presidente del Consiglio, di stabilire quote massime di lavoratori stagionali stranieri non comunitari autorizzati – nei soli settori dell’agricoltura e del turismo – a fare ingresso in Italia, anche in misura superiore a quelle dell’anno precedente (vedi oltre).

Ulteriori criteri per la definizione delle quote sono indicate dall’art. 21 del testo unico. Si prevede, da un lato, la possibilità di restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori provenienti da Paesi che non collaborino adeguatamente al contrasto dell’immigrazione clandestina e, dall’altro, l’assegnazione in via preferenziale di quote riservate ai cittadini di quegli Stati che abbiano invece concluso con l’Italia accordi di cooperazione in materia di immigrazione. Ulteriori quote riservate sono assegnate ai lavoratori non comunitari di origine italiana. Ciascuna regione può trasmettere alla Presidenza del Consiglio, in vista della predisposizione del decreto flussi, un rapporto sulla presenza e sulla condizione degli immigrati nel territorio regionale, indicando anche la capacità di assorbimento di nuova manodopera.

Infine, ai sensi del regolamento di attuazione (art. 34 del DPR 394/1999, come modificato dall’art. 29 del DPR 334/2004) una quota è riservata ai lavoratori che abbiano partecipato alle attività formative nei Paesi di provenienza previste dall’art. 23 del testo unico.

Lo schema di decreto è predisposto dalla Presidenza del Consiglio, Dipartimento per il coordinamento amministrativo (la stessa struttura che cura il documento programmatico) sulla base sia degli indirizzi contenuti nel documento, sia delle indicazioni del Comitato per il coordinamento ed il monitoraggio delle disposizioni del testo unico.

 

L’organizzazione e il coordinamento amministrativi in materia di immigrazione sono stati ridefiniti dall’art. 2-bis del testo unico, introdotto dalla legge 189/2002, che prevede l’istituzione di tre organismi:

§         il Comitato per il coordinamento e il monitoraggio delle disposizioni del testo unico. Si tratta di un organo interministeriale istituito per la prima volta nel 2000 in via amministrativa (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 2 agosto 2000) e, successivamente, elevato a rango legislativo ad opera come si è detto dalla legge 189. Esso è presieduto dal Presidente o dal Vice Presidente del Consiglio o da un ministro delegato, ed è composto dai ministri interessati ai temi trattati in ciascuna riunione e da un presidente di Regione designato dalla Conferenza dei presidenti delle Regioni;

§         il Comitato è coadiuvato da un Gruppo tecnico di lavoro istituito presso il Ministero dell’interno e composto dai rappresentanti di diverse amministrazioni. Il Gruppo di lavoro, anch’esso previsto dal DPCM del 2000, è stato poi disciplinato dalla legge 189 che ne ha fissato la composizione e ha demandato ad un successivo regolamento la definizione delle modalità di coordinamento fra il Gruppo e la struttura di supporto della Presidenza del Consiglio competente in materia di immigrazione. Tale regolamento è stato adottato con il DPR 6 febbraio 2004, n. 100 che ha stabilito che le funzioni di segreteria del Gruppo tecnico sono svolte dal dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno. Il Gruppo si è costituito con il DM 29 novembre 2004[274] e si è riunito per la prima volta il 28 gennaio 2005;

§         lo stesso DPR 100/2004 ha definito i compiti della struttura della Presidenza del Consiglio, tra cui la predisposizione del documento programmatico e dei decreti flussi, oltre a compiti di coordinamento con il Gruppo di lavoro. Con un ulteriore provvedimento, il decreto del Presidente del Consiglio del 19 maggio 2004[275], la struttura competente è stata individuata con il Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA).

 

Come si è accennato sopra, in caso di mancata adozione del decreto flussi secondo la procedura ordinaria, il Governo può provvedere in via transitoria sempre con decreto del Presidente del Consiglio (adottato senza il parere della Camere) nel limite delle quote dell’anno precedente.

Nella XIII legislatura, l’ultimo decreto flussi è stato adottato con la procedura ordinaria: è il DPCM 9 aprile 2001, relativo alla programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per il 2001.

Successivamente, dal 2002 al 2005 sono stati emanati esclusivamente decreti transitori e la quota di ingressi consentiti si è stabilizzata intorno i 79.500 lavoratori all’anno.

Anche per il 2005 il Governo ha fatto ricorso allo strumento del decreto transitorio. Sono stati emanati due decreti del Presidente del Consiglio[276], entrambi in data 17 dicembre 2004, uno per i lavoratori non comunitari e uno per i lavoratori provenienti dai Paesi che hanno fatto recentemente ingresso nell’Unione e nei confronti dei quali l’Italia, come del resto la maggior parte degli altri Paesi membri, ha adottato una moratoria alla libertà di circolazione dei cittadini.

Per quanto riguarda i cittadini non comunitari il decreto stabilisce una quota di 79.500 ingressi (pari a quella dell’anno precedente fissata da due DPCM in data 19 dicembre 20003), di cui 25.000 riservati ai lavoratori stagionali.

Tuttavia nei primi mesi dell’anno passato si è riscontrato un alto numero di richieste di lavoratori stagionali, superiore alla disponibilità degli ingressi utilizzabili, in particolare nei settori agricolo e turistico-alberghiero. Pertanto si è reso necessario autorizzare per il 2005 l’ingresso di ulteriori 20.000 stagionali con l’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri del 22 aprile 2005[277].

L’ordinanza del 22 aprile trova fondamento nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 aprile 2005[278], che estende lo stato di emergenza dichiarato dal DPCM 20 marzo 2002[279] (e prorogato dal DPCM 7 novembre 2003) anche alla situazione di criticità di carattere economico sociale derivante dalla rilevantissima richiesta di lavoratori nei settori agricolo e turistico alberghiero.

Per superare la logica dell’adozione di provvedimenti emergenziali come quelli sopra indicati, in favore di un sistema di intervento ordinario, è intervenuto il citato D.L. 35/2005 che consente, come si è detto, nel caso di impossibilità di adottare un decreto flussi ordinario, di superare, almeno nel settore dell’immigrazione stagionale, le quote dell’anno precedente, con l’emanazione di un apposito decreto del Presidente del Consiglio.

 

Successivamente all’adozione del documento di programmazione triennale del 2005 è stato possibile ripristinare la procedura ordinaria di adozione del decreto flussi con il decreto del Presidente del Consiglio del 15 febbraio 2006 che ha fissato in 170.000 il numero di ingressi consentiti per motivi di lavoro.

 

I 170.000 ingressi autorizzati sono così suddivisi:

78.500  per motivi di lavoro subordinato non stagionale (45.000 colf e badanti, 2.500 addetti alla pesca, 1.000 dirigenti, 2.000 conversione di permessi di soggiorno per studio in permessi di lavoro, 2.000 conversione di permessi di soggiorno per tirocinio in permessi di lavoro, 2.000 per lavoratori che hanno completato programmi di formazione nel paese di origine)

38.000  per motivi di lavoro subordinato non stagionale (quote riservate ai Paesi che hanno stipulato specifici accordi di cooperazione in materia migratoria)

3.000  per motivi di lavoro autonomo

500    per motivi di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo (quota riservata ai lavoratori di origine italiana residenti in Argentina, Uruguay e Venezuela)

50.000  per motivi di lavoro subordinato stagionale

 

Un analogo decreto del Presidente del Consiglio del 14 febbraio 2006 ha fissato anche per i cittadini neocomunitari una quota di ingressi di 170.000 unità.


Immigrazione – Permesso di soggiorno

L’ingresso nel territorio dello Stato

L’ingresso nel territorio italiano – che deve avvenire esclusivamente attraverso i valichi di frontiera, salvi i casi di forza maggiore – è consentito ai cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea in possesso di:

§      passaporto valido (o documento equipollente);

§      visto d’ingresso (salvi i casi di esclusione).

 

La legge 189 è intervenuta rendendo più stringenti le disposizioni relative al diniego del visto: ha ampliato i casi in cui il visto non deve essere concesso, riducendo nel contempo le fattispecie che prevedono l’obbligo di motivazione del diniego e semplificando le modalità di comunicazione all’interessato del diniego (vedi il testo a fronte tra il D.Lgs. 286/1998 e le modifiche apportate dalla L. 189/2002).

 

Il Ministero degli affari esteri definisce le diverse tipologie dei visti d’ingresso e le modalità di concessione[280].

Non sempre è necessario il visto d’ingresso: spetta al Ministero degli affari esteri redigere l’elenco dei Paesi i cui cittadini sono soggetti ad obbligo di visto, anche in attuazione di specifici accordi internazionali (art. 4, comma 6, T.U.)[281].

Nella competenza del Ministero degli esteri rientra anche la procedura di concessione dei visti: le rappresentanze diplomatiche o consolari italiane localizzate nello Stato di origine o di residenza sono competenti alla ricezione delle richieste, al rilascio o al diniego del visto d’ingresso.

 

Il rilascio del visto di ingresso è subordinato alla presenza di una serie di condizioni: lo straniero deve avere prove idonee a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata di soggiorno. L’entità di tali mezzi sono determinati dal Ministro dell’interno (art. 4, comma 3, T.U.)[282].

La documentazione attestante il possesso di tali requisiti può essere richiesta nuovamente al momento dell’ingresso in Italia, anche se in possesso del visto.

Per quanto riguarda l’immigrazione per lavoro, l’ingresso degli stranieri è limitato e determinato secondo quote annuali; pertanto, le autorità diplomatiche rilasciano i visti di ingresso entro tali quote (art. 3, comma 4, T.U.) e secondo le modalità definite dal testo unico (artt. 21 e seguenti).

 

Inoltre, il testo unico individua alcune condizioni ostative al rilascio del visto: oltre coloro che non sono in possesso dei requisiti di cui sopra (mezzi di sussistenza e documenti che confermano lo scopo del soggiorno), non sono ammessi gli stranieri che sono considerati una minaccia per l’ordine pubblico sia da parte dell’Italia, sia di uno degli Paesi dell’area Schenghen (art. 4, comma 3, T.U.).

Non possono altresì fare ingresso in Italia (art. 4, comma 6, T.U.):

§      gli stranieri espulsi (a meno che non abbiano ottenuto la speciale autorizzazione o che sia trascorso il perizio di divieto di ingresso, di norma di dieci anni;

§      gli stranieri da espellere;

§      gli stranieri segnalati da altri Paesi, ai fini della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico.

 

La legge 189 ha ampliato il novero delle cause di interdizione all’ingresso nel territorio dello Stato, comprendendovi la condanna - anche a seguito di patteggiamento - ad una serie di gravi reati (art. 4, comma, 3, come modificato dalla legge189). Si tratta, innanzitutto, dei reati particolarmente gravi per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza (ai sensi dell’art. 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale). Inoltre, sono considerati una serie di reati, riconducibili direttamente o indirettamente al fenomeno migratorio: sono quelli inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento delle migrazioni clandestine, lo sfruttamento della prostituzione e lo sfruttamento dei minori.

 

La non concessione del visto di ingresso è adottata con un provvedimento di diniego che deve essere comunicato all’interessato secondo modalità che sono state modificate dalla legge 189.

Innanzitutto, mentre in origine il testo unico prevedeva che tutti i provvedimenti di diniego fossero accompagnati dalla motivazione, la legge 189 ha eliminato tale obbligo, conservandolo per alcune fattispecie espressamente definite. Sostanzialmente l’obbligo permane in relazione alle cause più frequenti di richiesta di visto di ingresso: lavoro, studio e ricongiungimento familiare.

Viene reso, inoltre, più spedito il procedimento di comunicazione perché è previsto che nell’impossibilità di tradurre il provvedimento di diniego in una lingua comprensibile all’interessato, esso possa essere comunicato in inglese, francese, spagnolo o arabo (ar. 4, comma 2, del T.U. come modificato dalla legge 189). Possibilità prima non contemplata dal testo unico che prevedeva unicamente la traduzione in una lingua comprensibile allo straniero.

Da rilevare anche la soppressione dell’obbligo di comunicare all’interessato, insieme al provvedimento di diniego, le modalità di impugnazione.

A tal riguardo, il testo unico non dà indicazioni sul procedimento di tutela giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego. La questione è stata risolta dalla giurisprudenza in base al rapporto tra il regime del permesso di soggiorno e quello del visto di ingresso: sono impugnabile davanti al giudice amministrativo il diniego di concessione del visto d’ingresso, in quanto, essendo il visto d’ingresso subordinato, al pari del permesso di soggiorno, alla valutazione della sussistenza di requisiti soggettivi o di condizioni internazionali, la pubblica amministrazione dispiega, nella sua emanazione, una specifica ed ampia discrezionalità, il che esclude la configurabilità, in capo allo straniero, di una posizione di diritto soggettivo al relativo ottenimento[283].

Il soggiorno dello straniero

I documenti che legittimano la permanenza dello straniero nel territorio italiano sono il permesso di soggiorno rilasciato per un periodo variabile a seconda dei motivi del soggiorno (art. 5, T.U.) e la carta di soggiorno a tempo indeterminato per gli stranieri stabilizzati (art. 9, T.U.).

 

Una volta fatto ingresso nel territorio nazionale, ogni straniero deve fare richiesta del permesso di soggiorno entro otto giorni al questore della provincia in cui si trova ed esso è rilasciato per le attività previste dal visto di ingresso (art. 5, comma 2).

Da rilevare che la richiesta del permesso di soggiorno è obbligatoria per tutti gli stranieri per i quali è necessario il visto di ingresso (anche se sono previste modalità semplificate per brevi soggiorni e per motivi particolari, quali turismo, cura ecc.).

La legge 189 ha apportato modifiche di rilievo alla disciplina del permesso di soggiorno, principalmente volte a collegare in modo stretto il permesso di soggiorno per motivi di lavoro alla stipula del relativo contratto di lavoro tra il datore di lavoro e il lavoratore immigrato.

 

Una prima modifica operata dalla legge 189 riguarda tutti gli immigrati, e non solamente quelli per motivi di lavoro: gli stranieri che fanno richiesta del permesso di soggiorno (o ne richiedono il rinnovo) sono sottoposti alla rilevazione dei dati fotodattiloscopici (art. 5, comma 2-bis e 4-bis).

L’ambito di applicazione di tale obbligo è stato successivamente ridimensionato dal D.L. 195/2002[284]. In particolare, l’art. 2, comma 5, esclude dall’obbligo dei rilievi, sia al momento del rilascio del permesso di soggiorno sia al momento del suo rinnovo (ai sensi, rispettivamente dei commi 2-bis e 4-bis dell’articolo 5 del testo unico) gli stranieri che abbiano richiesto il permesso di soggiorno:

§         di durata non superiore a tre mesi, per visite, affari e turismo (art. 5, co. 3, lett. a), del testo unico);

§         di durata non superiore a tre mesi, negli altri casi in cui sia previsto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi diversi da quelli di lavoro o di studio (art. 5, co. 3, lett. e), del testo unico);

§         per cure mediche.

Inoltre, l’art. 2, comma 3, del decreto legge 195 prevede che i lavoratori regolarizzati ai sensi dell’articolo 1 siano sottoposti ai rilievi fotodattiloscopici non al momento della richiesta del permesso di soggiorno, ma entro un anno dalla data di rilascio del permesso di soggiorno rilasciato a seguito di emersione, e comunque in sede di rinnovo dello stesso.

 

Da segnalare, infine, l’art. 2, comma 7, del decreto legge 195 che estende anche ai cittadini italiani la sottoposizione ai rilievi dattiloscopici, da effettuare all’atto della consegna della carta d’identità elettronica. Nel caso dei cittadini italiani la norma prevede la sottoposizione ai soli rilievi dattiloscopici (impronte digitali), con esclusione quindi del rilievo fotografico.

 

Come ricorda la relazione governativa al disegno di legge di conversione, la disposizione riflette l’impegno assunto dal Governo in accoglimento di ordini del giorno[285] presentati nel corso dell’esame del disegno di legge di riforma del testo unico sull’immigrazione (A.C. 2454, la futura legge 189), volti a far sì che l’introduzione di nuovi strumenti di identificazione dell’identità personale non fosse riservata ai soli cittadini extracomunitari.

 

Un secondo ordine di modifiche riguarda le procedure relative al rilascio del permesso di soggiorno: viene complessivamente rimodulato il regime della durata del permesso di soggiorno, variabile a seconda del motivo del soggiorno (art. 5, comma 3-bis e seguenti T.U.). In particolare, viene distinta la durata massima del permesso per lavoro a tempo determinato, fissata in un anno, da quello per lavoro a tempo indeterminato, autonomo e ricongiungimento, due anni. Il testo unico prevedeva una durata massima generalizzata di due anni.

Rimodulati anche i tempi massimi per far richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno: mentre in origine il rinnovo doveva essere richiesto 30 giorni prima della scadenza, ora il termine è di 60 giorni per lavoro a tempo determinato, 90 giorni per lavoro a tempo indeterminato e 30 per le altre fattispecie.

Il rinnovo del permesso di soggiorno è di competenza del questore, che deve verificare la sussistenza delle condizioni previste per il rilascio.

 

Da segnalare che il decreto legge 272/2006[286], nell’ambito di una ampia riforma del testo unico sulla droga, allart. 4-ter sostituisce l’art. 75 del DPR 309 del 1990, inserendo al comma 8 la previsione per cui lo straniero che incorre in condotte integranti illeciti amministrativi (ossia acquista o detiene sostanze stupefacenti al di sotto dei limiti quantitativi per i quali scatta la sanzione penale) è segnalato dalla polizia al questore per le valutazioni di competenza in sede di rinnovo di permesso.

 

L’innovazione più rilevante in materia di permesso di soggiorno risiede nel fatto che il suo rilascio è subordinato alla stipula del contratto di soggiorno per lavoro (art. 5, comma 3-bis, T.U.). Il contratto, istituito e disciplinato dall’art. 5-bis del T.U. introdotto dalla legge 189, è stipulato tra il datore di lavoro, anche straniero purché regolarmente soggiornante in Italia, e il lavoratore. Esso deve contenere, pena la nullità:

§      la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore;

§      l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel Paese di provenienza.

 

Il decreto legge 144/2005[287] ha introdotto (art. 2) un particolare tipo di permesso di soggiorno a fini investigativi, in favore degli stranieri che prestino la loro collaborazione all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.

Inoltre l’art. 11 ha sostituito l’art. 5, comma 8, del testo unico, che disciplina i modelli – aventi caratteristiche anticontraffazione – del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno, al fine di assicurare valenza identificativa al permesso e alla carta di soggiorno elettronici (v. scheda Antiterrorismo – Il decreto-legge n. 144 del 2005).

La carta di soggiorno

La carta di soggiorno (art. 9, T.U.) risponde all’esigenza di dare la possibilità agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia da lungo tempo di passare da una condizione di temporaneità ad una di maggiore stabilità. Infatti, diversamente dal permesso di soggiorno, che ha durata temporanea, la carta di soggiorno è rilasciata a tempo indeterminato, riconoscendo allo straniero una sorta di diritto permanente di soggiorno.

Tale documento può essere richiesto al questore (per sé, per il coniuge e per i figli minori conviventi) dagli stranieri in possesso dei seguenti requisiti:

§      essere regolarmente soggiornanti in Italia da almeno sei anni[288];

§      essere titolari di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero illimitato di rinnovi;

§      dimostrare di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei propri familiari.

Le condizioni ostative al rilascio della carta, e quelle relative alla sua revoca sono specificamente individuate dal testo unico e ineriscono rispettivamente all’imputazione e alla condanna per uno dei reati per i quali è previsto l’obbligo o la facoltà (solo per i reati non colposi) di arresto in flagranza.

La carta di soggiorno consente al titolare: l’ingresso e il reingresso nel territorio italiano in esenzione delle norme sul visto; lo svolgimento di ogni attività lecita (con eccezione di quelle che la legge  espressamente vieta allo straniero o riserva al cittadino italiano); l’accesso ai servizi ed alle prestazioni erogati dalla P.A. (salvo che sia diversamente disposto); la partecipazione alla vita pubblica locale, esercitando anche l’elettorato nei casi previsti dall’ordinamento e in armonia con le previsioni della Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992. Inoltre, a favore di titolari della carta di soggiorno vengono circoscritte, rispetto a quelle generali previste all’art. 11 del testo unico, le ipotesi in cui si può procedere all’espulsione amministrativa.

La disciplina del lavoro

Come si è accennato sopra, la legge 189 ha innovato profondamente la disciplina del lavoro degli stranieri, collegando l’ingresso per lavoro alla sussistenza di un contratto di lavoro.

La legge 189 ha inoltre innovato la regolamentazione di dettaglio relativa al rapporto di lavoro del cittadino straniero, contenuta negli articoli 21 e seguenti del testo unico.

Innanzitutto, una importante innovazione dal punto di vista organizzativo è intervenuta con l’istituzione dello sportello unico per l’immigrazione in ciascuna provincia.

Lo sportello è collocato presso la prefettura – ufficio territoriale del Governo, ed è configurato quale organismo responsabile dell’interno procedimento relativo all’instaurazione del rapporto di lavoro, assommando le attività in materia svolte dalle prefetture, dalle direzioni provinciali dalle lavoro e dalle questure, in modo da semplificare le procedure.

Il compito principale degli sportelli unici è di ricevere la richiesta di nulla osta al lavoro (che sostituisce la richiesta di autorizzazione al lavoro presentata presso gli uffici del lavoro) da parte del datore di lavoro e di rilasciarlo previo esame e, soprattutto, dopo verifica dell’indisponibilità per quel posto di lavoro di un lavoratore italiano o comunitario. Il nulla osta è poi consegnato al datore di lavoro o, su sua richiesta, inviato direttamente all’autorità diplomatica del Paese del lavoratore ai fini del rilascio del visto di ingresso.

Successivamente sempre presso lo sportello deve essere firmato il citato contratto di soggiorno per lavoro (art. 5, comma 3-bis, T.U.) che costituisce titolo per il rilascio del permesso di soggiorno.

Allo sportello unico, inoltre, devono essere comunicate tutte le variazioni intervenute del rapporto di lavoro.

 

Gli sportelli unici, tuttavia, sono divenuti operativi solamente nel 2005 dopo un complesso procedimento attuattivo.

Infatti, la legge 189 (art. 34) ha previsto l’emanazione di un regolamento volto in linea generale a dare attuazione alla legge e, in particolare, a definire le modalità di funzionamento dello sportello unico.

Il regolamento è stato adottato alla fine del 2004 con il decreto del Presidente della Repubblica 18 ottobre 2004, n. 334, che ha modificato il precedente regolamento di attuazione del testo unico, il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.

Ai sensi del regolamento attuativo (art. 30), lo sportello unico deve essere costituito con decreto del prefetto e deve essere composto da almeno tre membri: un rappresentante della prefettura – ufficio territoriale del Governo, uno della Direzione provinciale del lavoro e uno della Polizia di Stato. Lo stesso decreto prefettizio di costituzione dello sportello ne designa il responsabile secondo le direttive adottate congiuntamente dal Ministro dell’interno e dal Ministro del lavoro. Tali direttive sono state emanate il 13 maggio 2005 e a partire da questa data i prefetti hanno potuto emanare i decreti relativi e si sono potuti costituire materialmente gli sportelli unici.

In occasione delle procedure relative alle domande di lavoro connesse con il decreto flussi per il 2006 (presentate nel marzo 2006) sono stati utilizzati per la prima volta gli sportelli unici secondo la nuova procedura fissata dalla legge 189.

 

Un’altra importante modifica apportata dalla legge 189 riguarda l’abrogazione della prestazione di garanzia per l’accesso di lavoro, il cosiddetto contratto di “sponsorizzazione”.

Si tratta di un particolare istituto, introdotto dal testo unico (art. 23), alternativo a quello della richiesta per lavoro. Infatti, esso è volto a far ottenere l’ingresso di cittadini stranieri ai fini di ricerca di lavoro.

Per la realizzazione di questo tipo di contratto era necessario che un cittadino italiano, o straniero regolarmente soggiornante, oppure un ente locale o un’associazione prestassero una serie di garanzie (patrimoniali, alloggiative, ecc.) per poter far domanda nominativa alla questura per consentire ad un straniero l’inserimento nel mercato del lavoro attraverso l’iscrizione alle liste di collocamento. L’iscrizione al collocamento dava accesso al permesso di soggiorno per un anno ai fini di inserimento nel mercato di lavoro.

Anche il numero dei contratti di sponsorizzazione era fissato annualmente nel decreto flussi.

L’abrogazione dell’istituto operata dalla legge 189 deriva dalla linea generale seguita dal provvedimento: ossia di giustificare l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero per soggiorni duraturi solo in relazione all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita.

In sostituzione dei contratti di sponsorizzazione la legge 189 (nuovo art. 23) ha istituito dei titoli di prelazione nel collocamento dei lavoratori stranieri derivanti dall’aver frequentato corsi di istruzione e di formazione professionale organizzati nei paesi di origine da enti abilitati. Nei decreti annuali dei flussi sono stabilite quote privilegiati per gli stranieri che hanno frequentato tali corsi (art. 34, comma 5, del regolamento di attuazione DPR 394/1999, come modificato dal DPR 334/2004).

Anche in questo caso l’attuazione della disposizione è subordinata all’emanazione di ulteriori provvedimenti: in primo luogo il regolamento di attuazione emanato nel 2004.

Inoltre, lo stesso art. 34 del regolamento prevede che le modalità di predisposizione e di svolgimento dei programmi di formazione e di istruzione da effettuarsi nel Paese di origine siano fissati con decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Nel 2005 il ministero del lavoro aveva avviato dei progetti pilota in Tunisia, Sri Lanka e Moldavia, mentre erano in corso di definizione due decreti, uno per fissare le modalità di svolgimento dei programmi sopra citati, e un altro volto ad estendere il ricorso ai tirocini formativi per i cittadini extracomunitari[289].


Immigrazione – Contrasto dell’immigrazione clandestina

Uno dei princìpi cardine della vigente disciplina dell’immigrazione consiste nell’adozione di misure di contrasto di tutti i comportamenti illeciti collegati ai fenomeni migratori. Innanzitutto misure preventive, volte a impedire gli ingressi al di fuori delle modalità consentite (immigrazione clandestina). In secondo luogo, misure repressive che puniscono sia la presenza di stranieri entrati illegalmente, sia la violazione delle disposizioni amministrative che regolano la presenza legale, sia, infine, l’eventuale comportamento criminale dell’immigrato.

Nell’elaborazione delle misure e delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina nel nostro Paese, un ruolo decisivo è stato assunto dal vincolo esterno rappresentato dall’adeguamento delle norme del diritto interno alle esigenze legate all’adesione degli accordi internazionali di Schengen che hanno portato all’abolizione dei controlli alle frontiere interne (v. oltre il paragrafo relativo all’attuazione della normativa comunitaria in materia di espulsione).

Un articolato sistema di contrasto è definito dal testo unico del 1998[290], sul quale è intervenuta la L. 189/2002[291] che, pur mantendone inalterate le basi, vi ha apportato notevoli modifiche, volte principalmente a rendere complessivamente più stringenti gli obblighi previsti e più restrittivo l’apparato sanzionatorio (vedi il testo a fronte tra il D.Lgs. 286/1998 e le modifiche apportate dalla L. 189/2002).

Il respingimento e il controllo delle frontiere

Il primo strumento di contrasto all’immigrazione clandestina è costituito da un efficace controllo delle frontiere atto, da un lato, ad intercettare i flussi degli immigrati clandestini e ad impedirne l’ingresso nel territorio dello Stato, attraverso il loro respingimento, e, dall’altro, a individuare e punire coloro che favoriscono l’ingresso illegale di stranieri, spesso a scopo di lucro.

Il respingimento

Il respingimento è sostanzialmente una operazione di polizia volta ad impedire l’ingresso clandestino di immigrati.

Il testo unico prevede due diverse tipologie di respingimento:

§      il respingimento immediato (art. 10, co. 1, T.U.), effettuato direttamente dalla polizia di frontiera nei confronti di coloro che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti necessari per l’ingresso nel territorio nazionale[292];

§      il respingimento differito (art. 10, co. 2, T.U.), operato per ordine del questore, tramite accompagnamento alla frontiera, quando lo straniero, pur se intercettato ai valichi di frontiera senza i documenti richiesti per fare ingresso nello Stato, abbisogna di soccorso, oppure nel caso di ingresso attraverso l’elusione dei controlli di frontiera e conseguente fermo nelle sue vicinanze.

Il respingimento non viene effettuato nei casi previsti dalle disposizioni concernenti l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione temporanea degli stranieri per motivi umanitari (art. 10, co. 4, T.U.), oppure nei confronti dello straniero che possa essere oggetto di persecuzione nello Stato di provenienza (art. 19, co. 1, T.U.)

Il controllo delle frontiere

Il testo unico affida la funzione di controllo delle frontiere ai Ministeri dell’interno e degli affari esteri. Spetta ai titolari dei due dicasteri adottare, per la rispettiva competenza, un piano generale per il potenziamento e il perfezionamento delle misure di controllo delle frontiere (art. 11, co. 1, T.U.)

La L. 189/2002 è intervenuta riaffermando la funzione di coordinamento in materia di controlli delle frontiere da parte del Ministero dell’interno[293].

Il co. 1-bis dell’art. 11, introdotto dalla L. 189/2002, demanda al ministro dell’interno:

§      l’emanazione delle misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana, sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica[294];

§      la promozione di apposite misure di coordinamento tra le autorità italiane competenti in materia di controlli sull’immigrazione e le autorità europee competenti nella stessa materia in base all’Accordo di Schengen.

 

Inoltre, la L. 189/2002 ha istituito in seno al Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno, la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, scorporando le competenze svolte in materia dalla Direzione centrale per la polizia stradale, ferroviaria, postale, di frontiera e dell’immigrazione, la quale muta denominazione diventando Direzione centrale per la polizia stradale, ferroviaria, delle comunicazioni e per i reparti speciali della Polizia di Stato (art. 35 della L. 189/2002, non inserita come novella del testo unico).

In tal modo le funzioni di polizia dell’immigrazione trovano un centro specifico e dedicato di direzione a livello dell’amministrazione centrale dell’interno.

Alla nuova direzione sono affidate non solamente le funzioni polizia di frontiera e di contrasto all’immigrazione clandestina ma anche le attività gestionali proprie dell’autorità di pubblica sicurezza in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri.

 

A livello locale, il testo unico affida ai prefetti delle province di confine terrestre ed ai prefetti dei capoluoghi delle regioni interessate alla frontiera marittima il coordinamento dei controlli di frontiera e la vigilanza marittima e terrestre, nell’ambito delle direttive adottate dal ministro dell’interno; i prefetti, inoltre, sovrintendono all’attuazione delle direttive emanate in materia (art. 11, co. 3).

Sia il Ministero degli affari esteri, sia quello dell’interno possano promuovere intese con i Paesi di provenienza o di transito dei flussi irregolari finalizzate, in generale, alla collaborazione nel contrasto all’immigrazione clandestina, e, inoltre, volte ad accelerare l’espletamento degli accertamenti e il rilascio dei documenti relativi ai procedimenti previsti dal testo unico (quali ad esempio quelli relativi all’espulsione). Le intese di collaborazione possono prevedere anche la cessione a titolo gratuito di apparecchiature e mezzi, strumentali alla prevenzione dell’immigrazione clandestina (art. 11, co. 4).

In tale ambito, il D.L. 241/2004[295] ha previsto la possibilità che il Ministero dell’interno contribuisca, solo per il 2004 e il 2005, alla realizzazione, nei Paesi di provenienza, di apposite “strutture” destinate al contrasto dei flussi irregolari (art. 11, co. 5-bis, introdotto dall’art. 1-bis del decreto-legge). Allo scopo sono destinati 13,8 milioni di euro (art. 2, co. 1-quater).

 

In attuazione di quanto sopra il ministro dell’interno, con la direttiva del 7 dicembre 2004 ha dato mandato al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione di provvedere alla realizzazione di strutture ricettivi utili per l’accoglienza e l’assistenza degli immigrati irregolari diretti verso il territorio italiano, situate all’estero, nel territorio degli Stati di provenienza[296].

In particolare, è prevista la costruzione di 3 centri in Libia per il trattenimento degli stranieri irregolari da rimpatriare. È in corso la realizzazione di uno di essi a Garyan, nei pressi di Tripoli, con una capacità ricettiva di 1.000 posti[297].

La repressione dei traffici legati all’immigrazione clandestina

Il testo unico dell’immigrazione (art. 12) contempla una serie di norme che costituiscono un completamento delle disposizioni relative ai controlli di frontiera.

Si tratta, innanzitutto, della previsione del reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, destinato a colpire coloro, come i cosiddetti “scafisti”, che a scopo di lucro conducono illegalmente nel territorio dello Stato cittadini provenienti da Paesi non comunitari (co. 1).

Si tratta di un reato grave per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza e la confisca del mezzo di trasporto.

La L. 189/2002 ha integrato la fattispecie incriminatrice considerando come illecito non solo il favoreggiamento all’ingresso, ma anche le attività dirette a favorire l’uscita dall’Italia e l’ingresso illegale in altro Stato (immigrazione clandestina di transito[298]), recependo in questo modo di fatto la direttiva comunitaria 2002/90 del 28 novembre 2002 relativa alla definizione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali.

Inoltre, la L. 189/2002 ha provveduto a rimodulare le sanzioni a seconda della presenza di circostanze aggravanti (quali l’avviamento alla prostituzione), sanzioni successivamente aumentate ad opera del D.L. 241/2004, prevedendo anche sconti di pena per chi collabora con la giustizia (art. 12, co. da 3 a 3-sexies).

Va inoltre ricordata, in proposito, la ridefinizione dei reati di riduzione in schiavitù e di tratta di persone operata nel corso della XIV legislatura dalla legge n. 228 del 2003[299], che ha adeguato al fenomeno migratorio alcune disposizioni del codice penale (v scheda Tratta di persone, nel dossier relativo alla Commissione Giustizia).

 

Un secondo gruppo di disposizioni disciplina le operazioni di polizia finalizzate al contrasto delle immigrazioni clandestine. Il testo unico da la facoltà alle forze dell’ordine operanti nelle zone di confine e in mare di procedere al controllo, alle ispezioni e alle perquisizione dei mezzi di trasporto nel corso delle operazioni di contrasto dei traffici legati all’immigrazione clandestina, e, in caso di necessità, al sequestro di tali mezzi e degli altri beni eventualmente utilizzati (art. 11, co. 7 e 8).

 

Quanto alla destinazione dei beni sequestrati nel corso di operazioni di contrasto dei traffici di clandestini, il co. 8 ne prevede (qualora non ostino esigenze processuali) l’affidamento in custodia giudiziale:

§         agli organi di polizia che ne facciano richiesta per l’impiego in attività di polizia, ovvero

§         ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale.

Gli oneri relativi alla gestione sono a carico di chi abbia l’utilizzo dei beni[300].

Una volta che i beni sequestrati sono definitivamente confiscati e acquisiti dallo Stato possono essere, a richiesta, assegnati all’amministrazione o trasferiti all’ente che ne abbiano avuto l’uso a titolo di custodia giudiziale ai sensi del co. 8, ovvero sono alienati (co. 8-quinques).

Peraltro, i mezzi di trasporto non affidati, assegnati o trasferiti ai sensi dei co. 8 e 8-quinques, non possono comunque essere alienati; di essi si prevede, in ultima istanza, la distruzione.

 

Il D.L. 51/2002[301] integra il disposto di cui al co. 8 con riguardo ai mezzi sequestrati, consentendo l’immediata distruzione dei mezzi di trasporto utilizzati in connessione con i traffici clandestini con l’obiettivo “sia di fornire un forte segnale dissuasivo agli organizzatori di simili viaggi, sia di elidere le considerevoli spese connesse alla custodia di natanti privi dei più elementari requisiti di attitudine alla navigazione”[302].

Le modifiche introdotte dal decreto-legge prevedono che nell’ipotesi in cui nessuno presenti istanza di affidamento, i mezzi di trasporto sequestrati sono distrutti secondo le procedure utilizzate per i mezzi dei contrabbandieri, ai sensi dell’art. 301-bis, co. 3 del D.P.R. 43/1973[303] (art. 12, nuovo co. 8-bis, T.U.) Inoltre, la distruzione può essere disposta direttamente dal Presidente del Consiglio, o da autorità da lui delegata, con l’unica condizione del nullaosta dell’autorità giudiziaria (co. 8-ter).

 

In materia di operazioni di polizia contro il traffico di clandestini è intervenuta anche la L. 189/2002 disciplinando il trattamento riservato alle navi – ed, in quanto compatibile, agli aerei – che si ha fondato motivo di ritenere siano adibite o coinvolte nel traffico illecito di migranti (co. 9-bis e seguenti), in modo da prevenire gli sbarchi di clandestini.

Si danno due casi: quello che si verifica in acque territoriali (o nella zona contigua) e quello che si verifica al di fuori di esse.

Nel primo caso (co. 9-bis dell’art. 12 del testo unico), è la nave italiana in servizio di polizia che può fermare la nave sospetta, ispezionarla e, se sono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento in un traffico di migranti, sequestrarla, conducendola in un porto nazionale. Il successivo co. 9-ter, prevede che le navi della Marina militare (fermo restando l’assolvimento dei loro compiti istituzionali) possano concorrere alle attività di cui al co. 9-bis.

Nel secondo caso (intervento al di fuori delle acque territoriali, co. 9-quater) i medesimi poteri sono posti in capo sia alle navi della Marina militare, sia alle navi in servizio di polizia, e possono essere esercitati a prescindere dalla bandiera battuta dalla nave fermata, purché nei limiti consentiti dalla legge o dal diritto internazionale.

Le modalità di intervento delle navi militari e il raccordo tra le loro attività e quelle svolte dalle navi in servizio di polizia sono rimesse dal co. 9-quinquies a un decreto interministeriale adottato dai ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti.

 

Tale disposizione è stata attuata con l’adozione del decreto del ministro dell’interno 14 luglio 2003, Disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina, Il decreto affida le attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina ai mezzi aereonavali della Marina militare, delle Forze di polizia e delle Capitanerie di porto. Alla Marina militare spettano in modo prevalente le attività in acque internazionali, mentre le attività nelle acque territoriali e nelle zone contigue sono attribuite principalmente alle Forze di Polizia (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza, cui compete il coordinamento in caso di interventi di più corpi). Al Corpo delle capitanerie di porto sono affidati compiti soccorso, assistenza e salvataggio. Il coordinamento di tutte le attività è esercitato dalla Direzione centrale della polizia di frontiera del Ministero dell’interno, istituita dalla stessa L. 189/2002.

Successivamente, nel luglio 2004, Polizia di Stato, Marina militare, Guardia di finanza e Comando delle capitanerie di porto hanno sottoscritto l’Accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, che stabilisce le procedure da seguire in caso di rilevazioni di natanti sospetti, comprese quelle per determinare il necessario flusso informativo verso una unica sala operativa presso il Dipartimento della pubblica sicurezza[304].

La polizia europea di frontiera

L’abolizione delle frontiere interne dell’Unione europea a seguito degli accordi di Schengen ha comportato che i confini dei singoli Paesi membri con i Paesi extraeuropei sono diventati, in sostanza, i confini dell’Unione stessa. Pertanto, la maggior parte degli oneri conseguenti alla realizzazione dell’area Schengen (maggiori controlli alle frontiere, alimentazione della banca dati, monitoraggio dei flussi migratori) ricadono su quei Paesi che hanno una più vasta estensione delle frontiere “esterne” e sono più esposti ai tentativi di ingressi clandestini.

Questo spiega perché negli ultimi anni i Paesi dell’Unione europea affacciati sul Mediterraneo, come l’Italia, hanno promosso la realizzazione di forme di controllo coordinato delle frontiere, anche al fine di condividere gli oneri finanziari che questo comporta.

Un passo fondamentale in questa direzione è stato compiuto con l’istituzione dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex, dal francese Frontières extérieures) con il Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004.

L’Agenzia è stata costituita nel 2005 con sede a Varsavia.

Fermo restando che i singoli Stati membri rimangono responsabili del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne, l’Agenzia dovrà semplificare l’applicazione delle misure comunitarie in materia di gestione delle frontiere coordinando le azioni degli Stati membri nell’attuazione di tali misure.

L’Agenzia ha il compito di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne; assistere gli Stati membri nella formazione di guardie nazionali di confine, anche elaborando norme comuni in materia di formazione; preparare analisi dei rischi; seguire l’evoluzione delle ricerche in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne; aiutare gli Stati membri che devono affrontare circostanze tali da richiedere un’assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne; fornire agli Stati membri il sostegno necessario per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte.

Frontex opera in stretto collegamento con altri organismi comunitari e dell’Unione responsabili in materia di sicurezza alle frontiere esterne, come Europol, Cepol (l’accademia europea di polizia) e Olaf (l’ufficio europeo anti frodi), e di cooperazione nel settore delle dogane e dei controlli fitosanitari e veterinari, al fine di garantire la coerenza complessiva del sistema.

Tra gli atti preparatori che hanno fornito le basi di discussione per l’istituzione dell’Agenzia, una menzione particolare va fatta per lo Studio di fattibilità per una polizia europea, affidato dalla Commissione all’Italia e presentato a Roma nel maggio 2002.

L’espulsione:profili generali

Il testo unico sull’immigrazione contempla diversi tipi di espulsione del cittadino straniero riconducibili sostanzialmente a due categorie giuridiche: l’espulsione quale sanzione amministrativa, comminata, appunto, dall’autorità amministrativa (ministro o prefetto) in caso di violazione delle regole relative all’ingresso e al soggiorno e l’espulsione applicata dal giudicenell’ambito di un procedimento penale (l’espulsione a titolo di misura di sicurezza e l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa a sanzione penale).

Esse rispondono a due distinte finalità: la prima colpisce coloro che trasgrediscono le procedure fissate per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri e costituiscono dunque una sanzione necessaria ai fini del loro rispetto.

La seconda colpisce il comportamento delinquenziale dello straniero a prescindere dalla regolarità della sua posizione amministrativa. Tuttavia, alcune forme di espulsione “giudiziaria” possono essere eseguite solo nei confronti degli stranieri passibili di espulsione amministrativa.

 

Il testo unico prevede poi una serie di situazioni per le quali è stabilito il divieto di espulsione (art. 19).

Innanzitutto, l’espulsione, ed anche il semplice respingimento, sono vietati se nello Stato verso cui lo straniero è estradato, egli può essere oggetto di persecuzione “per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”[305].

Inoltre, è consentito il solo respingimento ma non l’espulsione nei seguenti casi:

§      minori, salvo il diritto di seguire il genitore espulso;

§      possessori di carta di soggiorno, a meno che non ricorrano gravi motivi di ordine pubblico, ai senzi dell’art. 9 T.U.;

§      conviventi con coniuge o con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana;

§      donne in stato di gravidanza o con figli minori di sei mesi[306].

È possibile espellere lo straniero anche nelle circostanze sopra indicate, nel caso di espulsione amministrativa operata da parte del ministro dell’interno per gravi motivi di ordine pubblico (art. 13, co. 1, T.U. vedi oltre).

L’espulsione amministrativa

L’art. 13 del testo unico disciplina l’espulsione amministrativa prevedendo due tipologie distinte di provvedimento:

§      l’espulsione disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato;

§      l’espulsione disposta dal prefetto nei seguenti casi:

-       quando lo straniero è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera (immigrato clandestino);

-       quando lo straniero si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, oppure quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato o scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo (immigrato irregolare);

-       quando lo straniero sia un delinquente abituale o sia indiziato di appartenere ad associazioni criminali di tipo mafioso.

Una terza ipotesi è costituita dall’espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo introdotta dall’art. 3, co. 1, del D.L. 144/2005(il cosiddetto “decreto Pisanu”, emanato dopo gli attentati del 7 luglio a Londra).

Questa ultima forma di espulsione amministrativa è sottoposta in parte ad un regime diverso da quello previsto dal testo unico come modificato dalla L. 189/2002 (sul D.L. 144/2005v. scheda Antiterrorismo – Il decreto-legge n. 144 del 2005).

Lo stesso D.L. 144/2005(art. 3, co. 3) ha inoltre introdotto la possibilità, in precedenza non prevista, che il prefetto possa omettere, sospendere o revocare il provvedimento di espulsione:

§      quando sussistono le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno a fini investigativi (istituito dallo stesso D.L., art. 2);

§      quando sia necessario per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di attività terroristiche, ovvero per la prosecuzione delle indagini o delle attività informative dirette alla individuazione o alla cattura dei responsabili dei delitti commessi con finalità di terrorismo.

Il prefetto è tenuto ad informare preventivamente il ministro dell’interno.

L’espulsione amministrativa (sia di iniziativa del ministro dell’interno, sia quella prefettizia) è disposta con decreto motivato ed è eseguita dal questore (co. 3). La L. 189/2002 è intervenuta sul punto in senso restrittivo specificando che il decreto è immediatamente esecutivo anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato e, inoltre, stabilendo che l’espulsione viene di norma eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (co. 4, vedi oltre).

 

Da ricordare in questa sede, che il D.L. 272/2006[307], nell’ambito di una ampia riforma del testo unico sulla droga, allart. 4-ter sostituisce l’art. 75 del D.P.R. 309/1990, inserendo al co. 8 la previsione per cui lo straniero che incorre in condotte integranti illeciti amministrativi (ossia acquista o detiene sostanze stupefacenti al di sotto dei limiti quantitativi per i quali scatta la sanzione penale) è segnalato dalla polizia al questore per le valutazioni di competenza in sede di rinnovo di permesso.

Il nulla osta dell’autorità giudiziaria

Qualora lo straniero sia sottoposto a procedimento penale, l’esecuzione del provvedimento di espulsione è eseguita previo nulla osta dell’autorità giudiziaria che può essere negato in presenza di inderogabili esigenze processuali. Nel caso di arresto in flagranza o di fermo il giudice rilascia il nulla osta al momento della convalida.

La L. 189/2002 ha aggiunto a queste disposizioni sintetiche alcune norme volte a disciplinare in dettaglio nel modalità di rilascio del nulla osta:

§      non si dà luogo all’espulsione se lo straniero sottoposto a procedimento penale si trova in stato di custodia cautelare in carcere; una volta estinta o revocata la misura di custodia il giudice rilascia il nulla osta (co. 3 e 3-ter);

§      viene chiarito in che cosa consistano le “inderogabili esigenze processuali”: esse vanno valutate in relazione all’accertamento di responsabilità di eventuali concorrenti nel reato e all’interesse della persona offesa (co. 3);

§      una volta disposta l’espulsione in pendenza di giudizio, il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di non luogo a procedere (co. 3-quater);

§      la sentenza di non luogo a procedere non impedisce l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto a carico dello straniero espulso, qualora questi rientri illegalmente, ai sensi dell’art. 345 del codice di procedura penale (co. 3-sexies).

La L. 189/2002 aveva, inoltre, aggiunto una ulteriore causa ostativa al rilascio del nulla osta: quando il procedimento penale in questione riguardasse delitti particolarmente gravi indicati dall’art. 407, co. 2, lett. p), del codice di procedura penale (terrorismo, associazione mafiosa, omicidio, etc.) o i delitti legati al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina indicati dall’art. 12 del testo unico (co. 3-sexies). Tale condizione è stata rimossa dal D.L. 144/2005, che, come si è accennato, ha introdotto la nuova fattispecie di espulsione amministrativa ai fini di prevenzione di terrorismo.

L’esecuzione dell’espulsione

La L. 189/2002 ha modificato la disciplina del testo unico concernenti le procedure di espulsione.

L’articolo 13 del testo unico prevedeva che l’espulsione fosse eseguita di regola mediante l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato o, esclusivamente in presenza di precisa circostanze, tramite accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica.

 

Questa seconda forma di espulsione era prevista nei seguenti casi:

§         espulsione disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico;

§         in caso di inadempimento all’intimidazione a lasciare lo Stato;

§         espulsione disposta dal prefetto nei confronti dello straniero entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera (immigrato clandestino);

§         espulsione disposta dal prefetto nei confronti di un delinquente abituale o indiziato di appartenere ad associazioni criminali di tipo mafioso.

In questi due ultimi casi la scelta di procedere all’espulsione con accompagnamento coatto o meno era di natura discrezionale e il prefetto decideva in base al concreto pericolo che l’interessato si sottraesse all’intimazione a lasciare il territorio dello Stato.

Praticamente, la modalità “normale” di espulsione, cioè con intimazione a lasciare il territorio dello Stato, riguardava la maggioranza dei casi, ossia coloro che non avessero fatto richiesta del permesso di soggiorno o fossero in possesso di permesso scaduto o non valido (immigrati irregolari). Peraltro, anche in questo caso, se il prefetto avesse ravvisato il pericolo di sottrazione al provvedimento di intimazione, avrebbe potuto disporre l’allontanamento coattivo.

 

La L. 189/2002 ha capovolto tale impostazione, prevedendo che l’espulsione è di norma eseguita dal questore mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica[308].

La modalità di espulsione con intimazione a lasciare il territorio dello Stato è indicato unicamente per gli immigrati irregolari il cui permesso di soggiorno è scaduto da oltre 60 giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo. È previsto però l’allontanamento forzato in presenza di sospetti sulla effettiva volontà del soggetto ad ottemperare all’ordine.

Per le altre ipotesi di mancanza di un titolo di soggiorno valido – permesso non richiesto o revocato o annullato – si dispone sempre l’allontanamento forzato.

Di fatto, nonostante il rovesciamento di impostazione, l’effetto della norma è simile a quella previgente, pur con due significative differenze:

§      viene eliminato lo spazio di discrezionalità del prefetto nella scelta della forma di espulsione nei confronti dei clandestini e dei delinquenti abituali, per i quali è ora unicamente percorribile l’espulsione con accompagnamento alla frontiera;

§      è ristretta alla sola ipotesi di permesso scaduto (e non anche revocato, annullato o non richiesto) la modalità di espulsione per intimazione.

La L. 189/2002 ha introdotto, inoltre, una nuova fattispecie di espulsione tramite intimazione a lasciare il territorio dello Stato non prevista in origine dal testo unico. Essa è disposta dal questore quando non è possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, oppure sono trascorsi i termini massimi di trattenimento in tali centri (art. 14, co. 5-bis, vedi oltre).

La convalida del provvedimento di espulsione

L’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale mediante accompagnamento da parte della forza pubblica è sottoposta alla sua convalida da parte dell’autorità giudiziaria (art. 13, co. 5-bis, T.U.)

Il testo unico del 1998 nella sua formulazione originale era privo di un sindacato giurisdizionale nei confronti del provvedimento di allontanamento. La convalida da parte dell’autorità giudiziaria dei provvedimenti di accompagnamento alla frontiera è stata introdotta dal D.L. 51/2002[309] (di poco anteriore alla approvazione della L. 189/2002) al fine di assicurare loro le garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione[310].

 

In questo modo si è adeguato l’ordinamento giuridico all’orientamento della Corte costituzionale, espresso da ultimo con la sentenza n. 105 del 2001, nella quale si ritiene contrario alla Costituzione il fatto che l’immigrato clandestino sia allontanato dal territorio nazionale in virtù di un semplice provvedimento amministrativo, emanato dal questore senza il vaglio della magistratura[311].

In particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza della questione assunta come più rilevante, ossia la lamentata violazione del principio della riserva della giurisdizione da parte del testo unico nella parte in cui non prevede espressamente che la decisione del giudice di convalida del provvedimento di trattenimento nel centro di permanenza temporanea coinvolga anche il provvedimento prefettizio di espulsione con accompagnamento alla frontiera, provvedimento a monte della decisione del trattenimento. La Corte ha affermato che il controllo del giudice non si limita alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti che hanno portato alla decisione del trattenimento, ma investe anche l’espulsione amministrativa nella sua specifica modalità di esecuzione consistente nell’accompagnamento alla frontiera.

In realtà, come la Consulta non ha mancato di rilevare, i giudici rimettenti ponevano anche la questione di legittimità costituzionale del provvedimento di accompagnamento in sé, a prescindere se ad esso segua o meno il trattenimento, in quanto la legge non prevede la convalida di tale provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria. Il giudice costituzionale non ha considerato rilevante questa parte: tuttavia, ha affermato decisamente che l’accompagnamento alla frontiera “inerisce alla materia regolata dall’art. 13 Cost., in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione”. Tale posizione è stata da più parti interpretata nel senso che, se le parti rimettenti avessero posto come principale la questione, la Corte non avrebbe potuto esimersi dal dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 13, co. 4 e 5, del testo unico nella parte in cui non prevede l’intervento del giudice a convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera.

La pronuncia avrebbe dunque inciso su uno degli strumenti principali di esecuzione dell’espulsione, tanto più se si considera che la riforma del testo unico sull’immigrazione operata con la L. 189/2002, allora all’esame del Parlamento, prevede, come si è visto, un più ampio ricorso all’accompagnamento alla frontiera.

 

La norma introdotta dal D.L. 51 (art. 2) prevede – in caso di espulsione dello straniero – la comunicazione immediata (e, comunque, entro 48 ore) da parte del questore al tribunale monocratico competente, del provvedimento che dispone l’accompagnamento alla frontiera. Da questo momento il provvedimento è immediatamente esecutivo. Nelle successive 48 ore dalla comunicazione, il tribunale verificata la sussistenza dei requisiti, convalida il provvedimento.

Tuttavia, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul punto con la sentenza 222 del 2004, sanzionando la possibilità per il questore di disporre l’accompagnamento alla frontiera prima di un controllo ai fini della convalida da parte dell’autorità giudiziaria.

 

La Corte ha ritenuto che tale norma privi lo straniero di una effettiva tutela giurisdizionale poiché risulta eliminato l’effettivo controllo del giudice sul provvedimento concernente la libertà personale: lo straniero viene espulso, infatti, prima che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della libertà personale, così vanificando la garanzia di cui all’art. 13, terzo comma, Cost.

La disposizione è stata ritenuta illegittima anche in quanto non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio e con le garanzie delle difesa. Il procedimento infatti non contempla alcuna contestazione o audizione dell’interessato, né qualsivoglia forma di contraddittorio o difesa, così da riservare al giudice un controllo puramente formale sul decreto. Inoltre il medesimo provvedimento del questore – fa notare la Corte – è immediatamente esecutivo e non è prevista alcuna forma di opposizione avverso lo stesso, né alcuna possibilità di sospensione da parte dell’autorità giudiziaria.

 

Si è reso così necessario un nuovo intervento normativo realizzato con il D.L. 241/2004[312] che ha stabilito la sospensione dell’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento fino alla sua convalida. Inoltre, la competenza passa dal giudice monocratico al giudice di pace (art. 1, co. 1 del D.L. 241/2004 che modifica l’art. 13, co. 5-bis del T.U. e aggiunge il co. 5-ter)[313].

L’udienza per la convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore. La convalida è disposta con decreto motivato entro le 48 ore successive, verificando il rispetto dei termini, la sussistenza dei requisiti previsti dallo stesso art. 13 del T.U. per l’espulsione e sentito l’interessato. In attesa della decisione del giudice, lo straniero è trattenuto in uno dei centri di permanenza temporanea e di assistenza, a meno che si possa procedere al giudizio nell’immediatezza, senza dover ricorrere all’invio nei centri. Il provvedimento del questore diviene esecutivo se la convalida è concessa ma perde ogni effetto sia in caso di convalida negata dal giudice, sia in caso di mancata decisione del giudice nel termine previsto.

Contro il decreto del giudice che dispone la convalida è esperibile ricorso per Cassazione; tuttavia il ricorso non determina ulteriori effetti sospensivi sul provvedimento di allontanamento: lo straniero colpito dal provvedimento di allontanamento può dunque essere allontanato subito dopo la convalida, ferma la possibilità di proporre il ricorso dopo che il provvedimento restrittivo è stato eseguito.

Il ricorso avverso il provvedimento di espulsione

La generalizzazione del ricorso all’allontanamento forzato, congiuntamente alla immediata esecutività del relativo provvedimento, anche in caso di impugnativa, ha implicato una nuova formulazione della disciplina della tutela giurisdizionale contenuta nel co. 8 dell’art. 12 del testo unico.

Avverso il decreto di espulsione può essere presentato unicamente il ricorso al giudice di pace[314] del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione.

Il ricorso può essere presentato anche all’estero presso la rappresentanza diplomatica o consolare nel Paese di destinazione dello straniero espulso.

La L. 189/2002 è intervenuta in materia eliminando (con la soppressione del co. 9 dell’art. 13) l’obbligo di sentire l’interessato prima di decidere sul ricorso (condizione che vanificherebbe l’immediata esecutività del provvedimento di espulsione disposta dalla stessa L. 189/2002). D’altro canto sono stati ampliati i termini del procedimento di impugnativa: il termine di presentazione del ricorso passa da 30 a 60 giorni dalla comunicazione all’interessato. Ugualmente dilatati – da 10 a 20 giorni dal deposito del ricorso – i termini perché il giudice decida sul ricorso stesso.

Contro il decreto di espulsione disposto dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, è ammesso ricorso al tribunale amministrativo regionale del Lazio (art. 13, co. 11, T.U.).

Le sanzioni alle violazioni delle disposizioni in materia di espulsione

All’espulsione si accompagna il divieto di rientrare nel territorio dello Stato, salva speciale autorizzazione del ministro dell’interno, per un periodo che di norma è pari a dieci anni[315], ma che può essere di misura inferiore, sino a un minimo di cinque anni. L’eventuale termine più breve può essere previsto nel decreto di espulsione (art. 13, co. 14, T.U.).

L’interdizione al regresso può diventare perpetua: infatti la L. 189/2002 ha introdotto quali condizioni ostative all’ottenimento del visto di ingresso la condanna ad uno di una serie di gravi reati indicati dall’art. 4, co., 3, come modificato dalla legge189.

La trasgressione del divieto di reingresso è sanzionata penalmente.

Il reingresso nel territorio dello Stato prima del termine consentito era punito dal T.U. nel testo previgente con l’arresto da due a sei mesi e con l’immediato accompagnamento alla frontiera.

La L. 189/2002 ha provveduto, oltre a inasprire tale pena, ad articolare compiutamente il sistema sanzionatorio volto a punire una pluralità di fattispecie di reati collegati con l’immigrazione clandestina (art. 13, co. 13, 13-bis, 13-ter, e art. 14, co. 5-bis, 5-ter, 5-quater e 5-qunques).

Sul sistema delineato dalla L. 189/2002 è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 223/2004 (coeva della sentenza 222 che ha ritenuto incostituzionale l’esecuzione dell’espulsione prima della convalida giudiziaria). Successivamente il D.L. 241/2004 ha provveduto ad adeguare le disposizioni del testo unico alla pronuncia della Consulta.

 

Il meccanismo sanzionatorio previsto dalla L. 189/2002 e modificato dal D.L. 241 si articola come segue:

§      permane la fattispecie generale di reato di reingresso nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto; la pena, da 2 a 6 mesi nel testo unico previgente, è stata elevata prima a 6 mesi e un anno dalla L. 189/2002 e poi a 1 e 4 anni dal D.L. 241/2004 (art. 13, co. 13, T.U.);

§      la L. 189/2002 individua una specifica ipotesi di trasgressione alle norme sul reingresso sanzionata con una pena maggiore: nel caso di espulsione disposta da giudice la pena per il reingresso è da 1 a 4 anni, portati a 1 e 5 anni dal DL 241 (art. 13, co. 13-bis, primo periodo);

§      un aggravio della pena è previsto anche per lo straniero recidivo che già denunciato per il reato di reingresso prima della scadenza del divieto e nuovamente espulso è rientrato illegalmente per la seconda volta nel territorio nazionale. In questo caso la pena è la stessa della fattispecie precedente (minimo 1 anno, massimo 4 anni, poi portati a 5 dal DL 241 (co. 13-bis, secondo periodo);

§      è prevista l’ipotesi di espulsione tramite intimazione del questore a lasciare il territorio nazionale per lo straniero che non sia stato possibile trattenere in un centro di permanenza temporanea, ovvero per il quale sono scaduti i termini di permanenza nel centro (art. 14, co. 5-bis, T.U. introdotto dalla L. 189/2002). In caso di inadempienza all’ordine di allontanamento, la L. 189/2002 prevedeva l’arresto da 6 mesi a 1 anno e l’espulsione con accompagnamento alla frontiera. Il D.L. 241 ha differenziato il trattamento a seconda se la violazione è compiuta da clandestini o irregolari (vedi oltre);

§      se lo straniero espulso ai sensi del punto precedente fa nuovamente ingresso nel territorio dello Stato la pena non configura più una semplice contravvenzione (arresto da 6 mesi a un anno), bensì un delitto, prevedendo la reclusione da 1 a 4 anni (art. 14, co. 5-quater introdotto dalla L. 189/2002; il termine massimo è stato poi elevato a 5 anni dal DL 241);

§      infine, per entrambi reati indicati nei due punti precedenti, cioè l’inottemperanza all’ordine di allontanamento (co. 5-ter)e il reingresso dopo l’espulsione a seguito di inottemperanza (co. 5-quater), la L. 189/2002 ha previsto l’arresto obbligatorio e il procedimento con rito direttissimo (art. 14, co. 5-quinques).

 

Ed è proprio la previsione dell’arresto per il primo dei due reati (inottemperanza all’ordine di allontanamento previsto dal co. 5-ter introdotto dalla L. 189/2002) è stata giudicata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 223 del 2004.

Occorre in proposito premettere che l’art. 380 del codice di procedura penale prevede l’arresto obbligatorio in flagranza (quale misura precautelare) per delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. La L. 189/2002 rendendo obbligatorio l’arresto per un reato contravvenzionale punito con l’arresto (inteso qui nell’accezione di pena) da 6 mesi ad un anno, assai inferiore ai 5 anni di cui all’art. 380, introduceva una deroga alla procedura penale, senza però nulla prevedere riguardo alle eventuali misure coercitive (di cui agli art. 280 e seguenti del codice di procedura penale) imposte in sede di convalida dell’arresto da parte dell’autorità giudiziaria. Infatti, come ha rilevato la Corte costituzionale “secondo l’ordinamento processuale le misure coercitive possono essere applicate solo quando si procede per un delitto e, in particolare, ai sensi dell’art. 280 cod. proc. pen., per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero, nel caso in cui sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere, non inferiore nel massimo a quattro anni.” Non possono, quindi, essere applicate misure coercitive nel caso in questione in quanto si prevede l’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale, per di più sanzionato con una pena detentiva, l’arresto da sei mesi a un anno, di gran lunga inferiore a quella per cui il codice ammette la possibilità di disporre misure coercitive. Di conseguenza “il giudice chiamato a pronunciarsi sulla convalida dell’arresto per il reato di cui all’art. 14, co. 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998 deve comunque disporre l’immediata liberazione dell’arrestato (…) posto che per tale reato la legge gli preclude di disporre la custodia cautelare in carcere e, più in generale, qualsiasi misura coercitiva”. Conclude la Corte: “L’arresto obbligatorio previsto dall’art. 14, co. 5-quinquies, è dunque privo di qualsiasi sbocco sul terreno processuale, è una misura fine a se stessa, che non potrà mai trasformarsi nella custodia cautelare in carcere, né in qualsiasi altra misura coercitiva, e non trova alcuna copertura costituzionale. In particolare, a norma dell’art. 13, terzo co., Cost., all’autorità di polizia è consentito adottare provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale solo quando abbiano natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità giudiziaria”.

 

A seguito della decisione della Corte il D.L. 241/2004 ha riformulato la norma ritenuta illegittima prevedendo due ipotesi distinte:

§      se la violazione è compiuta da coloro che erano stati espulsi in quanto clandestini, delinquenti abituali o con permesso di soggiorno scaduto, annullato o non rinnovato senza valido motivo, la pena è fissata nella reclusione da 1 a 4 anni: l’aggravamento della pena modifica la natura del reato (da contravvenzione a delitto) consentendo quindi l’eventuale l’imposizione delle misure coercitive e, pertanto, di superare i rilievi della Corte;

§      se, invece, lo straniero era stato espulso semplicemente per la scadenza da più di 60 giorni del permesso di soggiorno rimane la pena dell’arresto da 6 mesi ad un anno, ma viene eliminato, per questa ipotesi, l’obbligo di arresto.

I centri di permanenza temporanea e accoglienza

Nel quadro delle misure sanzionatorie disposte per la violazione delle norme sull’immigrazione il testo unico ha previsto l’istituzione di appositi centri di permanenza temporanea e accoglienza (CPTA) da costituire con decreto del ministro dell’interno (art. 14 T.U.).

Il centro costituisce lo strumento per trattenere lo straniero quando non è possibile, per motivi contingenti, eseguire immediatamente il respingimento alla frontiera o l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera. Il testo unico indica tassativamente i motivi che consentono il trattenimento:

§      necessità di prestare soccorso;

§      accertamento dell’identità o nazionalità dello straniero;

§      acquisizione dei documenti per il viaggio;

§      indisponibilità di un mezzo di trasporto idoneo per l’espulsione.

Il D.L. 241/2004 ha aggiunto una ulteriore ipotesi: lo straniero in attesa della definizione del procedimento di convalida deve essere trattenuto in uno dei centri, a meno che, come si è visto sopra, non si possa procedere immediatamente alla convalida (art. 13, co. 5-bis, come modificato dal D.L. 241, art. 1, co. 1).

Il trattenimento è disposto con provvedimento del questore per un periodo di 30 giorni, prorogabile, su richiesta del questore e solo in presenza di gravi difficoltà, di altri 30 giorni[316].

Anche questo atto, in quanto incidente sulla libertà di circolazione del cittadino straniero, è sottoposto a verifica giurisdizionale (convalida), come il provvedimento del questore di accompagnamento alla frontiera (di cui all’art. 12, co. 5-bis, vedi sopra).

Il questore è tenuto, perciò, a trasmettere immediatamente e comunque entro 48 copia degli atti all’autorità giudiziaria (giudice di pace) ai fini della sua convalida.

Il D.L. 241 ha dettato una nuova disciplina dell’udienza di convalida del provvedimento del questore (art. 14, co. 4, del T.U. come modificato dall’art. 1, co. 5 del DL 241). Vengono estese a tale fattispecie le stesse garanzie previste per la convalida dell’espulsione (disposte dallo stesso D.L. 241, vedi sopra). Si prevede che l’udienza si svolga in camera di consiglio con la presenza necessaria di un difensore e che l’interessato, tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza, se comparso, sia sentito. La decisione deve essere assunta dal giudice nelle 48 ore successive, con decreto motivato, verificato il rispetto dei termini e la sussistenza dei requisiti di cui agli articoli 13 e 14 del Testo Unico.

Il provvedimento del questore cessa di avere effetto se la convalida viene negata o se il giudice non decide nel termine summenzionato di 48 ore.

La disposizione prevede infine la possibilità che la convalida in questione sia disposta contestualmente alla convalida del decreto di accompagnamento alla frontiera o in sede di esame del ricorso avverso il decreto di espulsione.

 

Attualmente sono operativi 14 centri di permanenza temporanea e assistenza localizzati a Torino, Milano, Bologna, Modena, Roma, Brindisi, Lecce, Lametia Terme, Crotone, Caltanissetta, Agrigento, Lampedusa, Ragusa, Trapani[317].

L’espulsione dello straniero per motivi di prevenzione del terrorismo

All’indomani dei tragici attentati del 7 luglio 2005 a Londra, il Governo italiano ha adottato il già citato D.L. 144/2005 (convertito in brevissimo tempo) contenente una serie di misure approntate per prevenire e contrastare il terrorismo internazionale. (v. scheda Antiterrorismo – Il decreto-legge n. 144 del 2005).

Tra queste l’introduzione di una terza ipotesi di espulsione amministrativa, ulteriore a quella disposta dal prefetto per violazione amministrativa delle norme sull’immigrazione e da quella per motivi di ordine pubblico effettuata su impulso dal ministro dell’interno: l’espulsione per motivi di prevenzione di terrorismo (art. 3, DL 144).

Essa può essere disposta dal ministro dell’interno, o, su sua delega, dal prefetto nei confronti dello straniero qualora ricorra una delle seguenti condizioni:

§         il destinatario appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[318];

§         vi siano fondati motivi di ritenere che la permanenza del destinatario nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali.

 

Le categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[319] comprendono coloro che:

§         operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei delitti elencati dal citato art. 18[320], nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale;

§         abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della L. 645/1952[321] (concernente la riorganizzazione del disciolto partito fascista) e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente;

§         compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 1 della citata L. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza;

§         fuori dei casi sin qui indicati, siano stati condannati per uno dei delitti in materia di armi previsti nella L. 895/1967[322] e negli artt. 8 e seguenti della L. 497/1974[323], quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1.

Agli appartenenti alle categorie sin qui illustrate sono equiparati i relativi istigatori, mandanti e finanziatori (è definito finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo a cui sono destinati).

 

Questa forma di espulsione amministrativa è sottoposta in parte ad un regime diverso da quello previsto dal testo unico come modificato dalla L. 189/2002, con l’obiettivo, nel complesso, di dare più celerità e immediatezza all’esecuzione dell’espulsione.

Innanzitutto, anche contro i decreti di espulsione per motivi di terrorismo è ammesso ricorso al tribunale amministrativo competente per territorio, così come per l’espulsione disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato di cui all’art. 13, co. 1. Ma è espressamente escluso che il ricorso giurisdizionale sospenda l’esecuzione del provvedimento di espulsione (art. 3, co. 4, DL 144) o che in sede giurisdizionale (sia dinanzi al TAR, sia dinanzi al Consiglio di Stato) possa comunque disporsi la sospensione dell’esecuzione in via cautelare (così il co. 4-bis).

Viene qui riprodotto quanto già stabilito in via generale dall’art. 13, co. 3, del testo unico, come modificato dalla L. 189/2002, che stabilisce l’immediata esecutività del decreto di espulsione anche se sottoposto a impugnativa.

Decisamente innovative, e particolarmente stringenti, due altre disposizioni del D.L. 144 che però hanno una durata limitata in quanto si applicano solamente fino al 31 dicembre 2007.

La prima di esse prevede che l’espulsione venga eseguita immediatamente, salvo che si tratti di persona detenuta, anche in deroga a quanto previsto dall’art. 13, co. 3 e 5-bis, del testo unico, prescindendo cioè sia dal nulla osta dell’autorità giudiziaria richiesto per l’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale, sia dal procedimento giurisdizionale di convalida (di competenza del giudice di pace) al quale è di norma condizionata l’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale mediante accompagnamento alla frontiera[324]. La disciplina testé illustrata si applica anche nei casi in cui l’espulsione è disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 3, co. 2).

Il co. 5 prevede, inoltre, la sospensione del procedimento dinanzi al TAR quando la decisione dipenda dalla cognizione di atti per i quali sussiste il segreto d’indagine o il segreto di Stato; la sospensione dura fino a quando l’atto o i contenuti essenziali dello stesso non possono essere comunicati al tribunale amministrativo. Se la sospensione si protrae per più di due anni, il TAR può tuttavia fissare un termine entro il quale l’amministrazione è tenuta a produrre nuovi elementi per la decisione o a revocare il provvedimento impugnato. Decorso il termine, il TAR decide allo stato degli atti.

La medesima procedura è estesa – sempre in via temporanea fino alla fine del 2007 – al giudizio amministrativo dinanzi al TAR del Lazio su ricorso contro il decreto di espulsione disposto dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato.

Inoltre, l’art. 3 del D.L. contiene altre due disposizioni che non riguardano l’espulsione per motivi di terrorismo, bensì il regime generale delle espulsioni.

Il co. 3 consente al prefetto di omettere, sospendere o revocare il provvedimento di espulsione previsto in caso di ingresso o permanenza irregolare dello straniero nel territorio nazionale e nelle altre fattispecie di cui all’art. 13, co. 2, del T.U.

§      quando sussistono le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno a fini investigativi, di cui all’art. 2 del medesimo DL 144 (v. scheda Immigrazione – Permesso di soggiorno);

§      quando sia necessario per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di attività terroristiche, ovvero per la prosecuzione delle indagini o delle attività informative dirette alla individuazione o alla cattura dei responsabili dei delitti commessi con finalità di terrorismo.

Infine, il co. 7 dell’articolo 3, sopprime il co. 3-sexies dell’art. 13 del T.U. sull’immigrazione, ai sensi del quale il nulla osta all’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale non può essere concesso qualora si proceda per delitti previsti dall’art. 407, co. 2, lett. a), del codice di procedura penale[325], nonché per i delitti concernenti le immigrazioni clandestine di cui all’art. 12 del T.U. medesimo.

L’espulsione disposta dal giudice

L’ordinamento considera diverse ipotesi di espulsione disposta dall’autorità giudiziaria.

Il codice penale prevede l’espulsione a titolo di misura di sicurezza – ossia da eseguire dopo l’esecuzione della pena[326] – in due casi:

§      condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni (art. 235 del codice penale);

§      condanna a una pena restrittiva della libertà personale per uno dei delitti contro la personalità dello Stato (art. 312 del codice penale).

Il testo unico, in questo punto non modificato dalla L. 189/2002, ha ampliato la possibilità di applicare allo straniero l’espulsione quale misura di sicurezza a tutti reati per i quali è previsto l’arresto, anche facoltativo, in caso di flagranza indicati dagli art. 380 e 381 del codice di procedura penale[327] (art. 15 del testo unico). Il giudice può applicare tale misura, che è facoltativa, solo previo accertamento della pericolosità sociale dell’individuo.

L’espulsione quale misura di sicurezza è prevista, inoltre, in caso di condanna per uno dei delitti legati al traffico di stupefacenti (art. 86 del testo unico in materia di stupefacenti[328]).

La L. 189/2002, ha aggiunto un co. ulteriore all’art. 15 (co. 1-bis), contenenti disposizioni relative all’esecuzione dell’espulsione, che si applicano però non solamente all’espulsione – misura di sicurezza, oggetto del co. 1, ma a tutte le espulsioni. Infatti, obiettivo di tali disposizioni è la semplificazione del procedimento di esecuzione dell’espulsione ogni qual volta essa è conseguente ad un processo penale o alla conclusione di un periodo di custodia cautelare.

In particolare, la disposizione prevede l’obbligo di tempestiva comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria al questore a alla autorità consolare sia della emissione del provvedimento di custodia cautelare sia della sentenza definitiva di condanna ad una pena detentiva nei confronti dello straniero, al fine di procedere alla sua identificazione e di consentire l’espulsione.

 

A differenza dell’espulsione quale misura di sicurezza, che si applica dopo l’esecuzione della pena, di cui costituisce un inasprimento, l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa, si applica in luogo della pena.

Quanto all’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva delle detenzione, l’art. 16 del testo unico sull’immigrazione dispone che il giudice, al momento della sentenza di condanna per reato non colposo, quando ritiene di dover irrogare una pena detentiva contenuta entro i due anni, può decidere di sostituire la pena medesima con l’espulsione per un periodo di almeno cinque anni. È, dunque, anch’essa una misura facoltativa, la cui adozione spetta al giudice, e può essere applicata anche in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (il cosiddetto “patteggiamento”).

 

La disposizione ricalca da vicino la disciplina generale delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi introdotte nell’ordinamento penale italiano dalla L. 689/1981[329] che ha dato la facoltà al giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, di sostituire pene brevi di due anni, un anno e sei mesi, rispettivamente con la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria (art. 53).

 

L’ambito di applicazione dalla misura sostitutiva non comprende gli stranieri extracomunitari legittimamente presenti sul territorio dello Stato, bensì unicamente quelli che si trovano in una delle situazioni passibili di espulsione amministrativa da parte del prefetto ai sensi dell’art. 13, co. 2: irregolari, clandestini e delinquenti abituali.

Non può, inoltre, essere applicata qualora non ricorrano le condizioni per la concessione della sospensione condizionale della pena (ai sensi dell’art. 163 c.p.) o nel caso sia impossibile eseguire immediatamente l’espulsione per le stesse cause (di cui all’art. 14, co. 1) che obbligano il trattenimento nei centri di permanenza (mancanza di documenti, indisponibilità di mezzi di trasporto ecc.).

La L. 189/2002 ha aggiunto due nuove cause ostative all’adozione della misura sostitutiva che ne restringono ulteriormente la possibilità di applicazione, si tratta di:

§      condanna di delitti particolarmente gravi (di cui all’art. 407, co. 2, lett. b) c.p.p.);

§      condanna per uno dei delitti previsti dal testo unico.

La sanzione sostitutiva è revocata nel caso di reingresso illegale prima del termine di 10 anni previsto in linea generale dall’art. 13, co. 14.

 

L’espulsione a titolo di sanzione alternativa della detenzione costituisce una nuova figura di espulsione giudiziaria istituita ex novodalla L. 189/2002.

A differenza dell’espulsione sostitutiva, applicata discrezionalmente dal giudice, anche su richiesta delle parti, al momento della pronuncia della sentenza di condanna, l’espulsione quale sanzione alternativa è automatica e si applica dopo la condanna, nel caso dello straniero detenuto che deve scontare una pena, anche residua, non superiore ai due anni.

Sono escluse le condanne per i reati particolarmente gravi, come per la sanzione sostitutiva, e quelle per tutti i reati in materia di immigrazione previsti dal testo unico.

Anche l’espulsione a titolo di sanzione alternativa non riguarda gli stranieri legittimamente presente nel territorio italiano, bensì gli immigrati clandestini e gli irregolari.

La revoca del permesso di soggiorno per la violazione delle norme sul diritto d’autore

La L. 189/2002 ha introdotto una ulteriore forma di sanzione, non direttamente assimilabile né a quelle di tipo amministrativo, né a quelle di competenza dell’autorità giudiziaria, che si sono descritte sopra.

Si tratta della revoca del permesso di soggiorno e nella conseguente espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, nei confronti dello straniero che è stato condannato con provvedimento irrevocabile per uno dei reati previsti dalle norme sul diritto di autore (art. 26, co. 7-bis, del testo unico, introdotto dalla L. 189/2002/2002).

 

In particolare, i reati in questione sono:

§         la contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali, punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a quattro milioni di lire (art. 473 c.p.);

§         l’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a quattro milioni di lire (art. 474, c.p.).

§         i reati previsti dalla legge sul diritto d’autore, relativi prevalentemente alla duplicazione e commercializzazione abusiva di opere dell’ingegno (artt. 171 e seguenti della legge 633/1941)[330].

Da rilevare che i limiti massimi delle pene previste per i delitti di cui sopra sono generalmente più bassi di quelli visto sopra per il quale scatta l’espulsione quale misura di sicurezza.

 

Premesso che questo è l’unico caso in cui è prevista la revoca del permesso di soggiorno, tale misura, e la conseguente espulsione coatta, si configurano non quali misure di sicurezza, la cui applicazione coinvolge la pericolosità sociale del reo, ma sono piuttosto assimibilabili alle pene accessorie[331], automaticamente applicabili in conseguenza della condanna penale.

L’attuazione della normativa comunitaria in materia di espulsione

In virtù della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen[332], il provvedimento di espulsione comporta l’inserimento  del nome dello straniero nel Sistema d’informazione Schengen ai fini della non ammissione nell’area Schengen.

Il Sistema d’informazione Schengen (SIS) è un sistema comune di informazione automatizzato gestito dai paesi aderenti all’accordo di Schengen per la libera circolazione dei cittadini nei Paesi dell’Unione europea. Obiettivo del SIS è di consentire alle autorità di controllo di disporre di segnalazioni di persone, in occasione dei controlli di frontiera (art. 92).

Nella banca dati SIS sono inseriti anche i dati relativi agli stranieri che sono stati espulsi, respinti o allontanati (art. 96).

Sono, inoltre, segnalati:

§      gli stranieri colpevoli di reati per cui è prevista una pena privativa di libertà di almeno un anno;

§      gli stranieri sospettati di gravi reati, incluso il traffico di stupefacenti.

Le segnalazioni sono utilizzate ai fini della procedura di rilascio dei visti e dei documenti di soggiorno e ad esse consegue la non ammissione nell’area Schengen (art. 25).

Il sistema comporta l’efficacia in tutti gli Stati aderenti delle decisioni di espulsione adottato da uno di essi, e costituisce una delle condizioni indispensabili per la creazione di un effettivo spazio di libera circolazione. Tuttavia, la varietà delle disposizioni nazionali relative alle modalità e ai criteri delle espulsioni hanno reso necessario l’adozione di disposizioni comuni in materia di allontanamento dei cittadini non comunitari in modo da consentire il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di espulsione.

Tali disposizioni sono contenute della direttiva 2001/40/CE recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 10 gennaio 2005, n. 12[333] che, in pratica, introduce una nuova tipologia di allontanamento nell’ordinamento interno: l’espulsione a seguito di misura di allontanamento presa da un altro Paese dell’area Schenghen.

Il D.Lgs. 12/2005 individua nel prefetto l’autorità italiana cui compete l’adozione del provvedimento di espulsione per attuare la decisione di allontanamento adottata da un altro Stato membro. Mentre all’esecuzione materiale dell’espulsione provvede il questore.

Per quanto riguarda le procedure di adozione del provvedimento prefettizio e dell’esecuzione dell’espulsione, il D.Lgs. 12/2005 fa riferimento essenzialmente a quelle del testo unico con alcune particolarità. Il prefetto può acquisire i documenti dallo Stato autore della decisione relativi alla medesima decisione. Il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno è tenuto ad effettuare ulteriori accertamenti sulla situazione dello straniero da espellere, avvalendosi del Servizio per la cooperazione internazionale. Lo stesso Ministero dell’interno provvede anche a comunicare allo Stato autore della decisione l’avvenuta esecuzione dell’espulsione.

Contro il provvedimento di esecuzione è prevista la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria secondo le modalità previste per l’espulsione ai sensi del testo unico (art. 13, co. 8).

 

I principali provvedimenti dell’Unione europea (adottati o in itinere) in materia di immigrazione clandestina

 

Argomento

Atto

Data

Sistema “Eurodac” per il confronto dei dati sulle impronte digitali

Regolamento (CE) n. 2725/2000

11 dicembre 2000

Riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento

Direttiva 2001/40/CE recepita con D.Lgs. 10 gennaio 2005, n. 12

28 maggio 2001

Politica comune in materia di immigrazione illegale

Comunicazione COM(2001)672

15 novembre 2002

Definizione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali

Direttiva 2002/90/CE[334]

28 novembre 2002

Rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali

Decisione quadro

28 novembre 2002

Politica comune in materia di immigrazione illegale

Comunicazione COM(2003)323

3 giugno 2003

Assistenza durante il transito nei provvedimenti di espulsione per via aerea

Direttiva 2003/110/CE[335]

25 novembre 2003

Titolo di soggiorno per le vittime dell’immigrazione illegale che collaborano

Direttiva 2004/81/CE[336]

29 aprile 2004

Norme comuni per il rimpatrio dei clandestini

Proposta di direttiva COM(2005)391

1° settembre 2005

 

Gli accordi di riammissione e la “politica estera” dell’immigrazione

Uno degli strumenti che hanno reso possibile una efficace azione di contrasto all’immigrazione clandestina è stato la stipulazione, da parte del Governo italiano, di una serie di accordi bilaterali in materia di immigrazione.

Si tratta, innanzitutto, degli accordi di riammissione degli stranieri irregolari, previsti dal testo unico sull’immigrazione (art. 11, co. 4), volti ad ottenere la collaborazione delle autorità del Paese straniero nelle operazioni di rimpatrio dei migranti non regolari, espulsi dall’Italia o respinti al momento dell’attraversamento della frontiera.

Con alcuni Paesi, e specificamente con quelli a più alta pressione migratoria, sono stati perfezionati pacchetti di intese di portata più ampia che prevedono non soltanto accordi di riammissione, ma anche intese di cooperazione di polizia, nonché accordi in materia di lavoro. Nei decreti annuali sui flussi di ingresso del lavoratori extracomunitari sono previste quote riservate per gli stranieri provenienti da Paesi che hanno stretto tali accordi globali di cooperazione.

 

L’Italia ha al momento sottoscritto 27 intese bilaterali in tema di riammissione, di cui 5 conclusi nella scorsa legislatura. Contatti sono in corso con altri 17 Paesi[337].

 

Si richiama, infine, la citata L. 228/2003 contro la tratta di persone, che affida al ministro degli affari esteri il compito di definire le politiche di cooperazione nei confronti dei Paesi interessati da tale reato tenendo conto della collaborazione da essi prestata e dell’attenzione riservata dai medesimi alle problematiche della tutela dei diritti umani e provvede ad organizzare, d’intesa  con il ministro per le pari opportunità, incontri internazionali e campagne di informazione anche all’interno dei Paesi di provenienza delle vittime del traffico di persone (art. 14, co. 1).


Immigrazione – Le politiche di integrazione

Il testo unico delle leggi sull’immigrazione del 1998[338] disciplina sia il diritto dell’immigrazione in senso stretto, ossia l’insieme delle regole e delle procedure relative alla gestione complessiva dei flussi migratori, sia il diritto all’integrazione, consistente nella predisposizione degli strumenti idonei per garantire anche agli stranieri, per quanto è possibile, gli stessi diritti dei cittadini, per rimuovere gli ostacoli all’effettivo esercizio di tali diritti e per favorire la loro integrazione nella società.

La L. 189/2002[339] è intervenuta prevalentemente a modificare la prima parte del testo unico, mentre sono poche e di portata settoriale le innovazioni introdotto in materia di integrazione (vedi il testo a fronte tra il D.Lgs. 286/1998 e le modifiche apportate dalla L. 189/2002). Una disposizione di carattere generale è rinvenibile nell’art. 40, co. 1-bis, introdotto dalla L. 189/2002, che circoscrive l’accesso alle misure di integrazione sociale agli stranieri regolari.

 

Il Documento di programmazione triennale 2004-2006, approvato con D.P.R. 13 maggio 2005[340], ha indicato alcuni obiettivi prioritari relativi alle politiche di integrazione; tra i principali di essi si ricordano:

§      adottare misure di integrazione adeguate nei confronti di coloro che hanno usufruito della regolarizzazione del 2002-2003 (circa 640.000 persone a cui si devono aggiungere i familiari);

§      diffondere le iniziative rivolte all’alfabetizzazione e all’apprendimento della cultura e della lingua italiana;

§      offrire soluzione abitative agli stranieri regolarmente soggiornanti;

§      promuovere iniziative specifiche nei confronti delle “seconde generazioni”, ossia degli stranieri, nati in Italia, figli di immigrati;

§      supportare l’attività del Comitato minori stranieri;

§      valorizzare i consigli territoriali dell’immigrazione quali centri delle reti di raccordo delle iniziative locali;

§      in materia sanitaria favorire la riduzione del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza e ridurre l’incidenza della sindrome da HIV.

 

Il testo unico contiene un articolato insieme di disposizioni volte a garantire agli stranieri alcuni diritti attribuiti ai cittadini italiani, tra queste:

§         il diritto alla difesa in giudizio (art. 17);

§         il diritto all’unità familiare (ricongiungimenti familiari: artt. 28-29);

§         il diritto alla salute (artt. 34-35);

§         il diritto allo studio (art. 39);

§         il diritto alla casa (art. 40).

Sono previsti una serie di strumenti per accogliere gli stranieri regolari e favorirne l’integrazione; tra di essi:

§         la Commissione governativa per le politiche di integrazione (art. 46), con le seguenti attribuzioni:

-          predisporre un rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati;

-          formulare proposte di interventi;

-          fornire pareri al Governo;

§         il fondo nazionale per le politiche migratorie (art. 45), destinato al finanziamento delle seguenti iniziative:

-          accoglienza di stranieri immigrati per cause eccezionali (conflitti, calamità naturali ecc.);

-          istruzione;

-          centri di accoglienza;

-          misure di integrazione quali la diffusione delle informazioni utili all’inserimento degli stranieri nella società e alla conoscenza della cultura originaria degli stranieri;

§         l’azione civile contro la discriminazione (art. 44).

Il diritto all’unità familiare

Specifiche disposizioni del testo unico(artt. 28-33) prendono in esame le forme di garanzia del diritto all’unità familiare, riconosciuto agli stranieri regolarmente soggiornanti, e di tutela dei minori, il cui prioritario interesse deve sorreggere tutti i provvedimenti amministrativi e giurisdizionali in materia di diritto all’unità familiare.

Il testo unico individua le categorie di soggetti per i quali lo straniero regolarmente soggiornante può avanzare richiesta di ricongiungimento familiare e i requisiti necessari perché il questore possa rilasciare il relativo nulla osta (consistenti nella disponibilità di un reddito sufficiente al sostentamento e di un alloggio idoneo). Tali requisiti non sono richiesti nel caso di rifugiato.

Per quanto riguarda il primo profilo, sul quale è intervenuta in senso complessivamente restrittivo la L. 189/2002, possono richiedere il ricongiungimento il coniuge (non legalmente separato), i figli minori e i genitori a carico. La L. 189/2002 da un lato ha esteso il diritto al ricongiungimento anche ai figli maggiorenni, purché a carico e invalidi totali, dall’altro ha circoscritto la possibilità di richiedere il ricongiungimento dei genitori solo nel caso questi non abbiamo altri figli nel Paese di origine, o, se ultrassessantacinquenni, qualora gli altri figli non possano provvedere loro[341].

Inoltre, la L. 189/2002 ha eliminato la possibilità di ricongiungimento dei parenti entro il terzo grado, inabili al lavoro.

Le competenze in materia di nulla osta al ricongiungimento familiare sono trasferite dalla questura allo sportello unico dell’immigrazione (v. paragrafo La disciplina del lavoro nella scheda Immigrazione – Permesso di soggiorno).

Sotto il profilo processuale, il testo unico affida al tribunale in composizione monocratica la giurisdizione sui ricorsi avverso il diniego di nullaosta al ricongiungimento familiare e, in generale, contro tutti i provvedimenti in materia di diritto all’unità familiare.

Si individua, inoltre, una particolare categoria di permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari alle categorie di soggetti espressamente individuate e con durata identica a quella del permesso di soggiorno del familiare in possesso dei requisiti per il ricongiungimento.

 

Le disposizioni a favore dei minori prevedono forme di facilitazione all’ingresso dei medesimi nel territorio nazionale, consistenti nella loro iscrizione automatica nel permesso o nella carta di soggiorno di uno o entrambi i genitori (se conviventi e regolarmente soggiornanti) fino al compimento del quattordicesimo anno di età. Al medesimo minore verrà in seguito rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari, valido fino al raggiungimento della maggiore età, e che potrà essere successivamente riconvertito in altra categoria di permesso.

La L. 189/2002 ha integrato le disposizioni di cui sopra prevedendo espressamente la possibilità, non considerata nel testo unico, di concedere anche ai minori stranieri di cui non sono stati rintracciati i genitori (i cosiddetti minori non accompagnati: vedi oltre) il permesso di soggiorno per motivi familiari, a condizione che siano ammessi per un periodo di almeno due anni in un progetto di integrazione gestito da enti autorizzati.

Per far fronte alle diverse esigenze collegate alla presenza dei minori, l’art. 33 del testo unico del 1998 ha istituito il Comitato per i minori stranieri, originariamente operante presso la Presidenza del Consiglio, ed oggi presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Il Comitato svolge compiti di vigilanza e coordinamento sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri temporaneamente ammessi sul territorio dello Stato e di tutela dei relativi diritti. Esso è disciplinato dal decreto del Presidente del Consiglio 535/1999[342].

 

Il Comitato per i minori stranieri, nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è composto dai seguenti rappresentanti:

§         uno del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che presiede il Comitato

§         uno del Ministero degli Affari Esteri

§         uno del Ministero di Giustizia

§         uno del Ministero dell’Interno

§         uno dell’Unione province italiane

§         due dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani

§         due di organizzazioni maggiormente rappresentative operanti nel settore dei problemi della famiglia e dei minori.

Il comitato svolge la sua attività soprattutto in relazione ai “minori stranieri non accompagnati” e “minori stranieri accolti”:

Per minori non accompagnati si intende i minorenni senza cittadinanza italiana (o di altro Paese dell’Unione Europea) che non ha presentato domanda di asilo politico e che si trova nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili.

In relazione ai minori non accompagnati, il Comitato svolge le seguenti attività:

§         accerta lo status del minore non accompagnato;

§         svolge compiti di impulso e di ricerca al fine di promuovere l’individuazione dei familiari dei minori;

§         adotta il provvedimento di rimpatrio assistito;

§         provvede al censimento dei minori presenti non accompagnati.

Al minore non accompagnato sono garantiti i diritti relativi al soggiorno temporaneo, alle cure sanitarie, all’avviamento scolastico e alle altre provvidenze disposte dalla legislazione vigente.

Al fine di garantire l’adeguata accoglienza del minore il Comitato può proporre la stipula di convenzioni con amministrazioni pubbliche e organismi nazionali e internazionali che svolgono attività inerenti i minori non accompagnati in conformità ai princìpi e agli obiettivi che garantiscono il superiore interesse del minore, la protezione contro ogni forma di discriminazione, il diritto del minore di essere ascoltato.

I minori stranieri accolti sono bambini, di almeno sei anni, che hanno fatto ingresso in Italia nell’ambito di programmi solidaristici di accoglienza temporanea promossi da enti, associazioni o famiglie.

In relazione ai minori accolti, il Comitato:

§         delibera, previa adeguata valutazione e secondo criteri predeterminati, in ordine alle richieste provenienti da enti, associazioni o famiglie italiane per l’ingresso di minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici di accoglienza temporanea nonché per l’affidamento temporaneo e per il rimpatrio dei medesimi;

§         provvede alla istituzione e alla tenuta dell’elenco dei minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici;

§         definisce i criteri predeterminati di valutazione delle richieste per l’ingresso di minori accolti.

Il diritto alla salute

Il testo unico garantisce una ampia assistenza sanitaria a tutti gli stranieri, compresi coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno.

Le disposizioni in materia sanitaria contenute nel testo unico (artt. 34-36), in-dividuano le categorie di stranieri in capo ai quali è posto l’obbligo di iscrizione al Servizio sanitario nazionale, con conseguente parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani (specie in relazione all’obbligo contributivo e all’assistenza erogata dal Servizio): si tratta degli stranieri regolarmente soggiornanti che svolgono una attività lavorativa o che abbiano chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno e i familiari a carico. Al di fuori di questi casi, lo straniero in posizione regolare è comunque tenuto ad assicurarsi contro il rischio di malattie, infortunio e maternità, mediante la stipula di una polizza assicurativa o mediante iscrizione al Servizio sanitario nazionale con compartecipazione alla spesa sostenuta.

Per gli studenti stranieri e quelli collocati alla pari l’iscrizione al Servizio sanitario è facoltativa e prevede la corresponsione di un contributo annuale forfetario.

È prevista, infine, l’ipotesi dell’erogazione di prestazioni sanitarie agli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale, con garanzia di fornitura dei servizi sanitari essenziali che sono espressamente garantiti anche agli irregolari.

Il diritto all’istruzione

Il testo unico disciplina le condizioni e le forme in cui è consentito agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia l’iscrizione agli ordini o collegi professionali (art. 37)

Inoltre, viene posto l’obbligo scolastico per i minori stranieri presenti sul territorio nazionale e sono fissati i principi per l’effettiva garanzia – da parte di Stato, Regioni ed enti locali – del diritto all’istruzione degli stranieri, anche con l’obiettivo di non provocare uno “sradicamento” dello straniero dalla propria lingua e cultura d’origine. La tutela della cultura d’origine e le attività interculturali comuni sono organizzate mediante una programmazione territoriale integrata, strumento che le scuole elaborano anche in regime di convenzione con le associazioni degli stranieri, le loro rappresentanze diplomatiche o consolari e con le organizzazioni di volontariato.

 

A questo proposito, si ricorda che nel giugno del 2004 è stato istituito l’Ufficio per l’integrazione degli alunni stranieri presso la Direzione generale per lo studente del Ministero dell’istruzione, al fine di sostenere, potenziare e coordinare gli interventi a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione.

 

Per quanto riguarda l’istruzione superiore, i princìpi generali per l’accesso degli studenti stranieri ai corsi delle università italiane sono disciplinati dall’art. 39 del testo unico e dall’art. 46 del regolamento di attuazione (D.P.R. 394/1999).

Viene sancita in via generale la parità di trattamento degli stranieri con i cittadini italiani per quanto riguarda l’accesso all’istruzione universitaria ed il diritto allo studio.

L’accesso alle università italiane degli studenti stranieri residenti all’estero viene, come del resto già accadeva prima dell’entrata in vigore del testo unico, contingentato nei limiti del numero massimo di visti d’ingresso e permessi di soggiorno determinato annualmente, sulla base delle disponibilità comunicate dalle università, con decreto del ministro degli affari esteri, di concerto con il ministro dell’università (oggi dell’istruzione, dell’università e della ricerca) e con il ministro dell’interno; sul relativo schema le competenti Commissioni parlamentari esprimono il proprio parere.

Nella XIV legislatura risulta approvato un solo decreto di determinazione del contingente di studenti stranieri adottato il 19 dicembre 2001[343] che fissa in 22.019 il numero massimo dei visti di ingresso per l’anno accademico 2001-2002.

Il 22 luglio 2005 il Governo ha presentato alle Camere per il prescritto parere uno schema di decreto ministeriale, relativo all’anno accademico 2005-2006[344], che porta a 40.268 unità la quota di visti di ingresso e di permessi di soggiorno che le ambasciate e i consolati italiani all’estero possono rilasciare a cittadini stranieri residenti all’estero per l’accesso ai corsi universitari presso le Università statali e non statali. L’aumento considerevole della quota è da ricondurre probabilmente alla mancata emanazione dei decreti ministeriali annuali nei tre anni precedenti[345].

 

Al di fuori delle quote annuali, è in ogni caso consentito l’accesso ai corsi universitari (e alle scuole di specializzazione delle università, come specificato dal DL 241/2004[346]) a parità di condizioni con gli studenti italiani (e nei limiti delle disponibilità dei singoli atenei), ad alcune categorie di studenti, definite dall’art. 39, co. 5, del T.U. come modificato dalla L. 189/2002):

§         stranieri titolari di carta di soggiorno, ovvero di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario o per motivi religiosi,

§         stranieri regolarmente soggiornanti da almeno un anno in possesso di titolo di studio superiore conseguito in Italia;

§         stranieri titolari di diplomi conseguiti nelle scuole italiane all’estero o nelle scuole oggetto di intese bilaterali.

Le università – nella loro autonomia e nei limiti delle loro disponibilità finanziarie – promuovono l’accesso degli stranieri ai corsi universitari, stipulando apposite intese con gli atenei stranieri per la mobilità studentesca ed organizzando attività di orientamento e di accoglienza e tenendo conto degli orientamenti comunitari in materia, con particolare riguardo all’inserimento di una quota di studenti universitari stranieri.

Si ricorda infine che la legge comunitaria per il 2005 (legge 29/2006), include nella delega concernente il recepimento della normativa comunitaria la direttiva 2004/114/CE del 13 dicembre 2004[347], riguardante le condizioni e le procedure per l’ingresso e il soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi, che si recano nel territorio degli Stati membri, per un periodo superiore ai tre mesi, per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato[348].

Il diritto all’abitazione e all’assistenza sociale

Le disposizioni del testo unico in materia di servizi abitativi e di assistenza sociale per stranieri (artt. 40-41) prevedono che le regioni, in collaborazione con gli enti locali e con le associazioni di volontariato, predispongano centri di accoglienza destinati ad ospitare stranieri regolarmente soggiornanti e impossibilitati, temporaneamente, a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative e di sussistenza[349].

L’istituzione dei centri di accoglienza è comunque finalizzata a rendere autosufficienti gli stranieri ospitati nel più breve tempo possibile, anche provvedendo, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti.

Il testo unico prevedeva la possibilità di alloggiare nei centri, in situazioni di emergenza (quali sbarchi di massa di clandestini) e con decisione del sindaco, anche gli stranieri non in regola con le disposizioni sull’ingresso e il soggiorno (art. 40, co. 1). La L. 189/2002 ha eliminato dal testo unico tale disposizione, reintroducendone una analoga, ma di carattere transitorio, che prevede la possibilità di accoglienza dei clandestini nei centri di accoglienza fino alla predisposizione di una adeguata rete di centri di permanenza temporanea e di assistenza (art. 34, co. 4, della L. 189/2002).

Un’altra modifica apportata dalla L. 189/2002 consiste nella specificazione che le misure di integrazione sociale sono riservate agli stranieri in regola con le norme relative al soggiorno, precludendone l’accesso agli irregolari e clandestini (art. 40, co. 1-bis). Si tratta di una disposizione che, pur collocata nell’ambito delle norme sui centri di accoglienza, sembra avere un carattere generale, coinvolgendo tutti gli strumenti di integrazione.

È inoltre stabilito il principio dell’accesso degli stranieri (regolari) agli alloggi sociali (pensionati) e alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Anche in questo caso, si registra l’intervento della L. 189/2002 che ha abrogato il co. 5 dell’art. 40, che prevedeva la concessione di contributi regionali agli enti locali per la ristrutturazione di immobili pubblici da destinare agli stranieri regolari; e ha introdotto alcune condizioni ulteriori per l’accesso alle graduatorie delle case popolari da parte degli stranieri (permesso di soggiorno almeno biennale e svolgimento di una regolare attività lavorativa).

 

L’art. 41 del testo unico estende a favore degli stranieri in possesso della carta o del permesso di soggiorno (di durata non inferiore a un anno) anche l’accesso ai servizi socioassistenziali organizzati sul territorio[350].

 

La legge finanziaria 2001 (art. 80, co. 19)[351] ha circoscritto la portata della disposizione precisando che l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno (e non anche a coloro in possesso del semplice permesso di soggiorno); per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.

L’integrazione sociale degli stranieri

Il testo unico individua una pluralità di attività e di interventi finalizzati a garantire, da parte dei soggetti pubblici e delle associazioni di volontariato, l’integrazione sociale degli stranieri soggiornanti in Italia (art. 42). In particolare, lo Stato, le regioni e gli enti locali, in collaborazione con le associazioni del settore devono favorire tutte le iniziative volte sia a diffondere la conoscenza dei diritti e doveri degli stranieri nella società italiana, sia la valorizzazione delle culture dei Paesi di origine.

Per la promozione dell’integrazione il testo unico prevede l’istituzione di appositi organismi.

Presso il CNEL, opera l’Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale dei cittadini stranieri a livello locale, previsto dall’art. 42, co. 3 del T.U., insediatosi il 10 dicembre 1998.

L’Organismo di coordinamento promuove il confronto fra soggetti istituzionali e sociali a livello locale al fine di individuare e valutare percorsi e modelli efficaci di intervento.

Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è inoltre istituita una Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, si tratta di organo prevalentemente consultivo con il compito di verificare l’attuazione del testo unico e di elaborare proposte e suggerimenti per una migliore integrazione degli stranieri. La Consulta, inoltre, acquisisce le osservazioni degli enti e delle associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati in vista dell’elaborazione del documento di programmazione triennale.

Il testo unico prevede l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di un Fondo nazionale per le politiche migratorie (art. 45) e di una Commissione per le politiche di integrazione (art. 46).

Il Fondo nazionale per le politiche migratorie è destinato a finanziare una pluralità di iniziative e interventi richiamati in precedenti articoli del decreto; tra di essi si segnalano quelli relativi alle misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali, all’istruzione degli stranieri e all’educazione interculturale, ai centri di accoglienza, e alle misure di integrazione sociale. L’entità della dotazione del Fondo è disposta direttamente dal testo unico per il triennio 1997/1999, per gli anni successivi, la determinazione degli importi è fissata dalla Tabella C della legge finanziaria, ai sensi della L. 468/1978. Si prevede comunque che nel fondo possano poi confluire eventuali ulteriori risorse di entrata provenienti da privati, da organizzazioni internazionali e dall’Unione europea. Il Fondo è annualmente ripartito con D.P.C.M., di concerto con i ministri interessati.

Lo Stato, le regioni e gli enti locali sono tenuti ad adottare, nelle materie di propria competenza, programmi annuali o pluriennali delle iniziative e attività concernenti l’immigrazione, con particolare riguardo a quelle attuative del testo unico e del regolamento di attuazione, alle attività culturali, formative, informative, di integrazione e di promozione di pari opportunità. I programmi sono adottati se-condo i criteri e le modalità indicati dal regolamento di attuazione e indicano le iniziative pubbliche e private prioritarie per il finanziamento da parte del Fondo, compresa l’erogazione di contributi agli enti locali per l’attuazione del programma.

La Commissione per le politiche di integrazione, con sede operativa presso la Presidenza del Consiglio, ha i compiti di predisporre per il Governo, anche ai fini dell’obbligo di riferire al Parlamento, il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati, di formulare proposte di interventi di adeguamento di tali politiche nonché di fornire risposta a quesiti posti dal Governo concernenti le politiche per l’immigrazione, interculturali, e gli interventi contro il razzismo. La Commissione ha curato due rapporti sull’attuazione delle politiche per l’integrazione, nel 1999 e nel 2000. Non risulta che nella XIV legislatura la Commissione si sia costituita.

Tra le strutture attive nelle politiche dell’integrazione si ricordano i Consigli territoriali per l’immigrazione, istituiti dall’art. 3, co. 6, T.U., operanti presso le prefetture e composti dai rappresentanti delle amministrazioni locali dello Stato, delle regioni, degli enti locali e dalle associazioni di settore con compiti di analisi delle esigenze e di promozione degli interventi a livello locale.

Lotta alla discriminazione razziale

Nell’ambito delle azioni per l’integrazione degli immigrati, il testo unico prevede alcune disposizioni volte a contrastare la discriminazione razziale.

In particolare gli articoli 43 e 44 recano rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione[352].

L’art. 43 del testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente, operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

 

In particolare sono individuati i seguenti atti di discriminazione in ragione dell’appartenenza a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità :

§         compimento o omissione di un atto ingiustamente discriminatorio nei confronti di un cittadino straniero, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un servizio di pubblica utilità;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire beni o servizi offerti al pubblico;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         azioni od omissioni dirette ad impedire l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         atti o comportamenti compiuti dal datore di lavoro o dai suoi preposti diretti a discriminare anche indirettamente il lavoratore straniero. La disposizione fornisce, inoltre, una individuazione dei criteri in base ai quali individuare le fattispecie di “discriminazione indiretta”: è da considerarsi tale ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

L’articolo 44 del testo unico sull’immigrazione istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.

Si prevede la possibilità di agire in giudizio avanti al tribunale civile in composizione monocratica con un ricorso privo di formalità, teso ad ottenere un provvedimento, impugnabile davanti al tribunale collegiale, che, eventualmente, anche in via di urgenza, possa rimuovere gli effetti della discriminazione e risarcire il danno subito. L’inosservanza del provvedimento è perseguita penalmente.

Quando si tratti di discriminazione di carattere collettivo in ambito lavorativo, il ricorso può essere presentato anche dalle maggiori organizzazioni sindacali, e sono previste sanzioni accessorie per le aziende[353].

Infine, si prevede l’istituzione ad opera delle regioni di centri di informazione, assistenza legale e osservazione sull’andamento del fenomeno.

Si ricorda, inoltre, che la citata Commissione per le politiche dell’integrazione esplica la sua attività consultiva nei confronti del Governo anche in relazione agli interventi contro il razzismo (vedi sopra).

Le norme sopra descritte non esauriscono quanto previsto dall’ordinamento sul contrasto alla discriminazione razziale.

 

Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di discriminazione razziale è costituito dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654[354], di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.

La Convenzione condanna qualsiasi forma di discriminazione razziale, ed in particolare le forme più estreme quali la segregazione razziale e l’apartheid.

Gli Stati contraenti si impegnano da un lato, a non porre in essere pratiche di discriminazione razziale e, dall’altro, ad adottare provvedimenti volti ad eliminare tali pratiche, ove esistano.

In particolare, si prevede che ciascuno degli Stati che aderiscono alla Convenzione modifichi la propria legislazione penale nel senso di prevedere i delitti di propaganda e di violenza razziale. Tali modifiche sono state apportate nel nostro ordinamento dalla stessa legge n. 654 del 1975 di ratifica della Convenzione, ed in particolare dall’articolo 3 che ha introdotto alcune nuove fattispecie penali, quali l’attività di discriminazione razionale, la diffusione idee razziste, la violenza per motivi razziali, la partecipazione ad organizzazioni o movimenti razzisti. Il D.L. n. 122 del 1993 [355].(il c.d. “decreto Mancino”) ha provveduto ad inasprire le pene per le fattispecie di cui sopra e ha introdotto la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico. Per qualsiasi reato, ad eccezione di quelli per i quali è previsto l’ergastolo, se commesso per le finalità di cui sopra, la pena viene aumentata fino alla metà. Il D.L. 122 ha introdotto, inoltre, due nuove fattispecie di reato: la prima incrimina il comportamento di chiunque in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli di tipo razzista, o basati sull’odio etnico, nazionale o religioso propri o usuali di organizzazioni razziste; la seconda fattispecie di reato consiste nel divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche per i soggetti che vi si rechino con gli emblemi o i simboli sopracitati.

L’articolo 5 della Convenzione, inoltre, impegna gli Stati contraenti ad adoperarsi per garantire - senza distinzione di razza o nazionalità – una serie di diritti fondamentali quali il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, il diritto alla sicurezza e all’integrità personale, i diritti politici ed altri diritti civili (tra i quali il diritto di circolazione, alla libertà di pensiero, di religione, di associazione, diritto al lavoro, alla sanità, all’educazione).

Si segnalano i seguenti provvedimenti recanti ulteriori disposizioni per la repressione dei fenomeni di discriminazione razziale:

§         L. 11 marzo 1952, n, 153, che ratifica della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Le norme attuative della Convenzione sono state adottate con la legge 9 ottobre 1967, n. 962, recante la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio: l’articolo 8 prevede la reclusione da 3 a 12 anni per il delitto di istigazione a commettere genocidio e apologia di genocidio;

§         L. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. “Legge Scelba”) relativa al divieto di ricostituzione del partito fascista: l’art. 1 comprende la propaganda razzista tra le caratteristiche che denotano un movimenti o un partito come fascista; l’art. 4 (come modificato dal DL 122/93) che comprende tra le forme di apologia del fascismo l’esaltazione di principi razzisti;

§         L. 8 marzo 1989, n. 101, di recepimento dell’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche: l’art. 2 stabilisce che le fattispecie di reato connessi alla discriminazione razziale (di cui all’articolo 3 della L. 654 del 1975), si intendono riferiti anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso.

 

Nella XIV legislatura alla articolata disciplina in materia si è aggiunto un complesso organico di disposizioni in materia di non discriminazione contenuto m dai decreti legislativi 215 e 216 del 2003, entrambi di attuazione comunitaria, volti a tutelare la parità di trattamento tra le persone, il primo in via generale, il secondo per quanto riguarda specificatamente le condizioni di lavoro (v. anche parte I, capitolo Pari opportunità e non discriminazione e capitolo Parità di trattamento nel lavoro, nel dossier relativo alla Commissione Lavoro).

Il D.Lgs. 215/2003[356], di attuazione della direttiva 2000/43/CE, reca disposizioni relative della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Il provvedimento dispone a tal fine le misure necessarie per evitare che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione, diretta e indiretta, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:

§         su donne e uomini;

§         sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

 

Nella nozione di discriminazione indiretta si fa riferimento, quali possibili fonti di discriminazione, oltre che ad una disposizione, a un criterio e una prassi anche a “un atto, un patto o un comportamento”.

Il provvedimento, all’articolo 3, specifica che il principio di parità di trattamento senza distinzioni di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato, con particolare riferimento alle seguenti aree:

§         accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;

§         occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;

§         accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

§         attività nell’ambito di organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;

§         protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;

§         assistenza sanitaria;

§         prestazioni sociali;

§         istruzione;

§         accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.

Il decreto disciplina anche la tutela giurisdizionale dei diritti, rinviando alla procedura di azione civile fissata dall’art. 44 del testo unico (vedi sopra), integrandola con alcuni strumento correlati, quali la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n.165 del 2001, il regime probatorio di cui all’articolo 2729 del codice civile, la possibilità per il giudice (oltre che di risarcire il danno anche non patrimoniale e di impartire le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento discriminatorio) di ordinare l’adozione di un piano di rimozione, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale finalizzata ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento e di ordinare la pubblicazione della sentenza.

Da rilevare il riconoscimento della legittimazione ad agire da parte delle associazioni e agli enti inseriti in un apposito registro approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità[357].

Viene inoltre istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità l’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica[358].

Sulla stessa linea il Governo ha promosso la costituzione di un Comitato interministeriale contro la discriminazione e l’antisemitismo, che opera presso il Ministero dell’interno ed è presieduto dal direttore del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione[359]. Il Comitato ha il compito di vigilare sui pericoli di regressione verso forme di intolleranza, razzismo, xenofobia e antisemitismo e di individuare tutte le misure necessarie per contrastare ogni comportamento ispirato da odio religioso o razziale.

 

Il D.Lgs. 216/2003[360], di attuazione della direttiva 2000/78/CE, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, contro ogni forma di discriminazione legata a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale.

 

Per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta (art. 2). In particolare si ha discriminazione:

§         quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione diretta);

§         quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione indiretta);

§         quando vengono perpetrate molestie o comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo;

Dopo aver stabilito l’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento ed aver enucleato una serie di ipotesi che non costituiscono discriminazione (art. 3), il decreto legislativo disciplina la tutela giurisdizionale dei suddetti diritti, riconoscendo anche il ruolo delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto di chi abbia subito discriminazioni (artt. 4 e 5).

 

Si ricorda, infine, il D.Lgs. 30/2006[361], in materia di professioni (v. scheda Professioni: i principi fondamentali, nel dossier relativo alla Commissione Giustizia) che vieta, nell’esercizio dell’attività professionale, qualsiasi discriminazione, che sia motivata da ragioni sessuali, razziali, religiose, politiche o da ogni altra condizione personale o sociale, secondo quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro (art. 1, co. 2).


Immigrazione – La regolarizzazione

Le modalità

La legge 189/2002, oltre a modificare alcuni aspetti della disciplina dell’immigrazione, contenuta nel testo unico del 1998, ha disposto una regolarizzazione dei rapporti di lavoro prestato da cittadini non comunitari come badanti o come lavoratori domestici.

Successivamente, la procedura di emersione è stata estesi a tutti i tipi di lavoro con il decreto legge 195/2002[362]

 

L’operazione di regolarizzazione fa seguito ad iniziative analoghe adottate negli anni precedenti (nel 1986, 1990, 1995, 1998), sempre in occasione di interventi normativi di modifica della disciplina dell’immigrazione che appunto in quanto destinate a mutare il quadro di riferimento relativo alle regole a agli obblighi di soggiorno, provvedono contestualmente a sanare le eventuali irregolarità precedenti.

 

Coloro che nei tre mesi[363] antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 189 (10 settembre 2003) avevano occupato alle proprie dipendenze personale di origine non comunitaria irregolarmente poteva denunciare (entro l’11 novembre 2003) la sussistenza del rapporto di lavoro alla prefettura-ufficio territoriale del Governo della propria provincia presentando una dichiarazione presso gli uffici postali.

La dichiarazione di emersione, oltre a contenere le generalità del datore di lavoro e del lavoratore, doveva indicare le modalità di impiego e della retribuzione convenuta e l’impegno a stipulare il contratto di soggiorno per lavoro di cui all’art. 5-bis del T.U. Essa doveva essere accompagnata da un attestato di pagamento di un contributo forfetario per ciascun lavoratore e, nel caso di lavoratori adibiti all’assistenza personale, da certificazione medica della patologia del componente la famiglia alla cui assistenza il lavoratore era destinato.

Veniva esclusa la possibilità di presentare istanza di regolarizzazione nei seguenti casi:

§         per coloro nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno (salvo che sussistano le condizioni per la revoca del provvedimento in presenza di circostanze obiettive riguardanti l’inserimento sociale).

§         per coloro che risultassero segnalati ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato;

§         per i denunciati per uno dei reati indicati negli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, salvo che il procedimento penale si sia concluso con un provvedimento che abbia dichiarato che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l’interessato non lo ha commesso ovvero nei casi di archiviazione previsti dall’articolo 411 del codice di procedura penale, ovvero risultino destinatari dell’applicazione di una misura di prevenzione o di sicurezza, salvi, in ogni caso, gli effetti della riabilitazione.

 

La Corte costituzionale (sentenza 78/2005) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questa ultima disposizione (presente sia nell’art. 33, comma 7, lettera c), della legge n. 189 del 2002, sia nell’art. 1, comma 8, lettera c), del D.L. 195/2002) nella parte in cui non consente la regolarizzazione del lavoratore extracomunitario denunciato per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza. La Corte ha giudicato contrario al principio di ragionevolezza l’automatismo delle conseguenze collegate alla sola denuncia, in quanto atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto, e pertanto ha ritenuto irragionevole una normativa che fa derivare dalla denuncia “conseguenze molto gravi in danno di chi della medesima è soggetto passivo, imponendo il rigetto dell’istanza di regolarizzazione che lo riguarda e l’emissione nei suoi confronti dell’ordinanza di espulsione; conseguenze tanto più gravi qualora s’ipotizzino denunce non veritiere per il perseguimento di finalità egoistiche del denunciante e si abbia riguardo allo stato di indebita soggezione in cui, nella vigenza delle norme stesse, vengono a trovarsi i lavoratori extracomunitari”.

I risultati

Il termine ultimo per la presentazione delle richieste di regolarizzazione è stato fissato all’11 novembre 2003[364]. L’esame delle domande si è concluso tra la fine del 2003 e i primi mesi del 2004.

 

I risultati definitivi della regolarizzazione (si veda la tabella) sono contenuti nella documentazione trasmessa l’11 novembre 2004 dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Ministero dell’interno alla Commissione bicamerale Schengen. La documentazione è stata fornita in occasione dell’audizione del prefetto Alessandro Pansa nell’ambito dell’indagine conoscitiva in materia di immigrazione svolta dalIa Commissione[365].

Il numero di istanza presentate (703.879) risulta leggermente superiore a quello delle persone per le quali è stata presentata domanda (693.937), poiché più datori di lavoro potevano presentare istanza per lo stesso lavoratore[366].

Nel complesso sono stati regolarizzati 641.638 stranieri, di cui 315.199 lavoratori domestici e 326.439 lavoratori appartenenti ad altre categorie[367].

 

Regolarizzazione immigrati 2002 (L. 189/2002 e L. 222/2002). Bilancio definitivo

 

Stranieri per i quali sono state presentate le istanze di regolarizzazione

693.937

Stranieri ai quali è stato rilasciato il permesso di soggiorno

641.638

Stranieri ai quali è stato rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi della legge “Bossi-Fini”

578.706

Stranieri ai quali è stato rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 22 T.U.

62.932

Colf/badanti

315.199

Lavoratori subordinati

326.439

Stranieri per i quali le istanze sono in istruttoria

3.079

Stranieri per quali non è stato concesso il permesso di soggiorno

49.220

Istanze archiviate per mancata presentazione

21.056

Istanze rigettate:

28.164

stranieri espulsi a seguito di rigetto istanza di emersione

3.518

espulsioni da eseguire a seguito di rigetto istanza di emersione

6.227

contenzioso

18.419

Fonte: Ministero dell’interno. Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera, 11 novembre 2004

I costi

La procedura di regolarizzazione prevedeva la presentazione presso gli uffici postali da parte del datore di lavoro di una dichiarazione di emersione diretta alla prefettura-ufficio territoriale del governo.

Tra i documenti da allegare alla dichiarazione, vi era l’attestato di pagamento di una somma forfetaria di € 290 per collaboratori domestici e badanti e di € 700 per gli altri lavoratori.

Tali importi sono stati devoluti in gran parte all’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) per i contributi previdenziali dovuti dal datore di lavoro per ciascun lavoratore e non versati nel periodo di impiego irregolare.

Una quota dei contributi (€ 22 euro per ciascun lavoratore domestico e € 31 per gli altri) sono state destinate alla copertura delle spese necessarie all’organizzazione e alla gestione delle procedure di emersione a carico delle amministrazioni del Ministero dell’interno e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, rispettivamente due e un terzo dell’ammontare complessivo[368], pari a circa 18,7 milioni di euro.

In aggiunta alle risorse derivanti dal gettito del contributo forfetario sono state previste risorse aggiuntive da parte del decreto legge 195/2002 e dall’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3242 del 2002.

 

Un dettagliato esame delle risorse impegnate e delle spese effettuate in connessione con la regolarizzazione è stato affrontato dalla Corte dei conti nell’ambito di uno studio sulla gestione complessiva delle risorse previste per la gestione del fenomeno dell’immigrazione[369].

Si fa presente che l’indagine della Corte dei conti, relativamente alla regolarizzazione, riguarda esclusivamente le spese affrontate dai ministero dell’interno e del lavoro, e non anche quelle eventualmente sostenute dalle Poste italiane (ente pubblico) e dall’INPS.

 

Secondo l’indagine della Corte dei conti, al Ministero dell’interno sono pervenute risorse per 24,5 milioni di euro derivanti sia dal contributo forfetario, sia dal decreto legge 195. A questi devono essere aggiunti 9,5 milioni di euro reperiti nell’ambito del bilancio ordinario dell’amministrazione.

Il Ministero del lavoro ha potuto contare sull’assegnazione di risorse per circa 8 milioni di euro, di cui 6,2 derivanti dal contributo forfetario e 1,9 assegnate dalla citata ordinanza 3242.

Per quanto riguarda le somme effettivamente impegnate, nel complesso l’entità dei costi della regolarizzazione è stata di 40,65 milioni di euro, di cui oltre la metà (circa 21,3 milioni di euro) riferite alle convenzioni con società di lavoro interinale per l’utilizzazione di personale temporaneo.


Immigrazione – Diritto d’asilo e status di rifugiato

Il diritto di asilo è tra i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla nostra Costituzione. L’articolo 10, terzo comma, della Costituzione prevede, infatti, che lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

L’istituto del diritto di asilo non coincide con quello del riconoscimento dello status di rifugiato, per il quale non è sufficiente che nel Paese di origine siano generalmente conculcate le libertà fondamentali, ma il singolo richiedente deve aver subito, o avere il fondato timore di poter subire, specifici atti di persecuzione.

Il dettato costituzionale sul diritto di asilo non è stato attuato, mancando ancora una legge organica che ne stabilisca le condizioni di esercizio, anche se la giurisprudenza ha stabilito la possibilità di riconoscere il diritto di asilo allo straniero anche in assenza di una disciplina apposita[370].

Il riconoscimento del rifugiato è, invece, entrato nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951[371], che definisce lo status di rifugiato, e alla Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990, sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea[372].

Sul piano del diritto interno rileva il decreto-legge n. 416 del 1989[373] (la cosiddetta “legge Martelli”) che disciplina le modalità per il riconoscimento dello status di rifugiato (ma non anche del diritto di asilo).

La L. 189/2002[374] – oltre a intervenire sulla disciplina generale dell’immigrazione, attraverso una revisione del testo unico del 1998[375] – ha integrato le disposizioni sul diritto di asilo contenute nella legge Martelli.

La Convenzione di Ginevra

Secondo il diritto internazionale, presupposto per l’applicazione del diritto di asilo è la nozione di rifugiato internazionale, cioè di colui che, direttamente (mediante provvedimento di espulsione o impedimento al rientro in patria) o indirettamente (per l’effettivo o ragionevolmente temuto impedimento dell’esercizio di uno o più diritti o libertà fondamentali), sia stato costretto dal Governo del proprio Paese ad abbandonare la propria terra e a “rifugiarsi” in un altro Paese, chiedendovi asilo.

Questa nozione risulta ulteriormente specificata dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra[376], che indica i seguenti motivi per i quali si ha diritto allo status di rifugiato:

§         discriminazioni fondate sulla razza;

§         discriminazioni fondate sulla nazionalità (cittadinanza o gruppo etnico);

§         discriminazioni fondate sull’appartenenza ad un determinato gruppo sociale;

§         limitazioni al principio della libertà di culto;

§         persecuzione per le opinioni politiche.

La cessazione dello status di rifugiato avviene quando (sez. C dell’art. 1 della Convenzione):

§         il rifugiato abbia nuovamente usufruito della protezione del Paese di cui abbia la cittadinanza oppure ne riacquisisca volontariamente la cittadinanza;

§         il rifugiato sia tornato a stabilirsi volontariamente nel proprio Paese;

§         il rifugiato abbia acquisito una nuova cittadinanza e goda della protezione del Paese che gliel’ha concessa;

§         siano venute meno le condizioni in seguito alle quali la persona abbia ottenuto il riconoscimento della qualifica di rifugiato.

Le sezioni D, E ed F dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra individuano invece le cause di esclusione, precludendo dai benefici della Convenzione le seguenti categorie di persone:

§         coloro che beneficino attualmente ed effettivamente della protezione o assistenza da parte di organi o agenzie delle Nazioni Unite diverse dall’Alto Commissariato per i rifugiati;

§         i rifugiati o profughi nazionali, cioè i cittadini di un Paese che abbiano la propria residenza abituale in un altro Paese e che, a causa di eventi bellici, politici o altre situazioni verificatesi in tale Paese, volontariamente o forzatamente lo abbandonano o non vi facciano rientro e si rifugiano nel Paese di cui sono cittadini;

§         coloro che non sono degni di protezione internazionale.

L’articolo 32 della Convenzione prevede espressamente il divieto di espulsione del rifugiato che risieda regolarmente nel territorio di uno degli Stati contraenti se non per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. In tali casi, il rifugiato dovrà essere messo comunque in condizione di far valere le proprie ragioni e gli dovrà essere accordato un periodo di tempo per cercare di essere ammesso in un altro Paese.

Il principio del divieto di espulsione è stato recepito nel testo unico del 1998 (art. 19) dove si fa divieto di procedere all’espulsione ed al respingimento se nello Stato verso cui lo straniero è estradato, egli può essere oggetto di persecuzione “per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali” (v. scheda Immigrazione – Il contrasto all’immigrazione clandestina).

La Convenzione di Dublino

L’Italia, con la L. 523/1992[377], ha ratificato la Convenzione di Dublino sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea, in ottemperanza alle statuizioni della Convenzione di Ginevra.

In particolare, gli Stati membri si impegnano affinché la domanda di asilo loro presentata da parte di qualsiasi straniero sia esaminata dallo Stato competente (i criteri di individuazione della competenza sono indicati dagli artt. 5-8 della Convenzione) in conformità alla sua legislazione ed agli obblighi internazionali. È sancito il diritto da parte di ogni Stato membro di prendere in esame la domanda di asilo, liberando quindi lo Stato competente.

Lo Stato competente ha l’obbligo:

§         di accettare il richiedente asilo che abbia presentato domanda in altro Stato membro o di riammetterlo se si trova irregolarmente in altro Stato membro;

§         di condurre a termine l’esame della domanda.

Gli Stati membri hanno poi l’obbligo:

§         di procedere a scambi reciproci riguardanti la legislazione nazionale e i dati statistici relativi al numero dei richiedenti asilo;

§         di comunicare a qualsiasi altro Stato membro che ne faccia domanda le informazioni di carattere personale necessarie per determinare lo Stato competente per l’esame della domanda e l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla Convenzione, ovvero (previo consenso dell’interessato) i motivi invocati dal richiedente a sostegno della domanda e della decisione presa nei suoi confronti.

La “legge Martelli” e la “legge Bossi-Fini”

La modalità per il riconoscimento dello status di rifugiato sono contenute nel citato D.L. 416/1989 e nel regolamento di attuazione, il D.P.R. 136/1990[378].

Il D.L. 416/1989 ha pienamente recepito i princìpi propri della Convenzione di Ginevra, in particolare facendo venire meno la “riserva geografica” inizialmente posta dall’Italia al momento di aderire alla Convenzione, in base alla quale l’Italia si impegnava all’osservanza dell’atto solo nei confronti degli stranieri provenienti da determinati Paesi. Attualmente pertanto il riconoscimento dello status di rifugiato interessa gli stranieri provenienti da qualsiasi Paese estero.

La legge Martelli è stata modificata nel corso della XIV legislatura dalla L. 189/2002 (c.d. “legge Bossi-Fini”).

Si tratta di un intervento di carattere transitorio adottato in attesa di una disciplina organica dell’intera materia. Infatti, l’obiettivo della legge è soprattutto di risolvere il problema dell’abuso delle richieste di asilo, presentate per aggirare le norme sull’immigrazione.

 

Tale finalità è chiaramente espressa nella relazione illustrativa del disegno di legge presentato alle Camere: “[…] il disegno di legge pone mano ad un vecchio problema ancora irrisolto. In attesa di una disciplina organica in materia di diritto di asilo, che si ritiene comunque di rinviare a quando saranno definite le procedure minime – identiche per tutta l’Unione europea – attualmente in discussione a Bruxelles, mutuando proprio le norme attualmente al vaglio del Consiglio europeo, il Governo ha ritenuto almeno di risolvere il problema costituito dalla domande di asilo realmente strumentali, ossia presentate al solo scopo di sfuggire all’esecuzione di un provvedimento di allontanamento ormai imminente. Finora la normativa vigente – l’articolo 1 della cosiddetta legge Martelli – imponeva non solo la sospensione del provvedimento di allontanamento, ma anche la concessione di un permesso di soggiorno provvisorio in attesa del giudizio della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato che non sarebbe mai arrivato in quanto circa il novanta per cento dei presentatori di queste domande strumentali facevano poi perdere le loro tracce. La disciplina introdotta, invece, precedendo l’approvazione della direttiva in esame, instaura – per quelle domande che si ritengono manifestamente infondate – una ‘procedura semplificata’ che si concluderà entro i tempi previsti per il trattenimento nei centri di permanenza temporanei”[379].

 

Le finalità sopra indicate sono perseguite in primo luogo attraverso il decentramento della procedura di esame delle domande di riconoscimento, al fine di accelerarne i tempi, con la costituzione di Commissioni territoriali ad hoc a cui sono trasferiti gran parte dei compiti della commissione centrale disciplinata dalla legge Martelli.

Inoltre, sempre con l’obiettivo di accelerare i tempi di esame, viene introdotta una procedura semplificata nei casi di istanze di asilo che, per le circostanze di presentazione, destino dubbi sulle reali motivazioni.

L’attuazione di queste disposizioni era subordinata all’adozione di un apposito regolamento, adottato successivamente con il D.P.R. 303/2004[380] che affianca e integra il regolamento di attuazione delle legge Martelli.

Secondo la disciplina risultante dalla legge Martelli e dalle modifiche apportate dalla L. 189/2002, lo straniero cui venga riconosciuta la condizione di rifugiato politico ha diritto all’ingresso e al soggiorno nel nostro Paese.

Lo straniero che intende entrare nel territorio nazionale per essere riconosciuto rifugiato deve rivolgere istanza motivata all’ufficio di polizia di frontiera. Sino alla definizione della procedura di riconoscimento, allo straniero viene rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo (art. 1, comma 5, D.L. 416/1989).

L’accesso alla procedura di asilo rimane disciplinata dalle disposizioni previste dall’art. 1 del D.L. 416/1989: non è consentito l’ingresso in Italia agli stranieri che intendano chiedere il riconoscimento della condizione di rifugiato qualora l’interessato:

§         sia stato già riconosciuto rifugiato in altro Paese;

§         provenga da altro Paese, diverso da quello di appartenenza, che abbia aderito alla convenzione di Ginevra, nel quale abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerandosi tale il tempo necessario per il transito nel relativo territorio sino alla frontiera italiana;

§         abbia commesso crimini di guerra o altri gravi delitti nel proprio Paese;

§         sia stato condannato in Italia per uno dei delitti previsti dall’articolo 380 c.p.p.[381];

§         risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato o appartenente ad associazioni di tipo mafioso o terroristiche o dedite al traffico di stupefacenti.

In tali casi lo straniero viene respinto alla frontiera.

 

La L. 189/2002 ha introdotto la previsione del trattenimento in appositi centri del richiedente asilo (art. 1-bis del D.L. 416/1990, introdotto dalla legge). Il trattenimento è disposto dal questore, per il tempo strettamente necessario alla definizione delle autorizzazioni alla permanenza nel territorio dello Stato. Il provvedimento di trattenimento è facoltativo nei seguenti casi:

§         per verificare la nazionalità o identità, qualora egli non sia in possesso dei documenti di viaggio o d’identità;

§         per verificare gli elementi su cui si basa la domanda di asilo;

§         in dipendenza del procedimento concernente il riconoscimento del diritto ad essere ammesso nel territorio dello Stato.

Il trattenimento è, invece, disposto in via obbligatoria:

§         a seguito della presentazione di una domanda di asilo presentata dallo straniero fermato per avere eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno irregolare;

§         a seguito della presentazione di una domanda di asilo da parte di uno straniero già destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento.

In quest’ultimo caso lo straniero viene trattenuto nei centri di permanenza temporanea e assistenza (v. scheda Immigrazione – Contrasto dell’immigrazione clandestina) Si tratta di strutture già previste dal testo unico sull’immigrazione e destinate all’accoglienza degli immigrati extracomunitari in attesa di espulsione (art. 14). In tutti gli altri casi, il trattenimento viene attuato in appositi centri di identificazione, istituiti dalla L. 189/2002 e da disciplinare con il regolamento di attuazione.

Nei casi di trattenimento non viene rilasciato il permesso di soggiorno temporaneo.

Competenti alla valutazione delle domande dei richiedenti asilo sono le Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato operanti presso le prefetture-uffici territoriali del Governo. Esse sono state introdotte dalla L. 189/2002 “per ridurre i tempi di esame delle istanze di asilo sostituendo ad un unico organi centrale competente una articolazione di organi a livello provinciale”[382].

In precedenza, l’organo competente era la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, disciplinata dal DPR 136/1990, ora trasformata dalla L. 189/2002 in Commissione nazionale per il diritto di asilo, alla quale sono affidati compiti di indirizzo e coordinamento delle commissioni territoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle medesime commissioni, di raccolta di dati statistici oltre che poteri decisionali in tema di revoche e cessazione dello status concessi (art. 1-quinquies D.L. 416/1989, introdotto dalla legge 189).

 

La Commissione nazionale è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta congiunta dei Ministri dell’interno e degli affari esteri. È presieduta da un prefetto e composta da un dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri, da un funzionario della carriera diplomatica, da un funzionario della carriera prefettizia del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione e da un dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza. Alle riunioni partecipa un rappresentante del delegato in Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.

 

Il procedimento relativo all’esame delle domande di asilo, disciplinato in precedenza principalmente dal regolamento di attuazione delle legge Martelli, il più volte citato D.P.R. 136/1990, è stato riformulato ad opera della L. 189/2002. L’innovazione principale consiste nella distinzione tra una procedura ordinaria, destinata alla generalità dei casi, e una procedura semplificata da attivare per l’esame delle domande di asilo presentate dagli stranieri fermati in condizioni irregolari, per esempio per aver eluso i controlli di frontiera, e da coloro che sono già destinatari di un provvedimento di espulsione o di respingimento. Si tratta delle stesse categorie per i quali è disposto il trattenimento obbligatorio nei centri di identificazione (per gli irregolari) o nei centri temporanei di permanenza (per coloro che devono essere espulsi o respinti).

La procedura ordinaria (art. 1-quater, D.L. 416/1989) prevede che le commissioni, una volta ricevuta dal questore la documentazione necessaria per il riconoscimento dello status di rifugiato (da trasmettere entro due giorni), provvedono entro trenta giorni all’audizione del richiedente, adottando la decisione nei successivi tre giorni. Nel corso dell’audizione è prevista la possibilità di ricorrere all’ausilio di interpreti e del colloquio viene redatto un verbale. Le decisioni devono essere motivate e comunicate all’interessato con l’indicazione delle modalità di impugnazione.

In attesa della conclusione del procedimento il questore rilascia un permesso di soggiorno valido per tre mesi, eventualmente rinnovabile (art. 2, comma 4, D.P.R. 303/2004).

Le decisioni delle commissioni territoriali possono essere impugnate davanti al il tribunale in composizione democratica.

Nel caso della procedura semplificata (art. 1-ter D.L. 416/1989) sono dimezzati i tempi a disposizione della commissione territoriale per l’esame dell’istanza: quindici giorni in luogo di trenta. Inoltre, per coloro che sono destinatari di un provvedimento di espulsione e sono già trattenuti in un centro di permanenza temporanea, il trattenimento è prolungato di trenta giorni, su decisione dell’autorità giudiziaria e dietro richiesta del questore.

L’allontanamento non autorizzato dai centri di identificazione equivale alla rinuncia della domanda.

Anche la procedura semplificata prevede la possibilità di impugnare la decisione della commissione territoriale: in primo luogo è possibile chiederne il riesame davanti alla stessa commissione territoriale che si è espressa in prima istanza, integrata da un componente della commissione nazionale. Inoltre, è possibile presentare ricorso presso il tribunale in composizione democratica. Il ricorso – che può essere presentato anche all’estero tramite le rappresentanze diplomatiche – non sospende il provvedimento di allontanamento. Però il prefetto può concedere all’interessato l’autorizzazione a rimanere sul territorio nazionale fino all’esito del ricorso.

Le nuove procedure sopra descritte sono diventate operative solamente con l’entrata in vigore del citato regolamento di attuazione previsto dalla L. 189/2002, adottato con il D.P.R. 303/2004[383].

 

Il regolamento, oltre a disciplinare in modo dettagliato le procedure per l’esame delle domande, istituisce le commissioni territoriali indicando le sedi delle prefetture – uffici territoriali in cui hanno sede (Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone e Trapani) ognuna competente ad esaminare le domande di più province o regioni (art. 12, DPR 303/2004).

Per quanto riguarda i centri di identificazione, il regolamento ne indica solamente il numero (sette, come le commissioni territoriali) rinviando la loro istituzione ad appositi decreti del Ministro dell’interno previo parere della conferenza unificata e delle regioni interessate.

Alla fine del 2005 risultavano in funzione tre centri di identificazione: a Trapani, Crotone e Foggia; quattro altri centri erano in fase di realizzazione (Roma, Milano, Gorizia e Caltanissetta dove dovrebbe essere spostata anche la commissione territoriale di Siracusa)[384]. Pertanto, i luoghi individuati per i centri di identificazione coincidono con le sedi delle commissioni territoriali.

L’assistenza ai rifugiati

I servizi di assistenza e di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati sono svolti principalmente dagli enti locali.

La L. 189/2002 ha soppresso la corresponsione di un contributo di prima assistenza per 45 giorni da parte del Ministero dell’interno in favore dei richiedenti asilo privi di mezzi (art. 1, comma 7, DL 416).

In luogo di tale contributo l’articolo 1-sexies del D.L. 416/1989 introdotto dall’art. 32 della legge 189, disciplina un sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati:

§      consentendo agli enti locali di accogliere nell’àmbito dei servizi di accoglienza da essi apprestati i richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza, ove non ricorrano le condizioni (previste dai precedenti articoli 1-bis e 1-ter) di trattenimento nei centri di identificazione (comma 1);

§      prevedendo (commi 2 e 3) forme di sostegno finanziario apprestate dal Ministero dell’interno e poste a carico di un fondo ad hoc (Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo) istituito dal successivo articolo 1-septies;

§      prevedendo l’attivazione (ad opera del Ministero dell’interno) e l’affidamento, mediante convenzione, all’ANCI di un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza (commi 4-6).

 

Il DL 195/2002, art. 2, comma 8, chiarisce che i soggetti destinatari dei servizi di accoglienza richiamati all’articolo 1-sexies del D.L. 416/1989, sono gli stranieri titolari di permesso umanitario di cui all’articolo 5, comma 6, del testo unico. Ai sensi del citato articolo 5, comma 6, è possibile disporre il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno sulla base di convenzioni o accordi internazionali quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.

 

Il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo (art. 1-septies) destinato a finanziarie le iniziative degli enti locali è alimentato da:

§         apposite risorse iscritte nel bilancio di previsione del Ministero dell’interno;

§         assegnazioni annuali del Fondo europeo per i rifugiati[385];

§         donazioni private.

Le disponibilità del Fondo sono assegnate annualmente con decreto del Ministro dell’interno, e sono destinate alle iniziative dei comuni e province, in misura non superiore all’80% del costo complessivo di ciascuna iniziativa territoriale (artt. 1-sexies e 1- septies D.L. 416/1989).

 

Con il decreto del Ministro dell’interno del 23 luglio 2003 si è provveduto alla prima ripartizione tra i comuni del fondo per un importo complessivo di circa 9 milioni di euro per l’esercizio 2003, per il 2004 lo stanziamento è stato di 9,7 milioni di euro (decreti 25 maggio e 26 novembre 2004.[386]

 

La costituzione del Fondo nazionale istituzionalizza l’esperienza del Programma nazionale di asilo (PNA), un progetto realizzato dal Ministero dell’interno, dall’Alto Commissariato ONU per i rifugiati (ACNUR) e dall’Associazione Nazionale dei Comuni italiani (ANCI). Il progetto ha origine dal protocollo d’intesa siglato il 20 ottobre 2000 con il quale le tre istituzioni hanno assunto l’impegno di collaborare per la realizzazione di un coordinamento finalizzato all’individuazione di servizi relativi all’accoglienza e all’assistenza in favore dei profughi stranieri e dei richiedenti asilo e all’integrazione dei rifugiati politici.

Nel primo anno di attività (dall’aprile 2001 al novembre 2002) il PNA ha creato un sistema che coinvolge circa 150 comuni ed ha accolto nei suoi 58 centri distribuiti sul territorio nazionale 2.970 persone.

 

Il sistema nazionale di accoglienza ha trovato il suo completamento con l’adozione del D.Lgs. 140/2005 di attuazione della disciplina comunitaria in materia di accoglienza dei richiedenti asilo[387].

Si prevede che l’accoglienza dei richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza sia disposta preferibilmente presso i servizi attivati dagli enti locali e, in caso di indisponibilità, nei centri di identificazione o nei centri di accoglienza allestiti ai sensi della legge 563/1995 (legge Puglia). Agli interessati è rilasciato il permesso di soggiorno. Qualora dopo sei mesi non sia stata adottata le decisione sulla domanda di asilo, il permesso di soggiorno è rinnovato per sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa.

Le misure di protezione temporanea

Nel caso di profughi che lasciano il proprio Paese non a causa di misure di discriminazione individuale cui siano stati sottoposti, bensì al verificarsi di gravi eventi (guerra civile, violenze generalizzate, aggressioni esterne, catastrofi naturali ecc.) non è prevista nel nostro ordinamento la possibilità di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato.

Tuttavia, il testo unico sull’immigrazione consente di far fronte a emergenze umanitarie causate da eventi eccezionali. In tali circostanze è possibile per il Governo determinare con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri gli interventi di protezione temporanea necessari per accogliere in maniera tempestiva e adeguata le popolazioni sfollate che dovessero raggiungere in massa il territorio italiano (art. 20, D.Lgs. 286/1998).

 

Tale disposizione è stata applicata per la prima volta nel 1999 in occasione della crisi che ha interessato i territori dell’area balcanica, in seguito della quale sono giunti in Italia circa 30.000 stranieri di diversa etnia (kosovari, serbi, montenegrini).

Per oltre 18.000 di loro era stato previsto con il D.P.C.M. 12 maggio 1999 il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione temporanea e l’assistenza in strutture individuate o realizzate nel territorio nazionale con oneri a carico del Ministero dell’interno.

Gli altri 12.000 circa avevano presentato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.

Le proposte di riforma

La I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha approvato l’11 maggio 2004 un progetto di riforma – frutto dell’esame di sei proposte di legge di iniziativa parlamentare - volta a definire una disciplina organica del diritto di asilo (A.C. 1238 e abb.-A).

La proposta di legge ha iniziato l’esame in Assemblea che vi ha dedicato una sola seduta, il 12 luglio 2004, nel corso della quale si è svolta la discussione generale.

 

Il progetto di legge è volto nel contempo a dare attuazione all’art. 10 Cost. che garantisce il diritto dell’asilo politico agli stranieri e all’esecuzione delle convenzioni internazionali tentando di conciliare il tema della sicurezza con quello dell’accoglienza.

In particolare, la proposta individua i titolari del diritto di asilo; definisce la composizione e i compiti delle Commissioni territoriali e della Commissione centrale per il riconoscimento del diritto di asilo; individua in dettaglio le modalità per la presentazione e l’esame delle domande di asilo; stabilisce misure di assistenza e di integrazione in favore dei soggetti richiedenti asilo e specifica i diritti spettanti ai rifugiati.

 

I punti caratterizzanti del testo sono i seguenti:

§      il riconoscimento del diritto di asilo non soltanto a coloro che sono qualificati come rifugiati secondo le Convenzioni internazionali, ma anche a tutti coloro ai quali nel loro paese di origine sono conculcate le libertà democratiche, ossia a coloro cui è impedito l’effettivo esercizio del diritto di espressione e di libertà politiche e democratiche;

§      l’estensione dei diritto di asilo anche al coniuge e al convivente;

§      la costituzione di commissioni competenti ad esaminare le domande di asilo articolate sul territorio che garantiscono tempi più rapidi rispetto alla commissione unica nazionale;

§      la garanzia ai richiedenti l’asilo dell’assistenza tecnico-giuridica e di tempi ragionevoli per l’esame della domanda;

§      la disciplina dei centri di identificazione e introduzione della convalida da parte dell’autorità giudiziaria nel caso di trattenimento dei richiedenti asilo;

§      la possibilità di ricorrere davanti all’autorità giudiziaria in caso di rigetto della domanda.

 


Immigrazione – Il diritto di voto degli stranieri

Le proposte di legge costituzionale

Nel corso della XIV legislatura la I Commissione della Camera dei deputati ha esaminato una serie di proposte di legge, tutte di iniziativa parlamentare ad eccezione di una di iniziativa regionale, volte a concedere il diritto di voto agli immigrati regolari (A.C. 1464, 1616, 2374, 2540, 4326, 4397, 4406 e 4510).

Delle sette proposte parlamentari, sei sono state sottoscritte da deputati dell’opposizione e una da parlamentari di un gruppo di maggioranza (A.C. 4397)[388].

Le proposte di legge, integrando la disciplina recata dall’articolo 48 della Costituzione in materia di titolarità e di esercizio del diritto di voto, estendono agli stranieri il diritto all’elettorato attivo (e in alcuni casi anche di quello passivo) in via generale, rimettendo alla legge ordinaria l’individuazione di limiti, requisiti e modalità; alcune delle proposte limitano tale estensione al voto amministrativo ed introducono direttamente specifici requisiti soggettivi.

L’iter di modifica costituzionale si è rivelato alquanto complesso e la Commissione, che aveva iniziato contestualmente l’esame della revisione della legge sulla cittadinanza (v scheda Immigrazione – L’accesso alla cittadinanza), ha scelto di abbandonare temporaneamente la discussione sul diritto di voto, per concentrarsi sul tema della cittadinanza[389].

Tutte le proposte di legge costituzionale esaminate dalla I Commissione apportano modifiche all’art. 48 Cost., che disciplina la titolarità e l’esercizio del diritto di voto; fa eccezione l’A.C. 4397 (Anedda ed altri) il quale, pur non novellando l’art. 48 Cost., ne integra la disciplina con un successivo art. 48-bis, interamente dedicato al voto degli stranieri non comunitari.

Alcune tra le proposte di legge, oltre che sulla disciplina di cui all’art. 48 Cost., intervengono anche su altre parti della Carta costituzionale.

Le modificazioni e le integrazioni apportate all’articolo 48 della Costituzione

Tutte le proposte integrano la disciplina costituzionale del diritto di voto senza riformulare il testo vigente dell’art. 48, ma inserendo nuovi commi o (A.C. 4397) un articolo aggiuntivo specificamente destinati a regolare la condizione dello straniero residente in Italia.

Le soluzioni scelte si differenziano, peraltro, sotto vari aspetti.

Solo alcune tra le proposte di legge attribuiscono espressamente ai cittadini stranieri sia l’elettorato attivo sia quello passivo. Si tratta degli A.C. 1464, 1616, 4397, 4406, nonché dell’A.C. 2374, in cui l’estensione dell’elettorato passivo risulta dalla nuova formulazione dell’art. 51 Cost. (vedi infra). Gli A.C. 2540, 4326 e 4510 si riferiscono invece (stando alla formulazione testuale), al solo esercizio del diritto di voto.

Due tra le proposte di legge, l’A.C. 2374 (Pisapia ed altri) e l’A.C. 4326 (Diliberto ed altri) si limitano a riconoscere il diritto di voto agli stranieri senza aggiungere particolari limitazioni o requisiti, ma rinviando integralmente alla legge ordinaria la determinazione di questi e delle modalità per l’esercizio del diritto.

Le altre proposte delimitano tale estensione:

§         alle sole elezioni amministrative (ovvero, con diverse formulazioni, alle elezioni regionali ed a quelle presso gli enti locali), risultando esplicitamente escluse le elezioni politiche;

§         ai soli stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale da almeno cinque anni (A.C. 1464, 2540, 4406), tre anni (A.C. 1616), ovvero sei anni (A.C. 4397, 4510).

 

L’A.C. 4397 (Anedda ed altri) introduce ulteriori, articolati requisiti. Il primo comma del nuovo art. 48-bis della Costituzione, introdotto dalla proposta di legge, riconosce infatti il diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni amministrative agli stranieri non comunitari che:

§         hanno raggiunto la maggiore età;

§         soggiornano stabilmente e regolarmente in Italia da almeno sei anni;

§         sono titolari di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi;

§         dimostrano di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari;

§         non sono stati rinviati a giudizio per reati per i quali è obbligatorio o facoltativo l’arresto.

La formulazione proposta riproduce quasi testualmente, fissandoli quali parametri di rango costituzionale, i requisiti che l’art. 9, comma 1, del testo unico sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998) prescrive per il rilascio della carta di soggiorno.

 

Si ricorda che il co. 4 dello stesso art. 9 già prevede che gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e titolari della carta di soggiorno possano partecipare alla vita pubblica locale, “esercitando anche l’elettorato quando previsto dall’ordinamento” (naturalmente tale inciso risulta, allo stato, inoperante) ed in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992.

 

L’A.C. 4397 riconosce, inoltre, il diritto di voto agli stranieri extracomunitari “in conformità alla disciplina prevista per i cittadini comunitari”. A tale riguardo, si ricorda che l’elettorato attivo e passivo degli stranieri, cittadini dell’Unione europea, residenti in Italia non è disciplinato dalla Costituzione, bensì dal già citato art. 19 del Trattato che istituisce la Comunità europea, dalla direttiva 94/80/CEE del 19 dicembre 1994 e dal D.Lgs. 197/1996 (sui quali, vedi infra).

Alla luce di tale disciplina sembra potersi desumere che l’estensione dell’elettorato attivo e passivo agli stranieri extracomunitari concernerebbe, allo stato, le sole elezioni comunali e circoscrizionali, restando esclusa la possibilità per lo straniero di candidarsi alla carica di sindaco.

Il comma 2 dell’articolo 48-bis Cost., introdotto dall’A.C. 4397, subordina altresì l’esercizio del diritto di voto alla formulazione di una richiesta da parte degli interessati ed all’impegno, contestualmente assunto dai medesimi, a rispettare i princìpi fondamentali della Costituzione italiana.

Il solo A.C. 2540 (Bulgarelli ed altri) reca, infine, un’ulteriore innovazione riguardante tutti gli elettori, abbiano o meno la cittadinanza italiana: derogando al vigente primo comma dell’art. 48 (che esige il requisito della maggiore età), esso attribuisce il diritto di voto per i consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali a coloro che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età.

Le modificazioni apportate ad altre disposizioni costituzionali

L’articolo 2 dell’A.C. 5410, di iniziativa dell’Assemblea regionale siciliana, aggiunge un comma all’art. 15 dello Statuto speciale della regione siciliana (approvato con R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455) nel quale ripropone, con riguardo all’elettorato attivo per gli organi di governo degli enti locali nella regione, la medesima disposizione che l’articolo 1 introduce in via generale per gli organi di governo degli enti locali (della quale s’è innanzi detto).

 

Si ricorda che l’art. 15 dello Statuto della regione siciliana attribuisce alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali[390].

 

L’A.C. 1616 (Soda) modifica gli artt. 17, 18 e 49 Cost., sostituendo alle parole “I cittadini hanno diritto” o “Tutti i cittadini hanno diritto” con le parole: “Tutti hanno diritto”. Ne consegue l’esplicita estensione anche ai non cittadini:

§         del “diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”, sancito e regolato dall’art. 17 Cost.;

§         del “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (salvo il divieto delle associazioni segrete o di quelle con finalità politiche e organizzazione militare), di cui all’art. 18 Cost.;

§         del “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come recita l’art. 49 Cost..

Lo stesso A.C. 1616 e l’A.C. 1464 (Turco ed altri) apportano una modifica di analogo tenore all’art. 50 Cost., estendendo ai non cittadini la possibilità di rivolgere petizioni alle Camere “per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”.

Le due proposte di legge intervengono anche sulla disciplina del referendum popolare abrogativo di leggi o di atti aventi forza di legge: aggiungendo un comma all’art. 75 Cost., entrambe estendono la partecipazione ai referendum abrogativi di leggi in materia di autonomie locali agli stranieri residenti in Italia da un certo numero di anni (cinque, per l’A.C. 1464; tre, per l’A.C. 1616), secondo modalità da stabilire con legge ordinaria.

Le stesse proposte di legge (A.C. 1616 e 1464) aggiungono un comma all’art. 51 Cost., disponendo che la legge possa prevedere e disciplinare l’accesso degli stranieri ai pubblici uffici. L’A.C. 1464 limita tale possibilità ai soli servizi sanitari o sociali, escludendo gli uffici preposti a funzioni di pubblica sicurezza, giustizia o difesa dello Stato. L’A.C. 1616 apporta una modifica di coordinamento all’art. 54 Cost., imponendo a tutti (non ai soli cittadini) il dovere di adempiere alle funzioni pubbliche con disciplina ed onore, prestando giuramento ove previsto dalla legge.

L’A.C. 2374 (Pisapia ed altri) interviene sull’art. 51 Cost. in maniera più incisiva: riformulando il primo comma dell’articolo, riconosce il diritto di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza a “tutti i cittadini e gli stranieri dell’uno e dell’altro sesso”.

I princìpi costituzionali in materia di libertà fondamentali degli stranieri

L’articolo 10 della Costituzione prevede, al secondo comma, che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge in conformità alle norme ed ai trattati internazionali.

Ai sensi di tale disposizione la condizione giuridica dello straniero risulta tutelata da una riserva di legge così detta “rinforzata”: è infatti previsto che le norme riguardanti lo status dello straniero debbano essere emanate con legge che a sua volta deve conformarsi a quanto previsto dalle norme internazionali generali e dai trattati stipulati dall’Italia.

Oltre a tale tutela riguardante il regime delle fonti destinate a disciplinare la condizione giuridica dello straniero, la Costituzione offre ai cittadini stranieri presenti nel territorio del nostro Paese anche una tutela di carattere sostanziale. La dottrina[391] prevalente ritiene infatti che le disposizioni della Costituzione riguardanti i diritti fondamentali che non si riferiscono esplicitamente ai soli cittadini italiani, ma garantiscono un diritto in via generale “a tutti” o in modo impersonale ed astratto, debbano ritenersi implicitamente applicabili anche agli stranieri.

Questo orientamento dottrinario ritiene inoltre che agli stranieri vada comunque riconosciuta una serie di diritti e di libertà che, rientrando nell’ambito delle libertà fondamentali, la dizione letterale del testo costituzionale garantirebbe solo nei confronti dei “cittadini” (ad es. per quanto riguarda la libertà di riunione di cui all’art. 17 Cost.).

Gli autori favorevoli alla tesi sopra illustrata ritengono di conseguenza abrogata o solo parzialmente in vigore, per la parte non in diretto contrasto con le norme costituzionali, la previsione dell’art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile (c.d. preleggi) a norma della quale “lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino in condizioni di reciprocità”. La non sussistenza nel nostro ordinamento della clausola di reciprocità, almeno nei termini generali previsti dall’art. 16 delle preleggi, è argomentata dalla dottrina facendo riferimento al tenore generale delle previsioni costituzionali riguardanti i diritti di libertà e alle disposizioni dei trattati internazionali in materia richiamati dalla stessa Costituzione, in base ai quali la tutela dei diritti fondamentali viene garantita ai singoli con riferimento alla loro condizione generale ed astratta di persona umana, indipendentemente dal requisito del possesso di una determinata nazionalità. La clausola della reciprocità potrebbe pertanto essere legittimamente ammessa dalla legge ordinaria solo per il riconoscimento di quei diritti la cui tutela non sia già assicurata indipendentemente dalla condizione di reciprocità, dalla Costituzione o dai trattati internazionali cui abbia aderito il nostro Paese.

Minoritaria rispetto a tale orientamento risulta la tesi di chi ritiene invece non sussistente una tutela diretta dello straniero da parte dei princìpi di libertà enunciati in Costituzione, e pertanto necessario, per il riconoscimento di tali diritti, l’intervento, ex art. 10, secondo comma, Cost., di uno specifico provvedimento legislativo: in caso contrario dovrebbe ritenersi ancora vigente il principio di reciprocità enunciato dalle preleggi.

Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte costituzionale, va rilevato che la Corte non ha attribuito particolare valore discriminante, ai fini della definizione della situazione giuridica degli stranieri, al tenore letterale delle singole disposizioni costituzionali, ritenendo che il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. sia pienamente applicabile anche agli stranieri quando si tratti di stabilire la titolarità in capo a tali soggetti dei diritti fondamentali.

La Corte ha tuttavia ammesso che la posizione dello straniero possa essere legittimamente differenziata per quanto riguarda le modalità di godimento dei diritti fondamentali. È quindi ragionevole, a parere della Corte, che la legge disponga, valutata la particolarità della situazione, un trattamento diverso per lo straniero, che non costituisce una illegittima discriminazione ai suoi danni, poiché la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude che nelle situazioni concrete possano presentarsi, fra soggetti eguali, differenze di fatto che il legislatore può regolare con una discrezionalità che è limitata unicamente dalla razionalità del suo apprezzamento (sentenze 120/1967, 104/1969, 503/1987).

Per quanto riguarda il principio di reciprocità, la Corte ha stabilito che la sua applicazione a particolari situazioni riguardanti l’esercizio di diritti da parte dello straniero non sia illegittimamente stabilita dalla legge purché ciò non abbia incidenza sul godimento da parte dello straniero delle libertà democratiche il cui esercizio sia a lui impedito nel Paese di appartenenza.

Quanto ai vincoli che derivano al nostro Paese in materia di trattamento degli stranieri dall’adesione a trattati e convenzioni internazionali, va segnalata la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale fatta a Strasburgo nel 1992 tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa (ratificata dall’Italia con legge 8 marzo 1994, n. 203: ma sul punto, vedi infra), con la quale vengono garantiti agli stranieri residenti nei Paesi aderenti una serie di diritti civili e politici: in particolare con il capitolo A della Convenzione si impegnano le Parti a riconoscere agli stranieri, alle stesse condizioni previste per i cittadini, le libertà di espressione, di riunione e di associazione, ivi compresa quella di costituire sindacati e affiliarsi ad essi, ferme restando le eventuali limitazioni per ragioni attinenti alla sicurezza dello Stato, alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e ad altri casi di particolare rilievo.

Diritti politici e diritto di voto

A parere della prevalente dottrina, le attuali previsioni costituzionali non consentirebbero l’estensione agli stranieri del riconoscimento dei diritti propriamente politici, il cui esercizio deve pertanto intendersi riservato ai soli cittadini italiani. Si tratta in particolare del diritto di elettorato attivo e passivo (art. 48 Cost.), della facoltà di richiedere i referendum previsti dagli art. 75 e 138 della Costituzione, del diritto di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50 Cost.), del diritto all’accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici (art. 51 Cost.).

Non manca tuttavia in dottrina chi argomenta una diversa tesi isolando, all’interno dei diritti politici, quelli direttamente afferenti all’esercizio della sovranità ex art. 1 Cost. – primo fra i quali l’elettorato attivo e passivo alle elezioni politiche – i quali soltanto risulterebbe impossibile estendere ai cittadini stranieri senza un intervento di revisione costituzionale. Secondo questa tesi, per attribuire il voto nelle elezioni locali agli stranieri residenti in Italia sarebbe dunque sufficiente un intervento legislativo ordinario.

Va comunque ricordato che, nonostante i vincoli costituzionali cui si è fatto cenno, la legge 18 gennaio 1989, n. 9 ha attribuito (non senza la formulazione in sede dottrinaria di dubbi sulla costituzionalità del provvedimento) ai cittadini stranieri appartenenti ai Paesi della Comunità europea il diritto di elettorato passivo per le elezioni dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento europeo[392]. Al tempo dell’entrata in vigore di tale disciplina, l’Italia era l’unico tra i Paesi comunitari ad ammettere tale possibilità, che quindi era prevista al di fuori da qualsiasi condizione di reciprocità. Attualmente la possibilità di elettorato attivo e passivo dei cittadini comunitari in qualsiasi Paese dell’Unione in occasione dell’elezione del Parlamento europeo è stabilita per tutti gli Stati membri sulla base del Trattato dell’Unione europea.

Le più volte citate disposizioni costituzionali che limitano i diritti elettorali ai soli cittadini hanno peraltro indotto il nostro Paese a non dare applicazione al capitolo C della sopra citata Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992 in materia di partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale. Il capitolo in questione impegna le parti a concedere agli stranieri residenti il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni locali. L’Italia si è avvalsa della facoltà (prevista dalla stessa Convenzione) di non aderire a tale parte dell’accordo ritenendosi che l’applicazione di essa avrebbe comportato la modificazione di norme dell’ordinamento interno anche di ordine costituzionale.

Va peraltro ricordato che un riferimento a tale possibilità (pur se, allo stato, non operativo) è tuttora presente nell’ordinamento: il testo unico sull’immigrazione[393], all’art. 9, co. 4, dispone che gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e titolari della carta di soggiorno possono partecipare alla vita pubblica locale, “esercitando anche l’elettorato quando previsto dall’ordinamento” ed in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992 (sulla genesi di tale disposizione, si veda infra).

 

La carta di soggiorno, disciplinata dall’art. 9 del testo unico, è un documento destinato agli stranieri extracomunitari residenti di lunga durata: Possono farne richiesta gli stranieri residenti in Italia da almeno 6 anni; viene rilasciata a tempo indeterminato ed è soggetta a vidimazione dopo 10 anni dal rilascio. Essa dà diritto allo straniero di fare ingresso in Italia anche senza visto; di lavorare e svolgere ogni altra attività lecita e di accedere ai servizi sociali. Le modalità di richiesta, rilascio e rinnovo della carta di soggiorno sono disciplinate dagli artt. 16 e 17 del regolamento di attuazione del testo unico, adottato con il D.P.R. 394/1999.

 

L’Italia si è invece impegnata ad applicare, oltre al capitolo A (cui si è fatto cenno in precedenza), anche il capitolo B della Convenzione che impegna i Paesi aderenti a consentire la creazione di organi consultivi in seno alle collettività locali comprendenti un numero significativo di residenti stranieri, ai quali deve essere data la possibilità di discutere sui problemi di loro interesse per il tramite di rappresentanti eletti o nominati da gruppi associati.

Il diritto di voto dei cittadini dell’Unione europea

L’articolo 19 (ex art. 8 B), del Trattato che istituisce la Comunità europea prevede che i cittadini dell’Unione residenti in un Paese membro di cui non siano cittadini hanno il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali ed alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza, alle stesse condizioni previste per i cittadini di questo Stato.

La direttiva 94/80/CEE del 19 dicembre 1994ha stabilito le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza.

La direttiva si pone in diretta attuazione del principio contenuto nel citato art. 19 del Trattato ed è essenzialmente finalizzata a sopprimere la condizione del possesso della cittadinanza, richiesta dalla maggioranza dei Paesi membri per l’esercizio del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni municipali, prevedendo a tal proposito che i cittadini comunitari possano esercitare il diritto di voto nei Paesi nell’Unione alle stesse condizioni previste per i cittadini del Paese ospitante anche per quanto concerne la disciplina in materia di età per l’esercizio del diritto di voto, di capacità elettorale, di cumulo dei mandati, di iscrizione nelle liste elettorali, di residenza etc. La direttiva prevede inoltre che lo straniero comunitario eserciti il diritto di voto nel Paese ospitante solo qualora manifesti una esplicita volontà in questo senso e dà facoltà agli stati membri di riservare l’eleggibilità alla carica di sindaco e vicesindaco ai propri cittadini: è precisato infine che gli enti locali italiani cui si applicherà la nuova disciplina sono il comune e la circoscrizione.

La legge 6 febbraio 1996, n. 52 (legge comunitaria 1994) ha delegato, all’art. 11, il Governo ad emanare decreti legislativi volti alla concreta attuazione della direttiva.

In attuazione di tale delega è stato emanato il D.Lgs. 197/1996[394], il quale disciplina le modalità per la presentazione al sindaco, da parte dei cittadini di uno Stato membro dell’Unione che intendano partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi del comune e della circoscrizione, della domanda di iscrizione nella lista elettorale aggiunta, istituita presso lo stesso comune, nonché le modalità per la presentazione della propria candidatura a consigliere comunale e circoscrizionale.

L’iscrizione consente l’esercizio del diritto di voto per l’elezione del sindaco, del consiglio del comune e della circoscrizione nelle cui liste sono iscritti, l’eleggibilità a consigliere e l’eventuale nomina a componente della giunta del comune.

È invece esclusa la possibilità per lo straniero comunitario di candidarsi alla carica di sindaco (e di ricoprire la carica di vice sindaco).

Le autonomie locali e il diritto di voto degli stranieri

Il riconoscimento del diritto di voto degli stranieri non comunitari alle elezioni locali è stato oggetto, in particolare negli ultimi anni, di numerosi interventi da parte di regioni ed enti locali.

Tra questi si segnala l’iniziativa del comune di Genova che con delibera ha previsto l’estensione ai cittadini extracomunitari dell’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e circoscrizionali[395].

Il Governo ha annullato la delibera anche a seguito del parere del Consiglio di Stato che ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per l’annullamento dell’atto[396].

Analoghe iniziative dei comuni di Ancona e Torino sono state annullate dal Governo[397]

 

L’attribuzione del diritto di voto nei referendum regionali agli immigrati, è, invece, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto nell’area delle possibili determinazioni delle Regioni la scelta di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte consapevolmente e con almeno relativa stabilità alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del diritto di voto o anche dalla cittadinanza italiana[398].

Parimenti, la Consulta ha dichiarato legittima la facoltà dello statuto regionale  di promuovere l’estensione del diritto di voto, stante il carattere di natura culturale e politica e non certo normativa di enunciazioni statutarie di questo tipo[399].


Immigrazione – L’accesso alla cittadinanza

Il riacquisto della cittadinanza italiana

La legge n. 124/2006[400] consente il riconoscimento della cittadinanza agli italiani (e ai loro discendenti) che abitavano nei territori dell’Istria, Fiume e Dalmazia, già facenti parti del Regno d’Italia e passati, dopo la seconda guerra mondiale, sotto la sovranità della Repubblica jugoslava e successivamente di Slovenia e Croazia.

In particolare, la legge 124 modifica la legge 91/1992[401] introducendo un articolo 17-bis che riconosce” il diritto alla cittadinanza italiana ai soggetti che siano stati cittadini italiani e che abbiano risieduto nei territori facenti parte dello Stato italiano e successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430, ratificato dalla legge 25 novembre 1952, n. 3054, ovvero in forza del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, reso esecutivo dalla legge 14 marzo 1977, n. 73.

Tale diritto è riconosciuto anche ai figli e ai discendenti in linea retta dei soggetti di cui sopra, purché di lingua e cultura italiana.

La cittadinanza, in realtà, in base al testo in esame non è acquistata ex lege dai soggetti summenzionati, ma solo a seguito della presentazione (e dell’accoglimento) di una apposita istanza. Ciò differenzia l’ottenimento della cittadinanza prefigurato dalla disposizione in esame da quello ex art. 17 l. 91/1992, che invece avviene automaticamente con la presentazione della apposita dichiarazione.

 

L’articolo 19, paragrafo 1, del Trattato di pace tra le Potenze alleate e associate e l’Italia, siglato a Parigi il 10 settembre 1947, reso esecutivo dal D.Lgs.C.P.S 1430/1947[402] ed entrato in vigore il 16 settembre 1947, dispose che i cittadini italiani domiciliati, alla data del 10 giugno 1940, nei territori ceduti dall’Italia ad altro Stato per effetto del Trattato, ed i loro figli nati dopo quella data, perdessero la cittadinanza italiana divenendo automaticamente cittadini dello Stato subentrante.

Il par. 2 dello stesso articolo faceva salva la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, facoltà esercitabile, entro un anno dalla data di entrata in vigore del Trattato, dai soli cittadini di età superiore ai diciotto anni, o coniugati. Il par. 3 dello stesso art. 19 recitava: “Lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell’opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione venne esercitata”.

In esito a tale disciplina, i cittadini italiani residenti nei territori ceduti alla Jugoslavia (territori oggi facenti parte delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia) e non optanti persero la cittadinanza, acquistando ipso iure quella jugoslava.

Analogamente, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Osimo con la Jugoslavia (firmato il 10 novembre 1975, ratificato con L. 73/1977[403] ed entrato in vigore il 3 aprile 1977), persero la cittadinanza italiana, acquistando quella jugoslava, gli appartenenti al gruppo etnico italiano[404] che non si avvalsero della facoltà, contemplata dall’art. 3 del Trattato medesimo e dal suo allegato VI, di trasferire la residenza dalla Zona B dell’ex Territorio libero di Trieste nel territorio italiano (facoltà da esercitare entro un anno dalla data di entrata in vigore del Trattato).

 

L’introduzione, nel 1992, di una nuova disciplina generale della cittadinanza ad opera della L. 91/1992 fu accompagnata da alcune disposizioni transitorie. In particolare, l’art. 17 della L. 91/1992 attribuì il diritto di optare per la cittadinanza italiana a coloro che l’avessero perduta ai sensi degli artt. 8 e 12 della previgente (e contestualmente abrogata) L. 555/1912[405].

Gli artt. 8 e 12 della L. 555/1912 disponevano, tra l’altro, la perdita della cittadinanza:

§         di chi avesse acquistato spontaneamente la cittadinanza straniera e stabilito la residenza all’estero (art. 8, primo comma, n. 1);

§         di chi, avendo acquistato la cittadinanza straniera senza aver espresso manifestazione di volontà in tal senso, avesse rinunciato alla cittadinanza italiana (art. 8, primo comma, n. 2);

§         dei figli minori non emancipati di chi avesse perso la cittadinanza, qualora avessero in comune la residenza col genitore esercente la potestà o la tutela legale, e acquistassero la cittadinanza di uno Stato straniero (art. 12, secondo comma).

L’art. 17 citato attribuì la facoltà di optare per la cittadinanza italiana anche a coloro che l’avessero perduta per non aver reso l’opzione di cui all’art. 5 della L. 123/1983[406] (legge anch’essa abrogata dalla L. 91/1992). Tale articolo esigeva che il figlio (anche adottivo) di padre cittadino o di madre cittadina – al quale era attribuita la cittadinanza se minore –, nel caso di doppia cittadinanza, optasse per una sola cittadinanza entro un anno dal raggiungimento della maggiore età.

Nella circolare del 1993[407] recante le linee interpretative della riforma di cui alla L. 91/1992 il Ministero dell’interno, basandosi sugli orientamenti formulati al riguardo dalla Corte di cassazione (sent. 754/1963) e dal Consiglio di Stato in sede consultiva (parere 209/1979), ritenne che il menzionato art. 17 della legge fosse applicabile:

§         sia ai soggetti, già titolari della facoltà di optare per la cittadinanza italiana loro riconosciuta dal citato art. 19, par. 2, del Trattato del 1947, i quali omisero di avvalersene entro i termini stabiliti dal Trattato;

§         sia agli appartenenti al gruppo etnico italiano che persero la cittadinanza italiana per non essersi avvalsi della facoltà, contemplata dall’art. 3 del Trattato di Osimo, di trasferire la residenza dalla Zona B al territorio italiano.

L’opzione prevista dall’art. 17 della L. 91/1992 avrebbe dovuto essere esercitata entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge. Questo termine fu prorogato una prima volta, sino al 15 agosto 1995, dall’art. 1 della L. 736/1994[408]; un’ulteriore proroga al 31 dicembre 1997 intervenne ad opera dell’art. 2, co. 195, della L. 662/1996[409] (legge collegata alla manovra finanziaria per il 1997).

L’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati

Le proposte di modifica della disciplina della cittadinanza

Il 16 maggio 2005 l’Assemblea della Camera ha iniziato l’esame della proposta di legge A.C. 204-A e abbinate, di iniziativa parlamentare, volta ad agevolare l’accesso alla cittadinanza italiana agli immigrati regolari.

Il testo è stato successivamente (17 maggio) rinviato in Commissione, dietro richiesta del rappresentante del Governo, “al fine di consentire a tutti i gruppi politici di approfondire più compiutamente le rispettive posizioni”.

 

La proposta intende agevolare l’acquisto della cittadinanza per gli stranieri legalmente e continuativamente residenti in Italia e attribuire la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri residenti da lungo tempo nel nostro Paese. Viene invece aggravato il procedimento per l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio.

 

In particolare, l’art. 1 estende il diritto alla cittadinanza per nascita – attualmente limitato ai figli dei cittadini italiani o ai figli di ignoti o apolidi – anche a coloro che sono nati in Italia ma da genitori stranieri, a condizione che essi siano residenti legalmente e continuamente in Italia da almeno otto anni o, in alternativa siano in possesso della carta di soggiorno da almeno due anni.

 

La carta di soggiorno, disciplinata dall’art. 9 del testo unico, è un documento destinato agli stranieri extracomunitari residenti di lunga durata: Possono farne richiesta gli stranieri residenti in Italia da almeno 6 anni; viene rilasciata a tempo indeterminato ed è soggetta a vidimazione dopo 10 anni dal rilascio. Essa dà diritto allo straniero di fare ingresso in Italia anche senza visto; di lavorare e svolgere ogni altra attività lecita e di accedere ai servizi sociali. Le modalità di richiesta, rilascio e rinnovo della carta di soggiorno sono disciplinate dagli artt. 16 e 17 del regolamento di attuazione del testo unico, adottato con il D.P.R. 394/1999.

 

L’art. 2 si riferisce all’acquisto della cittadinanza per matrimonio. Viene aumentato da sei mesi a due anni il periodo minimo di residenza legale del coniuge per richiedere la cittadinanza. Parimenti è elevato da due a tre anni il periodo minimo di durata del matrimonio quale requisito richiesto dalla legge in alternativa a quello della residenza legale.

 

Infine, l’art. 3 riguarda la naturalizzazione, ossia l’accesso alla cittadinanza da parte di un cittadino straniero nato all’estero che ne fa richiesta. Rispetto alla disciplina vigente, viene ridotto il periodo minimo di residenza legale (da dieci a otto anni) richiesto per poter presentare la domanda di cittadinanza. In alternativa alla residenza viene introdotto il requisito del possesso da almeno due anni della carta di soggiorno.

A queste forme di agevolazione, fa riscontro l’introduzione di alcuni condizioni aggiuntive, quali:

§      la non sussistenza delle cause ostative che impediscono l’acquisto della cittadinanza per matrimonio indicati dall’art. 6 della legge 92[410];

§      il possesso di un reddito sufficiente al proprio sostentamento;

§      la conoscenza adeguata della lingua e della cultura italiana.

La disciplina vigente in materia di acquisto della cittadinanza

La legge n. 91/1992 stabilisce che acquistano automaticamente alla nascita la cittadinanza italiana coloro i cui genitori (anche soltanto il padre o la madre) siano cittadini italiani (L. 91/1992, articolo 1, comma 1, lettera a): si tratta della così detta modalità di acquisizione della cittadinanza jure sanguinis.

La legge n. 91 riconosce anche il criterio alternativo dello jus soli, pur in via residuale e per casi limitati a:

§      coloro che nascono nel territorio italiano e i cui genitori siano da considerarsi o ignoti (dal punto di vista giuridico) o apolidi (cioè privi di qualsiasi cittadinanza) (L. 91/1992, art. 1, co. 1, lett. b);

§      coloro che nascono nel territorio italiano e che non possono acquistare la cittadinanza dei genitori in quanto la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all’estero possa acquisire la loro cittadinanza (L. 91/1992, art. 1, co. 1, lett. b).

Sono inoltre considerati cittadini italiani i figli di ignoti che vengono trovati (a seguito di abbandono) nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato, da parte di qualunque soggetto interessato, il possesso di un’altra cittadinanza (L. 91/1992, art. 1, co. 2).

 

Lo straniero che sia nato in Italiapuò divenire cittadino italiano a condizione che vi abbia risieduto legalmente e ininterrottamente fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari, entro un anno dal compimento della maggiore età, di voler acquistare la cittadinanza italiana (L. 91/1992, art. 4, co. 2).

Disposizioni particolari sono dettate per quanto riguarda l’acquisto della cittadinanza da parte di stranieri che hanno contratto matrimonio con cittadini italiani (L. 91/1992, artt. da 5 a 8). Gli stranieri coniugi di cittadini italiani ottengono la cittadinanza, dietro richiesta presentata al prefetto del luogo di residenza dell’interessato, oppure, se residenti all’estero, all’autorità consolare competente, se possono soddisfare, contemporaneamente, le seguenti condizioni:

§      residenza legale nel territorio italiano da almeno sei mesi, o, in alternativa, per gli stranieri residenti all’estero, il decorso di tre anni dalla data del matrimonio tra lo straniero e il cittadino;

§      persistenza del vincolo matrimoniale;

§      insussistenza della separazione legale;

§      assenza di condanne penali per i delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato e contro i diritti politici dei cittadini;

§      assenza di condanne penali per i delitti non colposi per i quali è prevista una pena edittale non inferiore a tre anni;

§      assenza di condanne penali per reati non politici, con pena detentiva superiore a un anno, inflitte da autorità giudiziarie straniere con sentenza riconosciuta in Italia;

§      insussistenza di fondati motivi che facciano ritenere che lo straniero il quale aspira a divenire cittadino italiano sia pericoloso per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato.

L’acquisto della cittadinanza può avvenire, infine, per concessione (L. 91/1992, art. 9): in questo caso, a differenza dei procedimenti finora illustrati, che riservano all’autorità margini di intervento molto ristretti, l’emanazione del provvedimento di concessione della cittadinanza è soggetto ad una valutazione discrezionale di opportunità da parte della pubblica amministrazione, pur attenuata dall’obbligo del parere preventivo del Consiglio di Stato. Il periodo di residenza legale in Italia, graduato in funzione dello status degli stranieri richiedenti, che costituisce il requisito fondamentale per conseguire la cittadinanza secondo tale modalità, deve essere ininterrotto e attuale al momento della presentazione dell’istanza per la concessione della cittadinanza.

Può presentare domanda per ottenere la concessione della cittadinanza italiana il cittadino straniero che si trova in una delle seguenti condizioni:

§      residente in Italia da almeno dieci anni, se cittadino non appartenente all’Unione europea, o da almeno quattro anni, se cittadino comunitario (L. 91/1992, art. 9, co. 1, lett. f) e d);

§      apolide residente in Italia da almeno cinque anni (L. 91/1992, art. 9, co. 1, lett. e);

§      il cui padre o la cui madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato in Italia e, in entrambi i casi, vi risiede da almeno tre anni (L. 91/1992, art. 9, co. 1, lett. a);

§      maggiorenne adottato da cittadino italiano e residente in Italia da almeno cinque anni (L. 91/1992, art. 9, co. 1, lett. b);

§      aver prestato servizio[411] alle dipendenze dello Stato italiano, anche all’estero, per almeno cinque anni (L. 91/1992, art. 9, co. 1, lett. c).

La modifica dell’art. 48 Cost.

Un’altra proposta di legge in materia di cittadinanza ha iniziato l’esame in sede referente presso la I Commissione. Si tratta della proposta di legge costituzionale A.C. 4786 (on. Bressa ed altri) volta a modificare l’art. 48 Cost. introducendo quale requisito per il riconoscimenti della cittadinanza l’effettiva partecipazione alla vita economica, sociale e politica del Paese.

La proposta di legge mira infatti ad integrare il disposto dell’articolo 48 della Costituzione, che disciplina la titolarità e l’esercizio del diritto di voto, anteponendo al primo comma di tale articolo un nuovo comma del seguente tenore:

“Sono cittadini coloro i quali partecipano effettivamente alla vita economica, sociale e politica del Paese e soddisfano i requisiti stabiliti dalla legge”.

Nella seduta del 28 aprile 2004 fu nominato un comitato ristretto e si procedette, inoltre, a varie audizioni informali.


Pari opportunità – La modifica dell’art. 51 Cost.

Nella XIV legislatura, la questione del principio della parità tra i sessi è stata in primo luogo affrontata con riguardo al tema della promozione dell’accesso delle donne alle cariche elettive, con l’obiettivo di incrementare il tasso di partecipazione femminile alla vita politica e istituzionale del Paese.

Un intervento normativo di rilievo, in materia, è costituito dalla modifica apportata all’art. 51, primo comma, della Costituzione: tale disposizione, che stabilisce il principio della parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, è stata integrata dalla L.Cost. 1/2003[412] nel senso di prevedere l’adozione di appositi provvedimenti per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.

 

La novella costituzionale, che porta a compimento un percorso politico e legislativo avviatosi nella XIII legislatura[413], consente di completare con l’aggiunta del livello statale, quanto già previsto per l’ordinamento delle Regioni ordinarie e a statuto speciale.

Giova ricordare, infatti, che la L.Cost. 2/2001[414], relativa all’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, ha introdotto disposizioni finalizzate alla promozione della parità di accesso alle consultazioni elettorali con l’espressa finalità di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi; inoltre, l’articolo 117, settimo comma, della Costituzione, come modificato dalla L.Cost. 3/2001[415], stabilisce che le leggi regionali debbano rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

 

Con la rinnovata disposizione costituzionale viene fornita una copertura costituzionale all’introduzione di “azioni positive” volte a promuovere l’accesso della donna – attualmente sottorappresentata – alle funzioni pubbliche e alle cariche elettive. Al rispetto dell’uguaglianza in senso formale, già imposto dal primo periodo dell’art. 51 Cost. che esclude differenziazioni in base al sesso, si aggiunge ora la prefigurazione di interventi positivi volti a realizzare sostanzialmenteil principio della parità di accesso, attraverso la rimozione di quelle cause di squilibrio che hanno finora impedito l’uguaglianza delle condizioni di partenza.

Sembra tuttavia opportuno porre in evidenza che il testo di modifica approvato concerne il solo principio della parità di accesso e non anche quello della rappresentanza nelle cariche elettive: in altri termini, esso tende a realizzare un’uguaglianza delle opportunità, e non anche una predeterminazione del risultato di riequilibrio della rappresentanza, la qual cosa potrebbe avere un effetto distorsivo della concezione neutra e unitaria, cioè non divisa per generi, della rappresentanza politica tipica dei moderni ordinamenti liberal-democratici.

 

Con riferimento a tali profili, sembra opportuno richiamare la giurisprudenza resa dalla Corte costituzionale sulle c.d. “quote elettorali”, ovvero quegli istituti volti ad assicurare che nella presentazione delle candidature alle elezioni nessuno dei due sessi possa essere escluso o rappresentato al di sotto di una data soglia .

In un primo momento, con la sentenza n. 422 del 1995 la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittime le norme contenute nelle leggi elettorali politiche, regionali e amministrative[416] che stabilivano una riserva di quote per l’uno e per l’altro sesso nelle liste dei candidati; ciò per l’asserita violazione degli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

Secondo la Corte, infatti, le citate disposizioni costituzionali, sancendo la regola dell’irrilevanza giuridica del sesso, in generale e nell’accesso alle cariche elettive, garantiscono l’assoluta uguaglianza tra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità: ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la candidabilità.

La possibilità di essere candidato non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto e beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dall’art. 51 Cost. Secondo la Corte, viene quindi a porsi in contrasto con i citati parametri costituzionali la norma che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

La Corte ha comunque riconosciuto che la finalità di conseguire una parità effettiva fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale; essa tuttavia non può essere legislativamente imposta bensì va lasciata al libero apprezzamento dei partiti e movimenti che partecipano alle elezioni, sulla cui evoluzione culturale, in tal senso, occorre dunque incidere.

 

Con la successiva sentenza n. 49 del 2003la Corte, mutando significativamente il proprio orientamento, ha invece ritenuto non contrastanti col dettato costituzionale alcune norme introdotte nella legislazione elettorale della Regione Valle d’Aosta[417], in virtù delle quali le liste elettorali devono comprendere candidati di entrambi i sessi, a pena di dichiarazione di invalidità da parte dell’ufficio elettorale regionale.

In questo caso, a differenza di quanto sostenuto nella sua precedente giurisprudenza, la Corte ha ritenuto che le disposizioni contestate non pongono l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito ulteriore di eleggibilità e nemmeno di candidabilità dei singoli cittadini: l’obbligo imposto dalla legge, infatti, concerne le sole liste e i soggetti che le presentano, vincolando non certo l’esercizio del voto o i diritti dei cittadini eleggibili, ma la formazione di libere scelte dei partiti e dei gruppi, precludendo loro soltanto la possibilità di presentare liste costituite da candidati tutti dello stesso sesso.

Tale vincolo negativo, inoltre, opera solo nella fase anteriore alla competizione elettorale; la scelta degli elettori – tra le liste e, all’interno di queste, tra i candidati – non ne risulta quindi in alcun modo condizionata, tanto più che la normativa in questione prevede la possibilità di esprimere un voto di preferenza.

Le disposizioni in esame introducono quindi un vincolo legale alle scelte di chi forma le liste, ma non si tratta di un vincolo tale da incidere in modo significativo sull’equilibrio della rappresentanza, poiché la mera presenza tra i candidati di una lista non è certo garanzia di risultato (cioè, dell’essere eletti). La disciplina, peraltro, non introduce differenziazioni in base al sesso dei candidati poiché si riferisce indifferentemente ai candidati di entrambi i sessi.

La Corte ha poi ricordato che le norme impugnate vanno interpretate anche in relazione all’intercorsa evoluzione del quadro costituzionale[418], che ormai considera doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle cariche elettive. Azione promozionale che, in questo caso, è realizzata attraverso la misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi.


Pari opportunità – Altri provvedimenti e iniziative

Con riferimento alla questione delle pari opportunità tra donne e uomini, nella XIV legislatura, oltre alla modifica dell’articolo 51 della Costituzione (v. scheda Pari opportunità – La modifica dell’art. 51 Cost.), sono stati realizzati, o proposti, vari interventi normativi di rango legislativo aventi a oggetto la promozione del principio di parità nei suoi più diversi risvolti.

Accesso delle donne alle cariche elettive

Elezioni per il Parlamento europeo

Con riguardo, in primo luogo, al tema della promozione dell’accesso delle donne alle cariche elettive, affrontato con l’obiettivo di incrementare il tasso di partecipazione femminile alla vita politica e istituzionale del Paese, una prima attuazione del nuovo disposto dell’art. 51 della Costituzione nella legislazione ordinaria si rinviene nella L. 90/2004[419], modificativa della legge per l’elezione di membri del Parlamento europeo. L’art. 3 della legge, con esclusivo riferimento alle elezioni europee e limitatamente alle prime due elezioni del Parlamento europeo successive all’entrata in vigore della legge, introduce il principio dell’inammissibilità delle liste elettorali nelle quali non siano presenti candidati di entrambi i sessi e stabilisce che nelle liste presentate, nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati presenti nella lista.

Per i movimenti o partiti politici che non abbiano rispettato questa disposizione si prevede una riduzione del contributo alle spese elettorali corrisposto dallo Stato: l’importo del rimborso previsto dalla L. 157/1999[420] è ridotto, fino a un massimo della metà, in misura direttamente proporzionale al numero dei candidati in più rispetto a quello massimo consentito.

La somma eventualmente derivante dalla riduzione di cui sopra è invece erogata, quale “premio”, ai partiti o gruppi politici organizzati che abbiano avuta proclamata eletta una quota superiore a un terzo di candidati di entrambi i sessi. Tale somma è ripartita proporzionalmente ai voti ottenuti da ciascun partito o gruppo politico.

Le c.d. “quote rosa”

Disposizioni analoghe a quelle vigenti per l’elezione del Parlamento europeo sono state previste anche per le elezioni politiche e amministrative dal disegno di legge del Governo recante “Disposizioni in materia di pari opportunità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive” (c.d. “quote rosa”), approvato l’8 febbraio 2006 dalSenato in prima lettura (A.S. 3660). Il provvedimento è stato trasmesso il giorno stesso alla Camera dei deputati (C. 6330), tuttavia, lo scioglimento anticipato delle Camere, avvenuto l’11 febbraio, non ha consentito di avviarne l’esame.

Il progetto si compone di tre articoli applicabili, il primo, alle elezioni politiche, il secondo e il terzo, alle elezioni amministrative.

L’articolo 1 prevede che nelle liste di candidati presentate per la prima e la seconda elezione della Camera e del Senato successive all’entrata in vigore del disegno di legge, nessun sesso possa essere rappresentato in misura superiore alla metà dei candidati presenti nella lista. La medesima proporzione deve essere rispettata anche qualora la presentazione delle candidature debba aver luogo per gruppi di candidati.

L’articolo dispone anche per il caso in cui le liste debbano essere composte da un elenco di candidati presentati secondo un determinato ordine (c.d. “liste bloccate”). In questo caso:

§         per la prima elezione della Camera e del Senato successive all’entrata in vigore della legge, ogni sesso non può altresì essere rappresentato in una successione superiore a tre;

§         per la seconda elezione, ogni sesso non può altresì essere rappresentato in una successione superiore a due.

Per i partiti o i movimenti che abbiano presentato liste o gruppi di candidati senza rispettare la suddetta proporzione o l’ordine di successione sopra illustrati, è prevista una riduzione del rimborso per le spese elettorali per ogni candidato in più rispetto al consentito, che va dal 10 al 50 per cento in misura proporzionale al numero totale dei candidati del complesso delle liste o dei gruppi di candidati. Così è disposto per le prime elezioni politiche successive all’entrata in vigore della legge.

Per le elezioni politiche ancora successive, è direttamente sancita la inammissibilità delle liste o dei gruppi di candidati non rispettose delle proporzioni e successioni stabilite. L’unica deroga consentita è nel caso in cui il mancato rispetto sia dovuto al decesso di un candidato. Se invece la proporzione o la successione non siano rispettate per la ricusazione o la cancellazione di una candidatura, o in caso di rinuncia alla medesima, la riduzione del contributo alle spese elettorali precedentemente prevista viene raddoppiata.

La proposta stabilisce inoltre che il Presidente del Consiglio entro tre mesi dalle elezioni riferisca alle Camere sull’esito applicativo delle previsioni del disegno di legge, proponendo anche le misure ritenute necessarie per migliorare la promozione delle pari opportunità nell’accesso non solo alle cariche parlamentari, ma anche alle nomine alle più alte cariche istituzionali (CSM, Corte costituzionale, varie Autorità) e in tutte le cariche di responsabilità nelle quali il sesso femminile è ancora scarsamente presente.

Gli articoli 2 e 3 intervengono sulle disposizioni del Testo unico enti locali[421] che disciplinano il sistema elettorale per le consultazioni amministrative.

In relazione all’elezione del sindacoe del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti (art. 71 T.U.), il progetto prevede che in ogni lista di candidati alla carica di consigliere comunale non si ammette un numero di candidati dello stesso sesso superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere. I candidati in eccesso non vengono ammessi, a partire dal fondo dell’ordine di lista.

Analogamente viene disposto per l’elezione a consigliere comunale nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti (art. 73 T.U.).

Per l’elezione del consiglio provinciale (art. 75 T.U.) il disegno di legge introduce la previsione secondo cui in ogni gruppo di candidati collegati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi del totale dei candidati. In caso di inosservanza la sanzione è comminata dal prefetto che irroga, proporzionalmente a ogni violazione, una pena pecuniaria di 10mila euro per ogni violazione fino a un massimo di 100 mila euro.

Il progetto di Codice delle pari opportunità

Sulla base della norma di delega da ultimo[422] contenuta nell’art. 6 della L. 246/2005 (legge di semplificazione 2006)[423] che ha demandato al Governo il compito di procedere al riassetto normativo delle disposizioni vigenti in materia di pari opportunità, il Governo ha adottato uno schema di decreto legislativo recante il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, volto a raccogliere e semplificare tutta la normativa statale sull’uguaglianza dei sessi vigente nei vari settori della vita politica, sociale ed economica. Secondo quanto precisato dalla norma di delega, l’azione di riassetto normativo è stata estesa anche alla legislazione relativa al contrasto di ogni forma di discriminazione basata, oltre che sul sesso, anche sulla razza o l’origine etnica.

Il testo è stato trasmesso alle competenti commissioni parlamentari ai fini dell’espressione del parere che, tuttavia, non è stato reso[424]. Si segnala, a ogni modo, che il termine per l’esercizio della delega è fissato ad un anno dalla entrata in vigore della legge, ossia il 16 dicembre 2006.

 

Lo schema di Codice è suddiviso in quattro Libri, aventi rispettivamente ad oggetto:

§         disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna (Libro I, artt. 1-23);

§         pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali (Libro II, artt. 24 e 25);

§         pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici (Libro III, artt. 26-57);

§         pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civili e politici (Libro IV, artt. 58-59).

Ciascun Libro si articola a sua volta in Titoli e Capi, per un totale di 59 articoli.

 

L’articolo 1 individua l’oggetto del provvedimento in esame.

L’articolo 2 conferma la competenza del Presidente del Consiglio dei ministri in tema di promozione e coordinamento delle azioni di Governo concernenti la pari opportunità.

Gli articoli da 3 a 8 disciplinano la Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, istituita presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Gli articoli da 9 a 12 recano la disciplina relativa alla composizione, al funzionamento e ai compiti del Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici.

Gli articoli da 13 a 21 recano la disciplina delle consigliere e dei consiglieri di parità: le modalità e i requisiti per la nomina, la durata del mandato, i compiti e le funzioni, la sede, la disciplina dei permessi retribuiti e l’eventuale indennità, il Fondo per l’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità, la Rete nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità, la relazione ministeriale al Parlamento relativa all’applicazione della legislazione sulle pari opportunità nel settore del lavoro.

Gli articoli 22 e 23 disciplinano, rispettivamente, la composizione e l’attività del Comitato per l’imprenditoria femminile istituito, con compiti di indirizzo e di programmazione generale, presso il Ministero delle attività produttive.

L’articolo 24, in tema di pari opportunità nei rapporti familiari, opera un rinvio alle norme del codice civile in materia (artt. 143 e ss.); l’articolo 25 fa rinvio alla L. 154/2001[425], che ha inserito nel codice civile un nuovo Titolo IX bis concernente gli Ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Gli articoli da 26 a 36 disciplinano le pari opportunità nel lavoro, con particolare riferimento ai divieti di discriminazione sia diretta sia indiretta nell’accesso, nel trattamento retributivo, nella carriera, nelle prestazioni previdenziali, nell’accesso negli impieghi pubblici e nel reclutamento nelle forze armate. Si prevede inoltre il divieto di licenziamento per causa di matrimonio, disponendo, tra l’altro, la nullità delle previsioni contrattuali che prevedano la risoluzione del rapporto di lavoro come conseguenza del matrimonio.

Gli articoli da 37 a 42 dettano disposizioni in tema di tutela giudiziaria, riproducendo essenzialmente il contenuto di alcune disposizioni della L. 125/1991[426], e della L. 903/1977[427]. Vengono pertanto disciplinati i temi della legittimazione processuale, delle particolari procedure giurisdizionali ed amministrative destinate ala tutela delle situazioni contemplate, nonché le sanzioni applicabili.

Gli articoli da 43 a 52 disciplinano le azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, ovvero le misure aventi lo scopo di rimuovere le diseguaglianze che impediscono la realizzazione della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in ambito lavorativo. In particolare vengono disciplinate le finalità, la promozione e il finanziamento delle azioni positive. Disposizioni particolari sono rivolte alle azioni positive nel pubblico impiego e nel settore radiotelevisivo. Vengono inoltre richiamate misure previste dalla vigente legislazione a sostegno della flessibilità di orario e a tutela della maternità e paternità.

Gli articoli da 53 a 57 recano disposizioni volte a promuovere l’uguaglianza e le pari opportunità tra uomini e donne nell’ambito dell’attività economica, con particolare riguardo alle azioni a favore dell’imprenditoria femminile, riproducendo disposizioni presenti nella legge sull’imprenditoria femminile (L. 215/1992[428]).

L’articolo 58 reca misure di incentivazione alla presenza di candidature femminili nelle liste per l’elezione del Parlamento europeo.

L’articolo 59 elenca le disposizioni legislative abrogate a decorrere dall’entrata in vigore del provvedimento in esame.

Le pari opportunità nella pubblica amministrazione

Con riferimento al diverso e collegato profilo della promozione delle pari opportunità sul luogo di lavoro, ambito nel quale, nel corso degli anni, il legislatore ha provveduto a creare una serie di strumenti per contrastare le discriminazioni e promuovere l’occupazione femminile, nella XIV legislatura, con specifico riguardo al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si segnala l’approvazione della L. 145/2002[429], di riordino della dirigenza statale, che ha esteso espressamente anche alla dirigenza le forme di tutela della parità dei sessi nella pubblica amministrazione previste nel testo unico sul pubblico impiego[430].

 

Il citato Testo unico prevede (art. 7, co. 1) che tutte le amministrazioni pubbliche debbano garantire la parità di trattamento e le pari opportunità tra gli uomini e le donne per l’accesso al lavoro e per il trattamento sul lavoro.

A tal fine le pubbliche amministrazioni (art. 57):

§         riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso;

§         adottano regolamenti per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio;

§         garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale, adottando modalità organizzative atte a favorirne la partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita professionale e vita familiare;

§         possono finanziare programmi di azioni positive e l’attività dei Comitati pari opportunità nell’ambito delle disponibilità di bilancio.

 

Nel dettaglio, l’articolo 3, comma 1, della L. 145/2002, alle lettere e) ed f), novella il testo unico sul pubblico impiego per stabilire che i criteri di conferimento degli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e di direzione degli uffici di livello dirigenziale - conferiti, rispettivamente, ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 19 del T.U. – tengano conto delle condizioni di pari opportunità disposte dal citato art. 7 del T.U.

La riforma della Commissione per le pari opportunità

Con riguardo, infine, ai profili organizzativi, nella XIV legislatura è stato emanato il D.Lgs. 226/2003[431] che ha operato una riforma complessiva della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, operante presso il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio.

Il decreto è stato adottato in virtù della norma di delega recata dall’art. 13 della L. 137/2002[432], che ha autorizzato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per riordinare le disposizioni in tema di parità e pari opportunità tra uomo e donna, sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

§         razionalizzare gli organismi titolari di competenze generali in materia di parità e di pari opportunità tra uomo e donna che operano a livello nazionale e le relative funzioni, anche mediante accorpamento e riduzione del numero dei componenti;

§         ricondurre alla Presidenza del Consiglio dei Ministri la funzione di coordinamento delle attività svolte da tutti gli organismi titolari di competenze generali in materia di parità e di pari opportunità tra uomo e donna che operano a livello nazionale.

Con tali premesse, il decreto legislativo in commento è intervenuto sulla struttura e le competenze della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna.

 

Tale Commissione, operante fin dal 1984, in forza di un decreto del Presidente del Consiglio, è stata istituita dall’art. 21, co. 2, della L. 400/1988[433] e successivamente disciplinata con la L. 164/1990[434] quale organo consultivo e di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri con il compito di elaborare e promuovere iniziative per assicurare l’uguaglianza tra i sessi.

 

Il D.Lgs. 226 ha provveduto in primo luogo a cambiare la denominazione della Commissione (in origine era Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità fra uomo e donna) e a trasformarla in organo consultivo e di proposta del ministro per le pari opportunità, presso il relativo Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri

Quanto alle competenze, la Commissione fornisce al ministro, che la presiede, consulenza e supporto tecnico-scientifico nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di pari opportunità fra uomo e donna.

 

In particolare la Commissione:

§         formula proposte al Ministro per l’elaborazione delle modifiche normative necessarie a rimuovere qualsiasi forma di discriminazione, sia diretta che indiretta, nei confronti delle donne ed a conformare l’ordinamento giuridico al principio di pari opportunità, fornendo elementi informativi, documentali, tecnici e statistici, utili ai fini della predisposizione degli atti normativi;

§         cura la raccolta, l’analisi e l’elaborazione di dati allo scopo di verificare lo stato di attuazione delle politiche di pari opportunità nei vari settori della vita politica, economica e sociale e di segnalare le iniziative opportune;

§         redige un rapporto annuale per il Ministro sullo stato di attuazione delle politiche di pari opportunità;

§         fornisce consulenza tecnica e scientifica in relazione a specifiche problematiche su richiesta del Ministro o del Dipartimento per le pari opportunità;

§         svolge attività di studio e di ricerca in materia di pari opportunità fra uomo e donna.

Le competenze della Commissione non riguardano la materia della parità fra i sessi nell’accesso al lavoro e sul lavoro.

 

La Commissione è nominata con decreto del ministro e dura in carica due anni. Essa è composta da venticinque componenti, di cui:

§         undici prescelti nell’ambito delle associazioni e dei movimenti delle donne maggiormente rappresentativi sul piano nazionale;

§         quattro prescelti nell’ambito delle organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale;

§         quattro prescelti nell’ambito delle organizzazioni imprenditoriali e della cooperazione femminile maggiormente rappresentative sul piano nazionale;

§         tre prescelti fra le donne che si siano particolarmente distinte, per riconoscimenti e titoli, in attività scientifiche, letterarie e sociali;

§         tre rappresentanti regionali di pari opportunità designati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.

Il D.Lgs. 226 individua inoltre la composizione dell’Ufficio di presidenza della Commissione e prevede la possibilità che essa si avvalga, nelle proprie attività, della collaborazione di esperti e consulenti.

Le disposizioni transitorie attribuiscono al ministro il compito di determinare, con apposito regolamento, quali tra le attribuzioni, competenze e rapporti giuridici, previsti dalla vigente normativa in capo alla precedente Commissione nazionale per la parità, sono trasferiti alla nuova Commissione[435].


Non discriminazione – Il decreto legislativo n. 215 del 2003

Il quadro normativo

Premessa

Il D.Lgs. 215/2003[436] è stato adottato in attuazione delle disposizioni recate negli articoli 1 e 29 della L. 39/2002[437] (legge comunitaria 2001), che hanno delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi di recepimento della direttiva 2000/43/CE in materia di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica[438].

 

Si ricorda che il principio della parità di trattamento è solennemente affermato, in ambito europeo, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata a Nizza il 7 dicembre del 2000. L’articolo 21 della Carta di Nizza vieta infatti “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.

Anche il Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), come modificato dal Trattato di Nizza del 2001, all’articolo 13, reca alcune disposizioni in materia di razzismo e xenofobia. Tale articolo, infatti, conferisce al Consiglio europeo il compito di adottare gli opportuni provvedimenti volti a combattere qualsiasi discriminazione, tra cui quelle fondate sulla razza, l’origine etnica o la religione.

La direttiva 2000/43/CE, il cui recepimento è oggetto del D.Lgs. 215 in commento, è stata adottata dal Consiglio proprio sulla base di tali disposizioni.

 

La parità di trattamento è uno dei princìpi fondamentali anche della Costituzione italiana che, all’articolo 3, stabilisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro uguaglianza, senza distinzioni basate sulla razza, oltre che sul sesso, sulla lingua, sulle opinioni politiche e sulle condizioni personali e sociali.

Anche se l’art. 3 si riferisce espressamente ai cittadini, si ritiene che il principio di uguaglianza sia applicabile anche allo straniero, almeno quando si tratta del rispetto di diritti inviolabili dell’uomo, la cui tutela è riconosciuta dall’articolo 2 della Costituzione[439].

La Convenzione di New York e la legge di ratifica

Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di discriminazione razziale è costituito dalla L. 654/1975[440], di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.

La Convenzione condanna qualsiasi forma di discriminazione razziale, ed in particolare le forme più estreme quali la segregazione razziale e l’apartheid.

Gli Stati contraenti si impegnano da un lato, a non porre in essere pratiche di discriminazione razziale e, dall’altro, ad adottare provvedimenti volti ad eliminare tali pratiche, ove esistano.

In particolare, si prevede che ciascuno degli Stati che aderiscono alla Convenzione modifica la propria legislazione penale nel senso di prevedere i delitti di propaganda e di violenza razziale. Tali modifiche sono state apportate nel nostro ordinamento dalla stessa L. 654/1975 di ratifica della Convenzione, e in particolare dall’art. 3.

L’articolo 5 della Convenzione, inoltre, impegna gli Stati contraenti ad adoperarsi per garantire – senza distinzione di razza o nazionalità – una serie di diritti fondamentali quali il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, il diritto alla sicurezza e all’integrità personale, i diritti politici ed altri diritti civili (tra i quali il diritto di circolazione, alla libertà di pensiero, di religione, di associazione, diritto al lavoro, alla sanità, all’educazione).

Il testo unico sull’immigrazione

La disciplina in materia di discriminazione razziale dettata dalla L. 654/1975 è stata integrata ad opera del Testo unico in materia di immigrazione[441] e in particolare dagli articoli 43 e 44, recanti rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione. Come si vedrà, a tale disciplina il D.Lgs. 215/2003 fa espresso richiamo.

Entrambi gli articoli citati si riferiscono ai comportamenti discriminatori compiuti non solamente nei riguardi di cittadini stranieri non comunitari – destinatari della gran parte delle disposizioni del testo unico – ma anche di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia.

L’articolo 43 del testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente, operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

In particolare sono individuati i seguenti atti di discriminazione in ragione dell’appartenenza a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità :

§         compimento o omissione di un atto ingiustamente discriminatorio nei confronti di un cittadino straniero, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un servizio di pubblica utilità;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire beni o servizi offerti al pubblico;

§         imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         azioni od omissioni dirette ad impedire l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia;

§         atti o comportamenti compiuti dal datore di lavoro o dai suoi preposti diretti a discriminare anche indirettamente il lavoratore straniero. La disposizione fornisce, inoltre, una individuazione dei criteri in base ai quali individuare le fattispecie di “discriminazione indiretta”: è da considerarsi tale ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

L’articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.

Si prevede la possibilità di agire in giudizio avanti al tribunale civile in composizione monocratica, con un ricorso privo di formalità, teso ad ottenere un provvedimento, impugnabile davanti al tribunale collegiale, che, eventualmente, anche in via di urgenza, possa rimuovere gli effetti della discriminazione e risarcire il danno subito. L’inosservanza del provvedimento è perseguita penalmente.

Quando si tratti di discriminazione di carattere collettivo in ambito lavorativo, il ricorso può essere presentato anche dalle maggiori organizzazioni sindacali, e sono previste sanzioni accessorie per le aziende.

Infine, si prevede l’istituzione ad opera delle regioni di centri di informazione, assistenza legale e osservazione sull’andamento del fenomeno.

Il testo unico (art. 46) ha, inoltre, istituito presso la Presidenza del Consiglio la Commissione per le politiche dell’integrazione con il compito di formulare proposte di interventi di adeguamento di tali politiche nonché di fornire risposta a quesiti posti dal Governo concernenti le politiche per l’immigrazione, interculturali, e gli interventi contro il razzismo. La Commissione ha, inoltre, il compito di predisporre il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati.

Il decreto legislativo n. 215 del 2003

L’articolo 1 del provvedimento in esame ne definisce l’oggetto, relativo all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. L’intento viene realizzato attraverso la previsione di misure atte a evitare che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:

§         su donne e uomini;

§         sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

 

L’articolo 2 introduce la nozione di discriminazione: la parità di trattamento è assicurata qualora non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica.

Si ha una discriminazione diretta, quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.

La discriminazione indiretta si verifica invece quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Il decreto legislativo fa espressamente salvo quanto disposto dall’articolo 43, commi 1 e 2, del Testo unico sull’immigrazione, in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nei confronti di un cittadino straniero (si v. supra).

Sono altresì considerate alla stregua di discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

Anche l’ordine di discriminare le persone a causa della razza o dell’origine etnica è una forma di discriminazione.

 

L’articolo 3 specifica l’ambito di applicazione del provvedimento: il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, con particolare riferimento alle seguenti aree:

§         accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.

§         occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;

§         accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

§         attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e accesso alle prestazioni erogate dalle medesime;

§         protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;

§         assistenza sanitaria;

§         prestazioni sociali;

§         istruzione;

§         accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.

Il decreto legislativo fa comunque salve le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.

Si individuano, inoltre, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2.

Si tratta delle seguenti ipotesi:

§         nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, qualora  - nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza – si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa;

§         non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime attraverso mezzi adeguati e proporzionati.

 

L’articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti dei soggetti che si ritengano lesi dalle forme di discriminazione di cui all’art. 2.

Tale tutela si svolge nelle forme previste dall’articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione, sopra richiamato, per non differenziare gli strumenti di tutela avvalendosi di quelli già esistenti.

Per coloro che intendono agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una discriminazione e che non ritengano di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, si prevede la possibilità di promuovere il tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile o, nei casi di rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, di cui all’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165[442]. Il tentativo di conciliazione può essere promosso anche tramite le associazioni di cui al successivo art. 5.

Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può inoltre dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che vengono valutati dal giudice nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile[443].

Il giudice che accoglie il ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, impartisce le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente. Inoltre, al fine di impedire la ripetizione degli atti di discriminazione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso finalizzata ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale, a spese del convenuto.

Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del Testo unico sul pubblico impiego[444].

 

Ai sensi dell’articolo 5, la legittimazione ad agire è riconosciuta alle associazioni e agli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità[445].

Essi possono agire in giudizio:

§         nei casi di discriminazione individuale, in forza di delega rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione;

§         nei casi discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

Gli enti e le associazioni iscritti nell’elenco sono individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione.

Possono inoltre esservi inseriti gli enti e le associazioni iscritti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a) del D.P.R. 394/1999[446] nonché i soggetti di cui al successivo art. 6.

 

L’articolo 6 prevede l’istituzione di un apposito registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio

 

L’iscrizione è subordinata al possesso dei seguenti requisiti:

§         costituzione dell’ente o dell’associazione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno un anno

§         possesso di uno statuto che preveda un ordinamento a base democratica e come scopo esclusivo e preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione, senza fini di lucro

§         tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente, con l’indicazione delle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari

§         predisposizione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, in conformità alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute;

§         svolgimento di un’attività continuativa nell’anno precedente

§         l’insussistenza nei confronti dei rappresentanti legali di alcuna sentenza di condanna, passata in giudicato, in relazione all’attività dell’associazione medesima

§         l’inesistenza per i rappresentanti legali della qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, negli stessi settori in cui opera l’associazione.

L’aggiornamento annuale del registro è effettuata dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio.

 

L’articolo 7 istituisce presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio un Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica.

L’Ufficio svolge, in modo autonomo e imparziale, funzioni di controllo e di garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela; attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

 

In particolare, l’Ufficio:

§         fornisce assistenza, nei provvedimenti giurisdizionali o amministrativi, alle persone lese da comportamenti discriminatori

§         svolge, nel rispetto delle prerogative dell’autorità giudiziaria, inchieste finalizzate alla verifica dell’esistenza di fenomeni discriminatori;

§         promuove l’adozione - da parte dei soggetti pubblici e privati, in particolare delle associazioni e degli enti di cui all’articolo 6 - di progetti di azioni positive tesi ad evitare le situazioni di svantaggio connesse alla razza e all’origine etnica

§         diffonde la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti mediante azioni di sensibilizzazione e campagne di comunicazione;

§         formula raccomandazioni e pareri sulle questioni connesse alla discriminazione per razza ed origine etnica, nonché proposta di modifica della normativa vigente;

§         redige due relazioni annuali, una per il Parlamento sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, l’altra per il Presidente del Consiglio dei ministri, sull’attività svolta[447];

§         promuove studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, anche in collaborazione con le associazioni e le altre organizzazioni non governative che operano nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni.

 

L’Ufficio, che può richiedere ad enti, persone e imprese che ne siano in possesso, informazioni e documenti utili ai fini dei compiti sopra elencati, è diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato. Le modalità organizzative sono fissate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri[448].

L’Ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo, nonché di esperti e consulenti esterni. Questi ultimi devono essere scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche.


Libertà religiosa – Il progetto di riforma

La Camera ha discusso un disegno di legge di iniziativa governativa (A.C. 2531) recante norme in materia di libertà religiosa che riproduce, con alcune modifiche, il testo di un progetto di legge del Governo non pervenuto ad approvazione definitiva nella XIII legislatura[449].

Al disegno di legge del Governo sono stati abbinati due progetti di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 1576, Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi, presentato dagli onn. Spini ed altri, e A.C. 1902, Norme sulla libertà religiosa, d’iniziativa dell’on. Molinari) di impianto simile a quello del disegno di legge del Governo.

La Commissione Affari costituzionali ha approvato un primo testo il 9 aprile 2003; il 24 giugno 2003 l’Assemblea ne ha deliberato il rinvio in Commissione per ulteriori approfondimenti; la Commissione ha quindi concluso l’esame in sede referente il 13 aprile 2005, riformulando la relazione presentata il 9 aprile 2003 (A.C. 2531 e abb. – A/R); il progetto è rimasto in stato di relazione per l’Assemblea al momento dello scioglimento delle Camere.

 

La Commissione Affari costituzionali ha iniziato l’esame in sede referente delle tre proposte il 30 maggio 2002.

Dopo una serie di sedute in cui si sono svolti interventi di carattere generale, il 9 luglio 2002 la Commissione ha deliberato, ai sensi dell’articolo 79, comma 5, del regolamento, lo svolgimento di un’indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti alla libertà religiosa nell’ambito dell’esame dei progetti di legge vertenti su tale materia.

La Commissione ha quindi svolto dal 22 ottobre al 26 novembre 2002 le seguenti audizioni nell’ambito del programma di indagine:

 

seduta

soggetti auditi

22 ottobre 2002

Giorgio Villella, segretario dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti.

 

Carlo Cardia, componente della Commissione consultiva per la libertà religiosa della Presidenza del Consiglio

 

don Gianni Baget Bozzo

 

Francesco Castro, professore di diritto islamico presso la II Università di Roma Tor Vergata

31 ottobre 2002

Francesco Pizzetti, presidente della Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose della Presidenza del Consiglio dei ministri.

 

Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale

 

Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano e di storia ed istituzioni dei paesi islamici presso la facoltà di scienze politiche delle Università di Trieste e Urbino

19 novembre 2002

Domenico Maselli, professore di storia del cristianesimo presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Firenze.

 

Roberta Aluffi Beck Peccoz, professore associato di Sistemi giuridici comparati presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino

 

Pierluigi Zoccatelli, vice direttore del Centro europeo per lo studio delle nuove religioni

26 novembre 2002

monsignore Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana e Venerando Marano, direttore dell’Osservatorio giuridico della Conferenza episcopale italiana

 

Giuseppe Ferrari, segretario nazionale del Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa

 

Franco Cardini, professore ordinario di Storia medievale presso la facoltà di Lettere dell’Università di Firenze

 

L’esame dei provvedimenti è quindi ripreso il 10 dicembre 2002; il 22 gennaio 2003 si è conclusa la discussione generale con le repliche del relatore on. Bondi (FI) e del Sottosegretario per l’interno D’Alì e con l’adozione come testo base del disegno di legge C. 2531 del Governo.

Dopo vari rinvii dell’esame del provvedimento richiesti anche dal relatore in considerazione dell’elevato numero degli emendamenti, presentati in modo particolare da deputati della maggioranza (e più specificamente della Lega Nord, che ha più volte ribadito nel corso dell’esame la propria contrarietà rispetto al contenuto del disegno di legge), e a motivo della complessità degli argomenti posti, il 26 marzo è iniziata la votazione degli emendamenti, per concludersi il 9 aprile 2003 con la delibera da parte della Commissione di conferire il mandato al relatore di riferire in senso favorevole all’Assemblea sul testo approvato (A.C. 2531 e abb.-A).

Il 10 aprile 2003 si è svolta in Assemblea la discussione sulle linee generali e le repliche del relatore e del Governo; dopo un’ulteriore interruzione dei lavori, nella seduta del 24 giugno 2003, è stata approvata la proposta, avanzata dal relatore a nome del Comitato dei nove, di un rinvio in Commissione del progetto, ritenendosi necessario un periodo aggiuntivo di riflessione al fine di presentare in Aula un provvedimento in grado di ottenere un consenso e un’approvazione il più ampia possibile.

Il 20 aprile 2004 la Commissione ha ripreso l’esame del progetto di legge; il 4 maggio è stata approvata la proposta del presidente di nominare un Comitato ristretto nell’ambito del quale affrontare le questioni maggiormente controverse.

La Commissione si è riunita quindi il 23 novembre 2004 per audire il ministro dell’interno Pisanu, il quale ha svolto alcune considerazioni sul riconoscimento della diversità religiosa quale componente sempre più rilevante delle dinamiche sociali del nostro Paese nonché sul disegno di legge all’esame della Commissione, dichiarando di condividerne le finalità, in piena coerenza con la relazione presentata all’Assemblea dall’on. Bondi.

Dopo le dimissioni dell’on. Bondi dal mandato di relatore, è stata investita dell’incarico l’on. Paoletti Tangheroni, la quale, nella seduta del 14 dicembre 2004, ha svolto la relazione in cui ha ribadito la necessità di un intervento normativo che dia piena attuazione agli articoli 8, 19 e 20 della Costituzione, abrogando la legge del 1929, e ha richiamato l’intervento in Commissione del ministro dell’interno, il quale aveva sottolineato l’esigenza di valutare attentamente i problemi multietnici presenti nel nostro Paese e di governare in termini di integrazione e non di conflitto i rapporti con cittadini di culti diversi da quello cattolico.

Il 16 dicembre la Commissione ha adottato quale testo base per il seguito dell’esame il testo predisposto nella precedente fase di esame in sede referente, al quale sono stati presentati, il 19 gennaio 2005, emendamenti e articoli aggiuntivi.

Il provvedimento è stato iscritto nel calendario dei lavori dell’Assemblea, su richiesta dei gruppi di opposizione – sin dall’inizio favorevoli a una legge in materia – per il mese di febbraio.

Il 13 aprile 2005, a conclusione della votazione degli emendamenti, la Commissione ha deliberato, con il voto contrario della Lega Nord e l’astensione di Alleanza nazionale, di conferire il mandato al relatore di riferire in senso favorevole all’Assemblea sul nuovo testo.

Il provvedimento non è stato discusso dall’Assemblea.

Il contenuto del progetto di riforma

Nel testo approvato dalla I Commissione il 13 aprile 2005 (A.C. 2531 e abb. – A/R), il disegno di legge è composto di 41 articoli, suddivisi in quattro capi:

§      il capo I detta norme in materia di libertà di coscienza e di religione;

§      il capo II è dedicato alla disciplina delle confessioni e associazioni religiose;

§      il capo III regola la stipulazione di intese, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione;

§      il capo IV reca disposizioni finali e transitorie.

Libertà di coscienza e di religione (capo I)

In generale

I primi due articoli riconoscono e garantiscono, rispettivamente, la libertà di coscienza e di religione e le relative manifestazioni.

In particolare, l’articolo 1 enuncia espressamente la garanzia, riconosciuta a tutti, del diritto fondamentale, proprio della persona, della libertà di coscienza e di religione, sulla base delle disposizioni costituzionali, dell’ordinamento giuridico italiano, delle convenzioni internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo ratificate dall’Italia e dei princìpi del diritto internazionale in materia.

L’articolo 2 garantisce invece le manifestazioni proprie di tale libertà, enumerando i diritti:

§      di professare liberamente la propria religione, in forma individuale o associata;

§      di diffonderla e di farne propaganda;

§      di osservarne i riti e di esercitare il culto in privato e in pubblico;

§      di mutare religione o credenza;

§      di non averne alcuna.

Il contenuto essenziale del diritto di libertà religiosa consiste quindi nell’assicurare all’individuo la possibilità di estrinsecare la propria personalità religiosa in varie direzioni: dal soddisfacimento dei bisogni dello spirito (professione di fede ed atti di culto), al bisogno di far partecipi gli altri delle proprie idee (propaganda, riunione, corrispondenza) e di costituire organizzazioni o partecipare ad esse (associazione). In tal senso, l’articolo 4 estende espressamente i diritti di riunione ed associazione, previsti dagli articoli 17 e 18 Cost., anche alla finalità di religione o culto; mentre l’ultimo periodo dell’art. 2 precisa che non possono essere disposte limitazioni alla libertà di coscienza e di religione diverse da quelle previste dall’art. 18 Cost. il quale, garantendo la libertà di associazione, la limita (secondo comma) solo con riguardo alle associazioni segrete e a quelle che perseguono fini penalmente illeciti, ovvero scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare e dall’art. 19, in base al quale tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Il testo fa riferimento, inoltre, all’art. 20 Cost., il quale peraltro non prescrive limitazioni di sorta, anzi esclude che possano derivarne dal carattere ecclesiastico o dal fine di religione o di culto di una associazione o istituzione.

Le facoltà in cui si estrinseca la libertà religiosa sono elencate nell’articolo 5, comma 1; la libertà religiosa comprende quindi:

§      il diritto di aderire liberamente ad una confessione o associazione religiosa e di recedere da essa;

§      il diritto di partecipare alla vita ed all’organizzazione della confessione religiosa di appartenenza in conformità alle sue regole.

Divieto di discriminazione

Il comma 2 del citato articolo 5 ribadisce, a tutela dei diritti connessi alla libertà religiosa, che non possono essere posti in essere atti aventi lo scopo di discriminare, recare molestia o nuocere a coloro che esercitano tali diritti.

L’articolo 3, più in generale, vieta qualunque discriminazione o costrizione in ragione della propria religione. Viene altresì escluso l’obbligo di dichiarazioni specificamente relative alla propria appartenenza confessionale.

Obiezione di coscienza

L’articolo 6 stabilisce (comma 1) che i cittadini hanno diritto di agire secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza, nel rispetto dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione, mentre viene demandata (comma 2) alla legge la disciplina delle modalità per l’esercizio dell’obiezione di coscienza nei vari settori.

Esercizio della libertà religiosa e pratiche di culto

L’articolo 7, al comma 1, afferma il principio secondo cui l’appartenenza alle Forze armate, alle Forze di polizia o ad altri servizi assimilati, la degenza in strutture sanitarie, socio-sanitarie ed assistenziali (ospedali, case di cura etc.) o la permanenza in istituti di prevenzione e pena non impediscono l’esercizio della libertà religiosa agli appartenenti alle confessioni religiose che non hanno stipulato intese con lo Stato italiano.

In ogni caso, da tali adempimenti non devono derivare nuovi o maggiori oneri per le amministrazioni interessate.

Il comma 2 demanda le modalità di attuazione della norma a regolamenti ministeriali, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari; per le Forze armate, le Forze di polizia e i servizi assimilati, tali modalità dovranno essere compatibili con le esigenze di servizio.

Il comma 3 mira ad assicurare, in caso di decesso, la celebrazione delle esequie (previa intesa con i familiari del defunto) ad opera di un ministro di culto della religione di appartenenza. Tale disposto è riferito alle confessioni religiose che abbiano personalità giuridica.

L’articolo 8 opera, al comma 1, un generale rinvio alla legislazione vigente con riguardo a vari aspetti della tutela della libertà religiosa nel lavoro domestico e nei luoghi di lavoro.

A fronte della completezza delle disposizioni recate dall’art. 7 in relazione a professioni e situazioni particolari, il comma 1 dell’art. 8 si limita ad operare un rinvio alle norme vigenti limitatamente ai seguenti aspetti:

§         l’adempimento dei doveri essenziali del culto nel lavoro domestico;

§         il divieto di licenziamento determinato da ragioni di fede religiosa nei luoghi di lavoro e la nullità di patti o atti diretti a fini di discriminazione religiosa;

§         il divieto di indagine sulle opinioni religiose.

Il comma 2 rimette, invece, ai contratti collettivi e individuali di lavoro l’esercizio della libertà religiosa nelle sue varie espressioni.

Il libero svolgimento di altre attività ricollegabili all’esercizio della libertà religiosa, quali le affissioni e la distribuzione di pubblicazioni, o le collette effettuate all’interno ed all’ingresso dei luoghi di culto, è garantito dall’articolo 12.

L’articolo 13 introduce infine, a tutela della loro destinazione, limitazioni agli interventi pubblici su edifici aperti al culto di confessioni religiose aventi personalità giuridica. Tali interventi (occupazione, requisizione, espropriazione, demolizione) sono possibili solo per gravi motivi e sentite le confessioni stesse.

Ministri di culto e celebrazione del matrimonio

L’articolo 9 è volto ad attuare il principio della libertà di organizzazione confessionale, sancendo la libertà per i ministri di culto di svolgere il loro ministero spirituale (comma 1) e stabilendo (comma 2) che i ministri di culto appartenenti a confessioni religiose che non abbiano stipulato un’intesa con lo Stato italiano (purchè cittadini italiani), possono compiere atti destinati ad avere rilevanza giuridica nello Stato, previa approvazione della loro nomina da parte del Ministro dell’interno. Le modalità e le procedure per l’approvazione sono rimesse a un regolamento ministeriale.

L’articolo 10 disciplina la celebrazione del matrimonio davanti ad un ministro di culto la cui nomina sia stata approvata dal Ministro dell’interno ai sensi dell’art. 9, comma 2: ricollegandosi alla normativa del 1929, l’articolo presuppone che sia il singolo a voler celebrare il matrimonio con effetti civili in forma religiosa, e che il ministro di culto appartenga ad una confessione che non abbia stipulato intese ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost..

La disposizione, ai fini del riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati secondo le modalità di seguito illustrate, impone l’obbligo della trascrizione dell’atto di matrimonio nei registri di stato civile.

L’iter procedurale prevede che dopo la richiesta delle pubblicazioni da parte dei nubendi, l’ufficiale di stato civile rilasci loro un nulla osta dal quale risulti tra l’altro l’inesistenza d’impedimenti al matrimonio e si attesti che l’ufficiale di stato civile ha provveduto a spiegare ai nubendi medesimi i diritti ed i doveri dei coniugi attraverso la lettura dei relativi articoli del codice civile.

Ai sensi dei commi 3 e 4 il ministro di culto, dopo aver celebrato il matrimonio, trasmette il relativo certificato – cui è allegato il nulla osta – all’ufficiale di stato civile (entro e non oltre cinque giorni dalla celebrazione); la trascrizione del matrimonio deve essere effettuata entro ventiquattro ore dalla ricezione di detta documentazione. Indipendentemente dalla tempestività della trascrizione, gli effetti civili del matrimonio decorrono in ogni caso dalla celebrazione (comma 5).

Mentre il comma 7 reca disposizioni di coordinamento (sostituendo all’art. 83 c.c. l’espressione “culti ammessi nello Stato” con quella di “culti diversi dal cattolico”), il comma 8 specifica che le nuove procedure introdotte dall’articolo non pregiudicano quanto stabilito nelle intese stipulate ai sensi dell’art. 7, secondo comma, e dell’art. 8 terzo comma, Cost..

Attività scolastiche

L’articolo 11 reca, al comma 1 una disposizione di ordine generale inerente all’insegnamento nelle scuole pubbliche, che deve svolgersi “nel rispetto della libertà di coscienza e della pari dignità senza distinzione di religione”. Si tratta di una specificazione dei princìpi generali introdotti nei primi articoli del progetti di legge, ricavabile altresì dai principi di libertà di insegnamento.

Il successivo comma stabilisce che, nell’ambito delle attività di promozione culturale sociale e civile previste dall’ordinamento scolastico, gli alunni e i genitori possano chiedere agli organi competenti di svolgere “libere attività didattiche complementari” relative allo studio delle religioni.

Confessioni e associazioni religiose (capo II)

Libertà delle confessioni religiose

L’articolo 14 enuncia i diritti che competono a tutte le confessioni religiose in attuazione dell’art. 8, primo comma, Cost., che riconosce eguale libertà a tutte le confessioni senza richiedere per ciascuna di esse alcun requisito formale o sostanziale.

Tra i diritti riconosciuti, quelli di celebrare i propri riti (purchè non contrari al buon costume: cfr. art. 19 Cost.), di aprire edifici di culto, di diffondere la propria religione, di nominare i propri ministri, di emanare atti in materia spirituale, di assistere i propri fedeli; di corrispondere liberamente con proprie organizzazioni o con altre confessioni, di promuovere la valorizzazione delle proprie espressioni culturali, nel rispetto dei diritti e delle libertà delle altre confessioni religiose.

Il comma pone 2 pone espressamente il divieto di fare propaganda politica consistente nell’incitamento all’odio e alla discriminazione fra le confessioni religiose.

Riconoscimento della personalità giuridica

Gli articoli da 15 a 19 disciplinano l’iter procedurale finalizzato al riconoscimento civile della personalità giuridica delle confessioni religiose: l’elemento di maggior rilievo di tale disciplina normativa risiede nell’estensione alle confessioni “prive di intesa” della possibilità di richiedere, direttamente o per il tramite di un proprio ente esponenziale, il riconoscimento della personalità giuridica.

Per quanto attiene ai modi di acquisto della personalità giuridica, si può preliminarmente osservare che la normativa proposta (articolo 15) si richiama alla procedura in passato adottata[450] per il riconoscimento di tutti i nuovi enti, cattolici e non cattolici, a carattere unitario e su base nazionale: proposta e previa istruttoria del ministro dell’interno, acquisizione del parere del Consiglio di Stato, deliberazione del Consiglio dei ministri, decreto del Presidente della Repubblica.

 

Pur essendo venuta meno l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato con l’approvazione della legge 127/1997 (art. 17, commi 25-27), che ha dettato una disciplina generale dei pareri di tale organo, stabilendo tassativamente i casi in cui i pareri sono obbligatori e non ricomprendendo tra questi il riconoscimento della personalità giuridica[451], rimane tuttavia in capo all’Amministrazione la facoltà di richiedere il parere dell’organo consultivo qualora ne ravvisi la necessità.

 

L’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato, che il progetto di legge intende reintrodurre, è motivata sulla base dell’esigenza di verificare sia la compatibilità dello statuto della confessione religiosa con l’ordinamento giuridico, sia la stessa natura confessionale dell’associazione che chiede il riconoscimento, in considerazione del fatto che l’ordinamento giuridico non definisce cosa sia una confessione religiosa.

 

L’articolo 16 dispone che l’istanza di riconoscimento sia corredata dello statuto e di una documentazione (i cui contenuti sono definiti dall’articolo 17) in cui risultino – oltre all’indicazione della denominazione e della sede e delle caratteristiche della confessione – le norme di organizzazione, amministrazione e di funzionamento nonché “ogni elemento utile alla conoscenza della presenza nel tessuto sociale e alla valutazione della stabilità e della base patrimoniale di cui dispone la confessione o l’ente esponenziale in relazione alle finalità perseguite”. Particolare rilievo presenta la seconda parte dell’art. 17, co. 1, il quale – circoscrivendo l’ambito di discrezionalità nella valutazione degli organi amministrativi – dispone che il parere del Consiglio di Stato verta principalmente sulla natura confessionale dell’organizzazione richiedente, sulla conformità dello statuto e dell’attività della confessione religiosa all’ordinamento giuridico italiano nonchè sull’assenza, nello statuto medesimo, di disposizioni lesive dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali.

L’art. 16 pone inoltre, quali condizioni per la presentazione dell’istanza, che la sede del soggetto sia in Italia e che esso sia rappresentato da un cittadino italiano avente domicilio in Italia.

Gli adempimenti successivi al riconoscimento della personalità giuridica riflettono, in linea generale, la normativa derivante dalle intese con le confessioni religiose ex art. 8 Cost.: l’articolo 18 prescrive che la confessione riconosciuta si iscriva nel registro delle persone giuridiche (come già previsto per gli enti delle confessioni pentecostale, avventista, ebraica, battista e luterana), con la specificazione delle norme di funzionamento e dei poteri degli organi rappresentativi dell’ente. La mancata iscrizione entro il termine di trenta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del decreto di riconoscimento comporta l’impossibilità dell’attività negoziale sino all’iscrizione nel registro predetto.

L’articolo 19 condiziona  al riconoscimento governativo l’efficacia civile di ogni mutamento sostanziale che interessi gli elementi identificativi della confessione religiosa o del relativo ente esponenziale riconosciuto (fine, destinazione del patrimonio, modo di esistenza).

Qualora intervenga un mutamento che implichi la perdita di uno dei requisiti prescritti per il riconoscimento, quest’ultimo può essere revocato con le stesse modalità procedurali precedentemente richiamate.

L’articolo 23 al fine di dare esplicita attuazione all’art. 20 Cost. (che vieta trattamenti speciali restrittivi nei confronti di associazioni ed istituzioni aventi “carattere ecclesiastico” e “fine di religione o di culto”), prevede che associazioni e fondazioni con finalità di religione e di culto possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica con decreto del Ministro dell’interno, previo accertamento del fine di religione o di culto.

Acquisti delle confessioni religiose; edilizia di culto; sepoltura dei defunti

L’articolo 20 rinvia per gli acquisti delle confessioni religiose o dei loro enti esponenziali alle leggi civili concernenti gli acquisti delle persone giuridiche.

L’articolo 21 estende, al comma 1, l’applicabilità alle confessioni religiose che hanno acquisito la personalità giuridica, delle norme sulla concessione e locazione dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e degli enti locali vigenti per gli enti ecclesiastici, nonché di quelle che regolano l’utilizzo di fondi per gli interventi di costruzione, restauro e conservazione di edifici aperti al culto. L’estensione è peraltro limitata alle confessioni che abbiano una presenza organizzata nell’ambito del relativo comune. Inoltre, l’applicazione di tali disposizioni è definita sulla base di intese stipulate con le autorità competenti, tenuto conto delle esigenze religiose della popolazione.

L’articolo 22 dispone che la sepoltura dei defunti sia effettuata secondo il rito della confessione di appartenenza, se avente personalità giuridica, compatibilmente con le norme di polizia mortuaria e con quelle in materia di cremazione. È esplicitamente fatto salvo l’art. 100 del regolamento di polizia mortuaria, ai sensi del quale i piani regolatori cimiteriali possono prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri di persone professanti un culto diverso da quello cattolico.

Regime tributario; attività delle confessioni religiose

L’articolo 24 rimette alla legge l’indicazione dei casi in cui, sotto il profilo tributario, le confessioni religiose aventi personalità giuridica (o i loro enti esponenziali) aventi fine di religione, credenza o culto, nonché le attività dirette a tali scopi sono equiparate agli enti ed alle attività aventi finalità di beneficenza o di istruzione.

Quanto alle altre attività svolte, diverse da quelle di religione, credenza o culto, si stabilisce che resta valido il regime vigente, ivi compreso quello tributario.

L’articolo 25 opera una distinzione tra le attività religiose e di culto e le altre attività: riprendendo una ripartizione già invalsa nella legislazione ecclesiastica (art. 16 della legge 222/1985), agli effetti civili, sono ricomprese nella prima categoria le attività “dirette all’esercizio del culto e dei riti, alla cura delle anime, a rispondere alle esigenze spirituali della persona, alla formazione dei ministri di culto, a scopi missionari e di diffusione della propria fede ed all’educazione religiosa”. Rientrano nella sfera delle altre attività, quelle di “assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro”.

L’articolo 26 ha natura esclusivamente ricognitiva, limitandosi a confermare l’obbligo di iscrizione al “Fondo di previdenza per il clero secolare e per i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica”, istituito con la legge 903/1973[452], per i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, sulla base delle procedure e con le modalità previste dalla legge stessa.

Stipulazione di intese (capo III)

La disciplina del procedimento per la stipulazione delle intese tra lo Stato e le confessioni diverse dalla cattolica è contenuta nel capo III del progetto di legge (articoli da 27 a 36).

Il procedimento proposto per la stipulazione delle intese ricalca sostanzialmente quello che si è andato affermando nella prassi (v. scheda Libertà religiosa – La stipulazione delle intese) e si può suddividere in tre fasi:

§         la fase preliminare, relativa alle modalità di presentazione della istanza da parte della confessione religiosa (artt. 27-29);

§         la fase di formazione dell’intesa, fino alla firma della stessa (artt. 30-34);

§         la fase finale, di perfezionamento dell’intesa con la ratifica parlamentare (art. 35).

Per quanto riguarda la fase preliminare, il progetto di legge consente la presentazione dell’istanza per la stipulazione dell’intesa, sia alle confessioni religiose riconosciute come enti morali sia a quelle che non abbiano avuto tale riconoscimento. Si tratta di una innovazione rispetto al procedimento utilizzato nella prassi, in cui non si procede nemmeno all’esame dell’istanza nel caso di presentazione da parte di confessione non riconosciuta.

Come unica condizione per la presentazione dell’istanza si richiede che la confessione sia dotata di un proprio statuto e che questo non sia in contrasto con l’ordinamento giuridico (art. 27). La richiesta, da presentare al Presidente del Consiglio, deve essere accompagnata dalla documentazione, compreso lo statuto, da cui risulti l’organizzazione della confessione. Si tratta della stessa documentazione richiesta per il riconoscimento della personalità giuridica alle confessioni prive di intesa, ai sensi dell’articolo 17 del provvedimento, cui si rinvia.

Nel caso delle istanze presentate dalle confessioni non aventi personalità giuridica, l’avvio della procedura è subordinata alla verifica che lo statuto della confessione religiosa non sia in contrasto con l’ordinamento giuridico e non contenga disposizioni lesive dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali. La verifica è effettuata dal Ministero dell’interno, su richiesta del Presidente del Consiglio, e previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato (art. 28).

Infine, prima di procedere all’inizio delle trattative per la definizione dell’intesa, il Presidente del Consiglio procede ad una specie di preistruttoria (“acquisite le necessarie valutazioni per decidere se avviare le trattative”), ed invita formalmente la confessione interessata a indicare i propri rappresentanti, responsabili delle trattative (art. 29).

Una volta compiute le formalità sopra brevemente descritte, prende avvio il procedimento vero e proprio di formazione dell’intesa. Le trattative sono condotte da parte della confessione religiosa da propri rappresentanti indicati ai sensi dell’art. 29, e da parte del Governo, dal sottosegretario di Stato con l’incarico di segretario del Consiglio dei ministri, delegato dal Presidente del Consiglio. La base della trattativa è costituita dalle proposte formulate da una Commissione di studio ad hoc (vedi infra). Al termine delle trattative si giunge ad un progetto di intesa che il Sottosegretario di Stato trasmette al Presidente del Consiglio accompagnato da una propria relazione (art. 30).

La commissione di studio con il compito di elaborare il progetto per le trattative è disciplinata dal successivo art. 31.

Si tratta di una commissione che rientra tra i gruppi di studio o di lavoro misti, ossia formati da rappresentanti della pubblica amministrazione e da esperti esterni, che il Presidente del Consiglio può istituire ai sensi della L. 400/1988, art. 5, co. 2, lett. i). La commissione, istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è composta dal Capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’interno – o da un suo delegato – e da rappresentanti delle amministrazioni interessate con incarico di dirigente di prima fascia o equiparato. La confessione religiosa interessata designa propri rappresentanti (scelti tra cittadini italiani) in numero pari a quello dei funzionari pubblici.

Il Presidente del Consiglio sceglie il presidente della commissione tra le categorie indicate dall’articolo 29, comma 2, della L. 400 del 1988: magistrati, docenti universitari, avvocati dello Stato, dirigenti e altri dipendenti delle amministrazioni dello Stato, degli enti pubblici, anche economici, delle aziende a prevalente partecipazione pubblica, ed esperti esterni all’amministrazione dello Stato.

 

Attualmente il compito di predisporre le bozze di intesa è svolto dalla Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, istituita la prima volta nel 1985. La commissione attualmente in carica è stata istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 1997 e riconfermata dal Governo in carica nella XIV legislatura; essa è presieduta dal prof. Franco Pizzetti ed è composta da rappresentanti dei Ministeri interessati: interno, giustizia, tesoro, finanze (ora accorpati nel Ministero dell’economia e delle finanze), difesa, pubblica istruzione (ora istruzione, università e ricerca), beni e attività culturali, sanità (ora salute). La Commissione, su indicazione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, predispone le bozze di intesa unitamente alle delegazioni delle confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta.

 

Oltre alla commissione interministeriale, nella procedura vigente per la stipulazione di intese, interviene, con compiti consultivi, un altro organismo: la Commissione per la libertà religiosa, che il progetto di legge non prende in considerazione.

 

La Commissione consultiva per la libertà religiosa è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il 14 marzo 1997, il quale le attribuisce funzioni di studio, informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei principi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza. La Commissione procede alla ricognizione e all’esame dei problemi relativi alla preparazione di intese con le Confessioni religiose, elaborando orientamenti di massima in vista della loro stipulazione. Essa si esprime, altresì, su questioni attinenti alle relazioni tra Stato e confessioni religiose in Italia e nell’Unione Europea che le vengono sottoposte dal Presidente del Consiglio dei ministri e segnala, a sua volta, problemi che emergono in sede di applicazione della normativa vigente in materia, anche di derivazione internazionale.

 

Il progetto di intesa concordato tra il Presidente del Consiglio e la confessione religiosa viene sottoposto, prima della firma definitiva, ad un duplice controllo: del Consiglio dei ministri e delle Camere (art. 32).

Nel primo caso, il Presidente del Consiglio sottopone il progetto di intesa al Consiglio dei ministri che è chiamato a deliberare in proposito. Nel secondo caso, Le Commissioni parlamentari esprimono il parere entro 45 giorni dalla assegnazione.

Qualora nell’esame parlamentare o in seno al Consiglio dei ministri emergano osservazioni ed indirizzi di portata tale da rendere necessaria la modifica dell’intesa, il testo viene rimesso al Sottosegretario di Stato che riprende le trattative con le stesse procedure sopra viste (art. 33).

Infine, il procedimento si conclude con la firma dell’intesa da parte del Presidente del consiglio e il rappresentante della confessione religiosa (art. 34).

L’ultima fase consiste nella presentazione al Parlamento da parte del Governo del disegno di legge di approvazione dell’intesa (art. 35).

 

L’ambito di intervento del Parlamento è limitato alla possibilità di approvare o respingere il disegno di legge di recepimento dell’intesa, dal momento si è affermata la prassi di restringere l’emendabilità del testo esclusivamente a modifiche di carattere formale.

In questo senso, è particolarmente innovativa la disposizione introdotta dagli articoli 32 e 33 del progetto di legge, laddove si prevede che il progetto di intesa sia sottoposto all’esame delle Camere e che il Governo deve tener conto delle osservazioni emerse in quella sede. Si introduce, pertanto, una specie di “parlamentarizzazione” del procedimento di formazione delle intese: il coinvolgimento preventivo delle Camere compensa la scarsa possibilità di incidere sul disegno di legge di approvazione.

 

Conclude il capo III esame, l’articolo 36, relativo ad una materia estranea alla stipulazione delle intese.

Si tratta, infatti, della questione della applicazione di disposizioni di legge relative a specifiche materie che riguardino i rapporti tra lo Stato e singole confessioni religiose che hanno personalità giuridica[453]. In questi casi si provvede con decreto del Presidente della Repubblica su richiesta della confessione e previa intesa (da intendersi nel senso di “concertazione”, come si legge nella relazione illustrativa) con essa.

 

Si tratta di una procedura già utilizzata soprattutto nella normativa in vigore in materia di previdenza, come ad esempio la legge istitutiva del Fondo di previdenza dei ministri di culto (sul quale, vedi supra). Il fondo, istituito presso l’INPS, eroga le pensioni per i sacerdoti cattolici e i ministri di culto delle confessioni non cattoliche, che sono tenuti ad iscriversi e a contribuire al fondo medesimo. La legge disciplina dettagliatamente la tenuta del fondo e le modalità di contribuzione, ma demanda la concreta applicazione della legge nei confronti delle confessioni acattoliche alla concertazione tra Governo e singole confessioni. I risultati della concertazione sono recepiti da decreti del Ministro dell’interno (a differenza del progetto di legge che prevede l’emanazione di decreti del Presidente della Repubblica).

Disposizioni finali e transitorie (capo IV)

Gli articoli da 37 a 41 recano disposizioni transitorie concernenti le confessioni religiose già riconosciute, la salvaguarda del regime giuridico e previdenziale dei ministri di culto la cui nomina sia stata approvata ai sensi della legge 1159/1929, le confessioni religiose che siano persone giuridiche straniere, il mantenimento in vigore delle disposizioni di origine negoziale emanate in attuazione di accordi e Intese già stipulate; le abrogazioni.

 


Libertà religiosa – La stipulazione delle intese

La Costituzione sancisce il diritto di professare le proprie convinzioni, anche religiose. In particolare, l’articolo 3 prevede la non discriminazione in base a ragioni legate al sesso alla razza, alla lingua, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e, appunto, alla religione, e l’articolo 21 il diritto per tutti di manifestare liberamente il proprio pensiero.

La libertà religiosa è garantita dall’articolo 19 che stabilisce il diritto per tutti di professare liberamente la propria fede religiosa e dall’articolo 20 che vieta l’introduzione di speciali limitazioni legislative o fiscali per le associazioni religiose.

I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono disciplinati dagli articoli 7 e 8 della Costituzione, relativi ai rapporti tra Stato e, rispettivamente, Chiesa cattolica e confessioni non cattoliche.

I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica

L’articolo 7 della Costituzione stabilisce quale sia la reciproca posizione istituzionale dello Stato e della Chiesa cattolica, affermando che “sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.

In base a tale articolo, i rapporti istituzionali tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono disciplinati dai Patti Lateranensi, stipulati l’11 febbraio 1929 e resi esecutivi con la L. 810/1929[454], nonché dall’Accordo di modificazione del Concordato e dal “Protocollo addizionale” del 18 febbraio 1984[455].

 

I Patti Lateranensi constavano, nella versione stipulata nel 1929 e parzialmente in vigore, di:

§       un Trattato, che ha restituito in forma simbolica la sovranità della Santa Sede su un territorio ed ha lo scopo di garantire alla stessa Santa Sede l’assoluta indipendenza per l’adempimento della sua missione nel mondo. A tal fine il Trattato riconosce alla Santa Sede sovranità internazionale, creando lo Stato della Città del Vaticano;

§       una Convenzione finanziaria, che ha regolato i rapporti finanziari collegati con la “questione romana” (sorta nel 1870 con l’annessione dello Stato Pontificio e di Roma all’Italia), liquidando l’indennizzo alla Santa Sede sia per la perdita degli Stati pontifici che dei beni degli enti ecclesiastici incamerati dallo Stato;

§         un Concordato, proposto come necessario completamento del Trattato, riguardando le condizioni della religione e della Chiesa cattolica in Italia.

La disciplina contenuta nell’Accordo di modificazione è racchiusa in 14 articoli che riguardano, fra gli altri temi: la libertà della missione della Chiesa, la libertà di comunicazione e corrispondenza dell’autorità ecclesiastica e quella dei cattolici in materia di associazione, riunione e manifestazione del pensiero, la libertà per l’autorità ecclesiastica di nominare i titolari degli uffici ecclesiastici (salvo comunicare all’autorità statale la nomina degli ufficiali che ricoprano uffici rilevanti per lo Stato, quali vescovi, parroci, etc.), la regolamentazione degli enti ecclesiastici e la gestione del patrimonio di questi, il nuovo regime del riconoscimento civile del matrimonio canonico e delle sentenze ecclesiastiche di nullità del vincolo, la disciplina delle scuole cattoliche parificate e delle Università cattoliche, nonché dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Il Protocollo addizionale ha lo scopo di assicurare la migliore interpretazione dei Patti lateranensi ed evitare ogni difficoltà di interpretazione: viene eliminato il riferimento alla religione cattolica come religione di Stato (contenuta nel Concordato del 1929) e disciplina ulteriormente il regime del matrimonio canonico e l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche.

I rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche

I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche (o acattoliche) sono regolati dall’articolo 8 della Costituzione, che sancisce il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose. Viene riconosciuta alle confessioni non cattoliche l’autonomia organizzativa sulla base di propri statuti, a condizione che questi non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano ed è posto il principio secondo il quale i rapporti delle confessioni con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Per quanto riguarda l’autonomia organizzativa delle confessioni diverse dalla cattolica, la Corte costituzionale, con la sentenza 43/1988, ha chiarito che “al riconoscimento da parte dell’art. 8, secondo comma, Cost., della capacità delle confessioni religiose, diverse dalla cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l’abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti. Con questa autonomia istituzionale, che esclude ogni possibilità di ingerenza dello Stato nell’emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni religiose.” La Corte ha quindi affermato il principio secondo cui il limite al diritto riconosciuto alle confessioni religiose dall’art. 8 Cost. di darsi i propri statuti, purché ‘non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano’ si può intendere riferito “solo ai principi fondamentali dell’ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative”.

Il principio della regolazione con intesa, che, come si è visto, avrebbe dovuto costituire la forma principale di rapporto con le confessioni non cattoliche, in realtà è stato attuato solamente a partire dalla metà degli anni ‘80 e riguarda alcune delle varie confessioni presenti in Italia (vedi oltre).

Attualmente, la disciplina riguardante le confessioni non cattoliche presenti in Italia è diversa a seconda che queste abbiano o meno proceduto alla stipulazione di una intesa con lo Stato.

I rapporti tra lo Stato e le confessioni non cattoliche prive di intesa

Per le confessioni prive di intesa è tuttora applicata la legge sui “culti ammessi”, legge 1159/1929[456] e il relativo regolamento di attuazione[457].

La legge del 1929 si fonda sul principio della libera ammissione dei culti diversi dalla religione cattolica “purché non professino princìpi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume”. Entro questi limiti, viene affermata la libertà di coscienza e di culto in tutte le sue forme e dell’eguaglianza dei cittadini, qualunque sia la religione da essi professata.

 

Gli istituti dei culti non cattolici possono essere eretti in ente morale dallo Stato italiano. Il riconoscimento comporta una serie di vantaggi tra cui la possibilità dell’ente di culto di acquistare e possedere beni in nome proprio e di avvalersi di agevolazioni tributarie.

D’altra parte, lo Stato, attraverso il Ministero dell’interno, esercita penetranti poteri di controllo nei confronti degli enti riconosciuti. In particolare, sono previste le seguenti misure:

§      l’approvazione governativa delle nomine dei ministri di culto con la precisazione che “nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti compiuti da tali ministri se la loro nomina non abbia ottenuto l’approvazione governativa”;

§      l’autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio con effetti civili davanti ad un ministro di culto non cattolico

§      la vigilanza sull’attività dell’ente, al fine di accertare che tale attività non sia contraria all’ordinamento giuridico e alle finalità dell’ente medesimo. La vigilanza include la facoltà di ordinare ispezioni e, in caso di gravi irregolarità, di sciogliere l’ente e di nominare un commissario governativo per la gestione temporanea.

Il R.D. 289/1930 non si è limitato a dettare norme per l’attuazione della legge, ma ha stabilito princìpi nuovi ed in parte più restrittivi. Ad esempio:

§      è prevista la necessaria autorizzazione con decreto per l’apertura di templi o oratori, subordinatamente all’accertamento, da parte dell’autorità amministrativa, della necessità di essi “per soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli” ed della sussistenza di “mezzi sufficienti per sostenere le spese di manutenzione”;

§      i fedeli di un culto ammesso possono tenere riunioni pubbliche, senza autorizzazione preventiva, solo negli edifici aperti al culto ed a condizione che la riunione sia “presieduta o autorizzata da un ministro di culto” nominato con la prevista autorizzazione.

Il R.D. 289/1930 prevede anche disposizioni di favore, quali:

§      la facoltà di prestare assistenza religiosa nei luoghi di cura e di ritiro, presso le Forze armate, gli istituti penitenziari;

§      le esenzioni dal servizio militare;

§      la possibilità, per i genitori di famiglia professante un culto non cattolico, di chiedere la dispensa per i propri figli dal frequentare i corsi di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche e di ottenere che sia messo a loro disposizione un locale scolastico per l’insegnamento religioso dei loro figli.

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 346 del 2002, ha giudicato costituzionalmente illegittima una disposizione di una legge della Regione Lombardia che prevede benefici per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, nella parte in cui introduceva come elemento di discriminazione fra le confessioni religiose che aspirano ad usufruire dei benefici, avendone gli altri requisiti, l’esistenza di un’intesa per la regolazione dei rapporti della confessione con lo Stato.

 

La Corte ha affermato che le intese previste dall’art. 8, terzo comma, Cost. non sono e non possono essere una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8 né per usufruire di benefici a loro riservati, quali, nella specie, l’erogazione di contributi; risultano altrimenti violati il divieto di discriminazione (art. 3 e art. 8, primo comma, Cost.), nonché l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto (art. 19, Cost.), di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza, la possibilità per le medesime di accedere a benefici economici come quelli previsti dalla legge oggetto del giudizio di costituzionalità.

 

Il riconoscimento della personalità giuridica degli enti, associazioni o fondazioni di confessioni religiose presuppone come condizione ineludibile che si tratti di religioni i cui princìpi e le cui manifestazioni esteriori (riti) non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico dello Stato.

La richiesta per il riconoscimento della personalità giuridicaè presentata dal soggetto interessato al prefetto. Alla domanda deve essere allegato lo statuto dell’ente. Il riconoscimento viene concesso, su proposta del ministro dell’interno, con decreto del Presidente della Repubblica, uditi il Consiglio di Stato (che esprime un parere di legittimità) ed il Consiglio dei ministri (il quale si pronuncia in merito alla opportunità politica).

 

Pur essendo venuta meno l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato con l’approvazione della legge 127/1997 (art. 17, commi 25-27), che ha dettato una disciplina generale dei pareri di tale organo, stabilendo tassativamente i casi in cui i pareri sono obbligatori e non ricomprendendo tra questi il riconoscimento della personalità giuridica[458], rimane tuttavia in capo all’Amministrazione la facoltà di richiedere il parere dell’organo consultivo qualora ne ravvisi la necessità.

 

A seguire, si elencano gli enti di culto (diversi dal cattolico) che hanno ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica e i relativi provvedimenti di riconoscimento.

 

Enti di culto diversi dal cattolico dotati di personalità giuridica

§         ASSOCIAZIONE DEI CRISTIANI ORTODOSSI IN ITALIA - GIURISDIZIONI TRADIZIONALI – D.P.R. ric. giur.14/1/1998 – mut. denom. D.P.R. 28/7/2004

§         ASSOCIAZIONE CHIESA DEL REGNO DI DIO – TORINO D.P.R.16/12/1988

§         ASSOCIAZIONE SANTACITTARAMA – D.P.R. 10/7/1995

§         CENTRO ISLAMICO CULTURALE D´ITALIA – D.P.R. 21/12/1974

§         CHIESA CRISTIANA EVANGELICA MISSIONARIA PENTECOSTALE DI OLIVARELLA DI MILAZZO - D.P.R. 16/12/1988

§         CHIESA CRISTIANA EVANGELICA INDIPENDENTE BEREA – D.P.R. 25/10/1999

§         CHIESA CRISTIANA MILLENARISTA – D.P.R. 17/5/1979

§         CHIESA DI CRISTO DI MILANO – D.P.R. 13/6/1977

§         CHIESA E CONFRATERNITA DEI SS. PIETRO E PAOLO DEI NAZIONALI GRECI – Regio Exequatur 20/2/1764

§         CHIESA ORTODOSSA RUSSA IN ROMA – R.D. 14/11/1929

§         CHIESA ORTODOSSA RUSSA IN SANREMO – D.P.R. 3/7/1966

§         COMUNITA´ ARMENA DEI FEDELI DI RITO ARMENO GREGORIANO – D.P.R. 24/2/1956

§         COMUNITA´ DEI GRECI ORTODOSSI IN VENEZIA – SOVRANE CONCESSIONI REPUBBLICA VENETA 28/11/1498, 4/10/1511 E 11/7/1526 – Statuto approvato 30/7/1940

§         COMUNITA´ EVANGELICA DI CONFESSIONE ELVETICA O CHIESA EVANGELICA RIFORMATA SVIZZERA DI TRIESTE – R.D. 4/4/1938

§         COMUNITA´ EVANGELICA DI CONFESSIONE ELVETICA O CHIESA EVANGELICA RIFORMATA SVIZZERA DI FIRENZE – Provvedimento Governo austriaco 7/1/1782

§         COMUNITA´ EVANGELICA DI MERANO DI CONFESSIONE AUGUSTANA – PROVVEDIMENTI GOVERNO AUSTRIACO 28/12/1875 E 5/1/1876

§         COMUNITA´ GRECO-ORIENTALE IN TRIESTE – PROVVEDIMENTI IMPERIALI 9/8/1782 E 7/3/1784 – statuto approvato con decreto imperiale 7/4/1786

§         COMUNITA´ RELIGIOSA SERBO-ORTODOSSA DI TRIESTE – prima approvazione statuto rescritto imperiale 28/2/1773 – ultimo statuto approvato D.P.R. 29/3/1989

§         CONGREGAZIONE CRISTIANA DEI TESTIMONI DI GEOVA –  D.P.R. 31/10/ 1986

§         CONGREGAZIONE CRISTIANA EVANGELICA ITALIANA IN GENOVA-SAMPIERDA-RENA –  D.P.R. 26/10/1976

§         CONSULTA EVANGELICA –  D.P.R. 13/9/1999

§         ENTE CRISTIANO EVANGELICO DEI FRATELLI IN NOVI LIGURE – D.P.R. 13/11/1997

§         ENTE PATRIMONIALE DELLA CHIESA DI GESU’ CRISTO DEI SANTI DEGLI ULTIMI GIORNI (MORMONI) –  D.P.R. 23/2/1993

§         F.P.M.T. ITALIA – FONDAZIONE PER LA PRESERVAZIONE DELLA TRADIZIONE MAHAYANA – D.P.R.20/ 7/1999

§         FONDAZIONE APOSTOLICA – ENTE PATRIMONIALE DELLA CHIESA APOSTOLICA IN ITALIA – D.P.R. 21/2/ 1989

§         FONDAZIONE DELL´ASSEMBLEA SPIRITUALE NAZIONALE DEI BAHA´I D´ITALIA –  D.P.R. 21/11/1966

§         ISTITUTO BUDDISTA ITALIANO SOKA GAKKAI –  D.P.R. 20/11/2000

§         ISTITUTO ITALIANO ZEN SOTO SHOBOZAN FUDENJI –  D.P.R. 5/7/1999

§         MOVIMENTO EVANGELICO INTERNAZIONALE “FIUMI DI POTENZA” –  D.P.R. 10/9/1971

§         OPERA DELLA CHIESA CRISTIANA DEI FRATELLI – R.D. 22/2/1891

§         SACRA ARCIDIOCESI ORTODOSSA D´ITALIA ED ESARCATO PER L´EUROPA MERIDIONALE (PATRIARCATO DI COSTANTINOPOLI) – D.P.R. 16/7/1998

§         SELF REALIZATION FELLOWSHIP CHURCH – ENTE DELLA CHIESA DELLA FRATELLANZA NELLA REALIZZAZIONE DEL SE´ – D.P.R. 3/7/1998

§         UNIONE BUDDHISTA ITALIANA (U.B.I.) – D.P.R. 3/1/1991

§         UNIONE INDUISTA ITALIANA (U.I.I.) SANATANA DHARMA SAMGHA –  D.P.R. 29/12/2000

§         CHIESA CRISTIANA BIBLICA – D.P.R. 28/1/2004

§         MISSIONI CRISTIANE INTERNAZIONALI – AVVENTISTI DEL SETTIMO GIORNO - MOVIMENTO DI RIFORMA – D.P.R. 28/1/2004

§         PRIMA CHIESA DEL CRISTO SCIENTISTA – D.P.R. 28/1/2004

§         CONGREGAZIONI CRISTIANE PENTECOSTALI - D.P.R. 20/6/2005

 

Fonte: Ministero dell’interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Direzione centrale degli affari dei culti (www.interno.it)

Le intese tra lo Stato e le confessioni non cattoliche

Per le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato italiano cessano di avere efficacia le norme sopra indicate, che sono sostituite dalle disposizioni contenute nelle singole intese.

A partire dal 1984, lo Stato italiano, in attuazione dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione, ha proceduto a stipulare intese con alcune confessioni religiose (vedi tabella 1).


 

Tab. 1. Le intese approvate con legge

 

Confessioni religiose

Intese

Chiese rappresentate dalla Tavola valdese

L. 11 agosto 1984, n. 449, integrata con la L. 5 ottobre 1993, n. 409

Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno

L. 22 novembre 1988, n. 516, modificata dalla L. 20 dicembre 1996, n. 637

Assemblee di Dio in Italia

L. 22 novembre 1988, n. 517

Unione delle Comunità ebraiche italiane

L. 8 marzo 1989, 101, modificata dalla L. 20 dicembre 1996, n. 638

Unione cristiana evangelica battista d’Italia

L. 12 aprile 1995, n. 116

Chiesa evangelica luterana in Italia

L. 29 novembre 1995, n. 520

 

Le intese finora intervenute danno atto della autonomia e della indipendenza degli ordinamenti religiosi diversi da quello cattolico. Ciascuna intesa contiene disposizioni dirette a disciplinare i rapporti tra lo Stato e quella confessione religiosa che ha stipulato l’intesa. Si tratta, pertanto, di norme specifiche, spesso finalizzate a tutelare aspetti particolari, peculiari della confessione interessata. Si possono tuttavia individuare alcuni elementi ricorrenti: quasi tutte le intese recano disposizioni per l’assistenza individuale nelle caserme, negli ospedali, nelle case di cura e di riposo e nei penitenziari, per l’insegnamento della religione nelle scuole, per il matrimonio, per il riconoscimento di enti con fini di culto, istruzione e beneficenza, per il regime degli edifici di culto e per i rapporti finanziari con lo Stato nella ripartizione dell’8 per mille del gettito IRPEF e, infine, per le festività.

In generale, tali disposizioni concorrono a definire un regime più indipendente rispetto a quello valido per le confessioni prive di intesa sopra illustrato.

In questo senso particolarmente significative sono le disposizioni relative ai ministri del culto: per le confessioni che hanno stipulato le intese cessano di avere efficacia le norme sui “culti ammessi”, che, come si è detto, prevedono l’approvazione governativa delle nomine dei ministri; le confessioni nominano pertanto i propri ministri senza condizioni, salvo l’obbligo di registrazione in appositi elenchi.

Inoltre, diversa è la procedura relativa al riconoscimento della personalità giuridica degli istituti di culto: per quelli afferenti alle confessioni religiose che per prime hanno stipulato l’intesa, il procedimento ricalca quella per i “culti ammessi”, mentre per gli istituti di culto delle Chiese battista e luterana è prevista una procedura semplificata di emanazione con decreto ministeriale e non con decreto del Presidente della Repubblica.

 

Nella tabella seguente si riporta un quadro delle intese concluse e non ancora ratificate dal Parlamento:


 

Tab. 2. Le intese firmate e non approvate con legge

 

Confessione religiosa

Data firma intesa

Tavola Valdese (modifica)

27 maggio 2005

Unione italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno (modifica)

23 aprile 2004

Unione buddista italiana (UBI)

20 marzo 2000

Congregazione cristiana dei testimoni di Geova

20 marzo 2000

Fonte: Presidenza del Consiglio[459] (www.governo.it)

 

Le intese con la Chiesa avventista e con la Tavola Valdese contengono alcune modifiche puntuali alle Intese approvate a suo tempo con le due confessioni religiose (v. parte I, capitolo Le iniziative in materia di libertà religiosa). I disegni di legge di recepimento sono stati presentati dal Governo alla Camera rispettivamente il 24 giugno 2004 (A.C. 5085) e l’8 luglio 2005 (A.C. 5983). Al termine della legislatura, l’esame dei provvedimenti presso la Commissione affari costituzionali non era giunto a conclusione.

Per quanto riguarda le intese con l’Unione buddhista e con i Testimoni di Geova, a seguito della stipulazione delle intese siglate il 20 marzo 2000, il Governo ha presentato alla Camera i relativi disegni di legge di approvazione (XIII legislatura, A.C. 7023 e A.C. 7043). L’esame parlamentare dei due d.d.l. è iniziato presso la Commissione affari costituzionali il 20 luglio 2000. Durante il dibattito, alcune forze politiche hanno rilevato che l’intesa tra lo Stato e la Congregazione dei testimoni di Geova pone diversi problemi di compatibilità costituzionale, in relazione a specifici principi professati da questa confessione religiosa, non sollevati in relazione agli accordi con altre confessioni religiose conclusi fino a quel momento. L’esame parlamentare dei due disegni di legge si è interrotto con la fine della XIII legislatura.

 

La procedura per la stipulazione delle intese non è disciplinata in via legislativa. Si è formata peraltro, a partire dal 1984 (data della prima attuazione del dettato costituzionale in tale materia), una prassi consolidata che si può riassumere come segue.

Le trattative vengono avviate soltanto con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica nel nostro Paese ai sensi della legge 1159/1929. Tale riconoscimento presuppone che sia stata già effettuata una verifica della compatibilità dello statuto dell’ente rappresentativo della confessione con l’ordinamento giuridico italiano, così come richiesto dallo stesso articolo 8, comma 2, della Costituzione.

L’esame di compatibilità viene condotto sia dal Ministero dell’interno, competente per l’istruttoria volta al riconoscimento, sia dal Consiglio di Stato, il quale è chiamato ad esprimere il proprio parere in merito[460], concernente anche il carattere confessionale dell’organizzazione richiedente.

La competenza ad avviare le trattative, in vista della stipulazione di tali intese, spetta al Governo: a tal fine, le confessioni interessate che hanno conseguito il riconoscimento della personalità giuridica si devono rivolgere, tramite istanza, al Presidente del Consiglio.

L’incarico di condurre le trattative con le rappresentanze delle confessioni religiose è affidato dal Presidente del Consiglio al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con funzioni di Segretario del Consiglio dei Ministri, il quale si avvale di una apposita Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, istituita presso la stessa Presidenza per la prima volta nel 1985.

 

La Commissione per le intese con le confessioni religiose attualmente in carica è stata istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 1997 e riconfermata dal Governo in carica nella XIV legislatura; essa è presieduta dal prof. Franco Pizzetti ed è composta da rappresentanti dei Ministeri interessati: interno, giustizia, tesoro, finanze (ora accorpati nel Ministero dell’economia e delle finanze), difesa, pubblica istruzione (ora istruzione, università e ricerca), beni e attività culturali, sanità (ora salute).

 

La Commissione, su indicazione del Sottosegretario, predispone le bozze di intesa unitamente alle delegazioni delle confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta. Sulle bozze di intesa esprime il proprio preliminare parere la Commissione consultiva per la libertà religiosa, operante presso la Presidenza del Consiglio dal 1997.

 

La Commissione consultiva per la libertà religiosa è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 14 marzo 1997, il quale le attribuisce funzioni di studio, informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei principi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza. La Commissione procede alla ricognizione e all’esame dei problemi relativi alla preparazione di intese con le Confessioni religiose, elaborando orientamenti di massima in vista della loro stipulazione. Essa si esprime, altresì, su questioni attinenti alle relazioni tra Stato e confessioni religiose in Italia e nell’Unione europea che le vengono sottoposte dal Presidente del Consiglio dei ministri e segnala, a sua volta, problemi che emergono in sede di applicazione della normativa vigente in materia, anche di derivazione internazionale.

 

Dopo la conclusione delle trattative, le intese sono sottoposte all’esame del Consiglio dei ministri ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del Presidente del Consiglio.

Una volta che siano state firmate dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della confessione religiosa, le intese sono trasmesse al Parlamento per l’approvazione con legge (vedi infra).

 

Nella tabella che segue si riporta un elenco delle confessioni religiose con le quali sono in corso trattative per la stipulazione di intesa:

 

Tab. 3. Le intese in corso di stipulazione

 

Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (Mormoni)

Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 23 febbraio 1993

Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 17 febbraio 2000

Le trattative sono iniziate il 20 luglio 2000

Chiesa Apostolica in Italia

Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 21 febbraio 1989

Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 5 maggio 1995

Le trattative sono iniziate il 30 gennaio 2001

Sacra Arcidiocesi d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale

Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 16 luglio 1998

Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 10 febbraio 2000.

Le trattative sono iniziate il 21 novembre 2000

Istituto buddista italiano Soka Gakkai

Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 20 novembre 2000

Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 11 aprile 2001.

Le trattative sono iniziate il 18 aprile 2001

Unione Induista Italiana

Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 29 dicembre 2000

Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 11 aprile 2001

Le trattative sono iniziate il 18 aprile 2001

 

Fonte: Presidenza del Consiglio[461] (www.governo.it)

 

Dal punto di vista tecnico-giuridico, non sono state avviate, fino ad oggi trattative per la conclusione di intese, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, con associazioni islamiche.

 

Fin dagli anni ‘90 sono state avanzate da parte di alcune comunità islamiche, quali la Comunità religiosa islamica, l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia, l’Associazione musulmani italiani e il Centro islamico culturale d’Italia, istanze per arrivare a stipulare intese con lo Stato italiano, basate su proposte unilaterali, dal momento che le predette organizzazioni non avevano raggiunto un accordo preventivo tra loro.

Nel 2000, per superare tale situazione, le organizzazioni citate sono pervenute alla costituzione dell’associazione del Consiglio islamico d’Italia, quale organismo di rappresentanza dell’Islam, sull’esempio di quanto già verificatosi in Spagna, ove nel 1992 la locale comunità islamica ha siglato con lo Stato l’accordo di cooperazione concernente la regolamentazione di alcune tematiche di rilievo, quali il matrimonio, l’assistenza religiosa nei centri pubblici, l’insegnamento della religione islamica, le festività religiose ed altro. Dissidi interni sopravvenuti hanno, tuttavia, impedito che in Spagna tali disposizioni avessero effettiva applicazione. Analogamente in Italia, il Consiglio islamico, costituito nel 2000, non è mai divenuto operativo e l’incapacità di raggiungere un’unitarietà dei richiedenti che fosse rappresentativa dell’universo islamico in Italia ha determinato l’impossibilità di stipulare un’intesa con lo Stato, mancando l’interlocutore riconosciuto. Le richieste di intesa con lo Stato italiano non sono state prese in esame dalla Presidenza del Consiglio dal momento che nessuna delle associazioni è dotata del riconoscimento giuridico come ente di culto, indispensabile per avviare i negoziati da parte della Commissione per le intese con le confessioni religiose[462].

La legge di approvazione delle intese

L’art. 8 della Costituzione stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica sono regolati per legge, sulla base di intese con le relative rappresentanze: si tratta quindi di una riserva di legge rinforzata, essendo caratterizzata da aggravamenti procedurali, che non consente la modifica, abrogazione o deroga di tali leggi se non mediante leggi ordinarie che abbiano seguito la stessa procedura bilaterale di formazione.

Sulla natura delle intese, e di conseguenza delle leggi approvate sulla base delle intese, la dottrina si divide tra i sostenitori della tesi dell’intesa qualeatto esterno, e quindi paragonabile al trattato internazionale che è recepito dall’ordinamento con legge di esecuzione, e quelli che ne sostengono la natura di atto interno. In base alla seconda teoria le intese costituiscono sì dei tipici atti bilaterali, ma essi non sono stipulati tra due ordinamenti indipendenti e sovrani, come è il caso degli accordi tra Stati o tra Stato e Chiesa cattolica, bensì intervengono tra lo Stato (ordinamento primario) ed una società intermedia sottoposta alla sovranità dello Stato (la confessione religiosa non cattolica).

Nella prassi prevalente dal 1984, le leggi sulla base di intese sono state definite leggi di approvazione. A differenza delle leggi di esecuzione dei trattati internazionali, costituite solitamente da un articolo unico recante la formula di esecuzione del trattato che è allegato alla legge, le leggi di approvazione delle intese sono costituite da un articolato che riproduce sostanzialmente, con poche modifiche formali, il testo dell’intesa, anch’essa allegata alla legge.

Per quanto riguarda i riflessi sulla procedura parlamentare, si è posto il problema dell’ammissibilità dell’iniziativa parlamentare per i progetti di legge volti a regolare i rapporti con le confessioni religiose.

 

L’art. 8 della Costituzione pone una riserva di legge in materia, ma non specifica se l’iniziativa legislativa al riguardo sia attribuita in via esclusiva al Governo, in quanto titolare del potere di condurre le trattative e stipulare le intese, e individua nella stipula delle intese un presupposto costituzionalmente necessario per l’inserimento nell’ordinamento di una legge che regoli i rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose. Ciò analogamente a quanto avviene per i disegni di legge di ratifica dei trattati internazionali, in merito ai quali l’avvenuta stipula del trattato costituisce un presupposto necessario dell’iniziativa legislativa.

Come per la ratifica dei trattati, anche in relazione alle intese, non vi sono norme che espressamente attribuiscono l’iniziativa legislativa in materia esclusivamente al Governo (a differenza di quanto avviene per altri procedimenti legislativi, quale la legge di bilancio, di cui all’art. 81 Cost.); parimenti, l’art. 117 Cost., secondo comma, lettera c), rimette la materia dei rapporti fra la Repubblica e le confessioni religiose, alla competenza esclusiva dello Stato, senza individuare limiti all’iniziativa parlamentare.

 

La Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, dopo aver affrontato la questione della titolarità dell’iniziativa legislativa per la presentazione di progetti di legge volti ad autorizzare la ratifica di trattati internazionali, nella seduta del 5 maggio 1999 – adeguandosi ad una prassi invalsa presso l’altro ramo del Parlamento – si è pronunciata per l’ammissibilità dell’iniziativa parlamentare in tale materia, ove ricorrano i necessari presupposti di fatto.

 

Come sopra ricordato, secondo la dottrina prevalente, le intese differirebbero dall’autorizzazione alla ratifica in quanto tipici atti bilaterali. Pertanto se si ritengono ammissibili proposte di legge di iniziativa parlamentare per l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali che sono atti tra ordinamenti indipendenti e sovrani, non sembrano a fortiori sussistere elementi ostativi all’ammissibilità di proposte di legge di iniziativa parlamentare per l’approvazione delle intese che sono atti interni.

A favore dell’inammissibilità sembrano invece far propendere due considerazioni:

§         per le intese – a differenza di quanto previsto per l’autorizzazione alla ratifica[463] – non è prevista alcuna forma di comunicazione in merito all’avvenuta stipulazione e al contenuto delle stesse, per cui risulterebbe difficile per i singoli parlamentari presentare una proposta di legge che recepisca le intese stipulate. Tale difficoltà appare, peraltro, superabile qualora l’intesa risulti oggetto di un disegno di legge di iniziativa governativa già presentato: in tal caso la conoscenza della stessa ai fini della trasfusione in una proposta di legge di iniziativa parlamentare risulterebbe possibile;

§         l’iniziativa legislativa parlamentare in materia di rapporti con le confessioni religiose potrebbe determinare, una volta approvata la legge, un vincolo per il Governo, il quale potrebbe trovarsi obbligato ad assumere decisioni o ad esplicitare la propria posizione nei confronti di confessioni religiose (con le quali pure abbia già stipulato un’intesa) in tempi da esso ritenuti inopportuni.

Non risultano comunque, a differenza di quanto avviene per i progetti di legge di ratifica di trattati internazionali, precedenti di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a recepire intese con confessioni religiose.

 

La forma dell’articolato e la procedura di approvazione parlamentare del disegno di legge di approvazione con votazioni articolo per articolo, alla stregua di qualsiasi progetto di legge, pone la questione dell’emendabilità o meno del testo. Nel corso dei lavori parlamentari, si è affermata una prassi che pur non escludendo in assoluto la emendabilità, restringe l’ambito di intervento del Parlamento a modifiche di carattere non sostanziale, quali quelle dirette ad integrare o chiarire il disegno di legge o ad emendarne le parti che non rispecchiano fedelmente l’intesa.

 


Pubblica Amministrazione;
semplificazione normativa e amministrativa

 


Dirigenza – Il riordino della dirigenza statale

La “legge Frattini”

La L. 145/2002[464] (c.d. “legge Frattini”, dal nome dell’allora Ministro per la Funzione pubblica proponente), apporta una pluralità di modifiche alla disciplina della dirigenza statale recata dal testo unico sul pubblico impiego di cui al D.Lgs. 165/2001[465], e introduce norme di carattere generale per favorire la mobilità tra il settore pubblico e quello privato.

Nel dettaglio, il vasto ambito materiale toccato dalla legge nei suoi 11 articoli, può essere accorpato nei settori d’intervento di seguito indicati:

Pubbliche amministrazioni

L’articolo 1 della legge include due ulteriori soggetti, ovvero:

§         le agenzie istituite dal D.Lgs.300/1999[466]

§         l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN)[467]

nel novero delle pubbliche amministrazioni elencate dall’articolo 1, comma 2, del Testo unico sul pubblico impiego.

L’inclusione nel citato elenco di amministrazioni pubbliche[468] comporta l’applicazione delle numerose norme in materia di organizzazione e disciplina del rapporto di lavoro che, nella legislazione vigente, individuano il proprio ambito di applicazione facendo riferimento alle “amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165”. Tra queste vi sono, in primo luogo, le disposizioni dello stesso D.Lgs. 165/2001.

Delega di funzioni dirigenziali

L’articolo 2, novellando l’art. 17 del D.Lgs. 165/2001 che individua le funzioni dei dirigenti, consente ad essi di delegare alcune delle proprie competenze a dipendenti del proprio ufficio.

La delega può essere disposta per un periodo di tempo determinato a favore dei dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate ed è sottoposta a specifiche condizioni e limiti.

In primo luogo, perché la delega sia conferita è necessario che ricorrano “specifiche e comprovate ragioni di servizio” e l’atto di delega deve essere scritto e motivato.

Quanto alle competenze delegate, esse possono inerire solo alle seguenti funzioni dei dirigenti:

§         attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti generali (adozione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi ed esercizio di poteri di spesa e di acquisizione delle entrate);

§         direzione, coordinamento e controllo dell’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia;

§         gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici.

Restano, invece, escluse dalla possibilità di delega le competenze inerenti alle altre funzioni dei dirigenti indicate dall’art. 17 e, segnatamente, la formulazione di proposte e l’espressione di pareri ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, nonché lo svolgimento di tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali.

Si esclude l’applicazione dell’art. 2103 del codice civile, ai sensi del quale in caso di esercizio di mansioni superiori il dipendente ha diritto sia al trattamento corrispondente all’attività svolta, sia all’assegnazione definitiva – a certe condizioni – alle nuove mansioni.

Incarichi di funzioni dirigenziali

L’articolo 3 innova sotto una pluralità di profili la disciplina recata negli articoli 19 (incarichi di funzioni dirigenziali), 21 (responsabilità dirigenziale), 23 (ruolo dei dirigenti) e 28 (accesso alla qualifica di dirigente) del testo unico sul pubblico impiego.

Poiché le modifiche sono state – correttamente – disposte in forma di novella, per una loro migliore illustrazione si farà direttamente riferimento al nuovo contenuto dei citati articoli del T.U.

 

Con riguardo all’art. 19 e ai criteri di conferimento degli incarichi di funzioni dirigenziali ivi individuati al co. 1, si prevede ora che la valutazione del singolo dirigente ai fini dell’assegnazione dell’incarico debba tener conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle sue attitudini e capacità professionali, valutate anche in considerazione dei risultati conferiti con riferimento agli obiettivi fissati dalla direttiva annuale e dagli atti di indirizzo del Ministro.

È stato soppresso il criterio della rotazione nell’attribuzione degli incarichi di funzione dirigenziale.

 

Con riguardo alle modalità e ai contenuti del conferimento (art. 19, co. 2) degli incarichi dirigenziali, il provvedimento di conferimento dell’incarico, ovvero l’apposito separato provvedimento, individua:

§         l’oggetto dell’incarico;

§         gli obiettivi da conseguire, indicati con riferimento alle priorità, ai piani ed ai programmi definiti dall’organo di vertice politico nei propri atti di indirizzo;

§         la durata, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e non può eccedere i tre anni per gli incarichi di grado più elevato (segretario generale, incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, di funzione dirigenziale di livello generale) e i cinque anni per gli altri incarichi di funzione dirigenziale[469]. Il successivo D.L. 115/2005[470] ha poi ulteriormente modificato tale previsione per prevedere, per tutti gli incarichi di funzione dirigenziale, gli stessi limiti di durata minimi (tre anni) e massimi (cinque anni).

 

Per una migliore comprensione della portata dell’intervento in esame, è opportuno ricordare che il D.Lgs. 165/2001 sancisce il principio (già presente nella legislazione vigente a partire dal D.Lgs. 29/1993[471]) della separazione tra responsabilità politiche e responsabilità dirigenziali. Gli organi di governo politici definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano i risultati della gestione amministrativa sulla base delle direttive impartite. Ai dirigenti spetta la gestione finanziaria e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali. È anche in base ai risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi che il dirigente viene valutato ai fini del conferimento dell’incarico.

Quanto alla forma del provvedimento di conferimento, i commi 3, 4 e 5 dell’art. 19 – in ciò non modificati dalla legge in esame – prevedono, rispettivamente:

§         che al conferimento degli incarichi di grado più elevato (incarico di Segretario generale di ministeri, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e di livello equivalente) si provveda con un decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente (co. 3);

§         che al conferimento degli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale si provveda con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (co. 4);

§         che gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale siano conferiti dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale (co. 5).

 

Per gli incarichi di grado più elevato (Segretario generale, Capo Dipartimento ed equiparati), il provvedimento che individua i contenuti dell’incarico, qualora distinto da quello di conferimento dell’incarico stesso, assume la forma di provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del ministro competente.

La novella introduce la formale distinzione tra il provvedimento di conferimento dell’incarico e il contratto individuale tra dirigente ed amministrazione, con il quale è definito soltanto il trattamento economico. In precedenza si rimetteva alla fonte contrattuale sia la definizione del trattamento economico, sia quella dell’oggetto, degli obiettivi da raggiungere e della sua durata. Come si è visto, questi ultimi vengono invece ora rimessi al provvedimento di conferimento dell’incarico (o a quello appositamente emanato successivamente).

Lo scopo della modifica è quello di distinguere tra aspetto organizzativo-funzionale dell’incarico (afferente alla responsabilità del datore di lavoro pubblico) e disciplina del rapporto individuale, rimessa ad un atto bilaterale di natura privatistica.

 

Si ricorda in merito che la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti generali è stata oggetto di impugnazione dinanzi alla Corte costituzionale, sostenendosi da parte del Tribunale amministrativo regionale rimettente che “la privatizzazione del rapporto di impiego avrebbe comportato per i dirigenti generali uno status di debolezza e precarietà che da una parte non consente loro di operare secondo i canoni di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 97 e 98 Cost.), e dall’altra si pone in contraddizione (con conseguente intrinseca irragionevolezza) con il principio di separazione tra funzione governativa di indirizzo e controllo e funzione dirigenziale di attuazione e gestione (art. 3 Cost.)”. Da ciò deriverebbe, tra l’altro – secondo il TAR remittente – l’illegittimità dell’inquadramento dei dirigenti generali nel ruolo unico.

Con la sua ordinanza n. 11 del 30 gennaio 2002, la Corte costituzionale ha ritenuto la questione manifestamente infondata, affermando che “deve ribadirsi – come questa Corte ha già affermato (sentenza n. 313 del 1996) – che la privatizzazione del rapporto di impiego pubblico (intesa quale applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato) “non rappresenta di per sé un pregiudizio per l’imparzialità del dipendente pubblico, posto che per questi (dirigente o no) non vi è – come accade per i magistrati – una garanzia costituzionale di autonomia da attuarsi necessariamente con legge attraverso uno stato giuridico particolare che assicuri, ad es., stabilità ed inamovibilità”, per cui rientra nella discrezionalità del legislatore disegnare l’ambito di estensione di tale privatizzazione, con il limite del rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e della non irragionevolezza della disciplina differenziata”.

 

Viene elevato (art. 19, co. 4) da un terzo alla metà delle dotazioni il limite massimo di incarichi di funzione di livello dirigenziale generale attribuibili a dirigenti di prima fascia o a persone in possesso delle specifiche qualità professionali individuate al successivo co. 6 del medesimo art. 19. Si segnala che tale limite è stato successivamente ulteriormente innalzato fino al 70 per cento dei posti disponibili[472].

 

Tra i criteri per il conferimento degli incarichi di direzione generale viene introdotto (nuovo comma 4-bis) quello del rispetto delle condizioni di pari opportunità di cui all’art. 7 del testo unico, che stabilisce che “le amministrazioni pubbliche garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro”. Il rispetto del medesimo criterio è richiesto dal successivo nuovo comma 5-ter, anche per il conferimento degli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale. Il rispetto delle condizioni di pari opportunità viene così richiesto per tutti gli incarichi dirigenziali, fatta eccezione quelli di grado più elevato, di cui al co. 3 dell’art. 19 (Segretario generale ed equiparati).

 

Si inserisce altresì nell’art. 19 il nuovo co. 5-bis, con il quale si consente il conferimento degli incarichi dirigenziali – di qualunque livello – anche a dirigenti non appartenenti ai ruoli dei dirigenti delle singole amministrazioni dello Stato.

Tale possibilità è limitata numericamente: ogni amministrazione può conferirli al di fuori dei ruoli della dirigenza statale, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia ed entro il limite del 5 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia.

Gli incarichi possono essere conferiti a dirigenti non appartenenti ai ruoli della dirigenza statale, purché si tratti di dirigenti dipendenti delle amministrazioni pubbliche, come definite dal D.Lgs. 165/2001[473], ovvero di organi costituzionali, previo collocamento fuori ruolo, comando o analogo provvedimento secondo i rispettivi ordinamenti.

 

L’art. 19 viene modificato anche in relazione alla disciplina dei casi e delle modalità di conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti in possesso di idonei requisiti professionali (co. 6).

Vengono infatti innalzati i limiti massimi dei posti entro cui possono essere conferiti tali incarichi, portandoli al 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti di prima fascia ed all’8 per cento di quella degli appartenenti alla seconda fascia, mentre in precedenza il contingente massimo era fissato nel 5 per cento per entrambi i casi.

Si ribadisce che si tratta di incarichi conferiti a tempo determinato, la cui durata è stabilita entro i limiti che il precedente co. 2 ha fissato per gli incarichi in genere: tre anni per gli incarichi di vertice e le direzioni generali, cinque anni per gli altri. Per quanto riguarda i requisiti professionali per poter essere incaricati di funzioni dirigenziali, con le modifiche introdotte si prevede che il requisito della “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica” – che può dar titolo al conferimento stesso – desunta da concrete esperienze di lavoro, possa avere a riferimento esperienze maturate, anche presso amministrazioni statali, “in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza” (oltre a poter essere desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria o da pubblicazioni scientifiche).

 

Viene inoltre modificata la disciplina della revocabilità degli incarichi di vertice da parte di ogni nuovo Governo (c.d. spoils system), prevedendosi che i più elevati incarichi dirigenziali (incarico di Segretario generale di ministeri, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e di incarichi di livello equivalente) cessino automaticamente decorsi 90 giorni dal voto sulla fiducia (art. 19, co. 8). Tale previsione è destinata a rendere, quindi, sempre necessario l’intervento di ogni nuovo Governo sull’assetto della dirigenza di vertice esistente all’atto del suo insediamento, poiché gli incarichi dovranno comunque essere oggetto di un nuovo conferimento. La precedente disciplina prevedeva invece che entro lo stesso termine tali incarichi potessero essere confermati, modificati, revocati o rinnovati e che in assenza di determinazioni a riguardo essi dovessero ritenersi confermati sino alla loro naturale scadenza.

 

In relazione alle funzioni svolte dai dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali, in aggiunta a quanto già previsto dall’art. 19, co. 10 e cioè che essi svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento, si prevede che essi possano essere destinati a operare presso collegi di revisione degli enti pubblici in rappresentanza di amministrazioni ministeriali.

 

Al co. 12 dell’art. 19, viene precisato che le norme sulla dirigenza continuano a non estendersi ai dirigenti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco per i quali vige una speciale disciplina sul conferimento degli incarichi di funzioni dirigenziali.

Infine, viene inserito il nuovo co. 12-bis, con il quale si sancisce l’inderogabilità delle norme di cui al medesimo articolo da parte della contrattazione collettiva.

Responsabilità dirigenziale

Con la riformulazione dell’art. 21 del Testo unico viene inoltre introdotta anche una nuova disciplina della responsabilità dirigenziale, secondo la quale il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive da parte del dirigente – valutati con i sistemi e le garanzie di cui al D.Lgs. 286/1999[474] - comportano l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico. Resta in ogni caso ferma l’eventuale responsabilità disciplinare secondo le previsioni del contratto collettivo.

In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può inoltre disporre la revoca dell’incarico, collocando il dirigente a disposizione dei ruoli, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.

 

Come si diceva, la valutazione del dirigente è operata ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 286/1999 che definisce per l’appunto specificamente le modalità e i criteri di valutazione, con le collegate garanzie, del personale con incarico dirigenziale.

In merito si ricorda che la già citata ordinanza 11/2002 della Corte costituzionale ha sottolineato l’importanza delle garanzie offerte dalla disciplina delle ipotesi di responsabilità del dirigente – insieme ai criteri per il conferimento dell’incarico – come elemento che consente di verificare l’azione svolta ed i risultati perseguiti, al fine di assicurare il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione.

Afferma la Corte nell’ordinanza: “La disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale nei suoi aspetti qualificanti – in particolare il conferimento degli incarichi dirigenziali (assegnati tenendo conto, tra l’altro, delle attitudini e delle capacità professionali del dirigente) e la loro eventuale revoca (per responsabilità dirigenziale), nonché la procedimentalizzazione dell’accertamento di tale responsabilità (artt. 19 e 21 del D.Lgs. 29/1993, ed ora artt. 19, 21 e 22 del D.Lgs. 165/2001) – è connotata da specifiche garanzie, mirate a presidiare il rapporto di impiego dei dirigenti generali, la cui stabilità non implica necessariamente anche stabilità dell’incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e l’efficienza dell’amministrazione pubblica, può essere soggetto alla verifica dell’azione svolta e dei risultati perseguiti”.

Il ruolo unico dei dirigenti

Con le modifiche apportate all’art. 23 del Testo unico, l’art. 3 della L. 145/2002 sopprime il ruolo unico dei dirigenti sostituendolo con la previsione di ruoli istituiti presso le singole amministrazioni[475].

 

Le riforme della dirigenza pubblica intervenute nel corso della XIII legislatura avevano condotto all’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un ruolo unico dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, articolato in due fasce: quella di dirigente di uffici dirigenziali generali e quella di dirigente. Nella prima fascia sono inseriti i dirigenti generali in servizio e, successivamente, i dirigenti della seconda fascia che abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali per almeno cinque anni; nella seconda fascia, sono inseriti gli altri dirigenti in servizio, e quelli di nuova assunzione (artt. 15 e 23 del D.Lgs. 165/2001).

Dirigenti generali e dirigenti si differenziano per il diverso livello delle funzioni di direzione ad essi attribuite: ai dirigenti generali spettano compiti di proposta al ministro sugli atti di sua competenza, di diretta attuazione dei programmi definiti in sede politica attraverso la predisposizione di appositi progetti, di esercizio dei poteri di spesa, di determinazione dei criteri generali di organizzazione degli uffici, di direzione e controllo dell’attività dei dirigenti (art. 16 del D.Lgs. 165/2001); a questi ultimi spettano, invece, compiti di gestione amministrativa di minore rilevanza, per quanto riguarda in particolare la direzione di uffici centrali e periferici, l’attuazione di progetti assegnati dai dirigenti degli uffici generali, la gestione del personale e delle risorse finanziarie ad essi assegnati (art. 17, D.Lgs. 165/2001).

 

Con la novella in commento, il ruolo unico è dunque soppresso prevedendosi, in sua vece, l’istituzione di un ruolo dei dirigenti in ciascuna amministrazione dello Stato – anche ad ordinamento autonomo – anch’esso (come già quello unico precedentemente esistente) articolato in due fasce. Nell’ambito di ciascuna fascia sono definite apposite sezioni, in modo da garantire l’eventuale specificità tecnica.

Per quanto riguarda l’accesso, i dirigenti della seconda fascia sono reclutati attraverso i meccanismi di cui al successivo art. 28 (v. infra), ossia attraverso le procedure concorsuali ivi previste.

Con riferimento ai requisiti per il passaggio dalla seconda alla prima fascia, la transizione può avvenire qualora i dirigenti della seconda fascia abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo pari almeno a cinque anni senza essere incorsi nelle misure previste per le ipotesi di responsabilità dirigenziale.

È assicurata la mobilità dei dirigenti nell’ambito delle amministrazioni dello Stato, prevedendosi la possibilità del loro transito, a domanda, ad amministrazioni diverse da quelle di appartenenza[476].

Gli effetti connessi ai trasferimenti e alla mobilità sono affidati alla disciplina dei contratti o accordi collettivi nazionali, secondo il criterio della continuità dei rapporti e privilegiando la libera scelta del dirigente; tale disciplina dovrà avere a riguardo anche il mantenimento del rapporto assicurativo con l’ente di previdenza, il trattamento di fine rapporto e lo stato giuridico legato all’anzianità di servizio e al fondo di previdenza complementare.

Il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio cura una banca dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni dello Stato.

Accesso alla dirigenza

Come anticipato, l’art. 3 in esame ridefinisce i requisiti e le modalità di accesso alla qualifica di dirigente recate dall’art. 28 del D.Lgs. 165/2001.

 

Tale articolo dispone che l’accesso al ruolo abbia luogo esclusivamente a seguito di concorso per esami, e prevede che le amministrazioni ricorrano a tal fine a due distinte procedure concorsuali (co. 2, lett. a) e b)):

a)       alla prima sono ammessi:

-    i dipendenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni muniti di laurea, che abbiano compiuto almeno cinque anni di servizio in posizioni per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea;

-          i soggetti in possesso della laurea e della qualifica di dirigente in altri enti e strutture pubbliche, che abbiano svolto funzioni dirigenziali per almeno due anni;

-          i soggetti che abbiano ricoperto incarichi dirigenziali o equiparati in amministrazioni pubbliche per almeno cinque anni;

b)      la seconda è aperta:

-          a tutti i laureati muniti di diploma di specializzazione, dottorato di ricerca o altro titolo post-universitario rilasciato da università italiane o straniere o da primarie istituzioni formative;

-          ai dirigenti in strutture private, laureati e con almeno cinque anni di esperienza dirigenziale.

 

La principale innovazione introdotta dalla legge di riforma consiste nella (re)introduzione[477] – in luogo del concorso di cui alla lett. b) sopra richiamata – di un corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione.

Il corso ha la durata di dodici mesi[478], ai quali si aggiunge (previo esame) un semestre di applicazione presso amministrazioni pubbliche o private, e si conclude con un esame-concorso. Ai partecipanti è corrisposta una borsa di studio.

Si configura pertanto attualmente una doppia modalità di accesso alla dirigenza:

§         mediante il corso-concorso,

 

Ad esso possono essere ammesse, con modalità definite in successivi D.P.C.M.[479], le seguenti categorie di soggetti (co. 3 del nuovo art. 28):

-          laureati muniti laurea specialistica, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca o altro titolo post-universitario rilasciato da università italiane o straniere o da primarie istituzioni formative;

-          dipendenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni muniti di laurea, che abbiano compiuto almeno cinque anni di servizio in posizioni per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea;

-          dipendenti di strutture private collocati in posizioni professionali equivalenti a quelle che, nelle pubbliche amministrazioni, richiederebbero il possesso del diploma di laurea, con un’esperienza lavorativa di cinque anni di servizio[480].

 

§         mediante concorso per esami, e successiva frequenza, da parte dei vincitori, di un ciclo di formazione presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione.

 

Le categorie ammesse coincidono con quelle già previste dal co. 2 dell’art. 28, con le seguenti differenze:

-          i soggetti che abbiano ricoperto incarichi dirigenziali o equiparati in amministrazioni pubbliche per almeno cinque anni sono ammessi purché muniti di diploma di laurea; i soggetti in possesso di diploma di specializzazione conseguito secondo le modalità indicate nell’articolo, sono ammessi con tre anni di servizio[481]

-          possono partecipare cittadini italiani, forniti di idoneo titolo di studio universitario, che abbiano maturato per almeno quattro anni continuativi “esperienze lavorative in posizioni funzionali apicali” richiedenti il possesso del diploma di laurea, presso enti od organismi internazionali.

 

Con regolamento governativo[482], da adottare sentita – ma solo per la parte relativa al corso-concorso – la Scuola superiore della pubblica amministrazione, sono definite:

§         la ripartizione dei posti di dirigente disponibili tra concorso per esami e corso-concorso; la quota riservata a quest’ultimo non dev’essere inferiore al 30%. Le amministrazioni comunicano annualmente al Dipartimento della funzione pubblica il numero dei posti riservati alla selezione mediante corso-concorso;

§         la quota di posti che ciascuna amministrazione può riservare al proprio personale;

§         l’ammontare delle borse di studio relative al corso-concorso;

§         i criteri di composizione e nomina delle commissioni esaminatrici e le modalità di svolgimento delle selezioni. Dev’essere comunque prevista la valutazione delle esperienze professionali maturate.

Si fa salva la disciplina di settore per l’accesso alle qualifiche dirigenziali delle carriere diplomatiche e prefettizia, delle Forze di polizia, delle Forze armate e dei Vigili del fuoco.

Ai sensi dell’articolo 4, a coloro che sono stati ammessi con riserva ai concorsi per l’accesso alla dirigenza anteriormente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 387/1998[483] (cioè, prima del 22 novembre 1998) si applicano i requisiti di accesso stabiliti da quel decreto legislativo.

Disposizioni sul personale di ruoli ad esaurimento

L’articolo 5 consente l’inquadramento di alcuni dipendenti appartenenti a ruoli ad esaurimento, nei ruoli della dirigenza di seconda fascia.

Si tratta del personale appartenente ad una delle due seguenti categorie, individuate nell’art. 69, co. 3, del D.Lgs. 165/2001:

§         personale in possesso delle qualifiche di ispettore generale e di direttore di divisione, o equiparate (art. 60, D.P.R. 748/1972[484]), nonché impiegati delle carriere direttive non inquadrati nella corrispondente carriera dei dirigenti (art. 61 D.P.R. 748/1972);

§      personale degli enti pubblici in possesso della qualifica di direttore o consigliere capo ed equiparate, ovvero delle qualifiche inferiori della ex-categoria direttiva.

L’inquadramento di questi dipendenti nei ruoli della dirigenza delle amministrazioni dello Stato è operato dall’articolo in esame nei limiti del 50% dei posti disponibili nell’ambito della dotazione organica dei dirigenti di seconda fascia dei ruoli di ciascuna amministrazione.

È richiesto il previo superamento di un concorso riservato per titoli di servizio e professionali, cui è ammesso il personale appartenente alle categorie di cui sopra che sia in servizio alla data di entrata in vigore della legge. Il concorso deve svolgersi entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame.

Norme in materia di incarichi presso enti, società e agenzie

L’articolo 6 introduce un meccanismo che consente al Governo, all’inizio di una nuova legislatura, di sottoporre a revisione (conferma, revoca, modifica o rinnovo) le nomine di competenza governativa – in strutture esterne ai Ministeri – operate precedentemente, in modo non dissimile da quanto attualmente previsto per il rinnovo o la revoca delle nomine di vertice della dirigenza pubblica (c.d. spoils system).

Si tratta delle nomine degli organi di vertice e dei membri dei consigli di amministrazione o degli organi equiparati delle seguenti strutture[485]:

§         enti pubblici;

§         società controllate o partecipate dallo Stato;

§         agenzie;

§         altri organismi comunque denominati.

Per rafforzare ulteriormente la generale rinnovabilità di tutte le nomine di spettanza del Governo o dei ministri, vengono inserite nell’ambito di applicazione della norma altre due tipologie:

§         i rappresentanti del Governo e dei ministri in ogni organismo e a qualsiasi livello;

§         i componenti di comitati, commissioni e organismi ministeriali e interministeriali.

Qualora le nomine siano intervenute nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura (computata espressamente con decorrenza dalla data della prima riunione delle Camere) o, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, nel mese antecedente a questo, possono essere confermate o modificate dal nuovo Governo entro sei mesi dalla data del voto parlamentare che conferisce ad esso la fiducia. Decorso il termine in assenza di interventi, gli incarichi si intendono confermati sino alla loro naturale scadenza.

La norma quindi individua un duplice arco temporale di riferimento:

§         il primo è quello entro cui il Governo può revocare o rinnovare le nomine, pari a sei mesi a partire dal voto sulla fiducia al Governo;

§         il secondo individua gli incarichi soggetti a revisione: si tratta di quelli attribuiti a partire da sei mesi prima della scadenza naturale della legislatura e sino a tale data, ovvero nel solo mese antecedente lo scioglimento, in caso di scioglimento anticipato.

L’articolo 6, reca anche una disposizione di carattere transitorio secondo la quale le nomine effettuate negli ultimi sei mesi della XIII legislatura o nel corso della XIV legislatura fino alla data di insediamento del nuovo Governo, possono essere modificate, revocate o confermate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.

Mobilità tra pubblico e privato

L’articolo 7 reca alcune novelle al D.Lgs. 165/2001 e al Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali[486] in materia di mobilità tra pubblico e privato.

Nel D.Lgs. 165/2001 viene, in primo luogo, introdotto un nuovo articolo 23-bis, che stabilisce, in favore dei dipendenti pubblici di seguito indicati, la possibilità di chiedere il collocamento in aspettativa senza assegni per svolgere attività presso “soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale”.

L’ambito soggettivo di applicazione della norma comprende: dirigenti pubblici; appartenenti alla carriera diplomatica e prefettizia; magistrati ordinari, amministrativi e contabili; avvocati e procuratori dello Stato.

Dall’ambito soggettivo di applicazione sono, invece, esclusi gli appartenenti al personale militare, alle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

Per quanto concerne gli enti presso i quali è possibile richiedere di svolgere la propria attività, individuati genericamente dalla norma nei “soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale”, la loro individuazione è rimessa ad un successivo regolamento di attuazione.

È tenuta ferma la disciplina del collocamento fuori ruolo, ove prevista, e viene garantito il mantenimento della qualifica posseduta.

È inoltre garantito a coloro i quali usufruiranno dell’aspettativa in questione la ricongiunzione dei periodi contributivi a domanda dell’interessato, ai sensi della L. 29/1979[487], presso una qualsiasi delle forme assicurative nelle quali abbia maturato gli anni di contribuzione. La ricongiunzione è sempre ammessa ed è a carico dell’interessato se l’incarico è espletato presso organismi operanti in sede internazionale, salvo che l’ordinamento di questi ultimi non disponga diversamente.

La disciplina sull’aspettativa può applicarsi ai dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali[488] “salvo motivato diniego dell’amministrazione di appartenenza”.

Per il personale di magistratura ed equiparato ivi indicato, gli organi competenti devono valutare se sussistano eventuali ragioni ostative all’accoglimento della domanda di collocamento in aspettativa.

La durata massima del collocamento in aspettativa per lo svolgimento di attività presso soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche è fissata in cinque anni, mentre non sono stabiliti limiti per il collocamento fuori ruolo per svolgere attività presso amministrazioni pubbliche. Tale periodo non è computabile ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza.

Sono individuati alcuni limiti per la concessione dell’aspettativa ai fini dello svolgimento delle attività in questione, delineando casi che possono essere qualificati come “incompatibilità” volte ad evitare l’insorgere di posizioni di conflitto di interessi intese lato sensu. L’aspettativa, infatti, non può essere concessa ove ricorra una delle seguenti due ipotesi:

§         il personale, nei due anni precedenti, è stato addetto a funzioni di vigilanza, di controllo o, nello stesso periodo, ha stipulato contratti o formulato pareri o avvisi su contratti o concesso autorizzazioni a favore di soggetti presso i quali intende svolgere l’attività. Nel caso in cui l’aspettativa sia richiesta al fine di svolgere la propria attività presso una impresa, il divieto per il personale si estende anche al caso in cui le predette attività istituzionali di vigilanza o di controllo abbiano interessato imprese che, anche indirettamente, la controllano o ne sono controllate, ai sensi dell’art. 2359 del codice civile;

§         il personale intende svolgere attività in organismi e imprese private la cui natura o attività, in relazione all’attività precedentemente svolta (dal personale stesso), possa cagionare “nocumento all’immagine dell’amministrazione o comprometterne il normale funzionamento o l’imparzialità”.

Il dirigente che abbia usufruito dell’aspettativa in questione, nei due anni successivi non può ricoprire incarichi che comportino l’esercizio di attività istituzionali di vigilanza, di controllo o di stipula di contratti.

 

Si prevede un’ulteriore possibilità di mobilità tra pubblico e privato, questa volta destinata potenzialmente a coinvolgere personale delle pubbliche amministrazioni indipendentemente dalla sua qualifica: le amministrazioni pubbliche possono disporre, per singoli progetti di interesse specifico dell’amministrazione e con il consenso dell’interessato, l’assegnazione temporanea di personale presso le imprese private. La norma non limita la possibilità di applicazione della suddetta assegnazione temporanea a specifiche figure professionali, stante l’adozione del generico termine “personale”. Anche in questo caso sono esclusi dall’applicabilità delle disposizioni gli appartenenti al personale militare, alle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

Ai dipendenti che abbiano prestato servizio durante il periodo di assegnazione temporanea è riconosciuta la valutabilità del servizio ai fini della progressione in carriera.

 

L’articolo in questione, come si diceva, novella anche il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali per estendere anche ai segretari comunali e provinciali l’applicabilità del nuovo art. 23-bis del D.Lgs. 165/2001, sopra illustrato, in materia di mobilità tra pubblico e privato. Si ricorda, in merito, che i segretari comunali e provinciali per effetto del contratto collettivo nazionale di lavoro sono equiparati ai dirigenti statali ai fini delle procedure di mobilità.

 

Infine, l’articolo 7 inserisce nel D.Lgs. 165/2001 il nuovo art. 17-bis che affida alla contrattazione collettiva del comparto Ministeri la disciplina dell’istituzione di un’apposita area contrattuale riservata alla vicedirigenza e provvede all’istituzione di un’area contrattuale autonoma dedicata ai professionisti degli enti pubblici, già appartenenti alla X qualifica funzionale, nonché ai ricercatori e ai tecnologi degli enti di ricerca (ivi compreso l’ENEA). Questo personale costituisce un’area contrattuale unitamente alla dirigenza, ma in specifica separata sezione, nel rispetto della distinzione di ruolo e funzioni.

Semplificazione delle procedure di collocamento fuori ruolo

L’articolo 8 modifica, con finalità di semplificazione, la disciplina del collocamento temporaneo di impiegati civili dello Stato presso enti od organismi internazionali, ovvero Stati esteri, dettata dall’art. 1 della L. 1114/1962[489].

L’ambito di applicazione della norme è esteso a tutto il personale dipendente delle Amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, co. 2, del D.Lgs. 165/2001 (v. supra).

La novella abolisce la distinzione di procedura precedentemente prevista in ragione della qualifica del dipendente pubblico: infatti, viene ora previsto che il collocamento avvenga in tutti i casi con decreto dell’amministrazione interessata, previa autorizzazione del Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri; il decreto è emanato d’intesa con il Ministero degli affari esteri e con il Ministero dell’economia e delle finanze.

Il collocamento fuori ruolo ha ad oggetto un impiego o un incarico temporaneo la cui durata non deve essere inferiore a sei mesi; è comunque disposto per un tempo determinato e può essere soggetto a revoca anticipata o a rinnovo alla scadenza.

Le amministrazioni “di destinazione” sono individuate in “enti o organismi internazionali”, ovvero Stati esteri.

Viene inoltre fissato un contingente dei collocamenti fuori ruolo in questione, che non può superare complessivamente il limite di 500 unità.

È comunque fatto salvo quanto disposto dall’art. 32 del D.Lgs. 165/2001 ai sensi del quale i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, a seguito di accordi di reciprocità stipulati tra le amministrazioni interessate, possono essere destinati a prestare temporaneamente servizio presso amministrazioni pubbliche di Stati membri dell’Unione europea, di Stati candidati all’adesione e di altri Stati con cui l’Italia intrattiene rapporti di collaborazione, nonché presso gli organismi dell’Unione europea e le organizzazioni ed enti internazionali cui l’Italia aderisce.

II personale che presta temporaneo servizio all’estero resta a tutti gli effetti dipendente dell’amministrazione di appartenenza e l’esperienza maturata all’estero è valutata ai fini dello sviluppo professionale.

Nelle more dell’emanazione del decreto di collocamento fuori ruolo, l’amministrazione di appartenenza può autorizzare l’immediato impiego del dipendente presso l’ente o l’organismo internazionale che abbia richiesto il collocamento stesso.

Per i cittadini italiani collocati fuori ruolo ai sensi delle precedenti disposizioni, fatto salvo il regime di maggior favore eventualmente previsto dalle amministrazioni di appartenenza, il servizio presso organizzazioni internazionali o Stati esteri è computato interamente ai fini tanto della progressione di carriera e degli aumenti periodici di stipendio, quanto del trattamento previdenziale e della valutazione dei titoli.

Accesso di dipendenti privati allo svolgimento di incarichi e attività internazionali

L’articolo 9 introduce la possibilità che personale di cittadinanza italiana operante in imprese private vada a ricoprire posti o incarichi in seno ad organizzazioni internazionali.

Tale innovazione è resa possibile mediante la predisposizione, presso il Ministero degli affari esteri, di un elenco delle imprese che si candidano a fornire proprio personale di cittadinanza italiana per gli impieghi internazionali.

Il Ministero stila l’elenco sulla scorta di richieste che le imprese interessate gli indirizzano, contenenti le seguenti indicazioni:

§         l’area di attività dell’impresa;

§         gli enti od organismi internazionali di interesse;

§         i settori professionali ed il numero massimo di dipendenti che intendono fornire;

§         l’impegno a conservare il posto di lavoro – senza diritto al trattamento economico – al proprio personale per il periodo dell’utilizzazione esterna all’impresa, indicando anche eventualmente la durata massima dell’aspettativa.

L’effettiva nomina dei candidati avviene, nei limiti dei posti vacanti, sulla base dei requisiti di professionalità, esperienza e delle conoscenze tecnico-scientifiche del dipendente. La nomina, che deve essere motivata con la carenza di analoghe figure professionali nei ruoli della pubblica amministrazione, è disposta sempre a tempo determinato – per una durata non superiore a tre anni – e non è rinnovabile.

Si precisa che gli incarichi e le attività internazionali svolte da dipendenti di imprese private ai sensi dell’articolo in esame non comportano l’attribuzione di alcun tipo di indennità o emolumento a carico delle amministrazioni pubbliche italiane.

Disposizioni di attuazione e finali

L’articolo 10, reca le disposizioni di attuazione[490].

 

L’articolo 11 reca una disposizione di coordinamento formale, derivante dalla soppressione del ruolo unico dei dirigenti operata dalla legge in esame e dalla conseguente istituzione dei ruoli dei dirigenti nelle singole amministrazioni.

L’articolo dispone, conseguentemente, che in tutte le disposizioni di legge, di regolamento e contrattuali nelle quali è espressamente o implicitamente richiamato il ruolo unico dei dirigenti, tale richiamo vada inteso come effettuato ai ruoli dei dirigenti delle singole amministrazioni.

Ulteriori provvedimenti

Nel corso della legislatura, alcuni ulteriori interventi normativi hanno inciso sulla disciplina della dirigenza statale.

Innanzitutto, la legge finanziaria per il 2003 (L. 289/2002) è intervenuta sulle disposizioni in materia di accesso alla qualifica di dirigente recate dall’art. 28 del D.Lgs. 165/2001.

In dettaglio, l’art. 34, comma 25, della L. 289/2002 sostituisce il comma 7 dell’art. 28 per introdurre disposizioni coerenti con quanto disposto dall’art. 39 ella L. 449/1997[491], che al fine di assicurare le esigenze di funzionalità e di ottimizzare le risorse per il migliore funzionamento dei servizi della P.A. compatibilmente con le disponibilità finanziarie e di bilancio, impone ai suoi organi di vertice l’obbligo di attenersi alla regola della programmazione triennale del fabbisogno di personale.

Con queste finalità, il nuovo comma 7 dell’art. 28 prevede che le amministrazioni statali, anche a ordinamento autonomo e gli enti pubblici non economici, comunichino entro il 30 giugno di ciascun anno, al Dipartimento per la funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il numero dei posti che si renderanno vacanti nei propri ruoli dei dirigenti. Il Dipartimento della funzione pubblica, entro il 31 luglio di ciascun anno, comunica quindi alla Scuola superiore della pubblica amministrazione i posti da coprire mediante corso-concorso. Quest’ultimo, viene bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione entro il 31 dicembre di ciascun anno.

L’art. 3-bis del D.L. 136/2004[492] ha poi aggiunto allo stesso articolo 28 un nuovo comma 7-bis per effetto del quale le amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici non economici comunicano, altresì, entro il 30 giugno di ciascun anno alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica i dati complessivi e riepilogativi relativi ai ruoli, alla dotazione organica, agli incarichi dirigenziali conferiti, nonché alle posizioni di comando, fuori ruolo, aspettativa e mobilità, con indicazione della decorrenza e del termine di scadenza.

Le informazioni sono comunicate e tempestivamente aggiornate per via telematica a cura delle amministrazioni interessate, con inserimento nella banca dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni dello Stato gestita dal Dipartimento della funzione pubblica.

Successivamente, il citato D.L. 115/2005 novella il Testo unico sul pubblico impiego per prevedere, per tutti gli incarichi di funzione dirigenziale, gli stessi limiti di durata minimi (tre anni) e massimi (cinque anni), laddove la L. 145 aveva invece introdotto termini differenziati (tre anni, per gli incarichi di vertice e cinque per tutti gli altri incarichi dirigenziali, senza indicare un termine minimo).

Per effetto dell’intervento, inoltre, possono ora ricevere incarichi dirigenziali extra dotazione organica anche dipendenti della stessa amministrazione statale, e risulta modificato un requisito per il passaggio dei dirigenti dalla seconda fascia alla prima, con la riduzione da cinque a tre anni del periodo durante il quale essi devono aver ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti.

Infine, in relazione all’area contrattuale della vicedirigenza la cui istituzione è demandata dalla L. 145/2002 alla contrattazione collettiva, il decreto-legge, per rafforzarne il carattere autonomo, prevede che essa non debba più definirsi “apposita”, bensì “separata”.


Dirigenza – Riforma della Scuola superiore della P.A.

Il D.Lgs. 381/2003[493], adottato in attuazione della delega contenuta nell’art. 1 della L. 137/2002[494], ha apportato alcune modifiche al modello organizzativo e funzionale della Scuola Superiore della pubblica amministrazione (SSPA) – organismo deputato in via primaria all’attività di selezione, formazione iniziale e permanente dei dirigenti e dei funzionari dello Stato – il cui assetto era stato organicamente ridisegnato nel 1999.

 

Nella XIII legislatura, infatti, con il D.Lgs. 287/1999[495], adottato in attuazione della delega contenuta nell’art. 11, comma 1, lettera a), della L. 59/1997[496], si è operato un profondo riassetto della SSPA, per adeguarne l’organizzazione e le attività ai processi di riordino e razionalizzazione in atto nella pubblica amministrazione.

La più rilevante innovazione introdotta riguarda i compiti fondamentali della Scuola, che vengono individuati nella sola formazione iniziale dei dirigenti e nella formazione permanente di dirigenti e funzionari dello Stato, con esclusione dei compiti di reclutamento, che costituivano una parte essenziale delle funzioni attribuite alla Scuola dalla previgente disciplina. La nuova configurazione dei compiti attribuiti alla Scuola derivava dalle modifiche legislative introdotte con i D.Lgs. n. 80 e n. 387 del 1998[497], che hanno provveduto a ridefinire i criteri di accesso alla dirigenza nelle amministrazioni statali sopprimendo la modalità del corso-concorso.

Altre disposizioni hanno riguardato: il potenziamento delle funzioni di ricerca e consulenza per la Presidenza del Consiglio; il coordinamento delle attività degli istituti pubblici di formazione; lo svolgimento di attività di formazione per il personale delle amministrazioni di altri Paesi.

La riorganizzazione della Scuola è stata realizzata mediante una articolazione per settori di formazione, ciascuno facente capo ad un docente, responsabile per il funzionamento del settore. Il numero dei docenti stabili è stato ridotto da 50 a  30, avvalendosi la Scuola anche di docenti incaricati scelti fra professori universitari, magistrati, dirigenti della p.a., ed esperti).

 

I principali profili di novità apportati dal D. Lgs. 381/2003 di riforma riguardano i seguenti aspetti:

§         si realizza il transito della SSPA, sotto il profilo dell’afferenza organizzativa e della vigilanza, dal Dipartimento della Funzione pubblica alla Presidenza del Consiglio;

§         viene disposto il ripristino, tra i compiti della Scuola, della funzione di reclutamento dei dirigenti dello Stato, in coerenza con quanto disposto dalla L. 145/2002 che ha reintrodotto, per l’accesso alla dirigenza, anche la modalità del corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla SSPA (v. scheda Dirigenza – Il riordino della dirigenza statale);

§         viene operato un riassetto organizzativo degli organi di vertice.

Sotto quest’ultimo profilo, è da segnalare l’istituzione, come organo di vertice della Scuola di un Comitato di indirizzo, che fornisce, appunto, gli indirizzi sulle attività della Scuola, approva il programma annuale presentato dal direttore e adotta gli altri provvedimenti previsti dal presente decreto legislativo, dal regolamento o da altre delibere.

Il Comitato di indirizzo è presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro per la funzione pubblica ove nominato, ovvero da un loro rappresentante, ed è composto come segue:

§         dal direttore della Scuola;

§         dal Presidente del Consiglio di Stato o da un suo rappresentante;

§         dal Presidente della Corte dei conti o da un suo rappresentante;

§         dall’Avvocato generale dello Stato o da un suo rappresentante;

§         dal presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane o da un suo rappresentante;

§         dal presidente dell’Accademia dei Lincei o da un suo rappresentante;

§         dal presidente del Consiglio nazionale delle ricerche o da un suo rappresentante.

Il comitato di indirizzo è riunito su convocazione del presidente e, comunque, almeno una volta all’anno per l’approvazione del programma di massima predisposto dal Direttore.

Si evidenzia che le funzioni di programmazione e di indirizzo, in precedenza poste essenzialmente in capo al Direttore della Scuola, ora vengono affidate al Comitato di indirizzo, organo collegiale che nella sua composizione rispecchia le massime istanze della vita istituzionale, accademica e culturale del Paese, sì da poter qualificare al meglio e ulteriormente specializzare l’offerta formativa della Scuola.

Viene inoltre introdotta la nuova figura del dirigente amministrativo, che sostituisce quella di Segretario della Scuola, ereditandone i compiti di cura del funzionamento delle strutture amministrative della Scuola, delle quali è responsabile sotto il profilo gestionale ed organizzativo.

Il dirigente amministrativo, il cui ufficio è di livello dirigenziale generale, è scelto tra i dirigenti di prima fascia dello Stato e i dirigenti di amministrazioni pubbliche di livello equivalente in base ai rispettivi ordinamenti ed è incaricato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del ministro per la funzione pubblica, su proposta del direttore. Resta in carica per quattro anni e può essere confermato.

La riforma attribuisce la qualità di organo della Scuola anche al Comitato operativo, confermandone le funzioni di consulenza e di supporto all’attività del direttore della Scuola già in precedenza svolte.

Nella nuova veste, il Comitato operativo è composto dal direttore, che lo presiede, e da tre membri nominati direttamente dal Presidente del Consiglio tra i componenti del comitato di indirizzo. La riforma prevede che il Comitato debba ora essere obbligatoriamente sentito in ordine a talune materie di competenza del direttore (quali: il programma annuale, la nomina dei dirigenti, le delibere adottate sull’organizzazione interna e il funzionamento della scuola) potendo quindi, diversamente dal passato, incidere sulle scelte organizzative e funzionali da questi operate.

 

Nel corso della legislatura sono state inoltre approvate alcune ulteriori disposizioni che hanno apportato puntuali modifiche alla disciplina sulla SSPA.

In primo luogo, l’art. 3, co. 5, del D.L. 115/2003[498] ha novellato l’art. 2, co. 3, del D.Lgs. 287/1999, per modificare i requisiti previsti per la nomina a direttore della SSPA. In aggiunta o a correzione dei requisiti già esplicitati nel decreto, si specifica che il direttore della Scuola può essere scelto tra i professori universitari ordinari di ruolo e tra le persone che “abbiano diretto per almeno un quinquennio istituzioni pubbliche di alta formazione, ovvero per almeno dieci anni, anche non continuativamente, istituzioni private di alta formazione riconosciute dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca”.

La stessa disposizione introduce inoltre un elemento di variabilità nella durata dello stesso incarico, prevedendo che il direttore resti in carica “fino a quattro anni” e non più “per quattro anni”.

Successivamente, l’art. 39-vicies quinquies del D.L. 273/2005[499], modificando l’art. 2, co. 6 del D.Lgs. 287/1999, ha ampliato i requisiti previsti per il conferimento dell’incarico di dirigente amministrativo della SSPA: quest’ultimo può ora essere individuato anche tra le persone in possesso delle qualità professionali richieste dall’art. 19, co. 6, del testo unico sul pubblico impiego per il conferimento di incarichi di dirigenza a soggetti esterni all’amministrazione statale.

 

Tali incarichi sono conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.


Dirigenza – La carriera dirigenziale penitenziaria

La legge n. 154 del 2005

La L. 154/2005[500] conferisce una delega legislativa al Governo per la disciplina dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria.

In considerazione del rilievo e della specificità dell’attività del personale dirigente e direttivo penitenziario, la legge mira a conferire a tale figura un’autonoma collocazione professionale, riconoscendo agli appartenenti alla categoria un peculiare status giuridico ed economico.

L’intervento promana dalla volontà di assicurare maggior efficacia all’azione dell’Amministrazione penitenziaria, che è volta a soddisfare esigenze primarie, quali la prevenzione, la sicurezza sociale e la riabilitazione delle persone soggette a restrizioni della libertà personale.

 

In materia si ricorda che la L. 395/1990[501] sull’ordinamento della polizia penitenziaria, all’art. 40 aveva operato un’equiparazione di status giuridico ed economico tra il personale dirigente e direttivo dell’Amministrazione penitenziaria e il personale dirigente e direttivo delle corrispondenti qualifiche della Polizia di Stato, regolato dalla L. 121/1981[502]. Tuttavia, tale equiparazione è successivamente venuta meno per effetto dell’art. 41, co. 5, della L. 449/1997[503], che ha disposto la cessazione dell’efficacia dell’art. 40 sopra citato a partire “dalla entrata in vigore del primo rinnovo contrattuale”, così sottoponendo lo statuto giuridico ed economico del personale dirigente e direttivo dell’Amministrazione penitenziaria all’ordinaria contrattualizzazione prevista in via generale per il pubblico impiego.

 

A favore di tale personale, la legge in esame intende operare il riconoscimento di una specifica carriera di livello dirigenziale, rientrante nella specialità dei rapporti di lavoro di diritto pubblico e, quindi, sottratta alla disciplina contrattuale del “comparto Ministeri”.

 

Ai suesposti fini, l’articolo 1 conferisce una delega al Governo, da esercitarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per l’adozione di uno o più decreti legislativi di riordino dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria e del relativo trattamento giuridico ed economico.

In tale carriera sarà ricompreso il personale direttivo e dirigenziale dell’Amministrazione penitenziaria appartenente ai seguenti profili professionali (e che vi abbia avuto accesso tramite concorso):

§         direttore penitenziario;

§         direttore di ospedale psichiatrico giudiziario;

§         direttore di servizio sociale,

nonché il personale amministrativo del ruolo ad esaurimento della stessa Amministrazione penitenziaria.

Nell’adozione dei decreti legislativi di attuazione il Governo dovrà attenersi ai seguenti principi e criteri direttivi:

§         la revisione delle qualifiche dovrà comportare il massimo accorpamento possibile e la loro convergenza in un unico livello dirigenziale apicale. Occorrerà specificare, all’interno di ciascuna qualifica, il settore dell’amministrazione al quale il personale è preposto (ad esempio, la direzione di istituto penitenziario, ovvero di centro sociale per adulti o di ospedale psichiatrico giudiziario);

§         l’accesso alla carriera dirigenziale penitenziaria dovrà avvenire esclusivamente dal grado iniziale e mediante concorso pubblico, evitando immissioni dall’esterno;

§         la revisione della pianta organica dirigenziale penitenziaria avrà luogo sulla base delle unità di personale in servizio alla data di entrata in vigore della legge;

§         la carriera dirigenziale penitenziaria dovrà essere disciplinata attraverso un procedimento negoziale tra la parte pubblica e le organizzazioni sindacali degli appartenenti a tale carriera, da attivare con cadenza quadriennale o biennale (a seconda che si tratti degli aspetti giuridici o economici del rapporto di impiego). I contenuti della negoziazione saranno recepiti con decreto del Presidente della Repubblica e il trattamento economico non dovrà essere inferiore a quello della dirigenza contrattualizzata;

§         l’avanzamento in carriera dovrà avvenire in base a criteri obiettivi basati sul principio dello scrutinio per merito comparativo;

§         nell’organizzazione centrale e periferica dell’Amministrazione penitenziaria occorrerà individuare gli incarichi e le funzioni da attribuire ai funzionari della carriera dirigenziale penitenziaria;

§         al personale della carriera dirigenziale penitenziaria andranno applicate le disposizioni previste dalla vigente normativa per favorire la mobilità;

§         occorrerà prevedere il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nelle controversie insorte per motivi di servizio nonché la copertura assicurativa della responsabilità civile.

 

L’articolo 2 esplicita il carattere di specialità che la legge intende conferire alla carriera dirigenziale penitenziaria, inquadrando espressamente il relativo rapporto di lavoro quale “rapporto di diritto pubblico”. Ciò in ragione della peculiare natura delle funzioni esercitate dal personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria.

Per raggiungere tale obiettivo, viene apportata una modifica all’art. 3 del Testo unico sul pubblico impiego[504] che in deroga al regime di contrattualizzazione disposto in via generale, individua alcune specifiche categorie di personale per le quali continua a vigere il regime di diritto pubblico.

 

In base alla deroga recata dal citato art. 3, sono disciplinati dai rispettivi ordinamenti senza essere sottoposti al regime generale: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287. Ad essi va aggiunto il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari.

 

Per effetto della novella in commento, anche il personale della carriera dirigenziale penitenziaria viene ora incluso tra le categorie in regime speciale di diritto pubblico.

 

L’articolo 3 modifica il Capo III del Titolo II della L. 354/1975[505] sull’ordinamento penitenziario, con i seguenti effetti:

§         l’attuale rubrica del Capo III, “Servizio sociale e assistenza”, viene rinominata come “Esecuzione penale esterna”;

§         il riferimento ai Centri di servizio sociale per adulti, di cui all’art. 72, viene sostituito con quello agli Uffici di esecuzione penale esterna, i quali, dalla data di entrata in vigore della legge, ne assorbiranno le competenze, le risorse e il personale, con invarianza di oneri per il bilancio statale. Si prevede inoltre che l’organizzazione degli Uffici locali di esecuzione penale esterna sia disciplinata con regolamento del Ministro della giustizia, adottato ai sensi dell’art. 17, co. 3, della L. 400/1988[506].

Per comprendere la portata della novella, occorre segnalare che presso il Ministero della giustizia è istituita[507] la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, con compiti di indirizzo e coordinamento delle attività degli uffici territoriali competenti in materia.

La Direzione cura i rapporti con la magistratura di sorveglianza, con gli enti locali e gli altri enti pubblici, con gli enti privati, le organizzazioni del volontariato, del lavoro e delle imprese, finalizzati al trattamento dei soggetti in esecuzione penale esterna.

Nell’ambito dei Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria sono costituiti gli Uffici per l’esecuzione penale esterna che, nel proprio distretto, svolgono compiti di coordinamento e controllo sull’esecuzione delle direttive di uniformità impartite dalla Direzione generale o dallo stesso Provveditorato.

Attualmente, gli uffici territoriali dell’esecuzione penale esterna, con il nome di Centri di servizio sociale per adulti (CSSA), sono responsabili dell’esecuzione delle misure alternative alla detenzione.

 

I CSSA sono stati istituiti e regolamentati dalla citata L. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, che all’art. 72 ne prevede la costituzione nelle città sede degli Uffici di sorveglianza.

Attualmente, i Centri provvedono ad eseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza, le inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza e per il trattamento dei condannati e degli internati. Prestano la loro opera per assicurare il reinserimento nella vita libera dei sottoposti a misure di sicurezza non detentive. Inoltre, su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari, prestano opera di consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario.

Gli assistenti sociali in sevizio nei Centri svolgono le attività indicate dall’art. 72 della L. 354/1975: compiti di vigilanza e di assistenza nei confronti dei soggetti ammessi alle misure alternative alla detenzione nonché compiti di sostegno e di assistenza nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata.

Nell’attuare gli interventi di osservazione e di trattamento in ambiente esterno (applicazione ed esecuzione delle misure alternative, delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurezza), il Centro di servizio sociale si coordina con le istituzioni e i servizi sociali che operano sul territorio. Le intese operative con i servizi degli enti locali sono definite in una visione globale delle dinamiche sociali che investono la vicenda personale e familiare dei soggetti e in una prospettiva integrata d’intervento.

 

Per effetto della novella, gli Uffici di esecuzione penale esterna, oltre ad esercitare le funzioni attualmente svolte dai CSSA, potranno proporre all’autorità giudiziaria il programma di trattamento da applicare ai condannati che chiedono di essere ammessi all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare.

 

L’articolo 4 reca le disposizioni transitorie e finali.

Vi si prevede, in primo luogo, che in fase di prima attuazione della riforma e per far fronte alle esigenze di funzionamento dell’Amministrazione penitenziaria, il personale appartenente alle categorie ivi specificate e che abbia già svolto funzioni riconosciute di livello dirigenziale, sia nominato ope legis dirigente.

 

Si tratta, in particolare, del personale che alla data di entrata in vigore della legge sia inquadrato nella posizione economica C3, già appartenente ai profili professionali di direttore coordinatore di istituto penitenziario, direttore medico coordinatore e di coordinatore di servizio sociale e che abbia avuto accesso a tali profili mediante pubblico concorso. Ad essi vanno aggiunti gli ispettori generali del ruolo ad esaurimento.

 

Per le medesime esigenze di cui al comma precedente, il personale delle medesime figure professionali sopra richiamate (ma non inquadrato nella posizione economica C3) è direttamente inquadrato nella posizione economica superiore.

In attesa dell’adozione dei decreti legislativi di attuazione, il rapporto di lavoro del personale nominato dirigente del presente articolo o già appartenente alle stesse qualifiche dirigenziali, sia già regolato dalle disposizioni previste per il personale statale in regime di diritto pubblico.

Infine, a completamento di quanto disposto all’art. 2, l’art. 4 esclude che al rapporto di lavoro della dirigenza penitenziaria si applichino quelle disposizioni del testo unico sul pubblico impiego che:

§         sottopongono i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche alla disciplina privatistica del codice civile;

§         prevedono la derogabilità delle discipline legislative dei rapporti di lavoro a opera della regolamentazione contrattuale.

Il decreto legislativo n. 63 del 2006

Il D.Lgs. 63/2006[508] attua la delega conferita al Governo dall’art. 1 della L. 154/2005 per l’adozione di uno o più decreti legislativi recanti la disciplina dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria e del relativo trattamento giuridico ed economico.

Il D.Lgs. si compone di 29 articoli, ed è suddiviso in tre capi:

§         il capo I (articoli 1-19) disciplina nei suoi aspetti generali l’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria;

§         il capo II (articoli 20-25) dispone in materia di procedimento negoziale;

§         il capo III (articoli 26-29) reca norme transitorie e finali.

Capo I – Disposizioni ordinamentali generali

L’articolo 1 individua l’oggetto del provvedimento e reca le definizioni dei termini maggiormente ricorrenti nel testo.

 

L’articolo 2 sottolinea il carattere unitario, in ragione delle peculiari funzioni, della carriera dirigenziale penitenziaria. Nel rinviare, per quanto non disciplinato nel decreto, alle disposizioni di cui al D.P.R. 3/1957[509] anziché alla disciplina generale sulla dirigenza di cui al D.Lgs. 165/2001, il comma ribadisce la natura di diritto pubblico del relativo rapporto d’impiego.

Vengono elencate in dettaglio le funzioni esercitate dai funzionari appartenenti alla carriera in oggetto e, tra queste: la direzione delle articolazioni centrali e territoriali dell’amministrazione penitenziaria, ivi compresi gli istituti penitenziari e gli altri istituti e uffici facenti capo all’amministrazione; la relativa rappresentanza esterna; il coordinamento e la trattazione delle attività di livello internazionale per i settori di competenza; le attività finalizzate a garantire il regolare funzionamento delle strutture penitenziarie; le attività di coordinamento e indirizzo e di controllo e verifica del personale e quelle finalizzate all’accrescimento delle professionalità degli operatori del settore; le attività di studio e ricerca; quelle, infine, di diretta collaborazione con i capi degli uffici.

 

L’articolo 3 individua, all’interno della carriera dirigenziale, i tre ruoli:

§         del dirigente di istituto penitenziario,

§         del dirigente dell’esecuzione penale esterna e

§         del dirigente medico,

precisando che la qualifica di dirigente generale mantiene il suo carattere unitario.

Ai vincitori di concorso è attribuita la qualifica iniziale di consigliere penitenziario.

 

Gli articoli 4 e 5 disciplinano le modalità di accesso alla carriera e la formazione iniziale dei funzionari.

Conformemente a quanto previsto dalla delega legislativa, l’accesso ha luogo unicamente dal grado iniziale e per concorso pubblico. Seguono i principali requisiti di ammissione al concorso: cittadinanza italiana, laurea specialistica ed eventuali diplomi di specializzazione, età massima, qualità morali e di condotta previste dall’art. 35, co. 6, del D.Lgs. 165/2001; si tratta delle qualità stabilite per l’ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria.

L’articolo rinvia ad un successivo regolamento ministeriale la disciplina delle modalità concorsuali, la composizione della commissione esaminatrice e la definizione delle prove d’esame.

Si prevedono alcune riserve di posti, in presenza dei requisiti di legge, per talune categorie di dipendenti che già lavorino nell’Amministrazione, chiarendo che i posti riservati rimasti non attribuiti sono conferiti ai concorrenti esterni idonei.

Ai sensi dell’articolo 5, il corso di formazione iniziale ha la durata complessiva di diciotto mesi e si articola in periodi alternati di formazione teorico-pratica e di tirocinio operativo. La disciplina di dettaglio è rimessa ad un successivo regolamento ministeriale.

In tema di prima assegnazione si specifica che il relativo periodo minimo di permanenza è fissato in tre anni.

 

L’articolo 6 prevede e disciplina la formazione permanente dei funzionari durante l’intero sviluppo della carriera, effettuata a cura dell’Istituto superiore di studi penitenziari, e comprensiva di iniziative volte ad accrescere gli scambi di esperienze formative con altre amministrazioni; e, nei limiti delle disponibilità di bilancio, le occasioni di formazione presso Stati esteri o organismi internazionali.

 

Gli articoli da 7 a 10 disciplinano il conferimento degli incarichi dirigenziali.

L’articolo 7 regola il conferimento degli incarichi superiori. Esso ha luogo mediante valutazione comparativa, secondo quanto prevede la legge delega, oggetto di espresso richiamo nel testo, il quale definisce altresì le modalità operative, con particolare riguardo alla fissazione, con periodicità triennale, dei criteri di valutazione.

Ai sensi dell’articolo 8, la nomina alla qualifica di dirigente generale è effettuata con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, fra i funzionari che abbiano ricoperto incarichi di particolare rilevanza.

L’articolo 9 detta i criteri per l’individuazione dei posti di funzione dirigenziale e per l’attribuzione della diversa rilevanza degli uffici centrali e territoriali, da effettuare mediante decreti ministeriali di natura non regolamentare ai sensi del citato art. 17, co. 4-bis, lett. e), della L. 400/1988. Tale attribuzione assume rilievo, tra l’altro, quale criterio per il conferimento della componente del trattamento economico correlato alle posizioni funzionali ricoperte (c.d. retribuzione di posizione: vedi infra).

L’articolo tiene espressamente fermo il disposto dell’art. 18 del D.Lgs. 300/1999 e dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001, relativi, rispettivamente al conferimento degli incarichi dirigenziali nell’ambito dell’amministrazione centrale del Ministero della giustizia e alla disciplina generale del conferimento degli incarichi di funzioni dirigenziali nelle amministrazioni dello Stato.

 

Ai sensi dell’articolo 10, gli incarichi sono conferiti ai dirigenti per un periodo compreso fra i tre e i cinque anni, rinnovabile una sola volta, sulla base dei seguenti criteri:

§         risultati precedentemente conseguiti;

§         attitudini personali del funzionario;

§         natura e caratteristiche dei programmi da realizzare.

Lo stesso articolo prevede in quali ipotesi gli incarichi conferiti possono essere revocati, e disciplina le modalità di conferimento.

 

L’articolo 11 concerne le competenze degli uffici dirigenziali generali: i relativi titolari fissano, a livello centrale, i criteri generali e gli indirizzi per l’esercizio delle funzioni nell’ambito dei rispettivi uffici, ed esercitano il potere di intervento sostitutivo in caso di inerzia o grave ritardo. I provveditori regionali operano nelle materie loro devolute sulla base di programmi, indirizzi e direttive disposti dagli uffici centrali. Restano ferme le funzioni proprie del Capo del dipartimento, come definite dalla legislazione vigente.

 

L’articolo 12 riproduce quasi testualmente l’art. 1, co. 1, lett. g) della legge delega, prevedendo l’applicabilità delle forme di incentivazione della mobilità previste dall’art. 17 della L. 266/1999[510] e dagli artt. 1 e 2, co. 1, della L. 86/2001[511].

 

Ai sensi dell’art. 17 della L. 266/1999, il coniuge convivente di soggetto – appartenente a talune categorie di personale, ivi comprese le Forze di polizia a ordinamento civile e militare – trasferito d’autorità da una ad altra sede di servizio, qualora impiegato in una amministrazione pubblica ha diritto, all’atto del trasferimento, ad essere impiegato presso l’amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina. L’art. 2, co. 1, della L. 86/2001 reca un’estensione della disposizione testé illustrata all’ipotesi di collocamento in congedo: il coniuge ha diritto di precedenza nell’assegnazione del primo posto disponibile presso l’amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede in cui il congedato ha eletto domicilio o, in mancanza, nella sede più vicina.

L’art. 1 della medesima L. 86/2001 prevede la corresponsione di un’indennità mensile per un periodo che può giungere sino ai primi 48 mesi di permanenza, al personale appartenente a talune categorie (tra cui le Forze di polizia a ordinamento civile e militare) trasferito d’autorità ad altra sede di servizio sita in un comune diverso da quello di provenienza.

 

L’articolo 13 stabilisce la procedura per la valutazione annuale del personale dirigenziale. La procedura prevede:

§         la presentazione entro il 31 gennaio di ogni anno, da parte del funzionario, di una relazione sull’attività svolta nell’anno precedente;

§         la redazione di una scheda di valutazione da parte dei rispettivi responsabili delle strutture;

§         l’attribuzione di un punteggio complessivo (entro il limite massimo di 100) da parte del Consiglio di amministrazione, sulla base delle valutazioni e delle proposte formulate dalla Commissione di valutazione istituita dal successivo art. 14.

Quanto alla verifica dei risultati conseguiti dai funzionari nell’espletamento degli incarichi di funzione – verifica il cui esito negativo comporta la revoca dell’incarico – si fa rinvio alla disciplina di cui all’art. 20 del D.Lgs. 165/2001, e al regolamento ivi previsto.

 

L’art. 20 citato dispone che, per la Presidenza del Consiglio e per le amministrazioni che esercitano competenze in materia di difesa e sicurezza dello Stato, polizia e giustizia, le operazioni di verifica sono effettuate dal ministro, per i dirigenti, e dal Consiglio dei ministri, per i dirigenti preposti ad ufficio di livello dirigenziale generale, secondo termini e modalità stabiliti, rispettivamente, con regolamento ministeriale e con regolamento governativo.

 

L’articolo 14 prevede l’istituzione, con decreto ministeriale, di una Commissione preposta alla valutazione dei funzionari, (anche) ai fini del conferimento degli incarichi superiori di cui al precedente art. 7, e ne regola la composizione.

 

Gli articoli da 15 a 17 affrontano la materia del trattamento economico.

Come prevede la legge delega, esso ha carattere onnicomprensivo e si articola in (articolo 15):

§         una componente stipendiale di base (stipendio tabellare e indennità integrativa speciale);

§         una componente rapportata alle posizioni funzionali ricoperte, agli incarichi ed alle responsabilità esercitate (retribuzione di posizione, composta da una parte fissa e una parte variabile);

§         una componente rapportata ai risultati conseguiti rispetto agli obiettivi fissati e alle risorse assegnate (retribuzione di risultato).

La concreta determinazione del trattamento economico è rimessa alla contrattazione collettiva, effettuata attraverso il procedimento negoziale disciplinato nel capo II del decreto.

L’articolo 16 disciplina la retribuzione di posizione. Essa è attribuita a tutti i funzionari, secondo una graduazione delle posizioni funzionali effettuata con decreto ministeriale sulla base dei livelli di responsabilità e di rilevanza degli incarichi assegnati.

Secondo l’articolo 17, i parametri per l’attribuzione della retribuzione di risultato sono rimessi al procedimento negoziale, che dovrà comunque tener conto dell’efficacia, della tempestività e dell’efficienza del lavoro svolto.

 

L’articolo 18 assicura ai funzionari il patrocinio da parte dell’Avvocatura dello Stato nelle controversie insorte per motivi di servizio con estranei all’Amministrazione.

 

L’articolo 19 disciplina gli istituti del comando e del collocamento fuori ruolo, l’applicazione dei quali è possibile entro il limite complessivo di quindici unità. Ai funzionari possono essere conferiti incarichi di funzioni dirigenziali presso altre amministrazioni dello Stato, secondo quanto prevede in via generale l’art. 19, co. 6, del D.Lgs. 165/2001, previo collocamento in aspettativa senza assegni, ma con riconoscimento dell’anzianità di servizio.

Capo II – Procedimento negoziale

Il capo II (articoli 20-25) dispone in materia di procedimento negoziale, riconnettendosi in particolare a quanto previsto dalla legge di delega (v. supra).

 

L’articolo 20 definisce l’ambito dell’attività negoziale.

Più specificamente, si precisa che il Capo II disciplina il procedimento per la definizione degli aspetti giuridici ed economici del rapporto di impiego del personale della carriera dirigenziale penitenziaria (che è l’oggetto della negoziazione).

Tale procedimento, da attuarsi secondo le modalità e per le materie indicate negli articoli successivi, si conclude, ai sensi del comma 2, con l’emanazione di un decreto del Presidente della Repubblica (di cui al successivo articolo 23).

L’articolo 20 individua inoltre la durata della disciplina emanata con il D.P.R.: essa è quadriennale per gli aspetti giuridici e biennale per gli aspetti economici, decorre dal termine di scadenza previsto dal precedente decreto e conserva efficacia fino alla data di entrata in vigore del decreto successivo.

L’articolo prevede poi l’emanazione di un regolamento governativo di attuazione (ai sensi dell’art. 17, comma 1, legge 400/88), sentite le organizzazioni sindacali rappresentative, nei casi in cui le disposizioni generali sul pubblico impiego rinviano per il personale del comparto dei ministeri alla contrattazione collettiva e si verte in materie diverse da quelle indicate nel successivo articolo 22 (rimesse appunto al procedimento negoziale), e non disciplinate per i funzionari da particolari disposizioni di legge.

 

L’articolo 21 definisce le delegazioni negoziali, prevedendo che il procedimento negoziale intercorre tra una delegazione di parte pubblica composta dal ministro per la funzione pubblica, che la presiede, e dai ministri della giustizia e dell’economia e delle finanze, o dai sottosegretari di Stato rispettivamente delegati, ed una delegazione delle organizzazioni sindacali rappresentative dei funzionari individuate con decreto del ministro per la funzione pubblica, secondo i criteri generali in materia di rappresentatività sindacale stabiliti per il pubblico impiego “avuto riguardo al solo dato associativo”.

 

L’articolo 22 individua le materie oggetto del procedimento negoziale, riprendendo alcuni contenuti della legge di delega. Si tratta delle seguenti materie:

§         trattamento economico fondamentale ed accessorio, secondo parametri appositamente definiti in tale sede che ne assicurino, nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili, sviluppi omogenei e proporzionati, rapportati alla figura apicale;

§         orario di lavoro;

§         congedo ordinario e straordinario;

§         reperibilità;

§         aspettativa per motivi di salute e di famiglia;

§         permessi brevi per esigenze personali;

§         distacchi, aspettative e permessi sindacali;

§         copertura assicurativa del rischio di responsabilità civile connesso all’esercizio delle funzioni e dei compiti propri della carriera.

L’ipotesi di accordo può prevedere, in caso di vacanza contrattuale, l’attribuzione di elementi retributivi provvisori percentualmente correlati al tasso di inflazione programmato, secondo le regole generali stabilite per il pubblico impiego.

 

L’articolo 23 definisce la procedura di negoziazione, secondo tempi e modalità precise, e prevedendo tra l’altro che lo schema di decreto del Presidente della Repubblica atto a recepire l’accordo sia sottoposto al controllo della Corte dei conti, “prescindendo dal parere del Consiglio di Stato”. Nel caso in cui l’accordo non sia definito entro novanta giorni dall’inizio delle procedure, il Governo riferisce alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica nelle forme e nei modi stabiliti dal rispettivi regolamenti.

Si prevede poi la possibilità che, nell’ambito e nei limiti fissati dal decreto del Presidente della Repubblica di cui sopra e per le materie specificamente ivi indicate, possono essere conclusi accordi decentrati a livello centrale e territoriale che, senza comportare alcun onere aggiuntivo, individuano esclusivamente criteri applicativi delle previsioni del predetto decreto[512]. In caso di mancata definizione degli accordi decentrati, resta impregiudicato il potere di autonoma determinazione dell’Amministrazione.

 

L’articolo 24 reca disposizioni specifiche per la soluzione dei contrasti interpretativi di rilevanza generale che possono sorgere in sede di applicazione degli accordi di negoziazione, prevedendo che le medesime delegazioni che hanno contrattato l’accordo da interpretare possano ricorrere al ministro per la funzione pubblica, secondo modalità e procedure che si ricollegano a quelle già in uso presso il Ministero della funzione pubblica.

 

L’articolo 25 istituisce un apposito fondo per il finanziamento della retribuzione accessoria nel quale confluiscono le risorse finanziarie con finalità retributive destinate ai funzionari, diverse da quelle relative alla retribuzione di base.

Capo III – Disposizioni transitorie e finali

il capo III, che detta le disposizioni transitorie e finali, comprensive della clausola finanziaria, è composto dagli artt. da 26 a 29.

 

L’articolo 26, che disciplina l’inquadramento nella carriera dirigenziale penitenziaria, inquadra i funzionari che possedevano già prima della legge delega la qualifica dirigenziale nei diversi gradi (dirigenti generali, dirigenti superiori e dirigenti) nella posizione conforme, e quindi i dirigenti generali nell’omologa qualifica; i dirigenti superiori, i dirigenti, nonché i funzionari divenuti dirigenti in applicazione della legge delega (articolo 4), nella qualifica di dirigente.

È consentito l’inquadramento, dietro presentazione di specifica domanda, dei direttori generali non provenienti dall’Amministrazione penitenziaria ai quali è stato conferito l’incarico ai sensi dell’art. 18, co. 2 del D.Lgs. 300/1999 e dell’art. 19, co. 6, del D.Lgs. 165/2001 (che disciplinano i c.d. incarichi esterni all’amministrazione)[513]. L’inquadramento è disposto con decreto del ministro, secondo principi di invarianza della dotazione organica complessiva, e decorre dalla data di presentazione della domanda.

Ai sensi del comma 6, i dipendenti già appartenenti agli ex profili professionali di direttore penitenziario, direttore di servizio sociale, direttore medico, già in possesso dei requisiti di cui all’articolo 1, della Iegge delega, sono inquadrati, previa ricognizione delle effettive vacanze nella dotazione organica definita nella tabella A, nella qualifica di dirigente del rispettivo ruolo professionale. Essi seguono in ruolo í funzionari indicati nel precedente comma (vale a dire, i funzionari divenuti dirigenti in applicazione dell’articolo 4 della legge delega).

 

L’articolo 27 individua la disciplina transitoria del trattamento giuridico ed economico del personale, per il tempo intercorrente fino all’emanazione del D.P.R. di recepimento del primo accordo negoziale (di cui all’art. 23: v. supra). L’articolo stabilisce quindi che i funzionari individuati dall’articolo 26 conservano il trattamento economico precedentemente in godimento.

 

L’articolo 28 reca la previsione di clausole di salvaguardia per il personale inquadrato nella nuova carriera dirigenziale, riconoscendo – ai fini dell’applicazione degli istituti giuridici ed economici previsti dal provvedimento in esame - l’anzianità maturata nelle pregresse qualifiche dirigenziali e direttive, nonché le posizioni economiche di provenienza.

 

L’articolo 29 reca la copertura finanziaria.


Azione amministrativa – Le modifiche alla legge n. 241 del 1990

Nel corso della XIV legislatura la L. 241/1990[514] – la principale tra le leggi che regolano in via generale l’attività amministrativa – è stata ampiamente modificata ed integrata dalla L. 15/2005[515]; a breve distanza di tempo, ulteriori modificazioni a vari aspetti della disciplina sono state apportate da alcune disposizioni del D.L. 35/2005[516] (c.d. “decreto-legge sulla competitività”).

Pur mantenendone l’impianto originario, i due provvedimenti citati hanno apportato alla legge rilevanti correzioni e integrazioni nell’intento di pervenire a una maggiore efficienza nell’azione delle pubbliche amministrazioni e al miglioramento del rapporto tra queste e i cittadini, nonché di adeguare il contenuto della legge alle innovazioni del sistema costituzionale e normativo nel frattempo intercorse[517]. Nel prosieguo si dà conto delle principali modificazioni apportate alla L. 241/1990.

Princìpi generali

L’articolo 1 della L. 241/1990 è stato modificato dalla L. 15/2005 allo scopo di definire princìpi e norme generali ulteriori sull’attività amministrativa per favorire un rapporto sempre più paritario e garantistico fra cittadini e amministrazione. In particolare, ferma restando l’affermazione del principio di legalità, ai “criteri di economicità, efficacia e di pubblicità” che reggono l’azione amministrativa ai sensi del previgente co. 1, vengono aggiunti la trasparenza e i princìpi del diritto comunitario. L’obbligo di rispettare tali princìpi è esteso (co. 1-ter) ai privati che esercitano attività amministrative.

Il nuovo co. 1-bis aggiunto all’art. 1 introduce il principio generale secondo cui la pubblica amministrazione agisce secondo il diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente, nell’adozione di atti di natura non autoritativa.

Come emerge anche dal dibattito parlamentare[518], tale scelta mira al superamento del dogma che storicamente attribuiva all’Amministrazione il dovere di agire mediante poteri di imperio e atti unilaterali; in tal senso, essa si inquadra nelle moderne tendenze di privatizzazione, volte a privilegiare un modello paritario e non gerarchico nei rapporti tra i cittadini e le amministrazioni[519].

 

La disposizione è stata più volte riformulata nel corso dell’esame parlamentare, oscillando tra la mera possibilità che l’Amministrazione utilizzi, per il perseguimento dei propri fini istituzionali di cura dell’interesse pubblico, gli strumenti del diritto pubblico o quelli del diritto privato[520], e un più netto favore verso il ricorso generalizzato agli strumenti del diritto privato. La formulazione finale, pur chiarendo che resta escluso il ricorso alle norme del diritto privato per gli atti di natura autoritativa e per quelli per i quali la legge stabilisce diversamente, opta in favore dell’utilizzo di tali norme in tutti gli altri casi.

 

Sull’articolo 2, concernente la conclusione del procedimento amministrativo, della L. 241/1990 ha inciso dapprima la L. 15/2005, quindi l’art. 3, co. 6-bis, del D.L. 35/2005, che ha interamente riscritto l’articolo.

 

Secondo l’art. 2, ogni amministrazione ha il dovere di concludere ciascun procedimento cui ha dato avvio con l’adozione di un provvedimento espresso ed entro termini prefissati. Il termine varia a seconda del tipo di procedimento e, nel testo previgente, era determinato e reso pubblico da ciascuna amministrazione per i procedimenti di propria competenza. Nel caso in cui l’amministrazione competente non abbia provveduto ad indicare un termine , questo si intendeva fissato in 30 giorni.

 

Secondo il nuovo testo dell’art. 2:

§      la fissazione dei termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti per legge, è rimessa ad uno o più regolamenti governativi (da adottare entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 35/2005); gli enti pubblici nazionali (entro lo stesso termine) fissano, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza;

§      la determinazione dei termini deve avvenire considerando “la loro sostenibilità, sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa e della natura degli interessi pubblici tutelati”;

§      in caso di mancata individuazione dei tempi, il termine è di 90 giorni;

§      sono previste ipotesi di sospensione dei termini in caso di acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, o di acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si prevede inoltre la possibilità di ricorso alla conferenza di servizi (art. 14, co. 2, L. 241/1990);

§      qualora, avverso il silenzio dell’amministrazione (e salvi i casi di silenzio assenso) sia stato proposto ricorso (per il quale non occorre previo atto di diffida), il giudice amministrativo è competente a conoscere della fondatezza dell’istanza.

L’articolo 3-bis, introdotto dalla L. 15/2005, introduce il principio secondo il quale, a fini di efficienza, le pubbliche amministrazioni incentivano l’uso della telematica nei rapporti interni, tra amministrazioni, e tra amministrazioni e privati. Lo stesso principio è più organicamente ripreso nel Codice delle amministrazione digitale, approvato con D.Lgs. 82/2005[521] (v. parte I, capitolo L’“Amministrazione digitale”).

L’articolo 6 della L. 241/1990, che disciplina i compiti del responsabile del procedimento[522], è stato integrato nel senso di prevedere che, laddove l’organo competente all’adozione del provvedimento finale sia diverso dal responsabile del procedimento, non possa discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria svolta dallo stesso responsabile, se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.

La partecipazione al procedimento amministrativo

La L. 15/2005 reca varie disposizioni volte a rafforzare gli istituti di partecipazione procedimentale e di trasparenza dell’azione amministrativa presenti nella L. 241/1990.

 

Il capo III (articoli 7-13) della L. 241/1990 disciplina le modalità di partecipazione dei privati al procedimento amministrativo. In particolare, si prevede, quale presupposto indispensabile per consentire l’effettiva partecipazione, la comunicazione all’interessato dell’avvio del procedimento. La legge indica in modo dettagliato le informazioni che devono essere contenute nella comunicazione di avvio del procedimento: ossia l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, il responsabile del procedimento e l’ufficio presso il quale si possono consultare gli atti.

 

Le novelle introdotte stabiliscono in particolare che:

§         nella comunicazione con cui si dà notizia dell’avvio del procedimento, l’amministrazione indichi anche la data di conclusione dello stesso e le conseguenze e i rimedi esperibili dall’interessato in caso di inerzia della medesima amministrazione; nonché, nei casi di procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione dell’istanza (art. 8, co. 2, lett. c-bis) e c-ter);

§         qualora l’amministrazione ritenga di non poter accogliere una istanza è tenuta a informarne gli interessati, prima della formale conclusione del procedimento con l’adozione del provvedimento negativo. La comunicazione è effettuata per consentire agli interessati di presentare eventuali osservazioni e documenti dei quali l’amministrazione dovrà tener conto ai fini della decisione finale. Infatti, se l’amministrazione conferma definitivamente il rigetto dell’istanza, deve dar conto nelle motivazioni anche dei motivi per cui non ha ritenuto di accogliere le ulteriori osservazioni della controparte[523] (art. 10-bis);

§         in materia di accordi fra amministrazione e soggetti interessati al contenuto del provvedimento amministrativo (art. 11) viene generalizzato il ricorso agli accordi sostitutivi di provvedimenti sopprimendo (co. 1) l’inciso che prevede che tali accordi possano essere conclusi solo “nei casi previsti dalla legge”. Si prevede inoltre (co. 4-bis) che la stipulazione dell’accordo, integrativo o sostitutivo, sia sempre preceduta da una determinazione dell’organo competente per l’adozione del provvedimento, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.

La conferenza di servizi

Gli artt. da 8 a 13 della L. 15/2005 hanno apportato puntuali modifiche di varia natura alla disciplina delle conferenze di servizi recata dagli articoli 14 e seguenti della L. 241/1990.

Le modifiche riguardano principalmente:

§         le ipotesi (art. 14) in cui può o deve essere indetta la conferenza di servizi. Si prevede tra l’altro che essa è indetta non solo quando non sia pervenuto il richiesto concerto, nulla osta o assenso da parte di altra amministrazione, ma anche qualora sia pervenuto da questa un esplicito dissenso; i lavori pubblici non sono più soggetti alla specifica disciplina di cui all’art. 7 della L. 109/1994[524]; la conferenza di servizi che riguardi l’affidamento di concessione di lavori pubblici può essere convocata non solo dal concedente ma anche ad istanza del concessionario, fermo restando il consenso del concedente; previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza di servizi è convocata e si svolge con l’utilizzo degli strumenti informatici disponibili;

§         la disciplina della conferenza di servizi c.d. “preliminare” per la realizzazione di “progetti di particolare complessità” e di opere pubbliche e di interesse pubblico (art. 14-bis); tra questi vengono inclusi gli insediamenti produttivi; si richiede inoltre che la richiesta di convocazione sia documentata, se non da un progetto preliminare, almeno da uno studio di fattibilità, e si modifica la procedura da seguire qualora, in sede di conferenza di servizi, emerga il dissenso delle amministrazioni preposte alla tutela di “interessi sensibili” (tra i quali è inserita anche la tutela della pubblica incolumità);

§         varie misure di snellimento procedurale incidenti sull’art. 14-ter, tra l’altro finalizzate ad obbligare ciascuna delle amministrazioni interessate ad esprimere in via definitiva la propria volontà in sede di conferenza di servizi. secondo il nuovo co. 6-bis, la determinazione adottata in esito ai lavori della conferenza deve tener conto delle “posizioni prevalenti” espresse in quella sede (anziché “sulla base della maggioranza” delle posizioni emerse). La modifica nasce dall’esigenza di superare le incertezze interpretative che il computo della maggioranza può determinare in presenza di amministrazioni di diversa natura e dimensione;

§         la disciplina relativa all’espressione del dissenso da parte di una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi ed agli effetti di tale dissenso sul procedimento (art. 14-quater). Le innovazioni proposte sono dichiaratamente finalizzate:

-          ad integrare (con la pubblica incolumità) l’elenco degli “interessi sensibili costituzionalmente protetti[525]”, in presenza dei quali la conferenza di servizi non può superare il motivato dissenso dell’amministrazione preposta alla relativa tutela;

-          a ridefinire, con un’articolata disciplina, l’individuazione degli organi (statali o regionali[526]) chiamati ad assumere la determinazione sostitutiva, adeguandola alla nuova ripartizione di competenze tra i diversi livelli di governo introdotta dalla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione;

-          a coordinare, secondo criteri di snellimento, tempi e modalità delle procedure.

L’art. 14-quinquies, di nuova introduzione, consente infine che alla conferenza di servizi partecipino, oltre ai soggetti che rappresentano gli interessi pubblici coinvolti, anche (ma senza diritto di voto) i soggetti aggiudicatari di concessione ai sensi dell’art. 37-quater della L. 109/1994 o delle società di progetto costituite ai sensi del successivo art. 37-quinquies, cioè di quei soggetti privati che intervengono in una operazione di project financing[527].

La dichiarazione di inizio attività e il silenzio-assenso

Gli articoli 19 e 20 della L. 241/1990 sono stati interamente riscritti dal citato D.L. 35/2005, che hanno con ciò introdotto una nuova disciplina degli istituti della denuncia di inizio attività – che viene rinominata Dichiarazione di inizio attività (DIA) – e del silenzio assenso.

 

La denuncia di inizio attività, introdotta nell’ordinamento dalla L. 241/90 (art. 19), nella sua originaria configurazione era un istituto volto a semplificare il complesso regime delle autorizzazioni (intese in senso lato) concernenti l’esercizio di attività economiche private, attraverso la sostituzione degli atti amministrativi lato sensu ampliativi – nei soli settori tassativamente indicati a livello regolamentare – con dichiarazioni sostitutive da parte dei privati interessati, alle condizioni e con i limiti indicati dal medesimo art. 19.

La L. 537/1993[528], novellando l’art. 19 citato, ha in sostanza trasformato la DIA da istituto eccezionale a istituto generale, ammesso in tutti i casi in cui il provvedimento ampliativo è configurabile come atto vincolato[529], con le sole eccezioni stabilite a livello regolamentare.

A seguito della presentazione della dichiarazione del privato la P.A. competente aveva, entro e non oltre 60 giorni, il potere-dovere di verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge e disporre, se del caso, con provvedimento motivato il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti (salva l’eventuale possibilità per l’interessato di conformare alla normativa vigente l’attività ed i suoi effetti).

 

La nuova disciplina della DIA mira ad ampliare le ipotesi nelle quali può essere svolta una attività senza richiedere alle pubbliche amministrazioni provvedimenti di licenza, autorizzazione, permesso ovvero l’iscrizione in albi o ruoli, con alcune eccezioni per una serie di atti rilasciati dalle amministrazioni preposte ad interessi particolarmente sensibili[530], e per gli atti amministrativi imposti dalla normativa comunitaria.

Tra le novità procedurali introdotte, oltre a una generale riduzione dei termini, v’è il divieto alla pubblica amministrazione competente di richiedere informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità le quali siano attestate in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o siano direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni (tale principio è ribadito in via generale dal precedente art. 18, co. 2, relativo all’autocertificazione). È infine riconosciuto al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di controversie relative alla DIA.

 

Quanto all’istituto del silenzio assenso, il previgente art. 20, L. 241/1990 prevedeva la determinazione con regolamento governativo[531] dei casi in cui la domanda da parte dei privati di rilascio di autorizzazioni licenze, nulla osta o altri atti di consenso necessari per lo svolgimento di una loro attività si considera accolta qualora non venga comunicato agli interessati, entro i termini stabiliti in relazione ai vari tipi di atto, il provvedimento di diniego, fermo restando il potere di annullamento dell’atto di assenso illegittimamente formato.

 

La nuova disciplina del silenzio assenso generalizza il ricorso all’istituto: in tutti i casi in cui la pubblica amministrazione non risponde con un provvedimento di diniego ad un’istanza di rilascio di provvedimenti amministrativi nei termini fissati dai regolamenti o dalle leggi, il silenzio della stessa ha valore di provvedimento amministrativo di accoglimento; fanno eccezione il caso dell’art. 19, relativo alla DIA, o quello in cui sia indetta, entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, una conferenza di servizi.

Il silenzio assenso non opera per gli atti e i procedimenti finalizzati alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico e dell’ambiente, a quelli rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, alla salute e alla pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con appositi D.P.C.M. adottati su proposta del ministro per la funzione pubblica, di concerto con i ministri competenti.

L’applicazione della DIA e del silenzio assenso non esclude la potestà di autotutela della P.A. per ragioni di pubblico interesse; né i suoi compiti di vigilanza, prevenzione e controllo sulle relative attività (art. 21, co. 2-bis).

Efficacia e invalidità del provvedimento

L’art. 14 della L. 15/2005 ha inserito in un nuovo capo – il IV-bis – nella L. 241/1990, una serie di disposizioni in materia di atti amministrativi, concernenti:

§         l’efficacia dell’atto che limita la sfera giuridica dei privati (art. 21-bis);

§         l’esecutorietà (art. 21-ter);

§         l’esecutività (art. 21-quater);

§         la revoca (art. 21-quinquies);

§         il recesso dai contratti (art. 21-sexies);

§         la nullità (art. 21- septies);

§         l’annullabilità (art. 21-octies);

§         l’annullamento d’ufficio e la convalida (art. 21-nonies).

Ai sensi dell’articolo 21-bis, i provvedimenti con effetti limitativi della sfera giuridica dei destinatari acquistano efficacia con la comunicazione degli stessi, salva l’accertata impossibilità di procedervi. Nel caso di irreperibilità del destinatario, la comunicazione è effettuata secondo le forme previste dal codice civile. Per tutti i provvedimenti non aventi carattere sanzionatorio si può tuttavia apporre una clausola motivata d’immediata efficacia; i provvedimenti cautelari ed urgenti sono immediatamente efficaci.

L’articolo 21-terintroduce per la prima volta nell’ordinamento una disciplina generale della c.d. esecutorietà del provvedimento amministrativo[532], prevedendo che le pubbliche amministrazioni possano imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti “nelle ipotesi e con le modalità stabiliti dalla legge”, nel caso di inottemperanza del destinatario e previa diffida; si mira con ciò a configurare l’esecutorietà all’interno del principio di legalità.

L’articolo 21-quater disciplina l’esecutività del provvedimento amministrativo, prevedendo che i provvedimenti amministrativi efficaci sono di norma eseguiti immediatamente; esso regola inoltre l’istituto della sospensione, al quale attribuisce carattere eccezionale rispetto alla regola generale dell’immediata esecuzione del provvedimento amministrativo.

L’articolo 21-quinquiesreca la disciplina generale dell’istituto della revoca. La disposizione prevede la possibilità di revocare un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, da parte dell’organo che lo ha emanato o di altro organo previsto dalla legge, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento della situazione di fatto o nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti: ha pertanto efficacia ex nunc. Qualora da essa derivi pregiudizio in danno dei soggetti direttamente interessati, la pubblica amministrazione ha l’obbligo di provvedere a un indennizzo[533].

L’articolo 21-sexiesprevede che il recesso unilaterale dai contratti da parte della pubblica amministrazione sia ammesso nei soli casi previsti dalla legge o dallo stesso contratto e solo se lo richiedano rilevanti ragioni di interesse pubblico. La disposizione è volta ad estendere all’attività negoziale dell’amministrazione il principio della stabilità degli obblighi contrattuali (art. 1372 c.c.) al fine di salvaguardare l’affidamento dei terzi.

L’articolo 21-septiesintroduce per la prima volta nell’ordinamento la disciplina generale della nullità del provvedimento amministrativo. La nullità è prevista nei seguenti casi:

§         mancanza degli elementi essenziali del provvedimento amministrativo;

§         difetto assoluto di attribuzione;

§         violazione o elusione del giudicato;

§         espressa previsione della legge.

le questioni inerenti la nullità dei provvedimenti amministrativi per violazione o elusione del giudicato sono deferite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

L’articolo 21-octies reca la disciplina dell’annullabilità del provvedimento amministrativo, che è prevista nei casi classici di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza. Vi si aggiunge il principio, proprio di altri ordinamenti (Spagna e Germania), in base al quale le violazioni di norme sul procedimento o sulla forma degli atti amministrativi non danno luogo ad annullabilità del provvedimento, se il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Inoltre, non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento nel caso l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso dal quello adottato.

Si sancisce così sul piano del diritto positivo l’istituto dell’irregolarità, relativo alla violazione di norme o comunque di regola di corretta redazione degli atti, prescriventi adempimenti di carattere formale, o comunque marginali rispetto alla sostanza della fattispecie.

L’articolo 21-nonies disciplina gli istituti dell’annullamento d’ufficio[534] e della convalida degli provvedimenti amministrativi annullabili. Entrambi possono aver luogo in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un “termine ragionevole”; ai fini dell’annullamento d’ufficio occorre tener conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

L’accesso ai documenti amministrativi

Anche il capo V della L. 241/1990, nel quale sono dettati i principi generali in materia di accesso ai documenti amministrativi da parte dei cittadini, è stato ampiamente riformulato dalla L. 15/2005 (artt. 15-18).

È stato in particolare riscritto interamente l’articolo 22, che definisce il diritto di accesso (diritto, riconosciuto ai soggetti interessati, “di prendere visione dei documenti amministrativi e di ottenerne copia”) e ne detta i princìpi.

 

Titolari del diritto sono tutti i privati, ricomprendendo tra essi anche i portatori di interessi pubblici o diffusi (quali le associazioni, i comitati, ecc.), i quali comprovino di avere un interesse diretto, concreto e attuale, che corrisponda ad una situazione giuridicamente tutelata, connessa al documento al quale si richiede l’accesso.

Sono controinteressati i soggetti terzi che hanno interesse alla riservatezza dei documenti richiesti con la domanda di accesso.

Costituiscono oggetto del diritto i supporti materiali utilizzati per rappresentare gli atti della pubblica amministrazione (documenti amministrativi) o comunque inerenti ad un procedimento amministrativo. La disposizione riprende, ampliandola, la formulazione già contenuta nel previgente art. 22, co. 2, della L. 241, includendo anche gli atti che non sono relativi ad un procedimento specifico; quelli che sono comunque “detenuti”, e non solo formati, come è attualmente previsto, da una pubblica amministrazione, e che si riferiscono ad attività di pubblico interesse, prescindendo dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.

Il diritto può essere esercitato non solo nei confronti dei soggetti di diritto pubblico ma anche dei soggetti privati che svolgano un’attività di pubblico interesse regolamentata dalla normativa nazionale o comunitaria.

 

Di particolare rilevo il co. 2 dell’articolo, ai sensi del quale l’accesso ai documenti amministrativi è elevato, in ragione delle sue finalità di interesse pubblico generale, a principio generale dell’attività amministrativa ed è ricondotto tra i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, in base all’art. 117, co. 2°, lett. m), Cost., spetta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale (resta salva la potestà delle Regioni e degli enti locali di garantire livelli ulteriori di tutela).

Il successivo co. 3 afferma il principio generale dell’accessibilità di tutti i documenti amministrativi, rinviando, per l’individuazione dei casi di esclusione, all’art. 24.

 

L’esercizio del diritto è peraltro circoscritto alle sole informazioni contenute in documenti amministrativi, con espressa esclusione di quelle che non rivestono la forma di documento. I soggetti pubblici si devono attenere al principio di leale collaborazione tra le istituzioni quando procedono all’acquisizione di documenti in possesso di pubbliche amministrazioni, eccettuato il caso di consultazione diretta degli archivi di altra amministrazione certificante, di cui all’art. 43, co. 2, del testo unico in materia di documentazione amministrativa (D.Lgs. 445/2000). Può essere avanzata richiesta di visione o copia degli atti amministrativi fino al momento in cui l’amministrazione è obbligata a conservare gli stessi (co. 4-6).

 

Il citato articolo 24 è stato a sua volta interamente riscritto. Accanto a una disciplina dei casi di esclusione del diritto di accesso (in relazione ad esigenze di segreto o di riservatezza poste sia nell’interesse pubblico sia nell’interesse di terzi) maggiormente dettagliata rispetto a quella previgente, l’articolo introduce alcuni princìpi generali, in alcuni casi legificando princìpi già contenuti nel regolamento di attuazione della L. 241/1990 (D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352):

§         sono inammissibili richieste di accesso finalizzate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni;

§         nei casi in cui sia sufficiente, per potere salvaguardare le esigenze di riservatezza, differire l’accesso ai documenti, l’amministrazione deve comunque assicurare l’esercizio del diritto di accesso;

§         le amministrazioni devono circoscrivere, anche in termini temporali, il campo di applicazione delle limitazioni all’esercizio del diritto di accesso in relazione alla tutela del segreto;

§         si deve comunque garantire agli interessati che lo richiedono l’accesso ai documenti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per l’esercizio del diritto di difesa o per far valere un diritto in giudizio; nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’art. 60 del Codice in materia di protezione dei dati personali[535]in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Sono state modificate anche talune disposizioni sulla tutela giurisdizionale del diritto di accesso, recate dall’articolo 25 della L. 241/1990.

 

L’art. 25, (co. 4, 5 e 6), della L. 241/2005 stabiliva e disciplinava la facoltà di ricorso al TAR contro il rifiuto tacito (silenzio-rifiuto) e contro i provvedimenti che negano, differiscono o limitano il diritto di accesso ai documenti amministrativi; per prevenire il contenzioso in sede giurisdizionale, era altresì previsto l’intervento in via amministrativa dei difensori civici, ai quali l’interessato può chiedere un riesame del diniego, espresso o tacito.

Se il difensore civico lo ritiene illegittimo, ne dà comunicazione all’Amministrazione che l’ha disposto. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l’accesso è consentito.

L’art. 25 detta inoltre particolari regole processuali volte a garantire agli interessati una tutela giurisdizionale rapida attraverso un procedimento abbreviato (nei termini per la notificazione del ricorso, per la conclusione del giudizio, per il ricorso in appello).

 

Le modifiche apportate:

§         con riguardo agli atti delle amministrazioni locali e regionali, prevedono la possibilità di richiedere l’intervento del difensore civico territorialmente competente;

§         con riguardo agli atti delle amministrazioni statali prevedono la possibilità di richiedere l’intervento della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi (v. infra);

§         quando l’accesso sia negato o differito per motivi inerenti ai dati personali riferiti a soggetti terzi, prevedono la consultazione preventiva, da parte della Commissione, del Garante per la protezione dei dati personali; il Garante è tenuto ad acquisire il parere (non vincolante) della Commissione nel caso in cui un procedimento, previsto dal Codice della privacy e relativo al trattamento pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l’accesso ai documenti amministrativi;

§         in caso di ricorso al TAR, prevedono meccanismi processuali volti allo snellimento del procedimento.

Il D.L. 35/2005 (art. 3, co-6-decies) ha integrato tali disposizioni attribuendo le controversie relative all’accesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

È infine riformulato l’articolo 27 della L. 241/1990 che disciplina l’istituzione, la composizione e le funzioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con funzioni di vigilanza e consultive in materia di esercizio ed organizzazione del diritto di accesso.

 

Nella nuova formulazione si prevede, tra l’altro, che la Commissione sia nominata con decreto del Presidente del Consiglio (non più del Presidente della Repubblica), sentito il Consiglio dei ministri; il numero dei componenti è ridotto da 16 a 12 (e viene introdotto quale membro di diritto il capo della struttura che fornisce il supporto organizzativo alla Commissione); è introdotta la possibilità che la Commissione si avvalga di esperti, in numero non superiore a cinque.

Le competenze delle Regioni e degli enti locali

È infine integralmente sostituito l’articolo 29 della L. 241/1990, concernente le competenze regionali in materia.

 

Il testo vigente dell’art. 29 stabilisce che:

§         le Regioni a statuto ordinario regolano le materie disciplinate dalla stessa L. 241/1990 nel rispetto dei princìpi desumibili dalle disposizioni in essa contenute, che costituiscono princìpi generali dell’ordinamento giuridico e che operano direttamente nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia;

§         entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle norme fondamentali.


 

Nel nuovo testo, l’art. 29 dispone l’applicazione:

§         di tutte le disposizioni della legge ai procedimenti amministrativi che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali;

§         delle sole disposizioni in tema di giustizia amministrativa a tutte le amministrazioni pubbliche,

e stabilisce che le Regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regoleranno autonomamente le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto:

§         del sistema costituzionale;

§         delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai princìpi stabiliti dalla presente legge.

 

La disposizione in commento sembra riconoscere, quindi, un fondamento costituzionale diretto al provvedimento, in particolare – come si legge nella relazione all’Assemblea della 1ª Commissione del Senato sul relativo disegno di legge – negli articoli 3 e 97 della Costituzione. Tali disposizioni costituzionali, insieme al principio del giusto procedimento connesso a quello di buon andamento dell’amministrazione, al principio democratico e alle riserve di legge a tutela delle libertà personali ed economiche “costituiscono il primo nucleo della disciplina generale dell’attività amministrativa”.

 

Con riferimento al vincolo posto dai princìpi della L. 241/1990 alle Regioni e agli enti locali, si deve ricordare che, mentre nel precedente assetto costituzionale i princìpi di tale legge vincolavano le Regioni in quanto princìpi generali dell’ordinamento (per le regioni a statuto ordinario) e princìpi di grande riforma (per le regioni a statuto speciale), dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione la competenza delle Regioni, che in alcune materie ha assunto natura esclusiva, non incontra più i menzionati limiti: secondo il vigente art. 117, co. 1, Cost., i soli limiti alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni sono rappresentati dalla Costituzione, dal vincolo comunitario e dal vincolo internazionale.

 

Ci si è pertanto chiesti quale sia il fondamento costituzionale di una legislazione statale quale quella della L. 241/1990 che detta princìpi in materia di attività amministrativa con valore vincolante anche per la competenza legislativa regionale.

Nell’attuale testo costituzionale la definizione di norme in materia di attività amministrativa non figura tra le materie espressamente rimesse alla competenza esclusiva o concorrente dello Stato, e potrebbe pertanto ricadere tra le materie di competenza “residuale” delle Regioni ex art. 117, co. 4°, Cost.. Per altro verso, ai fini della individuazione della competenza sembrerebbero rilevare – almeno con riguardo ad alcuni aspetti della disciplina – le materie di competenza esclusiva statale cui all’art. 117, co. 2°, lett. l) (giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa) ed m) (determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni corrispondenti ai diritti civili e sociali da assicurare su tutto il territorio nazionale)[536].

 

L’art. 22 della L. 15/2005 ha previsto che, fino alla data di entrata in vigore della normativa regionale prevista dal citato art. 29 della L. 241/1990 i procedimenti amministrativi sono regolati dalle leggi regionali vigenti o, in mancanza, dalle disposizioni della L. 241/1990 nel testo novellato.

La disposizione sembra implicare una deroga al principio che escluderebbe, di norma, l’ammissibilità di nuove disposizioni legislative statali “cedevoli” in materie di competenza regionale, desumibile anche dall’art. 1, co. 2, della L. 131/2003 (v. scheda Titolo V e norme di attuazione).


Amministrazione digitale – La “Società dell’informazione”

Il Governo formato all’inizio della XIV legislatura ha posto, nel proprio programma, un forte accento sulla necessità di una profonda modernizzazione del Paese attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie e sull’esigenza di creare al riguardo una strategia complessiva a livello nazionale.

 

“È ormai chiaro a tutti – si legge nel programma di Governo[537] - che gli straordinari progressi delle tecnologie informatiche e di telecomunicazioni sono alla base di alcune profonde trasformazioni economiche e sociali che stanno modificando la nostra vita quotidiana e debbono essere governate per migliorare le nostre attività, le nostre capacità professionali, le nostre possibilità di informazione e di comunicazione.

L’esempio di molti Paesi – gli Stati Uniti, ma anche di alcuni nostri partner nell’Unione europea – mostra i grandi vantaggi che si possono ottenere da efficaci politiche informatiche in termini di crescita economica, di creazione di posti di lavoro, di qualità dei servizi disponibili, di competitività generale. […]

Partiamo certamente da una posizione di ritardo, ma uno dei principali obiettivi di questo Governo è portare il nostro Paese in una posizione di leadership nell’era digitale.

In questo grande sforzo di ammodernamento dell’Italia, la pubblica amministrazione occupa certamente il primo posto”.

Le strutture di governo in materia di tecnologie dell’informazione e della comunicazione

Il Presidente del Consiglio, all’atto della formazione del Governo, ha nominato, per la prima volta, un ministro senza portafoglio per l’innovazione e le tecnologie, il quale, ai sensi del D.P.C.M. 9 agosto 2001, è stato delegato ad esercitare le funzioni spettanti al Presidente del Consiglio “nelle materie dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo della Società dell’informazione, nonché delle connesse innovazioni per le amministrazioni pubbliche, i cittadini e le imprese”. Con la nomina del ministro senza portafoglio, il Governo ha “inteso colmare una visibile carenza del passato: la mancanza di una visione, di una strategia nazionale complessiva e coerente, che sappia tradursi in un piano d’azione e in progetti coordinati[538]“.

 

Secondo quanto stabilito dal decreto citato, il ministro per l’innovazione e le tecnologie svolge funzioni di indirizzo, di coordinamento e di impulso nei confronti delle amministrazioni centrali, con lo scopo di definire progetti specifici, piani di azione e programmi che, attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione, offrano servizi migliori, più efficaci ed efficienti, ai cittadini e alle imprese, e comportino un generale miglioramento delle condizioni economiche, sociali e culturali del Paese, favorendone la competitività.

Prima del 2001, le funzioni del Presidente del Consiglio in materia di innovazione tecnologica erano state attribuite al ministro per la funzione pubblica.

Una serie di disposizioni frammentarie finalizzate a conferire finanziamenti, ha interessato la configurazione dei poteri del ministro per l’innovazione e le tecnologie. La legge finanziaria per il 2003[539] (art. 26, commi 2 e 3) ha attribuito al ministro ulteriori funzioni, con l’obiettivo di razionalizzare la spesa per il settore, oltre ad istituire il “Fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese”, con una dotazione di 100 milioni di euro per il 2003 (art. 26, co. 1).

La legge 3/2003[540], legge collegata in materia di pubblica amministrazione, (art. 27) ha dettato norme volte a promuovere progetti innovativi per l’utilizzo delle nuove tecnologie nella pubblica amministrazione, conferendo al ministro per l’innovazione e le tecnologie compiti di direzione in progetti strategici e istituendo un apposito fondo, denominato “Fondo di finanziamento per i progetti strategici nel settore informatico delle pubbliche amministrazioni”, dotato di un finanziamento di circa 155 milioni di euro nel triennio 2002-2004, successivamente rifinanziato dall’art. 4, comma 8, della legge finanziaria per il 2005[541].

 

Il D.P.C.M. 27 settembre 2001 ha istituito, nell’ambito della Presidenza del Consiglio, il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, quale struttura di supporto all’esercizio delle funzioni delegate al ministro.

 

Con il decreto 18 dicembre 2001[542] si è provveduto a definire l’organizzazione interna del Dipartimento.

 

Per favorire lo sviluppo e l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei diversi settori, è stato costituito, con D.P.C.M. 19 settembre 2001, il Comitato dei ministri per la Società dell’informazione, con il compito di coordinare l’azione delle amministrazioni e di assicurare la definizione e la realizzazione di una strategia coerente per lo sviluppo della Società dell’informazione e delle politiche di settore collegate.

 

Il Comitato, presieduto dal ministro per l’innovazione e le tecnologie, è composto dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con funzioni di Segretario del Consiglio dei ministri) e dai ministri delle attività produttive, per l’attuazione del programma di Governo, dei beni culturali, delle comunicazioni, dell’economia, per la funzione pubblica, dell’interno, del lavoro, per le politiche comunitarie, dell’istruzione e della salute.

 

La struttura organizzativa funzionale al perseguimento degli obiettivi di e-Government e di costruzione della Società dell’informazione è stata individuata nel Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), istituito presso la Presidenza del Consiglio ai sensi dell’art. 176, comma 3, del D.Lgs. 196/2003[543]. Il CNIPA ha assunto i compiti della preesistente Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (AIPA), istituita dall’art. 4 del D.Lgs. 39/1993[544].

Ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 343/2003[545], a decorrere dal 1° gennaio 2004 sono stati trasferiti al CNIPA anche i compiti, le funzioni e le attività esercitati dal Centro tecnico istituito presso l’AIPA per l’assistenza ai soggetti che utilizzano la Rete unitaria della pubblica amministrazione (RUPA)[546]istituita ai sensi dell’art. 15, comma 1, della legge 59/1997, successivamente sostituta, ad opera del D.Lgs. 42/2005[547], dal Sistema pubblico di connettività (SPC).

 

Al CNIPA sono state contestualmente trasferite le risorse finanziarie e strumentali, nonché i dipendenti in servizio.

Tra le funzioni del CNIPA si ricordano quelle relative a:

§       definire e utilizzare i processi e gli strumenti per governare il processo di innovazione tecnologica nelle amministrazioni centrali e locali;

§       coordinare, attraverso la redazione di un piano triennale, il processo di pianificazione e i principali interventi di sviluppo; dettare norme tecniche e criteri in materia di ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione), progettazione, realizzazione, gestione, mantenimento dei sistemi informativi delle amministrazioni e delle loro interconnessioni, nonché della loro qualità e relativi aspetti organizzativi;

§       dettare criteri e regole tecniche di sicurezza, interoperabilità, apertura, performance;

§       emettere i pareri di congruità tecnico-economica sugli schemi dei contratti concernenti l’acquisizione di beni e servizi riguardanti i sistemi informativi;

§       operare nell’ambito dell’Unione europea nelle materie di propria competenza e per gli aspetti tecnico-operativi; curare i rapporti con le Istituzioni comunitarie e con gli organismi internazionali;

§       definire indirizzi e direttive per la predisposizione di piani di formazione del personale delle pubbliche amministrazioni, orientandoli verso l’utilizzo di tecnologie informatiche innovative.

 

Sono stati inoltre istituiti, tra gli altri, due organismi con competenze consultive generali.

La Conferenza permanente per l’innovazione tecnologica, prevista dall’art. 18 del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 82/2005[548]), è l’organo che svolge funzioni di consulenza al ministro per l’innovazione e le tecnologie in materia di sviluppo ed attuazione dell’innovazione tecnologica nelle amministrazioni dello Stato; tra l’altro, essa verifica con cadenza semestrale lo stato di attuazione sia dei programmi in materia di innovazione tecnologica, sia del piano triennale dei progetti e dei principali interventi di sviluppo e gestione dei sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni predisposto dal CNIPA.

Dando attuazione a quanto previsto dall’articolo 14 del Codice dell’amministrazione digitale, che prevede l’istituzione di organismi di cooperazione con le Regioni e le autonomie locali, il D.Lgs. 159/2006[549], con una novella al Codice, ha istituito presso la Conferenza Unificata Stato-Regioni la Commissione permanente per l’innovazione tecnologica nelle Regioni e negli Enti locali, quale sede paritetica per il confronto sull’attuazione delle politiche per l’innovazione sul territorio, dotata di funzioni istruttorie e consultive.

 

Iniziative analoghe erano già state assunte in precedenza: il 15 gennaio 2004 era stata insediata, nell’ambito del programma di innovazione tecnologica funzionale all’ammodernamento della pubblica amministrazione locale (P.A.L.), la Commissione permanente per l’innovazione tecnologica nei Comuni. L’organismo era previsto dal protocollo d’intesa siglato con l’ANCI del 19 dicembre 2002 e aveva compiti sia operativi, sia di indirizzo; di esso facevano parte rappresentanti dell’ANCI e dei Comuni individuati in ogni Regione italiana.

Le politiche per lo sviluppo della Società dell’informazione

Gli obiettivi generali in materia sono stati definiti all’inizio del 2002 con le Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’informazione nella legislatura[550], che si sviluppano lungo tre direttrici di intervento:

§         la trasformazione della pubblica amministrazione tramite le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (e-Government), avendo come modello una pubblica amministrazione orientata all’utente, cittadino ed impresa, fornitrice di moderni servizi, con cui sia facile operare;

§         la realizzazione di interventi nel “sistema Paese” per l’innovazione e lo sviluppo della Società dell’informazione, che agiscono sul capitale umano, in materia di politica industriale e finanziaria, sulle norme e sulle infrastrutture, e sono orientati a creare le condizioni e i prerequisiti per il diffondersi dell’innovazione e l’affermarsi della Società dell’informazione;

§         l’azione internazionale, che ha portato il Governo Italiano ad assumere, nell’ambito del G8, la responsabilità dell’iniziativa “e-Government per lo sviluppo”: un programma di cooperazione internazionale per la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni nei Paesi in via di sviluppo. L’azione internazionale è inoltre volta a fare in modo che le tematiche della Società dell’informazione assumano sempre maggiore centralità nell’agenda dell’Unione europea.

La complessa attività di sviluppo della Società dell’informazione prevede l’adozione di specifici strumenti di governo, tra i quali il piano triennale[551]già citato, con cui sono definiti i progetti di innovazione, gli obiettivi quantitativi e qualitativi e i finanziamenti necessari sia per gli investimenti che per la gestione. Il piano è adottato dal CNIPA, che provvede annualmente alla sua revisione.

Dal punto di vista delle politiche legislative, gli interventi normativi che hanno interessato il settore sono stati sostanzialmente finalizzati:

§      alla definizione delle strutture di governo dell’innovazione e all’individuazione dei loro compiti;

§      al finanziamento di iniziative specifiche dirette a sostenere il processo di sviluppo della Società dell’informazione nella pubblica amministrazione e nel Paese (si ricordano, tra le numerose altre, gli incentivi per l’acquisto di personal computer in favore dei giovani, dei docenti, dei dipendenti pubblici; i finanziamenti per la diffusione della carta di identità elettronica e della carta nazionale dei servizi; la sperimentazione del conteggio informatizzato del voto, etc.);

§      all’introduzione o alla ridefinizione di strumenti o di procedure volti a riorganizzare la pubblica amministrazione al fine della sua progressiva digitalizzazione e del miglioramento dei servizi offerti (fra questi, il sistema pubblico di connettività; la posta elettronica certificata; le firme digitali; il protocollo informatico; gli acquisti centralizzati delle pubbliche amministrazioni; l’informatizzazione degli uffici cassa delle amministrazioni statali; la partecipazione al procedimento amministrativo informatico; etc.).

Il ministro per l’innovazione e le tecnologie peraltro ha fatto ampio ricorso agli strumenti più flessibili del decreto ministeriale e della direttiva, per dettare disposizioni sull’e-Government e fornire indirizzi e indicazioni operative.

L’adozione del Codice dell’amministrazione digitale rappresenta senza dubbio l’intervento normativo di maggior rilievo realizzato nella legislatura appena trascorsa: in esso hanno trovato sistemazione le norme generali che sanciscono i diritti dei cittadini e delle imprese e quelle relative all’organizzazione delle pubbliche amministrazioni con riferimento alla digitalizzazione (v. scheda Amministrazione digitale – Il Codice).

La trasformazione della pubblica amministrazione: la digitalizzazione

Gli obiettivi

Con riferimento alla trasformazione della pubblica amministrazione, e in particolare delle Amministrazioni centrali, le Linee guida per lo sviluppo della Società dell’informazione hanno indicato i dieci obiettivi[552], da conseguire entro il termine della XIV legislatura.

 

I dieci obiettivi sono stati così individuati:

§       servizi on line ai cittadini e alle imprese:

-        disponibilità on line di tutti i servizi delle amministrazioni centrali ‘prioritari’ per cittadini e imprese;

-        distribuzione di 30 milioni di carte di identità elettroniche e carte nazionali dei servizi per favorire l’accesso ai servizi della pubblica amministrazione;

-        diffusione di un milione di firme digitali entro il 2003;

§       efficienza interna della pubblica amministrazione:

-        effettuazione del 50 per cento degli acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione tramite e-Procurement;

-        utilizzo delle e-mail per tutta la posta interna della pubblica amministrazione;

-        gestione on-line di tutti gli impegni e i mandati di pagamento;

§       valorizzazione delle risorse umane:

-        alfabetizzazione certificata di tutti i dipendenti pubblici che utilizzano le tecnologie ICT per il loro lavoro;

-        un terzo della formazione dei dipendenti pubblici erogata via e-Learning;

§       trasparenza:

-        accesso on-line all’iter delle pratiche da parte dei cittadini (trasparenza verso l’esterno dell’iter burocratico) per due terzi degli uffici della pubblica amministrazione;

§       qualità:

-        dotazione a tutti gli uffici che erogano servizi, di un sistema di soddisfazione dell’utente.

 

Le singole Amministrazioni sono state inoltre invitate ad elaborare obiettivi specifici, coerenti con la strategia di e-Government, nelle proprie aree di intervento, finalizzati a qualificare in modo innovativo l’azione di ciascun Ministero[553].

Le priorità d’intervento in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione sono state definite ciascun anno da direttive emanate dal ministro per l’innovazione e le tecnologie[554]. Il ministro ha adottato, il 20 dicembre 2001, la prima direttiva contenente le Linee guida in materia di digitalizzazione dell’amministrazione per il 2002; ulteriori direttive sono seguite con frequenza annuale.

 

Le Linee guida emanate annualmente fissano gli obiettivi concreti da conseguire nel corso dell’esercizio. Esse costituiscono indirizzi per le amministrazioni dello Stato e integrano i piani predisposti autonomamente dalle singole amministrazioni per l’anno di riferimento. Si ricordano sinteticamente i contenuti delle più recenti.

 

Per l’anno 2005 sono stati enucleati (con Direttiva del 4 gennaio 2005[555]) i sottoelencati settori di intervento prioritario per le amministrazioni:

§       comunicazione elettronica (all’interno di ciascuna amministrazione; tra amministrazioni diverse; tra amministrazioni, cittadini e imprese);

§       Rete Internazionale delle pubbliche amministrazioni;

§       Sistema pubblico di connettività e cooperazione (SPC);

§       Carta nazionale dei servizi (CNS);

§       servizi on-line agli utenti

§       gestione documentale.

La direttiva prevede l’attivazione della seconda fase della digitalizzazione della P.A., successiva alla prima che, iniziata nel 2001, si è conclusa nel 2004. La seconda fase si fonda sulla interoperabilità tra le amministrazioni e sul pieno raccordo tra digitalizzazione, organizzazione, processi e servizi al pubblico.

Secondo quanto prevede la Direttiva, questo passaggio alla seconda fase della digitalizzazione trova il suo fondamento normativo nell’approvazione di due riforme organiche che costituiranno la base per l’evoluzione dell’e-Government nei prossimi anni: il decreto legislativo (D.Lgs. 42/2005) con cui è stato disciplinato il Sistema Pubblico di Connettività’ e Cooperazione (SPC), che ha sostituito la Rete Unitaria delle Pubbliche Amministrazioni, con l’obiettivo di raccordare tutte le pubbliche amministrazioni statali, regionali e locali, e il Codice dell’amministrazione digitale, che ha dato un assetto unitario ed organico al complesso di diritti dei cittadini e delle imprese, agli istituti giuridici e ai doveri delle amministrazioni in materia di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni.

 

Le Linee guida per il 2006[556], dopo aver ricordato l’entrata in vigore, il 1° gennaio 2006, del Codice dell’amministrazione digitale, hanno indicato alcuni punti fondamentali da questo disciplinati sui quali le pubbliche amministrazioni dovranno concentrare i loro sforzi per assicurarne l’attuazione, fornendo loro indicazioni operative in merito. Si tratta dei seguenti obiettivi, coincidenti, in parte, con quelli elencati nella precedente Direttiva del gennaio 2005:

§         comunicazione telematica tra pubblica amministrazione e cittadini;

§         comunicazione interna alle pubbliche amministrazioni;

§         Carta Nazionale dei Servizi;

§         transazioni economiche on line;

§         conferenza di servizi on line;

§         sicurezza dei sistemi informativi;

§         strutture per l’organizzazione, l’innovazione e le tecnologie (centri di competenza).

Gli interventi

Proseguendo nell’azione già intrapresa nella XIII legislatura, che aveva segnato la prima introduzione nella P.A. di alcuni strumenti e processi digitali fortemente innovativi, quali le firme elettroniche, le carte per l’accesso on-line ai servizi della pubblica amministrazione, il protocollo informatizzato, il sistema centralizzato di acquisti delle amministrazioni pubbliche (e-Procurement), etc., sono stati adottati numerosi provvedimenti per la digitalizzazione della pubblica amministrazione. Alcune tematiche (il documento informatico, le firme elettroniche, i pagamenti informatici, le carte elettroniche) hanno successivamente trovato collocazione, a livello di principi generali, nel Codice dell’amministrazione digitale.

Con l’intento di assicurare una maggiore trasparenza ai cittadini in merito alle richieste di informazioni da essi presentate alle amministrazioni statali e per promuovere l’utilizzo del documento informatico e della firma elettronica negli scambi di documenti ed atti tra amministrazioni, il ministro per l’innovazione e le tecnologie ha emanato il 9 dicembre 2002 una direttiva sulla trasparenza dell’azione amministrativa e sulla gestione elettronica dei flussi documentali[557]. Ad essa hanno fatto seguito ulteriori provvedimenti volti a favorire l’automazione dei flussi documentali, tra i quali si ricordano, in particolare, le linee guida per l’adozione del protocollo informatico e per il trattamento informatico dei procedimenti amministrativi (D.P.C.M. 14 ottobre 2003).

La legge 15/2005[558] (art. 3), inserendo l’art. 3-bis nella legge 241/1990[559], ha previsto in via generale l’uso della telematica da parte delle amministrazioni pubbliche nei rapporti tra le diverse amministrazioni, e tra queste e i privati.

 

L’art. 3 del Codice sancisce il principio generale in base al quale i cittadini e le imprese hanno il diritto di “richiedere” e di “ottenere” l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni centrali e con i gestori di pubblici servizi statali.

Il medesimo principio è ripreso anche dal decreto-legge 35/2005[560] che, al comma 3-quater dell’art. 7, stabilisce l’obbligo per le amministrazioni statali di ricevere nonché inviare, ove richiesto, in via telematica, nel rispetto della normativa vigente, la corrispondenza, i documenti e tutti gli atti relativi ad ogni adempimento amministrativo.

Il Capo III del Codice pone il principio secondo cui “le pubbliche amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. L’uso di tali tecnologie costituisce dunque, o dovrebbe giungere a costituire, la modalità ordinaria di gestione dei procedimenti amministrativi. La modifica della legge n. 241/1990, operata dalla legge 15/2005 e recepita nel Codice, ha introdotto la possibilità di effettuare la conferenza di servizi attraverso l’uso dell’informatica (v. scheda Amministrazione digitale – Il Codice).

 

Nel processo di trasformazione e modernizzazione delle amministrazioni pubbliche, hanno assunto particolare importanza il tema della qualità dei servizi pubblici e il ruolo centrale del cittadino, inteso non solo come destinatario di servizi, ma anche quale soggetto da coinvolgere per valutare la rispondenza dei servizi erogati ai bisogni reali. Con l’obiettivo di fornire indicazioni per migliorare la qualità e promuovere l’utilizzo dei servizi on-line, attraverso un’attenta ed efficace rilevazione delle esigenze e delle aspettative degli utenti, è stata emanata la Direttiva 27 luglio 2005[561], sulla qualità dei servizi on-line e la misurazione della soddisfazione degli utenti.

 

Le nozioni di qualità dei servizi resi e di soddisfazione dell’utenza sono state recepite dal Codice, sulla base del presupposto di una pubblica amministrazione efficiente che si pone effettivamente, attraverso i nuovi strumenti informatici, al servizio degli utenti. Il Codice (art. 7) stabilisce che le pubbliche amministrazioni, nella riorganizzazione dei servizi da esse resi, devono tenere conto delle reali esigenze dei cittadini e delle imprese e del grado di soddisfazione degli utenti, da valutarsi periodicamente attraverso specifici meccanismi di rilevazione e analisi.

 

E’ stato posto un forte accento sull’uso degli strumenti informatici come mezzo per migliorare la conoscibilità delle leggi e semplificare l’accesso alle norme da parte dei cittadini. In attuazione dell’art. 107 della legge finanziaria 2001[562], che ha finanziato, con un apposito fondo, iniziative volte a promuovere l’informatizzazione e la classificazione della normativa vigente, al fine di facilitarne la ricerca e la consultazione gratuita da parte dei cittadini, con D.P.C.M. 24 gennaio 2003 sono state definite le modalità di utilizzazione del fondo (finanziato con 5 miliardi di lire annui dal 2001 al 2005).

Disposizioni già contenute nella legge di semplificazione 2001 (art. 19) e trasposte nel Codice (art. 56) hanno reso disponibili on line nei rispettivi siti istituzionali le sentenze depositate dalla magistratura amministrativa e contabile, facilitando l’accesso agli archivi giurisprudenziali.

Nel corso della legislatura, alcuni strumenti per la realizzazione dell’e-Government (ad es. firma digitale, protocollo informatico, carte elettroniche) già regolati dal testo unico sulla documentazione amministrativa[563] sono stati oggetto di una ampia ridefinizione, altri sono stati innovativamente disciplinati.

Per completare e unificare il quadro di applicazione della firma elettronica, la cui disciplina era stata inizialmente posta nella XIII legislatura, è stato emanato il D.P.R. 137/2003[564]. Il provvedimento, attuativo del D.Lgs. 10/2002[565], ne ha coordinato le disposizioni con quelle recate dal testo unico sulla documentazione amministrativa e ha fissato i requisiti (affidabilità; garanzia della sicurezza) per lo svolgimento dell’attività dei certificatori.

Le regole tecniche per la generazione, apposizione e verifica delle firme digitali che si applicano ai certificatori che rilasciano al pubblico certificati “qualificati” e ai certificatori “accreditati”, i quali devono osservare anche le regole per la validazione temporale e per la protezione dei documenti informatici, sono state fissate dal D.P.C.M. 13 gennaio 2004[566].

 

Il Capo II del Codice dell’amministrazione digitale ha recepito nella sostanza la disciplina già contenuta, sul tema in questione, nel testo unico sulla documentazione amministrativa, apportando alcune rilevanti innovazioni, con particolare riguardo al valore probatorio del documento informatico in relazione alla tipologia delle firme elettroniche (sulla disciplina delle quali, v. scheda Amministrazione digitale – Il Codice).

 

Grande importanza assumono le carte elettroniche nelle politiche di e-Government. Nell’ambito di esse, la carta d’identità elettronica e la carta nazionale dei servizi sono individuate come gli strumenti attraverso i quali i cittadini vengono riconosciuti in rete in modo certo, al fine di usufruire dei servizi erogati per via telematica dalle amministrazioni pubbliche.

La carta d’identità elettronica (CIE) è stata introdotta dall’art. 2, comma 10, della L. 127/1997[567]; il passaggio decisivo verso la definizione della carta d’identità quale carta di servizi si è avuto con la modifica alla L. 127/1997 operata dalla L. 198/1999[568], che ne ha previsto l’utilizzo come strumento di semplificazione del rapporto tra P.A. e cittadini.

Varie disposizioni approvate nella XIV legislatura hanno inciso sulla disciplina della CIE.

 

Il D.Lgs. 10/2002 ha stabilito che le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica sono valide quando l’autore è identificato dal sistema informatico con l’uso della carta d’identità elettronica o della carta nazionale dei servizi, nei limiti di quanto stabilito da ciascuna amministrazione. La disposizione è stata recepita dall’art. 65 del Codice, che nell’articolo successivo disciplina in via generale le carte elettroniche.

La legge finanziaria per il 2003 (art. 26, comma 4) ha previsto il ricorso a forme innovative di finanziamento (convenzioni, contributi di privati, finanza di progetto, cartolarizzazioni) per promuovere la diffusione della carta di identità elettronica e della carta nazionale dei servizi; l’ art. 52, comma 9, ha stabilito l’assorbimento del tesserino fiscale nella carta nazionale dei servizi e la progressiva utilizzazione della carta medesima, anche ai fini della razionalizzazione della spesa sanitaria.

La legge finanziaria per il 2004 (art. 4, comma 127) modificando l’art. 50 del decreto-legge 269/2003[569] in materia di “Tessera sanitaria”, ha disposto che quest’ultima possa essere integrata nella carta di identità elettronica.

Dal 1 gennaio 2006, secondo quanto ha previsto l’art. 7-vicies ter, comma 2, del decreto-legge 7/2005[570],la carta d’identità cartacea è sostituita, all’atto della richiesta del primo rilascio o del rinnovo del documento, dalla carta d’identità elettronica.

Per quanto riguarda la concreta attuazione, nel 2001 è stato dato avvio ad una prima fase di sperimentazione della CIE che ha visto l’emissione di 100.000 carte da parte di 83 comuni selezionati alla sperimentazione.

Tale sperimentazione ha consentito di valutare la complessità del processo di emissione, dalle implicazioni organizzative all’interno dei comuni ai requisiti di formazione per gli operatori coinvolti. I costi elevati di realizzazione del progetto carta d’identità elettronica e le notevoli difficoltà organizzative hanno rallentato la diffusione di tale documento, facendo di conseguenza concentrare le risorse sulla carta nazionale dei servizi.

 

Affine alla carta d’identità elettronica, la carta nazionale dei servizi (CNS) è un documento su supporto informatico che consente ai cittadini l’accesso per via telematica ai servizi erogati dalla pubblica amministrazione e da altri enti per i quali sia necessaria l’identificazione del soggetto, senza peraltro svolgere la funzione di documento di identità. Si tratta di uno strumento provvisorio, istituito con il D.Lgs. 10/2002 con lo scopo di anticipare le funzioni di accesso ai servizi in rete della P.A. e da utilizzarsi nella fase transitoria in attesa della piena diffusione della carta d’identità elettronica.

 

Con il D.P.R. 117/2004[571] è stato approvato il regolamento concernente la diffusione della carta nazionale dei servizi.

La carta nazionale dei servizi è emessa, su richiesta del soggetto interessato, dalle pubbliche amministrazioni che intendono rilasciarla e si assumono i relativi oneri di produzione e rilascio. Essa ha validità determinata dall’amministrazione emittente, comunque non superiore a sei anni e costituisce lo strumento principale per l’accesso ai dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, sia quelli di dominio pubblico, sia quelli contenenti informazioni personali del cittadino (dati fiscali, previdenziali, sanitari, ecc.). La carta consente ai cittadini di fruire dei servizi da una postazione dotata di lettore (PC) senza doversi recare personalmente nei vari uffici. La carta nazionale dei servizi può essere utilizzata anche per i pagamenti informatici tra soggetti privati e pubbliche amministrazioni, secondo quanto previsto dalla normativa vigente. Le pubbliche amministrazioni che erogano servizi in rete devono consentirne l’accesso ai titolari della carta nazionale dei servizi indipendentemente dall’ente di emissione, che è responsabile del suo rilascio.

Nel microprocessore della CNS è contenuto il certificato di autenticazione, che identifica il titolare e garantisce l’autenticità delle informazioni; accanto a questo potrà essere inserito anche il certificato di firma digitale, che renderà la carta uno strumento più completo.

Al momento dell’emissione o del rinnovo della carta nazionale dei servizi, l’amministrazione, utilizzando i servizi telematici resi disponibili dall’indice nazionale delle anagrafi (INA), effettua la verifica della corrispondenza dei dati identificativi e accerta che il soggetto richiedente non sia già in possesso della carta di identità elettronica. In caso di corrispondenza dei dati identificativi e se il soggetto richiedente non risulta titolare di una carta d’identità elettronica, l’amministrazione emette la carta nazionale dei servizi ed invia il codice numerico identificativo della carta, la data del rilascio e la data di scadenza all’Indice nazionale delle anagrafi, al fine di formare ed aggiornare la lista di emissione.

 

L’articolo 1-novies del decreto-legge 44/2005[572] ha riformulato il quarto e il quinto comma dell’art. 1 della legge 1228/1954[573], recante la disciplina delle anagrafi, con lo scopo di alimentare l’Indice nazionale delle anagrafi (INA) in vista della diffusione della carta d’identità elettronica.

 

I commi quarto e quinto dell’art. 1 della L. 1228/1954 sono stati introdotti dall’art. 2-quater del decreto-legge 392/2000[574]. Essi hanno istituito, presso il Ministero dell’interno, l’Indice nazionale delle anagrafi (INA), finalizzato a migliorare l’esercizio della funzione di vigilanza e di gestione dei dati anagrafici tenuti dai comuni.

L’INA è un archivio di servizio, accessibile in rete a tutti i Comuni, nel quale sono contenute una serie di informazioni (cognome e nome del cittadino; codice fiscale; codice del comune di ultima residenza presso il quale sono conservate le informazioni anagrafiche). Le informazioni di dettaglio continuano comunque ad essere contenute e gestite dalle rispettive anagrafi comunali: l’INA pertanto non costituisce un’anagrafe centralizzata, ma una sorta di anagrafe virtuale realizzata attraverso il collegamento telematico delle singole anagrafi comunali.

Con il decreto del ministro dell’interno 23 aprile 2002, n. 513, è stato costituito il Centro nazionale per i servizi demografici presso il Dipartimento per gli affari interni e territoriali, competente, fra l’altro, in ordine alle funzioni connesse alla gestione dei processi di autenticazione e convalida dei dati anagrafici, alla gestione, all’aggiornamento e alla consultazione dell’INA, alla gestione del Centro servizi anagrafi del Sistema di accesso e interscambio anagrafico (SAIA).

Il continuo e costante aggiornamento delle informazioni contenute nell’INA è garantito dalle comunicazioni di variazioni anagrafiche che vengono inviate tramite il SAIA.

Al progetto INA-SAIA è tra l’altro connessa l’introduzione della carta nazionale dei servizi per quanto riguarda sia le funzioni di controllo del procedimento di emissione in “sicurezza” delle carte da parte dei Comuni sia quelle relative all’utilizzo del nuovo documento da parte dei cittadini. La nuova carta permette anche l’accesso ai servizi della pubblica amministrazione centrale e degli enti locali. Secondo quanto prevede il D.P.R. 117/2004, le amministrazioni che intendono emettere la CNS, identificato il titolare, rilasciano la carta nel rispetto delle regole tecniche ed inviano i dati identificativi all’INA, che ne verifica la correttezza e inserisce il codice numerico e le date di rilascio e scadenza nella lista di emissione.

La formazione dell’INA sta avendo luogo progressivamente. Il regolamento recante i principi generali sull’INA è stato adottato con D.M. 13 ottobre 2005, n. 240[575].

 

Il decreto del ministro dell’interno, del ministro per l’innovazione e del ministro dell’economia del 9 dicembre 2004 ha definito le regole tecniche e di sicurezza relative alle tecnologie e ai materiali utilizzati per la produzione della Carta nazionale dei servizi.

 

Secondo quanto si rileva in proposito nelle Linee guida per l’amministrazione digitale per il 2006,il numero di CNS in circolazione è di oltre dieci milioni e molte sono in procinto di essere emesse: “pertanto, tutte le pubbliche amministrazioni che erogano servizi in rete devono provvedere – in coerenza con quanto previsto nell’art. 5, comma 2 del D.P.R. 117/2004 – a consentire l’accesso ai servizi ai titolari di tutte le CNS, indipendentemente dall’ente di emissione delle stesse. Contestualmente, le amministrazioni sono tenute a dare esplicita pubblicità nei propri siti istituzionali della possibilità di usufruire dei servizi offerti ai cittadini utilizzando la CNS come strumento di accesso”.

Con bando di gara pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 26 maggio 2005, il CNIPA ha avviato il procedimento per la stipula di un contratto quadro per la fornitura alle pubbliche amministrazioni di un massimo di 3 milioni di smart card conformi allo standard CNS.

 

Nel quadro del miglioramento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, particolare attenzione è stata posta al problema della comunicazione interna ed esterna.

Lo strumento della posta elettronica, inteso come mezzo di comunicazione e trasmissione di documenti, informazioni, dati (sia all’interno della P.A. che nei confronti dei terzi) presenta caratteristiche di economicità, semplicità e velocità di trasmissione, facilità di archiviazione, possibilità di invio multiplo, integrabilità con altri strumenti ed applicazioni telematiche e infine, di affidabilità. L’utilizzo intensivo ed esteso della posta elettronica riveste un’importanza strategica nell’ottica di un cambiamento radicale della pubblica amministrazione[576].

In questo ambito occorre ricordare la Direttiva del 27 novembre 2003[577], sull’impiego della posta elettronica nelle pubbliche amministrazioni, con la quale si è inteso promuoverne la diffusione.

 

L’art. 47 del Codice stabilisce che “le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono di norma mediante l’utilizzo della posta elettronica”, precisando che esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo se ne sia verificata la provenienza specificando le modalità che consentono la verifica della “provenienza” delle comunicazioni allo scopo di conferire ad esse efficacia legale certa.

Dal primo gennaio del 2006, tutte le pubbliche amministrazioni devono privilegiare l’uso della posta elettronica come canale di comunicazione anche con i propri dipendenti.

La prosecuzione delle tradizionali forme di comunicazione, nonostante sussista la possibilità di ricorrere alla posta elettronica, configura l’inosservanza di una disposizione di legge e una fattispecie di improprio uso di denaro pubblico[578].

 

Per quanto riguarda invece le comunicazioni telematiche tra cittadini e amministrazioni, lo strumento ordinario è stato individuato nella posta elettronica certificata (le cui caratteristiche consentono di attestare la data e l’ora di spedizione e di ricezione nonché, grazie alla firma elettronica, la provenienza e l’integrità del contenuto), disciplinata da uno specifico regolamento adottato con il D.P.R. 68/2005[579]. La PEC riveste grande importanza anche per lo scambio di comunicazioni interne nella pubblica amministrazione. Con il decreto 2 novembre 2005[580] sono state fissate le regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata.

Funzionale al miglioramento delle comunicazioni tra le amministrazioni pubbliche centrali e locali è stata l’istituzione, con il decreto legislativo 42/2005[581] del Sistema pubblico di connettività e cooperazione (SPC), che ha sostituito la preesistente Rete unitaria della pubblica amministrazione (RUPA), istituita ai sensi dell’art. 15, co. 1, della legge 59/1997.

 

Il SPC è stato ritenuto maggiormente idoneo della RUPA a garantire l’interoperabilità e la cooperazione applicativa tra i sistemi informativi delle diverse amministrazioni pubbliche, centrali e locali, consentendo a queste di utilizzare i servizi telematici per elaborare ed erogare i propri servizi direttamente ai cittadini e alle imprese. Accanto al SPC, ed a questo interconnessa, il D.Lgs. 42/2005 ha istituito una Rete internazionale delle pubbliche amministrazioni, volta a consentire il collegamento tra queste e gli uffici italiani all’estero. Le disposizioni del D.Lgs. 42/2005 sono confluite successivamente nel Codice.

 

Le strategie in materia di sicurezza informatica e delle telecomunicazioni per la pubblica amministrazione sono state definite dalla Direttiva del 16 gennaio 2002[582]. Con decreto del 24 luglio 2002[583] è stato istituito uno specifico Comitato tecnico nazionale, quale organismo tecnico di coordinamento tra le amministrazioni interessate, nell’ambito della realizzazione del Piano Nazionale della sicurezza informatica e delle telecomunicazioni.

L’obiettivo di comunicare per via telematica con i cittadini e le imprese che lo richiedano presuppone che l’amministrazione si adoperi per rendersi facilmente raggiungibile con tale modalità. Oltre al regolamento sulla posta elettronica certificata, si segnala la direttiva del 30 maggio 2002[584] sull’uso del dominio internet “.gov.it” e l’interazione del portale nazionale “italia.gov.it” con le pubbliche amministrazioni. Il portale nazionale intende porsi come una porta di accesso unificato ai servizi digitali resi disponibili dalle diverse strutture amministrative pubbliche.

La legge 4/2004[585] ha introdotto specifiche disposizioni per garantire il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica utilità da parte delle persone disabili. La legge tutela e garantisce, in particolare, il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica utilità da parte delle persone disabili, in ottemperanza principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, avvalendosi del CNIPA, svolge i compiti amministrativi inerenti alla attuazione della legge. Con il D.P.R. 75/2005[586] è stato adottato il regolamento di attuazione della legge n. 4/2005 e con il decreto 8 luglio 2005[587] sono stati definiti i requisiti tecnici e i diversi livelli per l’accessibilità agli strumenti informatici (v. capitolo La comunicazione e i disabili, nel dossier relativo alla Commissione Trasporti).

Altri interventi infine hanno avuto come obiettivo il miglioramento dell’efficienza interna della macchina organizzativa statale e la valorizzazione delle risorse umane.

Per quanto riguarda lo sviluppo e l’utilizzazione dei programmi informatici da parte delle pubbliche amministrazioni, la Direttiva 19 dicembre 2003[588] ha dettato indicazioni e criteri tecnici e operativi per gestire più efficacemente il processo di predisposizione o di acquisizione di programmi informatici. In particolare, nella direttiva si precisa che le pubbliche amministrazioni devono tenere conto dell’offerta sul mercato della modalità di sviluppo e diffusione di programmi informatici, definita “open source” o “a codice sorgente aperto”.

 

Il Codice (art. 69) favorisce, con l’intento di renderlo praticabile su larga scala, il riuso di programmi informatici realizzati per conto di altre amministrazioni, anche istituendo, a cura del CNIPA, un’apposita banca dati informativa a livello nazionale dei programmi informatici riutilizzabili.

 

È inoltre utile ricordare in proposito il D.Lgs. 36/2006[589], con cui è stata recepita in Italia la direttiva comunitaria 2003/98/CE.

Il provvedimento disciplina le modalità di riutilizzo dei documenti contenenti dati pubblici nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico. Il termine “documento” è inteso in senso molto ampio: la definizione comprende qualsiasi rappresentazione di atti, fatti o informazioni - e qualsiasi raccolta dei medesimi - a prescindere dal suo supporto (testo su supporto cartaceo o elettronico, registrazione sonora, visiva o audiovisiva) in possesso di enti pubblici.

 

Il riutilizzo dei documenti può essere consentito a fini commerciali o non commerciali, diversi dallo scopo iniziale per il quale il documento che lo rappresenta è stato prodotto nell’ambito dei fini istituzionali.

Non è previsto un obbligo per la P.A. di consentire il riutilizzo delle proprie informazioni, la decisione di concedere o meno tale riutilizzo spetta all’amministrazione o all’organismo interessato.

Le Amministrazioni interessate possono nel caso chiedere il pagamento di un corrispettivo in denaro; il totale delle entrate provenienti dalla fornitura e dalla autorizzazione al riutilizzo dei documenti non deve superare i costi di raccolta, produzione, riproduzione e diffusione, maggiorati, nel caso di riutilizzo per fini commerciali, di un utile.

 

La progressiva sostituzione dell’attuale archiviazione su carta con modalità di conservazione informatizzate (dematerializzazione dei documenti delle pubbliche amministrazioni) è un altro degli obiettivi del programma di digitalizzazione della pubblica amministrazione. Tra gli strumenti fondamentali per la limitazione della produzione cartacea sono stati individuati la protocollazione e gestione documentale informatica e la posta elettronica.

 

Nel marzo 2006 è stato presentato il primo Libro bianco sulla dematerializzazione della documentazione amministrativa, promosso da uno specifico Gruppo di lavoro interministeriale. Nel frattempo, per approfondire alcuni problemi specifici, sono stati attivati dieci Tavoli tecnici, i risultati dei quali saranno pubblicati in un successivo Libro bianco, atteso per il prossimo autunno.

La dematerializzazione punta a due obiettivi: da un lato, l’eliminazione dei documenti cartacei attualmente esistentinegli archivi e la loro sostituzione con documenti digitali, dall’altro, l’adozione di criteri per evitare o per ridurre significativamente la creazione di nuovidocumenti cartacei. Ciò consentirebbe notevoli risparmi diretti, per quanto riguarda la carta e gli spazi recuperati, e, indiretti, in termini di tempo, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa pubblica.

Nel documento sono illustrate alcune esperienze significative nel campo della dematerializzazione realizzate o in corso di realizzazione da parte di amministrazioni pubbliche.

 

La qualificazione del personale della pubblica amministrazione, con l’obiettivo di sviluppare le competenze informatiche e tecnologiche dei dipendenti dello Stato, ha assunto un rilievo decisivo; il tema della formazione a distanza ha formato oggetto della Direttiva 6 agosto 2004[590], con cui sono state adottate le linee guida delle modalità di erogazione dell’e-Learningnelle pubbliche amministrazioni.

Nel corso della XIV legislatura le disposizioni sull’acquisto centralizzato di beni e servizi da parte delle amministrazioni (e-Procurement) e sui compiti della Consip s.p.a., introdotte nella legislatura precedente per realizzare una gestione razionale ed efficiente degli acquisti pubblici, sono state oggetto di numerosi interventi legislativi novellativi (per i quali si rinvia alla scheda La Consip, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio).

La legge finanziaria per il 2005, all’art. 1, commi da 192 a 198, ha previsto varie misure volte alla razionalizzazione dei processi operativi nella pubblica amministrazione centrale, volti ad esempio ad eliminare duplicazioni di carattere informatico nelle P.A. e ad informatizzare gli uffici cassa delle amministrazioni statali, realizzando conseguentemente un contenimento della spesa.

Nell’ambito dei progetti di semplificazione dei procedimenti, l’art. 4, comma 12, della legge finanziaria per il 2004[591] ha previsto uno specifico stanziamento per il proseguimento di studi e applicazioni per la realizzazione del conteggio informatizzato del voto nelle consultazioni elettorali.

 

A proposito delle sperimentazioni effettuate, piuttosto che di voto elettronico, è più corretto parlare di conteggio informatizzato del voto, cioè di una procedura che incide sulle operazioni di conteggio e trasmissione dei dati elettorali, con lo scopo di semplificare e accelerare le operazioni di scrutinio, facilitare i conteggi, rendere più veloce e sicura e tecnologicamente sicura la trasmissione dei risultati elettorali.

Ai sensi dell’art. 8 della legge 90/2004[592] sono state sperimentate, in occasione delle elezioni europee del 12-13 giugno 2004, procedure per il conteggio informatizzato del voto. L’esperimento si è svolto in 2.500 uffici elettorali di sezione, individuati con decreto del ministro dell’interno, di concerto con il ministro per l’innovazione e le tecnologie.

L’art. 2 del decreto-legge 8/2005[593] ha disposto, in occasione delle elezioni regionali del 2005, un’ulteriore sperimentazione, con strumenti informatici, della rilevazione dei risultati del voto e dell’inoltro per via telematica degli stessi. L’esperimento ha coinvolto tutte le sezioni elettorali di una soltanto delle 14 Regioni a statuto ordinario che hanno rinnovato i propri organi elettivi (la Liguria, per un totale complessivo di 1796 sezioni e 235 comuni interessati).

Come naturale sviluppo delle due iniziative realizzate, il decreto-legge 1/2006[594] (art. 2) ha previsto, per le elezioni politiche del 2006, la rilevazione informatizzata dei risultati elettorali nel 25% degli uffici elettorali di sezione (circa 15.000, presenti sul territorio delle Regioni Liguria, Lazio, Sardegna e Puglia); la rilevazione è stata effettuata da un operatore informatico presente in ciascuna sezione elettorale; mantenendo il conteggio tradizionale del voto e affiancandosi ad esso. È stata inoltre sperimentata la trasmissione informatizzata dei risultati dello scrutinio direttamente dagli uffici di sezione agli uffici preposti alla proclamazione ed alla convalida degli eletti. Tale trasmissione informatizzata non ha inciso sul procedimento ufficiale di proclamazione dei risultati e di convalida degli eletti, ma ha consentito di testare un sistema che in prospettiva potrà semplificare le fasi conclusive del procedimento elettorale che vedono coinvolti gli uffici elettorali superiori e quelli parlamentari.

Il ruolo delle autonomie regionali e locali: l’e-Government locale

A seguito della riforma del titolo V della Costituzione, è andato assumendo sempre maggiore rilievo il livello di governo rappresentato dalle Regioni e dagli enti locali e il conseguente spostamento di competenze e risorse pubbliche verso gli enti più vicini ai cittadini, imprese e territorio. In questo ambito particolare importanza riveste il ruolo delle Regioni nel governo dei processi di e-Government sul territorio (i piani regionali di e-Government) e nella predisposizione di servizi infrastrutturali per i diversi enti locali, per i cittadini e per le imprese (i servizi delle reti unitarie regionali), e si conferma il ruolo dei comuni come soggetti direttamente coinvolti nella predisposizione e nella erogazione della maggior parte dei servizi rivolti ai cittadini e alle imprese.

In particolare i comuni sono soggetti attivi nella realizzazione di servizi on-line e nella sperimentazione della carta di identità elettronica e delle carte di servizio, mentre alcune Regioni hanno organizzato importanti infrastrutture di rete a servizio delle Amministrazioni locali del territorio.

Come ricordato, nel quadro delle iniziative di cooperazione con le Regioni e le autonomie locali è stata recentemente istituita, nell’ambito della Conferenza Unificata Stato-Regioni, la Commissione permanente per l’innovazione tecnologica nelle Regioni e negli Enti locali (v. supra).

Il programma di e-Government locale si è sviluppato in due fasi[595]. Nella prima fase (ottobre 2001 – aprile 2003), ci si è posti l’obiettivo primario di avviare progetti in modo selettivo e di favorire la cooperazione con le amministrazioni, attraverso:

§         lo sviluppo di infrastrutture in Regioni e Province e di servizi per cittadini e imprese con aumento dell’efficienza nei Comuni;

§         la definizione di un quadro di riferimento tecnico, organizzativo e metodologico;

§         la creazione di Centri regionali di competenza per assicurare il raccordo tra Stato, Regioni ed enti locali.

Sono stati attivati e co-finanziati numerosi progetti aventi ad oggetto i servizi di maggiore rilevanza per il cittadino e le imprese e le infrastrutture.

La seconda fase dell’e-Government locale è stata definita nel documento del ministro per l’innovazione e le tecnologie L’e-Government nelle Regioni e negli Enti Locali: II fase di attuazione, approvato dalla Conferenza Unificata il 27 novembre 2003.

Una delle linee di azione del programma è la capitalizzazione del lavoro svolto nella fase precedente e la promozione di progetti e di soluzioni innovative che siano “riusabili”, attraverso il metodo del riuso (sul quale, v. infra). Funzionale al raggiungimento di questo obiettivo è stata la creazione di un catalogo, disponibile in rete nel sito del CNIPA, dei progetti disponibili per il riuso.

 

Nell’aprile 2003, le autonomie locali hanno sottoscritto il documento L’e-Government per un federalismo efficiente: una visione condivisa, una realizzazione cooperativa, elaborato dal Comitato tecnico della Commissione permanente per l’innovazione e le tecnologie costituita tra i Presidenti delle Regioni e il ministro per l’innovazione e le tecnologie; esso intende formulare una visione comune dello sviluppo dell’e-Government che rappresenti il riferimento complessivo delle future azioni di collaborazione tra comuni, province, Regioni e amministrazioni centrali.

Nel documento si incoraggia il ricorso al metodo del riuso delle soluzioni di e-Government, a proposito del quale si rileva: “è possibile affermare che i sistemi federati di settore, e, più in generale le soluzioni di e-government, hanno un alto grado di replicabilità nei diversi territori regionali, cioè che è possibile trasferire le soluzioni realizzate per un’amministrazione, in un’altra amministrazione dello stesso tipo (ad esempio il sistema informativo di un centro per l’impiego, il sistema informativo per il monitoraggio della spesa sanitaria di una Regione, il sistema informativo per l’erogazione di una tipologia di servizi comunali o provinciali ).

Il trasferimento non riguarda prevalentemente il livello delle soluzioni applicative e degli strumenti tecnologici, ma soprattutto quello delle architetture di sistema, dei modelli di definizione e di utilizzo delle informazioni, delle competenze e delle esperienze necessarie alla realizzazione.

Il trasferimento delle soluzioni ha effetti significativi sia sulla possibilità di massimizzare il rapporto costi benefici, generando significative economie di realizzazione, sia sulla promozione della standardizzazione delle soluzioni che rende meno onerosi i costi della interoperabilità dei sistemi delle diverse amministrazioni”.

 

La seconda fase di attuazione prevede inoltre tra i suoi obiettivi:

§      la sperimentazione di modelli di utilizzo delle ICT per favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle scelte pubbliche (e-democracy);

 

L’e-democracy intende favorire un rapporto di collaborazione e di costante coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni pubbliche, che ponga un maggiore accento sul loro ruolo propositivo.

Gli elementi essenziali per la progettazione, realizzazione e gestione di un progetto di e-democracy sia dal punto di vista metodologico-organizzativo che dal punto vista tecnologico sono state definiti nel documento Linee Guida per la promozione della cittadinanza digitale: e-democracy, realizzato nel febbraio 2004 dal Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie in collaborazione con quello della funzione pubblica e con il FORMEZ.

 

§      il sostegno alla realizzazione, nei territori regionali, di servizi infrastrutturali locali di connessione, nell’ambito del Sistema Pubblico di Connettività, adeguati a consentire una fruizione dei servizi erogati efficace e sicura;

 

I progetti sono finalizzati a realizzare, a livello regionale e provinciale, servizi di connettività delle reti, gestione delle carte di servizi, servizi per la gestione documentale, servizi per la riservatezza dei dati, servizi per la certificazione dei fornitori, servizi per l’interoperabilità e la cooperazione applicativa.

 

§      la realizzazione sul territorio di strutture di servizio sovra-comunali in grado di gestire, per conto dei piccoli Comuni (con meno di 5000 abitanti), progetti anche complessi di e-Government.

 

Nei piccoli Comuni si riscontra un livello elevato di digital divide dovuto essenzialmente alla scarsità di risorse finanziarie, alla mancanza delle competenze necessarie a compiere opportune scelte di mercato e di infrastrutture tecnologiche adeguate. Per superare queste difficoltà, nella seconda fase dell’e-Government locale si promuove la formazione di organismi (i Centri di Servizio Territoriali - CST) che permettano l’erogazione dei servizi in forma associativa attraverso la condivisione di risorse.

 

§      la promozione e il finanziamento di progetti da parte di Regioni ed Enti Locali, tendenti a introdurre soluzioni innovative per l’erogazione dei servizi della pubblica amministrazione locale (in particolar modo lo Sportello Unico per le Attività Produttive).

 

Alcune Regioni, dal canto loro, hanno provveduto a definire, nel rispetto della competenza legislativa esclusiva dello Stato (ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. r), Cost.) in materia di “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”, un quadro normativo di riferimento per lo sviluppo della Società dell’informazione in ambito regionale.

 

Nel gennaio 2004, la Regione Toscana ha adottato una legge quadro in materia di Promozione dell’amministrazione elettronica e sviluppo della società dell’informazione e della conoscenza nel sistema regionale. Disciplina della Rete Telematica Regionale Toscana (legge 26 gennaio 2004, n. 1), primo esempio di legislazione regionale in questo settore dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.

Anche la Regione Emilia-Romagna è intervenuta sulla materia con la legge 24 maggio 2004, n. 11, concernente lo Sviluppo regionale della società dell’informazione.

Gli interventi nel “sistema Paese”

Gli obiettivi

Una sezione specifica del documento contenente le Linee guida sulla Società dell’informazione è dedicata alle iniziative finalizzate alla diffusione dell’innovazione e alla promozione della “Società dell’informazione” nei vari settori della vita economica e sociale del Paese (interventi nel sistema Paese).

 

Le iniziative, da realizzarsi in cooperazione con le singole Amministrazioni che ne hanno la responsabilità primaria e nei cui bilanci appariranno i relativi fabbisogni finanziari, con il ruolo di indirizzamento complessivo del Comitato dei ministri per la Società dell’informazione, sono riconducibili a cinque grandi categorie:

§       il capitale umano: alfabetizzazione digitale; il Sociale e le categorie deboli; l’e-Learning;

§       le infrastrutture: la larga banda; la firma digitale;

§       le politiche industriali: la ricerca applicata e politica industriale per l’ICT; il commercio elettronico; la piccola e media impresa e i distretti industriali; il telelavoro; la telemedicina; il turismo; il Sud e il quadro comunitario di sostegno;

§       le politiche finanziarie: strumenti finanziari per la promozione dell’innovazione ICT; la leva fiscale per l’innovazione ICT;

§       il quadro normativo: il codice della Società dell’informazione.

Gli interventi

Per quanto riguarda il capitale umano, il Governo si è impegnato, attraverso la destinazione di risorse pubbliche, nella promozione di una maggiore conoscenza informatica e di un più diffuso utilizzo delle tecnologie digitali.

In questa direzione si muovono gli interventi, disposti da alcune leggi finanziarie, destinati al finanziamento degli incentivi per l’acquisto di strumenti informatici e digitali da parte di:

§      giovani (progetto PC ai giovani, varato dall’art. 27 della legge finanziaria per il 2003 e rifinanziato dall’art. 4, comma 9, della legge finanziaria per il 2004);

§      famiglie (PC alle famiglie, avviato dall’art. 4, comma 10, della legge finanziaria per il 2004);

§      docenti (PC ai docenti, art. 4, comma 11, della legge finanziaria per il 2004, esteso al personale dirigente e non docente delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado e delle università statali e non statali dall’art. 1, comma 207, della legge finanziaria per il 2005);

§      dipendenti della pubblica amministrazione (PC ai dipendenti, art. 1, comma 208, della legge finanziaria per il 2005);

§      dipendenti di impresa privata[596] (art 7, comma 3- ter, del decreto legge 35/2005).

La legge finanziaria 2003 (art. 26, co. 5) ha inteso promuovere la formazione universitaria a distanza, demandando ad un decreto ministeriale la determinazione di criteri e procedure di accreditamento dei corsi universitari a distanza e delle istituzioni universitarie abilitate a rilasciare titoli accademici al termine dei corsi stessi. In attuazione della disposizione è intervenuto il D.M. adottato dal ministro dell’istruzione, di concerto con il ministro per l’innovazione e le tecnologie, 17 aprile 2003, che ha specificato i requisiti e la procedura per l’accreditamento di corsi di studio a distanza nonché delle “Università telematiche” (v. capitolo Riforma dell’università, nel dossier relativo alla Commissione Cultura).

Sul fronte degli interventi per le infrastrutture, la legge finanziaria 2003 (art. 89) ha previsto incentivi per favorire la diffusione della larga banda e della televisione digitale mediante l’acquisto e il noleggio dei relativi apparati. Il D.L. 35/2005 (art. 7, comma 1) ha disposto che gli interventi per la realizzazione delle infrastrutture per la larga banda previsti dal programma approvato con la delibera CIPE del 13 novembre 2003 possano essere realizzati in tutte le aree sottoutilizzate (v. capitolo Le comunicazioni elettroniche, nel dossier relativo alla Commissione Trasporti).

 

Lo sviluppo della larga banda in Italia è considerato un obiettivo prioritario di politica economica e una condizione essenziale per lo sviluppo economico del Paese. Con decreto del ministro delle comunicazioni e del ministro per l’innovazione e le tecnologie è stato istituito il Comitato esecutivo interministeriale per la diffusione e lo sviluppo della larga banda, il quale, il 14 novembre 2005, ha definito le Linee guida del piano nazionale per la diffusione e lo sviluppo della larga banda.

 

Con riferimento alle politiche industriali, ampio spazio hanno trovato le iniziative per incentivare la diffusione delle nuove tecnologie nelle piccole e medie imprese. Con l’intento di sostenere, attraverso un quadro organico di interventi, l’innovazione tecnologica delle imprese in modo da recuperare il divario di competitività dell’Italia rispetto ai Paesi dell’Unione europea e agli Stati Uniti, i ministri per l’innovazione e le tecnologie e delle attività produttive hanno presentato, il 15 luglio 2003, un programma coordinato di interventi economici, normativi e strutturali conosciuto come Piano per l’innovazione digitale nelle imprese. Il Piano definisce un insieme di interventi diretti a stimolare e coordinare gli investimenti pubblici e privati nell’innovazione tecnologica nei settori tradizionali e ad alta tecnologia.

Il Comitato dei ministri per la Società dell’informazione ha approvato, l’8 febbraio 2005, il Piano per l’innovazione digitale nelle imprese 2005. Nell’ambito degli interventi indicati dal nuovo Piano, particolare importanza rivestono alcune misure della legge finanziaria per il 2005, che ha disposto (art. 1, comma 354) l’istituzione di un “Fondo rotativo per il sostegno alle imprese” per la concessione di finanziamenti agevolati, ridenominato “Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca” dall’art. 6 del D.L. 35/2005, che ne ha anche modificato la disciplina (v. scheda Attività produttive – Fondo rotativo di sostegno, nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

La L. 273/2002[597] ha disposto agevolazioni per sostenere programmi di sviluppo e di innovazione nelle PMI dei settori tessile, dell’abbigliamento e calzaturiero (v. capitolo Sostegno alle attività produttive, nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

Per i provvedimenti adottati nella legislatura con l’obiettivo del rafforzamento degli sportelli unici per le attività produttive attraverso la rimozione degli ostacoli alla loro piena operatività e l’estensione e lo sviluppo degli stessi, si rinvia alla scheda Sportello unico per le imprese, nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

 

Nel Codice sono presenti disposizioni di carattere generale (artt. 10 e 11) riguardanti rispettivamente gli sportelli unici per le attività produttive e il Registro informatico degli adempimenti delle imprese.

Il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, in collaborazione con il Dipartimento per le politiche fiscali, l’Agenzia delle entrate, l’Inail, l’Inps e l’Unioncamere, nel marzo 2005 ha reso operativo, dopo una fase sperimentale, il Portale per i servizi integrati alle imprese (Impresa.gov.it). Esso svolge le funzioni di sportello telematico per le imprese, consentendo di accedere, attraverso la Carta Nazionale dei Servizi, ai servizi e alle informazioni delle pubbliche amministrazioni, degli enti territoriali, delle ASL e delle Camere di commercio, e di compilare la modulistica per svolgere le diverse incombenze amministrative delle aziende, gestendo on line le procedure amministrative.

 

La legge finanziaria per il 2006[598] (art. 1, comma 368) ha istituito lAgenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione, chiamata a concorrere all’accrescimento della competitività delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali attraverso la diffusione delle nuove tecnologie e delle relative applicazioni industriali. L’Agenzia è sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio che definisce i criteri e le modalità per lo svolgimento delle sue attività istituzionali, sentiti vari ministri, tra i quali quello per l’innovazione e le tecnologie (v. capitolo Sostegno alla ricerca e all’innovazione nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive; con riferimento ai distretti digitali si rinvia, più specificamente, alla scheda Distretti produttivi e tecnologici, nel medesimo dossier).

 

Nel quadro delle politiche per il rilancio della competitività del Paese, l’art. 12 del D.L. 35/2005 ha disposto, tra l’altro, l’avvio del progetto “Scegli Italia.it”, destinato alla promozione sulla rete Internet del “marchio Italia” nel settore del turismo. Il progetto è stato approvato dal Comitato dei ministri della Società dell’informazione il 16 marzo 2004, con l’obiettivo di incrementare i flussi turistici nazionali ed internazionali mediante l’uso di tecnologie digitali. In tale contesto, è stata prevista e finanziata la realizzazione di un portale del turismo, denominato “Italia.it”, che consenta la promozione dell’Italia, l’aggregazione delle strutture ricettive con funzioni di prenotazioni on-line, di gestione di contenuti informativi e di erogazione di servizi. L’incarico di provvedere alla realizzazione e gestione di «Italia.it» è stato conferito ad Innovazione Italia S.p.a.[599], società strumentale del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, in raccordo con le iniziative delle Regioni (v. capitolo Politiche per il turismo nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

 

Sul versante del recepimento della normativa comunitaria, si segnala l’adozione del D.Lgs. 70/2003[600], con il quale è stata attuata la direttiva 2000/31/CE, che interviene in materia di prestazione di servizi delle società dell’informazione, con particolare riferimento al commercio elettronico, allo scopo di creare una base comune di regole volte ad assicurare la libera prestazione dei servizi on-line[601]. Obiettivo principale del decreto legislativo è l’eliminazione degli ostacoli che limitano lo sviluppo del commercio elettronico nonché la promozione della libera circolazione dei servizi legati alla Società dell’informazione (v. scheda Commercio elettronico nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

Per quanto riguarda gli interventi di sostegno all’innovazione nel settore commerciale, l’art. 52, comma 4, della legge finanziaria per il 2002[602] ha istituito presso il Ministero delle attività produttive un Fondo per l’informatizzazione della rete distributiva delle piccole e medie imprese commerciali allo scopo di favorire l’adeguamento alle nuove tecnologie della rete distributiva, anche mediante l’acquisto di nuovi apparecchi che, grazie ai collegamenti con le più importanti reti telematiche, consentano l’accesso e la distribuzione di servizi diffusi (v. capitolo Forme speciali di vendita, nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

L’azione internazionale: l’e-Government per lo sviluppo

Gli obiettivi

Il progetto “e-Government per lo sviluppo” è nato nell’ambito del G8 di Genova (svoltosi nel luglio 2001) con l’obiettivo di assistere i Paesi in via di sviluppo o con economie in transizione nel modernizzare le proprie pubbliche amministrazioni realizzando progetti concreti con l’ausilio delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per favorire una più veloce crescita economica e democratica. L’Italia ha assunto un ruolo propositivo in materia.

Nel 2002 si è svolta la Conferenza di Palermo, che ha costituito la piattaforma internazionale per la presentazione del piano italiano “e-Goverment per lo sviluppo” e per l’acquisizione dei contributi dei soggetti interessati al progetto. Il D.L. 17/2002[603] ha disposto il finanziamento di tutte le attività preparatorie della Conferenza, compresi gli interventi per garantire la sicurezza delle delegazioni partecipanti.

Nel corso del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea si è tenuta nel 2003 a Cernobbio la Conferenza Europea sull’e-Government.

Rispettivamente a Ginevra nel 2003 e a Tunisi nel 2005, si sono svolti il primo e il secondo vertice dell’ONU sulla Società dell’informazione, cui l’Italia ha partecipato attivamente.

Gli interventi

Per conseguire le finalità dell’iniziativa del Governo italiano “e-Government per lo sviluppo”, nel gennaio 2003 è stata istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri l’Unità tecnica e-Government per lo sviluppo, come Struttura di Missione presso il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, posta alle dirette dipendenze del ministro.

 

In collaborazione con l’ONU e con la Banca mondiale, l’Italia ha avviato la realizzazione di circa 20 progetti in 16 Paesi: essi riguardano la fornitura di applicazioni e servizi di posta elettronica, gestione documentale, e altre applicazioni informatiche per la Rete di Governo delle amministrazioni centrali; l’assistenza tecnica nella stesura di una nuova legge di contabilità pubblica conforme agli standard internazionali e complessivamente più omogenea di quella in uso e l’informatizzazione di parte dei processi relativi allo sviluppo del piano dei conti; l’assistenza per lo sviluppo e l’implementazione di un sistema di e-Procurement, la catalogazione e l’aggiornamento della normativa e delle pronunce giurisprudenziali; la e-Taxation,etc.

Documenti

In conclusione, si ritiene utile elencare una serie di documenti, prodotti da organismi sia pubblici, sia privati, dai quali è possibile trarre ulteriori elementi di conoscenza in merito alle tematiche illustrate.

 

A febbraio 2006, il ministro dell’innovazione e delle tecnologie ha presentato un documento, La riforma digitale per innovare l’Italia. Consuntivo di legislatura 2001-2006. Linee guida legislatura 2006-2011, in cui si traccia un sintetico bilancio delle politiche di e-Government promosse nel corso della legislatura e dei risultati raggiunti.

Il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA) predispone ogni anno una relazione su Lo stato dell’informatizzazione nella pubblica amministrazione. L’ultima relazione, concernente il 2004, è stata trasmessa alle Camere dal ministro per l’innovazione e le tecnologie il 14 luglio 2005 (doc. C, n. 6).

La Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, ha inviato alle Camere nel febbraio 2002 un articolato Referto in materia di informatica pubblica, in cui si ricostruisce a grandi linee l’attività delle amministrazioni in materia informatica approfondendo gli aspetti contabili e finanziari, procedimentali, gli assetti organizzativi e gestionali e la formazione del personale. Al Referto del 2002 ne è seguito un altro nell’aprile 2004.

La Corte dei conti ha inoltre presentato al Parlamento le seguenti relazioni su aspetti specifici:

§         Relazione sullo stato di attuazione della Rete unitaria della pubblica amministrazione (RUPA) e dei progetti collegati (giugno 2003);

§         Relazione sui risultati dell’indagine conoscitiva concernente l’automazione delle contabilità, delle funzioni e dei servizi negli enti locali(giugno 2003);

§         Il progetto degli acquisti centralizzati e la conseguente gestione dei contratti e della spesa nelle amministrazioni dello stato negli esercizi 2000-2003 (luglio 2003).

La Aitech-Assinform (associazione aderente a Confindustria che riunisce le principali imprese informatiche operanti in Italia) pubblica ogni anno un Rapporto sull’informatica, le telecomunicazioni e i contenuti multimediali, nel quale sono contenute analisi dettagliate del mercato ICT (Information & Communication Technology) in Italia, informazioni e linee di tendenza in merito agli andamenti del settore e agli impatti sul sistema Paese, con riferimento anche alle politiche di e-Government della pubblica amministrazione. L’associazione ha presentato a maggio 2006 i risultati dell’indagine La domanda pubblica d’Information Technology: criticità e risorsa per il Paese, nella quale sono svolte considerazioni sulle principali aziende fornitrici di servizi informatici a capitale pubblico, di cui 30 espressione di enti locali e, più in generale, sulle politiche di investimento della pubblica amministrazione nell’innovazione tecnologica.

Durante il semestre inglese di presidenza dell’Unione europea, il Governo britannico ha commissionato ad un istituto internazionale di alta formazione economica (l’INSEAD) la ricerca Report Beyond E-government[604], pubblicata nel novembre 2005. Essa ha preso in esame i Paesi del G7, tra i quali è compresa l’Italia, oltre alla Svezia e all’Australia, analizzando le iniziative di e-Government intraprese dai singoli Governi, il loro impatto, in termini di trasformazione, sui servizi pubblici resi ai cittadini e alle imprese e i risultati raggiunti.


Amministrazione digitale – Il Codice

Il Codice dell’amministrazione digitale raccoglie e riordina in un unico contesto normativo le disposizioni in materia di attività digitale delle pubbliche amministrazioni, affrontando in modo organico il tema dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’attività amministrativa, nei suoi aspetti organizzativi e procedimentali e con riguardo ai rapporti con i cittadini e le imprese. Il testo reca inoltre la disciplina dei princìpi giuridici fondamentali relativi al documento informatico ed alla firma digitale, che era in precedenza contenuta nel testo unico “misto” sulla documentazione amministrativa (D.P.R. 445/2000[605]).

Il Codice è stato adottato con il D.Lgs. 82/2005[606] , in attuazione della delega contenuta nell’art. 10 della legge 229/2003[607] (legge di semplificazione 2001) relativa al riassetto delle disposizioni vigenti in materia di Società dell’informazione.

 

Prima dell’adozione del Codice, alla delega in questione era già stata data attuazione, soltanto in modo parziale e con particolare riferimento ad uno dei princìpi e criteri direttivi della delega, dal D.Lgs. 42/2005[608] recante istituzione del sistema pubblico di connettività (SPC) e della rete internazionale della pubblica amministrazione. Le disposizioni del D.Lgs. 42/2005 sono successivamente confluite nel Codice per effetto del D.Lgs. 159/2006 (vedi infra).

 

Il Codice dell’amministrazione digitale costituisce un ulteriore intervento, unitamente ad es. al Codice del consumo[609] e al Codice delle assicurazioni private, del nuovo programma di semplificazione e di riordino normativo avviato dalla L. 229/2003 (sulla quale v. scheda Semplificazione – Il processo di codificazione) e finalizzato al consolidamento e al riassetto delle norme di rango legislativo concernenti determinate materie, con l’obiettivo di realizzare, in specifici settori, un “complesso di norme stabili e armonizzate, espressione di un assestamento della materia che possa offrire agli operatori e agli utenti certezza di regole e una chiara strumentazione normativa”.

Mediante un’integrale riscrittura dell’art. 20 della L. 59/1997[610], la L. 229/2003 ha modificato l’impianto complessivo della legge annuale di semplificazione, incentrandone il campo di intervento non più sulla semplificazione dei procedimenti amministrativi attraverso la delegificazione delle norme di riferimento, come previsto in precedenza, bensì sulla semplificazione normativa da attuarsi mediante il riassetto normativo e la codificazione e individuando nei decreti legislativi e nei regolamenti governativi gli strumenti giuridici attraverso i quali realizzare tali obiettivi.

 

Con il riassetto sistematico delle disposizioni in materia di attività digitale delle pubbliche amministrazioni si è inteso predisporre un quadro normativo adeguato a promuovere e disciplinare la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non solo nelle pubbliche amministrazioni, ma anche tra cittadini e imprese.

Ulteriori considerazioni hanno indotto il Governo a procedere all’intervento di riordino normativo:

§         negli ultimi anni è cresciuto notevolmente l’impiego della tecnologia nelle amministrazioni pubbliche, sia nei rapporti con gli utenti, sia in quello con le altre amministrazioni;

§         l’adeguamento delle regole richiesto dalla rapida evoluzione della tecnologia ha determinato un quadro normativo disomogeneo, in cui sono presenti alcuni settori nei quali è stata dettata una disciplina molto puntuale, e altri del tutto privi di norme regolatrici.

Il Codice costituisce un elemento fondamentale del processo di modernizzazione della pubblica amministrazione, alla quale esso intende fornire gli strumenti normativi mediante i quali riconsiderare la propria organizzazione sulla base delle nuove tecnologie digitali per assicurare ai cittadini e alle imprese l’accesso in linea ai propri servizi, con l’obiettivo di realizzare una progressiva riduzione dei costi e, contemporaneamente, un incremento della efficienza e della trasparenza.

 

Per meglio comprendere le ragioni ispiratrici che sottostanno all’adozione del Codice, può essere utile richiamare i principi e criteri direttivi specifici della delega di cui all’art. 10, comma 1, della legge 229/2003, di seguito elencati:

§       graduare la rilevanza giuridica e l’efficacia probatoria dei diversi tipi di firma elettronica in relazione al tipo di utilizzo e al grado di sicurezza della firma;

§       rivedere la disciplina vigente al fine precipuo di garantire la più ampia disponibilità di servizi resi per via telematica dalle pubbliche amministrazioni e dagli altri soggetti pubblici e di assicurare ai cittadini e alle imprese l’accesso a tali servizi secondo il criterio della massima semplificazione degli strumenti e delle procedure necessari e nel rispetto dei princìpi di eguaglianza, non discriminazione e della normativa sulla riservatezza dei dati personali;

§       prevedere la possibilità di attribuire al dato e al documento informatico contenuto nei sistemi informativi pubblici i caratteri della primarietà e originalità, in sostituzione o in aggiunta a dati e documenti non informatici, nonché obbligare le amministrazioni che li detengono ad adottare misure organizzative e tecniche volte ad assicurare l’esattezza, la sicurezza e la qualità del relativo contenuto informativo;

§       realizzare il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare o semplificare il linguaggio normativo; in base al principio in questione, il Governo dovrà operare il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti;

§       adeguare la normativa alle disposizioni comunitarie.

 

Il codice è composto da 76 articoli, articolati in otto capi, suddivisi a loro volta in sezioni.

I rilievi del Consiglio di Stato

Riguardo all’intervento di riassetto normativo attuato dal Codice, il Consiglio di Stato, in sede di espressione del parere (peraltro, nel suo complesso, favorevole) sullo schema di decreto legislativo, ha formulato numerose e puntuali osservazioni.

 

Queste concernono aspetti sia formali, sia sostanziali:

§         il provvedimento, limitandosi a riordinare sostanzialmente soltanto alcuni aspetti del processo di innovazione digitale nelle pubbliche amministrazioni, sarebbe privo di esaustività e di sistematicità e non si avvarrebbe pienamente delle potenzialità contenute nella norma di delega;

§         nel Codice non è stata ricompresa la disciplina del sistema pubblico di connettività (SPC), oggetto dello specifico decreto legislativo 42/2005, che riveste una importanza fondamentale per la digitalizzazione delle amministrazioni in quanto costituisce il backbone per la piena interazione tra i sistemi informativi dello Stato, delle Regioni e delle autonomie locali;

§         il Codice non prevede, accanto ad una serie di previsioni programmatiche e di principio (contenute in particolare nel Capo I; si veda, a titolo esemplicativo, il diritto all’uso delle tecnologie), norme direttamente precettive che diano concreta ed effettiva attuazione ad esse, prevedendo effetti giuridicamente rilevanti per le pubbliche amministrazioni e consentendo, in caso di inerzia o di disapplicazione della disciplina recata dal Codice, l’attivazione da parte dei privati (cittadini e imprese) degli strumenti di tutela amministrativa e giurisdizionale;

§         svariate disposizioni del Codice, riproducendo norme di rango regolamentare contenute nel citato testo unico sulla documentazione amministrativa (D.P.R. 445/2000), ne hanno determinato la “rilegificazione. Il Consiglio di Stato ha giudicato inopportuna tale rilegificazione in quanto ha per oggetto norme di carattere sostanzialmente tecnico (ad esempio la firma digitale), soggette, per loro natura, a rapida evoluzione, e ha segnalato piuttosto l’opportunità di accompagnare la nuova disciplina codicistica con una raccolta organica delle norme regolamentari in materia: scelta che trova il suo fondamento autorizzatorio nella stessa legge 229/2003;

§         Il Consiglio di Stato ha posto in via generale il problema del rapporto tra il Codice e il citato testo unico “misto” (D.P.R. 445/2000) in cui sono state riordinate le norme sulla documentazione amministrativa cartacea e quelle relative alla documentazione informatica, materia quest’ultima che è stata trasfusa nel Codice con l’effetto di frammentare nuovamente la disciplina di un settore oggetto di un recente intervento di consolidamento normativo. Analoghe considerazioni sono state formulate a proposito della disciplina del procedimento amministrativo digitalizzato, con riguardo alla disciplina recata dalla L. 241/1990 e successive modificazioni;

§         con riferimento all’impatto sui cittadini, il Consiglio di Stato ha segnalato l’esigenza di prevedere interventi di sostegno in favore di alcune categorie (ad esempio, anziani, soggetti con bassa scolarizzazione, abitanti di aree rurali, ecc., che hanno scarsa familiarità con le tecnologie informatiche, che sono quindi soggette al c.d. digital divide) i quali potrebbero subire discriminazioni in conseguenza del passaggio ad una amministrazione prevalentemente digitalizzata;

§         il processo di modernizzazione perseguito dal Codice richiede un notevole impegno da parte di tutte le amministrazioni coinvolte; ad esso dovrebbero pertanto essere abbinate misure concrete, con una adeguata copertura sia finanziaria, sia amministrativa (che preveda cioè programmi di formazione per i dipendenti pubblici).

 

Alcune tra le osservazioni formulate dal Consiglio di Stato nel parere citato sono state accolte dal Governo e recepite nel Codice attraverso il D.Lgs. 159/2006 (v. infra).

Princìpi generali: diritti dei cittadini e delle imprese

Gran parte delle disposizioni recate dal capo I del Codice non trova esplicito riscontro nella disciplina previgente e presenta aspetti fortemente innovativi.

Il Codice afferma preliminarmente il principio generale secondo cui le pubbliche amministrazioni centrali e locali sono tenute ad organizzarsi, rideterminando le proprie strutture e procedimenti secondo le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per assicurare “la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale”.

Posta la generale applicabilità del Codice a tutte le pubbliche amministrazioni, numerose disposizioni di esso (quelle di cui ai capi II e III, concernenti la formazione, la validità probatoria e la gestione dei documenti informatici, dall’indubbia rilevanza civilistica) trovano applicazione anche nei rapporti tra privati, mentre le disposizioni di cui al capo V, sull’accesso ai documenti informatici e la fruibilità delle informazioni digitali, sono valide anche per i gestori di servizi pubblici.

Il Codice richiama il principio di autonomia organizzativa delle amministrazioni regionali e locali nel settore, tenuto conto che la disciplina del “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale” ricade nell’ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato (ai sensi dell’art. 117, co. 2°, lett. r), Cost.); come si riscontra in varie parti del testo, sono pertanto rivolte alle sole pubbliche amministrazioni centrali le disposizioni del Codice che si ritiene possano incidere sulla potestà organizzativa delle autonomie territoriali.

Restano escluse dall’ambito di applicazione del codice le sole funzioni amministrative riconducibili all’ordine e alla sicurezza pubblica, alla difesa e alla sicurezza nazionale, nonché alle consultazioni elettorali; viene fatta salva la disciplina posta a tutela della riservatezza dei dati personali, di cui al codice in materia di protezione dei dati personali, approvato con il D.Lgs. 196/2003[611].

 

Per quanto riguarda le modalità di comunicazione tra pubblica amministrazione e cittadini, il Codice pone in capo ai cittadini e alle imprese il diritto all’uso delle tecnologie, ovvero il diritto di richiedere e di ottenere l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei rapporti con le pubbliche amministrazioni centrali e con i gestori di pubblici servizi statali, entro i limiti posti dal Codice.

 

L’art. 7, co. 3-quater del D.L. 35/2005[612] ha stabilito, prima dell’entrata in vigore del Codice, un principio analogo, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni statali di ricevere nonché inviare, ove richiesto, in via telematica, nel rispetto della normativa vigente, la corrispondenza, i documenti e tutti gli atti relativi ad ogni adempimento amministrativo.

La L. 15/2005[613] (art. 3), inserendo l’art. 3-bis nella L. 241/1990[614], ha sancito in via generale l’uso da parte delle amministrazioni pubbliche della telematica nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni, e tra queste e i privati.

 

Il diritto di comunicare in rete con la pubblica amministrazione e di ottenere l’erogazione di servizi in linea è ribadito con particolare riguardo alla partecipazione al procedimento amministrativo (con riferimento alle comunicazioni relative all’avvio del procedimento e alle varie fasi di esso) e al diritto di accesso ai documenti amministrativi, nel rispetto dei diritti sanciti dalla legge 241/1990.

Le pubbliche amministrazioni devono consentire agli utenti l’utilizzo di strumenti informatici per l’invio di atti e documenti e per l’effettuazione (a partire dal 30 giugno 2007) dei pagamenti ad esse spettanti.

 

Con riferimento all’effettuazione con modalità informatiche dei pagamenti spettanti alla pubblica amministrazione, nelle Linee guida per la pubblica amministrazione digitale,dettate con direttiva del Ministro per l’innovazione e le tecnologie il 18 novembre 2005[615], si rileva che: “nel corso di questi ultimi anni, in conformità alle direttive del Ministro per l’innovazione e le tecnologie ed in attuazione della prima fase del “Piano nazionale di e-government”, le pubbliche amministrazioni hanno reso disponibili molti servizi on line per cittadini ed imprese, taluni dei quali prevedono anche il versamento di una somma di denaro (a titolo di pagamento di tasse, imposte, contributi, diritti di segreteria ecc.). Tuttavia, soltanto alcune amministrazioni hanno reso possibile l’effettuazione di tali pagamenti in modalità telematica.

È, quindi, necessario che le pubbliche amministrazioni consentano all’utente, nell’àmbito della medesima procedura telematica, l’effettuazione del pagamento, a qualunque titolo ad esse dovuto. È, peraltro, auspicabile che sia prevista l’utilizzazione di una pluralità di canali di pagamento elettronico per fornire agli utenti la libera scelta tra diverse opzioni (Internet, sportelli bancomatetc.)

Al fine di semplificare le operazioni di contabilizzazione e controllo dei pagamenti effettuati è opportuno che essi siano univocamente identificabili attraverso un codice, generato automaticamente, che individui l’ente cui il pagamento è diretto, la tipologia di pagamento (tributi, contributi, diritti, ecc.) e la data del pagamento.

Ai fini della corretta autenticazione dell’utente potranno essere utilizzate la Carta nazionale dei servizi o la Carta di identità elettronica, strumenti che garantiscono anche il necessario livello di sicurezza.

Al fine di incentivare i pagamenti in modalità telematica ed in considerazione dei risparmi gestionali che ne possono derivare, le amministrazioni dovranno ricercare soluzioni che consentano di contenerne il costo a carico dell’utente entro limiti massimi non superiori a quelli di altri mezzi di pagamento”.

 

Lo strumento ordinario per le comunicazioni informatiche tra cittadini e amministrazioni è individuato nella posta elettronica certificata (le cui caratteristiche consentono di attestare la data e l’ora di spedizione e di ricezione nonché, grazie alla firma elettronica, la provenienza e l’integrità del contenuto), prevista e disciplinata da uno specifico regolamento (D.P.R. 68/2005[616]).

Il presupposto di una pubblica amministrazione efficiente, che si pone effettivamente, attraverso i nuovi strumenti informatici, al servizio degli utenti è alla base delle nozioni di qualità dei servizi resi e di soddisfazione dell’utenza introdotte dal Codice. Secondo queste ultime, le pubbliche amministrazioni, nella riorganizzazione mediante le tecnologie dell’informazione e della comunicazione dei servizi da esse resi, devono tenere conto delle reali esigenze dei cittadini e delle imprese e del grado di soddisfazione degli utenti, da valutarsi preventivamente attraverso specifici meccanismi di rilevazione e analisi.

L’uso delle tecnologie informatiche per promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini al processo democratico e per facilitare l’esercizio dei diritti politici e civili è promosso dallo Stato.

 

In questo settore vanno ricordate le sperimentazioni del conteggio informatizzato del voto, cosiddetto “voto elettronico” (v. scheda Amministrazione digitale – La “Società dell’informazione), effettuate in occasione di tre consultazioni elettorali (europee 2004, regionali 2005 e politiche 2006).

 

Per quanto riguarda la semplificazione dei rapporti tra le imprese e la pubblica amministrazione, il Codice prevede in via generale la realizzazione in modalità informatica dello sportello unico per le attività produttive, già disciplinato ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 447/1998[617], quale punto di riferimento per tutti gli adempimenti previsti dai procedimenti di localizzazione e realizzazione di impianti produttivi, e di un sistema informatizzato per le imprese relativo ai procedimenti di competenza delle amministrazioni centrali. Sono inoltre confluite nel Codice le disposizioni della L. 229/2003[618], che sono state al contempo abrogate, concernenti l’istituzione, presso il Ministero delle attività produttive, di un Registro informatico degli adempimenti amministrativi per le imprese, articolato su base regionale, contenente l’elenco degli adempimenti amministrativi previsti dalle pubbliche amministrazioni per l’avvio e l’esercizio delle attività di impresa (v. scheda Sportello unico per le imprese, nel dossier relativo alla Commissione Attività produttive).

Organizzazione delle pubbliche amministrazioni e rapporti fra Stato, Regioni e autonomie locali

Il Codice detta i princìpi e le norme generali concernenti i profili organizzativi dell’uso delle nuove tecnologie da parte delle pubbliche amministrazioni, ponendo le tecnologie dell’informazione e della comunicazione al centro della riorganizzazione amministrativa, quale strumento non più aggiuntivo ma ordinario, coessenziale al perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza e semplificazione.

In tale ottica, particolare attenzione è prestata alle esigenze di uniformità nelle modalità di interazione degli utenti con i servizi offerti, di interoperabilità tra i sistemi e di integrazione tra i processi di servizio tra amministrazioni diverse, di sicurezza nella gestione dei dati, ed alla formazione informatica dei dipendenti pubblici.

I rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali sono disciplinati secondo il principio della leale collaborazione e definiti attraverso intese e accordi, anche con l’istituzione di appositi organismi di cooperazione con gli enti territoriali. La Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali è individuata quale sede per l’adozione degli indirizzi necessari per realizzare un processo di digitalizzazione dell’azione amministrativa coordinato e condiviso. Richiamando la competenza esclusiva dello Stato sul coordinamento informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, il Codice attribuisce allo Stato la fissazione delle regole tecniche necessarie per garantire la sicurezza e l’interoperabilità dei sistemi informatici e dei flussi informativi per la circolazione e lo scambio dei dati e per l’accesso ai servizi erogati in rete dalle amministrazioni.

Un esplicito rinvio alla dimensione europea si rinviene nella affermazione dell’esigenza di garantire, nel processo di digitalizzazione dell’azione amministrativa, la partecipazione dell’Italia alla costruzione di reti transeuropee per lo scambio elettronico di dati e servizi.

L’attività di indirizzo strategico, di pianificazione e di individuazione delle aree di intervento dell’innovazione tecnologica è rimessa al Presidente del Consiglio o al Ministro delegato per l’innovazione e le tecnologie, che utilizza a questo scopo lo strumento della direttiva. Il Ministro detta inoltre le norme tecniche previste dal Codice e svolge l’attività di coordinamento del processo di digitalizzazione, di valutazione dei programmi, dei progetti e dei piani di azione formulati dalle pubbliche amministrazioni e del corretto utilizzo delle risorse finanziarie per l’informatica.

Per una coerente attuazione delle linee strategiche, le pubbliche amministrazioni centrali apprestano apposite strutture (centri di competenza), i cui rappresentanti, unitamente ai componenti del Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), concorrono a costituire un organismo consultivo del ministro denominato Conferenza permanente per l’innovazione tecnologica.

 

Le citate Linee guida per la pubblica amministrazione digitale per il 2006 ricordano in proposito che “le amministrazioni statali, ai sensi dell’art. 17 del codice, per garantire l’attuazione delle disposizioni normative e delle direttive volte alla riorganizzazione e alla digitalizzazione della P.A., devono individuare un ‘centro di competenza’ interno cui afferiscano, tra l’altro, i compiti di coordinamento strategico dello sviluppo dei sistemi informativi, di indirizzo, coordinamento e monitoraggio dello sviluppo dei servizi sia interni che esterni, di analisi e cooperazione alla revisione della organizzazione dell’amministrazione, di garanzia della coerenza tra l’organizzazione e l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché di promozione delle iniziative necessarie ad assicurare la più rapida attuazione della presente direttiva.

Nelle Linee guida si sottolinea che “la norma usa la generica espressione ‘centro di competenza’ affinché ciascuna amministrazione possa identificarlo nella struttura organizzativa (Direzione, Dipartimento, Ufficio, ecc..) ritenuta più idonea nell’àmbito della propria organizzazione, anche in considerazione del fatto che presso varie pubbliche amministrazioni esistono già strutture cui sono demandate tali funzioni”.

Documento informatico e firme elettroniche; pagamenti, libri e scritture

Il capo II recepisce nella sostanza la disciplina già contenuta, sui temi in questione, nel testo unico sulla documentazione amministrativa (il già citato D.P.R. 445/2000), ma apporta alcune rilevanti innovazioni, con particolare riguardo al valore probatorio del documento informatico in relazione alla tipologia delle firme elettroniche.

Con riguardo a queste ultime, il Codice ha inteso ridurre e semplificare, anche sul piano terminologico, la tipologia sin qui introdotta da diverse fonti anche di livello comunitario (firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata, firma digitale e, nel linguaggio comune, firma elettronica “debole” e “forte”…) individuando:

§      nella firma elettronica, un insieme di dati in forma elettronica, logicamente correlati ad altri dati, utilizzati come metodo di identificazione informatica;

§      nella firma elettronica qualificata, un particolare tipo di firma elettronica caratterizzato da elevate garanzie di sicurezza con riguardo all’identificazione del firmatario ed al controllo sull’integrità del documento; essa è basata su un certificato qualificato (fornito da appositi certificatori) e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma (come ad es. una smart card);

§      nella firma digitale un particolare tipo di firma elettronica qualificata, in cui la garanzia sulla provenienza e l’integrità del documento è basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, tra loro correlate.

Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale soddisfa il requisito legale della forma scritta se formato nel rispetto delle regole tecniche che garantiscano l’identificabilità dell’autore e l’integrità del documento; il valore probatorio del documento informatico sottoscritto con firma elettronica è graduato in rapporto alla diversa caratteristica di validità e certezza della firma elettronica ad esso apposta.

In particolare, il documento informatico sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma elettronica qualificata, ha l’efficacia prevista dall’art. 2702 del codice civile, la medesima cioè della scrittura privata, che “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta”.

 

Si è ritenuto di temperare, sul punto, la previsione previgente (recata dall’art. 10, co. 3, del D.P.R. 445/2000 nel testo modificato dal D.Lgs. 10/2002[619]), che attribuiva al documento con tali caratteristiche un’efficacia probatoria superiore a quella della scrittura privata (“fa […] piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta”). Poiché tuttavia la natura tecnica della firma elettronica consente, di fatto, che essa sia apposta da persona diversa dal titolare, il Codice introduce una presunzione iuris tantum al fine di tutelare l’affidamento dei terzi: l’utilizzo del dispositivo di firma si presume infatti riconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria.

 

Il documento cui è apposta una firma elettronica di tipo non qualificato è invece “liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza”.

La firma digitale o elettronica qualificata può essere autenticata dal notaio o altro pubblico ufficiale, secondo modalità analoghe a quelle previste dall’art. 2703 del codice civile.

I documenti informatici formati da pubbliche amministrazioni costituiscono informazione primaria e originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge. Circa le copie e le riproduzioni di atti e documenti informatici, se ne ribadisce la piena validità a tutti gli effetti di legge, purché siano conformi alle regole tecniche.

Il Codice disciplina l’attività dei certificatori (i soggetti cioè che prestano servizi di certificazione delle firme elettroniche) che, se stabiliti in Italia o in altro Stato membro dell’Unione europea, è libera e non richiede autorizzazione preventiva. Particolari controlli affidati al CNIPA sono tuttavia effettuati sui certificatori che rilasciano al pubblico certificati qualificati, rispondenti cioè ai requisiti comunitari (dir. 1999/93/CE[620]); i certificatori che intendono conseguire il riconoscimento del possesso dei requisiti del livello più elevato, in termini di qualità e di sicurezza, devono chiedere di essere accreditati presso il CNIPA dimostrando di possedere, tra l’altro, l’affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria necessaria per svolgere attività di certificazione. Il CNIPA svolge attività di vigilanza sui certificatori qualificati e accreditati.

Il Codice reca disposizioni specifiche sulla responsabilità del certificatore qualificato ed elenca gli obblighi di questi e del titolare del certificato di firma (tra i quali quello di custodire e utilizzare il dispositivo di firma con diligenza).

È prevista la possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di svolgere “in proprio” l’attività di certificatori, nei confronti sia di propri organi e uffici, sia di categorie di terzi, pubblici o privati. Entro 24 mesi dall’entrata in vigore del Codice (entro il 1 gennaio 2008), le pubbliche amministrazioni devono dotarsi di procedure informatiche e strumenti per la verifica delle firme digitali.

 

Sono dettate le caratteristiche dei dispositivi sicuri e le procedure da utilizzarsi per la generazione delle firme: essi devono possedere requisiti di sicurezza che garantiscono l’integrità dei documenti dei documenti informatici a cui la firma si riferisce, sono inoltre specificamente indicati i casi in cui i certificati qualificati devono essere revocati o sospesi e le procedure per la cessazione dell’attività dei certificatori qualificati e accreditati.

Una disposizione transitoria fa salva l’efficacia dell’attività di certificazione svolta dai certificatori iscritti nell’elenco pubblico in precedenza tenuto dall’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (AIPA).

Per quanto riguarda i libri, i repertori e le scritture, compresi quelli previsti dalla legge sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili, di cui sia obbligatoria la tenuta, si stabilisce che essi possano essere formati e conservati su supporti informatici.

Formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici

L’intento innovativo del Codice in questo settore traspare con chiarezza da alcune disposizioni del capo III, prima fra tutte quella che pone il principio secondo cui “le pubbliche amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. L’uso di tali tecnologie costituisce dunque, o dovrebbe giungere a costituire, la modalità ordinaria di gestione dei procedimenti amministrativi; il che equivale a dire che i procedimenti medesimi dovrebbero essere ripensati alla luce del più efficiente utilizzo delle nuove tecnologie (in proposito, si veda anche quanto detto a proposito della riorganizzazione del pubblica amministrazione).

A conferma di tale assunto è introdotta la possibilità di

§      raccogliere in un fascicolo informatico gli atti del procedimento;

§      convocare e svolgere le conferenze di servizi avvalendosi degli strumenti informatici (e telematici) disponibili,

mentre viene formulata in via generale un’esplicita preferenza verso la formazione degli originali dei documenti amministrativi con mezzi informatici: il ricorso al supporto cartaceo è consentito solo ove necessario, nel rispetto del principio di economicità.

 

Per quanto riguarda lo svolgimento di conferenze di servizi on line, nelle Linee guida per la pubblica amministrazione digitale per il 2006 si osserva che:

“La conferenza di servizi, disciplinata dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, costituisce un nodo centrale della semplificazione del procedimento amministrativo essendo il luogo ideale in cui competenze ed interessi diversi vengono ad essere rappresentati trovando il necessario raccordo e coordinamento. Si tratta di un modulo organizzativo volto a consentire la partecipazione al medesimo procedimento di diverse amministrazioni ed enti che, in un’unica sede ed in tempi rapidi, giungono all’adozione di un unico provvedimento amministrativo condiviso.

La recente modifica della L. 241/1990, operata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha significativamente inciso sulla sua disciplina, semplificandone ulteriormente le modalità di svolgimento ed introducendo, tra le novità più rilevanti, la possibilità di effettuare la conferenza di servizi attraverso l’uso dell’informatica. Il co. 5-bis dell’art. 14 della L. 241/1990, peraltro, richiamato dall’art. 41, co. 3, del Codice dell’amministrazione digitale afferma, infatti, che ‘previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza dei servizi è convocata e svolta avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità stabiliti dalle amministrazioni medesime’.

Il quadro normativo attuale e la varietà di strumenti tecnologici disponibili consentono già alla P.A. di svolgere la propria attività in modo più efficiente ed efficace; l’uso dell’informatica per la conferenza di servizi consente anche il superamento dei vincoli spaziali e temporali, facilitando ulteriormente il raccordo tra le amministrazioni con conseguente riduzione dei tempi e dei costi.

Infatti, attraverso l’uso degli strumenti informatici, le pubbliche amministrazioni coinvolte in un unico procedimento amministrativo potranno essere convocate e partecipare ad una conferenza di servizi assicurando la contemporanea partecipazione alle riunioni dei loro rappresentanti, anche da un luogo diverso dalla sede dell’amministrazione procedente, virtualmente unite dal contemporaneo utilizzo di collegamenti telematici (conferenza svolta in modalità sincrona) ovvero, collegandosi al tavolo virtuale della conferenza in tempi diversi (conferenza svolta in modalità asincrona). La scelta riguardo alla modalità ritenuta più adeguata alla singola fase ed alla tipologia di conferenza e di interessi coinvolti è demandata all’accordo preventivamente raggiunto dalle medesime amministrazioni.

Si precisa che, nell’àmbito delle proprie competenze, il CNIPA è stato incaricato di predisporre un’apposita procedura informatica utilizzabile da tutte le amministrazioni pubbliche ed in grado di consentire la convocazione e l’effettuazione delle conferenze di servizi in modo semplice ed univoco, nel pieno rispetto della normativa vigente. Detta procedura, basata sull’uso di strumenti informatici di larga diffusione (posta elettronica, sistemi di chatting, forum, video o teleconferenza, ecc. ...), consentirà l’adeguamento alle specifiche fasi ed esigenze di ogni conferenza.

Attraverso una specifica sperimentazione saranno verificate sul campo tutte le funzionalità della piattaforma in modo da renderne omogenea ed uniforme l’applicazione.

Le economie scaturenti dall’uso della suddetta piattaforma realizzeranno l’ulteriore obiettivo di rendere la conferenza di servizi uno dei più efficaci strumenti di semplificazione e razionalizzazione dell’azione amministrativa”.

 

Il Codice elenca i requisiti che deve soddisfare ogni sistema di gestione informatica dei documenti, e prevede l’articolazione di questo nell’ambito di aree organizzative omogenee (non necessariamente coincidenti con le esistenti strutture amministrative; in proposito, si veda quanto in precedenza osservato sui centri di competenza).

Alcune disposizioni pongono le premesse per la progressiva sostituzione dell’attuale archiviazione su carta con modalità di conservazione informatizzate (dematerializzazione dei documenti delle pubbliche amministrazioni),

§      prevedendo, a seguito di una valutazione di costi-benefici operata da ogni amministrazione, l’adozione di piani di sostituzione degli archivi cartacei con archivi informatici;

§      sancendo la validità a tutti gli effetti di legge delle riproduzioni digitali di documenti cartacei, purché sia garantita la conformità all’originale e la conservazione nel tempo,

§      stabilendo, per il futuro, che i documenti informatici di cui è prescritta la conservazione per legge o regolamento, siano conservati in modo permanente con modalità digitali, pur potendo essere archiviati anche su carta per le (sole) esigenze correnti.

Sono peraltro fatti salvi i poteri di controllo del Ministero per i beni e le attività culturali sugli archivi di interesse storico, ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004[621]).

 

Nel marzo 2006 è stato presentato il primo Libro bianco sulla dematerializzazione della documentazione amministrativa, promosso da uno specifico Gruppo di lavoro interministeriale. Nel frattempo, per approfondire alcuni problemi specifici, sono stati attivati dieci Tavoli tecnici, i risultati dei quali saranno pubblicati in un successivo Libro bianco.

Trasmissione informatica dei documenti

Per quanto concerne la trasmissione dei documenti, riproducendo una disposizione vigente (art. 43, comma 6, del D.P.R. 445/2000), il capo IV dispone che “i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”.

È inoltre introdotto un elemento di chiarezza, rispetto alla normativa previgente, precisando che il documento informatico trasmesso per via telematica si intende inviato dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario, se disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato.

La posta elettronica è individuata quale strumento privilegiato per la comunicazione interna alle pubbliche amministrazioni, precisando che le comunicazioni effettuata con tale mezzo sono valide ai fini del procedimento amministrativo se ne sia verificata la provenienza e specificando le modalità che consentono la verifica della provenienza delle comunicazioni allo scopo di conferire ad esse efficacia legale certa.

 

È stata più volte ribadita, in particolare nella Direttiva del ministro per l’innovazione e le tecnologie del 27 novembre 2003[622] sull’impiego della posta elettronica nelle pubbliche amministrazioni, l’importanza strategica che l’utilizzo intensivo ed esteso della posta elettronica riveste nell’ottica di un cambiamento radicale della pubblica amministrazione. Lo strumento della posta elettronica, inteso come mezzo di comunicazione e trasmissione di documenti, informazioni, dati (sia all’interno della P.A. che nei confronti dei terzi) presenta caratteristiche di economicità, semplicità e velocità di trasmissione, facilità di archiviazione, possibilità di invio multiplo, integrabilità con altri strumenti ed applicazioni telematiche e infine, di affidabilità.

Nelle Linee guida sull’amministrazione digitale per il 2006 si rammenta inoltre che, “dal primo gennaio del 2006, tutte le pubbliche amministrazioni dovranno privilegiare l’uso della posta elettronica come canale di comunicazione anche con i propri dipendenti.

Alla luce delle considerazioni svolte, la prosecuzione delle tradizionali forme di comunicazione, nonostante sussista la possibilità di ricorrere alla posta elettronica, configura l’inosservanza di una disposizione di legge e una fattispecie di improprio uso di denaro pubblico”.

 

Il Codice fa rinvio alla disciplina della posta elettronica certificata, disciplinata nel dettaglio, come si è detto, dal D.P.R. 68/2005, stabilendo in via generale che:

§      essa deve essere necessariamente utilizzata nel caso di trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna;

§      la trasmissione del documento informatico mediante posta elettronica certificata equivale, nei casi consentiti dalla legge, alla notificazione per mezzo della posta.

Sono dettate infine specifiche norme per tutelare la segretezza della corrispondenza per via telematica.

Dati delle pubbliche amministrazioni e servizi in rete

Una serie di disposizioni del Codice hanno ad oggetto non i documenti informatici ma, più in generale, la gestione, lo scambio e la fruibilità dei dati informativi prodotti dalle pubbliche amministrazioni o comunque in loro possesso. Esse sono raccolte in quattro sezioni del Capo V, rispettivamente dedicate:

§      alla disponibilità dei dati delle pubbliche amministrazioni e all’accesso telematico ai medesimi da parte dei cittadini e delle imprese (sezione I);

§      alla fruibilità dei dati da parte di altre pubbliche amministrazioni (sezione II);

§      all’organizzazione e all’accesso ai servizi in rete (sezione III);

§      alle carte elettroniche (carta d’identità elettronica e carta nazionale dei servizi) (sezione IV).

Nella sezione I si stabilisce in via generale che i dati delle pubbliche amministrazioni sono gestiti in modo da consentirne la “fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati”, e si precisa che “qualunque dato trattato da una pubblica amministrazione è utilizzabile da un’altra pubblica amministrazione nei limiti dell’esercizio delle proprie funzioni”, con i limiti posti dalla disciplina sulla tutela dei dati personali e dalla L. 241/1990 sul procedimento amministrativo.

Con riguardo agli aspetti tecnici, si fa rinvio alla disciplina del sistema pubblico di connettività, oggetto del citato decreto legislativo 42/2005, anch’esso attuativo della delega di cui all’art. 10 della legge di semplificazione 2001; sono invece specificamente dettati i requisiti di sicurezza dei dati e i criteri generali relativi all’accesso telematico.

 

Con il D.Lgs. 36/2006 [623] è stata recepita in Italia la direttiva comunitaria 2003/98/CE.

Il provvedimento disciplina le modalità di riutilizzo dei documenti contenenti dati pubblici nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico. Il termine “documento” è inteso in senso molto ampio: la definizione comprende qualsiasi rappresentazione di atti, fatti o informazioni – e qualsiasi raccolta dei medesimi – a prescindere dal suo supporto (testo su supporto cartaceo o elettronico, registrazione sonora, visiva o audiovisiva) in possesso di enti pubblici.

 

Degne di nota sono le disposizioni in materia di comunicazione esterna delle pubbliche amministrazioni centrali, che impongono loro di realizzare siti istituzionali liberamente fruibili su reti telematiche (il riferimento è a Internet), precisandone i requisiti ed il contenuto minimo.

Le amministrazioni hanno inoltre l’obbligo di evidenziare sul proprio sito i principali procedimenti di competenza, indicando gli eventuali termini, il nome del responsabile e l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria, le scadenze e le modalità di adempimento, nonché l’elenco dei bandi di gara e di concorso e quello dei servizi già disponibili in rete e di quelli di futura attivazione.

 

Nelle Linee guida per la pubblica amministrazione digitale per il 2006 si evidenzia che “l’obbligo di comunicare per via telematica con i cittadini e le imprese che lo richiedano presuppone che l’amministrazione si adoperi per rendersi facilmente raggiungibile telematicamente; si rende, pertanto, necessario esporre ed evidenziare adeguatamente, sui siti istituzionali di ogni amministrazione, gli indirizzi di posta elettronica utilizzabili dai cittadini, rendendo facilmente reperibili gli indirizzi di posta elettronica degli uffici competenti per gli atti ed i procedimenti di maggiore interesse, con l’indicazione di quelli abilitati alla posta certificata”.

 

Disposizioni specifiche (già contenute nella legge di semplificazione 2001 e qui trasposte) riguardano i siti istituzionali di:

§      Presidenza del Consiglio, nel quale possono essere pubblicate notizie sulle iniziative normative del Governo e sui disegni di legge di particolare rilevanza;

§      magistratura amministrativa e contabile, sui quali sono resi accessibili i dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi alle rispettive autorità giurisdizionali e le sentenze depositate, nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza dei dati personali.

Con riguardo alla sezione II, che introduce la nozione di fruibilità dei dati, per garantire la quale le pubbliche amministrazioni possono stipulare tra loro specifiche convenzioni, di particolare interesse sono la disciplina volta a rendere omogenei e fruibili a livello nazionale i dati territoriali – le informazioni cioè geograficamente localizzate –, anche attraverso la costituzione presso il CNIPA di un Repertorio nazionale dei dati territoriali; la prevista adozione di un sistema informativo unitario per la gestione delle basi di dati di interesse nazionale e la gestione informatizzata dei pubblici registri immobiliari, che può consentirne anche la delocalizzazione, in modo tale da poterne permettere la conservazione anche in luogo diverso dall’Ufficio territoriale competente.

Il Codice contiene un rinvio all’Indice nazionale delle anagrafi (INA).

 

L’INA è un archivio di servizio, accessibile in rete a tutti i Comuni, nel quale sono contenute una serie di informazioni (cognome e nome del cittadino; codice fiscale; codice del comune di ultima residenza presso il quale sono conservate le informazioni anagrafiche). Le informazioni di dettaglio continuano comunque ad essere contenute e gestite dalle rispettive anagrafi comunali: l’INA pertanto non costituisce un’anagrafe centralizzata, ma una sorta di anagrafe virtuale realizzata attraverso il collegamento telematico delle singole anagrafi comunali. Al progetto INA-SAIA è tra l’altro connessa l’introduzione della carta nazionale dei servizi. Sull’INA, v. scheda Amministrazione digitale – La “Società dell’informazione”.

 

I servizi forniti in rete dalle pubbliche amministrazioni (sezione III) sono realizzati in base a criteri di valutazione di efficacia, economicità ed utilità, e “mirando alla migliore soddisfazione delle esigenze degli utenti”. Ad essi si accede, di norma, attraverso la carta d’identità elettronica e la carta nazionale dei servizi (ma per la presentazione di istanze e dichiarazioni è sufficiente la firma digitale).

Le caratteristiche essenziali delle due carte elettroniche sono individuate dalla sezione IV, nel quale confluisce la disciplina in precedenza recata dall’art. 36 del D.P.R. 445/2000.

 

La carta d’identità elettronica (CIE) costituisce uno dei principali progetti, al momento in fase di sperimentazione, del disegno di informatizzazione della pubblica amministrazione.

Essa, oltre a mantenere la funzione del documento cartaceo attestante l’identità della persona, ha la funzione di strumento di accesso ai servizi innovativi che le pubbliche amministrazioni locali e nazionali metteranno a disposizione per via telematica (pagamenti di tasse e tributi, accesso al servizio sanitario, richiesta di documenti ecc.). Inoltre, la carta dovrà poter essere utilizzata e dovrà funzionare nello stesso modo in qualsiasi punto del territorio nazionale.

I costi elevati di realizzazione del progetto CIE hanno rallentato la diffusione di tale documento, facendo di conseguenza concentrare le risorse sulla carta nazionale dei servizi.

Affine alla carta d’identità elettronica, la carta nazionale dei servizi (CNS) è un documento informatico che consente ai cittadini l’accesso per via telematica ai servizi della pubblica amministrazione e da altri enti per i quali sia necessaria l’identificazione del soggetto, senza peraltro svolgere la funzione di documento di identità. Si tratta di uno strumento provvisorio, istituito con il D.Lgs. 10/2002[624] con lo scopo di anticipare le funzioni di accesso ai servizi in rete della P.A. e da utilizzarsi nella fase transitoria in attesa della piena diffusione della carta d’identità elettronica.

Con il D.P.R. 117/2004[625] è stato approvato il regolamento concernente la diffusione della carta nazionale dei servizi.

Per le carte elettroniche, più ampiamente, v. scheda Amministrazione digitale – La “Società dell’informazione”.

Sviluppo, acquisizione e riuso di sistemi informatici nelle pubbliche amministrazioni

Il capo V, diviso in due sezioni, disciplina le modalità di sviluppo o di acquisizione di sistemi informatici da parte delle pubbliche amministrazioni.

È consentito, per i progetti ad alto contenuto di innovazione tecnologica, il ricorso allo strumento del “concorso di idee”, già previsto dal D.P.R. 554/1999[626]; le proposte così acquisite possono formare oggetto di una distinta gara, alla quale è ammesso a partecipare, se in possesso dei requisiti, anche il vincitore del concorso di idee.

Il Codice, nell’elencare le possibili modalità di acquisizione di sistemi informatici (sviluppo di programmi informatici per conto e a spese dell’amministrazione; riuso di programmi sviluppati per conto di altre amministrazioni; acquisizione di licenze d’uso di programmi commerciali), non sembra esprimere una preferenza a priori verso l’una o l’altra soluzione, né formula una scelta tra l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario ovvero a codice sorgente aperto.

 

Per quanto riguarda lo sviluppo e l’utilizzazione dei programmi informatici da parte delle pubbliche amministrazioni, la Direttiva 19 dicembre 2003[627] ha in precedenza dettato indicazioni e criteri tecnici e operativi per gestire più efficacemente il processo di predisposizione o di acquisizione di programmi informatici. In particolare, nella direttiva si precisa che le pubbliche amministrazioni devono tenere conto dell’offerta sul mercato della modalità di sviluppo e diffusione di programmi informatici, definita “open source” o “a codice sorgente aperto”.

 

È tuttavia fortemente incoraggiato, con l’intento di renderlo praticabile su larga scala, il riuso di programmi informatici realizzati per conto di altre amministrazioni, anche istituendo, a cura del CNIPA, un’apposita banca dati informativa a livello nazionale.

Regole tecniche

Il capo VII reca la disciplina generale per l’adozione delle regole tecniche previste e richiamate da numerose disposizioni del Codice. Tali regole sono rimesse a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri o del ministro per l’innovazione e le tecnologie, da adottare di concerto con il ministro per la funzione pubblica e con le amministrazioni di volta in volta indicate dalle singole disposizioni del codice, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-città e autonomie locali per le materie di competenza.

La scelta operata di utilizzare uno strumento normativo flessibile quale il decreto ministeriale per l’adozione delle regole tecniche, cioè degli standard e delle caratteristiche cui si devono adeguare i nuovi strumenti e procedure e coloro che li utilizzano, risponde all’esigenza di garantire rapidi e frequenti adattamenti della disciplina al continuo evolversi delle tecnologie digitali.

In attesa delle nuove regole tecniche sono fatte salve, in via transitoria, quelle vigenti alla data di entrata in vigore del Codice.

Tra le disposizioni recate dal Capo VIII merita segnalare quella che, al fine di mantenere il carattere organico del codice:

§      dispone che ogni successivo intervento abrogativo, modificativo o derogatorio non possa aver luogo se non in modo esplicito;

§      impone il ricorso alla tecnica della novella per ogni futuro intervento legislativo sulle materie trattate dal Codice.

Le modifiche e integrazioni al Codice

Con lo scopo di eliminare i dubbi interpretativi emersi in dottrina o posti dai più diretti destinatari del Codice e di dare ulteriore applicazione ai suggerimenti formulati nel parere del Consiglio di Stato del 7 febbraio 2005 sullo schema del Codice, il Governo ha adottato il D.Lgs. 159/2006[628].

In particolare, il provvedimento correttivo, accogliendo un’osservazione formulata dal Consiglio di Stato nel parere citato, ha recepito nel Codice, con alcune modifiche, l’intera disciplina del Sistema pubblico di connettività e della Rete internazionale della pubblica amministrazione, contenuta nel D.Lgs. 42/2005, abrogando quest’ultimo.

Altre disposizioni del D.Lgs. 159/2006 si limitano ad apportare modifiche meramente formali o di coordinamento.

Altre ancora assumono invece rilevanza sostanziale, tra queste:

§      la modifica apportata all’art. 3 del Codice, allo scopo di meglio definire la portata e l’azionabilità del diritto, in esso sancito, di cittadini e imprese a richiedere e ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni. La norma precisa che tale diritto è esercitabile anche nei riguardi delle amministrazioni regionali e locali; è concretamente azionabile dinanzi al giudice ordinario;

§      la modifica della disciplina del documento informatico nei suoi profili civilistici, recata dagli artt. 20 e 21 del Codice;

§      la migliore definizione dei requisiti di validità legale delle copie su supporto cartaceo tratte da documenti informatici;

§      la responsabilizzazione del titolare del dispositivo di firma elettronica, il quale dovrà assicurarne la custodia ed utilizzare in ogni caso personalmente il dispositivo;

§      l’introduzione dei principi normativi che presiedono alla costituzione e gestione del fascicolo informatico delle pubbliche amministrazioni;

§      l’integrazione della disciplina dell’Indice nazionale delle anagrafi (INA) – attualmente assai scarna – con la fissazione dei criteri della sua realizzazione.

 

 


Semplificazione – Il processo di codificazione

La modifica dell’articolo 20 della legge n. 59 del 1997

L’art. 1 della legge di semplificazione 2001 (L. 229/2003[629]) ha novellato l’art. 20 della L. 59/1997[630], modificando l’ambito e la struttura della legge di semplificazione.

 

L’art. 20 della L. 59/1997 (c.d. “legge Bassanini 1”) ha introdotto nell’ordinamento la previsione di una legge annuale di semplificazione, quale strumento periodico di semplificazione e razionalizzazione di procedimenti amministrativi, attraverso lo strumento giuridico della delegificazione delle norme di legge che disciplinavano i procedimenti amministrativi stessi. In estrema sintesi, il meccanismo ivi delineato prevedeva che annualmente il Governo individuasse un certo numero di procedimenti amministrativi da semplificare, le cui discipline legislative erano pertanto oggetto di delegificazione, autorizzandosi il Governo stesso all’emanazione di regolamenti ex art. 17, co. 2 della L. 400/1988[631]. Nell’adottare i regolamenti di delegificazione, il Governo doveva attenersi al rispetto dei princìpi e criteri indicati dallo stesso art. 20, nonché dagli altri criteri e princìpi eventualmente determinati dalla legge di semplificazione annuale.

La disposizione ha trovato attuazione con le delegificazioni previste dal medesimo art. 20 – che indicava esso stesso 112 procedimenti amministrativi (divenuti poi 122 per effetto della L. 191/1998) da semplificare “in sede di prima attuazione” – quindi con la legge di semplificazione 1998 (L. 50/1999), e con quella per il 1999 (L. 340/2000).

 

La semplificazione nella XIII legislatura. La parola d’ordine della “semplificazione” ha guidato, nel corso della XIII legislatura, sia un’opera di riforma dell’amministrazione, in particolare per quanto riguarda l’attività di questa che si svolge attraverso procedimenti amministrativi, sia un’opera di razionalizzazione e riordino della normazione (e dei processi di produzione normativa).

Le due opere di semplificazione – amministrativa e normativa – sono state concepite insieme, trovano fondamento nei medesimi atti legislativi (le così dette “leggi Bassanini” e le leggi annuali di semplificazione) e si avvalgono altresì di strumenti comuni (ad esempio, la delegificazione).

Sul piano della semplificazione amministrativa, i testi di riferimento sono anzitutto le tre “leggi Bassanini” (L. 59/1997; L. 127/1997; L. 191/1998) le quali – tra l’altro – hanno rivisto e migliorato alcuni istituti già previsti dalla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990), hanno proseguito l’opera di semplificazione dei procedimenti amministrativi già avviata dalla L. 537/1993, hanno sviluppato le norme sull’autocertificazione, già presenti da tempo nell’ordinamento ma rimaste a lungo prive di applicazione e hanno avviato il processo di adeguamento dell’amministrazione italiana alle nuove tecnologie. Su questi ultimi versanti (autocertificazione e documenti informatici) è poi intervenuto sul finire della legislatura, il testo unico sulla documentazione amministrativa (D.P.R. 445/2000), che raccoglie tutta la normativa vigente in materia (e che è il primo esempio di testo unico “misto”, contenente cioè in un unico contesto disposizioni sia di rango primario che di rango secondario)[632].

Sul piano della semplificazione normativa, le previsioni più significative sono quelle contenute nella prima legge annuale di semplificazione approvata in attuazione della L. 59/1997 (L. 50/1999 – legge di semplificazione 1998). È da questa legge, infatti, che hanno preso le mosse, da un lato, il processo di riordino normativo attraverso la predisposizione di testi unici “misti” e, dall’altro, lo svolgimento di un’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) sulla nuova normativa di origine governativa. La L. 340/2000 (legge di semplificazione 1999), da questo punto di vista, completa ed amplia le previsioni della precedente.

 

L’art. 1 della L. 229/2003 ha modificato l’impianto complessivo della legge annuale di semplificazione, attraverso una “riscrittura” dell’art. 20 citato, che ne sposta l’asse dalla semplificazione dei procedimenti amministrativi attraverso la delegificazione delle norme di riferimento, alla semplificazione normativa attraverso il riassetto normativo e la codificazione.

 

Di tale “spostamento” è testimone, in primo luogo, lo stesso titolo della legge, nel quale non è più presente il riferimento – che era principale nelle precedenti leggi di semplificazione – alla delegificazione di procedimenti amministrativi.

 

Ulteriori modifiche al medesimo articolo sono state apportate ad opera della successiva L. 246/2005[633] (legge di semplificazione e riassetto normativo per il 2005), che ha tra l’altro integrato con nuovi princìpi e criteri direttivi sia il processo di riordino mediante codificazione sia l’aspetto relativo alla semplificazione delle procedure amministrative.

Si dà conto, nel prosieguo, dell’art. 20 della L. 59/1997 nel testo novellato dalle due leggi menzionate.

Il disegno di legge per la semplificazione e il riassetto normativo

Il comma 1 dell’art. 20 mantiene in capo al Governo l’obbligo di presentare al Parlamento con cadenza annuale un disegno di legge il cui oggetto e finalità sono così ridefiniti: “per la semplificazione e il riassetto normativo, volto a definire, per l’anno successivo, gli indirizzi, i criteri, le modalità e le materie di intervento, anche ai fini della ridefinizione dell’area di incidenza delle pubbliche funzioni con particolare riguardo all’assetto delle competenze dello Stato, delle regioni e degli enti locali”.

 

Come si è accennato, il previgente art. 20 individuava, invece, il contenuto del disegno di legge annuale di semplificazione nella “delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi, anche coinvolgenti amministrazioni centrali, locali o autonome, indicando i criteri per l’esercizio della potestà regolamentare nonché i procedimenti oggetto della disciplina”.

 

Per quanto riguarda la fase della proposta, il successivo comma 9 prevede che ciascun ministero sia titolare del potere di iniziativa della semplificazione e del riassetto normativo nelle materie di propria competenza. In caso di inerzia delle amministrazioni competenti, la Presidenza del Consiglio dei ministri può tuttavia attivare specifiche iniziative di semplificazione e riordino normativo.

Alla Presidenza del Consiglio dei ministri spetta il potere di indirizzo e coordinamento al fine di garantire “anche” l’uniformità e l’omogeneità degli interventi di riassetto e semplificazione proposti dai vari ministeri.

Il Governo (co. 1), sulla base delle proposte formulate dai vari ministri e sentita la Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali[634] entro il 30 aprile di ogni anno, mette a punto un programma di priorità di interventi.

Il disegno di legge annuale di semplificazione e riassetto è predisposto sulla base del programma medesimo ed è presentato al Parlamento entro il successivo 31 maggio. In allegato al disegno di legge Il Governo presenta una relazione sullo stato di attuazione della semplificazione e del riassetto.

 

Il primo programma di priorità di interventi in materia di semplificazione e di riassetto normativo è stato approvato dal Consiglio dei ministri del 27 febbraio 2004. Il programma riepiloga le linee direttrici della nuova politica di semplificazione intrapresa dal Governo:

§         deleghe per l’emanazione di decreti legislativi e regolamenti governativi in materie di competenza statale, secondo il criterio del riassetto e della codificazione;

§         potestà d’iniziativa dei Ministeri competenti, salvo il potere di iniziativa della Presidenza del Consiglio in caso di inerzia dei titolari.

Il programma prevedeva interventi di codificazione in materia di:

§         difesa: vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità organizzata;

§         affari esteri: gestione degli uffici all’estero;

§         attività produttive: adempimenti delle imprese nei confronti della P.A.;

§         funzione pubblica: norme in materia previdenziale relativamente ai rapporti di lavoro con la P.A.;

§         pari opportunità: codice della normativa,

nonché interventi semplificatori in numerosi settori.

La terza relazione sullo stato di attuazione della semplificazione dei procedimenti amministrativi è stata trasmessa alle Camere dal ministro per la funzione pubblica il 5 novembre 2004 (doc. CIII, n. 2). Il documento contiene anche un paragrafo sullo stato del riassetto normativo.

Gli strumenti della semplificazione: decreti legislativi e regolamenti

Il comma 2 individua nei decreti legislativi e nei regolamenti governativi gli strumenti giuridici attraverso i quali si realizza la semplificazione ed il riassetto normativo.

La legge di semplificazione annuale, quindi, avrà la natura – tendenzialmente prevalente – di legge di delega; oggetto delle deleghe in essa comprese sarà il riassetto delle “norme legislative sostanziali e procedimentali” nelle singole materie di volta in volta individuate dalla medesima legge.

Per quanto concerne l’autorizzazione all’adozione di regolamenti, ad essi è demandato il riassetto delle norme regolamentari di competenza dello Stato.

 

L’integrazione dell’inciso “di competenza dello Stato” è da porre in relazione al nuovo sesto comma dell’art. 117 Cost., ai sensi del quale la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle sole materie di sua legislazione esclusiva, ed alle regioni in tutte le altre.

 

Oggetto dell’intervento regolamentare dovrebbero essere quelle che il successivo co. 4 definisce le “funzioni amministrative mantenute”, ossia quelle che non siano state oggetto di “dismissione”, nell’ambito della generale opera di liberalizzazione prevista dal co. 3 (v. infra, soprattutto con riferimento ai princìpi di cui alle lett. d)-g)). Per tali funzioni, quindi, i regolamenti – ove previsti – daranno attuazione ad un’opera di semplificazione, in conformità ai princìpi di cui ai co. 4 e 8.

I princìpi e i criteri direttivi generali per l’adozione dei decreti legislativi

Il comma 3 reca i criteri ed i princìpi direttivi “generali”, ossia intesi come destinati a valere per i decreti legislativi previsti dal presente disegno di legge come dai d.d.l. di semplificazione e riassetto normativo presentati in futuro dal Governo ogni anno[635].

Ai princìpi e criteri qui previsti, aventi carattere “sostanziale”, si aggiungono quelli di cui al successivo comma 4 – ugualmente destinati ad operare per l’esercizio delle deleghe legislative – che attengono alla disciplina delle funzioni amministrative mantenute e operano sia con riferimento ai decreti legislativi, sia per l’adozione dei regolamenti.

Il co. 8 reca ulteriori criteri e princìpi, tuttavia riferiti ai soli regolamenti (vedi infra).

A questi princìpi e criteri generali sono destinati ad affiancarsi quelli “specifici” per ciascuna materia oggetto di semplificazione e riassetto normativo, indicati dall’annuale legge di semplificazione.

I princìpi e criteri di cui al co. 3 possono essere indicati come segue.

La codificazione della normativa primaria

Le lett. a), a-bis)) e b) prescrivono:

§         la definizione del riassetto normativo e la codificazione della normativa primaria regolante la materia (il che può dirsi costituisca il punto di arrivo del complessivo riassetto da operare in base alle lettere successive);

§         l’acquisizione in via preventiva del parere del Consiglio di Stato, che deve esprimersi entro 90 giorni dal ricevimento della richiesta. Si tratta di un aggravamento procedurale del normale procedimento di adozione dei decreti legislativi; ulteriori profili di aggravamento della procedura sono previsti dal successivo co. 5 (v. infra);

§         la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente tra Stato e regioni (elencate all’art. 117, co. 3°, Cost.). In tali materie, dunque, la codificazione si risolve nella definizione, da parte dello Stato e con lo strumento del decreto legislativo, di un corpus di princìpi fondamentali nell’ambito dei quali le regioni potranno legiferare;

§         il coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo[636];

§         L’indicazione espressa delle norme abrogate, criterio ormai “classico” delle disposizioni sulla produzione delle norme.

 

È fatta salva, a tal riguardo, l’applicazione dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile: articolo che disciplina l’abrogazione delle leggi, richiamando i due istituti dell’abrogazione espressa e dell’abrogazione implicita per incompatibilità tra le norme disciplinanti una materia e quelle di una successiva legge.

 

Quello della codificazione, enunciato alla lett. a), rappresenta un principio-base del testo in esame: lo strumento scelto per ricondurre ad unità, al contempo rinnovandola, la legislazione che regola le singole materie oggetto del riassetto. La delega alla codificazione implica infatti un intervento innovativo (e non di mero cooordinamento della legislazione vigente) nelle materie che ne sono oggetto.

 

Tale impostazione si differenzia profondamente da quella recata dall’ originario art. 20, che prevedeva (co. 11) l’emanazione di testi unici cui fossero demandati la raccolta ed il coordinamento formale, nonché la semplificazione procedimentale nelle materie indicate: impostazione confermata e sviluppata dalla legge di semplificazione 1998, il cui art. 7 (che la L. 229/2003 ha abrogato) prevedeva l’adozione di un programma di riordino delle norme legislative e regolamentari da attuare mediante “testi unici riguardanti materie e settori omogenei, comprendenti, in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari”.

 

Il successivo comma 3-bis[637] dispone che l’opera di codificazione della normativa primaria in ciascuna materia sia affiancata e completata dall’adozione di una raccolta organica delle disposizioni regolamentari vigenti nella materia medesima.

 

La disposizione è, naturalmente, riferita alle sole materie nelle quali lo Stato esercita la competenza legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117, co. 2°, Cost.; solo in tali materie, infatti, il co. 6° del medesimo art. 117 riserva allo Stato, anziché alle Regioni, la potestà regolamentare.

La “raccolta organica” di che trattasi – l’adozione della quale può anche essere contestuale a quella del decreto legislativo di riassetto – sembra anch’essa avvicinarsi, quanto a contenuto e finalità, al modello del codice piuttosto che a quello del testo unico. Il co. 3-bis dispone infatti che le norme regolamentari in essa raccolte siano, se del caso, adeguate alla nuova disciplina di livello primario e siano semplificate in conformità ai criteri dettati per l’adozione delle norme regolamentari di riassetto dell’attività amministrativa nel relativo settore (v. infra).

I princìpi generali che regolano i procedimenti amministrativi; il criterio della “liberalizzazione”

La lett. c) del co. 3 affida ai decreti legislativi di riassetto delle singole materie la definizione dei princìpi generali cui devono attenersi i regolamenti di cui al co. 2 nel disciplinare i procedimenti amministrativi. Si tratta dei princìpi in materia di informazione, partecipazione e contraddittorio, trasparenza e pubblicità nei procedimenti amministrativi, da enucleare nel rispetto dei princìpi a suo tempo individuati dalla L. 241/1990[638] sull’attività amministrativa

 

Quest’ultima legge ha formato a sua volta oggetto di rilevanti modifiche nel corso della XIV legislatura (v. parte I, capitolo Norme sull’azione amministrativa), anche con riguardo a meccanismi esplicitamente richiamati dall’articolo in esame, come il silenzio-assenso e la denunzia di inizio attività (v. infra).

 

Le successive lettere (da d) a n)) esplicitano quel principio di “liberalizzazione” che il Governo pro tempore ha dichiaratamente indicato quale “criterio guida”, intendendo realizzare un tendenziale “arretramento” dei poteri della pubblica amministrazione.

La lett. d) dispone l’eliminazione degli interventi amministrativi autorizzatori e delle misure di condizionamento della libertà contrattuale, a condizione che non vi ostino gli interessi pubblici:

§         alla difesa nazionale;

§         all’ordine e alla sicurezza pubblica;

§         all’amministrazione della giustizia;

§         alla regolazione dei mercati e alla tutela della concorrenza;

§         alla salvaguardia del patrimonio culturale e dell’ambiente;

§         all’ordinato assetto del territorio;

§         alla tutela dell’igiene e della salute pubblica.

 

Le funzioni amministrative mantenute nelle materie elencate sono oggetto di semplificazione attraverso appositi regolamenti. Le materie sono quasi tutte riconducibili all’elenco che l’art. 117, co. 2°, Cost. riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, ad eccezione delle ultime due, che sembrano far piuttosto capo alla competenza concorrente Stato-Regioni di cui al co. 3° del medesimo art. 117.

 

La lett. e) rende più specifico tale orientamento, prevedendo che una denuncia di inizio attività, corredata dalle necessarie attestazioni o certificazioni, possa sostituire gli atti autorizzatori comunque denominati che non implichino esercizio di discrezionalità amministrativa ed il cui rilascio dipenda dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge. L’assenza di discrezionalità amministrativa si pone quindi come condizione ulteriore per la sostituzione delle autorizzazioni con denunce di inizio di attività.

La lett. f) (determinazione dei casi in cui le domande di rilascio di un atto di consenso si considerano accolte qualora non intervenga un diniego entro termini fissati in via generale) introduce due criteri direttivi: la generalizzazione del meccanismo del silenzio-assenso, mediante la previsione di termini fissati “per categorie di atti in relazione alla complessità del procedimento”; la correlativa esclusione “in ogni caso” dell’opposto meccanismo del “silenzio-diniego”. Anche in questo caso la vigenza del principio è limitata ai casi in cui l’atto di consenso, comunque denominato, non implichi esercizio di discrezionalità amministrativa.

La revisione e riduzione delle funzioni amministrative non direttamente rivolte ad alcune specifiche materie, di cui alla lett. g), prevede non una semplice riduzione o semplificazione di procedimenti amministrativi, ma un vero e proprio arretramento dei poteri della pubblica amministrazione nei settori che si intende liberalizzare.

 

Il principio qui posto si ricollega al disposto del precedente co. 1, che, nel prevedere l’annuale legge di semplificazione e riassetto ne indica tra le finalità anche quella “della ridefinizione dell’area di incidenza delle pubbliche funzioni”.

Sono comunque escluse dall’opera di revisione e riduzione le  funzioni direttamente rivolte:

§         alla regolazione ai fini dell’incentivazione della concorrenza;

§         alla eliminazione delle rendite e dei diritti di esclusività, anche alla luce della normativa comunitaria;

§         alla eliminazione dei limiti all’accesso e all’esercizio delle attività economiche e lavorative;

§         alla protezione di interessi primari, costituzionalmente rilevanti, per la realizzazione della solidarietà sociale;

§         alla tutela dell’identità e della qualità della produzione tipica e tradizionale e della professionalità.

 

I principi di cui alle lett. h) ed i) mirano a promuovere l’”autoregolazione”, cioè la fissazione e il rispetto di standard qualitativi da parte delle stesse categorie produttive sotto la vigilanza pubblica del Ministero o di un ente pubblico competente, ovvero ad organismi indipendenti, anche privati; nonché – per le attività “liberalizzate” – l’”autoconformazione” a modelli di regolazione fissati dalle amministrazioni competenti.

 

I modelli di regolazione sono definiti dalle amministrazioni competenti in relazione all’incentivazione della concorrenzialità, alla riduzione dei costi privati per il rispetto dei parametri di pubblico interesse, alla flessibilità dell’adeguamento dei parametri stessi alle esigenze manifestatesi nel settore regolato. È, infine, prevista l’attivazione di “adeguati strumenti di verifica e controllo successivi”.

 

La lett. l), attribuendo le funzioni amministrative ai comuni, salvo diverso conferimento, recepisce il principio sancito dal vigente art. 118 Cost. sulla ripartizione delle competenze amministrative. I decreti legislativi dovranno altresì dettare i princìpi fondamentali in base ai quali le leggi regionali, nelle materie di competenza legislativa concorrente, provvederanno all’attribuzione delle funzioni amministrative.

 

Il testo costituzionale, come modificato dalla L.Cost. 3/2001, segna la fine del principio del parallelismo tra funzione legislativa e competenze amministrative; queste ultime sono assegnate in linea di principio ai comuni, ma possono essere conferite (dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze) a province, città metropolitane, regioni o allo Stato per assicurarne l’esercizio unitario “sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

 

La lett. m) affida ai decreti legislativi la definizione dei criteri in base ai quali le strutture amministrative dovranno essere modificate in relazione al riassetto delle funzioni amministrative derivanti dall’applicazione delle norme del comma in esame, e la lett. n) richiede l’indicazione dell’autorità competente a ricevere il rapporto sulle sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 17 della L. 689/1981[639].

 

Tale articolo, al co. 1, prevede che “qualora non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il funzionario o l’agente che ha accertato la violazione, salvo che ricorra l’ipotesi prevista nell’art. 24, deve presentare rapporto, con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni, all’ufficio periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto”.

La disciplina delle “funzioni amministrative mantenute”

L’art. 20 individua poi ulteriori princìpi riferiti alla disciplina delle funzioni amministrative mantenute in essere (comma 4). Tali principi, comuni ai decreti legislativi ed ai regolamenti da emanare ai sensi del co. 2 ripropongono con alcune modifiche (alle lett. a)-g)) quelli già sanciti dal previgente art. 20:

§         semplificazione dei procedimenti amministrativi, e di quelli strettamente connessi o strumentali, prevedendo la riduzione del numero delle fasi procedimentali e delle amministrazioni intervenienti;

§         riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti e uniformazione dei tempi di conclusione previsti per procedimenti tra loro analoghi;

§         regolazione uniforme dei procedimenti dello stesso tipo che si svolgono presso diverse amministrazioni o presso diversi uffici della medesima amministrazione;

§         riduzione del numero di procedimenti amministrativi e accorpamento dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività;

§         semplificazione e accelerazione delle procedure di spesa e contabili, anche mediante l’adozione di disposizioni che prevedano termini perentori – prorogabili una sola volta – per le fasi di integrazione dell’efficacia e di controllo degli atti, decorsi i quali i provvedimenti si intendono adottati.

Le lett. f)-f-quinquies)[640] recano i seguenti, ulteriori princìpi:

§         aggiornamento delle procedure, prevedendo la più estesa e ottimale utilizzazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, anche nei rapporti con i destinatari dell’azione amministrativa. Tale formulazione appare conforme agli orientamenti fissati nel recente Codice dell’amministrazione digitale[641] (v. scheda “Amministrazione digitale” – Il Codice);

§         Generale possibilità, da parte delle amministrazioni e dei soggetti a queste equiparati, di utilizzare strumenti di diritto privato, salvo che nelle materie o nelle fattispecie nelle quali l’interesse pubblico non può essere perseguito senza l’esercizio di poteri autoritativi. La lettera ripropone il principio generale introdotto dalla L. 15/2005 nella L. 241/1990 (art. 1, co. 1-bis: v. parte I, capitolo Norme sull’azione amministrativa);

§         Conformazione ai princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, nella ripartizione delle attribuzioni e competenze tra i diversi soggetti istituzionali, nella istituzione di sedi stabili di concertazione e nei rapporti tra i soggetti istituzionali ed i soggetti interessati, secondo i criteri dell’autonomia, della leale collaborazione, della responsabilità e della tutela dell’affidamento[642];

§         Riconduzione di intese, accordi ed altri atti equiparabili comunque denominati, nonché delle conferenze di servizi, previste dalle normative vigenti ed aventi il carattere della ripetitività, ad uno o più schemi base o modelli di riferimento; il testo rinvia agli artt. da 14 a 14-quater della L. 241/1990, che recano la disciplina generale della conferenza di servizi;

§         Avvalimento di uffici e strutture tecniche e amministrative pubbliche da parte di altre pubbliche amministrazioni, sulla base di accordi conclusi ai sensi dell’art. 15 della citata L. 241/1990.

La procedura di adozione dei decreti legislativi e dei regolamenti

Il comma 5 dell’art. 20 disciplina la procedura di adozione dei decreti legislativi di riassetto normativo: questi sono emanati su proposta del ministro competente, di concerto con il Presidente del Consiglio dei ministri o con il ministro per la funzione pubblica, con i ministri interessati e con il ministro dell’economia e delle finanze. È espressamente prevista la previa acquisizione dei pareri della Conferenza unificata e, successivamente, delle Commissioni parlamentari competenti, che si esprimono entro 60 giorni dal ricevimento della richiesta. È altresì richiesto (co. 3) il parere del Consiglio di Stato.

I regolamenti governativi possono essere emanati ai sensi del co. 1 (regolamenti di attuazione) o del co. 2 (regolamenti di delegificazione) della L. 400/1988. Per la loro adozione i commi 6 e 7 richiedono:

§         la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del ministro per la funzione pubblica, di concerto con il ministro competente (a tal fine la Presidenza del Consiglio, anche su richiesta del ministro competente, può promuovere riunioni tra le amministrazioni interessate);

§         il previo parere della Conferenza unificata, quando siano coinvolti interessi delle Regioni e delle autonomie locali, e del Consiglio di Stato, entrambi espressi entro 90 giorni dalla richiesta; il successivo parere delle competenti Commissioni parlamentari, reso entro 60 giorni, decorsi i quali i regolamenti possono essere emanati;

§         l’emanazione con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri.

I regolamenti entrano in vigore di norma 15 giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale; da tale data siano abrogate le norme, anche di legge, regolatrici di procedimenti.

I princìpi e criteri per l’adozione dei regolamenti

Il comma 8 (lett. a)-g)) detta i criteri e i princìpi sostanziali cui debbono attenersi i regolamenti di cui al co. 2[643], in aggiunta a quelli già individuati dal precedente co. 4 ed a quelli che, ai sensi del co. 3, lett. c), sono indicati nei decreti legislativi di riassetto delle singole materie (vedi supra):

§         trasferimento ad organi monocratici o ai dirigenti amministrativi di funzioni anche decisionali, che non richiedono, in ragione della loro specificità, l’esercizio in forma collegiale, e sostituzione degli organi collegiali con conferenze di servizi o con interventi, nei relativi procedimenti, dei soggetti portatori di interessi diffusi;

§         individuazione delle responsabilità e delle procedure di verifica e controllo;

§         soppressione dei procedimenti che risultino non più rispondenti alle finalità e agli obiettivi fondamentali definiti dalla legislazione di settore o che risultino in contrasto con i princìpi generali dell’ordinamento giuridico nazionale o comunitario;

§         soppressione dei procedimenti che comportino, per l’amministrazione e per i cittadini, costi più elevati dei benefici conseguibili, anche attraverso la sostituzione dell’attività amministrativa diretta con forme di autoregolamentazione da parte degli interessati, prevedendone comunque forme di controllo;

§         adeguamento della disciplina sostanziale e procedimentale dell’attività e degli atti amministrativi ai princìpi della normativa comunitaria, anche sostituendo al regime concessorio quello autorizzatorio;

§         soppressione dei procedimenti che derogano alla normativa procedimentale di carattere generale, qualora non sussistano più le ragioni che giustifichino una difforme disciplina settoriale;

§         regolazione, ove possibile, di tutti gli aspetti organizzativi e di tutte le fasi del procedimento.

L’articolo 20-bis della medesima L. 59/1997 reca ulteriori indicazioni in ordine ai regolamenti di delegificazione che prevedono obblighi corredati da sanzione amministrativa.

Altre disposizioni

Il comma 8-bis dell’art. 20 della L. 59/1997[644] affida al Governo, nel contesto della definizione della posizione italiana da sostenere in sede di Unione europea nella “fase ascendente” della normativa comunitaria[645], il compito di verificare la coerenza tra tale posizione e gli obiettivi di semplificazione e di qualità della regolazione perseguiti in ambito nazionale.

 

Le procedure volte alla partecipazione italiana alla “fase ascendente” della normazione comunitaria sono oggi disciplinate dalla L. 11/2005[646] (v. scheda La legge n. 11 del 2005, nel dossier relativo alla Commissione Politiche dell’Unione europea), che ha preso il posto della precedente L. 86/1989 (c.d. “legge La Pergola”).

 

La stessa disposizione prevede inoltre che il Presidente del Consiglio dei ministri assicuri la partecipazione italiana ai programmi (comunitari) di semplificazione e di miglioramento della qualità della regolazione interna e a livello europeo.

Il comma 10 prevede che i processi di regolazione e di semplificazione coinvolgano le organizzazioni di categoria e le forze sociali interessate attraverso forme stabili di consultazione e partecipazione individuate dagli “organi responsabili di direzione politica e di amministrazione attiva”[647].

Ai sensi del comma 11, i servizi di controllo interno compiono accertamenti sugli effetti prodotti dalle norme contenute nei regolamenti di semplificazione e di accelerazione dei procedimenti amministrativi e possono formulare osservazioni e proporre suggerimenti per la modifica delle norme stesse e per il miglioramento dell’azione amministrativa.

L’articolo 20-ter della medesima L. 59/1997, introdotto dall’art. 2 della L. 246/2005, introduce la previsione di meccanismi di carattere generale e sistematico per coordinare e rendere omogenee iniziative volte a migliorare la qualità normativa dell’ordinamento nel suo complesso (a livello statale, regionale e locale). A tal fine si prevede la conclusione, in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, di accordi o intese tra Governo, regioni e province autonome di Trento e di Bolzano, in attuazione del principio di leale collaborazione.

 

Tali accordi sono assunti “anche sulla base delle migliori pratiche e delle iniziative sperimentali statali, regionali e locali” ed hanno il fine di:

§         favorire il coordinamento dell’esercizio delle rispettive competenze normative e svolgere attività di interesse comune in materia;

§         definire princìpi, criteri, metodi e strumenti omogenei per il perseguimento della qualità della regolazione statale e regionale;

§         concordare forme e modalità omogenee di AIR e VIR (v. scheda Semplificazione – AIR e VIR) e di consultazione con le organizzazioni imprenditoriali per l’emanazione dei provvedimenti normativi statali e regionali;

§         valutare, con l’ausilio istruttorio anche dei gruppi di lavoro già esistenti tra regioni, la configurabilità di modelli procedimentali omogenei sul territorio nazionale per “determinate attività private” e valorizzare le attività dirette all’armonizzazione delle normative regionali.

 

Va segnalato al riguardo che anche in ambito regionale non sono mancate, accanto a quelle dirette alla migliore redazione e conoscibilità dei testi normativi, le iniziative volte alla semplificazione. Dopo le riforme Bassanini e a seguito delle riforme costituzionali del 1999-2001[648], grande impulso è stato dato, anche mediante il ricorso a vere e proprie leggi di semplificazione:

§         all’abrogazione della normativa desueta e alla razionalizzazione della legislazione in vigore mediante l’adozione di testi unici o di leggi di riordino generale di settore;

§         alla delegificazione della normativa regionale, attraverso lo spostamento della disciplina della materia dal livello legislativo al livello regolamentare;

§         alla semplificazione dei procedimenti amministrativi previsti dalla normativa di settore.


Semplificazione – AIR e VIR

La fase sperimentale dell’AIR

L’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) venne introdotta in via sperimentale dall’art 5, co. 1, della prima legge di semplificazione (L. 50/1999[649]), nell’ambito delle iniziative finalizzate a migliorare la qualità della produzione normativa, con lo scopo di verificare in via preventiva la necessità di una legge o di un atto normativo del Governo, valutandone gli effetti sia sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche, sia sui destinatari diretti e indiretti.

 

L’iniziativa, ispirata ad analoghe esperienze europee e di Paesi di cultura anglosassone (Stati Uniti, Canada, Australia, nei quali metodi di valutazione di impatto della regolazione sono previsti fin dagli anni ‘80), è stata adottata in Italia sulla spinta di alcuni documenti dell’OCSE nei quali si suggeriva di introdurre tali strumenti (in particolare, si ricorda la raccomandazione agli Stati membri sul miglioramento della qualità della normazione pubblica del 9 marzo 1995 e il rapporto sulla riforma della regolazione in Italia del 2001).

La scelta di introdurre l’AIR in modo graduale rispose alla duplice esigenza di affinare progressivamente le metodologie e di consentire alle pubbliche amministrazioni di assimilare le nuove tecniche.

 

L’art. 5, co. 1, della L. 50/1999 ha demandato ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la definizione, a titolo sperimentale, dei tempi e delle modalità di effettuazione sia dell’AIR sia dell’analisi tecnico normativa (ATN), con l’obiettivo di valutare – in relazione agli schemi di atti normativi adottati dal Governo o dai singoli ministri – l’incidenza del nuovo atto sulla disciplina vigente del settore interessato e la sua coerenza con i vincoli derivanti da altre fonti.

Il co. 2 dell’art. 5 ha stabilito inoltre che le Commissioni parlamentari competenti possono richiedere, per gli schemi di atti normativi e i progetti di legge al loro esame, una relazione contenente l’AIR, ai fini dello svolgimento dell’istruttoria legislativa.

 

All’art. 5 della L. 50/1999 è stata data attuazione con la direttiva del Presidente del Consiglio 27 marzo 2000, che ha fissato in un anno i tempi della sperimentazione dell’AIR e con cui sono stati indicati i criteri in base ai quali redigere la relazione sull’AIR e le procedure per adottarla. Nella medesima direttiva sono disciplinate anche le modalità di effettuazione dell’analisi tecnico-normativa (ATN).

Secondo la definizione contenuta nella direttiva citata, l’AIR è lo strumento per stabilire la necessità di un intervento di regolamentazione e per scegliere quello più efficace; a tale scopo essa contiene la descrizione degli obiettivi del provvedimento di regolamentazione la cui eventuale adozione è in discussione e delle opzioni alternative, nonché la valutazione dei benefici e dei costi derivanti dalla misura regolatoria.

La consultazione preventiva dei soggetti destinatari delle norme costituisce uno degli elementi caratterizzanti dell’AIR.

L’ATN, invece, è volta a verificare l’incidenza della normativa proposta sull’ordinamento giuridico vigente, in particolare la sua compatibilità con i principi della Costituzione e con la disciplina comunitaria, nonché i profili relativi al rispetto delle competenze delle regioni e delle autonomie locali e ai precedenti interventi di delegificazione. L’ATN, inoltre, verifica la correttezza delle definizioni e dei riferimenti normativi richiamati nel testo della normativa proposta e delle tecniche di modificazione e abrogazione delle disposizioni vigenti; dà conto della giurisprudenza e di eventuali progetti di modifica della stessa materia in corso d’esame.

 

L’AIR e l’ATN sono contenute in due distinte relazioni che accompagnano gli schemi di atti normativi adottati dal Governo e i regolamenti, ministeriali o interministeriali. Esse sono trasmesse al Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri (v. infra) dalle amministrazioni proponenti, insieme con la relazione illustrativa e la relazione tecnico-finanziaria, ai fini dell’iscrizione alla riunione preparatoria del Consiglio dei Ministri.

 

Nel gennaio 2001 è stata predisposta la Guida alla sperimentazione dell’analisi di impatto della regolamentazione[650], quale strumento di supporto per gli operatori coinvolti in tale attività. In essa sono illustrati i passaggi logici in cui si articola l’AIR e sono contenute indicazioni operative da seguire.

La direttiva 21 settembre 2001 (Direttiva sulla sperimentazione dell’analisi d’impatto della regolamentazione sui cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni) ha integrato la precedente, al fine di estendere il campo di applicazione dell’AIR, anche attraverso la previsione di un percorso di formazione dei dipendenti pubblici all’uso dell’analisi stessa. La nuova direttiva ha avviato una nuova fase sperimentale che prevede, tra l’altro, l’individuazione dei referenti per l’AIR[651] (due per ciascuna amministrazione) e l’ampliamento del novero dei casi oggetto di sperimentazione.

 

L’art. 12 della legge di semplificazione per il 2001 (L. 229/2003[652]) ha esteso alle autorità amministrative indipendenti, cui la normativa attribuisce funzioni di controllo, di vigilanza o regolatorie, l’obbligo di dotarsi, nei modi previsti dai rispettivi ordinamenti, di metodi di analisi dell’impatto della regolamentazione per l’emanazione di atti di propria competenza e, in particolare, di atti amministrativi generali, di programmazione o pianificazione, e, comunque di regolazione (v. anche parte I, capitolo Autorità indipendenti).

 

L’art. 13, co. 8, del Codice delle comunicazioni elettroniche[653] stabilisce che L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni debba dotarsi, conformemente alle indicazioni della L. 50/1999 e delle direttive in materia di AIR, di forme o metodi di analisi dell’impatto della regolamentazione.

 

Nell’ambito della concreta applicazione degli strumenti indicati, si ricorda che non tutti i provvedimenti governativi risultano corredati dall’AIR e dall’ATN all’atto della loro presentazione al Parlamento. Occorre d’altra parte considerare che l’attività di valutazione dell’impatto della regolamentazione comporta costi elevati e tali da suggerirne un’applicazione limitata ai provvedimenti economicamente più rilevanti, così come avviene del resto in quei Paesi, come gli Stati Uniti, che hanno conseguito un’ampia esperienza in materia.

Si osserva peraltro che il Comitato per la legislazione, istituito a seguito delle riforme regolamentari del 1997 presso la Camera dei deputati, verifica costantemente la presenza delle relazioni in allegato ai disegni di legge ed agli schemi di atti normativi del Governo, formulando nell’ambito dei pareri specifici rilievi in proposito.

Le competenze del Dipartimento affari giuridici e legislativi

Il Dipartimento affari giuridici e legislativi (DAGL) è stato istituito con l’art. 16 del D.P.C.M. 4 agosto 2000 ed è attualmente disciplinato dall’art. 17 del D.P.C.M. 23 luglio 2002[654], che lo configura come struttura di supporto dell’attività di coordinamento del Presidente del Consiglio e di assistenza del Sottosegretario e del Segretario generale della Presidenza in riferimento all’attività normativa.

Al DAGL sono, inoltre, affidate diverse funzioni in ordine alla elaborazione dei testi normativi, tra le quali si ricordano quelle in materia di

§         istruttoria in ordine all’iniziativa legislativa del Governo ed agli emendamenti a disegni di legge;

§         cura della qualità dei testi normativi e degli emendamenti del Governo;

§         elaborazione delle metodologie in tema di AIR;

§         coordinamento e controllo dell’applicazione delle direttive del Presidente del Consiglio in materia di AIR;

§         introduzione delle relative procedure nelle pubbliche amministrazioni[655] e di formazione del relativo personale (in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione);

§         revisione tecnico-formale dei testi normativi, redazione di regole tecniche al riguardo, analisi e proposte di revisione e semplificazione dell’ordinamento legislativo esistente.

Le amministrazioni possono avvalersi, nella redazione dell’ATN e dell’AIR in tutte le relative fasi, del supporto tecnico del DAGL e, sino al 2002, anche del Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure. Il Nucleo è stato soppresso dall’art. 11 della L. 137/2002[656], che lo ha sostanzialmente sostituito con l’Ufficio per l’attività normativa ed amministrativa di semplificazione delle norme e delle procedure, incardinato nel Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio. La medesima norma ha stabilito che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, presso il medesimo Dipartimento, sono istituiti non più di due servizi, con il compito di provvedere all’applicazione dell’AIR.

I compiti dell’Ufficio per l’attività normativa ed amministrativa sono stati recentemente definiti dall’art. 13 del decreto del 5 novembre 2004[657] di organizzazione del Dipartimento della funzione pubblica. Ai sensi di tale disposizione, l’Ufficio tra l’altro coadiuva il ministro per la funzione pubblica nell’attività nell’ambito del Comitato di indirizzo per la guida strategica della sperimentazione dell’analisi dell’impatto della regolamentazione; presta supporto agli altri uffici del Dipartimento in ordine al corretto uso delle fonti, alla qualità della regolazione e degli atti normativi ed alla relativa istruttoria, nonché all’analisi dell’impatto della regolamentazione. L’Ufficio è articolato nel Servizio per la semplificazione normativa e amministrativa, per il riassetto normativo e per la qualità della regolazione, che ha specifiche competenze in materia di AIR.

I co. da 6-duodecies a 6-quaterdecies dell’art. 3 del del D.L. 35/2005[658], recante Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale (c.d. “decreto-legge sulla competitività”), hanno istituito, fino al 31 dicembre 2007, una Commissione presso il Dipartimento della funzione pubblica quale struttura di supporto al ministro nello svolgimento delle attività di propria competenza. Il testo non specifica la natura delle funzioni attribuite alla Commissione: tuttavia, nella relazione illustrativa del disegno di legge governativo A.C. 5736[659], la Commissione era definita “struttura di supporto al ministro” con funzioni di coordinamento volte a ricondurre ad unità i singoli interventi di semplificazione, riassetto e qualità della regolazione.

Più di recente, l’art. 10-bis, co. 2-4, del D.L. 203/2005[660] prevede che il Dipartimento per la funzione pubblica si avvalga, per un periodo massimo di quattro anni, di un contingente di personale pari a 30 unità, attingendo al tal fine al novero dei segretari comunali e provinciali in posizione di disponibilità. Finalità della disposizione è quella di rafforzare talune attività di competenza del Dipartimento tra le quali quelle attinenti alla semplificazione delle norme e delle procedure amministrative[661];

La disciplina introdotta dalla legge di semplificazione 2005

I commi da 1 a 11 dell’art. 14 della legge di semplificazione e riassetto normativo per il 2005 (L. 246/2005[662]) hanno portato a regime l’esperienza, sino allora sperimentale, dell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) disponendone l’applicazione obbligatoria e generalizzata. Essi hanno introdotto e disciplinato, inoltre, lo strumento della verifica di impatto della regolamentazione (VIR).

I primi tre commi recano la definizione dell’AIR (“valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo […] mediante comparazione di opzioni alternative”), ne individuano la funzione di supporto alle decisioni politiche e la prevedono come obbligatoria per tutti gli schemi di atti normativi del Governo, con talune eccezioni (v. infra).

Il comma 4 reca la definizione della verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR): “valutazione, anche periodica, del raggiungimento delle finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini, delle imprese e sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni”.

Il medesimo comma detta i tempi per l’effettuazione della VIR: dopo il primo biennio successivo alla data di entrata in vigore della legge oggetto di valutazione. Successivamente, la VIR è effettuata periodicamente a scadenze biennali.

Il comma 5 rimette a successivi D.P.C.M., da adottare nella forma di regolamenti ministeriali entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, la disciplina di dettaglio dell’AIR e della VIR, inclusa l’elencazione delle ipotesi di esenzione dall’AIR; il successivo comma 8 consente un’ulteriore ipotesi di esenzione disposta, in casi singoli, dal DAGL su motivata richiesta dell’amministrazione interessata. I metodi di analisi e di valutazione relativi ad AIR e a VIR sono rimessi dal comma 6 a direttive del Presidente del Consiglio dei ministri e soggetti a revisione almeno triennale.

I commi da 7 a 9 definiscono gli aspetti organizzativi della materia, prevedendo che l’AIR sia concretamente effettuata dall’amministrazione di volta in volta competente a presentare l’iniziativa normativa, che ne comunica i risultati al DAGL. Mentre a quest’ultimo sono attribuite funzioni generali di coordinamento, ciascuna amministrazione è tenuta a individuare al proprio interno (senza oneri aggiuntivi) un ufficio responsabile del coordinamento delle attività di propria competenza, e può avvalersi anche (se necessario) di esperti o di società di ricerca specializzate.

Ai sensi del comma 10 il Presidente del Consiglio dei ministri presenta, entro il 30 aprile di ogni anno, una relazione al Parlamento sullo stato di applicazione dell’AIR, sulla base degli elementi informativi forniti dalle singole amministrazioni al DAGL entro il precedente 31 marzo.

Il comma 11 abroga, infine, il sopra illustrato art. 5, co. 1, della L. 50/1999.


Semplificazione – La “norma taglialeggi”

L’abrogazione generalizzata di norme legislative

La legge di semplificazione e riassetto normativo per il 2005 (L. 246/2005[663]) ha introdotto, nel quadro delle misure volte al riordino e allo sfoltimento del corpus legislativo, una particolare procedura (denominata nel dibattito politico “norma taglialeggi”) avente quale specifica finalità l’abrogazione generalizzata ed “automatica” di provvedimenti legislativi ritenuti obsoleti.

La procedura è disciplinata nei commi da 12 a 24 dell’articolo 14 della legge. In sintesi, tale procedura prevede, al termine di una (già avviata) ricognizione delle leggi statali vigenti, l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative statali pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, con l’eccezione di quelle elencate al co. 17 dell’articolo e di quelle che siano ritenute indispensabili dal Governo con propri decreti legislativi.

Il procedimento si articola in tre fasi principali, rispettivamente destinate alla ricognizione della legislazione statale vigente, all’individuazione delle disposizioni legislative indispensabili anteriori al 1970 e all’abrogazione ipso iure delle rimanenti.

Prima fase: ricognizione della legislazione vigente

Il comma 12 del citato art. 14 definisce la prima fase della procedura, disponendo che il Governo, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della legge – cioè entro il 16 dicembre 2007[664] – individui le disposizioni legislative statali vigenti, evidenziando le incongruenze e le antinomie normative relative ai diversi settori legislativi e dandone conto in una relazione finale, da trasmettere al Parlamento entro il medesimo termine di 24 mesi.

Questa fase è espressamente finalizzata non solo all’applicazione del meccanismo “taglialeggi” ma in via generale all’attività di riordino normativo prevista dalla legislazione vigente. In essa, il Governo si avvale dei risultati dell’attività di informatizzazione della legislazione vigente, prevista dall’art. 107 della legge finanziaria 2001[665].

 

Tale articolo ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un fondo destinato al finanziamento di iniziative volte a:

§         promuovere l’informatizzazione e la classificazione della normativa vigente, al fine di facilitarne la ricerca e la consultazione gratuita da parte dei cittadini;

§         fornire strumenti per l’attività di riordino normativo.

Il fondo è stato dotato di 5 miliardi di lire (2,58 milioni di euro circa) per ciascuno degli anni dal 2001 al 2005; ulteriori finanziamenti possono essere attribuiti da soggetti pubblici e privati[666].

Il D.P.C.M. 24 gennaio 2003 (adottato previa intesa con i Presidenti delle due Camere) ha dato attuazione al citato art. 107 definendo il programma, le forme organizzative e le modalità di funzionamento del fondo.

Rientrano nel programma:

§         la compilazione del testo delle leggi statali e degli altri atti normativi emanati dallo Stato, quale risultante dalle modifiche e abrogazioni espresse;

§         la messa a disposizione gratuita dei relativi testi con strumenti informatici e telematici (anche mediante la realizzazione di appositi portali e siti Internet);

§         la classificazione della normativa vigente secondo parametri volti a favorire la ricerca per via informatica e telematica, e la predisposizione di un apparato critico atto ad individuare i profili di incompatibilità e le abrogazioni implicite;

§         lo studio e l’applicazione di strumenti e procedure avanzati di ricerca, nonché di trattamento informatico, marcatura e classificazione degli atti normativi, anche ai fini dell’istruttoria dell’attività di riordino normativo.

Le attività incluse nel programma sono definite in coordinamento con le iniziative già avviate in ambito istituzionale. Le Regioni sono coinvolte mediante appositi protocolli d’intesa. La realizzazione è affidata a progetti proposti da organi costituzionali, dalle pubbliche amministrazioni, da privati o anche da soggetti appositamente costituitisi in collaborazione tra enti pubblici e privati.

Un Comitato guida, formato dai segretari generali della Camera, del Senato e della Presidenza del Consiglio o da loro delegati e operante sulla base delle direttive del Presidente del Consiglio e dei Presidenti delle due Camere, determina gli indirizzi generali e verifica lo stato di attuazione del programma; l’attività preparatoria è curata dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri (DAGL) tramite un gruppo di lavoro costituito da personale designato dalla Presidenza del Consiglio, dalla Camera e dal Senato. L’esecuzione del programma è affidata al DAGL, al Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie ed alle altre strutture di cui si avvale il ministro per l’innovazione e le tecnologie.

Seconda fase: individuazione delle disposizioni legislative indispensabili anteriori al 1970 e semplificazione o riassetto delle relative materie

I commi 14 e 15 recano una delega legislativa al Governo avente ad oggetto l’individuazione delle disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970 (anche se modificate da provvedimenti successivi), “delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore”. L’attuazione di tale delega costituisce la seconda fase del progetto, ed è destinata a svolgersi entro i 24 mesi successivi alla conclusione della prima fase (dunque non oltre il 16 dicembre 2009).

 

Si osserva che, in virtù del combinato disposto del co. 14 e dei successivi co. 16 e 17, lett. g) (v. infra), la delega per l’individuazione delle norme “indispensabili” consentirà al Governo di determinare, a contrario, l’abrogazione generalizzata di tutte le disposizioni legislative statali che il Governo medesimo non avrà ritenuto “indispensabili”, indipendentemente dalla materia trattata, purché anteriori al 1° gennaio 1970 e non comprese tra le eccezioni di cui al co. 17, lett. a)-f)).

 

Oggetto della delega non è tuttavia la sola individuazione delle disposizioni ritenute indispensabili, ma anche la semplificazione o il riassetto della materia che ne è oggetto. Alla duplicità dell’oggetto della delega corrispondono due serie di princìpi e criteri direttivi.

 

Quelli relativi all’individuazione delle disposizioni indispensabili sono i seguenti:

§         esclusione delle disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita (co. 14, lett. a));

§         esclusione delle disposizioni che abbiano esaurito o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete (co. 14, lett. b));

§         identificazione delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali dei cittadini (co. 14, lett. c));

§         identificazione delle disposizioni indispensabili per la regolamentazione di ciascun settore, anche utilizzando a tal fine le procedure di analisi e verifica dell’impatto della regolazione (co. 14, lett. d));

§         organizzazione delle disposizioni da mantenere in vigore per settori omogenei o per materie, secondo il contenuto precettivo di ciascuna di esse (co. 14, lett. e));

§         garanzia della coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa (co. 14, lett. f));

§         identificazione delle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe effetti anche indiretti sulla finanza pubblica (co. 14, lett. g));

§         rispetto dell’art. 1, co. 2, della L. 131/2003[667] (c.d. “legge La Loggia”): tale comma, finalizzato ad evitare incertezze o vuoti normativi nella prima fase di attuazione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, ha previsto che le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuino ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia[668] (co. 14, alinea).

I princìpi e criteri direttivi per la semplificazione o il riassetto normativo nelle materie oggetto delle disposizioni individuate come indispensabili sono (co. 15) quelli di cui all’art. 20 della L. 59/1997[669], come modificato dalle leggi di semplificazione 2001 (L. 229/2003) e 2005. Su di essi, si rinvia alla scheda Semplificazione – Il processo di codificazione.

Il riassetto ha anche la finalità di “armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente al 1° gennaio 1970”. Va al riguardo considerato che l’intervento qui illustrato è destinato ad aggiungersi e in parte a sovrapporsi alle numerose misure di riassetto normativo, di portata generale o settoriale, avviate negli ultimi anni, alcune delle quali in corso di attuazione, e a quelle che prevedibilmente conterranno le future leggi di semplificazione.

La Commissione bicamerale

Al pari di alcuni tra i princìpi e criteri direttivi, anche le modalità per l’adozione dei decreti legislativi sono quelle previste dall’art. 20 della L. 59/1997, nel testo novellato.

 

I decreti sono dunque emanati su proposta del ministro competente, di concerto con il Presidente del Consiglio o il ministro per la funzione pubblica, con i ministri interessati e con il ministro dell’economia e delle finanze, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali. È altresì richiesto il parere del Consiglio di Stato, da esprimere entro 90 giorni dal ricevimento della richiesta.

 

Ai fini dell’espressione del parere parlamentare sugli schemi di decreto, tuttavia, i commi da 19 a 24 dell’art. 14 istituiscono un’apposita Commissione parlamentare, composta da venti deputati e altrettanti senatori, nominati dai Presidenti delle due Camere nel rispetto del criterio di proporzionalità.

 

Il parere è espresso dalla Commissione entro 30 giorni dalla trasmissione degli schemi di decreto. Il termine è prorogabile una sola volta per 20 giorni; non è computato il periodo di sospensione estiva dei lavori parlamentari. Trascorso inutilmente il termine, “il parere si intende espresso favorevolmente”.

Se il termine scade nei 30 giorni che precedono la scadenza del termine per l’esercizio della delega, quest’ultimo è prorogato di 90 giorni.

Si prevede inoltre l’espressione di un secondo parere qualora il Governo non ritenga di accogliere le eventuali condizioni poste nel primo dalla Commissione.

 

Oltre a quella consultiva, sono attribuite alla Commissione ulteriori funzioni:

§         verifica periodicamente lo stato di attuazione del procedimento per l’abrogazione generalizzata di norme, riferendone ogni sei mesi alle Camere;

§         esercita i compiti di cui all’art. 5, co. 4, della L. 59/1997: in altre parole, essa prende il posto – a decorrere dall’inizio della XV legislatura – della preesistente Commissione parlamentare consultiva in ordine all’attuazione della riforma amministrativa prevista dalla “legge Bassanini 1”.

Terza fase: abrogazione generalizzata della legislazione anteriore al 1970; interventi integrativi e correttivi

La terza fase del procedimento è fissata, dal comma 16, alla scadenza del termine per l’esercizio della delega di cui al co. 14, cioè alla fine del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore della legge.

Decorso quel termine (16 dicembre 2009), tutte le disposizioni legislative statali pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970 risulteranno abrogate.

Si tratta di un’abrogazione generalizzata e innominata, che:

§      ha luogo ipso iure, senza necessità, cioè, di successivi atti ricognitivi o di conferma;

§      è indipendente dall’esercizio della delega di cui al co. 14: interviene cioè in ogni caso, siano o meno entrati in vigore i decreti (o tutti i decreti) attuativi della delega;

§      ha ad oggetto anche le disposizioni legislative novellate (integralmente o parzialmente) da provvedimenti successivi al 1° gennaio 1970, se l’atto originario sia stato pubblicato prima di tale data.

Il comma 17 esclude dall’abrogazione, oltre alle disposizioni “indispensabili” individuate nei decreti legislativi di cui al co. 14 (co. 17, lett. g)), anche altre categorie di norme.

 

Si tratta delle disposizioni legislative statali:

§         contenute nei codici civile, penale, di procedura civile e penale e della navigazione, nelle relative disposizioni preliminari e di attuazione, e in ogni altro testo normativo che rechi nell’epigrafe l’indicazione “codice” ovvero “testo unico” (co. 17, lett. a));

§         concernenti l’ordinamento degli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, l’ordinamento delle magistrature e dell’Avvocatura dello Stato e il riparto della giurisdizione (co. 17, lett. b));

§         contenute nei decreti legislativi che, ai sensi dell’art. 1, co. 4, della “legge La Loggia” (L. 131/2003: v. scheda Titolo V e norme di attuazione), opereranno la ricognizione dei princìpi fondamentali della legislazione statale nelle materie di competenza concorrente delle Regioni[670] (co. 17, lett. c));

§         che costituiscano adempimento di obblighi comunitari o che abbiano autorizzato la ratifica di trattati internazionali (co. 17, lett. d));

§         in materia tributaria e di bilancio, nonché quelle “concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco” (co. 17, lett. e));

§         in materia previdenziale e assistenziale (co. 17, lett. f)).

 

Da ultimo, il comma 18 consente al Governo di adottare disposizioni integrative o correttive dei decreti legislativi adottati, entro due anni dalla data di entrata in vigore dei medesimi (cioè, al più tardi, entro sei anni dall’entrata in vigore della legge): i relativi decreti legislativi sono adottati nel rispetto degli stessi princìpi e criteri direttivi e previo parere della menzionata Commissione bicamerale.


Servizi pubblici locali – Le norme del Testo unico enti locali

La disciplina generale dei servizi pubblici locali, risultante dalle innovazioni introdotte nel corso della XIV legislatura (v. parte I, capitolo Disciplina dei servizi pubblici locali), è contenuta principalmente nel testo unico delle disposizioni in materia di enti locali adottato con il decreto legislativo 267/2000[671].

La normativa prevede un diverso regime tra la gestione dei servizi di rilevanza economica (art. 113) e di quelli privi di rilevanza economica (art. 113-bis).

Tuttavia, occorre precisare fin d’ora che le disposizioni dell’art. 113-bis del testo unico (introdotto dall’art. 35 della L. 448/2001[672], legge finanziaria per il 2002) sono state giudicate illegittime dalla Corte costituzionale (sentenza n. 272/2004; vedi oltre). Pertanto, solamente i servizi pubblici di rilevanza economica risultano disciplinati a livello statale.

Ambito di applicazione

L’articolo 113 disciplina la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Quanto alla definizione di servizi di rilevanza economica essa si può desumere indirettamente dall’art. 2082 del codice civile che definisce l’imprenditore come colui che esercita “un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.

L’introduzione di tale definizione si deve all’art. 14 del D.L. 269/2003[673], che ha sostituito la precedente distinzione tra servizi di rilevanza industriale e servizi privi di rilevanza industriale.

La novella accoglie uno dei rilievi alla base della procedura d’infrazione attivata da parte della Commissione europea (v. parte I, capitolo Disciplina dei servizi pubblici locali).

 

La Commissione aveva infatti eccepito che la qualificazione di alcune categorie di servizi pubblici come “servizi privi di rilevanza industriale” non avrebbe potuto comunque avere l’effetto di sottrarre l’affidamento di tali servizi alle regole comunitarie in materia di appalti e di concessioni. In tal senso, la separazione fra una disciplina dei servizi pubblici di rilevanza economica (art. 113 del TU) e una disciplina dei servizi pubblici “privi di rilevanza economica” (art. 113-bis del TU) appare più coerente con i principi del diritto comunitario, che comprende nell’ambito delle proprie norme tutte le attività economiche di prestazione di beni e servizi (art. 50 del Trattato), sottoponendole – in quanto tali – al rispetto delle norme e dei principi del Trattato.

 

Il comma 1 dell’art. 113 definisce l’ambito di applicazione delle disposizioni successive, specificando che esse:

§      si applicano ai servizi pubblici locali di rilevanza industriale;

§      concernono la tutela della concorrenza;

§      sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore afferenti ai servizi pubblici locali;

§      lasciano ferme le disposizioni prevista per i singoli settori;

§      lasciano ferme le disposizioni necessarie all’attuazione di specifiche normative comunitarie in materia;

§      non si applicano ai settori dell’energia elettrica e del gas (disciplinati, rispettivamente, dal D.Lgs. 79/1999[674] e dal D.Lgs. 164/2000[675]).

Successivamente, anche il settore del trasporto pubblico locale è stato escluso espressamente dal regime generale dei servizi pubblici locali (art. 1, comma 48, della L. 308/2004[676], che aggiunge un comma 1-bis all’art. 113 del testo unico; lo stesso art. 1, co. 48, ha sottratto al regime generale anche gli impianti di trasporti a fune nelle località turistiche montane).

Pertanto, le maggiori attività di erogazione di servizi pubblici locali (elettricità, gas e trasporto pubblico locale) sono esclusi dall’ambito di applicazione delle norme del testo unico.

 

In proposito, si pone anche il problema del rapporto tra norme statali e legislazione regionale. Infatti, nel nuovo art. 117 della Costituzione la disciplina dei servizi pubblici locali non è compresa né tra le competenze esclusive dello Stato, né fra quelle concorrenti, e pertanto parrebbe da considerarsi di competenza piena (residuale) delle regioni.

La Corte costituzionale, con la (sentenza n. 272/2004) ha contribuito a chiarire in modo significativo sia il rapporto tra normativa generale e normativa di settore, sia quello tra competenza legislativa statale e competenza legislativa regionale.

Secondo la Corte la disciplina dei servizi pubblici locali “può essere agevolmente ricondotta nell’ambito della materia tutela della concorrenza, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato”. La stessa Corte, secondo un indirizzo giurisprudenziale costante, dà, inoltre, una interpretazione ampia del principio della tutela della concorrenza, concernente oltre alla tutela vera e propria anche l’adozione di misure di promozione della concorrenza stessa. Tutela e promozione sono dunque gli ambiti di manovra legittimi per il legislatore statale, che non possono essere derogati né dalle regioni, né dalle norme settoriali.

Centrale, sotto questo profilo, è la dichiarazione, contenuta nell’art. 14 di modifica del comma 1 dell’art. 113 del testo unico, secondo cui le disposizioni sulle modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica “concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore”. Tale disposizione per la Corte: “si può dunque sostanzialmente considerare una norma-principio della materia, alla cui luce è possibile interpretare il complesso delle disposizioni in esame nonché il rapporto con le altre normative di settore, nel senso cioè che il titolo di legittimazione dell’intervento statale in oggetto è fondato sulla tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e che la disciplina stessa contiene un quadro di principi nei confronti di regolazioni settoriali di fonte regionale”.

La proprietà e la gestione delle reti

La proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni, destinati all’esercizio dei servizi pubblici di rilevanza economica deve comunque rimanere pubblica (art. 113, co. 2).

Agli enti locali è rimessa la scelta tra il possesso diretto delle reti ovvero il loro conferimento a società di capitali delle quali, in ogni caso, debbono detenere la maggioranza.

Infatti, in alternativa al controllo diretto, il comma 13 dell’articolo 113 prevede che gli enti locali possono conferire la proprietà delle reti degli impianti e delle altre dotazioni a società a capitale interamente pubblico, che è incedibile. Queste società a loro volta pongono le reti a disposizione di gestori del servizio a fronte del pagamento di un canone. La quantificazione del canone è demandata alla Autorità nazionale di settore, ove costituita, come per esempio nel settore dell’elettricità e del gas, ovvero, in assenza all’ente locale.

Per l’individuazione dei casi in cui l’attività di gestione delle reti e degli impianti può essere separata dall’attività di erogazione dei servizi l’art. 113 fa rinvio alle discipline di settore (comma 3). Si afferma, inoltre, il principio per cui deve comunque essere garantito l’accesso alla rete a tutti gli operatori legittimati all’erogazione dei relativi servizi. In sostanza, il testo non stabilisce alcuna preferenza in ordine al contestuale svolgimento, da parte di un medesimo soggetto, dell’attività di gestione delle reti e dello svolgimento del servizio.

Nel caso di separazione fra attività di gestione delle infrastrutture e attività di erogazione dei servizi (comma 4), l’ente locale può affidare la gestione delle reti e delle infrastrutture secondo due modalità:

§         affidamento diretto a società di capitali interamente pubbliche secondo la procedura in house (vedi oltre);

§         gara pubblica.

Va peraltro segnalata un’ulteriore disposizione in materia di gestione delle reti; si tratta, in particolare, della previsione di cui all’ultimo periodo del comma 13 dell’art. 113,in base al quale gli enti locali possono decidere di assegnare la gestione stessa alle società cui i medesimi enti hanno la facoltà di conferire le reti e gli impianti. Si ricorda che la maggioranza del capitale di tale facoltà deve in ogni caso essere detenuta dagli stessi enti locali.

 

La legge finanziaria 2004 (art. 4, co. 234, lett. a) ha integrato la disciplina sopra esposta.

Il testo del nuovo comma 5-ter dispone sull’esecuzione dei lavori connessi alla gestione della rete secondo tre diverse modalità a seconda che la gestione della rete (separata o integrata con la gestione dei servizi) sia stata o meno affidata con gara ad evidenza pubblica, o che la gara abbia avuto ad oggetto esclusivamente la gestione del servizio relativo alla rete.

§         Qualora la gestione della rete sia stata affidata senza gara, i gestori provvedono all’esecuzione dei relativi lavori:

-       con appalti o concessioni con procedure di evidenza pubblica,

-       ovvero in economia nei limiti di cui all’art. 24 della legge 11 febbraio 1994 n. 109[677] e all’art. 143 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554[678].

§         Qualora la gestione della rete sia stata affidata con gara, il gestore può realizzare direttamente i relativi lavori a due condizioni:

-       che sia qualificato ai sensi della normativa vigente e

-       che la gara abbia compreso – oltre al servizio relativo alla rete – anche l’esecuzione dei lavori connessi.

§         Qualora, invece, la gara abbia compreso solo il servizio relativo alla rete, il gestore deve appaltare i lavori a terzi con le procedure ad evidenza pubblica;

L’erogazione dei servizi

Il comma 5 dell’articolo 113 reca le disposizioni volte a liberalizzare il mercato dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale.

In particolare, viene definito il tipo di concorrenza che si può applicare al settore. In particolare, piuttosto che imporre l’introduzione di forme di concorrenza nel mercato (ossia la contemporanea presenza nel mercato di una molteplicità di soggetti fornitori dei medesimi servizi, con la possibilità da parte degli utenti di scegliere indifferentemente a quale di essi ricorrere), viene prospettata la necessità di assicurare la concorrenza per il mercato, attraverso il conferimento della titolarità del servizio, che viene esercitato in regime di monopolio, ma attraverso l’espletamento di gare di evidenza pubblica, alle quali tutti gli operatori (pubblici e privati) partecipano su un piano di parità.

L’art. 35 della legge 448 individuava una sola modalità di esercizio dell’attività di erogazione dei servizi pubblici locali: affidamento a società di capitali mediante procedure di evidenzia pubblica.

L’art. 14 del decreto legge 269 ha ampliato le forme di affidamento prevedendo due ulteriori possibilità:

§         affidamento a società a capitale misto pubblico-privato;

§         affidamento in house a società a capitale interamente pubblico alle condizioni viste sopra per la gestione delle infrastrutture

 

Per quanto riguarda la scelta della società di capitali, la norma si inserisce in un processo normativo che ha progressivamente individuato strumenti operativi per favorire, nella gestione dei servizi pubblici locali, la forma societaria. Con la L. 142/1990 (art. 22) per la prima volta si individua la società per azioni, sia pure a prevalente proprietà pubblica (le cosiddette società miste), tra le forme di gestione dei servizi pubblici locali accanto a forme tipiche del diritto pubblico (concessione, azienda speciale, istituzione ecc.). Nel decennio successivo l’ordinamento si muove in due direzioni. Da un lato si amplia e si fa più articolato il ricorso a istituti di diritto privato: introduzione tra le forme di gestione della società per azioni non a maggioranza pubblica (art 12, L. 498/92) e della società a responsabilità limitata (art. 17, comma 58, L. 127/97); dall’altro, si moltiplicano gli incentivi ad utilizzare tali istituti: tra questi si ricordano l’esenzione tributarie per i trasferimenti di beni effettuati dagli enti locali a favore delle società miste (D.L. 6/1991, conv. L. 80/1991), la definizione di una disciplina dettagliata per la costituzione delle società miste a prevalente capitale privato (D.P.R. 533/1996), la semplificazione delle procedure di trasformazione delle aziende speciali in società per azioni (art. 17, co. 48 e 51-58, L. 127/1997).

L’art. 35 della legge 448 porta a compimento tale percorso con l’individuazione della società di capitali come unica forma di gestione dei servizi pubblici locali e con il conseguente obbligo delle aziende speciali di trasformarsi in società di capitali[679] (vedi oltre: comma 8).

 

Il riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, ai fini dell’individuazione del soggetto idoneo, rende applicabili alla ipotesi in esame le norme di cui alla direttiva CEE n. 50 del 1992, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di servizi, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 157/1995, ora confluito nel D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.

 

Di particolare rilievo, l’innovazione introdotta dall’art. 14 del D.L. 269, che prevede la possibilità di affidare l’erogazione dei servizi a società a capitale pubblico sul quale l’ente pubblico proprietario vi eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente pubblico che la controllo (c.d. affidamento in house). Tale tipologia di affidamento è espressamente esclusa dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006, art. 15).

 

Per quanto riguarda questa particolare modalità di esercizio dei servizi pubblici locale è opportuno richiamare la circolare del Dipartimento politiche comunitarie 1° marzo 2002, n. 3944 Procedure di affidamento delle concessioni di servizi e di lavori (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3 maggio 2002) dove viene chiarito che “la normativa europea in tema di appalti pubblici, in particolare di servizi, non trova applicazione (e pertanto l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito anche senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte dalle norme comunitarie) solo quando manchi un vero e proprio rapporto giuridico tra l’ente pubblico e il soggetto gestore, come nel caso, secondo la terminologia della Corte di giustizia, di delegazione interorganica o di servizio affidato, in via eccezionale, in house (cfr. Corte di giustizia, sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal). In altri termini, quando un contratto sia stipulato tra un ente locale ed una persona giuridica distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa nel caso in cui l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. Segnatamente, ad avviso delle istituzioni comunitarie per controllo analogo s’intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. In detta evenienza, pertanto, l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito senza ricorrere alla procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate. Al contrario, ove non ricorra un siffatto controllo gestionale ed economico dell’ente pubblico sul soggetto gestore ma l’affidamento riguardi un servizio in cambio della gestione dello stesso come corrispettivo (e dunque configuri, secondo l’interpretazione della commissione, una concessione di servizi) l’aggiudicazione del servizio deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi comunitari di trasparenza e di parità di trattamento che impongono la necessità di seguire procedure di evidenza pubblica”.

 

Le normative di settore possono introdurre regole che assicurino la concorrenzialità nella gestione dei servizi, al fine di superare assetti monopolistici, prevedendo criteri di gradualità nella scelta della modalità di conferimento del servizio. (comma 5-bis dell’art. 113 TU, introdotto dalla legge 350/2003. legge finanziaria 2004 (art. 4, comma 234, lett. a)).

Viene fatto salvo il rispetto delle disposizioni di cui al comma 5 che rinvia alle discipline di settore e prevede una triplice possibilità di conferimento della titolarità del servizio (società di capitali individuate con evidenza pubblica; società a capitale misto pubblico privato alle condizioni previste; affidamento c.d. “in house”).

Il comma 6 dell’art. 113 individua alcuni casi di esclusione dalla partecipazione alle gare.

Si tratta, in particolare:

§         delle società che gestiscono, anche all’estero e a qualunque titolo servizi pubblici locali in affidamento diretto o a seguito di una procedura non a evidenza pubblica o a seguito dei relativi rinnovi;

§         delle società di gestione delle reti, qualora le discipline di settore stabiliscano la separazione tra l’attività di gestione delle reti e quella di erogazione del servizio (si veda sopra: commi 3 e 4).

Tali divieti sono estesi anche alle società controllate e collegate.

 

Per quanto concerne la nozione di controllo delle imprese, Il codice civile reca una definizione riferita alle società per azioni (art. 2359 c.c.). Sono società controllate:

§         le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (si tratta del c.d. controllo di diritto);

§         le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

§         le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Nei primi due casi si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; ma non i voti spettanti per conto di terzi.

Si definiscono collegate, invece, le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. Si presume l’influenza quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

Tale disciplina è stata integrata dalla legge istitutiva dell’Autorità anti-trust che ha ampliato ed approfondito il concetto di controllo ai fini dei compiti istituzionali dell’Autorità, volti a tutelare il diritto di iniziativa economica (L. 287/1990, art. 7). Per questi fini si ha controllo, oltre che nei casi contemplati dall’articolo 2359 c.c., in presenza di diritti o contratti che conferiscono la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, anche attraverso: diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un’impresa, diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un’impresa. Il controllo si estende anche alle persone o imprese che, pur non essendo titolari di tali diritti o contratti, abbiano il potere di esercitare i diritti che ne derivano.

 

La legge individua alcuni criteri e modalità per lo svolgimento delle gare di affidamento (art. 113, comma 7). In particolare:

§         le gare devono essere indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza, definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali;

§         le gare sono aggiudicate sulla base del migliore livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani di investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale.

Il secondo criterio individuato dall’art. 113 è stato giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 272/2004: “L’estremo dettaglio nell’indicazione di questi criteri, […] va al di là della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara […]. È evidente quindi che la norma in esame, prescrivendo che deve considerarsi integrativa delle discipline settoriali di fonte regionale la disposizione estremamente dettagliata ed autoapplicativa di cui al citato art. 113, comma 7, pone in essere una illegittima compressione dell’autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza l’intervento legislativo statale”.

 

La possibilità di gestire più servizi pubblici integrati da parte di una sola impresa (c.d. multiutility) è contemplata dal comma 8 dell’art. 113, che ammette esplicitamente la possibilità di affidare più servizi con unica gara se ciò risulti economicamente più vantaggioso. Sono esclusi i servizi di trasporto. La durata dell’affidamento è unica per tutti i servizi e non può essere superiore alla media calcolata sulla base della durata degli affidamenti indicata dalle discipline di settore.

Il comma 9 dell’art. 113disciplina gli effetti della scadenza del periodo di affidamento e gli esiti delle gare di affidamento. In tali casi le reti, gli impianti e le altre dotazioni, di proprietà degli enti locali sono affidate al nuovo gestore. Si prevede, inoltre, che al nuovo gestore vengano trasferite le infrastrutture realizzate dal gestore uscente in attuazione dei piani di investimento e che venga riconosciuto un indennizzo pari al valore dei beni non ancora ammortizzati, il cui ammontare è indicato nel bando di gara.

Il comma 10 dell’art. 113 afferma il principio della parità di trattamento, in primo luogo sotto il profilo tributario, dei gestori di pubblici servizi. Si stabilisce, infatti, il divieto di introdurre regimi differenziati, anche con riferimento all’eventuale concessione di contributi o agevolazioni per lo svolgimento del servizio. La disposizione ha carattere generale, riferendosi a concessioni “da chiunque dovute”. Si può peraltro osservare che proprio il richiamo ad un obbligo di corrispondere contribuzioni o agevolazioni sembra riferirsi a rapporti ovvero a disposizioni preesistenti. In forza di tali disposizioni, non sarebbero ammissibili discriminazioni derivanti dalla diversa forma giuridica adottata dal soggetto erogatore del servizio.

Il comma 11 dell’art. 113 stabilisce che i rapporti tra società di erogazione del servizio e di gestione delle reti e degli impianti, da un lato, e gli enti locali, dall’altro, sono regolati da contratti di servizio allegati ai capitolati di gara. Detti contratti devono prevedere sia i livelli dei servizi da garantire, sia adeguati strumenti di controllo del rispetto di tali livelli.

 

Il contratto di servizio costituisce uno strumento innovativo per la regolazione dell’esercizio dei servizi di interesse pubblico che segna, in sostanza, il passaggio dal regime concessorio a quello negoziale.

Esso è stato inizialmente introdotto nel settore del trasporto pubblico locale con il Regolamento 1191/69/CEE così come modificato dal 1893/91/CEE.

In seguito, l’utilizzo di tale strumento è stato esteso anche agli altri settori dei servizi pubblici locali con il D.L. n. 26 del 1995 (L. n. 95 del 1995) che all’articolo 5 (ora articolo 114, comma 8, del testo unico degli enti locali) prevede la stipulazione di un contratto di servizio per disciplinare i rapporti tra ente locale ed azienda speciale.

Caratteristiche essenziali del contratto di servizio sono le seguenti:

§         previsione di una disciplina degli obblighi propri dei soggetti erogatori del servizio;

§         previsione di un corrispettivo per gli obblighi di servizio.

Il D.Lgs. 422/97 di disciplina del trasporto pubblico locale ha dato una compiuta definizione dei contenuti dei contratti di servizio che devono prevedere:

§         il periodo di validità;

§         le caratteristiche dei servizi offerti;

§         gli standard qualitativi minimi del servizio;

§         la struttura tariffaria;

§         gli oneri di servizio e le modalità di adeguamento della struttura tariffaria;

§         le modalità di revisione ed adeguamento del contratto stesso.

 

Il comma 12 dell’art. 113 disciplina la cessione da parte dell’ente locale delle partecipazioni nella società di capitali alla quale sia stata affidata l’erogazione dei servizi pubblici, disponendo che tale cessione non ha effetti in merito alla durata delle concessioni e degli affidamenti. La cessione non comporterebbe, quindi, alcuna soluzione di continuità relativamente ai rapporti in essere.

Si segnala inoltre che il comma 10 dell’articolo 35 della legge 448/2001, subordina la facoltà di cedere le partecipazioni nelle società erogatrici di servizi allo scorporo (disciplinato dal comma 9 dello stesso art. 35) delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni per l’esercizio dei servizi pubblici locali.

Le disposizioni in esame, che intervengono in ordine alle conseguenze della dismissione della partecipazione di controllo da parte dell’ente locale, sono dettate dall’esigenza di favorire la privatizzazione delle imprese pubbliche, senza che questo comporti un immediato obbligo di procedere ad un nuovo affidamento.

 

Come si è visto sopra (comma 3) l’articolo 113 affida alle discipline di settore il compito di stabilire la separazione o meno tra gestione delle reti ed erogazione del servizio che utilizza le medesime reti. Il comma 14 dell’art. 113 stabilisce che qualora le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali per la gestione di servizi di rilevanza industriale siano di proprietà di soggetti diversi rispetto agli enti locali, questi soggetti possono gestire i servizi solo a condizione che vengano rispettati gli standard qualitativi, quantitativi ambientali e di sicurezza stabiliti, ai sensi del comma 7 dell’art. 113, da parte dell’Autorità di settore o dagli enti locali e che siano praticate tariffe non superiori alla media regionale.

Altre disposizione in materia di servizi pubblici locali

L’art. 35 della legge 448 contiene altre disposizioni in materia di servizi pubblici locali non inserite nel testo unico.

Il comma 6stabilisce che nel caso in cui le specifiche discipline di settore prevedono la gestione sovracomunale del servizio, i soggetti affidatari del servizio stipulano apposite convenzioni con i comuni di dimensione demografica inferiore a 5.000 abitanti anche al fine di assicurare il rispetto di standard adeguati di erogazione del servizio. In caso di inosservanza di tali standard da parte degli gestori operanti nel territorio del comuni di minore dimensione, i soggetti competenti all’affidamento del servizio nell’ambito sovracomunale provvedono alla revoca dell’affidamento in corso sull’intero ambito.

Il comma 7 prevede che al termine dell’affidamento, le imprese concessionarie reintegrano gli enti locali del possesso delle reti, degli impianti e delle infrastrutture utilizzate per la gestione dei servizi.

Il comma 8 prevede la trasformazione, entro il 30 giugno 2003, delle aziende speciali e dei consorzi che gestiscono servizi di rilevanza industriale in società di capitali. Si ricorda infatti che l’art. 113, comma 5, prevede che l’erogazione di tali servizi avvenga con conferimento a società di capitali.

Per quanto riguarda le modalità di trasformazione, si rinvia alle disposizioni contenute nell’articolo 115 del testo unico. Si tratta di norme di semplificazione delle procedure di trasformazione, introdotte dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 (art. 17, commi 48 e 51-58), poi confluite nel testo unico.

 

Ai sensi dell’articolo 115 del testo unico (come modificato dal medesimo art. 35 dlela legge 448) le province e i comuni possono trasformare le aziende speciali e i consorzi in società di capitali con “atto unilaterale”, con l’unico obbligo da parte degli enti locali medesimi di non rimanere azionisti unici per più di due anni dalla trasformazione, e di aprire le società alla partecipazione di altri soggetti, anche privati. Tali società possono essere costituite anche ai fini della loro privatizzazione ai sensi del D.L. 332/94. Inoltre, viene lasciata aperta anche la possibilità della trasformazione parziale dell’azienda speciale mediante la sua scissione e il conferimento di un ramo aziendale ad una nuova società.

 

In attuazione del principio di separazione tra proprietà delle reti (pubblica) e gestione del servizio (in concorrenza), il comma 9, prevede che gli enti locali debbano provvedere a scorporare dalle società di cui detengano la maggioranza del capitale che, alla stessa data, gestiscano servizi pubblici locali e siano titolari delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, le medesime infrastrutture e dotazioni e il loro contestuale conferimento ad una nuova società di capitali, di cui gli enti locali detengano la maggioranza, a cui è affidata esclusivamente la proprietà delle reti e impianti.

La norma appare orientata alla creazione dei presupposti della privatizzazione del settore, anche in considerazione che il successivo comma 10 subordina, come già ricordato, la facoltà da parte degli enti locali di cedere le partecipazioni nelle società erogatrici di servizi solo successivamente alle operazioni di scorporo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni per l’esercizio dei servizi pubblici locali.

Ai sensi del comma 11, in deroga alle disposizioni recate all’articolo 113, comma 2, del testo unico sugli enti locali, come sostituito dal comma 1, è consentita la cessione, totale o parziale, della partecipazione detenuta dagli enti locali nelle società erogatrici di servizi che siano proprietarie anche delle reti e degli impianti, senza l’obbligo del preventivo scorporo, nel caso in cui le medesime società siano già quotate in borsa ovvero quando si tratti di società la cui quotazione sia stata già deliberata dagli enti locali alla data del 1° gennaio 2002, fermo restando che il relativo procedimento deve concludersi entro il 31 dicembre 2003.

In tal caso si prevede la costituzione di un diritto di uso perpetuo e inalienabile a favore degli enti locali, ai sensi dell’articolo 1021 del codice civile, sulle reti, sugli impianti e sulle altre dotazioni patrimoniali ai fini della loro assegnazione al nuovo gestore delle reti a seguito della gara di affidamento successiva alla scadenza dell’affidamento.

In altre parole, le società di cui sopra mantengono la proprietà delle reti, l’affidamento per l’erogazione del servizio e, se la normativa di settore lo consente anche la gestione delle reti (vedi comma 3 del nuovo articolo 113). Una volta che l’affidamento della gestione delle reti o – nel caso di non separazione tra gestione delle reti e erogazione del servizio – dell’erogazione del servizio è scaduto, l’ente locale provvede all’affidamento della gestione delle reti, unitamente o meno alla gestione del servizio, attraverso gara pubblica. L’esito della gara può portare all’individuazione di un soggetto diverso dalle società di cui sopra, le quali sono tenute a cedere la gestione delle reti in virtù del diritto di uso sopra richiamato.

Il proprietario, nel caso si verifichi l’ipotesi di cui sopra di affidamento della gestione delle reti ad un soggetto diverso, rimane titolare del diritto della percezione di un canone.

La gestione dei servizi privi di rilevanza industriale

Per i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, non sussistendo particolari esigenze di tutela della concorrenza, la legge non ha previsto stringenti disposizioni volte all’apertura al mercato.

L’art. 113-bis del testo unico, aggiunto dall’art. 35 della legge 448, si limita a stabilire due possibili forme di gestione dei servizi non rilevanti:

§      l’affidamento diretto (tramite istituzioni, aziende speciali, o società di gestione in house) e

§      la gestione in economia.

 

Come anticipato all’inizio, le disposizioni dell’art. 113-bis sono state giudicate illegittime dalla Corte costituzionale nella più volte citata sentenza n. 272/2004 proprio in considerazione della non rilevanza ai fini economici dei servizi pubblici oggetto della norma. Essendo prive di rilevanza economica, a tali attività non sono applicabili criteri concorrenziali. Dal momento che la Corte giustifica l’intervento del legislatore statale nel settore dei servizi pubblici locali esclusivamente per gli aspetti di tutela della concorrenza, mentre la disciplina dei servizi di rilevanza industriale sono di competenza statale, quelli che sono privi di tale rilevanza rientrano nelle competenze delle autonomie territoriali.

 


Ordine pubblico e sicurezza;
forze di polizia; protezione civile

 


 

Forze di polizia – Personale direttivo e dirigente

Nel corso della XIV legislatura è stato adottato il D.Lgs. 477/2001[680], con il quale sono state apportate modifiche di rilievo al D.Lgs. 334/2000[681], in materia di personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato.

 

Si ricorda che il settore è stato oggetto di un complessivo riordino nella XIII legislatura ad opera in primo luogo della L. 78/2000[682] che ha conferito, tra l’altro, una norma di delega al Governo per adottare uno o più decreti legislativi di revisione dell’ordinamento del personale della Polizia di Stato, specificamente rivolta al riordino dei ruoli personale direttivo e dirigente, autorizzandolo al contempo ad adottare successive disposizioni correttive e integrative.

In attuazione della delega, il Governo ha adottato il D.Lgs. 334/2000, sul riordino del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato, che delinea una serie di innovazioni alla disciplina previgente.

Sulla base della norma di delega sopra richiamata, è stato successivamente emanato il D.Lgs. 201/2001[683], primo provvedimento correttivo e integrativo del D.Lgs. 334/2000.

Il D.Lgs. 477/2001 in commento costituisce il secondo intervento correttivo e integrativo del D.Lgs. 334/2000.

 

L’articolo 1 modifica l’art. 1 del D.Lgs. 334/2000 per istituire un’unica “carriera dei funzionari di polizia”, nella quale sono inclusi i due preesistenti ruoli dei commissari e dei dirigenti, dei quali è peraltro mantenuta l’autonoma disciplina. La scelta di operare una considerazione unitaria dei ruoli direttivo e dirigente della polizia di Stato che svolgono attività di polizia è motivata con la comune natura delle funzioni svolte dal relativo personale e con il richiamo alla disciplina della progressione in carriera, che prevede il passaggio dal primo al secondo ruolo.

 

L’articolo 2 apporta modificazioni a vari commi dell’art. 2 del D.Lgs. 334/2000, ridefinendo le funzioni delle varie qualifiche dei ruoli dei funzionari di polizia.

Queste le principali novità rispetto al testo previgente:

§         si prevede la possibilità di attribuire ai vice questori aggiunti funzioni ulteriori rispetto a quelle espressamente indicate nell’articolo, da individuare con decreto del ministro dell’interno sulla base di linee guida definite con decreto emanato dallo stesso ministro, di concerto con i ministri dell’economia e delle finanze e della funzione pubblica. Ciò permetterà una maggiore flessibilità nell’assegnazione degli incarichi in relazione all’anzianità e alla professionalità acquisita;

§         il comma 9-bis, di nuova introduzione, assegna ai funzionari di polizia la direzione degli uffici aventi il compito di fornire gli elementi informativi per il rilascio delle abilitazioni di sicurezza agli appartenenti alla Polizia di Stato.

 

L’articolo 3 modifica l’art. 3 del D.Lgs. 334/2000, disciplinando l’accesso alla carriera dei funzionari di polizia con le seguenti innovazioni:

§         il regolamento ministeriale al quale è affidata l’indicazione della classe di appartenenza dei corsi di studio universitario il cui superamento è requisito per l’accesso ai concorsi, è sostituito da un decreto ministeriale di natura non normativa, per la cui adozione si richiede il concerto, oltre che del ministro per la funzione pubblica, anche del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca;

§         in favore del personale in servizio della Polizia di Stato, in possesso della laurea e di altri specifici requisiti, si prevede, in luogo dell’attuale riserva di posti, lo svolgimento di un concorso interno per titoli ed esami (le prove d’esame sono peraltro uguali a quelle previste per il concorso pubblico).

 

Per effetto dell’articolo 4 è in parte modificata la disciplina delle posizioni soprannumerarie conseguenti all’inquadramento dei dirigenti generali nella qualifica di prefetto.

La disposizione di modifica, intervenendo sull’art. 12 del D.Lgs. 334/2000 che, a sua volta, sostituisce l’art. 42 della L. 121/1981[684], novella in realtà quest’ultima legge modificandone l’art. 42. Tale articolo disciplina la nomina dei dirigenti generali di pubblica sicurezza di livello B, e prevede che i medesimi siano inquadrati, entro tre anni dalla nomina, nella qualifica di prefetto, a copertura di una quota massima di 17 posti ricavata nell’ambito della dotazione organica dei prefetti. Tale inquadramento può essere disposto anche in soprannumero, da riassorbire con le successive vacanze nel ruolo dei prefetti.

Il nuovo testo introdotto dall’art. 4 in commento, limita il soprannumero sia temporalmente (fino al 30 giugno 2004) sia numericamente (tre unità), prevedendo inoltre che il riassorbimento debba conseguire alle vacanze determinatesi non nel complessivo organico dei prefetti, bensì nella quota di 17 posti riservata all’inquadramento dei dirigenti generali di pubblica sicurezza di livello B.

In correlazione con le modifiche testé illustrate, l’articolo 4 interviene sulla disciplina transitoria di cui all’art. 26 del D.Lgs. 334/2000, concernente l’inquadramento a prefetto dei dirigenti generali in servizio all’entrata in vigore del D.Lgs. Il nuovo testo precisa che le disposizioni previgenti si applicano “ai soli fini dell’inquadramento alla qualifica di prefetto”, e prevede che le relative posizioni soprannumerarie siano riassorbite all’atto della cessazione dal servizio dei funzionari così inquadrati, incrementando temporaneamente i posti di funzione nella qualifica di prefetto disponibili ai sensi del sopra illustrato art. 42 del D.Lgs. 121/1981.

 

L’articolo 5, riformulando i commi 1 e 3 del D.Lgs. 334/2000, ridefinisce le funzioni del personale appartenente al ruolo direttivo speciale.

 

Il ruolo direttivo speciale è stato istituito dal D.Lgs. 334/2000 al fine di valorizzare le migliori professionalità esistenti nel ruolo degli ispettori; l’accesso infatti è riservato (previo concorso interno per esami e titoli) al personale del ruolo degli ispettori con la qualifica di ispettore superiore – sostituto ufficiale di pubblica sicurezza, in possesso del titolo di studio di scuola media superiore o equivalente. Le funzioni assegnate alle diverse qualifiche del ruolo (commissario, commissario capo, vice questore aggiunto) corrispondono a quelle delle omologhe qualifiche del ruolo direttivo; è tuttavia escluso l’esercizio delle attribuzioni di autorità locale di pubblica sicurezza, nonché l’accesso alla dirigenza.

 

L’articolo 6 modifica gli artt. 31 e 32 del D.Lgs. 334/2000, concernenti rispettivamente le modalità per l’accesso ai ruoli dei direttori tecnici e il corso di formazione iniziale per l’immissione nei ruoli medesimi.

L’articolo dispone analogamente a quanto stabilito dall’art. 3 sull’accesso ai ruoli della carriera dei funzionari di polizia, pertanto:

§         per l’indicazione delle lauree specialistiche e delle eventuali abilitazioni professionali la cui titolarità è requisito per l’accesso ai concorsi, si fa rinvio al decreto (non più regolamento) ministeriale di cui al citato art. 3;

§         l’attuale riserva di posti in favore del personale in servizio della Polizia di Stato, in possesso della laurea e di altri specifici requisiti, è sostituita dalla previsione di un concorso interno per titoli ed esami.

L’art. 32 è oggetto di una ulteriore integrazione finalizzata ad assicurare una disciplina analoga a quella già goduta dai commissari al personale del ruolo speciale ad esaurimento dei direttori tecnici: tale personale, ai fini dell’inquadramento nel ruolo ordinario dei direttori tecnici, conserva sia l’anzianità maturata nella qualifica di provenienza sia la qualifica di direttore tecnico capo eventualmente già rivestita.

 

L’articolo 7, inserendo un nuovo articolo, il 65-ter, nel D.Lgs. 334/2000, istituisce il ruolo d’onore dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.

Sul modello di quanto già previsto per gli ufficiali delle Forze di polizia ad ordinamento militare[685], il ruolo d’onore è riservato al personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato inidoneo al servizio per gravi mutilazioni o infermità contratte per motivi di servizio.

Il personale in oggetto può essere richiamato in servizio, con il suo consenso, in casi particolari per essere impiegato in incarichi non operativi, compatibili con l’infermità riportata. Ciò può aver luogo anche su richiesta del soggetto interessato, se decorato al valore civile o militare.

Sono previste particolari modalità di applicazione delle norme sulla progressione in carriera, da definire con decreto ministeriale.

Per quanto non disciplinato dall’articolo si fa rinvio, se compatibili, alle norme che disciplinano il ruolo d’onore per gli ufficiali delle Forze armate.

Resta comunque ferma la possibilità, prevista e disciplinata dal D.P.R. 24 aprile 1982, n. 339, di passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato.

 

L’articolo 8 sostituisce l’art. 67 del D.Lgs. 334/2000, che dispone in ordine alla riorganizzazione dell’Istituto superiore di polizia.

La principale novità introdotta è la scelta di ricorrere per il riordino allo strumento del regolamento di delegificazione (da adottare con D.P.R. ai sensi dell’art. 17, comma 2, della L. 400/1988), in luogo del regolamento ministeriale previsto in precedenza.

Il nuovo comma 1 dell’art. 67 detta inoltre alcuni princìpi generali da seguire nell’opera di riordino, concernenti:

§         il raccordo con le competenti articolazioni dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e con gli altri istituti di alta formazione del Ministero dell’interno e delle altre Amministrazioni pubbliche;

§         l’autonomia istituzionale, gestionale, finanziaria e contabile dell’Istituto.

Il comma 2 del nuovo art. 67 dispone che, con l’entrata in vigore dell’emanando regolamento, sia abrogato l’intero D.P.R. 341/1982[686] che attualmente disciplina l’Istituto superiore di polizia, e non solo alcune sue disposizioni, assicurando così la piena delegificazione della materia.

 

L’articolo 9, formalmente, aggiunge un comma all’art. 68 del D.Lgs. 334/2000, ma nella sostanza reca una novella a un diverso atto legislativo, il D.P.R. 335/1982 (che disciplina il personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia) riscrivendone l’art. 66.

L’art. 66 citato individua gli organi competenti alla compilazione del rapporto informativo per il personale in servizio presso uffici e reparti periferici dipendenti dal Dipartimento della pubblica sicurezza.

 

Va ricordato che la legge di semplificazione 1998[687] ha incluso il procedimento per la compilazione del rapporto informativo e l’attribuzione del giudizio complessivo al personale della pubblica sicurezza tra i procedimenti amministrativi da semplificare, ad opera di un apposito regolamento di delegificazione.

 

Il nuovo testo dell’art. 66 introdotto dal decreto in esame fa espresso rinvio, ai fini dell’individuazione degli organi competenti alla compilazione dei rapporti informativi, al regolamento di semplificazione previsto dalla L. 50/1999 e, in attesa della sua emanazione, rimette tale individuazione a un decreto del Capo della polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza.

 

L’articolo 10 (composto da un solo comma articolato in 14 lettere) reca numerose modifiche a varie parti dell’articolato del D.Lgs. 334/2000. La maggior parte degli interventi ha natura formale o di coordinamento; tra gli altri, si segnalano in particolare:

§         la lett. a) che, conformandosi a una sentenza della Corte costituzionale (la n. 195 del 1998[688]) consente la reiscrizione al corso di formazione iniziale dei commissari dimessi dal precedente corso per assenza prolungata, quando tale assenza è dovuta a infermità comunque contratta;

§         le lett. d) e g), n. 1, che introducono, con riguardo alle funzioni assegnate rispettivamente agli appartenenti ai ruoli direttivi tecnici ed ai ruoli direttivi medici, disposizioni omogenee a quelle introdotte dall’art. 2 per i funzionari del ruolo dei commissari;

§         la lett. n), che interviene (come già l’art. 9 sopra illustrato) sulle modalità di formazione dei rapporti informativi per il personale.

 

L’articolo 11 è composto da due commi, aventi diverso oggetto.

Il comma 1 reca una norma di interpretazione autentica riferita agli artt. 22-bis, comma 2, 37-bis, comma 2 e 53-bis, comma 2, del più volte citato D.Lgs. 334/2000. Tali articoli – disposizioni transitorie introdotte dal D.Lgs. 201/2001 – definiscono i criteri di inquadramento nelle nuove qualifiche dei ruoli dei commissari, dei direttori tecnici e dei direttivi medici, del personale appartenente ai corrispondenti ruoli in servizio alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 334/2000. Il comma 2 di tali articoli prevede tra l’altro che il personale inquadrato conservi, ai fini della progressione alla qualifica superiore, “l’anzianità eccedente quella minima richiesta per l’inquadramento”.

La norma interpretativa mira ad evitare che le disposizioni in oggetto siano applicate in modo da annullare le anzianità nella qualifica di vice questore aggiunto (e nelle corrispondenti qualifiche dei ruoli tecnici e medici) per quei funzionari che già rivestivano tali qualifiche anteriormente alla data dell’inquadramento.

Il comma 2 dell’articolo 11 reca, infine, una norma non espressamente riferita al D.Lgs. 334/2000 concernente l’impiego nell’area interforze del Dipartimento della pubblica sicurezza di funzionari e ufficiali appartenenti ai vari corpi di polizia, sia civili sia militari. Il comma rimette la definizione dei criteri per tale impiego, al fine di tener conto delle diverse anzianità in rapporto all’attribuzione degli incarichi, ad un decreto del ministro dell’interno emanato su proposta del Capo della polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza, sentiti i vertici delle altre forze di polizia (Arma dei carabinieri, Corpo della guardia di finanza, polizia penitenziaria e Corpo forestale dello Stato).


Forze di polizia – Altri provvedimenti

Nella XIV legislatura, il settore delle Forze di polizia è stato caratterizzato da una pluralità di interventi normativi che ne hanno riguardato differenti aspetti.

Oltre all’intervento di carattere più organico, realizzato con il D.lgs. 477/2001[689] in materia di personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato (v. scheda Forze di polizia – Personale direttivo e dirigente), si riportano di seguito i principali provvedimenti intervenuti in materia.

 

La legge finanziaria 2003 (L. 289/2002)[690], all’art. 33, co. 2, secondo e ultimo periodo, dispone che, fino a quando non saranno approvate le norme per il riordino della dirigenza del personale delle forze di polizia ad ordinamento civile e degli ufficiali di grado corrispondente delle forze di polizia a ordinamento militare, in armonia con i trattamenti economici della dirigenza pubblica e tenuto conto delle disposizioni del D.Lgs. 165/2001, sono stanziati 35 milioni di euro per ciascuno degli anni 2003, 2004 e 2005 al fine di assicurare una graduale valorizzazione dirigenziale dei trattamenti economici dei funzionari del ruolo dei commissari e qualifiche o gradi corrispondenti della Polizia di Stato, delle altre forze di polizia e delle forze armate, anche attraverso l’attribuzione di trattamenti perequativi da disporre con decreto del ministro per la funzione pubblica, di concerto con il ministro dell’interno e con gli altri ministri interessati[691].

L’art. 34, ai commi 4, 5 e 6, pur disponendo il divieto di assunzioni di personale per l’anno 2003 per i Corpi di polizia e il Corpo dei vigili del fuoco, introduce deroghe per le figure professionali non fungibili e per gli addetti a compiti connessi con la sicurezza pubblica, difesa nazionale, soccorso tecnico urgente, prevenzione e vigilanza antincendi.

 

La L. 3/2003[692], all’art. 40, ha conferito una delega legislativa al Governo per la revisione – entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge – delle norme in materia di sanzioni e di procedure disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza, oggi raccolte nel D.P.R. 737/1981[693], con l’obiettivo di adeguare la normativa al mutato assetto amministrativo e processuale e di semplificare e accelerare le procedure, ferma restando, comunque, la garanzia del principio del contraddittorio.

La delega tuttavia non è stata esercitata.

 

Con il D.Lgs.193/2003[694] è stato introdotto il sistema dei parametri stipendiali per il personale non dirigente delle forze di polizia e delle forze armate,con contestuale soppressione dei previgenti livelli stipendiali.

La riforma (v. capitolo Armonizzazione nel dossier relativo alla Commissione Difesa), che all’art. 8 reca le disposizioni per il personale della Polizia di Stato, si è resa necessaria considerata l’inadeguatezza del previgente sistema rispetto ai peculiari ordinamenti su base gerarchica del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate. Infatti, esso comportava la coesistenza di più qualifiche o gradi nello stesso livello con l’attribuzione, quindi, di trattamenti economici sostanzialmente analoghi a personale cui vengono invece conferite funzioni e responsabilità diverse.

Il nuovo sistema dei parametri impone invece la correlazione del trattamento stipendiale con le funzioni svolte ed i livelli di responsabilità propri di ciascun grado o qualifica; da ciò deriva, quale automatica conseguenza, la progressività dei valori stipendiali.

 

In materia di assunzioni di personale della Polizia di Stato, il D.L. 147/2003[695]all’art. 14-bis prevede la facoltà dell’Amministrazione della pubblica sicurezza di utilizzare le graduatorie di merito degli idonei dei concorsi straordinari banditi ai sensi dell’art. 7 della L. 85/1997[696]; anche il successivo D.L. 253/2003[697] ha disposto l’accelerazione delle procedure di assunzione di mille agenti.

 

La legge finanziaria 2004 (L. 350/2003)[698], all’art. 3, co. 72, reca una norma interpretativa sull’indennità perequativa prevista dall’art. 19, co. 4, della L. 266/1999[699], stabilendo che tale emolumento compete esclusivamente ai colonnelli e brigadieri generali delle forze armate e ai corrispondenti gradi delle forze di polizia. Lo stesso articolo, al co. 155, prevede uno stanziamento di 73 milioni di euro nel 2004, di 118 milioni di euro nel 2005 e di 122 milioni di euro a decorrere dal 2006 per il riordino dei ruoli e delle carriere del personale non direttivo e non dirigente delle Forze armate e delle Forze di polizia.

 

In materia è successivamente intervenuta la L. 226/2004[700], il cui Capo IV riguarda il reclutamento nelle carriere iniziali delle forze di polizia, sia ad ordinamento civile che militare e del Corpo militare della Croce rossa. In particolare, l’art. 16 prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2005 e fino al 31 dicembre 2020 per il reclutamento del personale delle forze di polizia, i posti annualmente messi a concorso siano riservati ai volontari in ferma prefissata di un anno o in rafferma annuale in servizio presso le forze armate o anche in congedo.

 

Il D.L. 238/2004[701]è finalizzato ad eliminare alcune sperequazioni, concernenti sia l’ordinamento delle carriere, sia i trattamenti economici, sussistenti nei confronti di specifiche posizioni di carriera del personale non dirigente delle Forze di polizia; sperequazioni determinate o accentuate da recenti interventi normativi che hanno riallineato le posizioni di carriera del personale appartenente ai ruoli dei marescialli dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica con quelle del personale del ruolo degli ispettori dell’Arma dei carabinieri, senza tuttavia intervenire sulle posizioni corrispondenti del personale delle Forze di polizia.

A questi fini, l’articolo 1 disciplina l’inquadramento, anche in soprannumero, del personale con qualifica di ispettore capo e di perito tecnico capo della Polizia di Stato già appartenente ai ruoli ad esaurimento degli ispettori e dei periti tecnici, nelle qualifiche, rispettivamente, di ispettore superiore-sostituto ufficiale di pubblica sicurezza e di perito tecnico superiore. Il trattamento economico conseguente all’inquadramento è corrisposto a decorrere dal 1º gennaio 2003.

L’articolo 5-bis prevede che i componenti del comitato per la valutazione annuale dell’attività dei dirigenti superiori e dei primi dirigenti della Polizia di Stato siano designati tra i dirigenti generali di pubblica sicurezza di livello B.

L’articolo 5-ter anticipa al 31 dicembre 2000 la decorrenza giuridica della nomina dei vincitori del concorso per vice sovrintendente della Polizia di Stato, indetto il 3 luglio 1999.

Si segnala che l’articolo 2 della legge di conversione reca ulteriori disposizioni, volte ad estendere ai dirigenti delle Forze di polizia civili e militari l’applicazione della disciplina relativa a specifici istituti[702] contenuta nel D.P.R. 164/2002[703], che ha recepito l’accordo sindacale per le Forze di polizia ad ordinamento civile e lo schema di concertazione per le Forze di polizia ad ordinamento militare relativi al quadriennio normativo 2002-2005 ed al biennio economico 2002-2003. Le disposizioni concernenti le relazioni sindacali, previste per il solo personale appartenente alle Forze di polizia ad ordinamento civile, vengono estese dal secondo periodo del comma 2 ai soli dirigenti civili.

L’articolo estende inoltre, a decorrere dal 1º gennaio 2004, ai dirigenti delle Forze di polizia le disposizioni di cui agli articoli 13 e 52 del citato D.P.R. 164/2002, concernenti varie indennità di impiego operativo, e le relative indennità supplementari.

 

Anche il successivo D.L. 45/2005[704] introduce una pluralità di disposizioni nel settore delle Forze di Polizia.

Nel dettaglio, l’articolo 1 reca misure volte ad assicurare il regolare ripianamento del turn over delle Forze di polizia, nonché il mantenimento delle risorse umane attualmente in servizio. L’articolo inoltre autorizza l’assunzione di ulteriori agenti ausiliari per far fronte alle esigenze connesse con la prevenzione ed il contrasto del terrorismo, anche internazionale, e della criminalità organizzata e per assicurare la funzionalità dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.

L’articolo 1-bis reca alcune modifiche ai ruoli dirigenziali medici e tecnici della Polizia di Stato, incrementando le dotazioni organiche del ruolo dei dirigenti medici e istituendo le qualifiche di dirigente generale medico di livello B e di dirigente generale tecnico.

Con l’articolo 1-ter si autorizza l’Amministrazione della pubblica sicurezza a stipulare convenzioni con altre Forze di polizia ad ordinamento civile e con il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco per la prestazione di servizi sanitari comuni, anche mediante l’istituzione di apposite commissioni mediche, alle quali affidare gli accertamenti sanitari finalizzati al riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio e per la concessione della pensione privilegiata ordinaria.

L’articolo 1-quater dispone il trasferimento degli stanziamenti destinati alla copertura assicurativa della responsabilità civile del personale delle Forze di polizia ai rispettivi fondi di assistenza operanti presso ciascuno dei cinque corpi di polizia.

L’articolo 1-quinquies reca stanziamenti finalizzati al rinnovo del contratto collettivo nazionale della carriera prefettizia, alla perequazione dei trattamenti economici dei dirigenti delle Forze di polizia e delle Forze armate e ad accrescere le risorse del fondo unico di amministrazione per il miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi istituzionali istituito presso il Ministero dell’interno.

L’articolo 3-bis consente alle amministrazioni interessate di procedere all’anticipazione delle spese di tutela legale dovute al personale anche in assenza del parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato.

L’articolo 4 opera una revisione organizzativa del Dipartimento della pubblica sicurezza finalizzata a un miglior coordinamento delle Forze di polizia, istituendo, a tal fine la Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato.

L’articolo 5 reca disposizioni di carattere finanziario volte all’ammodernamento e al potenziamento dei mezzi delle Forze di polizia.

 

Anche il D.L. 272/2005[705], all’art. 1, al fine di prevenire e contrastare il crimine organizzato ed il terrorismo interno ed internazionale, anche per le esigenze connesse allo svolgimento delle Olimpiadi invernali, oltre che per assicurare la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno, autorizza – nell’ambito del contingente di assunzioni autorizzate per l’anno 2006 per la Polizia di Stato – l’assunzione, a decorrere dal 1° gennaio 2006, fino a 1.115 agenti ausiliari.

 

Con la legge finanziaria 2006, L. 266/2005[706], in deroga al blocco delle assunzioni si autorizza, a decorrere dal 2006 l’assunzione di personale da impiegare in compiti di sicurezza pubblica, di cui 1.500 per la Polizia di Stato (art. 1, co. 246).

I successivi commi 259-260 del’art. 1, recano disposizioni sul trattamento economico e di quiescenza dei dirigenti generali di pubblica sicurezza e dei dirigenti superiori della Polizia di Stato.

Il comma 261 dispone la sospensione, fino all’approvazione delle norme di riordino dei ruoli del personale delle Forze di polizia, delle norme finalizzate alla alimentazione del ruolo direttivo speciale della Polizia di Stato e, contestualmente, l’affidamento agli ispettori sostituti commissari delle funzioni di vice dirigente e l’espletamento di concorsi per commissari nel rispetto della disciplina autorizzatoria delle assunzioni.

 

Nel corso della legislatura, infine, sono state presentate alcune proposte di legge che, tuttavia, non sono pervenute a esito legislativo.

Non hanno infatti superato la fase dell’esame referente in Commissione le proposte di legge A.C. 2384 (Lucchese ed altri) e A.C. 2462 (Mascia ed altri), recanti un nuovo ordinamento della carriera dei funzionari di pubblica sicurezza.

Parimenti, non vi è stato esito legislativo nonostante l’approvazione dell’Assemblea della Camera[707], neanche per il testo unificato delle p.d.l. A.C. 3437 e abb. (Ascierto ed altri), volto ad operare un complessivo riordino dei ruoli dell’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di finanza e della Polizia penitenziaria.


Antiterrorismo – Il decreto-legge n. 144 del 2005

Il D.L. 144/2005[708], recante Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 27 luglio 2005. Il relativo disegno di legge di conversione (A.S. 3571) iniziò contestualmente il suo esame al Senato, che lo approvò con modificazioni nella seduta antimeridiana del 29 luglio. Entro la stessa giornata le Commissioni riunite I e II della Camera ne completavano l’esame in sede referente (A.C. 6045), e l’Assemblea giungeva all’approvazione definitiva nella seduta del 30 luglio. La legge di conversione è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 1° agosto 2005.

Nel testo risultante dalle modifiche apportate in sede di conversione, il D.L. 144/2005 si compone di 21 articoli, oltre quello concernente l’entrata in vigore.

 

L’articolo 1 dispone l’estensione alle indagini anti-terrorismo – anche relative al terrorismo internazionale – della facoltà di tenere i c.d. colloqui investigativi, già previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 18-bis, L. 354/1975) in relazione ai soli delitti di criminalità organizzata.

 

I colloqui investigativi consistono in veri e propri confronti diretti con il detenuto finalizzati ad ottenere notizie utili alle indagini. Svolgendosi in assenza del difensore, quindi senza le garanzie difensive ordinariamente previste, non hanno valore processuale; l’esperienza delle indagini di mafia ha, tuttavia, mostrato come da tali colloqui possano derivare significativi spunti investigativi.

 

Il potere di autorizzare tali colloqui è attribuito ai responsabili di livello almeno provinciale di polizia e carabinieri (o agli ufficiali di polizia giudiziaria designati dai responsabili di livello centrale) che svolgano indagini anti-terrorismo, nonché agli ufficiali della Guardia di finanza (anch’essi designati a livello centrale), limitatamente alle indagini sul finanziamento del terrorismo stesso.

L’articolo 2 introduce il “permesso di soggiorno a fini investigativi”, rilasciato in favore degli stranieri che prestino la loro collaborazione all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico. La collaborazione ha caratteristiche analoghe a quelle richieste per i collaboratori di giustizia (che il comma individua mediante un rinvio all’art. 9, co. 3, del D.L. 8/1991).

 

Tale nuovo strumento si inserisce nel solco della legislazione premiale in materia di immigrazione inaugurata dal permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale (art. 18 del testo unico in materia di immigrazione[709]), che può essere rilasciato a immigrati clandestini che siano vittime di situazioni di violenza o di grave sfruttamento.

 

Il co. 5 dell’articolo consente la concessione della carta di soggiorno[710] in favore degli stranieri che diano un contributo rilevante per la prevenzione di attentati terroristici in Italia o per la riduzione delle loro conseguenze dannose o per l’identificazione dei responsabili.

L’articolo 3 introduce la nuova fattispecie di espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo, disposta dal ministro dell’interno, o, su sua delega, dal prefetto e sottoposta in parte ad un regime diverso dalle altre forme di espulsione amministrativa.

In particolare, l’espulsione è eseguita immediatamente, (salvo che si tratti di persona detenuta), anche in deroga all’art. 13, co. 3 e 5-bis, del T.U., prescindendo cioè sia dal nulla osta dell’autorità giudiziaria richiesto per l’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale, sia dal procedimento giurisdizionale di convalida. L’eventuale ricorso al TAR avverso il provvedimento non ne sospende l’efficacia (tali norme hanno tuttavia un’efficacia limitata al 31 dicembre 2007).

Lo stesso articolo consente di converso al prefetto di omettere, sospendere o revocare il provvedimento di espulsione che dovrebbe adottare secondo la disciplina vigente, in presenza di esigenze connesse alla prosecuzione delle indagini o delle attività informative dirette alla individuazione o alla cattura dei responsabili dei delitti commessi con finalità di terrorismo.

L’articolo 4, al fine di potenziare le attività di intelligence antiterrorismo, stabilisce che il Presidente del Consiglio dei ministri possa delegare i direttori del SISMI e del SISDE a richiedere al Procuratore generale presso la Corte d’appello competente, l’autorizzazione ad effettuare le intercettazioni e i controlli preventivi sulle comunicazioni di cui all’art. 226[711] delle disposizioni di attuazione del c.p.p..

L’articolo 5 prevede e disciplina la costituzione, ad opera del ministro dell’interno, di apposite unità investigative interforze, formate da esperti ufficiali e agenti di polizia giudiziaria delle Forze di polizia, “per le esigenze connesse alle indagini di polizia giudiziaria conseguenti ai delitti di terrorismo di rilevante gravità”. Il pubblico ministero si avvale di regola di tali unità quando procede alle indagini per delitti di terrorismo.

L’articolo 6 introduce nuove norme sulla documentazione dei dati di traffico telefonico e telematico, tra l’altro stabilendo una “moratoria” fino a tutto il 2007 della disciplina che prevede la cancellazione dei dati di traffico decorsi i termini fissati dall’art. 132 del codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs 196/2003), fissando un termine di conservazione anche per i dati relativi al traffico telematico e ampliando le competenze del P.M. in materia.

L’articolo 7 assoggetta a licenza di polizia l’apertura di esercizi pubblici di telefonia e Internet e prevede l’imposizione di obblighi in capo al titolare o al gestore dell’esercizio finalizzati al monitoraggio delle operazioni svolte dall’utente e all’archiviazione dei dati, nonché all’acquisizione dei dati anagrafici dell’utente di postazioni pubbliche di accesso a Internet non vigilate.

L’articolo 7-bis attribuisce (comma 1) all’organo del Ministero dell’interno per la sicurezza e per la regolarità dei servizi di telecomunicazione il compito di assicurare i servizi di protezione informatica delle infrastrutture critiche informatizzate di interesse nazionale. Le infrastrutture sono individuate con apposito decreto del ministro dell’interno. A tali fini:

§         l’organo del Ministero opera mediante collegamenti telematici definiti con apposite convenzioni con i responsabili delle strutture interessate;

§         è consentito svolgere le attività sotto copertura di cui all’art. 4, co. 1 e 2, del D.L. 374/2001[712] e le attività di intercettazione e i controlli preventivi sulle comunicazioni di cui all’art. 226 delle norme di attuazione del c.p.p. (D.Lgs. 271/1989).

L’articolo 8 reca varie disposizioni che integrano la disciplina vigente sugli esplosivi, in attesa di un riordino complessivo della materia. In particolare, sono previste:

§      limitazioni al trattamento di detonatori e esplosivi;

§      l’istituzione di un nulla osta del questore per il rilascio della licenza di fochino, ossia dell’operatore addetto al brillamento delle mine;

§      l’introduzione del nuovo reato di addestramento all’uso di esplosivi ed armi chimico-batteriologiche.

L’articolo 9 integra con nuove norme la disciplina amministrativa dell’attività di volo, attribuendo a un decreto del ministro dell’interno la possibilità di sottoporre – per ragioni di sicurezza – al nulla osta preventivo del questore il rilascio dei titoli abilitativi civili al volo e l’ammissione alle attività di addestramento pratico, e prevedendo che il decreto possa – per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica – subordinare al rilascio del nulla osta del questore anche determinate attività di volo.

L’articolo 9-bis reca un’autorizzazione di spesa per spese di investimento dell’ENAC (Ente nazionale di aviazione civile) finalizzata anche al completamento dei necessari interventi per la sicurezza ai fini della prevenzione antiterroristica negli aeroporti.

L’articolo 10 detta nuove disposizioni di natura sia penale sia processuale in materia di identificazione personale,

§         novellando la disciplina dell’identificazione dell’indagato e del relativo fermo, contenuta all’art. 349 c.p.p., e prevedendosi tra l’altro la possibilità del prelievo coattivo di capelli o saliva;

§         estendendo alla persona indagata che dichiari false generalità alla magistratura la pena prevista in casi analoghi per l’imputato;

§         sanzionando penalmente il possesso e la fabbricazione di falsi documenti di identificazionevalidi per l’espatrio;

§         aggravando le pene per chi violi il divieto dell’uso di caschi protettivi o di altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento.

L’articolo 11 sostituisce l’art. 5, co. 8, del testo unico in materia di immigrazione, che disciplina i modelli – aventi caratteristiche anticontraffazione – del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno.

L’articolo 12 introduce nel codice penale un nuovo art. 66-bis, che impone la verifica dei procedimenti giudiziari in corso a carico dell’indagato o dell’imputato.

L’articolo 13 amplia l’ambito di applicazione dell’arresto obbligatorio in flagranza per i reati di terrorismo, integra l’elenco dei reati per i quali l’arresto in flagranza è facoltativo e reca norme sul fermo di indiziato di delitto.

L’articolo 14 apporta modifiche di varia natura alla disciplina in materia di misure di prevenzione; tra queste, si segnala la possibilità di applicare le misure di prevenzione patrimoniali ex L. 575/1965 (sequestro e confisca, nonché sospensione provvisoria dall’amministrazione dei beni personali), alle persone fisiche o giuridiche segnalate al Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite o ad altro organismo internazionale analogo, quando vi siano fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse oggetto della misura di prevenzione possano essere dispersi, occultati, o utilizzati per finanziare organizzazioni o attività di natura terroristica.

L’articolo 15 novella il codice penale, introducendovi due nuove fattispecie delittuose: l’arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quater) e l’addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quinquies); lo stesso articolo introduce una definizione delle condotte con finalità di terrorismo (art. 270-sexies).

L’articolo 17[713] reca misure varie, prevalentemente concernenti il personale addetto alle notificazioni e la procedura innanzi il giudice di pace, dirette ad eliminare o ridurre “gli oneri impropri della polizia giudiziaria, per meglio utilizzare tutte le risorse disponibili agli impegni primari di pubblica sicurezza sul fronte del contrasto del terrorismo e della criminalità diffusa” (così la relazione governativa al d.d.l. di conversione).

L’articolo 18 consente, l’affidamento a guardie giurate dipendenti o ad istituti di vigilanza privata dei servizi di sicurezza sussidiaria nell’ambito dei porti, delle stazioni ferroviarie e dei relativi mezzi di trasporto e depositi, delle stazioni delle ferrovie metropolitane e dei relativi mezzi di trasporto e depositi, nonché nell’ambito delle linee di trasporto urbano.

L’articolo 18-bis novella l’art. 19 della L. 128/2001, attribuendo alle Forze armate impegnate nel controllo degli obiettivi fissi alcune funzioni proprie della polizia giudiziaria, in casi eccezionali di necessità ed urgenza (v. capitolo Compiti di tutela dell’ordine pubblico, nel dossier relativo alla Commissione Difesa).

L’articolo 18-ter, infine, reca e finanzia disposizioni volte ad attuare le misure di sicurezza relative allo svolgimento dei XX Giochi olimpici invernali di Torino.

 

Il D.L. 272/2005[714] (c.d. decreto Olimpiadi) ha in seguito introdotto, all’articolo 1-ter, ulteriori misure di varia natura finalizzate al contrasto del terrorismo internazionale.

Varie disposizioni recate dall’articolo apportano modifiche al sin qui illustrato D.L. 144/2005. La prima riguarda la correzione di un errore materiale contenuto nell’art. 10, co. 3, del decreto-legge.

Viene, poi, aggiunto al codice penale l’art. 497-ter che amplia la disciplina sanzionatoria introdotta dal D.L. 144/2005 per il reato di possesso e fabbricazione di falsi documenti di identificazionevalidi per l’espatrio (all’art. 497-bis c.p.) a chiunque illecitamente fabbrica, detiene o fa uso di segni distintivi, contrassegni o documenti di identificazione in uso ai Corpi di polizia, ovvero oggetti o documenti che ne simulano la funzione;

È modificato, inoltre, l’art. 14, co. 3, del D.L. 144/2005, il quale, a sua volta, ha aggiunto un co. 1-bis all’art. 2 della L. 575/1965. La modifica concerne la possibilità di imporre a persone sottoposte alla misura della sorveglianza speciale (e non soltanto proposte per tale misura) il divieto di detenere apparati radio, ricetrasmittenti, giubbotti antiproiettile, auto blindate e simili.

È modificato in più punti l’art. 28 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 773/1931[715]), che punisce la raccolta e la detenzione, senza licenza ministeriale, di armi da guerra, munizioni, uniformi militari e simili. Le modifiche proposte:

§         ampliano la portata del divieto e ne estendono l’oggetto, fino a farvi ricomprendere “gli strumenti di autodifesa specificamente destinati all’armamento dei Corpi armati o di polizia”, nonché le tessere di riconoscimento e gli altri contrassegni di identificazione degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria;

§         inaspriscono la sanzione prevista, trasformando la relativa fattispecie da contravvenzione in delitto.

L’articolo interviene infine sull’art. 5-bis, co. 4, del D.L. 83/2002[716], norma che prevede la possibilità, per esigenze eccezionali e temporanee, di conferire la qualifica di agente di pubblica sicurezza[717] a conducenti di veicoli in uso ad “alte personalità che rivestono incarichi istituzionali di governo nazionali e dell’Unione europea nonché ad altre personalità, da individuare con decreto del Ministero dell’interno”, prevedendo l’uso da parte dei conducenti in questione di segnali distintivi e strumenti di segnalazione e di allarme.


Servizi di informazione – Il progetto di riforma

Le iniziative di riforma nella XIII legislatura

Il tema della riforma dei servizi di informazione e sicurezza è oggetto del dibattito politico da molto tempo: in tutte le ultime legislature – sostanzialmente, sin dall’indomani dell’entrata in vigore della L. 801/1977[718] – si sono susseguite le proposte di modifica della disciplina in materia.

Nella XIII legislatura, in particolare, sia il Governo che il Parlamento si attivarono per promuovere una riforma del settore.

 

Presso la Presidenza del Consiglio venne istituita, nella primavera del 1997, una commissione ad hoc, la cosiddetta Commissione Jucci (dal nome del generale Roberto Jucci chiamato a presiederla)[719], la quale concluse i propri lavori nel dicembre 1997 presentando una dettagliata relazione, comprensiva di una bozza di articolato.

Da parte sua il Comitato parlamentare di controllo affrontò in una serie di relazioni vari aspetti della disciplina vigente ritenuti meritevoli di riforma, tra i quali il sistema di accesso all’impiego presso i servizi[720] e i rapporti tra polizia giudiziaria e servizi di informazione[721].

Nel luglio 1999 il Governo presentò un disegno di legge (A.S. 4162) che, recependo in buona parte le risultanze della Commissione Jucci, innovava profondamente la materia. Il progetto mirava a rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio, alle cui dipendenze erano poste le due strutture operative denominate AISE ed AISI (in luogo degli attuali SISMI e SISDE), che cessavano di dipendere dai ministri della difesa e dall’interno. I due ministri avrebbero tuttavia partecipato al Comitato interministeriale delle informazioni per la sicurezza, organo i cui poteri erano rafforzati.

Il disegno di legge veniva assegnato alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Difesa del Senato, che non ne iniziavano l’esame[722].

L’attività parlamentare nella XIV legislatura

Nella XIV legislatura, l’interesse per la materia ha trovato un nuovo forte impulso nell’emergere delle esigenze di prevenzione e contrasto del terrorismo su scala internazionale, drammaticamente evidenziate dall’attentato dell’11 settembre 2001.

Il 3 maggio 2002 il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge di riforma, che viene presentato al Senato nel giugno successivo (A.S. 1513). L’impianto del testo trae origine dalle linee guida adottate qualche mese prima dal Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza e condivise dal Comitato parlamentare di controllo.

 

Le linee guida del CIIS si ispirano ad alcuni princìpi di fondo tra cui, innanzitutto, la conferma del ruolo di indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio sulla strategia nazionale ed internazionale di sicurezza, ferma la dipendenza gerarchica di SISDE e SISMI dai ministri di settore, e, in secondo luogo, la garanzia di non punibilità per gli agenti dei servizi che commettono limitate violazioni di legge quadro di operazioni autorizzate dal Capo del Governo per ragioni di sicurezza dello Stato, fermo il rispetto dei diritti costituzionali di ciascun cittadino[723].

Il Comitato, da parte sua, è stato impegnato nella prima parte della legislatura nell’analisi di una possibile riforma dei servizi. Dopo un’ampia tornata di audizioni svoltesi nel secondo semestre del 2001, in cui sono stati sentiti i responsabili dei servizi e i membri del Governo responsabili, il Comitato approva alla fine dell’anno una relazione finale sulla materia[724].

La relazione auspica un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio, ferma restando l’attuale conformazione strutturale dei servizi, rinviandone una eventuale riforma ad un momento successivo. Andrebbero tuttavia precisati meglio i confini di competenza dei servizi, in vista di un superamento dei tradizionali criteri non più corrispondenti alle nuove esigenze, e reso concreto il ruolo di coordinamento del CESIS, senza trasformarlo in un terzo servizio operativo.

Quanto alle garanzie funzionali, si riconosce la necessità di derogare alle norme penali, purché non si tocchi l’incolumità fisica delle persone, sulla base di un sistema autorizzatorio incentrato sul Presidente del Consiglio e supportato da un Comitato di garanti.

La relazione sottolinea la necessità di un ampliamento dei poteri conoscitivi e di controllo del Comitato parlamentare, ferma restando la rigorosa distinzione dei ruoli tra Parlamento – controllore ed Esecutivo – gestore dei servizi, e chiede l’introduzione di un limite temporale (ipotizzato in 15 anni) alla durata del segreto.

La relazione affronta anche i temi dei rapporti dei servizi con le autorità giudiziaria e le forze di polizia, e del reclutamento e formazione del personale.

 

Il Senato ha approvato, con varie modifiche, il disegno di legge governativo nel maggio 2003 e lo ha trasmesso alla Camera ove l’esame in sede referente, avviato nella primavera dell’anno successivo, non ha avuto conclusione.

 

Al Senato, l’esame in sede referente si è svolto tra l’11 luglio 2002 e il 27 febbraio 2003 presso le Commissioni riunite 1ª (Affari costituzionali) e 4ª (Difesa), che hanno esaminato congiuntamente altri otto progetti di legge di iniziativa parlamentare. L’esame presso l’Assemblea del Senato è iniziato il 3 aprile 2003, per concludersi il 7 maggio successivo.

Il Senato ha trasmesso alla Camera un testo modificato in più punti, del quale la I Commissione (Affari costituzionali) ha avviato l’esame il 22 aprile 2004 (A.C. 3951), unitamente a dieci proposte di legge di iniziativa parlamentare. All’avvio della discussione preliminare ha fatto seguito, tra luglio e ottobre 2004, lo svolgimento di una serie di audizioni, che hanno interessato sia i vertici dei Servizi sia i ministri degli affari esteri, dell’interno e della difesa. Le audizioni e il relativo dibattito hanno evidenziato, accanto ad ampie convergenze degli auditi su vari aspetti della riforma, opinioni non coincidenti su altre, e principalmente sulla scelta – operata dal progetto di legge – del mantenimento di un “modello binario” fondato sull’esistenza di due distinti servizi di informazione e sicurezza, a fronte dell’ipotesi del suo superamento in direzione di un “modello unitario”.

Il contenuto del disegno di legge di riforma

Nel testo risultante dalle modifiche apportate dal Senato, il disegno di legge governativo (A.C. 3951) è composto da 16 articoli. La maggior parte delle disposizioni da esso recate modificano o integrano la L. 801/1977, che regola attualmente la materia.

 

L’articolo 1 ridisciplina composizione e funzioni del Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri le funzioni di consulenza e proposta in ordine alla politica informativa per la sicurezza. In virtù del nuovo testo:

§         il Comitato coadiuva il Presidente del Consiglio nell’analisi, individuazione ed elaborazione strategica degli indirizzi generali e degli obiettivi prioritari da perseguire;

§         non ne fanno più parte i ministri della giustizia e dell’industria (oggi, delle attività produttive)[725].

 

L’articolo 2 ridisciplina il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS) precisando che tra i suoi compiti rientrano:

§         il controllo sull’attuazione delle direttive del Presidente del Consiglio;

§         l’elaborazione e l’aggiornamento dei quadri generali di situazione e di previsione da comunicare al Presidente del Consiglio;

§         il coordinamento nell’ambito della cooperazione internazionale;

§         la definizione dei criteri per l’archiviazione dei documenti e la vigilanza ed il controllo sugli archivi dei Servizi;

§         la comunicazione istituzionale.

La segreteria generale del CESIS è posta alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio ed è affidata ad un dirigente di prima fascia o equiparato.

 

L’articolo 3 disciplina l’Ufficio centrale per la sicurezza (UCSi) (già esistente quale articolazione della segreteria generale del CESIS) attribuendogli una particolare posizione di autonomia. L’UCSi dovrà curare le attività concernenti il segreto di Stato e la tutela dei documenti, atti o cose classificati. Il suo direttore risponde direttamente al Presidente del Consiglio e può esercitare, per delega di quest’ultimo, funzioni proprie dell’Autorità nazionale per la sicurezza. È rimessa a un D.P.C.M. la disciplina delle classifiche di segretezza amministrativa dei documenti (apposizione, durata, procedimenti di conservazione e di declassifica).

 

L’articolo 4 interviene sui criteri di selezione e di assunzione del personale non proveniente da amministrazioni statali, nonché sulle modalità di formazione e aggiornamento di tutto il personale. Il principale scopo è quello di incanalare entro criteri e procedure oggettive la facoltà dei Servizi, già prevista dall’art. 7 della L. 801/1977, di reclutare personale esterno, con ciò ponendo fine al blocco delle assunzioni dirette di fatto esistente sin dalla metà degli anni Novanta.

 

L’articolo 5 regola l’acquisizione di informazioni da parte dei Servizi di informazione e sicurezza presso le pubbliche amministrazioni e gli enti erogatori di servizi pubblici, configurandola quale obbligo di collaborazione da assolvere anche in deroga al segreto d’ufficio, ma prevedendo che sia disposta dal Presidente del Consiglio e sottoposta a successivo controllo parlamentare.

 

L’articolo 6 inserisce nove nuovi articoli (dal 10-bis al 10-decies)alla L. 801/1977, disponendo in tema di garanzie funzionali.

Il nuovo art. 10-bis configura l’applicazione di una causa di giustificazione speciale[726] per il personale dei Servizi che ponga in essere condotte costituenti reato, se autorizzate in quanto indispensabili per il raggiungimento delle finalità istituzionali dei Servizi, nel rispetto dei limiti di cui al medesimo articolo e delle procedure di cui ai successivi artt. 10-ter, 10-quater e 10-sexies.

 

È esclusa, in particolare, la configurabilità della causa di giustificazione per delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, ovvero la salute o l’incolumità pubbliche; per reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale; per i reati di attentato contro organi costituzionali, contro le Assemblee regionali, contro i diritti politici del cittadino, nonché, con alcune eccezioni, per i delitti contro l’amministrazione della giustizia.

 

L’autorizzazione è competenza del Presidente del Consiglio dei ministri; il direttore del Servizio può autorizzare egli stesso le attività nei soli casi di assoluta necessità e urgenza, informandone immediatamente il Presidente del Consiglio e il ministro competente, ai fini della successiva ratifica. L’art. 10-decies istituisce presso la segreteria generale del CESIS un Comitato di garanzia avente il compito di coadiuvare il Presidente del Consiglio nell’esercizio del potere di autorizzazione.

È comunque previsto l’integrale indennizzo dei terzi danneggiati.

L’art. 10-quinquies configura alcune ipotesi di reato a carico del personale addetto ai Servizi che utilizzi i mezzi, le informazioni o i poteri di cui dispone a fini di ingiusto profitto o per mettere in pericolo gli interessi alla cui tutela sono deputati i Servizi.

Gli artt. 10-septies e 10-octies rendono possibile, a determinate condizioni e finalità, l’uso di documenti di identificazione recanti dati non rispondenti al vero, o l’utilizzazione temporanea di documenti e certificati di copertura per lo svolgimento di specifiche operazioni, nonché, l’esercizio di attività economiche in Italia o all’estero.

L’art. 10-nonies dispone alcune cautele da adottare nel procedimento penale qualora, nel corso dello stesso, debbano essere assunte le dichiarazioni di una persona appartenente ai Servizi per le informazioni e la sicurezza.

 

L’articolo 7 del disegno di legge ridefinisce la disciplina dei rapporti Governo-Parlamento in materia. Fermo restando l’obbligo di relazione semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, così come l’attribuzione dei compiti di controllo sull’applicazione della legge ad un apposito Comitato parlamentare, è diversamente regolato il potere, attribuito al Comitato, di richiedere informazioni all’esecutivo, con riguardo sia alle modalità della richiesta, sia alla natura delle informazioni richieste.

 

L’ambito di queste appare per un verso più ampio, potendo riguardare non soltanto “le linee essenziali delle strutture e dell’attività dei Servizi”, ma “le strutture dei Servizi e le attività da questi svolte, comprese quelle di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-octies (cioè, come si è visto, le condotte costituenti reato e le attività economiche che siano state legittimamente autorizzate) accertando l’esistenza delle prescritte autorizzazioni; per altro verso, più specificamente delimitato, restandone escluse talune categorie di dati (fonti informative, apporto di Servizi stranieri, identità degli operatori, dislocazione territoriale delle sedi operative e logistiche, operazioni in corso o concluse) la cui rivelazione il Presidente del Consiglio ritenga pericolosa per la sicurezza della Repubblica. Si prevede inoltre che il Comitato possa riferire alle due Camere, per le conseguenti valutazioni politiche, non solo nel caso in cui il Presidente del Consiglio dei ministri opponga il segreto su talune informazioni per ragioni che il Comitato non ritenga fondate, ma anche nel caso di mancata risposta del Governo alla richiesta di informazioni.

 

Altre disposizioni concernono l’obbligo del segreto che vincola i membri del Comitato e le misure idonee ad assicurare la tenuta della riservatezza delle informazioni classificate trasmesse al Comitato.

 

L’articolo 8 ridisegna la disciplina del segreto di Stato sostituendo il vigente art. 12 della L. 801/1977 con quattro nuovi articoli (dall’art. 12 all’art. 12-quater).

L’art. 12 novellato definisce l’oggetto della disciplina e le sue finalità, aggiungendo a quelle già presenti nel testo vigente la tutela degli interessi pubblici di rilievo strategico per l’economia del Paese (resta ferma la già prevista inopponibilità del segreto di Stato su fatti eversivi dell’ordine costituzionale).

L’art. 12-bis individua quale presupposto del segreto di Stato il danno “immediato e diretto” o il pericolo che deriverebbe ai beni sopra tutelati dalla conoscenza di determinati documenti, atti, attività o cose. Esso inoltre:

§         prevede che l’opponibilità del segreto di Stato sia indipendente dall’effettiva previa attribuzione della classifica di segretezza;

§         definisce i limiti di conoscenza che ne conseguono;

§         dispone, ove possibile, l’annotazione del vincolo derivante dal segreto di Stato sugli atti, documenti o cose che ne sono oggetto;

§         pone un limite temporale alla durata del vincolo, pari a 15 anni dalla data di annotazione o dall’effettiva opposizione del segreto (salvo eccezioni per determinate categorie di informazioni). Decorsi 40 anni (salvo motivata deroga che non può comunque superare i 10 anni) si provvede alla declassifica degli atti e al loro versamento all’archivio di Stato.

L’art. 12-ter affida al Presidente del Consiglio il compito di valutare l’opposizione del segreto di Stato nel corso di un procedimento penale e, a tal fine, individua una serie di parametri che devono orientarne la scelta.

L’acquisizione di documenti da parte dell’autorità giudiziaria presso i Servizi per le informazioni e la sicurezza è disciplinata in dettaglio dal successivo art. 12-quater, co. 1-7.

Il successivo co. 8 dell’art. 12-quater attribuisce al Presidente del Consiglio il potere di ottenere dall’autorità giudiziaria copie di atti di procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto, derogando espressamente all’obbligo del segreto istruttorio, qualora “ritenute indispensabili per lo svolgimento delle attività connesse alle sue funzioni”. L’autorità giudiziaria può trasmettere tali atti e documenti anche di propria iniziativa; essa può infine autorizzare il Presidente del Consiglio ad accedere al registro delle notizie di reato.

Le copie e gli atti acquisiti dal Presidente del Consiglio sono comunque coperti da segreto d’ufficio e l’autorità giudiziaria può comunque rigettare la richiesta con decreto motivato.

 

L’articolo 9 prevede che il CESIS, il SISMI e il SISDE possano, per l’adempimento delle loro funzioni istituzionali:

§         richiedere la collaborazione delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti erogatori di servizi di pubblica utilità (ivi incluso l’accesso ad archivi informatici e l’acquisizione di informazioni);

§         stipulare a tal fine convenzioni con i predetti soggetti nonché con le università e gli enti di ricerca;

§         avvalersi dell’opera di società di consulenza quando richiesto dalla natura tecnica o dalla specificità dei problemi.

 

Gli articoli 10 e 11 recano disposizioni a carattere penale.

In particolare, l’articolo 10 inasprisce le pene per i reati di criminalità informatica quando gli stessi siano commessi in danno degli archivi di CESIS, SISMI e SISDE o al fine di procurarsi informazioni coperte da segreto di Stato.

L’articolo 11 sanziona con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque acceda illegittimamente nei locali degli archivi di CESIS, SISMI e SISDE, e con la reclusione da 2 a 8 anni chiunque manometta o riproduca atti conservati negli archivi di CESIS, SISMI e SISDE[727].

 

L’articolo 12 impone a SISMI o al SISDE di richiedere la collaborazione dell’altro Servizio per le attività che oltrepassano il rispettivo ambito di competenza, e di mettere al corrente il CESIS dell’operazione in corso. Il segretario generale del CESIS ha compiti di raccordo e direzione unitaria delle operazioni per le quali sia necessaria la collaborazione tra i Servizi.

 

L’articolo 13 torna sulla materia del segreto di Stato, modificando alcuni articoli del codice di procedura penale.

Il comma 1 aggiunge un comma all’art. 202 c.p.p. (Segreto di Stato) prevedendo esplicitamente, quale rimedio all’opposizione del segreto di Stato che l’autorità giudiziaria procedente ritenga ingiustificata o immotivata, il conflitto di attribuzione dinanzi la Corte costituzionale. La norma sancisce, in caso di accoglimento delle ragioni dell’autorità giudiziaria, l’inopponibilità del segreto di Stato nel corso del medesimo procedimento e con riferimento allo stesso fatto.

Il comma 2 aggiunge tre nuovi commi all’art. 204 c.p.p. (Esclusione del segreto), al fine di escludere che il segreto di Stato possa essere utilizzato per coprire attività condotte in violazione della disciplina sulla speciale causa di giustificazione introdotta dall’art. 6 del disegno di legge, e al fine di definire il raccordo tra segreto di Stato e classifica di segretezza, escludendo che quest’ultima possa costituire ragion sufficiente per l’opposizione del primo e imponendo la declassifica degli atti, documenti o cose per i quali non sia stato confermato il segreto di Stato.

Il comma 3 interviene, con finalità di coordinamento, sull’art. 256 c.p.p. (Dovere di esibizione e segreti) e quindi sulla procedura da seguire quando, al decreto motivato di sequestro, viene opposto il segreto di Stato.

Il comma 4, infine, interviene sull’art. 327-bis del codice di rito, relativo all’attività investigativa del difensore, prevede che in quest’ambito sia sempre opponibile all’avvocato difensore (e ai soggetti da lui incaricati) la già illustrata speciale causa di giustificazione per il personale dei Servizi.

 

Gli articoli 14, 15 e 16 recano infine disposizioni aventi sostanzialmente finalità di coordinamento, rese necessarie dalla riforma del codice di procedura penale intervenuta successivamente alla L. 801/1977.


Vittime del terrorismo – Il quadro normativo

L’articolata legislazione in materia ha origine con la determinazione di una serie di provvidenze a favore degli appartenenti alle forze dell’ordine e dei militari colpiti nell’adempimento del dovere.

Successivamente, la platea dei beneficiari si è andata estendendo, arrivando a comprendere le vittime del terrorismo e, più in generale, le vittime di azioni criminose.

 

Basata inizialmente su una disposizione del R.D.L. 261/1921[728] la disciplina generale in materia di vittime del dovere ha subìto nel tempo numerose integrazioni e modifiche dirette soprattutto a:

§      adeguare la misura dell’elargizione una tantum che, almeno inizialmente, costituiva la principale provvidenza;

§      estendere le categorie ammesse a fruire dei benefìci previsti dalla legge;

§      diversificare i tipi di provvidenze, affiancando alla elargizione una tantum la concessione di pensioni privilegiate, l’attribuzione del diritto all’assunzione obbligatoria e l’esenzione dal pagamento dei ticket sanitari;

§      ampliare le condizioni per la concessione dei benefìci, sia per ciò che riguarda gli eventi considerati (morte, invalidità permanente), sia per quanto concerne le circostanze in cui l’evento si verifica, sia con riferimento alla data di decorrenza dei benefìci stessi.

 

La vigente disciplina di ordine generale fa principalmente capo alle leggi 466/1980[729], 302/1990[730], 407/1998[731], all’art. 82 della legge finanziaria 2001[732], oltre che alla L. 206/2004 (su quest’ultima legge e sulle altre norme adottate nella XIV legislatura, v. scheda Vittime del terrorismo – I provvedimenti della XIV legislatura).

Le leggi 302/1990 e 407/1998 sono state da ultimo modificate in alcuni punti dal D.L. 13/2003[733]. Specificatamente dedicata ai militari deceduti o feriti in servizio è la L. 308/1981[734].

Il regolamento approvato con D.P.R. 510/1999[735]ha disciplinato in modo unitario e coordinato le modalità di attuazione delle citate leggi 466/1980, 302/1990 e 407/1998.

 

La legge 13 agosto 1980, n. 466 ha mirato ad una riorganizzazione della materia, prevedendo:

§      l’estensione della già prevista elargizione una tantum (aumentata a 100 milioni di lire) a nuove categorie di soggetti, in caso di morte o di grave invalidità: la misura interessa – oltre agli appartenenti alle Forze di polizia – i vigili del fuoco, i militari delle Forze armate, i vigili urbani, i magistrati ordinari, qualsiasi persona legalmente richiesta di prestare assistenza alle Forze di polizia, nonché tutti i cittadini italiani quando la morte o la grave invalidità consegua ad azioni terroristiche;

§      il diritto all’assunzione obbligatoria, secondo le disposizioni sul collocamento, al coniuge superstite ed ai figli dei soggetti appartenenti alle categorie destinatarie delle provvidenze, con precedenza su ogni altra categoria prevista dalle leggi vigenti;

§      l’ulteriore precisazione della definizione di “vittime del dovere”, comprendendo nelle circostanze legittimanti la corresponsione dei benefìci – indicate nell’art. 1 della L. 629/1973 – anche gli eventi connessi all’espletamento delle funzioni di istituto, proprie delle categorie considerate, e, più specificamente, all’attività di soccorso ed alle operazioni di polizia preventiva e repressiva.

 

La legge 3 giugno 1981, n. 308 ha introdotto norme in favore dei militari di leva e di carriera appartenenti alle Forze armate, feriti o caduti in servizio e dei loro superstiti.

Essa dispone la concessione della pensione privilegiata ordinaria nonché dei benefìci, relativi anch’essi al trattamento pensionistico, previsti dagli articoli 15 e 16 della L. 9/1980[736], ai militari, di carriera o di leva, ed ai loro congiunti, che subiscano, per causa di servizio o durante il periodo di servizio, un evento dannoso che ne provochi la morte o che comporti una menomazione dell’integrità fisica ascrivibile ad una delle categorie di cui alla tabella A o alla tabella B, del testo unico sulle pensioni di guerra (L. 313/1968[737]).

Ai soggetti sopraindicati si applicano, inoltre, le norme sull’equo indennizzo, di cui alla L. 1094/1970[738].

Ai superstiti dei militari caduti nell’adempimento del dovere in servizio di ordine pubblico o di vigilanza ad infrastrutture civili e militari, ovvero in operazioni di soccorso, è corrisposta una speciale elargizione di 200.000 euro pari quella prevista per i superstiti delle vittime del dovere (tale importo è stato così fissato da ultimo con il D.L. 337/2003).

L’art. 7 della legge stabilisce che i benefìci derivanti dall’applicazione della legge stessa decorrono dal 1° gennaio 1979; tale data non costituisce termine di decorrenza dei benefìci, bensì termine per l’applicazione della legge, nel senso che questa si applica solo per i fatti verificatisi dall’entrata in vigore da quella data in poi[739].

 

La legge 20 ottobre 1990, n. 302, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, ha disposto:

§      l’elevazione fino a 150 milioni di lire delle elargizioni di cui alla L. 466/1980 citata;

§      un ampliamento delle categorie dei beneficiari, prevedendo la corresponsione di un’elargizione, anch’essa pari a 150 milioni, a chiunque[740] subisca un’invalidità permanente per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza di vari accadimenti e, in particolare:

-       di atti di terrorismo o eversione dell’ordine democratico;

-       di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni mafiose;

-       di operazioni di prevenzione o repressione dei fatti delittuosi previsti dai punti precedenti;

-       di assistenza prestata ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, nel corso di operazioni di lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata;

§         la corresponsione della elargizione anche ai superstiti, compresi:

-       i componenti la famiglia della vittima;

-       i soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della vittima negli ultimi tre anni precedenti l’evento;

-       i conviventi more uxorio;

§      l’introduzione della possibilità, per i beneficiari che abbiano riportato una invalidità pari ad almeno due terzi della capacità lavorativa e per i superstiti, di ottenere un assegno vitalizio, in luogo dell’elargizione in unica soluzione;

§      il diritto all’assunzione obbligatoria presso le pubbliche amministrazioni dei coniugi superstiti, figli e genitori dei soggetti deceduti o resi permanentemente invalidi in misura non inferiore all’80% della capacità lavorativa (tale disposizione è stata poi abrogata dall’art. 22 della L. 68/1999);

§      l’esenzione dal pagamento dei ticket sanitari per ogni tipo di prestazione conseguente agli eventi che legittimano la corresponsione dei benefìci.

 

Sul modello della normativa introdotta con la L. 302/1990, sono stati approvati in seguito provvedimenti in favore delle vittime di specifici atti criminosi, quali:

§      la L. 9 novembre 1994, n. 628, recante disposizioni urgenti in favore delle famiglie dei marittimi italiani vittime dell’eccidio in Algeria del 7 luglio 1994;

§      la L. 8 agosto 1995, n. 340, che ha disposto l’estensione dei benefìci previsti dalla citata L. 302/1990 ai componenti delle famiglie di coloro che hanno perso la vita nel disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980;

§      la L. 31 marzo 1998, n. 70, che prevede l’estensione delle disposizioni di cui alla L. 302/90 alle vittime della cosiddetta banda della “Uno bianca”.

 

È quindi intervenuta la legge 23 novembre 1998, n. 407, che – nel testo modificato dal citato D.L. 13/2003 – apporta, tra le altre, le seguenti innovazioni:

§      diritto al collocamento obbligatorio ai soggetti di cui all’art. 1 della L. 302/1990 (si tratta di coloro che hanno subito un’invalidità permanente a causa di atti di terrorismo) e ai superstiti dei deceduti;

§      corresponsione di un vitalizio, oltre alla elargizione una tantum, di 500 mila lire mensili a chiunque subisca un’invalidità permanente non inferiore a un quarto della capacità lavorativa e ai superstiti delle vittime;

§      attribuzione di due annualità della pensione di reversibilità ai congiunti degli invalidi di cui all’art. 1 della L. 302/1990, in caso di decesso di questi ultimi;

§      istituzione di borse di studio riservate agli invalidi di cui sopra e agli orfani e ai figli delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata;

§      riliquidazione degli importi già corrisposti a titolo di speciale elargizione sulla base della rivalutazione operata dalla L. 302/1990, che, si ricorda, aveva elevato l’importo a 150 milioni di lire[741].

 

Per le vittime dei reati di tipo mafioso la legge 22 dicembre 1999, n. 512 ha istituito un Fondo di rotazione apposito alimentato da un contributo annuo dello Stato e dai proventi derivanti dalla confisca dei beni mafiosi. Le dotazioni del fondo sono destinate al pagamento delle somme liquidate con sentenza a titolo di risarcimento dei danni subìti in conseguenza di reati di tipo mafioso.

 

Un ulteriore assestamento di questa disciplina è stato operato dall’art. 82 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), che, tra l’altro:

§      riliquida gli importi già corrisposti a titolo di speciale elargizione di cui alla citata L. 466/1980 ai “superstiti di atti di terrorismo”, colpiti da grave invalidità permanente, tenendo conto dell’aumento (a 150 milioni) disposto dalla successiva L. 302/1990. Precisa inoltre a quali familiari delle vittime di atti di terrorismo – e in quale ordine – spettino le provvidenze ex L. 302/1990 in assenza dei familiari più prossimi in grado;

§      prevede che i benefìci previsti dalla L. 302/1990 e dalla L. 407/1998 si applichino a decorrere dal 1º gennaio 1967[742];

§      introduce un principio di ordine generale, in base al quale per la concessione di benefìci alle vittime della criminalità organizzata si applicano le norme vigenti in materia per le vittime del terrorismo, qualora più favorevoli;

§      attraverso due modifiche alla L. 407/1998, tende ad equiparare, dal punto di vista dei benefìci, le vittime della criminalità organizzata a quelle del terrorismo.


Vittime del terrorismo – I provvedimenti della XIV legislatura

La legge n. 206 del 2004

La legge 3 agosto 2004, n. 206[743] ha dettato norme in favore dei cittadini italiani vittime di atti di terrorismo e di stragi, compiute sul territorio nazionale o all’estero, e dei loro familiari superstiti. Tale legge si innesta sulla stratificata disciplina preesistente (v. scheda Vittime del terrorismo – Il quadro normativo): l’art. 1 infatti prevede in via generale che, per quanto stessa non espressamente previsto dalla legge stessa, si applicano le disposizioni contenute nelle leggi 302/1990 e 407/1998 e l’art. 82 della L. 388/2000.

Le altre misure stabiliscono:

§      la ridefinizione a 200.000 euro dell’entità massima delle elargizioni, già disposte dalla normativa previgente, in favore di chiunque subisca una invalidità permanente (o dei familiari in caso di morte) a causa di atti di terrorismo;

§      la concessione, oltre all’elargizione, di uno speciale assegno vitalizio, non reversibile, di 1.033 euro mensili, soggetto alla perequazione automatica;

§      la rivalutazione delle percentuali di invalidità già riconosciute e indennizzate in base alla normativa preesistente, tenendo conto dell’eventuale intercorso aggravamento fisico e del riconoscimento del danno biologico e morale;

§      la prestazione, a carico dello Stato, dell’assistenza psicologica alle vittime e ai loro familiari;

§      alcuni benefìci che incidono sui trattamenti pensionistici (aumento figurativo di 10 anni dei versamenti contributivi utili ad aumentare l’anzianità pensionistica maturata, la misura della pensione e il trattamento di fine rapporto; equiparazione, per le vittime che hanno subìto danni più gravi, ai grandi invalidi di guerra e riconoscimento del diritto immediato alla pensione diretta; adeguamento costante, al trattamento in godimento dei lavoratori in attività, delle pensioni delle vittime);

§      il diritto al patrocinio legale gratuito, a carico dello Stato, nei procedimenti penali, civili, amministrativi e contabili per le vittime e i loro superstiti;

§      la garanzia di tempi certi per le procedure in sede amministrativa e giurisdizionale relative al riconoscimento e alla valutazione dell’invalidità e all’attribuzione di provvidenze alle vittime del terrorismo;

§      l’applicazione dei benefìci della L. 206/2004 a decorrere dal 1° gennaio 1961, per gli eventi verificatisi in Italia, e dal 1° gennaio 2003, per quelli all’estero.

Le vittime della strage di Kindu

La L. 91/2006[744] estende i benefìci previsti dalla L. 206/2004 anche ai familiari superstiti degli aviatori italiani caduti a Kindu, in Congo, nel 1961.

Infatti, come si è detto sopra, le disposizioni della L. 206/2004 si applicano (art. 15) agli eventi accaduti dal 1° gennaio 1961 verificatisi nel territorio nazionale (comma 1). Anche i fatti verificatisi all’estero rientrano nell’ambito di applicazione della legge, ma solamente quelli accaduti a decorrere dal 1° gennaio 2003 (comma 2).

La L. 91/2006, pertanto, dispone una deroga a quanto stabilito al citato art. 15, comma 2, estendendo le disposizioni fissate dalla legge 206 anche ai familiari delle vittime dell’eccidio avvenuto a Kindu l’11 novembre 1961.

 

I tragici eventi cui fa riferimento la legge si inquadrano nel contesto della transizione post-coloniale nell’Africa equatoriale.

In Congo (già colonia belga) alla proclamazione dell’indipendenza, nel giugno del 1960, seguì immediatamente una violenta guerra civile, culminata con la secessione della ricca regione del Katanga.

Le Nazioni Unite intervennero per ristabilire l’ordine con una forza multinazionale, cui partecipò anche un contingente italiano.

Facevano parte di tale contingente anche i tredici aviatori che l’11 novembre 1961 furono catturati da miliziani fedeli al leader nazionalista Lumumba (ucciso pochi mesi prima) nell’area dell’aeroporto di Kindu, e successivamente trasferiti nella prigione della città e qui uccisi.

Nel corso della guerra civile persero la vita anche altri cittadini italiani, militari e civili, altri subirono danni alle proprietà ed altri ancora abbandonarono il paese. Per il risarcimento dei danni si aprì un lungo contenzioso che si concluse con uno scambio di note firmato a New York il 18 gennaio 1967, in base al quale l’ONU avrebbe dovuto versare all’Italia la somma forfetaria di 150 mila dollari e 2 milioni e 500 mila franchi congolesi. Tali somme, tuttavia, erano destinate ai familiari degli italiani uccisi, o che avevano subito danni, a causa di atti illeciti commessi dalle truppe dell’ONU e non per azioni militari. L’ONU infatti non assunse alcuna responsabilità né per gli atti bellici compiuti dalle proprie truppe per necessità militari, né per quelli compiuti da forze militari congolesi regolari o ribelli, ritenendo che tali atti dovessero ricadere a carico del Governo del Congo, il quale ha sempre rifiutato ogni responsabilità. Ai familiari degli aviatori caduti a Kindu venne, pertanto, attribuito unicamente il trattamento privilegiato di reversibilità da parte del Ministero della difesa[745].

Gli altri interventi normativi della XIV legislatura

Tra le altre disposizioni in materia adottate nella XIV legislatura si ricordano in particolare i seguenti:

decreto-legge 28 settembre 2001, n. 354, Disposizioni urgenti per il trasporto aereo[746], con il quale lo Stato italiano offre la garanzia gratuita per il risarcimento dei danni subiti da terzi come conseguenza di atti di guerra o terrorismo, in favore delle compagnie aeree nazionali;

§      legge 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003): l’art. 34, co. 9, consente l’accesso al corpo della Guardia di finanza ai familiari unici superstiti, del personale delle Forze di polizia deceduto o invalido nell’espletamento di servizi di polizia o di soccorso pubblico;

§      legge 14 gennaio 2003, n. 7, Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York il 9 dicembre 1999, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno, (art. 6): modifica l’art. 1 della L. 302/1990 precisando che non si dà luogo alla corresponsione della speciale elargizione ivi prevista per le vittime del terrorismo, se questa è già stata richiesta o corrisposta da altro Stato;

§         legge 16 gennaio 2003, n. 3, Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione (art. 34 e 37), che introduce alcuni benefìci a favore dei congiunti del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia ;

§      D.L. 4 febbraio 2003, n. 13[747], Disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata: apporta specifiche modificazioni alla disciplina recata dalle leggi 302/1990 e 407/1998 in materia di benefìci a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

 

Le modifiche si sostanziano principalmente:

-        nell’innalzamento (dal 20 al 90 per cento dell’intera elargizione prevista per legge) della provvisionale erogabile ai sensi dell’art. 7, co. 3, della L. 302/1990 (articolo 1 del decreto-legge; l’articolo 4 prevede che l’importo delle provvisionali già corrisposte sia conseguentemente rideterminato);

-        nell’erogabilità dell’assegno vitalizio di cui all’art. 2, co. 1, della L. 407/1998 anche prima dell’emanazione di specifica sentenza, qualora risultino di chiara evidenza i presupposti che la legge richiede per la concessione (articolo 2);

-        nell’estensione alla scuola dell’obbligo delle borse di studio (che l’art. 4 della della L. 407/1998 prevede per i corsi di studio superiori e universitari), a favore degli orfani e dei figli delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (articolo 3);

 

§      D.L. 28 novembre 2003, n. 337, Disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all'estero[748], estende ai familiari delle vittime civili italiane degli attentati terroristici di Nassiriya e di Istanbul[749] le provvidenze economiche previste per analoghi eventi verificatisi sul territorio nazionale dagli artt. 1 e 4 della L. 302/1990 e dall’art. 2 della L. 407/1998, ovvero una speciale elargizione e un assegno vitalizio mensile. Inoltre il decreto-legge eleva a 200.000 euro, per gli eventi verificatisi dopo il 1º gennaio 2003, l’importo della speciale elargizione di cui alla L. 302/1990, e delle elargizioni previste da altre disposizioni legislative a favore delle persone ferite o cadute per servizio o nell’adempimento del dovere e dei loro familiari. Infine, da segnalare una norma interpretativa dell’articolo 82, comma 1, della L. 388/2000, che estende le provvidenze di cui alle citate leggi 302/1990 e 407/1988 ai magistrati e al personale civile e militare delle forze dell’ordine, feriti o caduti per servizio o nell’adempimento del dovere, nonché ai loro familiari. La norma in oggetto chiarisce che tale disciplina è applicabile anche agli eventi occorsi al di fuori del territorio nazionale.

§      legge 24 dicembre 2003, n. 350, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004): aumenta a 500 euro mensili dell’ammontare dell’assegno vitalizio erogato alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (art. 4, co. 238);

§      D.L. 20 gennaio 2004, n. 9[750], Proroga della partecipazione italiana a operazioni internazionali (art. 1-bis), che estende ai familiari il diritto al collocamento obbligatorio e il beneficio delle borse di studio previsti dalla L. 407/1998;

§      legge 10 ottobre 2005, n. 207, Conferimento della Croce d'onore alle vittime di atti di terrorismo o di atti ostili impegnate in operazioni militari e civili all'estero;

§      legge 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005 (art. 3): prevede il riassetto delle disposizioni che disciplinano le provvidenze per le vittime del dovere, del servizio, del terrorismo, della criminalità organizzata e di ordigni bellici in tempo di pace, da attuare con l’emanazione di uno o più decreti legislativi entro il dicembre 2006;

§       legge 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006): prevede la progressiva estensione di tutti i benefìci previsti per le vittime della criminalità e del terrorismo alle vittime del dovere, includendo tra le vittime del dovere, non solamente, le forze dell’ordine, i militari, i magistrati, i vigili del fuoco ecc., ma anche tutti gli altri dipendenti pubblici deceduti in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto e per cause di servizio espressamente indicate (articolo 1, commi 562-565). L’art. 1, co. 272, della stessa legge finanziaria 2006, istituisce una specifica indennità – entro il limite di spesa di 8 milioni di euro per l’anno 2006 – per gli eredi delle vittime del disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980. La disposizione è finalizzata a superare alcuni problemi interpretativi della legge 206 che hanno di fatto impedito ai familiari delle vittime di Ustica di usufruirne dei benefìci.In particolare, l’ostacolo principale risiederebbe nella mancanza della qualificazione in sede giudiziaria del disastro aereo di Ustica quale atto di natura terroristica[751].

§      legge 25 gennaio 2006, n. 29, Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2005, reca, nell’allegato B, l’autorizzazione al recepimento della direttiva 2004/80/CE, del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, volta, innanzitutto, a obbligare gli Stati membri a introdurre, laddove non esista, un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime, e, inoltre, ad assicurare che, se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui il richiedente l’indennizzo risiede abitualmente, il richiedente ha diritto a presentare la domanda presso un’autorità di quest’ultimo Stato membro che provvede anche all’erogazione dell’indennizzo.

 

 


Iniziative sulla sicurezza sussidiaria

Premessa

Il 25 luglio 2003 il Governo ha presentato alla Camera un disegno di legge (A.C. 4209) recante una disciplina organica delle attività di sicurezza esperibili da soggetti privati (vigilanza privata, investigazioni private, ricerca e raccolta di informazioni, recupero stragiudiziale di crediti per conto terzi, trasporto e scorta valori, servizi di custodia e di sicurezza secondaria), attività complessivamente definite di “sicurezza sussidiaria”. Tale dizione – riferita ad attività che i privati possono esercitare in quanto non presuppongono l’esercizio di poteri coercitivi – è stata scelta al fine di evidenziarne il carattere complementare rispetto alle funzioni di “sicurezza primaria”, che restano affidate alle forze di polizia facenti capo alle autorità di pubblica sicurezza nazionali e locali.

Sul provvedimento, licenziato per l’Assemblea dalla I Commissione in un testo unificato con altre dieci proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 301 e abb.-A), non è stato concluso l’esame in Assemblea per la fine della legislatura.

Il testo unificato, che si compone di 34 articoli, risulta articolato nei seguenti sette capi:

§         il capo I (artt. 1-10) reca disposizioni di carattere generale, che definiscono le attività di sicurezza sussidiaria e la disciplina delle autorizzazioni cui resta subordinato l’esercizio di tali attività;

§         il capo II (artt. 11-16) disciplina gli istituti di vigilanza e di sicurezza e le guardie giurate;

§         il capo III (artt. 17-21) è dedicato ai servizi di trasporto di valori e di scorta a valori;

§         il capo IV (artt. 22-25) reca norme sui servizi di custodia e sugli altri servizi di sicurezza secondaria;

§         il capo V (artt. 26-27) si occupa delle attività di investigazione e ricerca;

§         il capo VI (artt. 28-29) disciplina le attività di recupero dei crediti;

§         il capo VII (artt. 30-34) reca disposizioni finali e transitorie.

Disposizioni generali e regime autorizzatorio

Nell’ambito del Capo I (artt. 1-10), l’articolo 1 definisce in via generale le attività di sicurezza sussidiaria, oggetto del progetto di legge, individuate come quelle “rivolte ad evitare danni o pregiudizi alla libera fruizione dei beni, anche immateriali, svolte da soggetti privati, che la legge non riserva alla forza pubblica”.

L’articolo offre un elenco di tali attività, ripartendole tra quelle che possono essere svolte dagli istituti di vigilanza e di sicurezza a mezzo di guardie giurate, e quelle che possono essere svolte da soggetti diversi.

Tra le prime (comma 2), oltre alle tradizionali attività di vigilanza e custodia di beni mobili o immobili, di imprese, di uffici anche pubblici, sui mezzi di trasporto, rientrano quelle aventi ad oggetto prodotti ad alta tecnologia, medicinali, armi e munizioni, sostanze tossiche o esplosivi, in aziende pubbliche e private o in altri siti che possano essere considerati come “obiettivi sensibili”.

Nell’elenco (come si dirà, non esaustivo) sono contemplate anche attività di più recente evoluzione, quali la gestione di sistemi di sicurezza complessi e di misure anti-intrusione, di sistemi di video-sorveglianza e di teleallarme.

Ai sensi del comma 3 sono svolte da appositi istituti a mezzo di guardie giurate le attività di trasporto e scorta a valori.

Rientrano nel secondo gruppo (comma 4) attività che non debbono rispondere a particolari esigenze di sicurezza né comportano l’uso di armi o mezzi di coazione fisica: tra le altre, la scorta tecnica per trasporti eccezionali, i servizi a tutela della pubblica incolumità da assicurarsi nel corso di gare su strada, la consulenza e l’installazione di sistemi di sicurezza, la custodia di esercizi, stabilimenti, uffici, ovvero beni mobili o immobili quando non vi siano particolari esigenze di sicurezza.

Quanto alle attività di trattenimento o spettacolo, sono svolti dagli istituti di vigilanza e sicurezza a mezzo di guardie giurate i relativi servizi rivolti anche alla tutela dell’incolumità degli artisti e degli spettatori (è peraltro escluso l’uso di armi o altri strumenti di coazione); i servizi di vigilanza e custodia possono essere svolti da soggetti diversi, quando non vi siano particolari esigenze di sicurezza che richiedano l’impiego di guardie giurate.

Particolare rilievo assume il comma 5 dell’articolo, ai sensi del quale, con decreto ministeriale, l’elenco recato dalla legge potrà essere integrato con nuove attività di sicurezza sussidiaria che non comportino l’esercizio di potestà pubbliche o limitazioni della libertà personale.

Rientrano nella disciplina di cui al disegno di legge anche le attività di investigazione e quelle di recupero stragiudiziale di crediti (comma 6).

Ulteriori disposizioni sono rimesse all’emanando regolamento di attuazione (il testo non reca peraltro un termine finale per l’adozione di tale regolamento): tra queste, l’istituzione e la tenuta di una banca dati degli istituti e delle imprese disciplinati dalla legge, e le misure finalizzate al controllo delle attività autorizzate, anche relativamente alla qualità dei servizi, con la specificazione analitica di livelli minimi di qualità (commi 7 e 8).

A tal fine, il regolamento dovrà prevedere che, con decreto ministeriale, sentita la Commissione consultiva di cui all’art. 8, siano stabiliti i requisiti minimi di ordine tecnico operativo, predisposti dall’Ente nazionale di unificazione[752].

 

L’articolo 2 disciplina in via generale le autorizzazioni di polizia alle quali la legge subordina l’esercizio delle attività di cui all’articolo 1.

Sul piano oggettivo, il comma 1 precisa che l’autorizzazione non può contemplare attività che non siano correlate a “specifici incarichi di natura contrattuale”, né – salva espressa previsione legislativa – attività che importino l’esercizio di pubbliche potestà o limitazioni della libertà personale.

Sul piano soggettivo, l’articolo (commi 2-5) elenca i requisiti per l’ottenimento dell’autorizzazione, tra i quali è compreso quello della cittadinanza italiana o di altro Stato dell’Unione europea; requisiti il cui possesso è necessario anche per lo svolgimento di incarichi direttivi o di rappresentanza nella società o nell’impresa.

Il rilascio o il rinnovo dell’autorizzazione (altresì denominata licenza), che ha durata quinquennale (comma 6; il comma 7 disciplina la temporanea prosecuzione dell’attività in caso di morte del titolare), è subordinato anche al documentato adempimento degli obblighi fiscali, assicurativi e contributivi nei confronti dei dipendenti, nonché al rilascio di una cauzione, il cui ammontare è determinato dal prefetto, sulla base di parametri ministeriali, in relazione alle caratteristiche dell’attività (commi 8 e 9).

L’estensione dell’attività ad ambiti più ampi di quelli originari è anch’essa sottoposta a preventiva autorizzazione (comma 10). Ai sensi del comma 11, al di là degli specifici obblighi previsti dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza competente può sempre disporre prescrizioni o divieti aggiuntivi, motivate dal pubblico interesse o da esigenze di ordine e sicurezza pubblica; potendo altresì limitare l’assunzione, l’aggregazione o la cessione temporanea di guardie giurate. I princìpi generali e i parametri tecnico-amministrativi per l’omogenea applicazione della disciplina in tutto il territorio dello Stato sono definiti dal ministro dell’interno, sentita la Commissione consultiva centrale istituita dal successivo art. 8 (vedi infra) o un’apposita sottocommissione.

 

Ai sensi dell’articolo 3 (comma 1), il rilascio dell’autorizzazione è subordinato all’approvazione di un progetto organizzativo e tecnico-operativo presentato dal richiedente nonché, per gli istituti di vigilanza e di sicurezza, all’approvazione delle regole tecnico-operative concernenti il servizio delle guardie giurate.

Entrambi i documenti, dei quali l’articolo, al comma 2, stabilisce in dettaglio il contenuto, sono soggetti ad atti di approvazione amministrativa distinti dall’autorizzazione di cui all’art. 2, pur se quest’ultima può essere chiesta contestualmente alla presentazione del progetto (o al più tardi entro sei mesi dall’approvazione di questo; cfr. commi 3 e 4).

 

L’articolo 4 elenca partitamente gli obblighi cui sono tenuti in via generale i titolari delle attività autorizzate, in aggiunta a quanto specificamente previsto per ciascuna di tali attività. Si tratta principalmente di obblighi:

§         di pubblicità sulle prestazioni e sulle rispettive tariffe;

§         di registrazione, comunicazione e informazione all’autorità vigilante (sulle operazioni svolte, sul personale impiegato, su quanto abbia comunque attinenza con l’ordine e con la sicurezza pubblica);

§         di vigilanza sull’attività del personale.

Con riguardo alle tariffe, il relativo ammontare dev’essere commisurato, ai sensi del comma 2, alla tipologia dei servizi, alla qualità degli stessi ed alla prevedibile entità dei costi sostenuti. La tabella recante le tariffe è vidimata dall’autorità competente al rilascio della autorizzazione o da un funzionario da questa delegato. È possibile praticare prezzi inferiori alla tariffa vidimata solo in presenza di corrispondenti economie debitamente documentate. Sono nulli i patti che stabiliscono tariffe diverse o prestazioni aggiuntive gratuite.

I criteri e le procedure per definire le tariffe e per assicurarne, per quanto possibile, l’uniformità a livello nazionale, sono determinati con decreto del ministro dell’interno, sulla base delle indicazioni formulate dalla Commissione consultiva di cui all’art. 8 (vedi infra), o da una specifica sottocommissione. Il decreto deve comunque indicare le tariffe minime inderogabili dei servizi che comportano un rapporto fra l’unità di personale impiegata e ciascuna ora di servizio prestata.

Ai sensi dei commi 5-6, la vigilanza sulle attività in oggetto spetta al questore il quale può, tra l’altro, impartire ulteriori prescrizioni, operare in qualsiasi momento controlli e ispezioni, disporre la sospensione cautelare dal servizio di guardie giurate, collaboratori investigativi, agenti di recupero crediti in caso di grave inosservanza degli obblighi inerenti all’espletamento del servizio. Il questore si avvale non solo della Polizia di Stato e delle altre forze di polizia, ma anche degli accertamenti svolti dagli organi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e da altri organi aventi competenza in materia.

 

L’articolo 5 indica in quali ipotesi e secondo quali modalità le autorizzazioni possono essere negate, revocate o sospese. Oltre alla carenza o al venir meno delle condizioni richieste per il rilascio, possono motivare il diniego o la revoca altre evenienze, tra le quali (comma 2, lett. e)) “il fondato pericolo che l’istituto, la società o l’impresa […] acquisisca una posizione predominante nel territorio o nel settore di attività”, sulla base di parametri stabiliti dal ministro sentita la Commissione consultiva di cui all’art. 8. La medesima disposizione fissa essa stessa alcuni tra questi parametri:

§         la presenza nel territorio di un istituto o gruppi di istituti partecipati o controllati da una medesima società o impresa non può superare il 30 per cento del territorio di ciascuna delle aree produttive del Paese, individuate, su base regionale o interregionale, con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per le attività produttive;

§         nessun istituto o gruppo di istituti controllati da una medesima società o impresa può impiegare, nella provincia in cui opera, un numero di guardie giurate o di altri operatori abilitati superiore ad un terzo delle forze dell’ordine a disposizione dell’autorità di pubblica sicurezza della stessa provincia;

§         in ciascuna provincia deve essere comunque assicurata la pluralità dell’offerta;

Il diniego dell’autorizzazione può inoltre essere motivato dalla presenza sul territorio di un numero non proporzionato di istituti o imprese di servizi, di guardie giurate o di altri operatori abilitati. Anche in questo caso, i parametri di valutazione sono fissati dal ministro dell’interno, sentita la Commissione di cui all’art. 8.

 

L’articolo 6 consente che per le imprese stabilite in altro Stato membro dell’Unione europea, nel quale esse prestino legalmente servizi di sicurezza sussidiaria, l’autorizzazione sia sostituita da una dichiarazione di inizio di attività, accompagnata dai dati relativi al progetto organizzativo e alle regole tecnico-operative di cui all’art. 3. Ciò è possibile a condizione che:

§         la verifica dei requisiti soggettivi e la materia dei controlli e delle misure amministrative cautelari e sanzionatorie siano disciplinate, nello Stato di stabilimento, in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto in Italia;

§         le autorità di tale Stato assicurino l’attuazione, con ragionevole tempestività, dei controlli e degli interventi sanzionatori e cautelari previsti dalle disposizioni vigenti in Italia, dietro motivata richiesta delle autorità italiane.

La disposizione in oggetto (al pari del successivo co. 4 dell’art. 14, vedi infra) sembra intesa a tener conto di alcuni dei rilievi sollevati, in ambito comunitario, sulla legislazione vigente in materia di sicurezza privata, rilievi che hanno motivato l’avvio da parte della Commissione europea di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia.

 

Il 5 luglio 2005 la Commissione europea ha deciso di adire la Corte di giustizia delle Comunità europee contro l’Italia per violazione degli articoli 43 e 49 del Trattato UE: secondo la Commissione, infatti, la normativa italiana frapporrebbe ostacoli alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi privati di sorveglianza[753]. Tale decisione fa seguito al parere motivato inviato all’Italia il 14 dicembre 2004[754].

La vigente disciplina in materia, principalmente riconducibile al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, artt. 133 ss.) ed al relativo regolamento di esecuzione (R.D. 6 maggio 1940, n. 635, artt. 249 ss.), sottopone l’esercizio delle attività in oggetto a varie condizioni che la Commissione ritiene non necessarie o sproporzionate, e in particolare:

§         la necessità di ottenere un’autorizzazione preliminare per esercitare le attività di sicurezza privata, estesa alle imprese stabilite in altro Stato membro in cui prestano legalmente servizi analoghi;

§         la limitata validità territoriale dell’autorizzazione (ne è necessaria una per ogni provincia nella quale si prestano i servizi) e la considerazione, ai fini del rilascio, del numero e dell’importanza delle imprese già attive;

§         l’obbligo di avere, in ogni provincia per la quale si è ottenuta l’autorizzazione, una sede operativa, la fissazione di un numero minimo e massimo di dipendenti, la disciplina relativa al deposito di una cauzione;

§         la prevista approvazione amministrativa delle tariffe minima e massima, che, osserva la Commissione, configura un regime di controllo amministrativo dei prezzi;

§         l’esigenza di autorizzazione del personale per l’esercizio dell’attività di guardia privata giurata, e l’obbligo per tale personale di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica italiana.

 

L’articolo 7 indica i casi e i modi in cui gli enti pubblici, gli altri enti collettivi ed i privati possono esercitare in forma diretta, avvalendosi cioè di propri dipendenti che siano – comunque – guardie giurate, attività di vigilanza, custodia o scorta di propri beni immobili o mobili, previa indicazione di un responsabile e rilascio di un nulla osta da parte del prefetto. La disciplina del nulla osta è rimessa al regolamento di esecuzione.

 

L’articolo 8 istituisce, presso il Ministero dell’interno, una Commissione consultiva centrale per le attività di sicurezza sussidiaria. Si tratta di un organo collegiale la cui composizione vede la rappresentanza sia delle amministrazioni pubbliche sia delle categorie professionali interessate.

Alla Commissione, che può articolarsi in sottocommissioni per compiti specifici, sono attribuite funzioni consultive nel procedimento di adozione del regolamento attuativo della legge e su ogni altra questione afferente al settore, e compiti di analisi delle relative problematiche, che possono tradursi in proposte di iniziative legislative da sottoporre al ministro dell’interno.

Spetta infine alla Commissione la tenuta del registro delle persone che esercitano professionalmente attività di sicurezza sussidiaria, di cui al successivo art. 10.

 

Ai sensi dell’articolo 9, Il ministro dell’interno può delegare i prefetti dei capoluoghi di regione ad istituire osservatori regionali in materia di sicurezza sussidiaria, aventi compiti di monitoraggio, consultivi e propositivi.

 

Particolare rilievo assume l’articolo 10, che istituisce presso il Ministero dell’interno il registro delle persone che esercitano professionalmente attività di sicurezza sussidiaria.

Il registro è tenuto dalla Commissione di cui all’art. 8, e in esso sono iscritte in distinte sezioni le varie categorie di persone che esercitano professionalmente le attività disciplinate dalla legge: direttori ed institori dei relativi istituti e imprese, collaboratori investigativi, agenti di recupero crediti, operatori tecnologici del settore, responsabili dei servizi di sicurezza delle imprese e loro coadiutori.

I requisiti generali per l’iscrizione al registro sono individuati dal medesimo articolo 8. È previsto tra l’altro l’obbligo di assicurazione per i rischi di responsabilità civile inerenti all’attività esercitata.

La disciplina di dettaglio è invece rimessa a un decreto avente natura regolamentare, da adottare ad opera del ministro dell’interno di concerto con il ministro della giustizia e sentita al Commissione di cui all’art. 8. Tale decreto dovrà inoltre definire le procedure per l’adozione di codici di deontologia professionali, da predisporre a cura delle singole sezioni nelle quali si articola la citata Commissione.

Istituti di vigilanza e di sicurezza e guardie giurate

Definita la disciplina generale e passando al Capo II (artt. 11-16), gli articoli 11 e 12 specificano, rispettivamente, gli ulteriori requisiti e condizioni per il rilascio delle licenze (da parte del prefetto) agli istituti di vigilanza e sicurezza, e gli obblighi specificamente riferiti a tali istituti.

Di particolare rilievo è la delimitazione dell’ambito territoriale di attività, di norma non superiore alla provincia, salve eccezioni dovute alla particolare natura delle operazioni svolte. L’attività, mediante impiego operativo di guardie giurate, in province diverse è altrimenti effettuata avvalendosi necessariamente di sedi secondarie (unità direzionali di livello almeno provinciale), ovvero ricorrendo ad accordi con altri istituti di vigilanza.

Ferma restando la portata delle autorizzazioni, gli istituti possono inoltre costituirsi in raggruppamenti temporanei di impresa o in consorzi. È invece vietata l’acquisizione mediata di servizi di vigilanza (tramite società mandatarie degli utenti).

Tra gli obblighi inerenti alle autorizzazioni assumono particolare rilievo quello di assicurare i collegamenti con le centrali operative della polizia e quello di prestare la propria opera a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza.

 

I successivi tre articoli sono specificamente dedicati alle guardie giurate.

L’articolo 13 disciplina le modalità e i limiti di impiego di tali guardie, indicando i servizi che devono essere svolti attraverso di esse. Tra le disposizioni ivi recate si segnala il comma 4, che attribuisce alle guardie giurate, nell’ambito del servizio in cui sono impiegate, il potere di stendere verbali che “fanno fede fino a prova contraria” e di procedere all’arresto, nei casi previsti dalla legge, delle persone colte in flagranza dei delitti che sono tenute a prevenire, fermo restando l’obbligo di consegnare immediatamente all’organo di polizia che interviene sul posto le persone arrestate e i mezzi di prova eventualmente raccolti.

Altrettanto significativo il comma 5: esso, in via generale, precisa che l’addetto ai servizi di vigilanza, nell’esercizio della sua attività, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio, ma attribuisce la qualifica di pubblico ufficiale:

§         alle guardie giurate comandate o richieste dall’autorità di pubblica sicurezza per lo svolgimento di servizi o attività determinate;

§         alle guardie giurate che, per disposizione di legge, svolgano attività di natura pubblicistica, specificamente determinate, in aggiunta a quelle di vigilanza.

In tali ipotesi, prosegue il comma, le guardie giurate operano quali agenti ausiliari di pubblica sicurezza.

 

Sono agenti di pubblica sicurezza gli appartenenti alla polizia di Stato che, nell’ordinamento del personale, fanno parte del ruolo degli agenti, e gli appartenenti alle altre forze di polizia aventi funzioni analoghe. L’art. 43 del R.D. 690/1907[755] stabilisce che il ministro dell’interno, d’accordo con gli altri ministri competenti, può con suo decreto attribuire la qualifica di agente di pubblica sicurezza alle guardie telegrafiche e di strade ferrate ed ai cantonieri, purché posseggano i requisiti determinati dal regolamento e prestino giuramento innanzi al pretore, come pure ad altri agenti destinati dal Governo all’esecuzione ed all’osservanza di speciali leggi e regolamenti dello Stato.

Ai sensi dell’art. 34 del testo unico, sia gli ufficiali sia gli agenti di pubblica sicurezza “vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico, all’incolumità e alla tutela delle persone e delle proprietà, in genere alla prevenzione dei reati, raccolgono le prove di questi e procedono alla scoperta, ed in ordine alle disposizioni della legge, all’arresto dei delinquenti; curano l’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, come pure delle ordinanze delle pubbliche autorità; prestano soccorso in casi di pubblici e privati infortuni”[756].

 

L’articolo 14 elenca i requisiti personali per la nomina a guardia giurata, che comporta l’iscrizione ad un apposito albo provinciale; prescrive l’approvazione alla nomina ad opera del prefetto e disciplina formula e modalità del giuramento.

Ai sensi del comma 4, chi risulti autorizzato a svolgere attività di vigilanza e custodia in altro Stato membro dell’Unione europea ottiene l’approvazione previa esibizione di tale autorizzazione, purché la legislazione di quello Stato disciplini la verifica dei requisiti soggettivi, i controlli e le misure cautelari e sanzionatorie in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto in Italia.

 

I requisiti professionali minimi delle guardie giurate sono determinati con decreto del ministro dell’interno, sentite la Commissione consultiva e la Conferenza Stato-regioni. Così dispone l’articolo 15, il quale reca altresì norme finalizzate alla definizione dei percorsi di formazione delle guardie giurate. Ferma restando la competenza generale delle regioni in materia di formazione professionale, il comma 2 assegna alla Conferenza Stato-regioni il compito di promuovere l’adozione, da parte delle regioni, di normative comuni in materia, e affida al ministro l’adozione dei programmi formativi da osservare quando alla formazione ed all’aggiornamento provvedono gli istituti di vigilanza e di sicurezza o gli enti bilaterali previsti dai contratti collettivi delle guardie giurate. Il comma 4 impone alle aziende obblighi di aggiornamento professionale, comprensivi dell’addestramento all’uso dell’arma. Ai sensi del comma 8, speciali servizi formativi possono essere organizzati dal Ministero dell’interno sulla base di convenzioni con regioni o altri soggetti pubblici o privati.

I commi 5-7 disciplinano l’accertamento e l’attestazione dei requisiti professionali, psico-fisici ed attitudinali, ponendo a carico della guardia giurata uno specifico obbligo di aggiornamento professionale.

 

L’articolo 16 definisce cause ed effetti della sospensione e della cessazione della qualifica di guardia giurata.

Servizi di trasporto di valori e di scorta a valori

Nell’ambito del Capo III (artt. 17-21), gli articoli 17, 18 e 19 disciplinano le autorizzazioni concernenti i servizi di trasporto di valori e scorta a valori, e l’esercizio delle relative attività. Tali servizi sono prestati dagli istituti autorizzati dal prefetto ai sensi dell’art. 11; per i servizi di interesse nazionale (quelli “stabilmente organizzati per percorrere continuativamente itinerari che attraversano più regioni”), l’autorizzazione e le correlate prescrizioni sono disposte dal ministro dell’interno.

A parte quanto previsto dal regolamento di attuazione, spetta altresì al Ministero dell’interno impartire le direttive occorrenti per assicurare l’omogeneità delle condizioni richieste per il rilascio delle autorizzazioni e delle relative prescrizioni, delle modalità di esecuzione dei servizi e di impiego delle guardie giurate, dei mezzi di trasporto e delle attrezzature di sicurezza, dei limiti massimi di valore da trasportare in relazione alle caratteristiche dei mezzi e dei servizi, nonché le modalità di definizione e approvazione delle tariffe.

 

L’articolo 20 contempla specificamente l’attività di contazione del danaro e il deposito del danaro o altri valori in luoghi protetti (caveaux): questi ultimi sono soggetti ad un apposita autorizzazione prefettizia. L’articolo 21 disciplina l’impiego in tale ambito delle guardie giurate.

Servizi di custodia e altri servizi

Nell’ambito del Capo IV (artt. 22-25), le autorizzazioni relative ai servizi di custodia ed agli altri servizi di sicurezza secondaria sono regolate dall’articolo 22. Si tratta dei servizi indicati al comma 4 dell’art. 1: scorta tecnica per trasporti eccezionali, servizi a tutela della pubblica incolumità da assicurarsi nel corso di gare su strada, consulenza e installazione di sistemi di sicurezza, custodia di esercizi, stabilimenti, uffici, beni mobili o immobili quando non vi siano particolari esigenze di sicurezza (ivi incluse, è da ritenere, le attività di portierato), vigilanza e custodia durante attività di trattenimento o spettacolo quando non vi siano particolari esigenze di sicurezza.

In via generale, l’esercizio di tali attività è soggetto al rilascio di una autorizzazione ad opera del prefetto. Non è richiesta autorizzazione per le attività (escluse la consulenza e l’installazione di sistemi di sicurezza) svolte da dipendenti o collaboratori del titolare dei beni da custodire.

 

Quanto alle attività di consulenza e di installazione di sistemi di sicurezza (art. 1, co. 4, lett. c) e d)), l’articolo 23 rimette ad un apposito regolamento ministeriale la determinazione dei requisiti professionali e tecnici occorrenti per il loro esercizio e dei relativi controlli. Peraltro, non è fissato un termine per l’adozione di tale regolamento di attuazione (v. infra, sub art. 32)

 

In ogni caso, gli operatori (così l’articolo 24) non possono svolgere attività di sicurezza diverse da quelle loro proprie, né attività o interventi che la legge riserva agli organi di polizia o alle guardie giurate. Essi devono comunque corrispondere ad ogni richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza e riferire ogni circostanza utile per la prevenzione e la repressione dei reati.

 

Tali operatori devono ottenere (e annualmente rinnovare) l’iscrizione nel registro dei custodi abilitati, tenuto presso la questura, che l’articolo 25 del testo unificato prevede e disciplina. L’iscrizione è facoltativa per i custodi dipendenti da imprese, da società o da privati che provvedono direttamente. Tra i requisiti soggettivi per l’iscrizione, elencati al comma 2 dello stesso articolo, assume rilievo quello di cui alla lettera a), ove si consente l’iscrizione non solo ai cittadini italiani e degli altri Stati membri dell’Unione europea, ma anche agli stranieri in possesso della carta di soggiorno.

 

Ai sensi dell’art. 9 del testo unico in materia di immigrazione[757], la carta di soggiorno è rilasciata, su richiesta, allo straniero extracomunitario regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno sei anni il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari. Essa può essere rilasciata anche al coniuge ed ai figli minori conviventi dello straniero. La carta di soggiorno è a tempo indeterminato e abilita – tra l’altro – il titolare a svolgere nel territorio dello Stato ogni attività lecita, salvo quelle che la legge espressamente vieta allo straniero o comunque riserva al cittadino.

Attività di investigazione e ricerca

Gli articoli 26 e 27 (Capo V) si occupano delle attività di investigazione e ricerche.

Ferma restando la speciale disciplina relativa alle attività di investigazione difensiva di cui al libro V, titolo VI-bis, del codice di procedura penale – materia che il testo in esame non affronta – l’esercizio di tali attività è anch’essa soggetta ad autorizzazioni e sottoposta a specifici obblighi e controlli.

L’esercizio di un istituto di investigazione e ricerca è dunque subordinato – così l’articolo 26 – al rilascio di una autorizzazione da parte del prefetto. Le attività esercitabili (informazioni commerciali; investigazioni private, sicurezza investigativa) sono elencate e descritte al comma 3 dell’articolo.

Una licenza – rilasciata dal questore – è altresì prescritta per l’esercizio individuale delle attività di investigazione, ricerca e raccolta delle informazioni da parte dei collaboratori investigativi di cui gli istituti di investigazione e ricerca normalmente si avvalgono (comma 5).

Le attività investigative non comportano l’esercizio di poteri riservati agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza o ad altri soggetti investiti di pubbliche funzioni. Tra gli obblighi ai quali sono sottoposti i relativi operatori (articolo 27) rientra invece quello di prestare la propria opera a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza (comma 4).

Attività di recupero dei crediti

Gli articoli 28 e 29 (Capo VI) disciplinano le attività di recupero stragiudiziale dei crediti per conto di terzi, siano privati, siano pubbliche amministrazioni o enti pubblici.

Il primo dei due articoli, oltre a individuare (comma 3) il contenuto di tale attività, prevede e regola il rilascio della relativa autorizzazione, rimesso alla competenza del questore (l’autorizzazione può essere rilasciata per l’intero territorio nazionale), e disciplina le relative attività.

Il secondo articolo istituisce, in ogni questura, un apposito registro degli agenti di recupero, dei quali si avvalgono gli istituti autorizzati. Reciprocamente, gli agenti sono abilitati all’esercizio di tale attività (previo giuramento prestato davanti al questore) esclusivamente per conto di un’agenzia autorizzata, nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione con essa.

Disposizioni finali e transitorie

Nell’ambito del Capo VII, l’articolo 30 reca varie disposizioni sanzionatorie, di natura penale[758], per la violazione degli obblighi recati dal provvedimento.

 

L’articolo 31, finalizzato allo sviluppo del settore, estende, al comma 1, le agevolazioni finanziarie di cui all’art. 74 della L. 289/2002[759] anche alle piccole e medie imprese commerciali interessate a programmi di spesa per la realizzazione o il potenziamento della sicurezza sussidiaria mediante contratti pluriennali con istituti di vigilanza e di sicurezza per attività di sicurezza da svolgere mediante l’impiego di guardie giurate.

 

Si ricorda che l’art. 74 della legge finanziaria 2003 ha destinato 10 milioni di euro nell’anno 2003 al cofinanziamento di programmi regionali di investimento per la riqualificazione e il potenziamento dei sistemi e degli apparati di sicurezza nelle piccole e medie imprese commerciali.

 

I commi 2-4 dell’articolo recano ulteriori agevolazioni di natura fiscale.

 

L’articolo 32 reca disposizioni transitorie di varia natura, atte a regolare il passaggio dal previgente al nuovo regime. In particolare, l’articolo autorizza a proseguire – per non oltre dodici mesi – le attività non sottoposte ad autorizzazione anteriormente alla entrata in vigore del provvedimento in esame, mentre i vari titoli autorizzatori rilasciati a norma della disciplina già vigente conservano la loro efficacia fino alla data del loro rinnovo, che è disposto secondo le modalità stabilite dal provvedimento in esame e dal relativo regolamento di attuazione.

 

Con riguardo ai profili finanziari del provvedimento, assume rilievo il comma 8 dell’articolo, ai sensi del quale gli adempimenti connessi all’attuazione della nuova legge saranno svolti utilizzando le risorse strumentali ed umane degli uffici centrali o periferici delle amministrazioni interessate. Si ricorda altresì che le disposizioni intese a prevedere l’istituzione di registri e di albi stabiliscono che le spese per la relativa tenuta sono a carico dei rispettivi iscritti.

 

L’articolo 33 dispone l’abrogazione delle norme che sino ad oggi hanno disciplinato le diverse attività contemplate dal provvedimento in esame[760].

 

L’articolo 34 del testo unificato dispone infine, al comma 1, che la legge entri in vigore il primo giorno del terzo mese successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.


Vigili del fuoco – Il rapporto d’impiego

La delega per la riforma del rapporto d’impiego del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco

La legge 30 settembre 2004, n. 252[761], che trae origine da un disegno di legge di iniziativa governativa[762], ha operato una sostanziale revisione del rapporto di impiego del personale appartenente al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, stabilendo per esso il passaggio dal regime privatistico ad un’autonoma disciplina di diritto pubblico, al pari di quanto già previsto per gli altri Corpi dello Stato chiamati alla difesa dei valori fondamentali della Repubblica[763].

In tal modo è stato superato il disallineamento che sussisteva, a partire dalla privatizzazione del rapporto di lavoro del pubblico impiego avviata con il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29[764], tra il personale del Corpo, assoggettato al regime di diritto privato, con conseguente contrattualizzazione del rapporto di lavoro, e quello delle Forze di polizia.

 

La privatizzazione disposta nel 1993 dal D.Lgs. n. 29 ha interessato quasi tutti i rapporti di pubblico impiego. Sono rimasti assoggettati ad un regime contrattuale di tipo pubblicistico, in ragione della peculiarità del loro rapporto con l’amministrazione e delle particolari conseguenze che l’affidamento di pubbliche funzioni comporta, soltanto alcune categorie di dipendenti statali, che sono pertanto da considerare come eccezione rispetto ad una regola di carattere più generale, e più specificamente:

§       i magistrati ordinari, amministrativi e contabili;

§       gli avvocati e procuratori dello Stato;

§       il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia (limitatamente alle qualifiche superiori);

§       i docenti universitari;

§       il personale delle Forze armate e delle Forze di polizia

§       i dipendenti di alcune Autorità indipendenti[765].

Il rapporto di impiego del personale appartenente a ciascuna di queste categorie viene disciplinato dalle rispettive disposizioni di legge.

 

Tenuto conto della peculiarità e della rilevanza dei compiti istituzionali svolti dal Corpo, con la riforma del 2004 si è voluto conseguire il duplice scopo di rendere l’ordinamento del personale più adeguato alle tradizionali missioni istituzionali del soccorso pubblico, della prevenzione incendi e della protezione civile, oltre che della nuova missione istituzionale della difesa civile e di rendere più evidente e percepibile la funzione di sicurezza civile che il Corpo è chiamato ad espletare nella società, quale parte integrante e sostanziale del sistema di sicurezza garantito dallo Stato e diretto al conseguimento degli obiettivi di incolumità delle persone e di tutela dei beni e dell’ambiente[766].

 

Il Corpo nazionale dei vigili del fuoco adempie sull’intero territorio nazionale a funzioni sempre più complesse nel campo del soccorso e della difesa civile e della prevenzione.

Accanto ai compiti tradizionalmente assolti (soccorso pubblico, prevenzione incendi e protezione civile), si affianca quello (la difesa civile) connesso con i nuovi scenari internazionali e i possibili rischi correlati.

La difesa civile, quale componente della politica della sicurezza civile, ricomprende:

§       la garanzia e la sicurezza delle istituzioni;

§       la capacità di sopravvivenza economica, produttiva e logistica del “sistema Paese” in occasione di crisi interne o internazionali;

§       nell’ambito di tali crisi, la gestione di rischi di tipo non convenzionale derivanti dall’impiego in danno di persone o beni di armi di distruzione di massa di tipo nucleare, batteriologico e chimico.

 

L’articolo 1 della L. 252/2004, con una novella all’art. 3 del D.Lgs. 165/2001[767], ha incluso il personale del Corpo dei vigili del fuoco tra le categorie sottratte alla disciplina privatistica che l’art. 2 del D.Lgs. prevede per la generalità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

 

La riforma non ha invece inciso sull’ordinamento del personale volontario del Corpo dei vigili del fuoco – che rimane disciplinato dalle organiche disposizioni ad hoc recate dal regolamento di cui al D.P.R. 76/2004[768] – né su quello dei volontari di leva, per i quali continuano a trovare applicazione le disposizioni relative al personale delle Forze armate.

 

Il successivo articolo 2 della L. 252/2004 ha conferito una delega al Governo per disciplinare i contenuti del rapporto di impiego e il relativo trattamento economico del personale del Corpo, prevedendo l’istituzione di un autonomo comparto di negoziazione per la definizione di alcuni aspetti peculiari del rapporto di impiego.

In attuazione della delega è stato adottato il D.Lgs. 13 ottobre 2005, n. 217[769].

Il nuovo ordinamento del personale del Corpo dei vigili del fuoco

Con l’intento di pervenire all’allineamento dell’ordinamento dei vigili del fuoco con quello del personale degli altri Corpi di polizia, il D.Lgs. 217/2005 ha previsto una strutturazione dei ruoli, delle qualifiche e dei meccanismi retributivi analoga a quella delle Forze dell’ordine, tale da permettere l’adeguamento economico, da conseguire successivamente attraverso i procedimenti della contrattazione collettiva.

Il D.Lgs. 217/2005 ha delineato inoltre un nuovo percorso professionale per il personale sia operativo sia amministrativo dei vigili del fuoco, mediante una progressione in carriera contraddistinta dal meccanismo del “doppio binario”, che garantisce alla generalità degli interessati avanzamenti di carriera e retributivi collegati essenzialmente a percorsi formativi e al raggiungimento di una determinata anzianità nei ruoli, ma al contempo permette ai soggetti più motivati, che siano in possesso di specifici titoli di merito, progressioni di carriera più veloci mediante concorsi interni.

Il decreto legislativo è composto da 175 articoli, raccolti in sei titoli (a loro volta suddivisi in capi) concernenti rispettivamente:

§      l’ordinamento del personale non direttivo e non dirigente, che espleta funzioni tecnico-operative (titolo I: artt. 1-38);

§      l’ordinamento del personale direttivo e dirigente, compreso quello medico e ginnico-sportivo (titolo II artt. 39-84)

§      l’ordinamento del personale non direttivo e non dirigente che svolge attività tecniche, amministrativo-contabili e tecnico-informatiche (titolo III: artt. 85-131);

§      norme comuni al personale del Corpo dei vigili del fuoco (titolo IV: artt. 132-144);

§      disposizioni sul personale dei gruppi sportivi e della banda musicale del Corpo dei vigili del fuoco (titolo V: artt. 145-148);

§      norme di inquadramento, transitorie, economico-finanziarie e finali (titolo VI: artt. 149-175).

 

Il personale del Corpo dei vigili del fuoco è stato suddiviso in tre fasce:

§      personale non dirigente e non direttivo con funzioni tecnico-operative;

§      personale dirigente e direttivo;

§      personale non dirigente e non direttivo che espleta attività tecniche, amministrativo-contabili e tecnico-informatiche.

Tale partizione trova corrispondenza nella struttura del D.Lgs. 217/2005 e, in particolare, nei titoli I, II e III del testo.

I tre titoli presentano a loro volta una struttura analoga, all’interno della quale l’ordinamento del personale è definito attraverso la medesima successione:

§      istituzione dei ruoli e loro articolazione in qualifiche;

§      individuazione delle funzioni del personale;

§      modalità e requisiti di accesso a ciascun ruolo;

§      modalità di svolgimento dei corsi di formazione iniziale;

§      progressione in carriera;

§      disciplina del procedimento negoziale per la definizione degli aspetti economici e di determinati aspetti giuridici del rapporto di impiego.

 

Il titolo I disciplina l’ordinamento del personale non direttivo e non dirigente, che svolge funzioni tecnico-operative, istituendo i ruoli dei vigili del fuoco, dei capi squadra e dei capi reparto, degli ispettori e dei sostituti direttori antincendi, la cui dotazione organica complessiva, fissata nella tabella A del D.Lgs. n. 217, cui lo stesso articolo rinvia, è pari a 29.838 unità (l’86% del totale dell’organico del Corpo).

Al personale appartenente ai ruoli in questione, sono attribuite, nell’assolvimento dei compiti istituzionali, funzioni di polizia giudiziaria e la qualifica di agente o di ufficiale di polizia giudiziaria, in relazione al ruolo di appartenenza (art. 2).

Per l’assunzione dei vigili del fuoco è stabilito (art. 5) il principio del concorso pubblico, mantenendo le riserve di posti, peraltro già esistenti, in favore di coloro abbia già svolto esperienze nel Corpo come volontari del Servizio civile nazionale o delle Forze armate o abbiano fatto parte del personale volontario dei vigili del fuoco. È inoltre prevista l’assunzione dei familiari degli appartenenti al Corpo deceduti o divenuti inabili al servizio, per effetto di ferite o di lesioni riportate nell’espletamento delle attività istituzionali, beneficio contemplato anche in relazione ad altre qualifiche (operatore, vice ispettore, vice collaboratore).

Il capo III (artt. 10-18) disciplina il ruolo dei capi squadra e dei capi reparto, ai quali sono attribuite nuove funzioni, dettagliatamente indicate all’articolo 11, con la finalità di ottimizzare la presenza di tale personale operativo qualificato nelle squadre di soccorso, con particolare riferimento alla funzione di comando dei distaccamenti attribuita alla qualifica di capo reparto esperto.

In considerazione della particolare qualificazione professionale richiesta[770], l’accesso alla qualifica iniziale del ruolo è riservato al solo personale in servizio nel ruolo dei vigili del fuoco, attraverso un meccanismo innovativo che prevede per l’avanzamento di carriera un doppio percorso (art. 12), che viene utilizzato, come si vedrà, anche per altri ruoli del personale: in base ad esso i vigili del fuoco più motivati, con almeno sei anni di servizio e che abbiano frequentato specifici corsi di aggiornamento professionale, sono promossi al ruolo superiore, dopo aver superato un concorso interno per titoli ed esame, nel limite del 40% dei posti disponibili; il restante 60% è riservato a coloro che, raggiunta una determinata anzianità nel ruolo pervenendo alla qualifica apicale di vigile del fuoco coordinatore, superino un concorso per soli titoli.

Gli ispettori e i sostituti direttori antincendi, il cui ruolo è articolato in cinque qualifiche (artt. 19-31), sono posti al vertice del personale non direttivo e non dirigente con funzioni tecnico-operative. A tale ruolo si accede per il 50% dei posti disponibili mediante concorso pubblico e per l’altro 50% con concorso riservato al personale interno, previsione quest’ultima dettata dalle particolari responsabilità di comando, soprattutto nelle attività di soccorso tecnico urgente, attribuite agli appartenenti al ruolo (art. 21).

Nell’ambito del ruolo, è valorizzata in particolare la qualifica apicale di sostituto direttore, alla quale sono attribuite particolari funzioni, in parte affini a quelli del personale direttivo; per la promozione a tale qualifica è previsto un concorso interno al quale partecipano gli ispettori esperti che abbiano maturato un’anzianità nel ruolo di almeno diciotto anni (art. 29). La scelta di non utilizzare il meccanismo del “doppio binario” risponde all’esigenza di far accedere a tale qualifica soltanto personale altamente qualificato e con una particolare maturazione professionale.

Estendendo una previsione già applicabile agli altri Corpi dello Stato, è introdotto l’istituto delle promozioni per merito straordinario, conferibili a tutto il personale disciplinato nel titolo I (artt. 32 e 33).

Le disposizioni recate dal capo VI (artt. 34-38) istituiscono, in applicazione del criterio direttivo di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), della legge di delega, il comparto autonomo di negoziazione “vigili del fuoco e soccorso pubblico” e disciplinano il procedimento negoziale per la definizione degli aspetti economici e di determinati aspetti giuridici del rapporto d’impiego del personale non direttivo e non dirigenziale.

 

Il criterio direttivo della delega richiamato richiede espressamente due procedimenti negoziali, uno per il personale inquadrato nelle qualifiche dirigenziali e nei profili professionali del settore operativo richiedenti, ai fini dell’accesso, la laurea specialistica ed eventuali titoli abilitativi, e l’altro per il restante personale, distinti anche con riferimento alla partecipazione delle organizzazioni sindacali rappresentative.

Le disposizioni del capo VI del D.Lgs. n. 217 presentano numerose analogie con quelle contenute nel D.Lgs. 195/1995[771], che disciplina i procedimenti negoziali del personale non dirigentedelle Forze di polizia ad ordinamento civile (Polizia di Stato, Corpo della polizia penitenziaria e Corpo forestale dello Stato), delle Forze di polizia ad ordinamento militare (Arma dei carabinieri e Corpo della guardia di finanza) e delle Forze armate.

 

Alle trattative della procedura di negoziazione partecipano una delegazione di parte pubblica, con i ministri per la funzione pubblica, dell’interno e dell’economia (che possono a tal fine delegare i rispettivi sottosegretari) e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali rappresentative sul piano nazionale del personale non direttivo e non dirigenziale, individuate con decreto del ministro per la funzione pubblica, sulla base dei criteri generali in materia di rappresentatività sindacale stabiliti per il pubblico impiego (art. 35).

Le materie oggetto del procedimento negoziale (dettagliatamente indicate dall’art. 36) sono, tra le altre: il trattamento economico fondamentale e accessorio; il trattamento di fine rapporto  e le forme pensionistiche complementari; l’orario di lavoro; il congedo ordinario e straordinario; la reperibilità; il congedo e l’aspettativa; il patrocinio legale e la tutela assicurativa; le aspettative e i permessi sindacali; gli istituti e le materie di partecipazione sindacale.

La procedura negoziale (art. 37) è avviata dal ministro per la funzione pubblica almeno quattro mesi prima della scadenza del contratto e si conclude con la sottoscrizione di una ipotesi di accordo.

L’ipotesi di accordo non può comportare, direttamente o indirettamente, impegni di spesa eccedenti rispetto a quanto previsto nel documento di programmazione economico-finanziaria, nella legge finanziaria, nei provvedimenti ad essa collegati nonché nel bilancio dello Stato. Il documento deve inoltre contenere i dati sul personale interessato, i costi unitari e gli oneri riflessi del trattamento economico, la quantificazione complessiva della spesa, diretta e indiretta, con l’indicazione della copertura finanziaria complessiva per l’intero periodo di validità.

L’ipotesi di accordo è poi trasmessa al Consiglio dei ministri, che, entro quindici giorni, lo approva, unitamente allo schema di decreto del Presidente della Repubblica che ne recepisce i contenuti.

Quale fase integrativa dell’efficacia, è richiesto, in merito allo schema di decreto che recepisce l’ipotesi di accordo, l’intervento della Corte dei conti che, nei quindici giorni successivi, certifica l’attendibilità dei costi quantificati e la loro compatibilità finanziaria con gli strumenti di programmazione e di bilancio citati.

 

Analogamente a quanto ora illustrato, l’art. 47 del D.Lgs. 165/2001 prevede l’intervento della Corte dei conti nel procedimento di contrattazione collettiva del pubblico impiego in regime privatistico, ai fini della certificazione di compatibilità della quantificazione dei costi contrattuali con gli strumenti della finanza pubblica. Tale intervento non è invece previsto nei procedimenti negoziali per il personale non direttivo delle Forze di polizia e delle Forze armate.

La certificazione della Corte dei conti si assomma al controllo preventivo di legittimità che lo stesso organo opera sullo schema di decreto, ai sensi dell’articolo 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20[772].

 

È fissato un termine di 90 giorni dall’inizio delle procedure di negoziazione entro il quale, se l’accordo non viene definito, il Governo riferisce alle Camere nelle forme e nei modi stabiliti dai rispettivi regolamenti.

La disciplina contenuta neI decreto del Presidente della Repubblica, per l’emanazione del quale si prescinde dal parere del Consiglio di Stato (art. 37, comma 5), ha durata quadriennale per gli aspetti giuridici e biennale per quelli economici (art. 34).

Possono essere conclusi accordi integrativi nazionali e accordi decentrati a livello centrale e periferico, nei limiti fissati dall’accordo negoziale e per le materie in esso specificamente indicate, a condizione che tali accordi non comportino oneri aggiuntivi (art. 38).

 

Il titolo II regola l’ordinamento del personale direttivo e dirigente, compreso quello medico e ginnico-sportivo.

L’accesso alla qualifica iniziale del ruolo dei direttivi avviene esclusivamente mediante concorso pubblico (art. 41), i cui vincitori sono ammessi a frequentare un corso di formazione iniziale di due anni presso l’Istituto superiore antincendi, articolato in due cicli annuali di formazione alternata teorico-pratica e di tirocinio operativo presso i comandi provinciali dei vigili del fuoco; coloro che superano l’esame finale sono confermati nel ruolo dei direttivi con la qualifica di direttore (art. 42).

 

Tra gli elementi innovativi introdotti dal D.Lgs. n. 217, si segnala la previsione, nel percorso di carriera per l’accesso alla dirigenza, dell’obbligo di avere prestato servizio effettivo presso i comandi provinciali dei vigili del fuoco (art. 47, comma 1) e, per la promozione a dirigente superiore, dell’obbligo di averlo svolto in almeno tre sedi diverse (art. 47, comma 2). Tale previsione è finalizzata a contemperare l’esigenza della funzionalità dell’Amministrazione con quella di garantire a tutti i funzionari esperienze professionali in grado di elevarne il livello qualitativo e il rendimento e di stimolarne l’impegno attraverso la diversificazione delle esperienze di lavoro.

 

Un’ulteriore innovazione significativa è costituita dall’introduzione, come qualifica apicale del personale direttivo, della vicedirigenza (art. 39, comma 2), prevista anche per i funzionari amministrativo-contabili e per quelli tecnico-informatici (per i quali, vedi infra).

 

La facoltà di istituire, senza oneri aggiuntivi, apposite aree di vicedirigenza per l’accesso alle quali è richiesto il possesso di lauree specialistiche e di eventuali titoli abilitativi è espressamente prevista dal criterio direttivo di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), numero 2), della legge di delega.

 

A conferma dell’importanza del suo ruolo, al personale con la qualifica di direttore-vicedirigente, i dirigenti delle strutture centrali e periferiche possono delegare l’esercizio di alcune funzioni dirigenziali (art. 40, comma 2). La vicedirigenza infatti “è configurata, per il personale direttivo, come un momento contiguo e propedeutico alle tematiche ed alle responsabilità proprie della funzione dirigenziale”.

L’accesso al ruolo dei dirigenti, e in particolare alla qualifica di primo dirigente, che ne costituisce il primo livello, è riservato al personale appartenente alla qualifica apicale del ruolo direttivo, cioè ai direttori-vicedirigenti (art. 45), a conferma dell’unitarietà della carriera direttivo-dirigenziale, rafforzata, anche negli aspetti contrattuali, dalla previsione di un autonomo comparto di negoziazione concernente, sia il personale dirigenziale, sia quello direttivo (vedi infra). La selezione avviene mediante scrutinio per merito comparativo e superamento di un corso di formazione dirigenziale. Lo scrutinio per merito comparativo costituisce lo strumento attraverso il quale si consegue la promozione alla qualifica di dirigente superiore (art. 46).

I dirigenti generali sono nominati tra i dirigenti superiori con D.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’interno, che sceglie fra i funzionari aventi la qualifica di dirigente superiore idonei alla nomina a dirigente generale indicati da una commissione consultiva composta  dal capo del Dipartimento dei vigili del fuoco, dal dirigente generale-capo del Corpo e da altri dirigenti generali (art. 48).

Merita di essere segnalata l’istituzione della figura del dirigente generale-capo del Corpo nazionale dei vigili del fuoco quale vertice del Corpo stesso (art. 49), che viene nominato tra i dirigenti generali del Corpo con D.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’interno.

Nei capi II e III(artt. 50-67) sono disciplinate le funzioni, l’accesso al ruolo, il percorso professionale del personale direttivo e dirigenziale medico e ginnico-sportivo.

Il capo IV (artt. 68-79) reca alcune disposizioni comuni al personale dirigente e direttivo.

All’individuazione degli incarichi di livello dirigenziale procede il ministro dell’interno con un proprio decreto (art. 68); con la stessa procedura si provvede al conferimento degli incarichi di livello dirigenziale generale; quelli di livello dirigenziale non generale sono attribuiti con decreto del Capo del Dipartimento dei vigili del fuoco (art. 69).

Quanto alla durata, gli incarichi non possono superare il termine di tre anni per i dirigenti generali e di cinque anni per i primi dirigenti e i dirigenti superiori. Gli incarichi sono rinnovabili; per i primi dirigenti e i dirigenti superiori essi possono avere una durata complessiva non superiore a dieci anni consecutivi.

Il sistema di valutazione del personale delle carriere direttivo-dirigenziali, con esclusione dei dirigenti generali, prevede due strumenti (artt. 70-72):

§         la valutazione annuale, che si basa sulla relazione sull’attività svolta elaborata dagli stessi interessati e sulla scheda di valutazione predisposta, per il personale direttivo, dai dirigenti degli uffici dai quali i funzionari dipendono, e per i dirigenti, da un apposito comitato;

§         la valutazione comparativa ai fini della progressione in carriera, sulla base di criteri determinati con cadenza triennale.

Gli organi preposti ai due tipi di valutazione sono, per la valutazione annuale, il capo del Dipartimento, per quella comparativa, il consiglio di amministrazione. Quest’ultimo si avvale, per l’attività preparatoria, di un organo di nuova istituzione, la Commissione per la progressione in carriera, la cui composizione e modalità di funzionamento sono disciplinate dall’art. 72. L’esito della valutazione è considerato ai fini dell’eventuale revoca dell’incarico ricoperto, dell’affidamento di nuovi incarichi, della progressione in carriera dei direttivi e dei primi dirigenti e dell’attribuzione annuale della retribuzione di risultato ai primi dirigenti e ai dirigenti superiori.

 

Per quanto riguarda la responsabilità dirigenziale, l’esito negativo della verifica dei risultati comporta per il dirigente la revoca dell’incarico ricoperto e la destinazione ad altro incarico. Nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o di ripetuta valutazione negativa, il dirigente, previa contestazione e valutazione degli elementi eventualmente dallo stesso forniti nel termine congruo assegnato all’atto della contestazione, può essere escluso da ogni incarico per un periodo massimo di tre anni, con decreto del ministro dell’interno, adottato su parere conforme di un comitato di garanti (art. 73).

 

Per i dirigenti, viene introdotta la possibilità di essere collocati in posizione di disponibilità, anche a domanda. Sono previsti specifici criteri: il collocamento in disponibilità deve rispondere a particolari esigenze di servizio o essere finalizzato allo svolgimento di incarichi particolari o a tempo determinato; il numero dei soggetti interessati non può essere superiore al cinque per cento della dotazione organica; la durata non deve essere superiore a tre anni, prorogabili per un anno; per i dirigenti generali è necessaria una deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 74).

Il trattamento economico dei dirigenti (artt. 76-78), si articola in una componente stipendiale di base e in due componenti accessorie, correlate, una, ai rischi assunti, agli incarichi di funzione ricoperti e alle responsabilità esercitate (retribuzione di rischio e di posizione), l’altra, ai risultati conseguiti rispetto agli obiettivi assegnati e alle maggiori attività effettivamente rese in occasione di interventi straordinari di soccorso tecnico urgente; quest’ultima è attribuita secondo i parametri definiti dal procedimento negoziale.

Il procedimento negoziale concernente il personale delle carriere direttiva e dirigente (artt. 80-84) è distinto, in attuazione del criterio direttivo di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), della legge di delega, da quello previsto per il restante personale.

I due procedimenti, sostanzialmente identici nelle procedure e negli istituti previsti (per la cui illustrazione si rinvia a quanto già detto a proposito del procedimento per il personale non direttivo e non dirigenziale),differiscono per quanto riguarda la partecipazione delle organizzazioni sindacali rappresentative e le materie oggetto di negoziazione e prevedono due distinte ipotesi di accordo, recepite ciascuna con proprio D.P.R..

Il titolo III (artt. 85-131)istituisce e disciplina i ruoli del personale che svolge attività tecniche, amministrativo-contabili e tecnico-informatiche per le esigenze organizzative e operative del Corpo dei vigili del fuoco, connesse a quelle istituzionali. Tale personale è tenuto a svolgere le proprie mansioni anche in supporto a strutture operative e in situazioni di emergenza, anche sul territorio.

Viene, dunque, riconosciuta al personale tecnico-amministrativo una specificità di funzione superando una concezione che vedeva in tale personale una mera funzione di supporto.

I ruoli istituiti sono:

§      ruolo degli operatori;

§      ruolo degli assistenti;

§      ruolo dei collaboratori e dei sostituti direttori amministrativo-contabili;

§      ruolo dei collaboratori e dei sostituti direttori tecnico-informatici;

§      ruolo dei funzionari amministrativo-contabili direttori;

§      ruolo dei funzionari tecnico-informatici direttori.

Questi due ultimi due ruoli sono riservati a personale laureato e al loro interno sono articolati in modo da prevedere, in entrambi i casi, la qualifica vicedirigente quale figura posta al vertice di tali ruoli (artt. 117 e 124).

Per quanto riguarda la definizione degli aspetti economici e giuridici del rapporto di impiego del personale in questione (art. 131), valgono le modalità del procedimento negoziale del personale non direttivo e non dirigente del Corpo stesso che espleta funzioni tecnico-operative contenuto nel titolo I (cui si rinvia).

Il titolo IV (artt. 132-144), recante una serie di norme dal contenuto eterogeneo, concernenti il personale del Corpo nella sua interezza, si compone di due capi: il primo relativo alle disposizioni sulle vicende del rapporto di impiego, il secondo concernente altre disposizioni comuni (quali la disciplina dei diritti e dei doveri del personale, le sanzioni disciplinari, la formazione ecc.). Tra le altre, prevede disposizioni in materia di comando e collocamento fuori ruolo; sui diritti e doveri del personale; sulle sanzioni disciplinari; sul lavoro part time, che è espressamente escluso per il personale con funzioni tecnico-operative e per quello delle carriere direttive e dirigenziali; sulla modifica e ripartizione territoriale delle dotazioni organiche del personale, per la quale si provvede con decreto del ministro dell’interno per assicurare il tempestivo adeguamento delle stesse alle necessità operative e di servizio.

Le vicende del rapporto di impiego si articolano in tre fasi fondamentali:

§      la costituzione del rapporto di lavoro;

§      la modificazione;

§      l’estinzione.

Sono previste in via generale tre modalità per l’accesso al Corpo dei vigili del fuoco (art. 132):

§      pubblico concorso;

§      avviamento degli iscritti alle liste di collocamento (limitatamente al ruolo degli operatori);

§      assunzione per chiamata diretta dei familiari dei vigili del fuoco deceduti o invalidi per causa di servizio.

Qualsiasi altra modalità di accesso al Corpo dei vigili del fuoco è tassativamente esclusa; in particolare, è escluso l’accesso di personale esterno al Corpo nei ruoli dei dirigenti.

Parimenti sono escluse modalità particolari di accesso previste dalla legge per categorie speciali di personale, quali:

§      lavoratori disabili da assumere obbligatoriamente nella misura del 7% ai sensi dell’art. 3 della legge 68/1999[773]; tale obbligo permane invece per altri impieghi sottratti al regime privatistico quali i servizi di polizia, della protezione civile e della difesa nazionale, per i quali, tuttavia, il collocamento dei disabili è previsto nei soli servizi amministrativi (art, 3, comma 4, della legge 68/1999);

§      personale del Corpo di polizia penitenziaria inidoneo per motivi di salute o invalidità che chiede il trasferimento ad altre amministrazioni dello Stato ai sensi dell’art. 75 del D.Lgs. 201/1995[774];

§      personale dell’Amministrazione della pubblica sicurezza proveniente dal soppresso ruolo dei funzionari di pubblica sicurezza e dal disciolto Corpo della polizia femminile che può chiedere di passare nei ruoli dell’Amministrazione civile dell’interno, o di altre amministrazioni dello Stato (art. 23-bis del DPR 551/1981[775]);

§      personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia trasferito ai sensi del DPR 339/1982[776];

Specularmene viene soppressa la possibilità che il personale dei vigili del fuoco ritenuto permanentemente inabile al servizio d’istituto e di soccorso possa essere trasferito, a domanda, in altri ruoli del Ministero dell’interno o di altre amministrazioni dello Stato, come previsto dall’art. 2 della legge 850/1973[777] (che viene abrogato).

Per quanto riguarda la modificazione del rapporto di lavoro, sono presi in considerazione gli istituti del comando e del fuori ruolo e il trasferimento e il mutamento di funzioni per sopravvenuta inidoneità psico-fisica.

Il personale del Corpo dei vigili del fuoco, incluso quello di livello dirigenziale nel limite massimo di cinque unità contemporaneamente, può essere collocato in posizione di comando (nel limite massimo di 12 mesi, o di 24 per i dirigenti, rinnovabile una sola volta) o fuori ruolo presso gli organi costituzionali, le altre amministrazioni dello Stato o gli enti pubblici, anche in relazione ad esigenze di coordinamento con i compiti istituzionali del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile (art. 133).

È ammesso il mutamento di funzioni e il trasferimento di ruolo del personale dai ruoli tecnico-operativi ai ruoli tecnici, amministrativo-contabili e tecnico-informatici, nei casi di sopravvenuta inidoneità psico-fisica. Nel caso il personale recuperi l’idoneità psico-fisica è inoltre prevista la riammissione, a domanda, nei ruoli di provenienza (art. 134).

Le cause di cessazione dal servizio (art. 136) sono le stesse previste in generale per gli impiegati dello Stato dal D.P.R. 3/1957[778]:

§      collocamento a riposo;

§      dimissioni;

§      decadenza;

§      dispensa dal servizio;

§      destituzione;

§      destituzione di diritto senza procedimento disciplinare.

Per le modalità del collocamento a riposo, il D.Lgs. n. 217 fa rinvio alla disciplina contenuta del DPR 1092/1973[779]. Le norme specifiche in vigore sui limiti di età per il collocamento a riposo dei vigili del fuoco continuano ad essere applicate dalla nuova disciplina.

 

I limiti di età per il collocamento a riposo (legge 850/1973, art. 11) sono i seguenti:

§       dirigenti e personale dei ruoli tecnici, sanitari, ginnico-sportivi e dei ruoli di supporto: anni 65;

§       personale delle carriere dei capi reparti e dei capi squadra e dei vigili del fuoco: anni 57.

Tuttavia, quest’ultimo limite è stato elevato a 60 anni in virtù del D.Lgs. 165/1997[780], art. 2, co. 1. La modifica entrerà in pieno regime nel 2008: in fase di prima applicazione, i limiti di età per la cessazione dal servizio sono gradualmente elevati al 58° anno per gli anni dal 2002 al 2004, al 59° anno per gli anni dal 2005 al 2007 ed al 60° anno a decorrere dal 2008 (art. 7 del D.Lgs. 165/1997).

Inoltre, è possibile prolungare su richiesta dell’interessato e previa accettazione dell’amministrazione la permanenza in servizio fino al 70° anno di età con le modalità di cui al D.Lgs. 503/1992, art. 16[781].

 

È prevista la possibilità di riammissione in servizio, entro cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro, del personale il cui rapporto di impiego si è interrotto per dimissioni o dispensa dal servizio (art. 135).

L’articolo 137 conferma, per il personale del vigili del fuoco, il sistema dei diritti e delle libertà sindacali contenute nello statuto dei lavoratori (L. 300/1970[782]) e nell’articolo 42 del D.Lgs. 165/2001, stabilendo che tali diritti e libertà sono riconosciuti al personale direttivo nelle medesime forme previste per il personale di livello dirigenziale, in ragione della tendenziale unitarietà delle carriere direttivo-dirigenziali.

L’articolo 138 richiama i riferimenti normativi da cui si traggono i diritti e i doveri del personale del vigili del fuoco, che sono sostanzialmente quelli riconosciuti dal D.Lgs. 217 e, per quanto non previsto da esso, le leggi e i regolamenti relativi agli impiegati civili dello Stato (in particolare, il D.P.R. 3/1957). Nei casi in cui non siano applicabili norme di legge o di regolamento i doveri del personale del CNVVF possano essere integrati o specificati dai codici di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni adottati ai sensi dell’articolo 54 del D.Lgs. 165/2001, in accordo con i sindacati.

L’articolo 139 individua le sanzioni disciplinari applicabili al personale del Corpo dei vigili del fuoco, che vanno dal rimprovero orale alla destituzione senza preavviso, demandando a un apposito regolamento la disciplina di tutta una serie di aspetti e garanzie procedurali espressamente elencate, tra cui la tipologia delle infrazioni e le modalità del procedimento disciplinare.

 

L’attuale regolamentazione delle sanzioni disciplinari è contenuta, in via generale, nell’art. 55 del D.Lgs. 165/2001 e, per quanto concerne i vigili del fuoco (ad eccezione dei dirigenti) nel contratto collettivo del 2004 (art. 12)[783].

 

L’articolo 140 prevede l’emanazione di un regolamento di servizio, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento e previa consultazione delle organizzazioni sindacali. L’articolo 141 stabilisce che la modifica e la ripartizione territoriale delle dotazioni organiche del personale del Corpo dei vigili del fuoco avvenga, salvo che per le qualifiche di livello dirigenziale generale[784], con decreti del Ministro dell’interno adottati, l’uno, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica e il Ministro dell’economia e delle finanze, l’altro, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica. Si tratta di uno strumento finalizzato alla flessibilità organizzativa, che consente il tempestivo adeguamento delle dotazioni organiche alle variabili e contingenti necessità operative e di servizio.

E’ quindi disciplinata (articolo 142), in modo dettagliato la formazione e l’aggiornamento professionale, assicurato a tutto il personale durante lo svolgimento dell’intera carriera. In particolare, sono individuati, quali strutture principali della formazione:

§      Scuola per la formazione di base;

§      Istituto superiore antincendi;

§      Poli didattici territoriali del Dipartimento dei vigili del fuoco.

L’articolo 143 contiene disposizioni relative agli scrutini di promozione e ai concorsi, che integrano quelle contenute nell’articolo 71 per le carriere direttivo-dirigenziali. Gli scrutini di promozione sono di competenza esclusiva del consiglio di amministrazione, che vi provvede con cadenza annuale, sulla base dei criteri approvati ogni tre anni dal consiglio medesimo. È disciplinata, altresì, la decorrenza delle promozioni.

L’articolo 144, esclude il personale delle carriere direttivo-dirigenziali e quello che espleta funzioni tecnico-operative dalla fruizione del lavoro part time, demandando a un regolamento ministeriale l’individuazione, per il restante personale delle modalità di costituzione dei rapporti di impiego a tempo parziale. Il divieto del telelavoro a distanza è invece esteso a tutto il personale.

 

Il titolo V regola l’assunzione del personale nei gruppi sportivi del Corpo, sempre attraverso concorso, nell’ambito del ruolo di vigile del fuoco, il suo impiego in altre attività e il trasferimento ad altri ruoli per sopraggiunta inidoneità; esso contiene inoltre una disposizione sulla banda musicale del Corpo.

 

Il titolo VI (art. 149-175), infine, reca le norme di inquadramento, transitorie, economico-finanziarie e finali.

I criteri generali per l’inquadramento del personale nei ruoli e qualifiche di nuova istituzione sono essenzialmente:

§      profilo di appartenenza;

§      anzianità di servizio;

§      possesso di titoli di studio;

§      passaggi ai ruoli superiori soltanto attraverso concorsi straordinari;

§      mantenimento dell’anzianità maturata nel profilo di provenienza, ai fini della progressione alla qualifica superiore, e dello scatto convenzionale;

§      mantenimento, sino al passaggio alla qualifica o ai ruoli superiori, del trattamento economico maturato.

 

 


 

 

 

 


 

 

 



[1]     A.S. 2544, Modificazioni degli articoli 55, 56, 57, 58, 59, 60, 64, 65, 67, 69, 70, 71, 72, 80, 81, 83, 85, 86, 87, 88, 89, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 104, 114, 116, 117, 126, 127, 135 e 138 della Costituzione.

[2]     La seconda deliberazione va adottata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.

[3]    Il testo è stato infatti approvato, in seconda deliberazione, alla Camera con 317 voti favorevoli (maggioranza assoluta dei componenti: 307), al Senato con 170 voti (maggioranza assoluta: dei componenti: 161).

[4]    in virtù della riduzione del numero complessivo dei parlamentari, il peso della componente estera sale dall’1,9% al 2,3%

[5]    il nuovo articolo 87, relativo alle funzioni del Capo dello Stato, prevede peraltro che egli sia garante, oltre che della Costituzione, dell’“unità federale della Repubblica”.

[6]     La soluzione illustrata ha preso il posto di quella adottata dal Senato nel corso dell’esame in prima lettura (e comunemente denominata “contestualità affievolita”), secondo la quale l’eventuale scioglimento anticipato di uno o più consigli regionali avrebbe dato luogo ad una legislatura regionale di durata ridotta per consentire, ogni cinque anni, il contestuale rinnovo del Senato e di tutte le assemblee elettive regionali.

[7]    Tale articolo prevede in primo luogo, fatte salve le competenze amministrative attribuite al sistema delle Conferenze (art. 118, terzo comma) che una legge dello Stato approvata con procedimento bicamerale promuova il coordinamento tra il Senato federale della Repubblica e i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, disciplinandone forme e modalità. Inoltre, spetta al regolamento del Senato federale garantire rapporti di reciproca informazione e collaborazione tra i senatori e i rappresentanti degli enti territoriali. I senatori possono poi essere sentiti, ogni volta che lo richiedono, dal Consiglio o Assemblea della Regione ovvero dal Consiglio della Provincia autonoma in cui sono stati eletti con le modalità e nei casi previsti dai rispettivi regolamenti.

[8]     Per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge, il cui procedimento di approvazione è caratterizzato da ritmi più serrati, condizionati dalla previsione della decadenza ex tunc dei decreti in caso di mancata conversione entro 60 giorni dalla loro pubblicazione, il termine suddetto è ridotto della metà.

[9]    Si tratta dei seguenti articoli:

§          117, commi quinto e nono (norme di procedura per la partecipazione delle regioni alla fase ascendente del processo normativo comunitario e potere sostitutivo; casi e forme nei quali la regione può concludere accordi con altri Stati e intese con altri enti territoriali);

§          118, commi secondo e quinto (funzioni amministrative conferite agli enti locali; coordinamento Stato-regioni con riferimento a specifiche materie); 

§          122, primo comma (principi fondamentali in materia di sistema di elezione, ineleggibilità e incompatibilità degli organi rappresentativi della Regione);

§          125 (ordinamento degli organi di giustizia amministrativa di primo grado); 

§          132, secondo comma (distacco di province e comuni da una Regione all’altra, a seguito di approvazione della maggioranza delle popolazioni interessate espressa mediante referendum);

§          133, secondo comma (istituzione di nuove province e mutamento di circoscrizioni provinciali).

[10]    Si pensi alle ampie riforme di settore, ma anche alla legge comunitaria ed alla legge finanziaria, la cui attuale configurazione andrebbe, in tale contesto, profondamente ripensata.

[11]    Il testo approvato in prima lettura dal Senato introduceva anche, quale condizione per la validità del referendum, la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto (analogamente a quanto avviene per i referendum abrogativi), nel solo caso in cui, in seconda deliberazione, la legge costituzionale fosse stata approvata con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti. Quest’ultima disposizione è stata tuttavia soppressa nel corso dell’esame alla Camera.

[12]   È disciplinata da disposizioni contenute nei regolamenti parlamentari e dalla prassi.

[13]    Per entrambe le Camere, il nuovo art. 63 prescrive due terzi dei componenti l’Assemblea per i primi tre scrutini; maggioranza assoluta dei componenti dopo il terzo turno.

[14]    Viene introdotta la maggioranza qualificata dei tre quinti dei componenti per l’adozione del regolamento della Camera dei deputati, mentre per quello del Senato federale permane la maggioranza assoluta, già prevista dal testo vigente dell’art. 64 Cost.

[15]   Ulteriori elementi – sia pure su un piano parzialmente diverso – sono rappresentati:

§       dalla previsione secondo la quale nei regolamenti parlamentari devono essere definiti modalità e termini per l’avvio dell’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare (art. 72, secondo comma);

§       dallasottoposizione di tutti gli schemi di decreto legislativo al parere delle Commissioni parlamentari competenti, secondo le norme dei regolamenti di ciascuna Camera (art. 76, secondo comma).

[16]    L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modificazioni del titolo V della parte seconda della Costituzione.

[17]    Permane ovviamente anche il vincolo costituzionale, dettato dall’art. 10 Cost., del rispetto del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Si fa presente che le ragioni della soppressione sono state essenzialmente indicate nei dubbi interpretativi sulla locuzione “obblighi internazionali”, e in particolare se con essi ci si intenda riferire, o meno, ad  ogni tipo di trattato internazionale, e dunque anche a quegli accordi per cui non è prevista alcuna forma di ratifica da parte del Parlamento. A tal proposito v. anche l’art. 1, co. 1, della L. 131/2003 (c.d. “La Loggia”), su cui si rinvia alla scheda Titolo V e norme di attuazione.

[18]   In tal caso, tale dizione, identica a quella inserita nel testo vigente dell’art. 117, al terzo comma, figura nell’ambito del secondo comma (lett. s-ter); dalla materia così identificata risultano tuttavia “ritagliate” le competenze - collocate al terzo comma – relative a “comunicazione di interesse regionale, ivi compresa l’emittenza regionale; promozione in ambito regionale dello sviluppo delle comunicazioni elettroniche”.  

[19]    Più precisamente, sono rimesse alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni le materie:

§          organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolatici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche;

§          definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione.

      Resta attribuita alla potestà esclusiva dello Stato la materia “norme generali sull’istruzione”, ed alla potestà legislativa concorrente la materia “istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale”.

[20]   Sulla particolare rilevanza assunta, nella giurisprudenza costituzionale sul “nuovo” Titolo V, dalle forme di concertazione e collaborazione tra Stato e Regioni (in specie attraverso l’intesa, raggiunta per lo più in sede di Conferenza Stato-regioni), v. scheda Titolo V e giurisprudenza costituzionale.

[21]    V., per entrambe le disposizioni appena richiamate, art. 122. Lo statuto può peraltro stabilire per il Presidente della Giunta un diverso sistema di elezione.

[22]   V. art. 126, terzo comma. In tale caso, lo statuto regionale disciplina la nomina di un nuovo Presidente, cui si applicano le disposizioni previste per il Presidente sostituito. In ogni caso le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il Consiglio. Per la disciplina generale dello scioglimento del consiglio, v. art. 126, primo comma (il quale, confermando che sono disposti lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, ovvero per ragioni di sicurezza nazionale, stabilisce che il certo di scioglimento è adottato previo parere del Senato federale).

[23]   La disposizione, introdotta con la L.Cost. 3/2001, non ha trovato sinora applicazione.

[24]    L. cost. 23 ottobre 2002, n. 1, Cessazione degli effetti dei commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.

[25]    Pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 252 del 26 ottobre 2002, la legge costituzionale è entrata in vigore il quindicesimo giorno successivo.

[26]    Così il relatore, sen. Pirovano, in sede di illustrazione dei disegni di legge durante l’esame al Senato in 1ª Commissione, seduta del 3 dicembre 2002.

[27]    Nella votazione del 9 e 10 aprile 2006 si è avvalsa di questa condizione una lista che ha ottenuto circa 280.000 voti, pari allo 0,7 per cento del totale nazionale dei voti validi.

[28]    Il testo vigente dell’art. 27, co. 4°, Cost., recita: “Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

[29]    L. 13 ottobre 1994, n. 589, Abolizione della pena di morte nel codice penale militare di guerra.

[30]    Cfr. al riguardo, tra gli altri, l’intervento del relatore on. Boato, nella seduta dell’Assemblea del 6 maggio 2002.

[31]    Giorno in cui veniva eseguita, negli Stati Uniti d’America, la condanna a morte di Joseph O’Dell.

[32]   Così la Relazione del Presidente (on. Soro) sulla questione concernente i seggi non attribuiti, presentata alla Presidenza della Camera il 12 luglio 2002 (DOC III, n. 1).

[33]    Nella votazione del 9 e 10 aprile 2006 si è avvalsa di questa condizione una lista che ha ottenuto circa 280.000 voti, pari allo 0,7 per cento del totale nazionale dei voti validi.

[34]   L. cost. 17 gennaio 2000, n. 1, Modifica all’articolo 48 della Costituzione concernente l’istituzione della circoscrizione Estero per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero.

[35]   L. cost. 23 gennaio 2001, n. 1, Modifiche agli articoli 56 e 57 della Costituzione concernenti il numero di deputati e senatori in rappresentanza degli italiani all’estero.

[36]   L. 27 dicembre 2001, n. 459, Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero.

[37]   D.P.R. 2 aprile 2003, n. 104, Regolamento di attuazione della legge 27 dicembre 2001, n. 459, recante disciplina per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero.

[38]   Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

[39]   D.L. 3 gennaio 2006, n. 1 (conv. con mod. in L. 27 gennaio 2006, n. 22), Disposizioni urgenti per l’esercizio domiciliare del voto per taluni elettori, per la rilevazione informatizzata dello scrutinio e per l’ammissione ai seggi di osservatori OSCE, in occasione delle prossime elezioni politiche, art. 3-sexies.

[40]   D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati.

[41]    Si tratta delle ineleggibilità previste dall’art. 7, primo comma, del D.P.R. 361/1957.

[42]   La riforma del Titolo V della Costituzione ha abrogato gli articoli della Costituzione che prevedevano, nelle Regioni a statuto ordinario, la figura del Commissario del Governo. L’art. 10 della L. 5 giugno 2003, n. 131, attribuisce, in tutte le Regioni a statuto ordinario, al Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie (le cui funzioni sono svolte dal prefetto preposto all’ufficio territoriale del Governo avente sede nel capoluogo della Regione) i compiti già esercitati dal Commissario del Governo, con l’eccezione di alcuni di essi, soppressi con la riforma costituzionale ricordata.

[43]    Un’analoga disposizione era già contenuta nell’art. 3 della L. 270/2005, con cui si fissava il termine per la cessazione delle funzioni nei sette giorni successivi alla data di entrata in vigore della L. n. 270 (31 dicembre 2005).

[44]   L. 10 dicembre 1993, n. 515, Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica.

[45]   L. 4 aprile 1956, n. 212, Norme per la disciplina della propaganda elettorale.

[46]   L. 24 aprile 1975, n. 130, Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle norme per la presentazione delle candidature e delle liste dei candidati nonché dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali, provinciali e comunali.

[47]   L. 25 maggio 1970, n. 352, Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo.

[48]   L. 22 febbraio 2000, n. 28, Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica.

[49]   L. 6 novembre 2003, n. 313, Disposizioni per l’attuazione del principio del pluralismo nella programmazione delle emittenti radiofoniche e televisive locali.

[50]   L. 22 febbraio 2000, n. 28, Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica.

[51]    L. 6 dicembre 1971, n. 1034, Istituzione dei tribunali amministrativi regionali.

[52]    Ai sensi dell’art. 10, co. 10, della L. 28/2000, i provvedimenti dell’Autorità in caso di violazioni alla legge medesima sono impugnabili dinanzi al TAR del Lazio entro trenta giorni dalla comunicazione. In caso di inerzia dell’Autorità, i soggetti interessati possono chiedere al TAR del Lazio, anche in sede cautelare, la condanna dell’Autorità a provvedere entro tre giorni dalla pronunzia. In caso di richiesta cautelare, i soggetti interessati possono trasmettere o depositare memorie entro cinque giorni dalla notifica. Il TAR del Lazio si pronunzia sulla domanda di sospensione nella prima camera di consiglio dopo la scadenza del termine previsto per il deposito delle memorie, e comunque non oltre il settimo giorno.

[53]   L. 3 maggio 2004, n. 112, Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a., nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione, art. 6, successivamente confluito nel D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177, Testo unico della radiotelevisione, art. 7.

[54]   L. 30 dicembre 2004, n. 311, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005), che ha anche disposto la sanatoria delle violazioni delle norme sulle affissioni di manifesti politici commesse fino al 1° gennaio 2005.

[55]   D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, (conv. con mod. in L. 23 febbraio 2006, n. 51), Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti.

[56]    L. 18 novembre 1981, n. 659, Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici.

[57]    L. 3 giugno 1999, n. 157, recante Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici.

[58]    L. 2 maggio 1974, n. 195, Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici.

[59]    Si ricorda in particolare l’obbligo, per i rappresentanti dei partiti, movimenti, liste e gruppi di candidati che concorrono per le elezioni politiche di rendicontare ai Presidenti delle rispettive Camere tutti i contributi ricevuti per la campagna elettorale (L. 515/1993, art. 12), e l’obbligo (ex L. 2/1997) per i legali rappresentanti o i tesorieri dei partiti o dei movimenti politici di trasmettere al Presidente della Camera, entro il 31 luglio di ogni anno, un rendiconto di esercizio, corredato di una relazione sulla gestione e di una nota integrativa.

[60]    L. 26 luglio 2002, n. 156, Disposizioni in materia di rimborsi elettorali.

[61]    L. 10 dicembre 1993, n. 515, Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

[62]    Dal punto di vista economico, le operazioni di cartolarizzazione presentano evidenti vantaggi. La cessione di crediti che costituiscono immobilizzazioni consente, infatti, la creazione di nuove opportunità di investimento, per cui si crea liquidità che può essere integrata in termini tali da assicurare una più elevata redditività. Ciò vale in primo luogo per le banche, ma anche per le società commerciali. Si determina, inoltre, un secondo elemento positivo costituito dall’aumento dei titoli in circolazione risulta, inoltre, particolarmente opportuno in Italia, alla luce del numero limitato di titoli quotati nei mercati regolamentati.

[63]   L. 30 aprile 1999, n. 130, Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti.

[64]   Al di là dell’intendimento del legislatore, il riferimento alla “presente legge” è contenuto in una disposizione che novella la legge 157/1999: stando al suo tenore letterale, la disposizione dovrebbe dunque avere ad oggetto i soli debiti maturati antecedentemente all’entrata in vigore della legge 157/1999.

[65]   D.L. 3 gennaio 2006, n. 1, (conv., con modificazioni, dalla L. 27 gennaio 2006, n. 22), Disposizioni urgenti per l’esercizio domiciliare del voto per taluni elettori, per la rilevazione informatizzata dello scrutinio e per l’ammissione ai seggi di osservatori OSCE, in occasione delle prossime elezioni politiche.

[66]    Sono testualmente individuati, quali enti costitutivi della Repubblica: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. L’ordine con il quale gli enti costitutivi sono richiamati dalla disposizione costituzionale – partendo dai comuni per arrivare sino allo Stato – dichiaratamen-te si propone di valorizzare gli enti più vicini al cittadino, in coerenza con il principio di sussidiarietà (inteso in senso “verticale”), enunciato dall’art. 118, co. 1°, come modificato dalla stessa L.Cost. 3/2001.

[67]    Peraltro, una certa attenuazione – almeno quanto agli effetti – del pieno superamento di tale principio sembra desumersi dalla concreta applicazione della riforma, nonché da una certa  giurisprudenza costituzionale (v. in part. il filone originato dalla sent. 303/2003; per approfondimenti sul punto, v. scheda Titolo V e giurisprudenza costituzionale).

[68]    Tale parallelismo era già stato di fatto superato dalla L. 59/1997, che aveva previsto un ampio deferimento di funzioni amministrative alle Regioni e agli enti locali anche nelle competenze riservate alla potestà legislativa dello Stato. La legge aveva anche stabilito quali princìpi fondamentali per il deferimento di funzioni gli stessi princìpi recepiti dall’articolo in esame: sussidiarietà (si tratta della c.d. “sussidiarietà verticale” che impone l’esercizio delle funzioni amministrative, ove possibile, da parte dell’ente più vicino ai cittadini); adeguatezza; differenziazione.

[69]    Si ricorda in proposito che il co. 2° dell’art. 117 attribuisce (lett. p)) alla legge statale la competenza esclusiva in materia, fra l’altro, di disciplina delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.

[70]   Infine, l’ultimo comma dell’art. 119, oltre a limitare la facoltà di indebitamento degli enti territoriali esclusivamente al finanziamento delle spese di investimento, comunque escludendo garanzie da parte dello Stato per i prestiti contratti, rimette ad una legge dello Stato l’individuazione dei princìpi generali di attribuzione del patrimonio dei comuni, delle province e delle città metropolitane, oltre che delle Regioni. Ulteriori novità derivano poi dal riparto di competenze legislative di cui all’art. 117 Cost., in specie dalla collocazione del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” tra le materie riservata alla legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni (co. 3°).

[71]   Nell’art. 127 è stato soppresso infatti l’istituto del visto governativo sulle deliberazioni legislative della Regione, mentre l’art. 9 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha abrogato il primo comma dell’art. 125 Cost., in materia di controllo di legittimità e di merito degli atti della Regione da parte di organi statali, e l’art. 130 Cost., che prevedeva il controllo sugli atti dei comuni da parte di organi della Regione.

[72]    Attualmente il ricorso dello Stato è possibile avverso la “legge regionale” in quanto tale, definitivamente approvata, mentre il testo costituzionale previgente contemplava il ricorso in via preventiva alla Corte costituzionale avverso le “deliberazioni regionali” (impedendo la promulgazione e, dunque, l’entrata in vigore della legge regionale). In base alla formulazione del nuovo art. 127, resta peraltro una differenza riguardo alle ragioni che possono legittimare il ricorso (in quanto il Governo può ricorrere “qualora ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione”, mentre la Regione può ricorrere quando “ritenga che una legge […] dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza”, accezione considerata più restrittiva anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale).

[73]    A parte i limiti, già noti, alla potestà legislativa e amministrativa delle Regioni a tutela della libertà di movimento dei cittadini e delle cose nel territorio nazionale.

[74]    Si ricorda che tale nuova disciplina dei poteri sostituitivi dettata dall’art. 120 va integrata con il disposto dell’art. 126 Cost., come modificato dall’art. 4 della LCost. 1/1999, relativo ai casi di scioglimento del consiglio regionale e di rimozione del presidente della Regione. Tale disciplina prevede che, con decreto motivato del Presidente della Repubblica, abbiano luogo lo scioglimento del consiglio regionale e la rimozione del presidente della Regione che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge. Lo scioglimento e la rimozione possono essere disposti anche per ragioni di sicurezza nazionale. I relativi decreti devono essere adottati sentita la Commissione parlamentare per le questioni regionali.

[75]    L. 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

[76]    Ulteriori disposizioni in materia sono state introdotte dalla L. 4 febbraio 2005, n. 11, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, sulla quale v. capitolo La legge n. 11 del 2005.

[77]    Il primo comma del quale recita: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

[78]   Il quale recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

[79]    Il testo originario recava la dizione “appartenenza dell’Italia all’Unione europea e alle Comunità europee”. La riformulazione dell’inciso, operata dal Senato in sede referente, riproduce il disposto costituzionale ed appare quindi meramente ricognitiva.

[80]    In una formulazione antecedente a quella definitivamente approvata, si faceva riferimento ai soli trattati internazionali “ratificati a seguito di legge di autorizzazione”. Tale formulazione, che appariva basata su una lettura sistematica del testo costituzionale, escludeva che costituissero vincolo alla funzione legislativa gli obblighi derivanti da atti internazionali definiti senza intervento del Parlamento (quelli derivanti da accordi conclusi dal Governo in forma semplificata). Si ricorda che, ai sensi dell’art. 80 Cost., “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.

[81]    Quanto a quella statale, è ben noto che una legge ordinaria posteriore può derogare alla precedente.

[82]   La Corte ha chiarito in più occasioni il punto (sentenze nn. 376, 422 e 524 del 2002). In particolare:

§          l’incidenza di nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e Regione, è suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della Regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l’efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all’epoca della sua emanazione (sent. 376/2002, in riferimento alla sent. 13/1974);

§       il rinnovato assetto delle competenze legislative può essere fatto valere dallo Stato e dalle Regioni tramite nuovi atti di esercizio delle medesime, attraverso i quali essi possono prendere ciò che la Costituzione dà loro, senza necessità di rimuovere previamente alcun impedimento normativo. Perciò, le norme che definiscono le competenze legislative statali e regionali contenute nel nuovo titolo V potranno, di norma, trovare applicazione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi regionali e dalle Regioni contro leggi statali soltanto in riferimento ad atti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuova definizione costituzionale (sent. 422/2002).

[83]   Cui hanno fatto seguito altre pronunce nello stesso senso.

[84]    Il termine, originariamente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge, è stato modificato da successivi interventi legislativi (in primo luogo,  dalla L. 140/2004, di conversione del D.L. 80/2004 recante disposizioni urgenti in materia di enti locali), divenendo di tre anni (scade dunque l’11 giugno 2006).

[85]    Sulla questione specifica sottoposta a giudizio, la Corte ha affermato che:

§       l’ampia delega di cui all’art. 1, commi 4, 5, 6, della L. 131/2003 (in materia di ricognizione dei princìpi fondamentali in tutte le materie di legislazione concorrente) ha carattere non innovativo rispetto al sistema legislativo previgente, tale, quindi, da giustificare una lettura “minimale” di essa; spetta infatti al Parlamento la definizione di nuovi princìpi ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost. ;

§          la delega legislativa in questione ha quindi carattere meramente “transitorio”, mirando alla predisposizione di un quadro ricognitivo di princìpi già esistenti, destinata a valere solo fino all’entrata in vigore delle nuove “leggi cornice”;

§          è quindi incostituzionale il comma 5 dello stesso art. 1, in quanto consente al Governo l’esercizio di un’attività delegata riguardo all’individuazione delle disposizioni interferenti con materie di legislazione concorrente che ricadono però principalmente nella competenza esclusiva dello Stato, carente di princìpi e criteri direttivi specifici;

§          è altresì incostituzionale anche il successivo comma 6 laddove, nell’indicare i princìpi e criteri della delega in questione, si riferisce ai “settori organici della materia” nonché ai criteri oggettivi desumibili dal complesso delle funzioni e da quelle “affini, presupposte, strumentali e complementari”.

[86]   Procedura aggravata rispetto a quella delineata, in via generale, dall’art. 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400. 

[87]   I rilievi della Commissione parlamentare per le questioni regionali producono uno specifico effetto procedurale sull’attività successiva del Governo nelle sue vesti di legislatore delegato, conducendolo a dover optare tra le seguenti alternative:

§       espungere dal testo definitivo le disposizioni costituenti nuovi princìpi o non costituenti principio;

§       modificarle secondo le indicazioni della Commissione;

§       conservare ugualmente le disposizioni oggetto del rilievo, ma trasmettendo ai Presidenti delle Camere una relazione che motivi la difformità rispetto al parere parlamentare.

[88]   Il principio in questione potrebbe riallacciarsi alla previsione di cui al comma 3 (vedi supra): potrebbe cioè essere inteso nel senso che le disposizioni dei decreti legislativi si pongono, in forza del principio in commento, come unica fonte individuante i princìpi (tutti i princìpi) della materia, escludendo che altre disposizioni a natura potenzialmente generale o di principio possano essere considerati princìpi fondamentali ex articolo 117, terzo comma, Cost.

[89]   Il principio di adeguatezza ricorre in alcune disposizioni di legge, principalmente a presidio del conferimento di funzioni amministrative (si veda ad es. l’art. 4 della L. 59/1997 , l’art. 31 del D.Lgs. 112/1998 e da ultimo, anche l’art. 118, primo comma, Cost.) ed è volto a ponderare l’idoneità delle amministrazioni come parametro per il trasferimento di funzioni, nel senso di prevederlo solo ove vi siano le condizioni per il loro concreto esercizio. Il significato del principio in questa sede potrebbe essere inteso quale mirante all’individuazione di quelle sole disposizioni di legge che presentino requisiti idonei a qualificarle “princìpi fondamentali”;

[90]   Si tratta di un principio già utilizzato dalla legislazione vigente, la cui portata non è meglio precisata dal testo in esame

[91]   La L. 59/1997 ha previsto il principio di omogeneità sia per il decentramento delle funzioni (art. 4), per il quale opera nel senso che il conferimento deve tenere conto delle funzioni già esercitate, con la conseguente attribuzione di funzioni e compiti omogenei allo stesso livello di governo, sia per il riordino delle amministrazioni centrali dello Stato (articolo 12, comma 1, lett. g)), per il quale opera in merito alla scelta di modello organizzativo (direzioni generali o struttura dipartimentale). Nella delega in esame il principio potrebbe essere inteso nel senso che i criteri in base ai quali il Governo individua i princìpi fondamentali nell’ambito delle singole discipline di settore siano applicati in modo omogeneo, individuando così disposizioni di pari “livello”.

[92]   Il criterio ricalca, solo in parte, ed in un contesto tutt’affatto differente, quello recato dall’art. 3, primo comma, lett. a), della legge delega 22 luglio 1975, n. 382 (Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica Amministrazione), la quale – nel momento di primo avvio delle Regioni a statuto ordinario – prevedeva il trasferimento delle funzioni amministrative.

[93]   Dal dibattito parlamentare si evince che si intendeva in tal modo prescrivere che le disposizioni di principio desunte dalla legislazione vigente debbano avere un contenuto normativo tale da postulare anche l’intervento legislativo delle Regioni. Si ricorda in proposito che in passato la giurisprudenza della Corte costituzionale, per discernere se una determinata norma costituisse o meno principio fondamentale di una materia a legislazione concorrente, ha fatto spesso leva sul criterio che la disposizione in questione richiedesse disposizioni di dettaglio e non fosse – “autoapplicativa”, tradendo, in quest’ultimo caso, la sua natura sostanzialmente di dettaglio.

[94]   Il criterio enunciato si riallaccia in maniera quasi testuale al contenuto dell’art. 120, secondo comma, Cost., il quale disciplina il potere sostitutivo statale (v. infra)

[95]   A norma del quale: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.

[96]   Il quale, enunciato il principio della parità di accesso agli uffici ed alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge, nella sua formulazione più recente statuisce espressamente che “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

      Il criterio direttivo sopra indicato potrebbe essere inteso nel senso che il legislatore delegato debba individuare, tra i princìpi fondamentali della legislazione statale vigente, quelli che non si pongano in contrasto con le finalità ora richiamate, che le Regioni sono tenute a perseguire per espressa previsione costituzionale. 

[97]   Tale criterio sembra esprimere il carattere ricognitivo della delega conferita (sottolineato, come s’è detto, anche dalla corte costituzionale).

[98]   La disposizione stessa precisa che i d.lgs. possono apportare le sole modifiche, di carattere esclusivamente formale, necessarie ad assicurarne il coordinamento nonché la coerenza terminologica. Si richiede l’acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni, nonchè delle competenti Commissioni parlamentari e della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Decorsi trenta giorni dall’assegnazione, i decreti legislativi possono essere emanati anche in mancanza del parere parlamentare.

[99]    La disciplina delle forme associative tra enti locali si rinviene nel capo V, articoli da 30 a 34, del testo unico sugli enti locali, approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. In tale disciplina sono presenti anche, tra le principali forme associative tra enti locali, i consorzi di enti locali, non espressamente citati dalla norma in esame.

[100]Con la riforma del titolo V, e in particolare attraverso la modifica dell’art. 114 Cost., è stato per la prima volta dato rilievo costituzionale agli statuti degli enti locali.

[101]  Si ricorda che l’identico limite dell’armonia con la Costituzione è previsto dall’art. 123 Cost. con riferimento agli statuti delle Regioni di diritto comune. A tal riguardo, in riferimento al valore prescrittivo del vincolo dell’”armonia con la Costituzione”, la Corte costituzionale ha recentemente osservato che questo non depotenzia ma “rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito” (sent. 302/2002).

[102]Attualmente, il testo unico sugli enti locali sopra richiamato disciplina all’art. 6 il contenuto degli statuti comunali e provinciali, individuando anche oggetti ulteriori rispetto a quelli qui considerati.

[103]  Identica locuzione è contenuta nell’art. 123 Cost. con riferimento agli Statuti delle Regioni di diritto comune.

[104]Tale vincolo risulta già presente nella legislazione in materia di enti locali, a partire dalla legge n. 142 del 1990  fino al testo unico degli enti locali, che lo prevede espressamente all’art. 7.

[105]La dizione “organizzazione degli enti locali” richiama quella presente nel già citato art. 6 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, il quale afferma che è lo statuto a determinare “le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio”; e, subito dopo, che “lo Statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente” (articolo 6, comma 2). Tali norme generali, affidate dal testo unico allo statuto sono poi integrate da quelle di dettaglio affidate ai regolamenti (articolo 7 del testo unico), che vengono adottati dal Consiglio, fatta eccezione, come si dirà, per quello sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi.

[106]l’obbligo posto a carico della legislazione statale o regionale di assicurare i requisiti minimi di uniformità della potestà regolamentare locale, non sembra rinvenirsi espressamente nel novellato testo costituzionale. Esso va comunque conciliato con il rispetto dei princìpi costituzionali di autonomia degli enti locali (artt. 114 e 117, sesto comma, Cost.) e di differenziazione (art. 118, primo comma, Cost.).

[107]La disposizione in commento sancisce il principio di “cedevolezza” (v. supra, sub articolo 1) delle norme statali e regionali nei confronti dei regolamenti degli enti locali, secondo un meccanismo di successione delle fonti elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale con riferimento alla legislazione concorrente di Stato e Regioni.

[108]  Si ricorda che ai sensi dell’articolo 117, comma quinto, Cost. “le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

[109]Sia prevedendo la trasmissione di progetti di atti normativi a Regioni, province autonome, enti locali e loro associazioni rappresentative, sia prevedendo forme di raccordo con il Governo in sede di definizione della posizione dell’Italia in sede europea. V. in particolare art. 5 della legge n. 11 del 2005.

[110]Si prescrive che comunque dall’attuazione dell’articolo non possono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

[111]   Art. 230: “La Corte di giustizia esercita un controllo di legittimità sugli atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.

      A tal fine la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del presente trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere, proposti da uno stato membro, dal Consiglio, dalla Commissione”.

[112]L’articolo 117 della Costituzione prevede in proposito che:

§       “le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, […] provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza” (quinto comma);

§       “nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato” (nono comma).

[113]Una “norma di chiusura” stabilisce che resta fermo che i Comuni, le Province e le Città metropolitane continuano a svolgere attività di mero rilievo internazionale nelle materie loro attribuite, secondo l’ordinamento vigente, comunicando alle Regioni ed alle amministrazioni competenti ogni iniziativa.

[114]Si noti che la formulazione adottata non specifica il riferimento ai trattati internazionali ratificati con la dizione “a seguito di legge di autorizzazione” (sul punto v. anche supra, con riguardo all’   art. 1, comma 1 della medesima legge “La Loggia”).

[115]  Ciò, nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana, nonché, nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, dei princìpi fondamentali dettati dalle leggi dello Stato.

[116]Al Ministero degli affari esteri, sentita la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per gli affari regionali, ed accertata l’opportunità politica e la legittimità dell’accordo, compete altresì conferire i pieni poteri di firma previsti dalle norme del diritto internazionale generale e dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, ratificata ai sensi della legge 12 febbraio 1974, n. 112. Gli accordi sottoscritti in assenza del conferimento di pieni poteri sono nulli.

[117]  Peraltro già introdotti nell’ordinamento vigente dall’articolo 4, comma 3, della legge n. 59 del 1997.

[118]  Art. 4, co. 3, lett. a), L. 59/1997

[119]  Art. 4, co. 3, lett. h), L. 59/1997

[120]  Art. 4, co. 3, lett. g), L. 59/1997

[121]  Su proposta del Ministro per gli affari regionali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentiti i Ministri interessati

[122]Ciascuno dei predetti disegni di legge deve essere corredato da idonea relazione tecnica e non deve recare oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica. Si precisa che tali disposizioni si applicano fino alla data di entrata in vigore delle norme relative al nuovo sistema finanziario in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione (non ancora adottate).

[123]  Con le modalità previste al numero 4) del punto II dell’Acc. 20 giugno 2002, recante intesa interistituzionale tra Stato, Regioni ed enti locali.

[124]Ulteriori disposizioni riguardano la proroga del termine, nonché la possibilità di adottare comunque i decreti, in assenza dell’espressione dei pareri da parte delle competenti Commissioni. I decreti sono adottati con il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze e devono conformarsi ai pareri delle Commissioni parlamentari competenti per le conseguenze di carattere finanziario nelle parti in cui essi formulano identiche condizioni. Dalla data di entrata in vigore dei suddetti decreti o da quella diversa indicata negli stessi, le Regioni o gli enti locali possono provvedere all’esercizio delle funzioni relative ai beni e alle risorse trasferite. Fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti previsti dal presente articolo, le funzioni amministrative continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.

[125]  In relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea

[126]Resta ferma la potestà delle Regioni a statuto speciale, nell’esercizio della loro competenza, di adottare particolari discipline nel rispetto delle suddette finalità.

[127]  A determinate condizioni, anche Comuni, Province e Città metropolitane.

[128]Lo status è equiparato a tutti gli effetti, per la durata dell’incarico, a quello dei consiglieri della Corte dei conti, con oneri finanziari a carico della Regione.

[129]La L. cost. n. 3 del 2001, infatti, sopprime dal testo dell’art. 127 Cost. l’istituto del visto governativo sulle deliberazioni legislative della Regione e abroga il primo comma dell’art. 125 Cost., in materia di controllo di legittimità e di merito degli atti della Regione da parte di organi statali, e l’art. 130 Cost., che prevede il controllo sugli atti dei comuni da parte di organi della Regione.

[130]  Un esempio, in questo senso potrebbe essere costituito dall’adozione del bilancio annuale da parte dell’ente territoriale nel termine previsto dalla legge. Dalla formulazione della norma nel suo complesso parrebbe interpretato restrittivamente l’ambito oggettuale dei poteri governativi disciplinati dall’articolo 120 della Costituzione, escludendo l’ipotesi di sostituzione dell’organo nel complessivo esercizio delle sue funzioni, ed avendo a riferimento – appunto – il compimento di singoli atti “dovuti o necessari”.

[131]La definizione delle procedure per l’esercizio del potere sostitutivo, come si è detto, è espressamente demandata dall’articolo 120, secondo comma, Cost., alla legge, che deve definire “procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. In merito si ricorda che, in materia di poteri sostitutivi, il principio di leale collaborazione “impone” - secondo la Corte costituzionale - “di non procedere alla sostituzione stessa, se non previa adozione di quelle misure (informazioni attive e passive, sollecitazioni ed altre) che per i momenti, i livelli, le modalità, siano idonee a qualificare l’intervento sostitutivo come necessitato dall’inerzia del soggetto di autonomia e in pari tempo come riferibile all’applicazione del detto principio e non ad emulatività o a prevaricazione” (sentenza n. 294 del 1986).

[132]  La procedura ora ricordata, ricalca, con alcune modifiche, quella disciplinata dall’articolo 5 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59. In particolare, la legge in esame si differenzia dall’articolo 5 del d.lgs n. 112 quanto ai presupposti, che sono da quest’ultimo espressamente e specificamente individuati, mentre gli aspetti procedurali sono pressoché identici.

[133]  L’iniziativa si formalizza dunque nella proposta del Ministro competente per materia, mentre al Presidente del Consiglio dei ministri spetta la fissazione di un termine congruo, per l’adozione degli atti dovuti o necessari da parte dell’ente interessato. L’inutile decorso del termine porta all’esercizio del potere sostitutivo; titolare del quale è, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, il Governo. In tema di titolarità in capo al Governo del potere sostitutivo si ricorda la sentenza n. 177 del 1988 della Corte costituzionale.

[134]Mentre l’ipotesi della nomina di un commissario è nota nella legislazione vigente e costituisce, anzi, l’ordinaria esplicazione dei poteri sostitutivi ex art. 5 del D.Lgs. 112/1998, innovativa è la previsione della adozione da parte dello stesso Consiglio dei ministri dei provvedimenti necessari, che il D.Lgs. 112/1998 prevede  con riferimento alle ipotesi di urgenza.

[135]procedura e natura degli “atti e provvedimenti” sono quelli di cui al comma 1

[136]  L. 9 marzo 1989, n. 86, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari.

[137]V. in particolare artt.  11, co. 8, 16 co. 3 e 13 co. 2  della legge n. 11 del 2005.

[138]Sono peraltro fatte salve le competenze della Regioni a statuto speciale.

[139]Tale disposizione potrebbe implicare che nel procedimento di nomina siano coinvolti gli enti territoriali sovraordinati rispetto a quello interessato dal provvedimento sostitutivo.

[140]L’articolo 5, comma 3, citato, recita: “In casi di assoluta urgenza, non si applica la procedura di cui al comma 1 e il Consiglio dei Ministri può’ adottare il provvedimento di cui al comma 2, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro competente. Il provvedimento in tal modo adottato ha immediata esecuzione ed e’ immediatamente comunicato rispettivamente alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, di seguito denominata “Conferenza Stato-Regioni” e alla Conferenza Stato-Citta’ e autonomie locali allargata ai rappresentanti delle comunità’ montane, che ne possono chiedere il riesame, nei termini e con gli effetti previsti dall’articolo 8, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59”. Quest’ultimo recita: “3. In caso di urgenza il Consiglio dei ministri può provvedere senza l’osservanza delle procedure di cui ai commi 1 e 2. I provvedimenti in tal modo adottati sono sottoposti all’esame degli organi di cui ai commi 1 e 2 entro i successivi quindici giorni. Il Consiglio dei ministri è tenuto a riesaminare i provvedimenti in ordine ai quali siano stati espressi pareri negativi”.

[141]  Rispetto al testo del citato art. 5 del D.Lgs. 112/1998, può osservarsi che vi sono alcune differenze:

§          l’ente territoriale non è avvertito ex ante (come già nel d l.vo 112, art. 5) e neppure appare, nella procedura del comma 4, avvertito ex post (è destinataria di comunicazione solo la Conferenza). Nella disciplina dell’articolo 5 del d.lgs. n. 112/98 e dell’articolo 8, comma 3, della legge n. 59/97 i provvedimenti adottati in via d’urgenza sono sottoposti all’esame degli organi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 8 citato (ossia la Conferenza Stato-Regioni, la Regione interessata e la Commissione parlamentare per le questioni regionali);

§          il Governo non sembra tenuto al riesame a seguito della richiesta dell’ente. Nella disciplina dell’articolo 5 del D.Lgs. 112/1998 e dell’articolo 8, comma 3, della L. 59/1997 il Consiglio dei ministri è tenuto a riesaminare i provvedimenti in ordine ai quali siano stati espressi pareri negativi”.

[142]Nella sent. n. 177/1988 la Corte costituzionale ha affermato che “l’esercizio del controllo sostitutivo nei rapporti tra Stato e Regioni (o province autonome) deve essere assistito da garanzie, sostanziali e procedurali, rispondenti ai valori fondamentali cui la Costituzione informa i predetti rapporti” (…) “E fra queste garanzie deve considerarsi inclusa l’esigenza del rispetto di una regola di proporzionalità tra i presupposti che, nello specifico caso in considerazione, legittimano l’intervento sostitutivo e il contenuto e l’estensione del relativo potere, in mancanza della quale quest’ultimo potrebbe ridondare in un’ingiustificata compressione dell’autonomia regionale (v. sentt. nn. 177 e 294 del 1986)”.

[143]L’espressione “armonizzazione” è largamente usata nei testi normativi comunitari, riferita alle legislazioni degli Stati che fanno parte dell’Unione europea. In generale, l’espressione utilizzata nel Trattato è ‘ravvicinamento delle legislazioni’; di solito l’espressione “armonizzazione” viene utilizzata in ambiti molto specifici. Peraltro, l’espressione si ritrova anche, in tempi abbastanza recenti, in alcune fonti di rango primario dell’ordinamento interno, attinenti per lo più a discipline con elevato contenuto “tecnico” (D.lgs. 314/1997; D.lgs. 507/1993; D.L. 331/1993, D.lgs. 282/1992).

[144]Il citato comma 3 stabilisce, infatti, che quando un’intesa espressamente prevista dalla legge non è raggiunta entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza Stato-Regioni in cui l’oggetto è posto all’ordine del giorno, il Consiglio dei Ministri provveda con deliberazione motivata. Il comma 4, invece, stabilisce che in caso di motivata urgenza il Consiglio dei Ministri può provvedere senza l’osservanza delle disposizioni del medesimo articolo 3: i provvedimenti adottati sono sottoposti all’esame della Conferenza Stato-Regioni nei successivi quindici giorni. In questi casi, il Consiglio dei Ministri è tenuto ad esaminare le osservazioni della Conferenza Stato-Regioni ai fini di eventuali deliberazioni successive.

[145] Di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e all’articolo 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

      L’articolo 8 della legge n. 59/97 richiamato dispone che, salvo il caso dell’urgenza, gli atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, nonché gli atti di coordinamento tecnico, sono adottati previa intesa con la Conferenza o con la singola Regione interessata; qualora entro quarantacinque giorni dalla prima consultazione l’intesa non sia stata raggiunta, gli atti sono adottati con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali (che lo esprime entro trenta giorni dalla richiesta).

      Nel quadro del generale “decentramento amministrativo” operato dal decreto legislativo n. 112 del 1998 (adottato, come è noto, proprio in attuazione della delega a tal fine conferita dalla medesima legge n. 59 del 1997) il potere di indirizzo e coordinamento relativo alle funzioni e ai compiti conferiti alle Regioni e agli enti locali è stato espressamente conservato in capo allo Stato dall’articolo 4 del d.lgs. n. 112 (richiamato dalla disposizione in commento), il quale richiama, per il suo esercizio, le procedure di cui all’articolo 8 l. n. 59 ora ricordato.

[146]  Cfr., in particolare, l’indagine conoscitiva della 1a Commissione permanente del Senato sugli effetti nell’ordinamento della riforma costituzionale del titolo V. Accanto alla ragione principale indicata nel testo, elementi di perplessità derivano anche dal venir meno della possibilità dello Stato di intervenire con strumenti non legislativi nelle materie regionali, nonché, a contrario, dall’articolo 118, comma terzo, che prevede in alcune specifiche materie un’ipotesi di coordinamento tra Stato e Regioni (dalla previsione, appunto, di specifici casi deriverebbe l’inesistenza nel nuovo sistema costituzionale di un potere generale di indirizzo e coordinamento dello Stato nei confronti delle funzioni amministrative degli altri enti).

[147]  Si vedano, ad esempio, le sentenze n. 150 del 1982, n. 340 del 1983, n. 177 del 1986 e 242 del 1989.

[148]V. sentt. 376/2003; 17/2004.

[149]V. in part. la sent. 329/2003. Di tale possibilità si era peraltro dubitato anche prima dell’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001.

[150]  Disciplinata dagli articoli 31, 32, 33 e 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale.

[151]Trascorso il termine di cui all’articolo 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 40. In tal caso l’udienza di discussione è fissata entro i successivi trenta giorni e il dispositivo della sentenza è depositato entro quindici giorni dall’udienza di discussione

[152]Il ricorrente deve chiedere la trattazione del ricorso, con istanza diretta alla Corte costituzionale e notificata alle altre parti costituite, entro quattro mesi dal ricevimento della comunicazione di pendenza del procedimento effettuata a cura della cancelleria della Corte costituzionale; in difetto di tale istanza, il ricorso si considera abbandonato ed è dichiarato estinto con decreto del Presidente.

[153]Il provvedimento di preposizione all’ufficio territoriale del Governo del capoluogo di Regione è adottato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, d’intesa con il Ministro per gli affari regionali.

[154]Relative al controllo preventivo sulle leggi regionali, nonché al coordinamento dell’attività statale con quella regionale.

[155]  La riforma costituzionale del titolo V ha abrogato gli articoli della Costituzione che prevedevano la figura del Commissario del Governo in un quadro di “alleggerimento” dei vincoli alla potestà legislativa e all’attività amministrativa delle Regioni, e, in particolare, in collegamento con la soppressione dell’istituto del visto come strumento di controllo preventivo dello Stato sulla legislazione regionale.  Il tema è stato dibattuto nel corso dell’indagine conoscitiva sugli effetti delle revisioni del titolo V della Costituzione, svolta dalla Commissione affari costituzionali del Senato all’inizio della XIV legislatura. In tale contesto sono state anche avanzate perplessità sulle ragioni della soppressione di tale figura, nonché sui reali effetti di tale misura nell’ambito dell’assetto ordinamentale e organizzativo dello Stato.

[156]A fini di ulteriore coordinamento, si ricorda peraltro che il Commissario del Governo resta citato nel nuovo titolo V della Costituzione, all’articolo 123, secondo comma, modificato dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, ove si esclude la necessità dell’apposizione del suo visto per l’emanazione dello statuto delle Regioni a statuto ordinario.

[157]Specificamente: dell’articolo 118, terzo comma della Costituzione (comma 2, lettera c)), dell’articolo 120, secondo comma (comma 2, lettera d)) e dell’articolo 9 della legge costituzionale n. 3 del 2001, nella parte in cui prevede l’abrogazione delle disposizioni della Costituzione disciplinanti i controlli sugli atti amministrativi regionali (comma 9).

[158]Immigrazione; ordine pubblico e sicurezza, con riguardo alla polizia amministrativa locale; tutela dei beni culturali.

[159]L’articolo prevede ulteriori compiti, tra cui si fa altresì presente l’indizione delle elezioni regionali e la determinazione dei seggi consiliari e l’assegnazione di essi alle singole circoscrizioni, nonché l’adozione dei provvedimenti connessi o conseguenti, fino alla data di entrata in vigore di diversa previsione contenuta negli statuti e nelle leggi regionali.

[160]Le norme di attuazione proposte devono avere ad oggetto la definizione dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative da trasferire, per l’esercizio, appunto, delle ulteriori funzioni amministrative.

[161]Nello stesso senso, si vedano anche le sentt. 312 e 314/2003

[162]Il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni è progressivamente cresciuto fino a toccare livelli preoccupanti, come emerge anche  dalle relazioni annuali del Presidente della Corte costituzionale; in particolare, nella relazione su “La giustizia costituzionale nel 2004”, si precisa altresì che “la crescita di questo tipo di contenzioso ha enfatizzato il ruolo arbitrale che la Corte costituzionale è chiamata a svolgere tra gli enti territoriali, alla stessa stregua dei suoi omologhi di altri Stati a struttura composta”.

[163]Si ricorda, tra gli altri, la “giurisprudenza parlamentare” che, già in numerosi casi precedenti alla sentenza n. 303 del 2003 (su cui v. infra), ha affermato la necessità di prevedere strumenti di concerto o di intesa tra Stato e Regioni da raggiungersi in seno alla Conferenza Stato-Regioni, secondo una logica che si riconnette a quella, ben esplicitata nella successiva sentenza n. 6 del 2004, in ordine alla necessità “di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che debbono essere condotte in base al principio di lealtà”.

[164]La prima pronuncia organica successiva alla riforma è la sentenza n. 282 del 2002.

[165]  Cfr. in particolare P.Caretti, Titolo V: pareri parlamentari e giurisprudenza costituzionale (a cura dell’Osservatorio sulle fonti dell’Università degli studi di Firenze), 12 aprile 2005, 48.

[166]  In dottrina è stato rilevato che tale tendenza risulterebbe assai più evidente nella “giurisprudenza parlamentare”  (Cfr. in particolare P.Caretti, cit.)

[167]  Come si legge già nella sent. 282/2002, “le norme che contemplano non prefigurano rigidamente i termini del rapporto tra legislazione centrale e quella regionale, ma ne affidano il governo alla prima”.

[168]  Si veda ad esempio, le precisazioni contenute già nella sent. 282/2002 a proposito dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ancora, la sent. 162/2004, richiamando pronunce precedenti (sent. 407/2002; 6/2004), ha chiarito che la competenza legislativa statale in materia di “ordine pubblico e sicurezza” si riferisce alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Peraltro, nella sentenza 428/2004 la Corte ha riconosciuto la rilevanza della materia anche con riguardo alla disciplina della circolazione stradale, per quanto attinente all’incolumità delle persone.

[169]  In proposito si segnala in particolare la sent. 272/2004, nella quale la disciplina dei servizi pubblici locali viene ricondotta alla materia della “tutela della concorrenza” (con l’esclusione espressa dei servizi pubblici locali “privi di rilevanza economica”, di cui all’art. 113-bis del D.Lgs. 267/2000). Si vedano anche le sentt. 307, 312/2003; 6/2004, nonché la sent. 77/2005 (ove, in applicazione dell’accezione “dinamica” della materia “tutela della concorrenza”,  si esclude sostanzialmente la riconducibilità ad essa di incentivi per le imprese marittime, individuate come misure di carattere straordinario e transitorio, e pertanto prive di portata macroeconomica) .

[170]  In questo senso, la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 113, comma 7, del D.Lgs. 267/2000, avendo ritenuto la disposizione (criteri di aggiudicazione della gara) eccessivamente dettagliata e tale da comportare una ingiustificata e sproporzionata compressione dell’autonomia regionale.

[171] A parte la sent. 345/2004, con la quale la Corte ha ricondotto alla sfera della concorrenza anche la disciplina dell’acquisto di beni e servizi secondo procedure di evidenza pubblica, che limitano quindi il ricorso alla trattativa privata.

[172]  Quest’ultima figura a sua volta tra gli strumenti di politica economica previsti dal DPEF 2004-2007. Oggetto del giudizio, nel caso di specie, erano disposizioni contenute nella legge finanziaria per il 2004 relative al finanziamento di contratti di programma nei settori dell’agricoltura e della pesca. 

[173]  Nel caso di specie, la norma censurata è stata ritenuta dalla Corte come «ragionevole e proporzionato» intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio made in Italy, un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità (evidenziando che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo).

[174]Cfr. la sent. 359/2003

[175]V. sentt. 300 e 301/2003

[176]V. rispettivamente le sentt. 50, nonché 201 e 234 del 2005. In particolare, quest’ultima esprime una valutazione di “prevalenza” della materia “ordinamento civile”, con riferimento alle norme sottoposte a giudizio (v. infra, il paragrafo relativo alla concorrenza di competenze) e sottolinea la finalità più ampia del rilancio dell’economia che il legislatore intende favorire tramite l’emersione dell’economia sommersa , prevedendo una disciplina transitoria che lasci inalterata la funzionalità economica delle imprese emergenti.

[177] V. la sent. 271/2005, che riconosce comunque un ruolo normativo, sia pure meramente integrativo (e nella misura in cui sia previsto dalla legislazione statale) per i soggetti pubblici chiamati a trattare i dati personali.

[178]  V. sent. 185/2004.

[179]  Negano, nelle diverse fattispecie sottoposte all’esame della Corte, la sussistenza di tale competenza statale le sentt. 312 e 370/2003; 6/2004; 285 e 383/2005. La riconducibilità della disciplina oggetto del giudizio alla lett. m) del secondo comma dell’art. 117 è invece affermata, tra le più recenti,  dalla sent. 467/2005. 

[180]  In questo senso v., tra le altre, le sentt. 285 e 383 del 2005.

[181]La motivazione della sent. 151 del 2005 richiama infatti (oltre al principio del pluralismo informativo) l’attinenza della disciplina ad una pluralità di materie, “senza che alcuna di esse possa dirsi prevalente”; il principio di sussidiarietà e l”evidente esigenza di esercizio unitario della funzione”, nonché il carattere dell’intervento normativo “ragionevole e proporzionato” (v. infra ulteriori elementi, in rapporto alla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà ed alla sent. 303/2003). Si ricorda inoltre che tale sentenza si riconnette ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’informazione esprime non tanto una materia, quanto una “condizione preliminare” per l’attuazione dei principi propri dello Stato democratico (per un’applicazione al sistema dei rapporti Stato-regioni, v. la precedente sent. 312 del 2003, che richiama la 29 del 1996).

[182]  I pareri parlamentari sul punto sembrano più immediatamente privilegiare la potestà legislativa dello Stato, interpretata come tendenzialmente esclusiva.

[183]  Ciò, in sostanziale continuità con la disciplina dei rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale ereditata dal vecchio Titolo V . Si veda, nello stesso senso, la sent. 259/2004.

[184]  In particolare, non si esclude che le regioni possano adottare – nell’ambito delle proprie competenze - interventi diretti a soddisfare ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario considerate dallo Stato, nonché diretti ad assicurare un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati. Svolgimenti ulteriori in questo senso possono essere rinvenuti nelle sentt. 259 e 429/2005.

[185]  La sentenza 303 del 2003 – come rivela anche il passo riportato infra nel testo – esplicita infatti che l’attrazione allo Stato di competenze amministrative “non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”.   

[186]  Tra le molteplici sentenze successive, che hanno anche sviluppato alcuni aspetti della sent. n. 303, si possono ricordare le sentt. 6, 12, 423 e 233 del 2004, nonché 50 e 151 del 2005 (queste ultime, come si vedrà oltre, rilevano anche per altri profili).

[187]  V. sempre sent. 303 (nonché la sent. 370 del 2003)

[188]  V. in particolare la sent. 423 del 2004, nonché la 285 del 2005.

[189]V. sent. 151 del 2005. Da un lato la sent. 151 del 2005 sembra infatti inserirsi nel solco tracciato dalla sent. 303 in quanto sviluppa le potenzialità dell’applicazione del principio di sussidiarietà al riparto di competenze normative; dall’altro, si deve ricordare che l’attrazione in sussidiarietà a livello statale della funzione amministrativa (e della conseguente funzione legislativa) operato dalla sent. 303 non prescinde dalla riconducibilità ad uno specifico titolo d’intervento ex art. 117, commi 2° e 3° Cost., mentre nella sent. 151 appare slegata dalla individuazione di tale specifico titolo di intervento. La sent. 151 spinge poi l’argomentazione, come s’è detto, fino all’attrazione allo Stato della stessa potestà regolamentare, mentre la sent. 303 esplicitamente escludeva la possibilità per lo Stato di disciplinare con regolamento materie di competenza regionale. Per l’attrazione a livello statale di funzioni amministrative esclusivamente in base all’art. 118, primo comma, v. anche le sentt. 242 del 2005 e 285 del 2005.

[190]Nel caso della citata sent. 151 del 2005, la Corte ha giustificato  “l’assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti [finalizzato alla diffusione dei decoder], previa adozione di un regolamento che stabilisca criteri e modalità di attribuzione di tale contributo”, anche in considerazione dell’eccezionalità della situazione caratterizzata dal passaggio alla tecnica digitale terrestre, nonché di “una evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa (alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione), “non potendo un siffatto intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull’intero territorio nazionale”. L’intervento è stato poi valutato “ragionevole e proporzionato”, in relazione al fine perseguito.    

[191]  Resta comunque il fatto che numerose pronunce hanno censurato l’esercizio della potestà regolamentare dello Stato in violazione dell’art. 117, sesto comma Cost. (tra le altre, v. le sentt. 12 /2004 e 145/2005).

[192]  V. in part. la sent. 7/2004, relativa alla rete di distribuzione nazionale dell’energia elettrica (per tale sentenza, nonché per approfondimenti sulla rilevante giurisprudenza in materia di energia, v. il capitolo Energia: giurisprudenza costituzionale. Peraltro, nell’ambito di tale ultima giurisprudenza, sembra assumere particolare rilievo la natura tecnica della regolamentazione in questione, il che potrebbe far emergere  l’eccezionalità della deroga rispetto alla regola che nega flessibilità al riparto della potestà regolamentare.

[193]Di particolare rilievo anche la sent. 219 del 2005 (la sent. 50 è intervenuta in materia di apprendistato, la 219 in materia di lavori socialmente utili). Il criterio della “prevalenza” compare peraltro già nella sent. 370 del 2003.

[194]  Nella sent. n. 50 del 2005 la Corte ha ritenuto prevalenti, in tema di disciplina delle prestazioni di lavoro accessorio, i profili privatistici e previdenziali (di competenza statale), rispetto a quelli della tutela e sicurezza del lavoro (di competenza concorrente). Nella sent. 135 del 2005 ha assunto rilievo prevalente la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema nello specifico settore dei rischi industriali. In altri casi la Corte ha individuato una concorrenza di competenze, senza pervenire ad una valutazione di prevalenza (sentt. 175 e 151 del 2005).

[195]  V. la sent. 219 del 2005, che richiama la sent. 50. Nel caso di specie, ricorrendo la seconda ipotesi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui [le disposizioni] non prevedono alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni”. 

[196]  Anche a questo proposito, particolare rilievo assume la già richiamata sent,. 303 del 2003.

[197]  Frequenti sono stati i casi di sentenze che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni statali che prevedevano il parere della Conferenza Stato-regioni, anziché l’intesa (v. ad es. sentt. 222 del 2005, 285 del 2005), ovvero in cui la Corte ha richiesto il coinvolgimento della regione direttamente interessata nella forma dell’intesa ”forte”, il cui mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento (v. ad es. sent. 6 del 2004).  

[198]  In questo senso v. la sent. 231 del 2005 (che peraltro conclude con un dispositivo caducatorio tout court della norma di legge statale impugnata, “in quanto non prevede alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni”).

[199]  V. in particolare la sent. n. 37 del 2004, cui si ricollegano varie altre pronunce (tra cui particolare rilievo assumono le sentt. 16 del 2004 e 423 del 2004, citate infra nel testo). La sentenza 37 ha precisato tra l’altro che “l’intervento del legislatore statale […] al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i princìpi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed enti locali”.

[200]  Con tale sentenza, che ribadisce i principali passaggi della precedente giurisprudenza in materia, è stata esaminata in particolare la disciplina relativa al Fondo nazionale per le politiche sociali.

[201]  In particolare si ricordano: il Fondo nazionale per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle Regioni e degli enti locali, nonché il Fondo nazionale per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale (sentenza n. 49 del 2004); il Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni (sentenza n. 16 del 2004); il Fondo per gli asili nido (sentenza n. 370 del 2003). In taluni casi  la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del Fondo per violazione del riparto delle competenze legislative, ex art. 117 della Costituzione (Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano servizi di asilo nido o micro-nidi - sentenza n. 320 del 2004, Fondo finalizzato alla costituzione di garanzie sul rimborso di prestiti fiduciari in favore degli studenti capaci e meritevoli - sentenza n. 308 del 2004).

[202]  Nel caso di specie la Corte ha fatto salva una disposizione recante l’istituzione di un fondo per il conseguimento dei risultati di maggiore efficienza e produttività nel settore del trasporto pubblico locale, richiedendo peraltro, ai fini del riparto del fondo, la necessità della previa intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni. L’intervento finanziario dello Stato è stato peraltro “salvato”  anche in ragione “della perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali, e del vigente finanziamento statale nel settore del trasporto pubblico locale” (la cui disciplina di riferimento è stata individuata nel D.Lgs. n. 422 del 1997, anteriore alla riforma cost. del 2001), nonché dell’esigenza di salvaguardare comunque le attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle regioni.

[203]  V. supra quanto esplicitato in particolare sulla trasversalità della materia “tutela della concorrenza”

[204]  Per ulteriori elementi v. scheda Trasporto pubblico locale – Il nuovo titolo V.

[205]  V. in part. sentenza n. 320/2004.

[206]  Qualche anticipazione può leggersi nella sent. 36/2004.

[207]  Con la citata sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge n. 168 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 191 del 2004 nella parte in cui prevedono appunto tali vincoli.

[208]  Si veda però quanto affermato nella sent. 196/2004.

[209]V. sul punto la disciplina prevista dalla legge n. 131 del 2003 (c.d. legge “La Loggia” – v. in part. art. 1), per la quale si rinvia alla scheda Titolo V e norme di attuazione. 

[210]  Cfr. sent. 282/2002. Nello stesso senso, con riferimento alla materia elettorale si veda, in particolare, la sent. 196/2003.

[211]  Cfr. sent. 162/2004.

[212]  Con tale sentenza sono state dichiarate costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della delega contenuta nell’art. 1 della legge 131/2003 (in materia di ricognizione dei princìpi fondamentali in tutte le materie di legislazione concorrente). In tale occasione la Corte ha sottolineato il carattere meramente ricognitivo della delega. Anche per tale aspetto si rinvia alla scheda Titolo V e norme di attuazione.

[213]  D’altra parte, la legge di delega può essere impugnata se i principi ed i criteri direttivi fissati sono invasivi della sfera di competenza regionale (come si evince sempre dalla sentenza 280 del 2004, nonché da altre sentenze precedenti, tra cui la 125 del 2003)

[214]  Si ricorda che, ad avviso della dottrina maggioritaria, il presupposto costituzionale della necessità ed urgenza dovrebbe limitare i contenuti degli stessi alle sole misure di immediata applicazione (si veda nello stesso senso anche la sent. 196/2004).

[215]  Ne consegue che il rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi, che concerne il procedimento legislativo di delega, e quella di principi fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito una volta per tutte.

[216]  L. 20 giugno 2003, n. 140, Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato.

[217]  L. cost. 29 ottobre 1993, n. 3, Modifica dell’articolo 68 della Costituzione.

[218]  D.L. 15 novembre 1993, n. 455, Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione.

[219]  D.L. 23 ottobre 1996, n. 555, Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione.

[220]  L. 20 giugno 2003, n. 140, Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato. L’art. 1 è stato introdotto nel corso dell’esame al Senato del relativo disegno di legge (A.S. 2191) ad opera dell’articolo aggiuntivo 1.500, sottoscritto dai senn. Schifani, D’Onofrio, Nania e Moro ed approvato dall’Assemblea nella seduta antimeridiana del 4 giugno 2003.

[221]  L’art. 90 Cost. sancisce l’irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento ed attentato alla Costituzione.

[222]  L’art. 159 c.p. è stato modificato dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, Modifiche al codice penale e alla L. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione. La nuova disciplina non reca modifiche sostanziali nella parte qui illustrata.

[223]  L’articolo 1 è stato introdotto nel corso dell’esame al Senato del disegno di legge A.S. 2191, già approvato dalla Camera (articolo aggiuntivo 1.500, sottoscritto dai senn. Schifani, D’Onofrio, Nania e Moro ed approvato nella seduta antimeridiana dell’Assemblea del 4 giugno 2003). Il testo non è stato modificato nel corso della successiva lettura alla Camera (A.C. 185-B).

[224]  Gli argomenti a sostegno della conformità a Costituzione della disposizione appaiono ben riassunti nel parere di nulla osta espresso dalla 1ª Commissione (Affari costituzionali) del Senato nella seduta del 3 giugno 2003. Da tale parere sono tratte le citazioni tra virgolette.

[225]  Questa giurisprudenza può individuarsi nelle sentt. 1150/1988 e 443/1993, rese in conflitti elevati nei confronti del Senato. Già in tali pronunce, tuttavia, la Corte ha stabilito che non tutta l’attività politica può identificarsi con la funzione parlamentare. Essa ha argomentato che – oltre alle attività tipiche, previste dai regolamenti parlamentari – possono ritenersi appartenenti alla funzione di deputato o senatore le attività che siano rispetto a quelle tipiche “presupposte e consequenziali”.

[226]  Cfr. sentt. 289/1998, 329/1999 e 417/1999, nelle quali la Corte ha svolto un esame del merito della questione oggetto della deliberazione della Camera, professando l’intenzione di non discostarsi dal proprio orientamento precedentemente consolidato ma di dover unicamente verificare la mancanza di arbitrii decisionali.

[227]  Cfr. sentt. 10, 11, 56, 58, 82, 320, 321 e 420 del 2000 nonché 137 e 289 del 2001 e 50, 51, 52, 79 e 207 del 2002. Per esempio, nei casi esaminati nelle sentt. 320/2000 e 321/2000, le deliberazioni d’insindacabilità della Camera sono state ritenute legittime dalla Corte, giacché le affermazioni extra moenia del deputato in questione erano analoghe a quelle contenute in atti di sindacato ispettivo depositati dal deputato stesso. Non così invece per i casi esaminati nelle sentt. 137/2001 e 289/2001. Nella prima, la Corte ha ritenuto che i fatti di cui i parlamentari imputati erano chiamati a rispondere – oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale – non potessero neanche essere ricondotti al concetto di “opinione espressa”; nel secondo, per le affermazioni rese extra moenia dal deputato in questione non è stato riscontrato alcun aggancio contenutistico con attività parlamentari propriamente dette. Questo orientamento è largamente condiviso dalla giurisprudenza di merito nelle numerose sentenze di condanna rese nei casi in cui non è intervenuta una deliberazione parlamentare o prima che essa intervenisse.

[228]  L. 20 giugno 2003, n. 140, Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato.

[229]  Testualmente: “per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare”.

[230]  La sospensione non impedisce, comunque, il compimento degli atti non ripetibili (nell’ambito del procedimento penale) e di quelli urgenti (negli altri procedimenti).

[231]  In tal senso si esprime il Presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera, nelle comunicazioni da lui rese alla Giunta nella seduta del 21 aprile 2004.

[232]  Cfr. sentt. 246, 347 e 348 del 2004; 28, 146, 164, 176, 193 e 235 del 2005.

[233]  Depositata il 6 dicembre 2005. Sul punto si veda la comunicazione e l’allegata relazione del Presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera nella seduta dell’11 gennaio 2006.

[234]  Due volte in data 30 gennaio 2003; una terza in data 3 giugno 2004.

[235]  L. 20 luglio 2004, n. 215, Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi.

[236]  L. 13 febbraio 1953, n. 60, Incompatibilità parlamentari. Si tratta delle “cariche in enti culturali, assistenziali, di culto e in enti-fiera, nonché [di] quelle conferite nelle Università degli studi o negli Istituti di istruzione superiore a seguito di designazione elettiva dei Corpi accademici”.

[237]  Ai sensi dell’art. 2203 c.c., “è institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale”. L’institore (art. 2204 c.c.) può compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa (salve le limitazioni contenute nella procura) e può stare in giudizio in nome del preponente, ma non può alienare o ipotecare i beni immobili senza espressa autorizzazione.

[238]  L. 31 maggio 2005, n. 88, Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 31 marzo 2005, n. 44, recante disposizioni urgenti in materia di enti locali.

[239]  D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

[240]  L. 10 ottobre 1990, n. 287, Norme per la tutela della concorrenza e del mercato.

[241]  Si tratta, in particolare, delle vigenti disposizioni volte a prevenire e reprimere l’abuso di posizione dominante da parte delle imprese, recate dall’art. 3 della L. 287/1990, istitutiva dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

[242]  L. 31 luglio 1997, n. 249, Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo. Il richiamato art. 2, relativo al divieto di posizioni dominanti, è stato dapprima ampiamente modificato dalla L. 112/2004 e poi abrogato dall’art. 54 del Testo unico della radiotelevisione di cui al D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177; le corrispondenti disposizioni sono ora contenute negli artt. 22 e 43 del Testo unico.

[243]  L. 3 maggio 2004, n. 112, Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI - Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l’ emanazione del testo unico della radiotelevisione. L’art. 14 è relativo all’accertamento della sussistenza di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni.

[244]  D.L. 6 settembre 2004, n. 233 (conv. con mod. in L. 5 novembre 2004, n. 261), Modificazioni alla legge 20 luglio 2004, n. 215, in materia di risoluzione dei conflitti di interessi.

[245]  L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

[246]  Pubblicata nella G.U. 1 dicembre 2004, n. 282.

[247]  Si ricorda che l’articolo richiamato è stato abrogato dall’art. 54 del Testo unico della radiotelevisione di cui al D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177. Le disposizioni ivi recate sono ora contenute nell’art. 2, co. 1, lett. l) del citato Testo unico.

[248]  Il riferimento al settore integrato delle comunicazioni è stato introdotto dal D.L. 233/2004, già richiamato nel testo.

[249]  L. 6 agosto 1990, n. 223, Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato (cd. “legge Mammì”).

[250]  L. 31 luglio 1997, n. 249, Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo (cd. “legge meccanico”).

[251]  L. 22 febbraio 2000, n. 28, Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica.

[252]  Deliberazione n. 417/04/CONS, pubblicata nella G.U. del 23 dicembre 2004, n. 300.

[253]  Deliberazione n. 392/05/CONS, pubblicata nella G.U. del 23 dicembre 2005, n. 298.

[254]  Le Autorità hanno svolto i compiti ad esse assegnati, presentando alle Camere le relazioni previste entro i termini stabiliti.

      Cfr. Doc. CCXXII, n. 1, Relazione sullo stato delle attività di controllo e vigilanza in materia di conflitti di interessi (periodo 1° gennaio - 30 giugno 2005), trasmessa dal Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni alla Presidenza della Camera dei deputati il 15 luglio 2005.

      Doc. CCXXII, n. 2, Relazione sullo stato delle attività di controllo e vigilanza in materia di conflitti di interessi (periodo 1° luglio - 31 dicembre 2005), trasmessa dal Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato alla Presidenza della Camera dei deputati il 22 dicembre 2005.

      Doc. CCXXII, n. 3, Relazione sullo stato delle attività di controllo e vigilanza in materia di conflitti di interessi (periodo 1° gennaio - 30 giugno 2005), trasmessa dal Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato alla Presidenza della Camera dei deputati il 28 dicembre 2005.

[255]  Ai sensi del quale: “1. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

2. Fuori dei casi previsti dal primo comma il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.

[256]  P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1958, pag. 351 e seg.

[257]  Cfr. ad es. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, CEDAM, II volume, 1976 (nona ed.), pag. 781.

[258]  “La grazia è atto del Presidente della Repubblica emesso con la collaborazione del Ministro, senza che ci si possa domandare a quale volontà sia da attribuirsi il peso prevalente, perché, qualora uno dei due soggetti non concordi con l’atto sull’opportunità dell’emanazione dell’atto o del suo contenuto, la mancanza, rispettivamente, della firma o della controfirma non ne consentirà il perfezionamento. Quale sia poi l’incidenza dell’opera del Ministro o del Presidente della Repubblica in tale collaborazione è questione cui la risposta è a priori impossibile, dipendendo da situazioni di fatto non rilevanti per il diritto almeno fino a quando non si consolidino norme di tipo convenzionale […] o consuetudinario” (G. Zagrebelsky, Grazia (Diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, pag. 764).

[259]  D.P.R. 6 marzo 2001, n. 55, Regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia.

[260]  L. 6 marzo 1998, n. 40, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[261]  La riforma del Titolo V della Costituzione ha attribuito alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie “diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea” (art. 117, co. 2, lett. a) e “immigrazione” (art. 117, co. 2, lett. b); l’art. 118, co. 3, demanda alla legge statale la disciplina delle “forme di coordinamento fra Stato e regioni” in materia di immigrazione, oltre che di ordine pubblico e sicurezza.

[262]  Tale clausola è stata aggiunta dalla L. 189/2002, art. 3, co. 1.

[263]  Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 215 del 15 settembre 1998, Suppl. Ordinario n.158.

[264]  Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 16 maggio 2001, Suppl. Ordinario n.119.

[265]  Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 169 del 22 luglio 2005, Suppl. Ordinario n. 128.

[266]  Il Trattato di adesione all’Unione europea di dieci nuovi Paesi (Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) prevede, relativamente all’accesso al mercato del lavoro subordinato, la possibilità per i Paesi già membri di far ricorso ad un regime transitorio, applicabile fino ad un massimo di sette anni, con decorrenza dalla data di ingresso dei nuovo Paesi (1° maggio 2004), prima di pervenire alla piena libertà di movimento ed insediamento dei lavoratori provenienti da tali Paesi. Durante il periodo transitorio deve comunque essere applicato il “principio di preferenza”, in virtù del quale, nell’accesso al mercato del lavoro interno, si debbono privilegiare i cittadini provenienti dai nuovi Stati membri rispetto a quelli provenienti dai Paesi non aderenti all’Unione.

[267]  Il citato DPCM ha infatti previsto l’ingresso in Italia di lavoratori provenienti da otto dei nuovi Stati membri dell’Unione europea fino ad un massimo di 20.000 unità; per Cipro e Malta non

è stato previsto alcun limite.

[268]  Nel documento si fa riferimento a tre accordi sottoscritti in materia di lavoro, uno con l’Albania, l’altro con la Tunisia e il terzo con la Moldavia.

[269]  La revisione è avviata sulla base dell’art. 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30 Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro.

[270]Relazione sui risultati conseguiti attraverso provvedimenti attuativi del documento programmatico riferito al triennio 1998-2000 relativo alla politica dell’immigrazione degli stranieri nel territorio dello Stato, (articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), presentata dal Ministro dell’interno, trasmessa il 24 marzo 2000 (doc. CLVII, n. 1).

[271]  A partire dal 2005 la relazione, curata dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Ministero dell’interno, viene presentata insieme ad altre 3 relazioni (quella sull’attività delle forze di polizia e sullo stato della sicurezza pubblica sul territorio nazionale prevista dall’art. 113 della L. 121/1981; quella sul fenomeno della criminalità organizzata e sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla D.I.A. (ex art. 5 del D.L. 345/1991 e quella sui dati relativi alle iniziative in tema di sicurezza dei cittadini (ex art. 17 della L. 128/2001). A queste si aggiunge anche il rapporto annuale della Direzione centrale per i servizi antidroga del Dipartimento della pubblica sicurezza, non previsto da disposizioni di legge. Il nuovo documento sostituisce a tutti gli effetti le relazioni citate e ha assunto la denominazione di Relazione al Parlamento sull’attività delle Forze di Polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata. Nel 2005 il Governo ha presentato alle Camere due relazioni: quella relativa al 2003, trasmessa il 17 gennaio 2005 (doc. CCXII, n. 1) e quella relativa al 2004, trasmessa il 1° dicembre 2005 (doc. CCXII, n. 2).

[272]  L’introduzione di un termine per l’emanazione del decreto, in origine non previsto, è stata introdotta ad opera della legge 189 del 2002.

[273]  D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (conv. L. 14 maggio 2005, n. 80) Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.

[274]  Ministero dell’interno, Decreto 29 novembre 2004, Costituzione del Gruppo tecnico di lavoro per l’istruttoria delle questioni di competenza del comitato di coordinamento e il monitoraggio delle disposizioni del testo unico in materia di immigrazione (art. 2-bis, co. 3 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dall’art. 2 della legge 30 luglio 2002, n. 189).

[275]  D.P.C.M. 19 maggio 2004, Modifica al D.P.C.M. 23 luglio 2002, riguardante l’ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[276]  D.P.C.M. 17 dicembre 2004, Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2005 e D.P.C.M. 17 dicembre 2004, Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori cittadini dei nuovi Stati membri della Unione europea nel territorio dello Stato, per l’anno 2005.

[277]  Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 22 aprile 2005, n. 3426, Disposizioni urgenti di protezione civile in relazione alla situazione di emergenza di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 20 marzo 2002, 7 novembre 2003, 23 dicembre 2004 e 21 aprile 2005, (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 2 maggio 2005, n. 100.

[278]  Si ricorda che ai sensi della legge sulla protezione civile (L. 24 febbraio 1992 n. 225) si può provvedere con ordinanza, anche in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, per l’attuazione degli interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di emergenza.

[279]  D.P.C.M. 20 marzo 2002, Dichiarazione dello stato di emergenza per fronteggiare l’eccezionale afflusso di extracomunitari.

[280]  Ministero degli affari esteri, Decreto 12 luglio 2000, Definizione delle tipologie dei visti d’ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento.

[281]  L’esigenza di una progressiva armonizzazione delle diverse politiche nazionali dei visti ha condotto in sede europea all’adozione del Regolamento n. 539 del 15 marzo 2001, che determina la lista degli Stati i cui cittadini sono soggetti all’obbligo del visto. Esso sostituisce il precedente Regolamento (CE) n. 574/99.

[282]  Ministero dell’Interno, Direttiva 1° marzo 2000, Definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato.

[283]  Cassazione civile, Sez. Unite, sen. 25 marzo 2005, n. 6426.

[284]  D.L. 9 settembre 2002, n. 195, Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari (convertito, L. 9 ottobre 2002, n. 222). Si tratta del provvedimento che allargava la possibilità di regolarizzazione – prevista dalla legge 189 esclusivamente per i lavoratori domestici – anche agli altri tipi di impiego.

[285]  Si tratta degli ordini del giorno 9/2454/16 (on. D’Alia ed altri), 9/2454/34 (on. La Russa) e 9/2454/36 (on. Rutelli ed altri), accolti dal Governo nella seduta dell’Assemblea della Camera del 3 giugno 2002.

[286]  D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (conv. legge 21 febbraio 2006, n. 49), Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi.

[287]  D.L. 27 luglio 2005, n. 144, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito dalla Legge 31 luglio 2005, n. 155.

[288]  Originariamente il testo unico prevedeva un periodo di soggiorno di cinque anni, l’aumento di un anno è stato operato dalla legge 189.

[289]  D.P.R. 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006.

[290]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

[291]  L. 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.

[292]  Tali requisiti sono indicati essenzialmente nell’art. 4 del testo unico e consistono principalmente nel passaporto (o altro documento valido per l’espatrio) e nel visto d’ingresso (ove richiesto): v. scheda Immigrazione – Permesso di soggiorno. Sono inoltre respinti gli stranieri espulsi che rientrano prima della scadenza del periodo di divieto di 10 anni e coloro che sono stati espulsi da un altro Paese dell’area Schenghen (art. 4, co. 6, T.U.).

[293]  Si ricorda che già ai sensi dell’art. 1 della L. 1 aprile 1981 n. 121, Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, il Ministero dell’interno è responsabile dell’ordine e della sicurezza pubblica ed è autorità nazionale di pubblica sicurezza. Ha l’alta direzione dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e coordina in materia i compiti e le attività delle forze di polizia.

[294]  Il Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica è un organo ausiliario di consulenza del ministro dell’interno per l’esercizio delle sue attribuzioni di alta direzione e di coordinamento in materia di ordine e sicurezza pubblica. Il Comitato, disciplinato dagli artt.18 e 19 della legge 1° aprile 1981, n. 121, esamina ogni questione di carattere generale relativa alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e all’ordinamento ed organizzazione delle forze di polizia. E’ presieduto dal ministro dell’interno ed è composto da un Sottosegretario di Stato per l’interno, designato dal ministro. dal capo della polizia, dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, dal comandante generale del Corpo della guardia di finanza, dal direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria e dal dirigente generale capo del Corpo forestale dello Stato Dato l’interesse degli argomenti posti all’ordine del giorno, il ministro dell’interno può chiamare a partecipare alle riunioni del Comitato, dirigenti generali del Ministero, l’ispettore generale del Corpo delle capitanerie di porto, altri rappresentanti dell’amministrazione dello Stato e delle forze armate.

[295]  D.L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. L. 12 novembre 2004, n. 271).

[296]  Corte dei conti, Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Programma di controllo 2004, 11 marzo 2005, p. 103.

[297]  Ministero dell’interno. Lo stato della sicurezza in Italia, 15 agosto 2005, pag. 43; Ministero dell’interno, Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, Relazione annuale al parlamento  ex art. 3 D.Lgs. 286/1998. Anno 2004, riportata in allegato alla Relazione al Parlamento sull’attività delle Forze di Polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità. Relazione per l’anno 2004 (trasmessa alle Camere il 1° dicembre 2005, annunciata il 13 dicembre 2005,(doc. CCXII, n. 2).

[298]  Viene così colmata una lacuna nell’ordinamento previgente come rilevato dalla Cassazione (Cass. pen. Sez. VI, sentenza 22 novembre 2000. n. 4060). In base a tale pronuncia, non costituisce reato la condotta di chi, senza essere concorso nell’attività illecita diretta a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato, ovvero senza favorirne la permanenza, si adoperi per favorire l’uscita dal territorio nazionale di stranieri clandestini, atteso che l’art. 10 della legge n. 40 del 1998 (confluita nel D.lgs. 286/1998) non prevede come reato – a differenza dell’art. 12 della L. n. 143 del 1986, abrogata – l’attività di intermediazione di movimenti illeciti, o comunque clandestini, di lavoratori migranti, che non si risolvono nel favorire materialmente il loro ingresso o la loro permanenza nello Stato”.

[299]  L. 11 agosto 2003, n. 228, Misure contro la tratta di persone. Si veda anche il regolamento di attuazione adottato con il D.P.R. 19 settembre 2005, n. 237, Regolamento di attuazione dell’articolo 13 della legge 11 agosto 2003, n. 228, recante misure contro la tratta di persone.

[300]  Così dispone l’art. 100, co. 3, del testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), al quale il testo in commento fa rinvio. Il co. 2 dello stesso art. 100 prevede che, se i beni appartengono a terzi, i proprietari sono convocati dall’autorità giudiziaria procedente per svolgere, anche con l’assistenza di un difensore, le loro deduzioni e per chiedere l’acquisizione di elementi utili ai fini della restituzione, secondo le norme del codice di procedura penale in quanto compatibili.

[301]  D.L. 4 aprile 2002, n. 51, Disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera, (convertito L. 7 giugno 2002, n. 106).

[302]  Così la relazione del disegno di legge di conversione del D.L. 51/2002 (A.C. 2608).

[303]  D.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale.

[304]  Vedi Ministero dell’interno, Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, Relazione annuale al Parlamento  ex art. 3 D.Lgs. 286/1998. Anno 2004 (doc. CCXII, n. 2), p. 13.

[305]  In proposito occorre rilevare che la giurisprudenza di merito ha interpretato in senso restrittivo tale disposizione. L’accertamento dell’esistenza delle cause ostative all’espulsione non possono basarsi sulle dichiarazioni dell’interessato bensì su dati oggettivi quali la vigenza del provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale vengono fissate misure straordinarie di accoglienza per esigenze umanitarie ai sensi dell’art. 20 T.U. (Cass. civ. Sez. I, sent. 25 febbraio 2004, n. 3732) ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell’apposita Commissione (Cass. pen. Sez. I, sent. del 17 dicembre 2004, n. 2239).

[306]  La Corte costituzionale, sentenza 12-27 luglio 2000, n. 376 ha dichiarato l’illegittimità di questa disposizione nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio.

[307]  D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (conv. con mod. in L. 21 febbraio 2006, n. 49), Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi.

[308]  Il cambiamento di impostazione della disciplina dell’espulsione – secondo la relazione illustrativa del disegno di legge “Bossi-Fini” (A.S. 795) – è dovuto al fatto che l’effettuazione mediante intimazione e, solo in determinati casi, con l’accompagnamento alla frontiera ha  avuto “la conseguenza che la maggior parte degli intimati in realtà non ottempera all’ordine di lasciare il territorio nazionale”.

[309]  D.L.. 4 aprile 2002, n. 51, Disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera (conv. con mod. in L. 7 giugno 2002, n. 106).

[310]  In particolare, il secondo co. dell’art. 13 Cost. vieta qualsiasi restrizione della libertà personale “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

[311]  Tale motivazione si legge nel Comunicato della Presidenza del Consiglio relativo al Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto-legge (28 marzo 2002) ed è ribadita nella relazione illustrativa del d.d.l. di conversione A.C. 2608.

[312]  L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. con mod. in L. 12 novembre 2004, n. 271).

[313]  Secondo quanto sostenuto nella relazione illustrativa del d.d.l di conversione (A.S. 3107), il significativo aggravio del carico di lavoro determinato dalla introduzione della udienza di convalida dell’accompagnamento alla frontiera ha indotto il Governo a una complessiva rimeditazione della competenza sulla convalida e ad optare per la scelta di sollevare il Tribunale da tale incombenza, attribuendo l’intera materia al giudice di pace (anche con riguardo alla convalida del trattenimento nei centri di permanenza temporanea ed al ricorso avverso il decreto di espulsione, su cui si v. infra).

[314]  La competenza a decidere del ricorso al giudice di pace, in luogo del tribunale in composizione monocratica, è stata disposta dal decreto legge 241/2004 (art. 1, co. 2).

[315]  Il termine originariamente previsto dal testo unico era di 5 ani ed è stato elevato a 10 dalla L. 189/2002.

[316]  I termini di trattenimento, che nel testo unico previgente erano di 20 giorni, prorogabili di altri 10 giorni, sono stati elevati dalla L. 189/2002.

[317]  Ministero dell’interno, Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, Relazione annuale al parlamento  ex art. 3 D.Lgs. 286/1998. Anno 2004, cit., p. 12.

[318]  L. 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.

[319]  Il citato art. 18 della L. 152/1975 ha esteso a tali categorie di soggetti la disciplina di cui alla L. 575/1965, recante disposizioni contro la mafia.

[320]  Si tratta dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II (delitti di comune pericolo mediante violenza) e dagli artt. 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 285 (Devastazione, saccheggio e strage), 286 (Guerra civile), 306 (Banda armata: formazione e partecipazione), 438 (Epidemia), 439 (Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), 605 (Sequestro di persona) e 630 (Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione) del codice penale.

[321]  L. 20 giugno 1952, n. 645, Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (co. primo) della Costituzione.

[322]  L. 2 ottobre 1967, n. 895, Disposizioni per il controllo delle armi.

[323]  L. 14 ottobre 1974, n. 497, Nuove norme contro la criminalità.

[324]  Si ricorda a proposito del giudizio di convalida la citata sentenza della Corte costituzionale 222/2004 (vedi sopra).

[325]Si tratta delle seguenti fattispecie:

      1) delitti di cui agli artt. 285, 286, 416-bis e 422 c.p.;

      2) delitti consumati o tentati di cui agli artt. 575, 628, terzo co., 629, secondo co., e 630 c.p.;

      3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;

      4) delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli artt. 270, terzo co. e 306, secondo co., c.p.;

      5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’art. 2, co. terzo, della L. 110/1975;

      6) delitti di cui agli artt. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, co. 2, e 74 del T.U. sugli stupefacenti (D.P.R. 309/1990), e successive modificazioni;

      7) delitto di cui all’art. 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza;

      7-bis) delitti previsti dagli artt. 600, 600-bis, co. 1, 600-ter, co. 1, 601, 602, 609-bis nelle ipotesi aggravate previste dall’art. 609-ter, 609-quater, 609-octies c.p..

[326]  L’art. 211 c.p. stabilisce che le misure di sicurezza sono aggiuntive alla pena: se la pena è detentiva sono eseguite dopo che la pena è scontata o in ogni caso estinta; se la pena non è detentiva, le misure di sicurezza sono eseguite dopo che la sentenza di condanna è diventata irrevocabile.

[327]  L’art. 380 c.p.p. prevede l’arresto obbligatorio di chiunque è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. L’arresto in flagranza è facoltativo (art. 381 c.p.p.) per i delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero di delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

[328]  D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

[329]  L. 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale.

[330]  L. 22 aprile 1941, n. 633, Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

[331]  In questo senso Corte costituzionale, ordinanza n. 189/2005. Si ricorda che le pene accessorie, (individuate dall’art. 19 c.p.) conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa, a differenza dalla pene principali che sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 20 c.p.

[332]  Ratificato dall’Italia con la L. 30 settembre 1993, n. 388, Ratifica ed esecuzione: a) del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei ministri e Segretari di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990.

[333]  D.Lgs. 10 gennaio 2005, n. 12, Attuazione della direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, emanato in attuazione della delega recata nella L. 31 ottobre 2003, n. 306, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003 (Allegato A). L’attuazione della direttiva è avvenuto con ritardo. Il termine per il recepimento era, infatti, fissato, al 2 dicembre 2002. Il 6 marzo 2003 la Commissione europea ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora per il mancato recepimento della direttiva 2001/40/CE. La direttiva 2001/40/CE figurava nell’allegato A della legge comunitaria per il 2001 (L. 1° marzo 2002, n. 39).

[334]  Termine di recepimento: 5 dicembre 2004. Recepimento previsto dalla L. 306/2003 (L. comunitaria 2003). Di fatto, i contenuti della direttiva sono stati recepiti con le modifiche all’art. 13 del D.Lgs. 286/98 da parte della L. 189/2002.

[335]  Termine di recepimento: 6 dicembre 2005. Recepimento previsto dalla L. 62/2005 (L. comunitaria 2004).

[336]  Termine di recepimento: 6 agosto 2006. Recepimento previsto dalla L. 29/2006 (Legge comunitaria 2005.)

[337]  L’elenco degli accordi stipulati nel DPR 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006, a cui si rinvia per una ampia disamina della politiche internazionale dell’immigrazione (si veda in particolare il capitolo 3).

[338]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

[339]  L. 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.

[340]  D.P.R. 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006.

[341]  La Corte costituzionale (sen. 224/2005) ha escluso che la nuova e più restrittiva disciplina introdotta dalla L. 189/2002 costituisca un ostacolo all’esercizio del diritto inviolabile ad una vita familiare, osservando che tale diritto “deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione e, quindi, in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e con i figli minori”, ma “non ha una estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori, in quanto nel rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori, l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito, aprendosi contestualmente margini che consentono al legislatore di bilanciare ‘l’interesse all’affetto’ con altri interessi di rilievo”. In particolare, si ricorda nella sentenza come il legislatore possa ‘corretto bilanciamento dei valori in gioco’, poiché sussiste in materia un’ampia discrezionalità legislativa limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli.

[342]  D.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri, a norma dell’articolo 33, commi 2 e 2-bis, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[343]  D.M. 19 dicembre 2001, Fissazione del numero massimo di visti di ingresso per l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti stranieri. Anno accademico 2001-2002 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 89 del 16 aprile 2002).

[344]  Al 10 maggio 2006 il decreto non risulta ancora pubblicato.

[345]  Così l’interpretazione da parte del relatore della I Commissione (Affari costituzionali) della Camera nel corso dell’esame dello schema (seduta del 4 ottobre 2005). Nella seduta del 12 ottobre 2005 la Commissione ha reso il prescritto parere.

[346]  D.L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. con mod. in L. 12 novembre 2004, n. 271).

[347]  Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004 relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato (pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 23 dicembre 2004, n. L375).

[348]  Per maggiori dettagli sulla relativa disciplina, si rinvia al dossier progetti di legge “Legge comunitaria 2005” (XIV legislatura, n. 744) del Servizio studi.

[349]  Secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati nel 2006, al 31 dicembre 2004, risultano dislocate nel territorio nazionale 1.870 strutture di accoglienza per extracomunitari, di cui 1.393 strutture residenziali, con una disponibilità di 26.970 posti letto, e 477 non residenziali; si veda Ministero dell’interno, Dipartimento affari interni e territoriali, Problematiche ed iniziative relative all’immigrazione extracomunitaria in Italia. Anno 2004, gennaio 2006, p. 7.

[350]  La Corte costituzionale (sen. n. 432/2005) nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma regionale che non includeva “i cittadini stranieri, residenti nella Regione, fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea, riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili”, ha rilevato che l’art. 41 del T.U. costituisce, a norma dell’art. 1, co. 4, del medesimo T.U., principio fondamentale dello Stato ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, con la conseguenza che qualsiasi scelta del legislatore regionale che introducesse rispetto ad esso regimi derogatori dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga.

[351]  L. 23 dicembre 2000 n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).

[352]  Entrambi gli articoli si riferiscono ai comportamenti discriminatori compiuti non solamente nei riguardi di cittadini stranieri non comunitari – destinatari della gran parte delle disposizioni del testo unico – ma anche di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia.

[353]  In tema giova menzionare l’art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro il quale, aggiungendo un secondo comma all’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n, 300 (Statuto dei lavoratori), ha previsto la nullità di patti o atti diretti “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”.

[354]  L. 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.

[355]  D.L. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in L. 25 giugno 1993, n. 205, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.

[356]  D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

[357]  Si veda Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità, Decreto 16 dicembre 2005, Istituzione dell’elenco delle associazioni ed enti legittimati ad agire in giudizio in nome, per conto o a sostegno del soggetto passivo di discriminazione basata su motivi razziali o etnici di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215.

[358]  D.P.C.M., 11 dicembre 2003, Costituzione e organizzazione interna dell’ufficio per promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni, di cui all’art. 29 della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39.

[359]  Decreto del ministro dell’interno 30 gennaio 2004, Istituzione del Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo.

[360]  D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

[361]  D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131.

[362]  D.L. 9 settembre 2002, n. 195, conv. con mod. in L. 9 ottobre 2002, n. 222.

[363]  Da intendersi nel senso che il lavoratore debba aver svolto un’attività di durata minima di almento un trimestre (Consiglio di Stato, Ad. Plenaria, decisione 31 marzo 2006, n. 4).

[364]  La legge 189 fissava il termine a due mesi dalla data di pubblicazione della legge, 10 novembre 2002. Poiché tale giorno era festivo, il termine è stato prorogato di diritto al giorno seguente non festivo (ex art. 2963 cc) ossia all’11 novembre 2002.

[365]  Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, Audizione del prefetto Anna Maria D’Ascenzo, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, e del prefetto Alessandro Pansa, direttore centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere del Ministero dell’Interno, 11 novembre 2004.

[366]  Ibidem, p. 282.

[367]  Dati leggermente diversi da quelli sopra indicati si ricavano dal Documento programmatico relativo all’immigrazione adottato dal Governo nel 2005 che fa riferimento a 641.599 permessi di soggiorno rilasciati a seguito della regolarizzazione (DPR 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006).

[368]  Per la determinazione del contributo e la destinazione delle quote si vedano i decreti del Ministro del lavoro del 26 agosto 2002, Attuazione dell’art. 33, comma 6, della L. 30 luglio 2002, n. 189, in materia di immigrazione ed asilo e del 28 ottobre 2002, Attuazione dell’art. 1, comma 7, della legge 9 ottobre 2002, n. 222, in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari.

[369]  Corte dei conti, Relazione concernente l’indagine di controllo sulla «Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Programma di controllo 2003, 24 marzo 2004

[370]  Corte di Cassazione, Sez. unite civili, sentenza 26 maggio 1997, n. 4674.

[371]  La Convenzione di Ginevra è stata ratificata dall’Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722, Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951. Anche le modifiche apportate alla Convenzione dal Protocollo di New York sono state recepite nel nostro ordinamento con la legge 14 febbraio 1970, n. 95.

[372]  La Convenzione è stata ratificata con la L. 23 dicembre 1992, n. 523, Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, con processo verbale, fatta a Dublino il 15 giugno 1990.

[373]  D.L. 30 dicembre 1989, n. 416 (conv. con mod. in L. 28 febbraio 1990, n. 39), Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Si tratta della prima legge organica in materia di immigrazione e di asilo, successivamente abrogata dalla L. 40/1998 (ora confluita nel testo unico in materia di immigrazione), ad eccezione dell’art. 1, tuttora vigente, recante la disciplina dell’esercizio del diritto di asilo. Fino al 1998, dunque, sia la disciplina dell’immigrazione, sia quella relativa al diritto di asilo erano contenute in un unico provvedimento normativo; a partire da quella data la normativa in materia di immigrazione si è consolidata nel testo unico, mentre il diritto di asilo ha continuato a trovare il suo fondamento normativo in un provvedimento di carattere emergenziale come il D.L. 416/1989.

[374]  L. 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.

[375]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.

[376]  L. 24 luglio 1954, n. 722, Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951.

[377]  Legge 23 dicembre 1992, n. 523, Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, con processo verbale, fatta a Dublino il 15 giugno 1990.

[378]  D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136, Regolamento per l’attuazione dell’art. 1, comma 2, del D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, in materia di riconoscimento dello status di rifugiato.

[379]  Relazione illustrativa del d.d.l. A.S. 795.

[380]  D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.

[381]  Si tratta dei delitti per i quali il codice prevede l’arresto obbligatorio in flagranza: i delitti per i quali è stabilita la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni, delitti contro la personalità dello Stato, rapina, estorsione, illegale fabbricazione, vendita e detenzione di armi, delitti per finalità di terrorismo o di eversione ecc.

[382]  D.P.R. 13 maggio 2005, Approvazione del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, per il triennio 2004-2006.

[383]  DPR 16 settembre 2004, n. 303, Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.

[384]  Si veda l’audizione del prefetto Anna Maria D’Acenzo, capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno presso il Comitato Schenghen (seduta del 15 novembre 2005).

[385]  Il 28 settembre 2000, il Consiglio dell’Unione Europea ha istituito il Fondo Europeo per i Rifugiati (Decisione del Consiglio Europeo n. 2000/596/CE, cd. “Decisione FER”), per sostenere le azioni degli Stati membri dell’Unione in merito alle condizioni di accoglienza, integrazione e rimpatrio volontario di richiedenti asilo, rifugiati e profughi. La Decisione introduce un nuovo sistema di gestione degli interventi, che affida a ciascuno Stato membro il compito di individuare, sulla base della situazione esistente nei singoli Paesi, le carenze nel campo dell’accoglienza, dell’integrazione e del rimpatrio volontario e le azioni da intraprendere per far fronte alle specifiche esigenze riscontrate a livello nazionale, attraverso la predisposizione di un apposito programma di attuazione FER. Le risorse finanziarie del FER vengono ripartite fra gli Stati membri, ai quali viene affidata la responsabilità dell’attuazione delle azioni che beneficiano del sostegno comunitario e quindi la selezione, la sorveglianza, il controllo e la valutazione dei singoli progetti. In Italia, l’Autorità Responsabile è il Ministero dell’Interno.

[386]  Corte dei conti, Relazione concernente l’indagine di controllo sulla «Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Programma di controllo 2004, 11 marzo 2005, pag. 78-79.

[387]  D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140, Attuazione della direttiva 2003/9/CE che stabilisce norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.

[388]  Quest’ultima proposta, sottoscritta da 63 deputati di Alleanza nazionale e con primo firmatario il capogruppo, on. Anedda, è stata presentata dopo che il Presidente di Alleanza nazionale, nonché vice Presidente del Consiglio in carica, l’on. Fini, si era espresso favorevolmente sull’inizio di un dibattito sulla concessione dei diritto di voto amministrativo per gli immigrati (7 ottobre 2003).

[389]  Si veda l’intervento della relatrice sulla discussione del testo unificato delle p.d.l. 204 e abbinate in tema di cittadinanza Camera dei deputati, I Commissione, seduta del 16 maggio 2005).

[390]  Lo stesso articolo sopprime, nella regione, le circoscrizioni provinciali e basa l’ordinamento degli enti locali “sui comuni e sui liberi consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria”.

[391]  Una selezione di contributi dottrinari sulla materia oggetto del presente dossier è rinvenibile nel dossier del Servizio studi Il riconoscimento del diritto di voto ai cittadini stranieri (Documentazione e ricerche n. 68, 15 ottobre 2003).

[392]  La legge ha modificato a tal fine gli artt. 4 e 6 della legge 24 gennaio 1979, n. 18, che disciplina l’elezione dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento europeo.

[393]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[394]  D.Lgs. 12 aprile 1996, n. 197, Attuazione della direttiva 94/80/CE concernente le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell’Unione europea che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza.

[395]  Deliberazione del Consiglio comunale n. 105 del 27 luglio 2004 di modifica dello statuto comunale.

[396]  L’atto di annullamento è stato adottato con il D.P.R. 17 agosto 2005. Il parere del Consiglio di Stato (Sez. I) è il n. 9771/04 del 16 marzo 2005.

[397]  Si vedano per il comune di Ancona il D.P.R., Annullamento straordinario, ai sensi dell’articolo 138 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, dell’articolo 15 dello statuto del Comune di Ancona, come modificato con la deliberazione n. 38 del 21 aprile 2005 del Consiglio comunale di Ancona (relativo alle elezioni circoscrizionali); e il D.P.R. 3 aprile 2006, Annullamento straordinario, ai sensi dell’articolo 138 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, della deliberazione n. 108 del 29 settembre 2005, del consiglio comunale di Ancona nella parte in cui dispone la modifica degli articoli 5 e 12 dello statuto del comune di Ancona (relativa alle elezioni del sindaco e del Consiglio comunale) e per il comune di Torino, il D.P.R. 20 marzo 2006, Annullamento straordinario, ai sensi dell’articolo 138 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, della deliberazione n. 108 del 21 luglio 2005 del Consiglio comunale di Torino nella parte in cui dispone l’inserimento del comma 1-bis all’articolo 47, dello statuto del Comune di Torino (relativo alle elezioni circoscrizionali).

[398]  Sentenza 29 novembre - 6 dicembre 2004, n. 379, con cui la Corte costituzionale afferma la legittimità dell’art. 15, co, 1, dello statuto dell’Emilia-Romagna che garantisce a tutti i residenti, compresi gli immigrati, il diritto di voto nei referendum regionali.

[399]  La Corte costituzionale con la sentenza 16 novembre 2004 - 2 dicembre 2004, n. 372 ha stabilito che va dichiarata inammissibile, tra le altre, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 6, dello statuto della Regione Toscana: secondo il quale “la Regione promuove, nel rispetto dei principi costituzionali, l’estensione del diritto di voto agli immigrati”.

[400]  L. 8 marzo 2006, n. 124, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, concernenti il riconoscimento della cittadinanza italiana ai connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia e ai loro discendenti.

[401]  L. 5 febbraio 1992, n. 91, Nuove norme sulla cittadinanza.

[402]  D.Lgs. del Capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430, Esecuzione del Trattato di pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

[403]  L. 14 marzo 1977, n. 73, Ratifica ed esecuzione del trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, con allegati, nonché dell’accordo tra le stesse Parti, con allegati, dell’atto finale e dello scambio di note, firmati ad Osimo (Ancona) il 10 novembre 1975.

[404]  Più precisamente: le persone, facenti parte del gruppo etnico italiano, che alla data del 10 giugno 1940 erano cittadini italiani ed avevano la loro residenza permanente sul territorio di cui all’articolo 21 del Trattato di pace del 1947, e i loro discendenti nati dopo il 10 giugno 1940.

[405]  L. 13 giugno 1912, n. 555, Sulla cittadinanza italiana.

[406]  L. 21 aprile 1983, n. 123, Disposizioni in materia di cittadinanza.

[407]  Circolare 28 settembre 1993, n. K.60.1, Legge 5 febbraio 1992, n. 91 – Nuove norme in materia di cittadinanza – Linee interpretative.

[408]  L. 22 dicembre 1994, n. 736, Modifica dell’articolo 17 della Legge 5 febbraio 1992, n. 91, concernente la proroga del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana.

[409]  L. 23 dicembre 1996, n. 662, Misure di razionalizzazione della finanza pubblica.

[410]  Si tratta della la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale; della la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia; o della sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.

[411]  Salvi i casi previsti dall’art. 4 della legge, nel quale si richiede specificamente l’esistenza di un rapporto di pubblico impiego, si considera che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato chi sia stato parte di un rapporto di lavoro dipendente con retribuzione a carico del bilancio dello Stato (D.P.R. 572/1993, art. 1, co. 2, lett. c)).

[412]  La L. cost. 30 maggio 2003, n. 1 ha aggiunto un periodo al primo comma dell’art. 51, che, pertanto, attualmente così recita: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

[413]  Il testo della modifica riprende sostanzialmente il contenuto di analoga proposta di legge costituzionale approvata sul finire della XIII legislatura alla Camera in prima lettura con amplissimo consenso. La Commissione Affari costituzionali del Senato cui è stato assegnato il testo (S. 4974) non ha iniziato l’esame in sedere referente per il sopraggiunto scioglimento delle Camere.

[414]  L. cost. 31 gennaio 2001, n. 2, Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.

[415]  L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione.

[416]  Si tratta delle disposizioni presenti nella L. 81/1993, Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale; nel Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei deputati di cui al D.P.R. n. 361/1957; nella L. 43/1995, Nuove norme per l’elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario e in alcune leggi delle regioni a statuto speciale Valle d’Aosta, Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia Giulia disciplinanti il sistema elettorale locale.

[417]  Si tratta degli articoli 2, comma 2 e 7, comma 1, della Legge regionale 13 novembre 2002, n. 21, Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 recante Norme per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta.

[418]  Il riferimento è alla L.Cost. 2/2001, sopra richiamata.

[419]  Legge 8 aprile 2004, n. 90, Norme in materia di elezione dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004.

[420]  L. 3 giugno 1999, n. 157, Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici.

[421]  D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

[422]  Si ricorda, infatti, che in materia era già intervenuto l’art. 13 della Legge 6 luglio 2002, n, 137, Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici, che aveva conferito al Governo una delega per il riassetto, tra l’altro, delle disposizioni in tema di parità e pari opportunità tra uomo e donna. Scaduto inutilmente il termine per l’esercizio della delega, la successiva legge 27 luglio 2004, n. 186, di conversione del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136, recante Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione. Disposizioni per la rideterminazione di deleghe legislative e altre disposizioni connesse, ha riproposto la stessa delega richiamando anche gli stessi principi e criteri direttivi. Ancora una volta, tuttavia, la delega non è stata esercitata.

[423]  L. 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005.

[424]  Lo schema di decreto legislativo in esame, trasmesso alla Presidenza della Camera il 31 gennaio 2006 (atto n. 602), è stato esaminato dalla Commissione Affari costituzionali nelle sedute del 7, 8 e 15 febbraio 2006. La Commissione tuttavia, ha accertato l’insussistenza delle condizioni per poter procedere a deliberazioni definitive sul provvedimento poiché esso risultava non ancora corredato del prescritto parere del Consiglio di Stato, reso il successivo 27 febbraio, durante il periodo di scioglimento delle Camere.

[425]  L. 4 aprile 2001, n. 154, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari.

[426]  L. 10 aprile 1991, n. 125, Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro.

[427]  L. 9 dicembre 1977, n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

[428]  L. 25 febbraio 1992, n. 215, Azioni positive per l’imprenditoria femminile.

[429]  L. 15 luglio 2002, n. 145, Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato.

[430]  Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (art. 7, co. 1 e art. 57).

[431]  D.Lgs. 31 luglio 2003, n. 226, Trasformazione della Commissione nazionale per la parità in Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 13 della  legge 6 luglio 2002, n. 137.

[432]  L. 6 luglio 2002 n. 137, Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici.

[433]  L. 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il comma 2 del citato art. 21 è abrogato dal decreto legislativo in commento.

[434]  L. 22 giugno 1990, n. 264, Norme sulla composizione ed i compiti della Commissione di cui al comma 2 dell’articolo 21 della L. 23 agosto 1988, n. 400. La legge è stata interamente abrogata dal decreto legislativo in commento.

[435]  In attuazione di tale disposto, il ministro per le pari opportunità ha adottato il D.M. 19 maggio 2004, n. 275, Regolamento recante norme per l’organizzazione ed il funzionamento della Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna ai sensi dell’articolo 6, comma 2, del D.Lgs. 31 luglio 2003, n. 226.

[436]  D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

[437]  L. 1° marzo 2002, n. 39, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001.

[438]  Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione del principio della  parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

[439]  Si veda la sentenza della Corte costituzionale del 15 novembre 1967, n. 120.

[440]  L. 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.

[441]  Di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[442]  D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[443]  A norma del quale le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice che non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.

[444]  Si tratta del personale che, in deroga a quanto previsto dall’articolo 2, commi 2 e 3, del T.U. in ordine alla “privatizzazione” del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, rimane in regime di diritto pubblico ed è disciplinato dai rispettivi ordinamenti: Si tratta di: magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia di Stato, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e di altre specifiche categorie di personale.

[445]  Tale elenco è stato approvato con D.M. 16 dicembre 2005.

[446]  Si tratta di associazioni, enti ed altri organismi privati che svolgono attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri ai sensi del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[447]  Il ministro per le pari opportunità ha trasmesso alla Presidenza della Camera, il 27 gennaio 2006, la prima Relazione sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, redatta dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). Cfr. DOC CCXXV, n. 1.

[448]  In attuazione di tale disposizione è stato adottato il D.P.C.M. 11 dicembre 2003.

[449]A.C. 3947, XIII legislatura.

[450]  La legislazione vigente sui c.d. culti ammessi, recata dalla citata L. 1159/1929 (art. 2) stabilisce che: “Gli istituti di culti diversi dalla religione dello Stato possono essere eretti in ente morale, con regio decreto su proposta del Ministro per la giustizia e gli affari di culto, di concerto col Ministro per l’interno, uditi il Consiglio di Statoe il Consiglio dei ministri”. Per quanto riguarda gli enti cattolici, l’art. 1 della L. 20 maggio 1985, n. 222, prevede che: “Gli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o di culto, possono essere riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato”.

[451]  L. 15 maggio 1997, n. 127, Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. Gli atti per i quali rimane obbligatorio il parere del Consiglio di Stato sono:

§       gli atti normativi del Governo e dei singoli ministri, ai sensi dell’articolo 17 della L. 400/1988;

§       i testi unici ;

§       i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica;

§       gli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri.

[452]L. 22 dicembre 1973, n. 903, Istituzione del Fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica e nuova disciplina dei relativi trattamenti pensionistici.

[453]  La norma, dunque, è diretta sia alle confessioni che hanno stipulato intese, sia a quelle che non lo hanno fatto.

[454]  L. 27 maggio 1929, n. 810, Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929.

[455]  Entrambi ratificati dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede.

[456]  L. 24 giugno 1929, n. 1159, Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi.

[457]  R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, Norme per l’attuazione della legge n. 1159/1929, sui culti ammessi nello Stato e per coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato.

[458]  L. 15 maggio 1997, n. 127, Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. Gli atti per i quali rimane obbligatorio il parere del Consiglio di Stato sono:

§       gli atti normativi del Governo e dei singoli ministri, ai sensi dell’articolo 17 della L. 400/1988;

§       i testi unici ;

§       i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica;

§       gli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri.

[459]Presidenza del Consiglio, Servizio per i rapporti con le confessioni religiose e per le relazioni istituzionali.

[460]Come in precedenza ricordato, il parere del Consiglio di Stato in materia non è obbligatorio, pur essendo sempre riservata all’Amministrazione la facoltà di richiederlo.

[461]Presidenza del Consiglio, Servizio per i rapporti con le confessioni religiose e per le relazioni istituzionali.

[462]Cfr. Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 1 dicembre 2004, Svolgimento dell’interrogazione a risposta immediata n. 3-03938 (Iniziative volte alla stipula di intese con le comunità islamiche), intervento del Ministro per i rapporti con il Parlamento, on. Giovanardi.

[463]L’art. 4 della legge 11 dicembre 1984, n. 839, Norme sulla Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana e sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, ha fatto obbligo al Servizio del contenzioso diplomatico presso il Ministero degli affari esteri anche di provvedere alla comunicazione alle Presidenze delle Camere di “tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nella relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note, accordi ed altri atti comunque denominati”.

[464]  L.15 luglio 2002, n. 145, Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato.

[465]  Di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[466]  Va qui brevemente ricordato che il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, ha istituito un certo numero di agenzie e ha dettato una disciplina generale in materia, configurando le agenzie stesse come strutture con carattere tecnico operativo, incardinate nella organizzazione ministeriale, provviste di una parziale autonomia.

[467]  Ai sensi dell’art. 46 del medesimo D.Lgs. 165/2001, L’ARAN ha la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale ed esercita a livello nazionale, in base agli indirizzi ricevuti, ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi. Le stesse amministrazioni possono avvalersi dell’assistenza dell’ARAN ai fini della contrattazione integrativa. L’ARAN cura inoltre le attività di studio, monitoraggio e documentazione necessarie all’esercizio della contrattazione collettiva.

      L’ARAN ha personalità giuridica di diritto pubblico e autonomia organizzativa e contabile nei limiti del proprio bilancio. Essa definisce con propri regolamenti le norme concernenti l’organizzazione interna, il funzionamento e la gestione finanziaria.

[468]  Del quale fanno parte, ai sensi del citato art. 1, co. 2: “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane. e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”.

[469]  La disciplina previgente prevedeva una durata non inferiore a due anni e non superiore a sette, salvo rinnovo.

[470]  D.L. 30 giugno 2005, n. 115, Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione, conv. con mod. in L. 17 agosto 2005, n. 168, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione. Disposizioni in materia di organico del personale della carriera diplomatica, delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2000/53/CE in materia di veicoli fuori uso e proroghe di termini per l’esercizio di deleghe legislative.

[471]  D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421.

[472]  Ad opera dell’art. 3, co. 147, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004).

[473] Si veda supra, in riferimento all’art. 1.

[474]  D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286, Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59.

[475]  In materia, è intervenuto D.P.R. 23 aprile 2204, n. 108, Regolamento sui ruoli della dirigenza delle Amministrazioni dello Stato.

[476]  Al fine di agevolare le procedure di mobilità, l’art. 3-bis del D.L. 28 maggio 2004, n. 136, Disposizioni urgenti per garantire al funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione, conv. con mod. in L. 186/2004, ha soppresso da tale disciplina il riferimento ai decreti con i quali il ministro per la funzione pubblica, sentite l’amministrazione di provenienza e quella di destinazione, avrebbe dovuto disporre il suddetto transito.

[477]  Si ricorda che il meccanismo del corso-concorso, già previsto in materia dall’art. 28 del D.Lgs. 29/1993, era stato soppresso dall’art. 10 del D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, Ulteriori disposizioni integrative e correttive del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80.

[478]  La durata del corso (prima fissata in quindici mesi) è stata modificata dall’art. 34, co. 25 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003).

[479]  In materia sono intervenuti il D.P.C.M. 29 settembre 2004, n. 295 Regolamento recante modalità di riconoscimento dei titoli post-universitari considerati utili ai fini dell’accesso al corso-concorso selettivo di formazione dirigenziale, ai sensi dell’articolo 28, comma 3, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e il D.P.C.M. 11 febbraio 2005, n. 118, Regolamento recante modalità di individuazione delle posizioni professionali di dipendenti privati, equivalenti a quelle di dipendenti pubblici, per l’ammissione al corso-concorso selettivo di formazione dirigenziale, bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione.

[480]  Quest’ultima specificazione è stata introdotta dall’art. 5-ter del D.L. 31 gennaio 2005, n. 7, Disposizioni urgenti per l’università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti, convertito con modificazioni dalla L. 43/2005.

[481]  Quest’ultima indicazione è stata introdotta dall’art. 14, co. 1, della L. 29 luglio 2003, n. 229, Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. Legge di semplificazione 2001.

[482]  In attuazione della disposizione è stato adottato il D.P.R. 24 settembre 2004, n. 272, Regolamento di disciplina in materia di accesso alla qualifica di dirigente ai sensi dell’art. 28, comma 5, del D.Lgs. 31 marzo 2001, n. 165.

[483]  D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, “Ulteriori disposizioni integrative e correttive del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80”.

[484]  D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, Disciplina delle funzioni dirigenziali nella Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo.

[485]  Si segnala che l’art. 1, co. 309, della L. 266/2005 (legge finanziaria 2006) ha disposto la disapplicazione delle disposizioni in commento con riferimento ai dirigenti dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (di cui al D.Lgs. 115/1998). L’intervento, motivato con l’esigenza di assicurare con carattere di continuità la realizzazione del programma di attività connessa allo svolgimento dei compiti per la riduzione delle liste di attesa, è limitato agli anni 2006, 2007, 2008.

[486]  Di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

[487]  L. 7 febbraio 1979, n. 29, Ricongiunzione dei periodi assicurativi dei lavoratori a fini previdenziali.

[488]  Si tratta dei dirigenti di cui all’art. 19, co. 10, del D.Lgs. 165/2001 i quali, secondo il testo del co. 10 riformulato dall’art. 3 della legge in esame, possono essere chiamati a svolgere funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento, ivi compresi quelli presso i collegi di revisione degli enti pubblici in rappresentanza di amministrazioni ministeriali.

[489]  L. 27 luglio 1962, n. 1114, Disciplina della posizione giuridica ed economica dei dipendenti statali autorizzati ad assumere un impiego presso Enti od organismi internazionali o ad esercitare funzioni presso Stati esteri.

[490]  Per le disposizioni di attuazione già adottate, si rinvia all’illustrazione degli articoli.

[491]  L. 27 dicembre 1997, n. 449, Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica.

[492]  D.L. 28 maggio 2004, n. 136, Disposizioni urgenti per garantire al funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione, conv. con mod. in L. 186/2004.

[493]  D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 381, Modifiche al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287, concernenti il riordino della Scuola superiore della pubblica amministrazione, a norma dell’articolo 1 della legge 6 luglio 2002, n. 137.

[494]  L. 6 luglio 2002, n. 137, Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici.

[495]  Con il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 287, Riordino della Scuola superiore della pubblica amministrazione e riqualificazione del personale delle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59.

[496]  L. 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, c.d. “Legge Bassanini 1”.

[497]  D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59; e D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, Ulteriori disposizioni integrative e correttive del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del D.Lgs. 31 marzo 1998, n.80. Tali decreti sono stati successivamente abrogati (e parzialmente confluiti) nel Testo unico sul pubblico impiego di cui al D.L.gs.30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[498]  D.L. 30 giugno 2005, n. 115, Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione, conv. con mod. in L. 17 agosto 2005, n. 168.

[499]  D.L. 30 dicembre 2005 n. 273, Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti, conv. con mod. in L. 23 febbraio 2006, n. 51.

[500]  Legge 27 luglio 2005, n. 154, Delega al Governo per la disciplina dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria.

[501]  L. 15 dicembre 1990, n. 395, Ordinamento del corpo di polizia penitenziaria.

[502]  L. 1 aprile 1981, n. 121, Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.

[503]  L. 27 dicembre 1997 n. 449, Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica.

[504]  D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[505]  L. 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.

[506]  L. 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’art. 17 della legge disciplina l’esercizio della potestà regolamentare del Governo e dei singoli Ministri.

[507]  Con D.P.R. 6 marzo 2001, n. 55.

[508]  D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 63, Ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria, a norma della legge 27 luglio 2005, n. 154.

[509]  D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.

[510]  L. 28 luglio 1999, n. 266, Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura.

[511]  L. 29 marzo 2001, n. 86, Disposizioni in materia di personale delle Forze armate e delle Forze di polizia.

[512]  Gli accordi decentrati sono stipulati tra una delegazione di parte pubblica presieduta dai titolari degli uffici centrali e territoriali individuati dall’Amministrazione entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica di cui sopra, ed una delegazione sindacale composta dai rappresentanti delle corrispondenti strutture territoriali delle organizzazioni sindacali firmatarie dell’ipotesi di accordo quadriennale.

[513]  La disposizione richiamata è volta a consentire agli attuali titolari delle posizioni apicali (tutti provenienti da altre amministrazioni dello Stato) di consolidare la loro permanenza nell’Amministrazione penitenziaria.

[514]  L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

[515]  L. 11 febbraio 2005, n. 15, Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa.

[516]  D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (conv. con mod. in legge 14 maggio 2005, n. 80), Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.

[517]  L’art. 21 della L. 15/2005 ha inoltre provveduto a corredare tutti gli articoli della L. 241/2005 delle rispettive rubriche, al fine di facilitarne la lettura e adeguare la legge alle moderne tecniche di redazione dei testi normativi.

[518]  Cfr. la relazione presentata dalla I Commissione della Camera a conclusione dell’esame in sede referente (A.C. 3890-A).

[519]  La previsione del ricorso, da parte delle amministrazioni pubbliche, agli strumenti del diritto privato per la realizzazione dei propri fini istituzionali trova precedenti nella XIII legislatura nell’art. 106 del testo di riforma costituzionale approvato dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, e nell’art. 2 del progetto di riforma della L. 241/1990 approvato dalla Camera dei deputati il 25 ottobre 2000 e poi decaduto per la fine della legislatura (A.S. 4860).

[520]  In tal senso era orientato il testo originario del disegno di legge presentato dal Governo (A.S. 1281).

[521]  D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale.

[522]  Il responsabile del procedimento cura gli atti istruttori necessari per l’adozione del provvedimento, tra cui l’indizione della conferenza di servizi (se è competente, altrimenti ne propone l’indizione). Parimenti, il responsabile adotta il provvedimento o (se non competente) trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione.

[523]  Una clausola finale esclude l’applicabilità delle disposizioni in commento alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale avviati su istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.

[524]  L. 11 febbraio 1994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici.

[525]  Tutela ambientale; paesaggistico-territoriale; del patrimonio storico-artistico; della salute.

[526]  Il testo in esame attribuisce anche alla Conferenza Stato-regioni ed alla Conferenza unificata, in determinate ipotesi, competenze decisionali sulle materie in oggetto.

[527]  Gli artt. 37-bis e seguenti della L. 109/1994 recano la disciplina della finanza di progetto (project financing) introdotta, in maniera organica, nel nostro ordinamento dalla L. 415/1998. La finanza di progetto ha lo scopo di favorire il ricorso alla particolare forma di realizzazione di lavori pubblici denominata concessione di costruzione e gestione di lavori pubblici, quale strumento attraverso cui convogliare capitali privati nella realizzazione di opere pubbliche. La differenza di fondo rispetto alla precedente normativa sulla concessione e quella che disciplina il project financing consiste nell’iniziativa del procedimento: mentre prima dell’innovazione normativa introdotta dalla L. 415/1998 era solo l’amministrazione aggiudicatrice che dava avvio alla procedura che si concludeva con il contratto di concessione di costruzione e gestione, le nuove regole sul project financing hanno attribuito al privato – promotore – una funzione decisiva di individuazione e di proposta di opere pubbliche (o di pubblica utilità) realizzabili attraverso il ricorso alla concessione di costruzione e gestione.

[528]  L. 24 dicembre 1993, n. 537 Interventi correttivi di finanza pubblica.

[529]  Nei casi in cui, cioè, la P.A. è chiamata solo a verificare la sussistenza dei presupposti di legge, senza bisogno di procedere discrezionalmente ad una ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti.

[530]  Difesa nazionale, pubblica sicurezza, immigrazione, amministrazione della giustizia, amministrazione delle finanze, tutela della salute e della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesaggistico e dell’ambiente.

[531]  In attuazione della disposizione è stato emanato il D.P.R. 300/1992.

[532]  L’esecutorietà del provvedimento amministrativo si sostanzia nel potere dell’Amministrazione di portare ad esecuzione, anche coattivamente e contro la volontà del soggetto passivo, se necessario, i propri provvedimenti senza dover ricorrere al giudice.

[533]  È affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il giudizio sulle controversie in materia di determinazione e corresponsione dell’indennizzo.

[534]  La legge finanziaria 2005 (L. 30 dicembre 2004, n. 311), all’art. 1, co. 136, aveva in precedenza disposto che le pubbliche amministrazioni, per conseguire risparmi o minori oneri, possono sempre disporre l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche quando l’esecuzione di questi ultimi sia ancora in corso. Laddove l’annullamento incida su rapporti di tipo contrattuale o convenzionale, la pubblica amministrazione deve tenere indenni le controparti private dagli eventuali pregiudizi patrimoniali derivanti: in tali casi l’annullamento d’ufficio non può comunque essere disposto se siano trascorsi oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento di primo grado, anche se la sua esecuzione sia ancora in atto.

[535]  D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196. In base all’art. 60, i dati “supersensibili” possono essere oggetto di trattamento da parte della pubblica amministrazione – al fine di corrispondere ad una richiesta di accesso a documenti – quando la situazione giuridicamente rilevante che si intende far valere è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale o inviolabile.

[536]  In tal senso la citata relazione della Commissione affari costituzionali del Senato all’Aula. Nella relazione si richiama anche la lett. e) del co. 2° dell’art. 117 (tutela della concorrenza), visto che possono essere definite regole dirette ad assicurare la concorrenza nel mercato e per il mercato “ivi comprese quelle che debbono essere osservate dalle pubbliche amministrazioni per la scelta dei contraenti pubblici o privati”. Si osserva inoltre, con riferimento alla lett. l), che l’ambito oggettivo della materia “giustizia amministrativa” non può considerarsi coincidente con le disposizioni sulla giurisdizione amministrativa e con la disciplina processuale in senso stretto, comprendendo anche le disposizioni che attengono ai profili sostanziali della tutela giurisdizionale nei confronti della P.A., per cui la riserva di competenza statale “potrebbe ritenersi comprensiva dei principi e delle norme che configurano gli atti amministrativi come oggetto di possibile sindacato giurisdizionale”.

[537]Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 18 giugno 2001, Allegato contenente le dichiarazioni programmatiche del Governo.

[538]Cfr. Dichiarazioni programmatiche del Governo, giugno 2001, cit..

[539]  L. 27 dicembre 2002, n. 289.

[540]L. 16 gennaio 2003, n. 3, Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione.

[541]L. 30 dicembre 2004, n. 311.

[542]Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Decreto 18 dicembre 2001, Organizzazione interna del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie.

[543]  D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali.

[544]  D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39, Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche, a norma dell’art. 2, comma 1, lettera mm), della legge 23 ottobre 1992, n. 421.

[545]  D.Lgs. 5 dicembre 2003, n. 343, Modifiche ed integrazioni al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303, sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell’articolo 1 della legge 6 luglio 2002, n. 137. A tal fine, il D.Lgs. 343 ha aggiunto i commi 6-ter e 6-sexies all’art. 10 del D.Lgs. 303/1999.

[546]  Si ricorda che l’art. 27 della L. 16 gennaio 2003, n. 3, Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione, aveva autorizzato l’emanazione di un regolamento di delegificazione finalizzato alla soppressione dell’AIPA e del Centro tecnico, e alla contestuale istituzione di un’Agenzia nazionale per l’innovazione tecnologica. Il regolamento non è stato adottato essendo intervenuto in proposito, come ricordato, il D.Lgs. 196/2003.

[547]D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 42, Istituzione del sistema pubblico di connettività e della rete internazionale della pubblica amministrazione, a norma dell’articolo 10, della legge 29 luglio 2003, n. 229.

[548]D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale.

[549]D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 159, Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale.

[550]  Il documento è stato adottato dal Consiglio dei ministri il 31 maggio 2002.

[551]Previsto dagli artt. 7 e 9 del D.Lgs. 12 febbraio 1993 n. 39, Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche.

[552]  I dieci obiettivi sono stati individuati dal Comitato dei ministri per la Società dell’informazione nella delibera adottata nella seduta del 13 febbraio 2002 e recepiti nelle Linee guida citate.

[553]  A titolo esemplificativo, si ricordano la digitalizzazione dei beni culturali; l’automazione dello stato civile; il portale integrato dei trasporti, etc..

[554]Complessivamente sono state emanate cinque Direttive recanti Linee guida in materia di digitalizzazione dell’amministrazione,rispettivamente il 21 dicembre 2001, 20 dicembre 2002,18 dicembre 2003, 4 gennaio 2005 e 18 novembre 2005.

[555]Pubblicata nella G.U. 12 febbraio 2005, n. 35.

[556]Direttiva del ministro per l’innovazione e le tecnologie del 18 novembre 2005, Linee guida per la Pubblica amministrazione digitale, pubblicata nella G.U. 20 gennaio 2006, n. 16.

[557]Pubblicata nella G.U. 5 marzo 2003, n. 53.

[558]L. 11 febbraio 2005, n. 15, Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa.

[559]  L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

[560]D.L. 14 marzo 2005, n. 35, (conv. con mod. in L. 14 maggio 2005, n. 80), Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale.

[561]Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Direttiva 27 luglio 2005, Qualità dei servizi on-line e misurazione della soddisfazione degli utenti, pubblicata nella G.U. 18 ottobre 2005, n. 243

[562]  L. 23 dicembre 2000, n. 388.

[563]  D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.

[564]D.P.R. 7 aprile 2003, n. 137, Regolamento recante disposizioni di coordinamento in materia di firme elettroniche a norma dell’articolo 13 del decreto legislativo 23 gennaio 2002, n. 10.

[565]  D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, Attuazione della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche, con cui si è provveduto al recepimento della disciplina comunitaria sulle firme elettroniche. La normativa italiana previgente in materia garantiva livelli più elevati di sicurezza rispetto a quella comunitaria; tale circostanza ha reso necessaria l’adozione del D.P.R. n. 137.

[566]D.P.C.M. 13 gennaio 2004, Regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione, anche temporale, dei documenti informatici, pubblicato nella G.U. 27 aprile 2004, n. 98; sostituisce il D.P.C.M. 8 febbraio 1999.

[567]  L. 15 maggio 1997, n. 127, Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. Le disposizioni sulla CIE sono confluite nel Testo unico sulla documentazione amministrativa, DPR 445/2000 (art. 36) e successivamente nel Codice dell’amministrazione digitale (art. 66).

[568]L. 16 giugno 1998, n. 191, Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59, e 15 maggio 1997, n. 127 nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica.

[569]D.L. 30 settembre 2003 n. 269, (conv. con mod in L. 24 novembre 2003, n. 326), Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici.

[570]D.L 31 gennaio 2005, n. 7, (conv. con mod. in L. 31 marzo 2005, n. 43), Disposizioni urgenti per l’università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, nonché per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione. Sanatoria degli effetti dell’articolo 4, comma 1, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 280.

[571]D.P.R. 2 marzo 2004, n. 117, Regolamento concernente la diffusione della carta nazionale dei servizi, a norma dell’articolo 27, comma 8, lettera b), della L. 16 gennaio 2003, n. 3.

[572]D.L. 31 marzo 2005 n. 44, (conv. con mod. in L. 31 maggio 2005, n. 88), Disposizioni urgenti in materia di enti locali.

[573]L. 24 dicembre 1954, n. 1228, Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente.

[574]  D.L. 27 dicembre 2000, n. 392, Disposizioni urgenti in materia di enti locali, conv. con mod. in L. 28 febbraio 2001, n. 26.

[575]Ministero dell’interno, Decreto 13 ottobre 2005, n. 240, Regolamento di gestione dell’Indice Nazionale delle Anagrafi (INA).

[576]Cfr. la Direttiva 18 novembre 20050 recante le Linee guida per la Pubblica amministrazione digitale per il 2006.

[577]Pubblicata nella G.U. 12 gennaio 2004, n. 8.

[578]Cfr. la Direttiva 18 novembre 2005 recante le Linee guida per la Pubblica amministrazione digitale per il 2006.

[579]  D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3.

[580]Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Decreto 2 novembre 2005, Regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata, pubblicato nella G.U. 15 novembre 2005, n. 266.

[581]D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 42, Istituzione del sistema pubblico di connettività e della rete internazionale della pubblica amministrazione, a norma dell’articolo 10, della legge 29 luglio 2003, n. 229. Le disposizioni del D.Lgs. 42/2005 sono successivamente confluite nel Codice dell’amministrazione digitale per effetto del D.Lgs. 159/2006, che apportato modifiche e integrazioni al Codice stesso.

[582]Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Direttiva 16 gennaio 2002, Sicurezza informatica e delle telecomunicazioni nelle pubbliche amministrazioni, in G.U. 22 marzo 2002, n. 69.

[583]Decreto interministeriale del ministro delle comunicazioni e del ministro per l’innovazione e le tecnologie, 24 luglio 2002, Istituzione del Comitato tecnico nazionale sulla sicurezza informatica e delle telecomunicazioni nelle pubbliche amministrazioni, non pubblicato in G.U..

[584]Direttiva del Presidente del Consiglio, 30 maggio 2002, Conoscenza ed uso del dominio internet “gov.it” ed efficace interazione del portale nazionale “italia.gov.it” con le pubbliche amministrazioni e le loro diramazioni territoriali, in G.U. 11 luglio 2002, n. 161.

[585]  L. 9 gennaio 2004, n. 4, Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici.

[586]D.P.R. 1 marzo 2005, n. 75.

[587]Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Decreto 8 luglio 2005, Requisiti tecnici e i diversi livelli per l’accessibilità agli strumenti informatici, in G.U. 8 agosto 2005, n. 183.

[588]In G.U. 7 febbraio 2004, n. 31.

[589]D.Lgs. 24 gennaio 2006, n. 36, Attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico.

[590]Presidenza del Consiglio dei ministri, Direttiva 6 agosto 2004, Progetti formativi in modalità e-learning nelle pubbliche amministrazioni, pubblicata nella G.U. 29 settembre 2004, n. 229. Contiene in allegato le Linee guida per i progetti formativi in modalità e-learning nelle pubbliche amministrazioni, elaborate dal CNIPA.

[591]  L. 24 dicembre 2003, n. 350.

[592]L. 8 aprile 2004, n. 90, Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004.

[593]D.L. 1 febbraio 2005, n. 8 (conv. L. 24 marzo 2005, n. 40), Disposizioni urgenti per lo svolgimento delle elezioni amministrative del 2005.

[594]D.L. 3 gennaio 2006, n. 1 (conv. con mod. in L. 27 gennaio 2006, n. 22), Disposizioni urgenti per l’esercizio domiciliare del voto per taluni elettori, per la rilevazione informatizzata dello scrutinio e per l’ammissione ai seggi di osservatori OSCE, in occasione delle prossime elezioni politiche.

[595]Cfr. ministro per l’innovazione e le tecnologie, La riforma digitale per innovare l’Italia. Consuntivo di legislatura 2001-2006. Linee guida legislatura 2006-2011, febbraio 2006.

[596]Ciascun dipendente di azienda privata può chiedere al proprio datore di lavoro di potere acquistare un personal computer alle stesse condizioni praticate all’azienda dai fornitori.

[597]L. 12 dicembre 2002, n. 273, Misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza.

[598]  L. 23 dicembre 2005, n. 266.

[599]  La società Innovazione Italia nasce da una partnership tra Sviluppo Italia e il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie per dare attuazione ai programmi del Governo relativi allo sviluppo della Società dell’Informazione e al piano di e-Government. La Società sviluppa i progetti definiti dal Comitato dei ministri per la Società dell’Informazione, dal piano di e-Government e dal CIPE in materia di Società dell’Informazione e Banda Larga, con l’obiettivo primario di superare il digital divide nelle aree sottoutilizzate del Paese (informazioni tratte dal sito internet di Sviluppo Italia).

[600]D.Lgs. 9 aprile 2003 n. 70, Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

[601]  Con riferimento alle tematiche relative alla Società dell’informazione, si ricorda anche il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 68, di attuazione della direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella Società dell’informazione.

[602]L. 28 dicembre 2001, n. 448.

[603]D.L. 25 febbraio 2002, n. 17 (conv. con mod. in L. 22 aprile 2002, n. 76), Misure urgenti per lo svolgimento della Conferenza internazionale di Palermo sull’e-Government per lo sviluppo.

[604]Disponibile in: www.egov2005conference.gov.uk/documents/pdfs/beyond_egov.pdf .

[605]D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa.

[606]D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale.

[607]L. 29 luglio 2003, n. 229, Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. Legge di semplificazione 2001.

[608]D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 42, Istituzione del sistema pubblico di connettività e della rete internazionale della pubblica amministrazione, a norma dell’articolo 10, della legge 29 luglio 2003, n. 229.

[609]Il Codice delle assicurazioni private e il Codice del consumo sono stati adottati in attuazione della delega contenuta rispettivamente nell’art. 4 e nell’art. 7 della L. 229/2003. A norma dell’art. 11 della stessa legge si è proceduto al riassetto delle disposizioni sulle funzioni e i compiti del Corpo dei vigili del fuoco (D.Lgs. 8 marzo 2006, n. 139).

[610]  L. 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa.

[611]  D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali.

[612]D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (conv. con mod. in L. 14 maggio 2005, n. 80), Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale (c.d. D.L. competitività).

[613]Legge 11 febbraio 2005, n. 15, Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa.

[614]  L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

[615]Pubblicate nella G.U. 20 gennaio 2006, n. 16.

[616]  D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3.

[617]  D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447. Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l’esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell’articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59.

[618]L’art. 16 della L. 229/2003 (legge di semplificazione 2001), ha disposto l’istituzione, presso il Ministero delle attività produttive, del Registro informatico degli adempimenti amministrativi per le imprese, prevedendo che il Ministero si avvalga del sistema informativo delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.

[619]  D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, Attuazione della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche, con cui si è provveduto al recepimento della disciplina comunitaria sulle firme elettroniche. La normativa italiana previgente in materia garantiva livelli più elevati di sicurezza rispetto a quella comunitaria; tale circostanza ha reso necessaria l’adozione del D.P.R. n. 137.

[620]  Dir. 1999/93/CE del 13 dicembre 1999, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche.

[621]  D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137.

[622]Presidenza del Consiglio, Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, Direttiva 27 novembre 2003, Impiego della posta elettronica nelle pubbliche amministrazioni, pubblicata nella G.U. 12 gennaio 2004, n. 8.

[623]D.Lgs. 24 gennaio 2006, n. 36, Attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico.

[624]  D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, Attuazione della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche. In particolare, si veda l’art. 8 che novella l’art. 36 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa.

[625]D.P.R. 2 marzo 2004, n. 117, Regolamento concernente la diffusione della carta nazionale dei servizi, a norma dell’articolo 27, comma 8, lettera b), della L. 16 gennaio 2003, n. 3.

[626]  D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, Regolamento di attuazione della legge 11 febbraio 1994, n. 109, legge quadro in materia di lavori pubblici, e successive modificazioni, art. 57.

[627]In G.U. 7 febbraio 2004, n. 31.

[628]D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 159, Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale.

[629]  L. 29 luglio 2003, n. 229, Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001.

[630]  L. 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa.

[631]  L. 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[632]  Sempre nel quadro della semplificazione dei rapporti tra istituzioni e cittadini può essere collocata anche la legge che, per la prima volta, disciplina in modo organico l’attività di informazione e comunicazione svolta dalle pubbliche amministrazioni (L. 150/2000).

[633]  L. 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005.

[634]  L’art. 8 del D.Lgs. 281/1997 prevede che la Conferenza Stato-città ed autonomie locali sia unificata per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane, con la Conferenza Stato-regioni.

[635]  Ai sensi dell’art. 1, co. 2, della legge di semplificazione 2001, la disciplina di cui al novellato art. 20 ha trovato applicazione anche per l’esercizio delle deleghe legislative in materia di semplificazione e riassetto normativo già conferite dal Parlamento nel corso della XIV legislatura, prima della data di entrata in vigore della legge medesima.

[636]  Così la lett. a-bis), aggiunta dall’art. 1 della L. 246/2005.

[637]  Introdotto dall’art. 1 della L. 246/2005.

[638]  L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

[639]  L. 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale.

[640]  Introdotte dall’art. 1 della L. 246/2005.

[641]  D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82.

[642]  Il richiamo ai princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nella ripartizione delle attribuzioni tra i soggetti istituzionali riprende quasi testualmente il disposto dell’art. 118 Cost., che pone tali princìpi alla base della scelta di attribuire funzioni amministrative – per assicurarne l’esercizio unitario – a soggetti diversi dai Comuni (Province, Città metropolitane, Reglioni o Stato).

[643]  Tali princìpi coincidono con alcuni di quelli in precedenza previsti dall’originario art. 20 per i regolamenti di delegificazione.

[644]  Introdotto dall’art. 1 della L. 246/2005.

[645]  L’art. 3 del D.Lgs. 303/1999 attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di promuovere e coordinare l’azione del Governo diretta ad assicurare la piena partecipazione dell’Italia all’Unione europea e lo sviluppo del processo di integrazione europea, avvalendosi del Dipartimento per le politiche comunitarie sia ai fini dell’attuazione degli impegni assunti nell’ambito dell’Unione europea, sia per il coordinamento delle amministrazioni statali e regionali, degli operatori privati e delle parti sociali, ai fini della definizione della posizione italiana da sostenere (d’intesa con il Ministero degli affari esteri) in sede di Unione europea nella fase di predisposizione della normativa comunitaria.

[646]  L. 4 febbraio 2005, n. 11, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari.

[647]  L’art. 18 della L. 229/2003 recava una disposizione, oggi confluita nell’art. 55 del D.Lgs. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale) secondo cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri può pubblicare su sito telematico le notizie relative ad iniziative normative del Governo, nonché i disegni di legge di particolare rilevanza, assicurando forme di partecipazione del cittadino, secondo modalità da stabilire con D.P.C.M.. La Presidenza del Consiglio può inoltre pubblicare atti legislativi e regolamentari in vigore, nonché i massimari elaborati da organi di giurisdizione.

[648]  È da notare come in tutti gli Statuti elaborati a seguito delle riforme costituzionali del 1999-2001 sono presenti norme sul riordino e sulla qualità della legislazione.

[649]  L. 8 marzo 1999, n. 50, Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998.

[650]  Circolare del Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure 16 gennaio 2001, n. 1.

[651]Il “referente per l’AIR” assicura, con l’ausilio degli uffici di settore, la realizzazione dell’analisi di impatto per ciascuno dei casi-pilota di competenza della propria amministrazione ed è responsabile dell’andamento e dei risultati della sperimentazione nell’ambito dell’amministrazione di competenza.

[652]  L. 29 luglio 2003, n. 229, Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001.

[653]  D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259, Codice delle comunicazioni elettroniche.

[654]  D.P.C.M. 23 luglio 2002, Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’art. 17 è stato in parte modificato dall’art. 1 del D.P.C.M. 15 luglio 2004.

[655]  Ai sensi dello stesso art. 17, il DAGL verifica anche le relazioni e le analisi predisposte a corredo delle iniziative legislative del Governo, curando che esse indichino il quadro normativo nazionale e comunitario di riferimento, gli eventuali precedenti della Corte costituzionale, gli obiettivi perseguiti e la congruità dei mezzi previsti, gli oneri che le nuove disposizioni impongono ai cittadini, alle pubbliche amministrazioni e alle imprese.

[656]  L. 6 luglio 2002, n. 137, Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici.

[657]  Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della Funzione pubblica, Decreto 5 novembre 2004, Organizzazione e funzionamento del Dipartimento della funzione pubblica nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il provvedimento ha sostituito il precedente decreto 30 dicembre 2002.

[658]  D.L. 14 marzo 2005, n. 35, Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, conv. con mod. in L. 14 maggio 2005, n. 80.

[659]  I commi da 6-duodecies a 6-quaterdecies dell’art. 3 riproducono quanto disposto nei co. 24-26 dell’art. 4 del disegno di legge A.C. 5736, Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, in corso d’esame alla Camera al momento della conversione del decreto legge.

[660]  D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (conv. con mod. in L. 2 dicembre 2005, n. 248), Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria.

[661]  Le altre attività concernono il monitoraggio dei servizi resi dalla pubblica amministrazione alle imprese e ai cittadini e la gestione del personale in eccedenza di cui agli artt. 34 e 34-bis del D.Lgs. 165/2001.

[662]  L. 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005.

[663]  L. 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005.

[664]  La L. 246/2005 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 280 dell’1 dicembre 2005 ed è entrata in vigore il quindicesimo giorno successivo.

[665]  L. 23 dicembre 2000, n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).

[666]  Ai sensi del co. 13 dell’art. 14 in commento, le somme non utilizzate, relative all’anno 2005, del fondo possono essere versate all’entrata del bilancio dello Stato, per essere successivamente riassegnate alle pertinenti unità previsionali di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia, al fine di finanziare i progetti approvati dal Comitato guida (sul quale, v. infra).

[667]  L. 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

[668]  Reciprocamente, il comma dispone che le norme regionali vigenti alla data di entrata in vigore della L. 131/2003 nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuino ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia. Sono espressamente fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.

[669]  L. 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa (c.d. “legge Bassanini 1”).

[670]  Il termine per l’esercizio della relativa delega è l’11 giugno 2006.

[671]  D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

[672]  L. 28 dicembre 2001, n. 448, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002).

[673]  D.L. 30 settembre 2003, n. 269, Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici (conv. con mod. in L. 24 novembre 2003, n. 326).

[674]  D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79, Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica.

[675]  D.Lgs. 23 maggio 2000, n. 164, Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 della legge 17 maggio 1999, n. 144.

[676]  L. 15 dicembre 2004, n. 308, Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione.

[677]  La legge 11 febbraio 1994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici, è confluita nel nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163). Le disposizioni dell’art. 24 co. 6, relative ai lavori in economia, sono ora comprese nell’art. 125 del Codice.

[678]  Il regolamento di cui al D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 è il Regolamento di attuazione della L. 11 febbraio 1994, n. 109. Anche le disposizioni dell’art. 143 del D.P.R. 554 sono confluite nell’art. 125 del Codice.

[679]  Si ricorda che le società di capitali, disciplinate dagli artt. 2325 ss. del codice civile, sono:

§          le società per azioni;

§          le società a responsabilità limitata;

§          le società in accomandita per azioni.

[680]  D.Lgs. 28 dicembre 2001, n. 477, Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 5 ottobre 2000, n. 334, in materia di riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato.

[681]  D.Lgs. 5 ottobre 2000, n. 334, Riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato, a norma dell’articolo 5, comma 1, della legge 31 marzo 2000, n. 78.

[682]L. 31 Marzo 2000, n. 78, Delega al Governo in materia di riordino dell’Arma dei carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, del Corpo della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Norme in materia di coordinamento delle Forze di polizia.

[683]  D.Lgs. 3 maggio 2001, n. 201, Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 5 ottobre 2000, n. 334, in materia di riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato.

[684]  L. 1 aprile 1981, n. 121, Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.

[685]  I ruoli d’onore sono previsti, per gli ufficiali, i sottufficiali, i militari e i graduati delle Forze armate e della Guardia di finanza, rispettivamente dall’art. 116 della L. 10 aprile 1954, n. 113, dall’art. 92 della L. 31 luglio 1954, n. 599, e dalla L. 24 gennaio 1986, n. 17, nonché dalla L. 27 febbraio 1989, n. 79.

[686]  D.P.R. 24 aprile 1982, n. 341, Istituzione dell’Istituto superiore di polizia.

[687]  L. 8 marzo 1999, n. 50, Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998.

[688]  Con tale sentenza la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 57, lett. d) della L. 1 aprile 1981, n. 121, Nuovo ordinamento dell’Amministrazione di pubblica sicurezza, nella parte in cui non consente all’Amministrazione di ammettere ad un altro corso successivo i commissari in prova che siano stati assenti per più di novanta giorni per infermità contratta durante il corso e abbiano nel frattempo recuperato l’idoneità psicofisica. Secondo i giudici della Corte: “trattasi, all’evidenza, di automatismo basato su una presunzione assoluta di inidoneità, manifestamente priva di ragionevolezza e contrastante con l’interesse stesso della Pubblica Amministrazione. Appare illogico, infatti, ammettere ad un corso successivo i commissari in prova che non abbiano superato l’esame finale, e invece precludere comunque all’Amministrazione di consentire analoga opportunità a chi sia stato assente per malattia, sia pure all’esito di un’istruttoria circa l’eziologia e le conseguenze della malattia stessa”.

[689]  D.Lgs. 28 dicembre 2001, n. 477, Disposizioni integrative e correttive del D.Lgs. 5 ottobre 2000, n. 334, in materia di riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato.

[690]  L. 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003).

[691]  In attuazione di tale disposizione sono stati adottati il D.P.C.M. 2 dicembre 2003, Rideterminazione dell’indennità di posizione e dell’indennità perequativa del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, ai sensi dell’art. 33, comma 2, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e il D.M. 23 dicembre 2003, Determinazione dell’assegno di valorizzazione dirigenziale per i funzionari del ruolo dei commissari e qualifiche o gradi corrispondenti della stessa Polizia di Stato, delle altre Forze di polizia e delle Forze armate, ai sensi dell’art. 33, comma 2, della legge 27 dicembre 2002, n. 289.

[692]  L. 16 gennaio 2003, n. 3, Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione.

[693]  D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti.

[694]  D.Lgs. 30 maggio 2003, n. 193, Sistema dei parametri stipendiali per il personale non dirigente delle Forze di polizia e delle Forze armate, a norma dell’articolo 7 della legge 29 marzo 2001, n. 86.

[695]  D.L. 24 giugno 2003, n. 147 Proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali, conv. con mod. in L. 1 agosto 2003, n. 200.

[696]  L. 28 marzo 1997 n. 85, Disposizioni in materia di avanzamento, di reclutamento e di adeguamento del trattamento economico degli ufficiali delle Forze armate e qualifiche equiparate delle Forze di polizia.

[697]  D.L. 10 settembre 2003, n. 253, Disposizioni urgenti per incrementare la funzionalità dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e della protezione civile, conv. con mod. in L. 6 novembre 2003, n. 300.

[698]  L. 24 dicembre 2003, n. 350, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ( legge finanziaria 2004)

[699]  L. 28 luglio 1999, n. 266, Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell’Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura.

[700]  L. 23 agosto 2004, n. 226, Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore

[701]  D.L. 10 settembre 2004, n. 238, Misure urgenti per il personale appartenente ai ruoli degli ispettori delle Forze di Polizia, conv. con mod. in L. 5 novembre 2004, n. 263, Conversione in legge con modificazioni, del decreto legge 10 settembre 2004, n. 238 recante misure urgenti per il personale appartenente ai ruoli degli ispettori delle Forze di Polizia. Disposizioni in materia di trattamento giuridico ed economico dei dirigenti delle Forze armate e delle Forze di Polizia.

[702]  Concernenti il trattamento di missione e di trasferimento, i servizi esterni, l’indennità di ordine pubblico in sede e fuori sede, l’indennità di presenza notturna e festiva, l’orario di lavoro, la tutela delle lavoratrici madri, i congedi o le licenze ordinarie e straordinarie, le aspettative, il congedo per la formazione, il congedo parentale, il diritto allo studio, i buoni pasto, gli asili nido, la tutela assicurativa e la tutela legale, e le indennità di presenza festiva.

[703]  D.P.R. 18 giugno 2002 n. 164, Recepimento dell’accordo sindacale per le Forze di polizia ad ordinamento civile e dello schema di concertazione per le Forze di polizia ad ordinamento militare relativi al quadriennio normativo 2002-2005 ed al biennio economico 2002-2003.

[704]  D.L. 31 marzo 2005, n. 45, Disposizioni urgenti per la funzionalità dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, conv. con mod. in L. 31 maggio 2005, n. 89.

[705]  D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi, conv. con mod. in L. 21 febbraio 2006, n. 49.

[706]  L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni  per  la  formazione  del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).

[707]  Avvenuta il 25 gennaio 2006.

[708]  D.L. 27 luglio 2005, n. 144 (conv. con mod. in L. 31 luglio 2005, n. 155), Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale.

[709]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[710]  Diversamente dal permesso di soggiorno, che ha durata temporanea, la carta di soggiorno – disciplinata dall’art. 9 del testo unico sull’immigrazione – è rilasciata a tempo indeterminato, riconoscendosi in tal modo allo straniero, in presenza di determinate condizioni, una sorta di diritto permanente di soggiorno.

[711]  L’art. 266 riguarda intercettazioni di comunicazioni anche per via telematica (e-mail, chat, ecc.), nonché tra persone presenti anche all’interno di domicili privati.

[712]  D.L. 18 ottobre 2001, n. 374 (conv., con mod., in L. 15 dicembre 2001, n. 438), Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale.

[713]  L’art. 16 del D.L. (Autorizzazione a procedere per i reati di terrorismo) è stato soppresso nel corso dell’esame al Senato.

[714]  D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (conv. con mod. in L. 21 febbraio 2006, n. 49), Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di  disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.

[715]  Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

[716]  D.L. 6 maggio 2002, n. 83, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza personale ed ulteriori misure per assicurare la funzionalità degli uffici dell’Amministrazione dell’interno, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 luglio 2002, n. 133.

[717]  Ai sensi dell’art. 34 del testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, approvato con R.D. 690/1907, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza “vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico, all’incolumità e alla tutela delle persone e delle proprietà, in genere alla prevenzione dei reati, raccolgono le prove di questi e procedono alla scoperta, ed in ordine alle disposizioni della legge, all’arresto dei delinquenti; curano l’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, come pure delle ordinanze delle pubbliche autorità; prestano soccorso in casi di pubblici e privati infortuni”.

[718]  L. 24 ottobre 1977, n. 801, Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato.

[719]  La commissione è stata istituita con il D.P.C.M. 26 marzo 1997.

[720]  Relazione del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato sul sistema di reclutamento del personale del Sisde: le conclusioni della Commissione ministeriale di inchiesta e le valutazioni del comitato, presentata alle Camere il 15 luglio 1997 (Doc. XXXIV, n. 2). Questa relazione, assieme alla Relazione sulla raccolta e conservazione delle informazioni riservate è stata oggetto di discussione alla Camera nella seduta del 10 marzo 1997. Nell’occasione l’Assemblea approvava una risoluzione in cui si impegnava il Governo a modificare la normativa dei servizi in particolare in relazione alla disciplina del reclutamento del personale e del trattamento delle informazioni riservate (Risoluzione Frattini ed altri n. 6-00032).

[721]  Relazione del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato sui rapporti tra autorità giudiziaria, polizia giudiziaria e Servizi di informazione e sicurezza, con particolare riguardo alle attività di supporto tecnico nell’ambito di indagini condotte dal Pubblico Ministero, presentata alle Camere il 24 novembre 1999 (Doc. XXXIV, n. 5).

[722]  Il contenuto del disegno di legge è stato riproposto, nella XIV legislatura, nella proposta di legge A.C. 1699.

[723]  Le linee guida del CIIS sono state così sintetizzate alla Camera dall’on. Frattini, Ministro pro tempore per la funzione pubblica e il coordinamento dei servizi di informazione e sicurezza (Assemblea, seduta del 28 novembre 2001, in riposta all’interrogazione Boato n. 3-00475 sui contenuti del progetto di riforma dei servizi di informazione e sicurezza).

[724]  Sulle ipotesi di riforma concernenti le funzioni e la struttura dei servizi di informazione e sicurezza, presentata alle Camere il 13 dicembre 2001 (Doc. XXXIV, n. 1).

[725]  Il Comitato, presieduto dal Presidente del Consiglio, risulta dunque composto dai ministri degli affari esteri, dell’interno, della difesa e dell’economia e delle finanze.

[726]  Si definiscono cause di giustificazione (o cause di esclusione dell’antigiuridicità) quelle situazioni normativamente previste, in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. Nella sistematica del codice sono contemplate, in particolare, agli artt. 50 (Consenso dell’avente diritto), 51 (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), 52 (Difesa legittima), 53 (Uso legittimo delle armi), 54 (Stato di necessità) ; si tratta delle c.d. cause di giustificazione comuni, esimenti di portata generalissima, applicabili a quasi tutti i reati. Le c.d. scriminanti speciali si applicano invece soltanto a specifiche figure di illecito penale.

[727]  Sono previste aggravanti quando l’autore del reato sia un addetto agli organismi per le informazione e la sicurezza, ovvero sia preposto alla manutenzione o alla tutela degli archivi.

[728]  Il R.D.L. 13 marzo 1921, n. 261, contenente provvedimenti a favore del corpo degli agenti di investigazione (istituito col R.D. 14 agosto 1919, n. 1422), prevedeva (art. 14) l’istituzione di “un fondo di lire 500.000 nel bilancio del Ministero dell’interno per elargizioni non inferiori alle lire ottomila alle famiglie dei funzionari di pubblica sicurezza, ufficiali della Regia guardia e Reali carabinieri vittime del dovere”.

[729]  L. 13 agosto 1980, n. 466, Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche.

[730]  L. 20 ottobre 1990, n. 302, Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

[731]  L. 23 novembre 1998, n. 407, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

[732]L. 23 dicembre 2000, n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).

[733]  D.L. 4 febbraio 2003, n. 13 (conv. con mod. in L. 2 aprile 2003, n. 56), Disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

[734]L. 3 giugno 1981, n. 308, Norme in favore dei militari di leva e di carriera appartenenti alle Forze armate, ai Corpi armati ed ai Corpi militarmente ordinati, infortunati o caduti in servizio e dei loro superstiti.

[735]  D.P.R. 28 luglio 1999, n. 510, Regolamento recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

[736]  L. 26 gennaio 1980 n. 9, Adeguamento delle pensioni dei mutilati ed invalidi per servizio alla nuova normativa prevista per le pensioni di guerra dalla legge 29 novembre 1977, numero 875, e dal D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915.

[737]  L. 18 marzo 1968, n. 313, Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra.

[738]  L. 23 dicembre 1970, n. 1094, Estensione dell’equo indennizzo al personale militare.

[739]  Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 7 febbraio 1990, n. 67.

[740]La L. 302/1990 pone come condizioni che il soggetto leso sia totalmente estraneo rispetto all’azione criminosa lesiva e che i fatti si siano svolti nel territorio italiano.

[741]  L’art. 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, conv. con mod. in L. 7 agosto 1992, n. 356), al co. 4-ter (introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45), destina alle elargizioni di cui alla L. 302/1990 una quota dei beni confiscati nell’ambito di procedimenti contro la criminalità organizzata.

[742]  Il co. 1 dell’art. 5 della L. 407/1998 prevedeva in precedenza come data di riferimento quella del 1° gennaio 1969.

[743]  L. 3 agosto 2004, n. 206, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice.

[744]  L. 20 febbraio 2006, n. 91, Norme in favore dei familiari superstiti degli aviatori italiani vittime dell'eccidio avvenuto a Kindu l'11 novembre 1961.

[745]  Si veda la risposta del Ministro del tesoro alle interrogazioni a risposta scritta degli on. Giadresco e Rubbi (4-18409), Sospiri (4-14368) e Staiti di Cuddia delle Chiuse (4-14352), Camera dei deputati, IX legislatura, seduta del 10 marzo 1987.

[746]  Convertito dalla L. 27 novembre 2001, n. 413.

[747]  Convertito dalla L. 2 aprile 2003, n. 56.

[748]  Convertito dalla L. 24 dicembre 2003, n. 369.

[749]L’art. 10 della L. 30 luglio 2004, n. 208, Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, ha in seguito disposto che, fino all’entrata in vigore di una nuova disciplina in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi, le disposizioni previste dal D.L. 337/2003 per le sole vittime di Nassiriya e Istanbul, si applicano in via generale alle famiglie delle vittime civili italiane, decedute a causa di attentati terroristici verificatisi all’estero.

[750]  Convertito dalla L. 12 marzo 2004, n. 68.

[751]  Con il decreto 17 marzo 2006 il ministro dell'interno ha individuato le modalità di erogazione dei benefìci in favore dei familiari delle vittime di Ustica.

[752]  L’UNI – Ente Nazionale Italiano di Unificazione è un’associazione privata senza scopo di lucro svolgente attività normativa in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario (ad esclusione di quello elettrico ed elettrotecnico, di competenza del CEI – Comitato Elettrotecnico Italiano). Il ruolo dell’UNI quale Organismo nazionale italiano di normazione è stato riconosciuto dalla direttiva 83/189/CEE del marzo 1983, recepita dal Governo Italiano con legge 21 giugno 1986, n. 317. L’UNI partecipa, in rappresentanza dell’Italia, all’attività normativa degli organismi sovranazionali di normazione: ISO (International Organization for Standardization) e CEN (Comité Européen de Normalisation). Sono soci di diritto dell’UNI varie organizzazioni che, su specifico mandato, svolgono attività di normazione, ciascuna per il settore di propria competenza. Tra questi si ricorda, per quanto qui rileva, l’UNITER – Organismo di normazione e certificazione di sistemi qualità aziendali commercio e servizi.

[753]  Procedura di infrazione n. 2000/4196.

[754]  La documentazione relativa alla procedura di infrazione è stata trasmessa dal Governo alla Commissione affari costituzionali, su invito di questa, nel corso dell’esame in sede referente dei disegni di legge in materia. Si veda, al riguardo, il Dossier del Servizio studi Note per la compatibilità comunitaria n. 159 del 6 settembre 2005.

[755]  R.D. 31 agosto 1907, n. 690 Testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza.

[756]  Tali figure vanno distinte da quella degli agenti di polizia giudiziaria (artt. 55-59 c.p.p.), che hanno il compito di accertare i reati e ricercarne gli autori, di assicurare le fonti di prova e raccogliere tutto ciò che possa servire all’applicazione della legge penale. Essi sono alle dipendenze degli ufficiali di polizia giudiziaria del corpo o servizio al quale appartengono e dei magistrati costituenti gli uffici del Pubblico Ministero, verso i quali sono responsabili dell’attività svolta.

[757]  D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[758]  In particolare, l’esercizio delle attività di sicurezza senza autorizzazione comporta la reclusione da due a sei anni, e la multa fino a 100.000 euro.

[759]  L. 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003).

[760]  Si tratta nel complesso di disposizioni alquanto risalenti, in particolare contenute nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e nel relativo regolamento di esecuzione (v. rispettivamente regio decreto n. 773 del 1931, regio decreto n. 635 del 1940), nonché nei regi decreti legge 26 settembre 1935, n. 1952, e 12 novembre 1936, n. 2144. 

[761]L. 30 settembre 2004, n. 252, Delega al Governo per la disciplina in materia di rapporto di impiego del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

[762]Disegno di legge A.C. 4347, presentato dal Governo alla Camera il 3 ottobre 2003.

[763]L’art. 16, secondo comma, della legge 1 aprile 1981, n. 121, Nuovo ordinamento della pubblica sicurezza), il quale stabilisce che, “ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre alla Polizia di Stato sono forze di polizia” l’Arma dei carabinieri e il Corpo della guardia di finanza; sono inoltre forze di polizia e possono essere chiamati a concorrere nell’espletamento di servizi di ordine e sicurezza pubblica il Corpo degli agenti di custodia [oggi Corpo di polizia penitenziaria] e il Corpo forestale dello Stato.

[764]D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, successivamente confluito nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

[765]  Banca d’Italia, CONSOB, Autorità garante per la concorrenza e il mercato.

[766]In tal senso si esprime la relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge A.C. 4347.

[767]D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 3, comma 1-bis.

[768]D.P.R. 6 febbraio 2004, n. 76, Regolamento concernente disciplina delle procedure per il reclutamento, l’avanzamento e l’impiego del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco. In precedenza, il personale volontario era disciplinato dal D.P.R. 2 novembre 2000, n. 362.

[769]D.Lgs. 13 ottobre 2005, n. 217, Ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco a norma dell’articolo 2 della legge 30 settembre 2004, n. 252.

[770]Secondo quanto previsto dall’art. 11, gli appartenenti alle qualifiche di capo reparto e di capo reparto esperto sono diretti collaboratori dei superiori appartenenti ai ruoli operativi e assicurano l’intervento delle squadre operative e le coordinano nelle attività di soccorso.

[771]D.Lgs. 12 maggio 1995, n. 195, Attuazione dell’art. 2 della L. 6 marzo 1992, n. 216, in materia di procedure per disciplinare i contenuti del rapporto di impiego del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate.

[772]L. 14 gennaio 1994, n. 20, Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti.

[773]L. 12 marzo 1999 n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili.

[774]D.Lgs. 12 maggio 1995 n. 201, Attuazione dell’art. 3 della L. 6 marzo 1992, n. 216, in materia di riordino delle carriere del personale non direttivo e non dirigente del Corpo forestale dello Stato.

[775]D.P.R. 24 luglio 1981 n. 551, Attuazione della delega prevista dall’art. 107 della L. 1° aprile 1981, n. 121, in materia di passaggio ad altre amministrazioni civili o ad altri corpi militari dello Stato del personale dell’Amministrazione della pubblica sicurezza proveniente dal soppresso ruolo dei funzionari di pubblica sicurezza nonché dai disciolti Corpi della Polizia femminile e delle guardie di pubblica sicurezza.

[776]D.P.R. 24 aprile 1982 n. 339, Passaggio del personale non idoneo all’espletamento dei servizi di polizia, ad altri ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato.

[777]L. 27 dicembre 1973 n. 850, Aumento degli organici del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

[778]D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.

[779]D.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092, Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato.

[780]D.Lgs. 30 aprile 1997, n. 165, Attuazione delle deleghe conferite dall’articolo 2, comma 23, della L. 8 agosto 1995, n. 335, e dall’articolo 1, commi 97, lettera g), e 99, della L. 23 dicembre 1996, n. 662, in materia di armonizzazione al regime previdenziale generale dei trattamenti pensionistici del personale militare, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché del personale non contrattualizzato del pubblico impiego.

[781]  L’art. 16 del D.Lgs. 503/1992 esclude espressamente i vigili del fuoco dalla possibilità di prolungamento; ma la legge 252/2004, art. 5, con una norma di interpretazione autentica, ha eluso l’applicazione del citato art. 16 al corpo dei vigili del fuoco.

[782]L. 20 maggio 1970 n. 300, Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.

[783]  Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, Contratto collettivo nazionale di lavoro per il comparto delle Amministrazioni autonome dello Stato ad ordinamento autonomo - quadriennio normativo 2002-2005 - biennio economico 2002-2003, sottoscritto il 26 maggio 2004.

[784]  Per modificare gli organici dei dirigenti è previsto l’utilizzo del decreto del Presidente della Repubblica - regolamento di delegificazione di cui all’art. 17, comma 4-bis della legge 400/1988.