Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 27 del 18/7/2006


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI

La seduta comincia alle 9.

GIUSEPPE MORRONE, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 13 luglio 2006.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, i deputati Albonetti, Bindi, Boco, Buontempo, Cento, Chiti, Colucci, Crapolicchio, De Piccoli, Duilio, Fioroni, Folena, Galante, Gentiloni Silveri, Lanzillotta, Leone, Letta, Maroni, Mazzocchi, Migliore, Mussi, Pecoraio Scanio, Piscitello, Pollastrini, Ranieri, Rigoni, Rutelli, Santagata, Sgobio e Violante sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono quarantanove, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione del disegno di legge: Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali (A.C. 1288) (ore 9,03).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 6 luglio 2006.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 1288)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di Alleanza Nazionale e Forza Italia ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, deputato Ranieri, presidente della Commissione affari esteri, ha facoltà di svolgere la relazione.

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, la Commissione affari esteri e la Commissione difesa della Camera hanno esaminato in modo approfondito il disegno di legge che disciplina la prosecuzione degli interventi di natura civile e militare, che impegnano l'Italia in diverse aree di crisi nel mondo.
Nel corso dell'esame si sono svolte interessanti audizioni con i vertici militari italiani operanti in Afghanistan e con numerosi rappresentanti di associazioni e organizzazioni non governative. Audizioni che hanno fornito un complesso di elementi conoscitivi essenziali per arricchire la discussione e l'esame del disegno di legge da parte delle Commissioni.


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La partecipazione delle Forze armate italiane ad operazioni multinazionali avviene in conformità ad un complesso di norme, talune dettate direttamente dalla nostra Costituzione, altre di origine internazionale, che sono presenti nel nostro ordinamento in virtù dei principi di adattamento sia alle consuetudini internazionali sia ai trattati di cui l'Italia è parte.
Norme costituzionali e norme di origine internazionale dettano una serie di principi che non possono essere infranti. Le missioni militari italiane all'estero operano nel quadro del principio costituzionale sancito dall'articolo 11 della Carta, principio cardine del nostro ordinamento, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, e insieme del principio codificato dalla Carta delle Nazioni Unite, che vieta l'uso della forza contro l'integrità di qualsiasi Stato e lo considera ammissibile solo se intrapreso per legittima difesa o su autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
A questi principi si ispira l'azione del Governo italiano per quanto riguarda l'impegno dei nostri militari all'estero.
L'azione concreta svolta dalle missioni militari italiane nel corso degli anni è stata rivolta, come noto, a favorire interventi di tipo umanitario, tesi al sostegno della ricostruzione civile ed istituzionale delle aree di crisi, a garantire il rispetto di accordi ed intese stipulati per porre fine a conflitti. Ovunque siano stati impegnati nel corso di questi anni i militari italiani operanti nelle missioni di pace all'estero hanno lavorato duramente per il raggiungimento di obiettivi di pacificazione e ricostruzione e si sono fatti apprezzare per dedizione e professionalità. C'è da augurarsi che il confronto sul disegno di legge oggi in esame consenta una valutazione scrupolosa ed obiettiva dei risultati ottenuti grazie alla presenza militare e civile italiana nella stabilizzazione di varie regioni investite dai conflitti, dai Balcani all'Afghanistan.
In questo quadro ed alla luce di tali premesse vorrei svolgere rapidamente alcune considerazioni di politica estera connesse con la partecipazione dell'Italia a missioni internazionali. A cinque anni dallo shock dell'11 settembre del 2001 ed a tre anni dal crollo del regime di Saddam Hussein in Iraq, il bilancio della cosiddetta guerra globale contro il terrorismo, malgrado la lotta al terrorismo sia diventata una priorità per la comunità internazionale, appare un bilancio incerto. Già nel 2001 apparve subito chiaro che la sfida al terrorismo non poteva essere affrontata dai singoli paesi, che la dimensione sovranazionale del fenomeno imponeva risposte globali da fondare, in ogni caso, sulla legittimazione della comunità internazionale. Appariva chiaro che il ruolo delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali, delle Nazioni Unite prima di tutto, diventava fondamentale.
Tuttavia, di fronte alla complessità della sfida è emersa l'insufficiente capacità da parte della comunità internazionale di assumere iniziative in grado di prevenire l'insorgere di crisi e di conflitti, nonché di individuare i terreni di confronto politico e diplomatico che anticipassero l'esplosione dei conflitti armati. Credo che la stessa Unione europea sia chiamata a riflettere sulle ragioni dei ritardi che hanno caratterizzato la sua iniziativa in questa direzione.
La consapevolezza dell'insufficiente capacità di iniziativa politica preventiva da parte delle organizzazioni internazionali, non deve tuttavia impedire di riconoscere che, ad esempio, le sanzioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU nello scorso decennio contro alcuni Stati riconosciuti responsabili del sostegno a gruppi terroristici hanno avuto effetti non trascurabili e, anche se non hanno fermato le attività terroristiche, hanno reso per questi Stati più oneroso sostenerle. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con tutti i suoi problemi, ha elaborato, a partire dal 2001, misure volte a conferire una dimensione globale alla lotta al terrorismo internazionale. Anche i paesi dell'Unione europea hanno applicato misure che hanno consentito lo smantellamento di cellule fondamentaliste, hanno bloccato reti di finanziamento delle attività terroristiche.


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Tuttavia, pensiamo sia necessario interrogarsi sull'efficacia dell'azione e delle iniziative delle istituzioni internazionali nel fronteggiare e nel prevenire il fenomeno del terrorismo.
In ogni caso, sembra giunto il momento - questo è il punto centrale della mia riflessione - di avviare una ricerca critica sulla strategia di contrasto al terrorismo seguita in questi anni dalla comunità internazionale. Si tratta di una riflessione che già impegna gran parte della pubblicistica più attenta negli Stati Uniti ed in Europa, una riflessione che si interroga intorno ai limiti, alle contraddizioni, agli aspetti non sostenibili né accettabili emersi, spesso drammaticamente, nel corso della lotta al terrorismo condotta sulla base della strategia adottata in questi anni.
Tale strategia è sembrata esaurirsi ed è questa la prima osservazione critica di fondo nell'uso della forza militare. Del resto, a ben vedere, fu questo il punto di discussione con gli Stati Uniti: la convinzione, che fu in particolare degli europei, che nella lotta al terrorismo le iniziative militari non avrebbero potuto sostituire azioni di natura diplomatica, politica, economica e di sviluppo. Riflettendo su questi anni recenti, giunti al bilancio degli avvenimenti, due considerazioni appaiono purtroppo indiscutibili.
In primo luogo, la capacità di iniziativa delle organizzazioni terroristiche non ha dato segnali significativi di declino, malgrado la lotta al terrorismo sia stata assunta come priorità. I fatti lo evidenziano.
In secondo luogo, l'area che rappresenta l'epicentro dell'instabilità nel mondo globale, l'area che avrebbe dovuto costituire il centro di irradiamento della strategia di stabilizzazione, cioè il grande Medio Oriente, vede crescere drammaticamente conflitti e tensioni. In realtà, se guardiamo a come si sono sviluppati gli avvenimenti in questi anni, notiamo che, allo sforzo compiuto immediatamente dopo l'11 settembre di un positivo coinvolgimento di un ampio arco di soggetti e istituzioni mondiali nel contrasto del terrorismo, da parte degli Stati Uniti è seguita una scelta di segno unilateralistico.
Gli Stati Uniti si sono orientati sempre più nettamente, a partire dal 2002, verso una strategia autonoma dalle valutazioni delle Nazioni Unite e di molti dei propri alleati, fino alla decisione del ricorso unilaterale alla forza in Iraq. Scelta che fu all'origine di una seria difficoltà nel rapporto tra i paesi fondamentali dell'Unione europea e gli Stati Uniti d'America. Sono trascorsi tre anni da quella scelta. Nessuno sottovaluta gli sforzi compiuti per avviare la costruzione di un assetto democratico in quel tormentato paese, ma dovrebbe far riflettere che, a tre anni dalla deposizione di Saddam Hussein, il territorio iracheno è oggi più che mai teatro di azioni di gruppi terroristici che quotidianamente colpiscono obiettivi militari e civili: una guerra iniziata all'insegna della distruzione del terrorismo, ha finito per offrirgli ampie possibilità di sviluppo politico, militare, di radicamento nell'Iraq occupato.
Non voglio riproporre un'analisi retrospettiva, ma è inevitabile guardare a come sono andate le cose per non commettere nuovi errori. La verità è che aveva un fondamento la tesi secondo la quale sarebbe stato un errore decidere di aprire il fronte di guerra in Iraq piuttosto che concentrare lo sforzo della comunità internazionale nella stabilizzazione dell'Afghanistan, che, esso sì, aveva rappresentato con il regime moralmente indifendibile dei talebani un luogo di irradiamento della minaccia terroristica. Ma la riflessione critica riguarda un altro cardine della strategia di lotta al terrorismo condotta in questi anni: mi riferisco a quella visione che ha ritenuto che i processi di democratizzazione nel Medio Oriente potessero essere promossi con il cambio di regimi forzato dall'esterno.
Sia chiaro: non è in discussione l'obiettivo della democratizzazione e del contrasto a regimi dispotici. Il problema di fondo è tradurre una tale aspirazione in una strategia politica efficace, che riscuota il consenso delle popolazioni. La democratizzazione resta un obiettivo da perseguire,


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ma la realtà ci testimonia che essa è il risultato di un processo complesso e che è velleitario pensare che alla medesima si possa giungere ricorrendo essenzialmente alla forza militare, dall'esterno, incuranti della complessità di società segnate da storie politiche e civili complesse, spesso antiche.
Inoltre il processo di democratizzazione non può sottovalutare fattori di fondo strutturali, che vanno affrontati, perché esso possa procedere. Occorre rendersi conto che malcontento e disperazione possono condurre ad una interpretazione estremistica della religione, che le sofferenze per la miseria e le preoccupazioni per il futuro possono spingere a rifugiarsi in una visione radicale dei precetti religiosi. Ecco perché, affinché proceda l'obiettivo della democratizzazione, la comunità internazionale e l'Occidente devono concentrare i propri sforzi nella creazione dei presupposti per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. In verità, alla dottrina teorizzata, a partire dal 2002, dall'amministrazione statunitense le critiche sono giunte sia dal mondo liberal, sia da quello conservatore. Il caso Iraq, hanno sostenuto in molti, dimostra come problemi globali richiedano soluzioni multilaterali e che il militarismo unilaterale non è la strada giusta per combattere il terrorismo internazionale o per trattare problemi quali le armi di distruzione di massa. Esso appare, piuttosto, la strada verso un'epoca di guerre continue, nelle quali democrazia e libertà sono in pericolo. Del resto, che la strategia di lotta al terrorismo di questi anni non abbia sortito risultati auspicati, adeguati alla sfida, alle forze mobilitate ed alle risorse impegnate lo dimostra, purtroppo, quanto avviene nel Medio Oriente. La crescita di Hamas, l'emergere di Ahmadinejad in Iran ed il rafforzarsi del potere di ricatto delle milizie armate Hezbollah nel sud del Libano ci testimoniano, in modo crudo, che - come ha scritto Fukuyama - l'ingenuo idealismo alla Wilson, abbracciato dall'amministrazione Bush, ha portato drammaticamente al suo contrario, ai successi del radicalismo islamico in Egitto, Iran e Palestina. Occorre, quindi, lavorare ad una diversa strategia di lotta al terrorismo, apprendendo la lezione di questi anni. Una strategia in cui il ricorso legittimo alla forza avvenga nel quadro di un sostegno più ampio, che riconosca il valore dell'iniziativa politico-diplomatica di sostegno allo sviluppo, alla formazione ed alla crescita civile. Questa mi pare, del resto, una necessità che si fa strada nella stessa amministrazione statunitense, a partire da un Presidente, Bush, che - come ha scritto Philip Gordon - sembra stia tornando, faticosamente, alla politica più umile che proclamò nel corso della campagna elettorale del 2000.
Infine, una considerazione ulteriore sul tema oggetto del provvedimento in discussione, che prevede il rifinanziamento della partecipazione italiana alle missioni internazionali.
Vorrei sottolineare che, tra queste, particolare rilievo assumono: la prosecuzione dell'intervento in Sudan, nella regione del Darfur, dove l'azione italiana è finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, in particolare nei campi profughi; la missione nell'area dei Balcani, dove va segnalato il finanziamento per la partecipazione ad un intervento deliberato dal Consiglio europeo in Kosovo; il finanziamento di due nuove missioni, una in Congo, a sostegno delle attività degli osservatori dell'ONU, l'altra, in Palestina, in funzione di assistenza alla polizia civile palestinese.
Infine, per quanto riguarda la missione in Afghanistan, con la sconfitta del regime talebano si è aperta in quel paese una fase tormentata e difficile di ricostruzione delle istituzioni e del tessuto sociale. Sbaglieremmo a non riconoscerlo così come sbaglieremmo se tacessimo e difficoltà che si frappongono al processo di stabilizzazione. Vi sono zone del paese ancora controllate da gruppi fedeli al precedente regime e permane una situazione di gravi difficoltà per la popolazione civile, soprattutto nelle regioni del sud-est dell'Afghanistan. Preoccupa che l'economia del paese dipenda ancora, per più del 50 per cento del prodotto nazionale, dalla produzione


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e dal traffico dell'oppio, con ripercussioni che condizionano tutti gli aspetti della vita civile.

PRESIDENTE. Onorevole...

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Si impone, quindi, una riflessione nelle sedi multilaterali sulle ragioni delle difficoltà che incontra il processo di stabilizzazione del paese. Sarebbe impensabile non procedere a tale riflessione; già oggi è possibile sostenere che occorre un diverso equilibrio tra presenza militare e interventi civili e che è necessaria una riconversione dell'economia da attività illecite ad attività legali in grado di fornire un reddito. L'Occidente non deve essere avaro e deve invece impegnare risorse in questa direzione; è indispensabile, infine, che le operazioni militari si svolgano ponendo maggiore attenzione alle conseguenze sulla popolazione civile. È poi necessario bandire la pratica di trattamenti disumani nei confronti dei prigionieri, fossero anche talebani o terroristi.
L'intervento italiano all'interno della missione ISAF si è articolato su diversi versanti; particolarmente significativo è stato il lavoro teso al consolidamento delle nuove istituzioni afghane, nell'ambito delle quali va ricordato il ruolo primario assunto dall'Italia nella riforma del sistema giudiziario.

PRESIDENTE. La prego di concludere, presidente.

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Ho concluso, signor Presidente.
Per quanto riguarda l'impegno militare italiano in Iraq, le decisioni assunte dal Governo vanno nella direzione di un rientro della nostra missione; le ragioni di questa scelta le ho ampiamente ricordate nelle considerazioni precedenti. Il rientro di questa missione non significa la rinuncia a garantire, da parte del nostro paese, nelle forme che non comportano una presenza di contingenti militari, un sostegno significativo al processo di ricostruzione e riorganizzazione istituzionale e civile dell'Iraq.
Vorrei ringraziare tutti i colleghi che hanno alimentato nelle Commissioni riunite una discussione che, al di là delle diversità di opinione e di convincimenti, è stata molto proficua.

PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, deputata Pinotti, presidente della Commissione difesa, ha facoltà di svolgere la relazione.

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, come già ha avuto modo di illustrare ampiamente il relatore per la III Commissione, onorevole Ranieri, il provvedimento che giunge oggi all'esame dell'Assemblea è stato discusso in sede congiunta dalle Commissioni affari esteri e difesa a partire dal 6 luglio. È stato posto alla nostra attenzione all'inizio di una nuova legislatura e ciò ha comportato anche l'opportunità di una riflessione complessiva sugli indirizzi di sicurezza e difesa del nostro paese e sull'insieme degli impegni militari che l'Italia ha nel tempo contratto sullo scenario internazionale.
Colgo in questa sede l'occasione per inviare, a nome di tutti i parlamentari delle Commissioni riunite, un saluto affettuoso e riconoscente a tutti i nostri militari impegnati nelle missioni all'estero per la generosità e la professionalità con cui svolgono il loro dovere.
Nella mutata realtà internazionale i concetti di sicurezza interna e internazionale, così come le iniziative politiche estere militari, sono sempre più interdipendenti. Ecco quindi l'opportunità di affrontare contestualmente all'esame di questo provvedimento, la discussione e la votazione di atti di indirizzo come quelli presentati ieri in aula, che formalizzino la volontà del Parlamento e diano allo stesso Governo le direttrici strategiche su cui condurre la propria iniziativa, sulla base della necessaria legittimazione internazionale nelle sedi e nelle organizzazioni di cui l'Italia fa parte: l'ONU, l'Europa e la NATO.


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È questo un obbligo che il nostro paese deve sentire vincolante per due fondamentali motivi: il primo trova la sua ragione d'essere nel nostro dettato costituzionale; l'altro, nella spinta che, in questa direzione, prepotentemente esercitano l'interdipendenza e la globalizzazione dei fattori, che condizionano ormai le relazioni tra gli Stati e la politica internazionale. A ricordarcelo ancora una volta - ammesso che ce ne fosse bisogno - è la drammaticità delle immagini che entrano nelle nostre case da Beirut, da Haifa, dalla striscia di Gaza. La stessa Agenda del G8, convocata sui temi cruciali per le comunità internazionali - quali sono appunto quelli della sicurezza, della lotta al terrorismo, dell'energia, della non proliferazione nucleare - è diventata altra cosa di fronte al rischio concreto di una nuova guerra in Medio Oriente. Per tali motivi vanno quindi sostenuti con forza l'appello del G8 e le iniziative avviate dal Governo italiano nella stessa direzione. Le disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali, contenute nell'atto camera n. 1288 che stiamo esaminando, sono state discusse con larga serietà e partecipazione nei lavori delle Commissioni. È stato un impegno serio, segnato anche da uno sforzo organizzativo che tenesse in conto le diverse emergenze del lavoro parlamentare. Proprio per questo occorre dare atto della buona volontà di tutti i componenti e Commissioni che ha consentito di superare difficoltà procedurali e organizzative, per garantire comunque tempi adeguati per la discussione: lo dimostra il fatto che sono state svolte, nei limiti della disponibilità degli auditi, tutte le audizioni richieste ed stato realizzato in videoconferenza un collegamento con i comandi militari a Kabul e ad Herat. Durante la discussione nelle Commissioni riunite sono apparse le linee di guida di politica estera seguite dal Governo italiano. I rappresentanti del Governo hanno ampiamente illustrato tali linee e sono sotto gli occhi di tutti sia gli elementi di continuità, sia quelli di discontinuità con il recente passato. L'Italia sceglie di muoversi nell'ambito degli organismi multilaterali di cui fa parte, facendosi carico delle responsabilità derivanti da un mondo ormai globalizzato, al contempo rifiutando però impegni di tipo unilaterale, nel pieno rispetto - come già detto - del dettato costituzionale.
Va precisato che le norme in discussione hanno un duplice contenuto: da un lato, definiscono lo stato giuridico e il trattamento economico e la giurisdizione da applicare al personale inviato nelle missioni internazionali; dall'altro, autorizzano la partecipazione delle nostre Forze armate alla missione, definendone lo status internazionale e i compiti principali. Così è per prassi normativa in uso da tempo; una prassi legittima che può, però, essere migliorata, ove le due tematiche venissero dal punto di vista normativo separate. Non vi è infatti alcuna necessità, dal punto di vista legislativo, di ridefinire periodicamente le norme che regolano gli aspetti del personale e il trattamento giuridico ed economico che - sia detto per inciso - vengono con la stessa periodicità riconfermate nei contenuti: questa materia potrebbe quindi essere definita da una legge quadro. Resta intatta, invece, l'assoluta necessità di lasciare nelle mani del Parlamento la decisione sulla partecipazione a missioni internazionali per tutto ciò che riguarda non solo la durata e i compiti - come si è fatto sinora - ma anche gli obiettivi, la valutazione dei risultati, le regole, la legittimazione internazionale entro i quali può essere consentito l'uso della forza militare.
Desta preoccupazione, infine, nella coscienza giuridica cui è ispirato il nostro Stato di diritto, il permanere di norme tratte dal codice penale militare di guerra: risultano presentati emendamenti intesi a sopprimerne l'applicazione nelle missioni Antica Babilonia, Enduring Freedom e ISAF. Mi auguro che l'aula approvi questa soppressione. Rivolgo, quindi, una precisa sollecitazione al Governo affinché predisponga un provvedimento che, facendo propri i principi e gli istituti del diritto umanitario e i profili di responsabilità dei militari impiegati in missione armate - senza ricorrere al codice militare di guerra - garantisca tutti i soggetti (militari,


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civili e le popolazioni) disciplinando organicamente, mediante un apposito codice, i profili penali concernenti le particolari situazioni di impiego dei contingenti militari armati all'estero.
Ricordo che i codici in vigore risalgono al 1941. Nel contenuto, il disegno di legge che stiamo esaminando, autorizza la prosecuzione di tutte le missioni internazionali, delle Forze armate e delle forze polizia, che, per semplicità, possono essere ricomprese in tre grandi gruppi: l'area dei Balcani, l'Iraq e l'Afghanistan. Poi, vi sono missioni in altre parti del mondo; in particolare, vi sono tre nuove missioni, due in Congo e una in Darfur.
L'articolo 2 del provvedimento stabilisce, invece, la conclusione della nostra partecipazione militare in Iraq con la missione Antica Babilonia.
Dall'espressione del Presidente, mi sembra di comprendere l'esigenza di concludere il mio intervento...

PRESIDENTE. In base al contingentamento previsto, il tempo a disposizione dei relatori è esaurito.

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Chiedo, allora, alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione del testo integrale del mio intervento in calce al resoconto della seduta odierna.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. In conclusione, a proposito delle diverse missioni che oggi stiamo per discutere, desidero sottolineare che molto a lungo ci siamo soffermati su quella in Afghanistan e molto meno su altre missioni, tra cui quella nei Balcani - una missione per noi molto importante, nella quale sono impegnati quasi 3.500 soldati - e quella altrettanto significativa sul valico di Rafah, che era stata inviata immaginando che il problema circa la situazione israelo-palestinese fosse costituito da quel confine. Purtroppo, il problema è esploso con molta virulenza da un'altra parte e questo ci pone, oggi, nuove domande. Credo che sia necessaria una attenzione da parte del Parlamento - come anche è richiesto dalla mozione - per un monitoraggio costante di tutte le missioni, non solo di quelle che costituiscono, per così dire, l'attualità del momento politico e della discussione politica. Purtroppo, il mondo si muove, a volte, secondo direttrici diverse da quelle del nostro dibattito politico. Credo sia molto importante che i soldati che noi decidiamo di inviare oggi sentano davvero vicino il Parlamento e le sue decisioni.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gregorio Fontana. Ne ha facoltà.

GREGORIO FONTANA. Signor Presidente, mi permetto, innanzitutto, di spezzare una lancia a favore dei relatori visto che, in virtù del contingentamento, si toglie la parola persino a loro. Comunque, tant'è.
Signor Presidente il nostro «sì» al rifinanziamento delle missioni di pace, che vedono le nostre truppe impegnate nelle aree di crisi in tutto il mondo, è sempre stato fuori discussione. Non saranno certo i contorcimenti della maggioranza, impegnata a tenere insieme quello che insieme non può essere tenuto, a far venire meno il dovere di una assunzione di responsabilità nei confronti dei nostri militari, ma anche del nostro paese e della sua collocazione nello scenario internazionale. Il disegno di legge al nostro esame ricalca, del resto, quelli approvati nel corso della precedente legislatura. Si costituisce, così, una continuità riconosciuta anche dal ministro Parisi nel corso della sua audizione in sede di Commissione difesa.
Come ha anticipato il presidente Berlusconi, esprimeremo un voto favorevole


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senza porre particolari condizioni. Poi, se la vedrà la maggioranza e, se la sinistra cosiddetta antagonista insisterà nel porre pregiudiziali anacronistiche o a far mancare i suoi voti, si aprirà un problema politico, come ha affermato il Presidente della Repubblica. Un problema politico, peraltro, esiste ed è già ben visibile, dato che importanti esponenti della maggioranza sono costretti ad augurarsi un suo allargamento a forze moderate.
Questo Governo non ha una politica estera coerente e non può averla: c'è una parte della maggioranza il cui cuore non pulsa in Occidente. Il Presidente della Camera ha avuto l'onestà di ammetterlo, nel corso di una intervista recentemente rilasciata al Corriere della Sera. Il cuore di Bertinotti e quello dei suoi compagni, di Diliberto, dei Verdi e dei cosiddetti antagonisti, batte lontano dai valori e dalla cultura dell'Occidente e del mondo liberale, batte lontano dalla nostra concezione della democrazia e delle relazioni tra i popoli e dalle responsabilità che ci siamo assunti, insieme ai nostri alleati, per reagire alla sfida del terrorismo e del fondamentalismo. Qui sta il punto del nostro dissenso dalla cornice politica che è riassunta nella mozione presentata dall'Unione in parallelo al provvedimento al nostro esame, finalizzato al rifinanziamento delle missioni. Questo dissenso si delinea in maniera più netta anche dopo avere ascoltato il dibattito in sede di Commissione e le relazioni ed interventi dei colleghi della maggioranza.
Lo ripeto, siamo di fronte ad un disegno di legge che non potremmo non votare e che voteremo con motivazioni però opposte a quelle contenute nella mozione del centrosinistra. Quelle della sinistra sono ragioni che contraddicono lo spirito con il quale l'Italia si è impegnata in particolare in Afghanistan e vogliamo che, proprio in questo paese, continui ad essere impegnata fino a quando sarà considerato necessario dalle istituzioni internazionali. Altro che avvio di una strategia di uscita, della quale parlano quanti a sinistra condizionano il loro appoggio al Governo Prodi allo stravolgimento della nostra politica estera!
Il problema è che nella maggioranza sono sempre più determinanti - per ora sulla politica internazionale, ma domani anche su quella economica - le forze cosiddette antagoniste, condizionate da professionisti del pacifismo e dai nostalgici di una anacronistica lotta di classe antimperialista, che tanti guasti e tanti lutti ha già prodotto anche nel nostro paese. Si tratta di forze che strizzano l'occhio a quanti contrastano i nostri valori; con il loro comportamento esse ostacolano proprio il tentativo di chi, in quello che Bertinotti definisce il sud del mondo - in Iraq come in Afghanistan -, vuole affrancarsi dal fondamentalismo, isolare il terrorismo, creare condizioni per una convivenza pacifica e per la costituzione di istituzioni democratiche nei diversi paesi.
Aiutare questi popoli è stato ed è il senso delle nostre missioni internazionali, sempre condotte sotto l'egida dell'ONU - in Afghanistan e in Iraq - e sempre con il consenso delle popolazioni locali e dei Governi legittimi che ora le guidano. Dovrebbe davvero vergognarsi chi ha messo in dubbio tutto ciò e che continua a farlo sapendo di mentire, al solo fine di compiacere i dissidenti della maggioranza e i cosiddetti pacifisti. Altro che pacifisti, stanno mettendo in discussione la sicurezza di milioni di esseri umani, dei popoli verso i quali si dichiarano solidali e anche dei nostri militari! Stanno mettendo in crisi anche il ruolo che l'Italia è chiamata a svolgere nel mondo e che, fino a questo momento, ha assolto guadagnandosi rispetto, consenso e prestigio. Un prestigio - sia chiaro - che non è motivo di compiacimento nazionalistico, ma che ci rende orgogliosi per essere stati all'altezza dei nostri doveri di paese sviluppato dell'Occidente, che non può chiudere gli occhi di fronte ai problemi; un paese capace di una netta assunzione di responsabilità, senza «se» e senza «ma».
Presidente Prodi, Presidente Bertinotti, abbiamo fatto e faremo di tutto affinché l'Italia continui a svolgere il proprio ruolo per la pace, nella sicurezza e nella democrazia. Lo faremo con un pensiero deferente anche ai nostri connazionali caduti


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per questi ideali; lo faremo con il cuore e la mente in Occidente, rafforzando i rapporti transatlantici tra Europa e Stati Uniti, come ha chiesto - lanciando un monito severo - anche il Presidente Napolitano, che è il garante di tutti e anche della collocazione internazionale del paese, che una certa sinistra vorrebbe mettere in discussione.
Ebbene, questo tentativo non riuscirà. Lo conferma, del resto, la rettifica di tiro, alla quale il premier Prodi è stato costretto, sulla crisi tra Israele e Libano. Altro che condanna ad Israele, altro che equivicinanza o equidistanza! Anche Prodi - dopo le dichiarazioni di Putin - ha evidenziato la necessità di disarmare gli Hezbollah a sud del Libano.
Rassegnatevi, non c'è alternativa alla politica lungimirante tracciata dal Governo Berlusconi, che ha restituito centralità, dignità e ruolo ad un'Italia che, per troppo tempo, è stata considerata marginale nella definizione degli equilibri internazionali!
Siamo convinti di rappresentare in questo modo le aspettative della grande maggioranza degli italiani, non soltanto di quanti - il 50 per cento - ci hanno rinnovato la loro fiducia alle ultime elezioni politiche.
In ogni caso, per noi non si tratta di una scelta senza alternative. Non consentiremo che venga messa a repentaglio la credibilità del nostro paese. Tocca a noi garantire gli alleati, il Governo afgano e quello iracheno, il Governo ed il popolo di Israele. Tocca a noi garantire che i sentimenti del nostro paese non sono cambiati, che non è cambiato l'impegno della stragrande maggioranza degli italiani a lottare contro il terrorismo ed il fondamentalismo e che non è cambiato l'obiettivo di garantire il massimo della solidarietà ai popoli che ne sono vittime.
Quindi, anche questa volta, faremo la nostra parte in Parlamento; faremo anche quello che voi, colleghi della maggioranza, non sareste in grado di fare: difendere la dignità del paese, il diritto dei popoli, la sicurezza e la libertà dei più deboli. Questo è il grande e nobile compito di un grande e nobile paese: un compito, un dovere di fronte al quale voi vorreste disertare (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Folena. Ne ha facoltà.

PIETRO FOLENA. Signor Presidente, il disegno di legge che stiamo esaminando in questi giorni, congiuntamente alla mozione sulla politica estera e sulle missioni militari, rappresenta, a nostro avviso, a mio avviso, un passaggio molto importante per mettere le basi di una nuova politica estera del nostro paese.
Già nella precedente legislatura l'esame di analoghi provvedimenti rappresentò un'occasione importante per un'iniziativa comune di diversi parlamentari dell'opposizione (sedevo, allora, nelle file del gruppo dei Democratici di sinistra), i quali, sulla base di un sentire comune, arrivarono a votare, spesso e quasi sempre insieme, congiuntamente, contro alcune missioni di guerra in cui il nostro paese era impegnato. Oggi, la Sinistra Europea, il gruppo di Rifondazione, soggetto politico più largo nel quale siamo impegnati, nasce, in qualche modo, anche da quell'esperienza comune.
I deputati Mantovani e Deiana hanno avuto ed avranno modo - il primo ieri, la seconda stamani, nel prosieguo della discussione - di illustrare le posizioni del nostro gruppo. Io desidero porre l'accento soltanto su un aspetto di cui si è occupato il relatore Ranieri.
Il cuore della nostra discussione verte sul ritiro delle truppe italiane dall'Iraq. Non si tratta di un atto di fuga, non si tratta soltanto di una dissociazione dalla violazione aperta dell'articolo 11 della Costituzione, compiuta dal Governo Berlusconi in passato, e da una scelta che ha portato l'Italia in una collocazione subalterna alle politiche di guerra promosse dall'Amministrazione Bush. Colgo l'occasione per sottolineare che quell'atto è stato pagato con un prezzo di sangue troppo alto anche in termini di vite umane italiane e, a tale proposito, ricordo i ragazzi,


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i militari, ed i civili che sono morti, nel corso di questi anni, a causa di quelle scelte.
Il ritiro dall'Iraq è un atto di dialogo, un atto di pace, un atto che nasce dalla volontà di individuare altri mezzi rispetto a quelli militari, altri mezzi per impegnarsi nella lotta contro il terrorismo, per la libertà, per la democrazia e per la giustizia sociale. Molti di noi hanno sempre sostenuto che non si esporta la democrazia. Sicuramente, la guerra è incompatibile con la democrazia: guerra e democrazia sono incompatibili. La logica della guerra mina lo Stato di diritto, produce fatti sistemici come i fatti di tortura che abbiamo visto in Iraq o quelle forme concentrazionarie che abbiamo visto riprodursi nel carcere di Guantanamo (del quale il nostro ministro degli esteri, e questo ci riempie di forza, ha giustamente chiesto la chiusura all'Amministrazione Bush).
Sento riecheggiare nelle parole del deputato Gregorio Fontana (quando si riferisce a quello che Bertinotti definisce il sud del mondo) l'ideologia del «bianco buono» che parla in nome della superiorità del nord: sono parole riempite di quella stessa retorica per la pace e per lo sviluppo che animava i dibattiti che precedettero le grandi avventure coloniali nelle quali l'Italia si impegnò in un altro secolo; sono parole sulla base delle quali, come ha scritto in uno straordinario libro lo storico Angelo Del Boca, il paese si macchiò di crimini infami.
Voglio limitarmi, in questa sede, a due considerazioni. In primo luogo - ne ha parlato Ranieri - è fallita la strategia militare contro il terrorismo.
Questo è un problema che investe anche altre culture rispetto a quella che io rappresento, non solo la cultura della sinistra moderata o del nuovo partito democratico, di cui Ranieri è, in qualche modo, una delle espressioni più significative, ma anche le culture di destra (penso ai dubbi che sorgono nell'ambito dell'amministrazione americana proprio in questa settimana a proposito dell'efficacia di quelle politiche).
Tutto questo però fa il paio con l'impotenza sostanziale del G8 - diciamoci la verità, uno spettacolo abbastanza preoccupante -, delle Nazione Unite e della comunità internazionale. Nel 2001, si svolse un vero e proprio atto di guerra senza precedenti sul suolo degli Stati Uniti con l'abbattimento delle Torri gemelle e, in quel momento tragico, ci fu un'enorme occasione per gli Stati Uniti e per l'umanità di fondare una strategia democratica che portasse a combattere il terrorismo, ma anche a rimuovere le cause su cui il terrorismo cerca di costruire una propria legittimazione.
Prima, si è imboccata la strada della guerra in Afghanistan, ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non sostengo la sciocchezza che con i talebani si stesse meglio che oggi, tuttavia voglio dire con chiarezza che oggi, nel 2006, questo paese è dominato dai signori della guerra, è dominato dalla produzione dell'oppio! E una nuova credibilità la stanno assumendo nei territori meridionali dell'Afghanistan, non i vecchi talebani, che furono cacciati, ma una nuova offensiva integralista e fondamentalista, una qualche forma di «irachizzazione» della situazione afghana che dovremo affrontare - temo - nei prossimi mesi.
E poi l'Iraq, fuori di ogni pregiudizio politico; basta leggere la stampa internazionale, spesso più obiettiva rispetto a tanta parte del dibattito nostrano che ci narra di una Baghdad, di una zona verde nella quale stanno i potenti al riparo degli attentati, e di una Baghdad controllata territorialmente da veri e propri signori della guerra, con metodologie che minano la sicurezza delle persone, di condizionamento grave; cercano di mantenere quel minimo di ordine rispetto all'anarchia che è stata provocata dall'intervento internazionale.
La guerra ha aumentato l'insicurezza. L'involuzione autoritaria in Iran, la vittoria di Ahmadinejad - l'ha detto Ranieri - sono il frutto malato della politica che abbiamo portato avanti nel corso di questi anni e la chiusura ulteriore degli spazi democratici che c'è stata in Iran è il frutto


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malato di quella strategia! Non vogliamo parlare della Somalia, dell'Indonesia, della Malesia, della eco delle tensioni che arrivano dalle zone periferiche della Cina: anche lì sta ribollendo qualche cosa.
O vogliamo dirci, colleghi, a proposito del relativismo etico, dell'indifferenza con cui tanti benpensanti pronti ad organizzare fiaccolate a senso unico hanno manifestato, quando in India le bombe hanno sterminato 200 indiani? La vita di un povero operaio indiano che va nella metropolitana di Mumbai conta di meno agli occhi di quella presunzione del «bianco buono» che vuole aiutare il sud del mondo, della vita di altri che vengono colpiti nelle metropolitane di Londra o altrove!
Ma è il Medio Oriente la fotografia di questo fallimento. E la situazione della Palestina e di Israele è sotto gli occhi di tutti, come ha scritto, l'altro giorno il poeta Adonis nello straordinario componimento «Vivere e morire per niente». Esso recita: «Quel che accade in queste ore in Palestina e in Libano, non è che l'esplosione di una condizione che si perpetua da oltre mezzo secolo [...]. Ebrei, Cristiani, e Musulmani stanno riscrivendo la storia delle loro origini, con lo stesso sangue: quello di Abele. In quanto tale, questa storia non è, soltanto, palestinese, è universale».
Otto ferrovieri israeliani sono morti a Haifa, erano operai! E quelle decine di famiglie con i bambini albanesi morti negli autobus, fuggendo dalle città bombardate dagli israeliani, erano lavoratori! E a Gaza, dopo il rapimento inaccettabile di un soldato, ci sono stati 150 morti nel corso delle ultime settimane! Si sta chiudendo un cerchio!
La strategia militare sbagliata che gli Stati Uniti hanno imposto all'Occidente nel corso di questi anni ha determinato un quadro di chiusura rispetto all'Iran di Ahmadinejad, a Hezbollah, a Hamas, mettendo in difficoltà perfino le componenti moderate esistenti all'interno di Hamas o di Hezbollah. Vorrei ricordare che Hezbollah ha un ministro nel Governo siriano e che Le Monde - che non è un giornale comunista - oggi titola «Parigi manifesta la sua solidarietà con il Libano». Questa è la stampa internazionale in questi giorni! Altro che il provincialismo con cui in Italia si discute della politica estera!
Ora, dobbiamo cambiare strada e vi è un problema che coinvolge anche il campo pacifista. Lo voglio dire con onestà: nonostante le bandiere della pace e la grande manifestazione del 14 febbraio 2003, che portò 100 milioni di persone in tutte le piazze del mondo a dire «no» alla guerra, tuttavia, nel corso di questi tre o quattro anni, la logica della guerra sta vincendo. Dobbiamo, purtroppo, guardare in faccia questa realtà e domandarci con quale strategia possiamo uscire da tale logica che, oramai, appare fuori controllo.
Non sono a favore di quello che viene definito, spesso con disprezzo, una specie di atteggiamento imbelle. Bisogna porsi il problema di un'ingerenza umanitaria non violenta e democratica, e chiedersi quali politiche il nostro paese e l'Europa debbano portare avanti, ad esempio, sul terreno delle relazioni economiche con molti paesi. Bisogna chiedersi quali politiche mettere in campo in rapporto ai contingenti civili e anche ai necessari contingenti di polizia militare presenti in alcune zone. Oggi, intendiamo farlo rispetto al Darfur e ad altre aree. Vorremmo si facesse lo stesso anche rispetto al Medio Oriente, non tardivamente, quando ormai tutto è saltato, ma in tempo per garantire la sicurezza e la pace di tutti, di Israele, della Palestina, dei lavoratori di una parte e dell'altra, del Libano.
Credo che le decisioni che si assumeranno oggi, anche in rapporto all'Afghanistan, non risponderanno a quanto molti di noi avrebbero voluto. Vi è un diverso punto di riflessione su questo nodo. Tuttavia, salutiamo come una mediazione ed un compromesso significativo il fatto di avere raggiunto l'obiettivo di un mancato potenziamento della nostra presenza militare, dando al Parlamento, attraverso il monitoraggio di cui ha parlato la presidente Pinotti, la possibilità nel corso dei prossimi mesi di svolgere un dibattito senza pregiudiziali e senza paraocchi in


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ordine a quanto sta accadendo oggi in Afghanistan. Mi rivolgo ai colleghi della maggioranza, ma anche a quelli dell'opposizione, considerato anche che tanti, al di fuori di qui, ci dicono che in Afghanistan la situazione sta precipitando.
Signor Presidente, concludo il mio intervento dicendo che la guerra e la logica dello sterminio terroristico sono l'altra faccia delle ideologie di antisemitismo, delle rinnovate ideologie di antisionismo, che negano l'esistenza dello stato di Israele, e che noi respingiamo nel modo più netto. Ma per far ciò, cari colleghi, occorre affrontare di petto la grande colpa che l'Occidente ha maturato nel corso di questi anni. E questa grande colpa è stata l'aver trascurato, per quanto riguarda la situazione palestinese, la necessità di offrire una soluzione politica quando ve ne era la possibilità. Tutto ciò non è accaduto. E diviene attuale la domanda che il Pontefice ha rivolto a se stesso, uscendo dai campi di sterminio, allorquando si è chiesto: ma Dio dov'era di fronte a tutto questo? La nostra domanda non riguarda Dio, bensì noi stessi: ci possiamo chiedere dove sono gli uomini e cosa possano fare. E ciò che possono fare è uscire dalla guerra e imboccare una strada di iniziative democratiche, civili e pacifiche (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Briguglio. Ne ha facoltà.

CARMELO BRIGUGLIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, noi esprimeremo un voto favorevole sul provvedimento in esame, in nome di un valore per noi fondamentale: l'interesse nazionale.
Si tratta di un valore che ci ha ispirato non solo oggi, ma anche negli anni scorsi, in particolare nel corso della XIII legislatura, quando, proprio in nome dell'interesse nazionale, abbiamo supportato anche la politica estera condotta dai Governi di centrosinistra. In quell'occasione, infatti, abbiamo dato prova, assieme a tutte le forze del centrodestra, di mantenere fermo tale valore, dimostrando il senso di responsabilità di un grande partito politico, il cui interesse coincide con quello della nazione.
Credo che, nell'esame del presente provvedimento - vorrei segnalare, peraltro, che le cronache quotidiane di questi giorni dimostrano che i fatti ed i grandi eventi internazionali rischiano di scavalcare anche l'attualità dei dibattiti parlamentari, e ci riportano alle emergenze che si manifestano altrove -, dobbiamo sottolineare anche un modo incauto con cui vengono rilasciate dichiarazioni. Qualche giorno fa, infatti, il ministro D'Alema ha parlato di reazione sproporzionata, da parte di Israele, all'attacco degli Hezbollah. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che forse ciò è diventato un costume, o una prassi, perché abbiamo ascoltato il Presidente del Consiglio Prodi rendere affermazioni alquanto incaute in un momento solenne quale quello delle dichiarazioni programmatiche del Governo.
Il Presidente Prodi, infatti, ha voluto definire - confermandolo in una intervista rilasciata ad un grande giornale tedesco - «truppe di occupazione» le nostre forze attualmente presenti in Iraq, vanificando, con ciò, il lavoro svolto e quasi insultando la memoria dei nostri caduti, nonché, per certi versi, il sacrificio dei nostri ragazzi (ho constatato, peraltro, che una certa retorica antimilitarista vorrebbe che non li definissimo in questo modo).
Noi, in questa occasione importante, vogliamo dunque ricordare, ancora una volta, che l'Italia non è entrata in guerra, che il nostro paese si è recato in Iraq sotto la copertura dell'ONU e che la nostra è una missione militare di pace, che vede numerosi nostri giovani (che rappresentano il nostro paese) impegnati nell'aiutare questa giovane democrazia a ricostruirsi moralmente e materialmente.
Ciò è estremamente importante e deve essere ricordato. Allo stesso modo, va ricordato al ministro D'Alema, il quale, intervenuto in sede di illustrazione delle linee programmatiche del proprio dicastero dinanzi alle competenti Commissioni parlamentari, nell'ambito di una polemica


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con l'opposizione di centrodestra volle in qualche modo insinuare che vi fosse una sorta di accordo segreto tra il Governo Berlusconi e gli Stati Uniti d'America circa il ritiro dall'Iraq (ritiro che, ricordo, era stato già preannunziato dallo stesso Presidente Berlusconi), nel senso che si dovesse lasciare una presenza formalmente civile, ma che, in realtà, sarebbe stata prevalentemente militare.
Credo che il ministro D'Alema dovrebbe essere più cauto nel pronunciare le proprie dichiarazioni, poiché, se vi è stata una sorta di omertà di Stato, anche nei confronti del Parlamento - si tratta di qualcosa di inaudito e grave rispetto a tutti i precedenti avvenuti nel corso della storia della Repubblica -, ciò si è verificato esattamente quando l'Italia ha partecipato alla missione militare in Kosovo e l'allora Governo D'Alema tenne il Parlamento all'oscuro di quanto accadeva effettivamente in tale regione. Si tennero all'oscuro il Parlamento e l'intera pubblica opinione, suscitando la protesta della sinistra radicale - la quale, vorrei osservare, dovrebbe un po' riannodare i fili della propria coerenza -, proprio quando i bombardieri italiani colpivano alcuni obiettivi nell'ambito di una operazione che fu definita di «polizia internazionale», al fine di impedire un genocidio.
Tuttavia, in quell'occasione l'Italia era sostanzialmente impegnata in guerra - secondo noi giustamente - con i nostri piloti che combattevano contro i piloti della parte avversa. E i video delle missioni compiute vennero fatti vedere soltanto ad operazione compiuta. Questa fu l'omertà di quel Governo sulle operazioni di guerra che oggi noi vogliamo ricordare, nel momento in cui si fa una polemica a nostro avviso assolutamente impropria.
Credo che il fluire dei fatti e anche il contenuto di questo provvedimento rischi di non farci comprendere fino in fondo l'aspetto politico importante che va invece sottolineato in questa occasione. Siamo convinti che il dibattito sulla proroga delle nostre missioni militari all'estero sia l'occasione per fare chiarezza secondo verità. La notizia importante o comunque l'evento sul quale dobbiamo discutere - vogliamo farlo con qualche incursione anche nella parte avversa, perché altrimenti rischiamo di ripeterci continuamente, ciascuno dicendo le cose che dice l'altro -, proprio alla luce del dibattito sulla missione in Afghanistan che sta animando fortemente la sinistra ed il centrosinistra, è che i sette-otto parlamentari dissidenti della sinistra sono esattamente i sette-otto parlamentari che sono coerenti con tutte le precedenti posizioni della sinistra.
Non sono loro il caso anomalo, bensì lo è la maggioranza di centrosinistra, in particolare l'area della sinistra, che vorrebbe cambiare posizione rispetto ad un retroterra storico e politico e ad un background che essa ha sulle sue spalle, che poi è esattamente quello che, in altri tempi, ha determinato le posizioni di chi voleva che l'Italia uscisse dalla Nato - non parliamo di trent'anni fa, ma di appena alcuni anni fa -, il rifiuto di una parte consistente della sinistra di votare per l'allargamento ad est della Nato, la grande polemica nella scorsa legislatura sulla concessione dell'uso delle basi militari - che poi D'Alema stroncò, due legislature fa, in modo direi perentorio -, la contrarietà di una parte della sinistra all'intervento in Albania, così come poi all'intervento in Kosovo, che dilaniò il Governo D'Alema, in quanto vi fu una differenziazione forte all'interno delle varie componenti politiche della sua coalizione.
Devo però anche ricordare, proprio a coloro i quali parlano continuamente di legittimazione da parte degli organismi internazionali, che in un'occasione importante ci fu la contrarietà della sinistra anche dinanzi al mandato ONU di intervenire affinché Saddam Hussein si ritirasse dal Kuwait che era appena stato invaso.
Dunque il problema che oggi abbiamo di fronte, come Parlamento, come paese, come mondo politico ed anche come area del centrosinistra, è che ci sono queste due sinistre, una occidentale - lo voglio riconoscere -, che vuole andare incontro alla tradizione politica di questo paese, un'altra invece che è coerente con la sua


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cultura politica, con la sua storia e con il suo passato, che segue con coerenza le sue idee, al di là delle forme partito che si avvicendano; parlo dei Comunisti Italiani, delle minoranze interne a Rifondazione Comunista e dell'area pacifista, ma anche di un grande giornale della sinistra radicale che fa opinione, come Il Manifesto. Potrei leggere gli editoriali di un padre della sinistra - che ora non c'è più -, Luigi Pintor, che ha dipinto l'operazione in Afghanistan come una vera e propria guerra (ricordiamo quelle pagine) e diffidava, metteva in guardia la sinistra ad avventurarsi in un'operazione di questo genere.
Voglio ricordare alcune dichiarazioni, tra le quali quella dell'onorevole Rizzo risalente a qualche ora fa. Egli, riferendosi all'Afghanistan, ha affermato: «Quello di Prodi è peggio del Governo Berlusconi». Quindi, avendo a riferimento questa conversione di pezzi della sinistra, a cominciare da Rifondazione comunista e dai Verdi, vorrei dire che basta andare a guardarsi il dibattito parlamentare del tempo per capire che vi è un «Bertinotti pensiero» di oggi e un «Bertinotti pensiero» di ieri, un «Pecoraro Scanio pensiero» di oggi e un «Pecoraro Scanio pensiero» di ieri. E ieri, riguardo all'operazione, all'intervento, alla missione militare in Afghanistan, Fausto Bertinotti - cito il leader politico, non ancora Presidente della Camera - definì la posizione assunta, il voto della sinistra in favore dell'intervento in Afghanistan - eravamo all'indomani dell'11 settembre -: «La notte della politica».
Oggi registriamo ben altre posizioni; noi, da questo punto di vista, nella logica dell'interesse nazionale, ne siamo contenti e soddisfatti, ma il problema di fondo è un altro. Infatti, osservo che autorevoli esponenti della Margherita e della maggioranza di centrosinistra cominciano a sostenere che in politica si deve dialogare ed allargare la maggioranza ad alcune forze della Casa delle libertà.
Vi è un problema di fondo che noi, purtroppo, ritroveremo molto presto, infatti la politica internazionale rispecchia la politica di un grande paese e non la si può scindere dal resto della politica generale del Governo. Di conseguenza, se questo Governo ha posto, e pone ogni giorno - credo che nelle ore seguenti lo porrà molto meno -, il proprio accento sulla discontinuità rispetto al Governo precedente, vuol dire che la politica estera era dinanzi agli elettori (su questo punto tornerò in seguito), alla pubblica opinione un elemento discriminante tra centrodestra e centrosinistra, tra il Governo dell'Unione di oggi e il Governo della Casa delle libertà di ieri.
Questo è un punto centrale che la maggioranza di Governo dovrà chiarire. Ieri ho seguito la polemica giornalistica fra Adriano Sofri e Gino Strada; tra le tesi espresse da Sofri una riveste particolare importanza, e cioè quella in base alla quale egli, rivolgendosi ai sette-otto parlamentari dissidenti della sinistra radicale, afferma: «Voi dovete lasciare il seggio perché non siete più in linea con la maggioranza di Governo». In questo caso, notiamo un punto importante, fondamentale che ritroveremo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, da cui dipenderà la vita di questo Governo. Mi spiego: i sette-otto parlamentari della sinistra radicale rappresentano un'area politica (l'area pacifista della sinistra), centinaia di migliaia di elettori a cui rispondono, i quali non vogliono la guerra ad ogni costo e nessun intervento militare sostenuto, appoggiato, coperto o meno, dalle istituzioni internazionali, a cominciare dall'ONU. Eppure quei voti, quei consensi hanno fatto la differenza per far vincere la coalizione di centrosinistra e per la creazione del Governo Prodi.
È una contraddizione che la maggioranza dovrà sciogliere, perché vi è stata una sorta di pubblicità ingannevole da parte dell'Unione, del suo programma e dello stesso Prodi nei riguardi di questa fascia di elettorato della sinistra radicale, che però, votando per l'Unione, per lo schieramento del centrosinistra, se ricordiamo lo scarto minimo che ha fatto sì che prevalesse l'Unione rispetto alla Casa delle libertà, ha rappresentato pienamente la


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differenza e che oggi, con tali posizioni - torno al tema - sulla proroga e sulla prosecuzione delle nostre missioni militari all'estero, vede disattese le proprie legittime - che noi non condividiamo affatto - aspirazioni e istanze in sede politica e di Governo.
La maggioranza ed il Governo dovranno sciogliere questa contraddizione profonda. Non è possibile che vi sia una maggioranza per tutto il resto della politica del Governo ad eccezione della politica internazionale, della politica estera e della politica della difesa, in quanto esse, in un mondo in cui eventi drammatici e tragici si susseguiranno giornalmente, rappresentano la politica del Governo e del paese.
Votando «sì» sul provvedimento in esame, ma non mancando di rimarcare le discrasie, le incoerenze, le difficoltà nel portare avanti questo disegno di legge, che sono gravi, forti e provocano fratture profonde nella coalizione e anche all'interno del Governo, ribadiamo le ragioni profonde della nostra coerenza, di un valore quale l'interesse nazionale che, per noi, va al di là anche dei comodi tatticismi cui avremmo potuto cedere.
Non vogliamo, in questo momento, che i nostri militari all'estero - che nella scorsa legislatura sapevano di avere alle spalle e accanto un Governo coeso sulla politica estera e di difesa e una maggioranza le cui anime, pur diverse, in questo campo importante non hanno mai avuto nessuna cedevolezza e nessun contrasto e si sentivano sicuri di avere accanto l'intero paese e l'intera comunità nazionale e, comunque, il Governo che la rappresenta - si sentano soli in un compito difficile che abbiamo il dovere di tenere sempre presente con gratitudine. Oggi vogliamo che, con il nostro contributo, i «nostri ragazzi» che rappresentano l'Italia nelle missioni militari all'estero - a cominciare dall'Afghanistan - sentano questa sicurezza, il calore ed il sostegno del popolo italiano (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Monaco. Ne ha facoltà.

FRANCESCO MONACO. Signor Presidente, vorrei cominciare con un rilievo critico e, se vogliamo, anche autocritico. Da settimane siamo impegnati in una vivace discussione sulle nostre missioni internazionali. È giusto; ci mancherebbe altro. Tuttavia - ecco il rilievo critico -, a fronte della nostra ossessiva concentrazione sulle missioni internazionali o più esattamente su due di esse, quella in Iraq e quella in Afghanistan, rilevo due vistose lacune nel dibattito pubblico anche interno al nostro campo.
La prima lacuna consiste in un clamoroso deficit di conoscenza tra gli italiani - ma, oserei dire, anche tra noi parlamentari - circa il contenuto proprio di tali missioni, il fine, i mezzi, il contesto, il bilancio della loro azione. Bene hanno fatto i relatori e anche il Governo, specialmente nell'istruttoria in Commissione, a proporci un'accurata informativa anche circa le altre missioni, quelle che sono meno sotto i riflettori.
La seconda lacuna che riscontro nel dibattito pubblico - ma anche interno al nostro campo - è che ci siamo concentrati sulle missioni che, se anche importanti, sono pur sempre uno strumento, quasi trascurando ciò che a mio avviso più conta, e cioè, il quadro generale degli indirizzi di politica estera entro il quale le missioni, come strumento, si iscrivono.
Questa sproporzione tra quadro complessivo e singolo tassello ha ipotecato anche la discussione all'interno dell'Unione, ove si sarebbe dovuto apprezzare di più da parte di tutti la decisa discontinuità nelle linee guida di politica estera rispetto al Governo precedente, una discontinuità che possiamo condensare in due parole: multilateralismo e ancoraggio all'Europa. Discontinuità che, a ben vedere, si concreta nell'impegno a rimettere l'Italia sui binari storici della sua politica estera dopo il «deragliamento» del Governo Berlusconi. In queste ore drammatiche, a mio avviso abbiamo misurato l'efficacia di quel principio di svolta, di


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discontinuità. Ritengo che l'attivismo diplomatico che è stato sviluppato dal nostro Governo - dal Presidente Prodi - in occasione del G8 nelle ore scorse è anche esattamente il prodotto di quella svolta e di quella discontinuità (lo dico anche agli amici più in sofferenza rispetto al voto che ci apprestiamo a dare all'interno dell'Unione).
La condizione per avere ascolto e per esercitare una concreta influenza consiste nel praticare il multilateralismo dal di dentro, da protagonisti, nelle politiche multilaterali e, prima ancora, nelle istituzioni delle multilateralismo; proprio il multilateralismo come via politica concreta alla pace, che è scolpito nella nostra Costituzione all'articolo 11 e che, non a caso, abbiamo voluto ritrascrivere nel nostro programma.
L'articolo 11 tutto intero. Infatti, non sono due commi, così come fanno osservare i giuristi, ma si tratta di un solo comma scandito in due proposizioni che fanno l'unità dell'articolo. La prima proposizione sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali; la seconda proposizione esplicita che l'Italia si impegna a conferire sovranità e concreta cooperazione a quegli organismi internazionali che perseguono la sicurezza, la giustizia e la pace, a cominciare dall'ONU che, come noto, non dispone di mezzi suoi ma si avvale di quelli degli Stati membri.
Poggia su questo «liquido», solido fondamento costituzionale, la doppia decisione affidata al disegno di legge in esame: rientro dall'Iraq e continuità delle altre missioni concepite e condotte esattamente su basi multilaterali. Ritiro dall'Iraq in coerenza con il giudizio che abbiamo dato, da sempre, sulla guerra - un tragico errore fondato su una menzogna - ingaggiata contro la legalità internazionale; in coerenza con il giudizio che abbiamo dato circa l'eterogenesi dei fini che si è prodotta, cioè, un aumento del terrorismo piuttosto che una diminuzione dello stesso, nonché in coerenza - questa decisione - con il convincimento che altre siano le forme efficaci di aiuto e di sostegno a quel martoriato paese, l'Iraq. Dunque, non un abbandono, non una diserzione, bensì una riconversione del nostro impegno.
Del resto, lo stesso Governo precedente aveva annunciato il ritiro del contingente entro l'anno, magari sussurrando dietro le quinte affidamenti diversi (non è chiaro).
Per converso, invece, ci disponiamo al rifinanziamento di quelle missioni umanitarie e di pace che testimoniano il responsabile contributo italiano all'azione della comunità internazionale.
Il caso sul quale più si è concentrata la discussione in seno alla maggioranza, come noto, è quello dell'Afghanistan. Lo si comprende: trattasi di un teatro difficile, ove si richiede il ricorso alla forza e che dunque esige una metodica, un' assidua vigilanza, perché sul fine, la pace e le condizioni per la pace, non faccia premio il mezzo, cioè il ricorso alla forza. Come abbiamo spiegato, si tratta di una missione affatto diversa da quella irachena, deliberata dall'ONU dopo l'11 settembre per abbattere un regime oscurantista santuario delle organizzazioni terroristiche; una missione che registrò la partecipazione di una vasta coalizione internazionale, nella quale figurano paesi lontanissimi da una vocazione bellicista (penso alla Svezia, alla Finlandia, alla Svizzera, alla stessa Spagna, che ha addirittura aumentato il proprio contributo). Una missione condotta su basi spiccatamente e inequivocabilmente multilaterali dall'Unione europea e dalla NATO. Proprio il multilateralismo, la nostra stella polare, prescrive la continuità del nostro impegno. Se ne è discusso all'interno dell'Unione - è inutile tacerlo - e si è addivenuti all'idea di una mozione di accompagnamento. Sarebbe ipocrita tacere di un travaglio: è sotto gli occhi di tutti e sotto i riflettori; tuttavia, a mio avviso, la mediazione che ne è sortita non è un compromesso subito, ma mi sentirei di dire che è una sintesi persuasiva, convincente, sostenibile, più esigente, se si vuole, nel rapporto tra i mezzi, il ricorso alla forza, e i fini, la pace.
Si attribuiscono al Governo impegni ragionevoli, utili: quello di un monitoraggio


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permanente in sede parlamentare sulle missioni, quello di un mix più equilibrato tra impegni umanitari e civili da un lato e impegni militari dall'altro, la richiesta che la comunità internazionale faccia il punto sul deterioramento oggettivo del teatro afgano. Infatti, come ha osservato Barbara Spinelli, che non è incline ad un facile pacifismo, si deve considerare responsabilmente la situazione così com'è, fuori dagli ideologismi, se non si vuole ridurre il tutto ad una guerra delle parole, ad una guerra di posizionamento. Lo dico all'amico e collega Briguglio, che vedo informatissimo sui guai dell'Unione: occupiamoci dei guai del mondo, che meritano forse più attenzione!
In tema di principio di proporzionalità, cerchiamo di avere il senso delle proporzioni anche tra i guai dell'Unione e i guai del mondo, perché sarebbe offensivo (lo dico anche a taluni nel nostro campo) ed anche un po' cinico, verso chi la guerra - non la guerra delle parole, la guerra dei documenti, ma quella vera, quella cruenta - la vive sulla propria pelle.
Nella mozione si evoca la speranza ed il conseguente impegno a far maturare le condizioni perché le missioni abbiano un loro compimento; è nella natura stessa delle missioni avere un proprio compimento, specie quando le missioni contemplano il ricorso alla forza. Un mezzo estremo orientato al fine: quello di mettere quei popoli nelle condizioni di vivere nella sicurezza, nella libertà e nella pace, senza l'esigenza di interventi esterni.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 10,25)

FRANCESCO MONACO. In definitiva, dal disegno di legge e dalla mozione si ricava una posizione di equilibrio, che coniuga la vocazione internazionalista del nostro paese con il suo spirito di pace, scolpiti nella Costituzione; una limpida opzione etica e ideale con il senso delle nostre responsabilità dentro e con la comunità internazionale; la giustizia con la forza - essendo qui presente Gerardo Bianco, anch'io sento di darmi un po' di importanza con una citazione - e, come ammoniva Pascal, dobbiamo rendere forte ciò che è giusto e giusto ciò che forte (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Bricolo, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

GIACOMO MANCINI. Signor Presidente, signor viceministro, onorevoli colleghi, con il dibattito sulla mozione e sul provvedimento riguardanti la partecipazione italiana alle missioni internazionali e con le votazioni che ne seguiranno il Governo e le forze dell'Unione di centrosinistra fissano, di fatto, i punti della propria azione e definiscono le traiettorie ed il ruolo per il presente e per il futuro del nostro paese nello scacchiere planetario.
La comunità internazionale è scossa dai venti di guerra che soffiano sul Medio Oriente. Il conflitto evidente tra lo Stato di Israele e Hezbollah del Libano e quello latente con gli Stati arabi di quel quadrante, fin da adesso già drammatico, rischiano di produrre conseguenze catastrofiche e di innescare una spirale del conflitto tra religioni e civiltà che sarebbe terrificante non solo per quell'area, ma per tutto il pianeta.
In questo quadro il nostro paese è chiamato a scegliere il posizionamento migliore e la strategia più utile per promuovere l'affermazione di una comunità internazionale basata sullo sviluppo e la solidarietà fra i popoli, sul multilateralismo e sul rispetto del diritto internazionale. A questa esigenza contribuiscono non poco gli intenti contenuti nella mozione che il Parlamento voterà domani ed il contenuto del disegno di legge che stiamo adesso discutendo. Entrambi sono frutto del programma che le forze dell'Unione hanno proposto agli elettori e sul quale è stato conquistato il consenso della maggioranza degli italiani. Non nascondiamo che esso sia anche il risultato di


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una mediazione possibile tra le diverse componenti della coalizione che ha coinvolto anche La Rosa nel Pugno e ha convinto le sue componenti, sia quella socialista, sia quella radicale.
L'Italia era nel passato e rimane anche per il futuro convinta alleata degli Stati Uniti d'America. Nei prossimi anni, ad iniziare dall'approvazione di questi provvedimenti, però, intende svolgere quel ruolo che il passato Governo ha sacrificato per autorelegarsi a sostenitore acritico delle decisioni di Washington. La sfida in cui oggi è impegnato il nostro paese, il suo Governo, la sua maggioranza, è quella di investire e di far accrescere il ruolo politico dell'Europa, con l'intento di far diventare il nostro continente un attore forte, con una voce che diventi sempre più unitaria così da essere sempre più autorevole e che dovrà spendersi per la risoluzione delle criticità della comunità internazionale.
In questa giusta prospettiva si sono mossi, fin da subito, il Presidente del Consiglio, anche da ultimo nel corso del G8 di San Pietroburgo, rilanciando un rapporto positivo con Francia e Germania, il ministro degli esteri, spiegando con chiarezza e non senza fermezza la nostra posizione sull'Iraq al sottosegretario di Stato americano Condoleeza Rice, e il viceministro Intini che, con intelligenza ed acutezza, segue i problemi dell'area mediorientale, oggi scenario della crisi più acuta. È proprio in questo contesto che il ruolo del nostro paese può ambire ad essere più incisivo e più determinante.
Nei giorni passati si è aperto un dibattito che è stato promosso e pensato più in chiave di differenziazione tra gli attori della politica nazionale che per calibrare una migliore definizione della nostra politica estera su un'asserita equivicinanza dell'Italia con lo Stato di Israele e con quello palestinese e, più in generale, con il mondo arabo. Il termine «equivicinanza», calato nel contesto drammatico che stiamo vivendo in queste ore, ha alimentato una discussione tra le forze politiche e nelle forze politiche, coinvolgendo anche La Rosa nel Pugno e le sue componenti.
Personalmente, credo non si possa rimanere insensibili rispetto all'attacco che sta subendo lo Stato di Israele da parte di movimenti fondamentalisti che teorizzano la cancellazione di quello Stato e di quella comunità, né penso che il solo eccesso nella legittima difesa che si imputa ad Israele, che ha probabilmente il torto di aver causato la morte di civili e la distruzione di infrastrutture civili, sia sufficiente per non individuare con chiarezza da quale parte stia la ragione. Però, proprio per questo, è nostro dovere attivare gli strumenti della politica per fermare il conflitto e per contribuire al ristabilimento di un quadro rispettoso del diritto internazionale, che già ispira l'azione del Governo e della sua maggioranza rispetto alle scelte che riguardano l'Iraq e l'Afghanistan.
Il Presidente del Consiglio, già da San Pietroburgo, si è reso protagonista dell'inizio di una lodevole mediazione. Auspichiamo che anche in queste ore si intensifichino gli sforzi in questa giusta direzione. Se impegneremo il nostro paese in questa sfida, rendendolo protagonista nella conquista di una frontiera di pace, garantiremo all'Italia una nuova autorevolezza e alla comunità internazionale la conquista di una nuova stagione di stabilità. Alla definizione di questo quadro il centrosinistra darà il proprio leale contributo e La Rosa nel Pugno, per conto suo, si impegnerà a tenere ferma la barra del Governo e della maggioranza su posizioni che non cedano al pacifismo strumentale, impotente e sempre antiamericano, ma, al contrario, che confermino l'alleanza leale con gli Stati Uniti e siano utili a svolgere una politica che possa contribuire a dare un ruolo centrale all'Unione europea (Applausi dei deputati dei gruppi de La Rosa nel Pugno e de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bosi. Ne ha facoltà.

FRANCESCO BOSI. Signor Presidente, per il gruppo dell'UDC è assai semplice intervenire in questa discussione sulle linee generali, per ribadire la nostra completa


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adesione alle missioni all'estero nel loro complesso e, in modo particolare, a quella dell'Afghanistan, sulla quale si è incentrato e si sta incentrando un certo tipo di dibattito che crea sofferenza all'interno della maggioranza di Governo. Credo che l'aver detto da parte del nostro gruppo che avremmo votato favorevolmente al rifinanziamento delle missioni sia stato un atto doveroso. Doveroso nei confronti della comunità internazionale, del sistema delle alleanze alle quali l'Italia partecipa da sempre, delle popolazioni martoriate di quei paesi ed anche, mi sia consentito, delle Forze armate italiane, che in questi anni hanno operato in numerosi teatri nei quali si sono determinate situazioni di grande crisi, pericolosità e sofferenza per intere popolazioni. La presenza dei nostri militari ha destato sincera ammirazione ed apprezzamento in tutto il proscenio internazionale.
Nei cinque anni del Governo Berlusconi ho avuto la responsabilità di sottosegretario per la difesa e, quindi, l'opportunità di recarmi nei luoghi di missione. Credo che solo il volto, le espressioni, la faccia di quelle popolazioni - da quelle dei Balcani a quelle dell'Afghanistan e dell'Iraq - dimostrassero quanto fosse importante, per ragioni umanitarie, la nostra presenza in quei luoghi, per ricostruire, per soccorrere le popolazioni, per ricostituire le condizioni ordinarie della vita, le minime indispensabili condizioni per l'ordinarietà, senza considerare il grandissimo apporto anche in termini ricostruttivi dato dai nostri militari. Mi recai proprio in Afghanistan quando un generale italiano assunse il comando della regione di Herat e vidi quanto avevano fatto, ad esempio, per la ricerca dell'acqua, che non c'era. Vedevamo quelle povere popolazioni cercare l'acqua nelle pozzanghere, filtrarla, con grandi depositi e silos per l'acqua dove tutte le donne andavano a prendersi i propri rifornimenti.
Per non parlare, poi, della salvaguardia rispetto ai rischi del terrorismo, che cinicamente e crudelmente imperversa proprio contro i più deboli ed i più poveri, nelle scuole e negli ospedali, ovunque vi sia una concentrazione di persone.
Dunque, riteniamo - ed abbiamo ritenuto immediatamente - doveroso votare «sì», per coerenza politica e per rispetto a valori importanti ai quali ci riferiamo, primo tra tutti la difesa della dignità della persona umana, anche per affermare che nel nostro paese, un grande paese, con una storia ed una tradizione di solidarietà internazionale, non si può di volta in volta, decidere se dire «sì» o «no» in relazione all'opportunità ed alle convenienze politiche. Bisogna avere la determinazione e la lungimiranza di dire «sì» quando un fatto è giusto e dire «no» quando lo riteniamo, in coscienza, sbagliato.
Dunque, siamo ben lieti che tutta la coalizione della Casa delle libertà voterà «sì» al rifinanziamento di questo complesso di missioni. Siamo, tuttavia, francamente preoccupati, a causa di alcune espressioni che sono state usate anche in quest'aula poc'anzi. Mi riferisco all'intervento dell'onorevole Folena, e mi spiace che egli si sia allontanato subito dopo aver svolto tale intervento. Detto intervento può essere, per alcuni versi, emblematico di un modo singolare di intendere il ruolo internazionale dell'Italia, di intendere il ruolo delle nostre missioni all'estero, ossia che tali missioni non si devono fare quando non ricorrano determinate condizioni sulle quali vi sono pregiudiziali di tipo ideologico nei confronti di questa o di quella potenza, nei confronti di questa o di quella determinata situazione. Ma allora dobbiamo intenderci una volta per tutte: queste missioni servono e debbono essere svolte doverosamente e principalmente quando lo chiedono le organizzazioni internazionali, iniziando dall'ONU, per la salvaguardia della sicurezza delle persone, sempre, nonostante alcuni strani e stravaganti pregiudizi che si levano di volta in volta.
Credo che anche sulla questione irachena, diciamocelo francamente - anzi ridiciamolo una volta per tutte -, sia stata sollevata negli scorsi anni una grande menzogna, successivamente approdata in


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campagna elettorale, da parte della coalizione che si è formata attorno a Prodi: quella per cui quella irachena era una cattiva missione, non perché non obbedisse ad esigenze di carattere umanitario importantissime, clamorose e visibili da tutti, ma perché coloro i quali avevano deciso unilateralmente l'intervento avevano sbagliato e non avrebbero dovuto farlo. Ma cosa c'entra ciò? Cosa c'entra l'Italia? Il Governo italiano mai si è pronunciato a favore dell'intervento unilaterale degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq. Nonostante ciò, abbiamo ritenuto imprescindibile e doveroso intervenire in quelle aree in cui si perpetravano, e si continuano ancora oggi a perpetrare massacri e stragi. Immaginate se in Iraq non vi fossero state le forze della coalizione internazionale, tra le quali anche quelle italiane! Immaginate i contraccolpi, le epidemie, le uccisioni, gli innumerevoli morti tra le fasce più deboli: avrebbe potuto un paese civile, che ha delle risorse, tapparsi, per così dire, gli occhi e non intervenire?
È questa la logica che si vorrebbe sposare? È questa la moralità della politica estera alla quale alcune forze si ispirano? È davvero vergognoso e mi meraviglio che si possano fare e che si siano fatti discorsi così smaccatamente strumentali. Bisognerebbe, invece, comportarsi come noi, che, malgrado siamo all'opposizione, votiamo a favore del finanziamento di tali missioni perché vi crediamo; coloro i quali, invece, sono stati all'opposizione in passato, mistificando intorno alle missioni e così rendendo un cattivo servigio all'immagine dell'Italia, devono ora rendersi conto che sulle grandi questioni della politica estera non si interviene strumentalmente per piccoli disegni di carattere interno e nazionale. Ciò non è degno di una classe dirigente che si voglia chiamare con questo nome.
Siamo orgogliosi di avere partecipato alla missione in Iraq; i nostri militari che hanno perso la vita e che oggi sono ricordati con una lapide sono degli eroi e hanno reso un grande servizio ai valori della pace e della vita, ai valori umanitari della solidarietà internazionale. Sostenere che non si è trattato di una missione proficua equivale al più grave affronto nei riguardi dei familiari i quali, nel dolore e nel vuoto della perdita dei loro cari, si aggrappano, come è giusto che sia, all'importanza della causa per la quale i loro congiunti hanno perso la vita.
Quindi, ora che il Governo e la maggioranza dichiarano, attraverso il disegno di legge e la mozione, di accingersi al ritiro delle nostre forze, gradirei che in questa Assemblea, nel corso del dibattito, si riconoscesse che detto ritiro può avvenire solo grazie a questi sacrifici di vite, che hanno consentito a quelle popolazioni di tornare a votare, di scegliersi il proprio Parlamento ed il proprio Governo, di organizzare le forze interne di polizia per contrastare il terrorismo. Ritengo che ciò debba essere ascritto ad orgoglio delle nostre Forze armate, dell'Italia e del nostro paese; chi non lo riconosce, dimostra di non essere in buona fede.
Sviluppare una convinzione del genere è importante per tutti, al di là dei fini strumentali che possono animare e muovere la politica. Sappiamo che la politica si nutre talvolta anche, purtroppo, di strumentalizzazioni, ma una parte della maggioranza che sostiene questo Governo ha maturato e sta maturando nel tempo tali acquisizioni.
Qualcuno mi dovrebbe poi spiegare - ancora nessuno lo ha fatto - per quale motivo si dovrebbe distinguere così fortemente la legittimazione dell'intervento in Afghanistan da quella della missione in Iraq quando entrambi sono raccomandati non da una ma da varie risoluzioni delle Nazioni Unite. Se qualche paese europeo, per i propri interessi, ha deciso di non partecipare alla missione, dovrebbe esso fornire spiegazioni chiarendo perché non ha partecipato, disattendendo così una ragione importante di solidarietà internazionale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, continuiamo ad ascoltare interventi da parte degli esponenti della maggioranza che davvero lasciano esterrefatti e perplessi, quando si parla, ad esempio, della


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missione Enduring Freedom - ciò è tratteggiato anche nel documento della mozione per la quale è intervenuto efficacemente, ieri sera, l'onorevole Forlani per il nostro gruppo - come fosse un'accezione negativa, che fortunatamente va regredendosi ad una dimensione che impegna unicamente 250 uomini della Marina militare, quasi vergognandosi di questa missione, che invece ha sempre svolto - e continua a svolgere - una funzione importante contro il terrorismo internazionale e contro la strategia di Al Qaeda. Perché mai si manifesta questa sorta di pudore nei confronti della missione denominata Enduring Freedom? Anche su questo io credo che la maggioranza dovrebbe parlare, così come dovrebbe farlo il Ministro della difesa, i sottosegretari e i relatori. Insomma, come si qualifica questa missione e perché viene presentata nella risoluzione quasi come un disegno da contenere in una misura marginale e in fase di esaurimento? Come ci si attrezza ad affrontare eventuali altre necessità per il rafforzamento dei nostri contingenti, ad esempio nell'Afghanistan, quando proprio le Nazioni Unite hanno chiesto ed insistito per un rafforzamento di queste presenze? Cosa pensa e cosa fa l'Italia al riguardo? Ho apprezzato il fatto, ad esempio, che il Presidente del Consiglio abbia dichiarato - come appare oggi su tutti i giornali - l'immediata e pronta disponibilità dell'Italia a creare una sorta di cuscinetto nella striscia di Gaza, per interporsi e scongiurare in qualche modo i fatti che accadono in questi giorni. Ritengo sia giusto aver dato l'immediata disponibilità dell'Italia ad intervenire in una situazione così pesante e così difficile, di crisi internazionale. Come si concilia questo, però, con alcuni interventi secondo i quali soltanto parlare di missioni militari, quasi vi fosse un antimilitarismo marciante, è come individuare il male laddove vi è una presenza militare e laddove una comunità internazionale decida di intervenire sulla scorta di ragioni umanitarie? Allora viene a galla una sorta di ideologia pacifista, per la quale la pace non è il superamento dei momenti più drammatici di lotta armata, delle stragi e dell'ecatombe di persone innocenti per favorire gli interessi dei signori della guerra e di alcuni potenti locali che cercano, con le armi e con il terrorismo, di imporre la loro spietata legge. Il pacifismo è inteso come una sorta di uscita, di disimpegno, nel senso quasi di voler essere lasciati in pace a fumare spinelli, a svolgere riti particolari, senza essere scomodati, a starsene a casa e non pensare a ciò che succede nel mondo. Questo è un tipo di pacifismo; ma a quali ragioni etiche e morali - lo domando al collega Folena - risponde un tipo d'ideologia come questa? Non so dove dobbiamo andare ad attingere.
Chiamiamolo il trionfo dell'egoismo di questi «pacifisti pantofolai», i quali se ne stanno nei propri panni, guardano alla televisione le stragi e quanto di più tremendo e terribile avviene e poi pontificano, dando la colpa a quello o a quell'altro, a seconda delle simpatie ideologiche e politiche. Davvero, se c'è un male, esso è costituito da questo tipo di mentalità.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che noi dovremmo compiere uno sforzo e guardare non solo oltre confine, ma anche in avanti nel tempo. In un grande processo di mondializzazione, nel quale siamo inseriti e nel quale vogliamo e affermiamo di essere inseriti, credo si debba pensare ad un maggior numero di esigenze di intervento laddove maggiormente si soffre e non solo nei paesi arabi. Qualcuno, infatti, ha lumeggiato il sospetto che si intervenga laddove c'è in ballo la partita per il petrolio. Invece, io mi riferisco all'Africa e ad alcuni paesi della regione indiana, nella quale, peraltro, ci sono forze ed elementi di autosufficienza. Mi riferisco anche a tante altre aree di crisi del mondo laddove se un problema c'è o ci potrà essere, in prospettiva, forse è proprio quello della latitanza dei paesi più progrediti, che avrebbero il dovere di intervenire maggiormente.
Questo è il tema che noi ci troviamo di fronte, questa è la sfida dei prossimi decenni per la costruzione di un mondo migliore e più giusto nel quale si possa


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vivere e nel quale soprattutto coloro i quali intendano opprimere altri con la forza debbono sapere che c'è un consesso mondiale che osserva, valuta, decide ed è capace di intervenire e mettere un freno alle violenze, alle prepotenze e alle ragioni del sottosviluppo. Questa, lo ripeto, è la sfida che abbiamo di fronte.
Quindi, se, da un lato, vi è un'idea di solidarietà attiva che si svolge anche attraverso le missioni militari, dall'altro, vi è il rifugiarsi e il crogiolarsi nella propria particolare e piccolissima realtà, nella quale - come affermavo in precedenza - vige un imperativo: lasciateci in pace. Ecco, noi non vogliamo essere lasciati in pace perché quanto avviene ci tocca, ci preme, è cosa che ci appartiene. Abbiamo il dovere morale di fare tutto il possibile, di contribuire, a costo di sacrifici non solo finanziari ma, talvolta, anche in termini di vite umane, ahimé, e di intervenire laddove ce n'è bisogno, laddove si può dare un contributo, anche modesto, all'affermazione dei valori universali (Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e di Alleanza Nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicco. Ne ha facoltà.

ROBERTO ROLANDO NICCO. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, signor viceministro, la Carta delle Nazioni Unite sancisce il diritto di ogni popolo a disporre di se stesso e ad autogovernarsi. Si tratta di un principio sacrosanto e irrinunciabile che, assieme all'articolo 11 della nostra Costituzione, deve costituire la bussola della nostra politica estera.
Essere fedeli a questi principi significa essere contrari a priori a qualsiasi intervento, anche militare? Certamente no. Ci sono situazioni eccezionali in cui ciò è, non solo legittimo, ma doveroso. Siamo ben consapevoli del ruolo fondamentale svolto dall'intervento degli Stati Uniti per spazzare dall'Italia e dall'Europa fascismo e nazismo e saremo loro eternamente grati per il sangue versato sullo nostro suolo.
Venendo alle drammatiche vicende di questi giorni in Medio Oriente, è certo condivisibile la proposta, avanzata ieri dal Presidente Prodi, di costituire nell'ambito dell'ONU una forza internazionale di interposizione.
Ma questo era il caso dell'Iraq. Una guerra dichiarata dal Presidente Bush, con l'obiettivo - si disse - di individuare quelle armi di distruzione di massa del regime iracheno, che avrebbero rappresentato un pericolo, una minaccia per l'umanità. Ricordiamo l'immagine del Segretario di Stato americano Powell, che brandiva una provetta di antrace al Consiglio di sicurezza dell'ONU. E quando, nonostante tutti gli sforzi, quelle armi non furono trovate, fu poi lo stesso Powell a dover ammettere che quella era stata una delle pagine meno brillanti delle sua carriera politica. Venuto meno quell'alibi, divenne allora una guerra per la democrazia. Motivazione credibile?
Come non ricordare che troppi paesi sono stati incatenati a regimi dittatoriali e sanguinari non meno di quello di Saddam, per intervento diretto o indiretto proprio degli Stati Uniti? È storia non troppo remota, dal Cile di Pinochet all'Argentina dei generali, dai contras in Nicaragua a El Salvador e a troppe altre vicende in quello che gli Stati Uniti considerano il cortile di casa. Evidentemente, in quei casi, poco importava portare la democrazia. E lo stesso Saddam non era stato ampiamente foraggiato quando serviva in funzione antiraniana?
Si è anche affermato che l'intervento aveva carattere umanitario. Recentemente, si sono registrati altri terribili conflitti; ad esempio, quello spaventoso tra gli Utu e i Tutsi, con 800 mila morti, in maggior parte donne e bambini. Morti che non interessavano a nessuno, scomparsi - semmai vi sono entrati - nell'agenda delle grandi potenze.
Si è parlato inoltre di una guerra per debellare il terrorismo. In realtà, mai come adesso, il terrorismo è stato alimentato, con l'Europa entrata direttamente nel mirino della follia omicida del fanatismo islamico, in attesa di sapere se, dopo Madrid e Londra, altri paesi dovranno contare i propri morti e i propri feriti.


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Ben altre sono le strade per debellare il terrorismo, per prosciugarne il terreno di coltura ed in ciò vi è un ruolo politico che l'Europa avrebbe dovuto svolgere e che auspichiamo almeno in futuro sappia svolgere. Altre erano quindi le motivazioni di quel di conflitto, prima tra tutte il controllo delle riserve petrolifere, delle quali quelle irachene - stimate in 112 miliardi di barili di greggio - costituiscono un appetibile boccone.
Dopo oltre tre anni di guerra, la realtà irachena è sotto gli occhi del mondo: un paese sull'orlo della guerra civile, anzi con una guerra civile in corso, caratterizzata da un susseguirsi di stragi e ritorsioni che quasi non fanno più notizia, come quella di ieri a Mahmoudiya, con i suoi 50 morti confinati in poche righe, quasi scomparsi sui media di oggi.
Un paese, l'Iraq, diviso e devastato, nel quale la stragrande maggioranza delle vittime è costituita non da terroristi, ma da civili, da donne e bambini. Siamo di fronte al fallimento di una strategia sbagliata, con un prezzo altissimo anche tra le truppe di Antica Babilonia. In guerra si spara e si muore da entrambe le parti ed accorgersene solo di fronte alle bare dei propri caduti, con un profluvio di retorica sull'onore patrio, è un esercizio di insopportabile ipocrisia.
Dunque, è giusta e condivisibile, anche se tardiva, la decisione di ritirarsi dall'Iraq contenuta nell'articolo 2 del disegno di legge in esame.
Certo, qualche seria riflessione andrà fatta, nei tempi e modi opportuni, anche sulla situazione dell'Afghanistan. Essa è indubbiamente diversa sia nelle sue premesse di legittimità sia nella sua evoluzione politica; tuttavia, credo occorra chiedersi se, anche in questo caso, gli obiettivi indicati siano stati raggiunti o meno.
Quattro anni di occupazione militare straniera non sono serviti a rafforzare l'autorità del Governo Kharzai, che continua a controllare un'area assai limitata di un paese in cui ancora dominano i signori della guerra e dell'oppio ed in cui cresce l'ostilità nei confronti della presenza militare straniera. Proprio in questo periodo, assistiamo ad una drammatica ripresa dei combattimenti e, ancora una volta, al tragico coinvolgimento di innocenti - donne e bambini, vittime, in troppi casi, delle bombe assai poco intelligenti degli aerei statunitensi -, che non possiamo non rifiutarci seriamente di continuare a considerare effetto collaterale del conflitto, perché di vite umane spezzate si tratta: altro, tutt'altro è una politica di pace! Sulla distanza abissale tra gli obiettivi proclamati e la realtà sul territorio occorrerà interrogarci - tutti - al di là di posizioni preconcette e di schieramenti precostituiti.
Pieno accordo, dunque, sul punto della mozione Sereni ed altri n. 1-00014 che impegna il Governo a promuovere nelle sedi internazionali, in special modo nell'ambito delle Nazioni Unite e della NATO, una verifica dell'impegno e della presenza internazionale in Afghanistan volta a valutare risultati ed efficacia delle missioni.
Ciò non significa affatto essere indulgenti, e tanto meno conniventi, con i talebani e con il loro esecrabile regime, allo stesso modo in cui considerare sbagliata la guerra in Iraq non significa accettare la sanguinaria dittatura di Saddam: siamo contro le dittature - tutte, sempre e ovunque -, così come siamo contro ogni tipo di fondamentalismo e di tecnocrazia, sempre e ovunque, e non a seconda degli interessi geopolitici di qualcuno.
Il mondo a cui guardiamo è un mondo in cui non vi sia sfoggio muscolare, ma sia fondamentale il dialogo tra culture diverse - l'opposto dello scontro tra civiltà! -, il che non esclude affatto la fermezza e la difesa, intransigente anche, di quelle che riteniamo essere le nostre ragioni, dei principi, per noi inderogabili, della civile convivenza tra individui e popoli e dei fondamenti della democrazia, in un contesto internazionale multipolare in cui ogni popolo abbia uguali diritti e pari dignità.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Francescato. Ne ha facoltà.


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GRAZIA FRANCESCATO. Signor Presidente, signor viceministro, colleghi, i Verdi si preparano a dire «sì» al disegno di legge sulla partecipazione italiana alle missioni internazionali; o, meglio, si preparano a dire una gamma di «sì», di diversa intensità e gradazione: dal «sì» convinto, e pieno di sollievo, che saluta la sospirata fine della presenza di Antica Babilonia in Iraq, al «sì» tormentato ed inquieto, quasi al confine con il «no», che accoglie il mantenimento della nostra missione in Afghanistan.
Su quest'ultimo punto, il più spinoso, mi soffermerò in seguito. Ora, desidero cominciare il mio intervento riaffermando la vitale importanza del nostro ritiro dall'Iraq, scelta che, in questi giorni, appare un po' sbiadita sotto l'urto della vampata di guerra riaccesa in Medio Oriente, che sembra ricacciare in secondo piano le drammatiche vicende irachene e ridurre il rientro ad un fatto scontato, ad una sorta di déjà vu: non è così! E noi Verdi, che questo rientro abbiamo voluto e perseguito con instancabile determinazione, insieme alla costellazione dei popoli della pace ed alle forze politiche consonanti sul tema, salutiamo con profondo sollievo il cambiamento di segno della nostra missione irachena.
Tale missione sancisce una svolta storica, una forte discontinuità, volendo usare il codice politico oggi in voga, rispetto alla fase precedente, per motivi di fondo, perché il ritiro sancisce il riconoscimento, scritto a chiare lettere nel nostro programma comune - da cui cito -, che la guerra in Iraq è stato un grave errore, che non ha risolto, ma complicato, il problema della sicurezza, ridando anzi fiato alle azioni terroristiche; riconoscimento ormai diffuso, tanto che, non un verde iperpacifista, non un no global esagitato, ma il portavoce dei giudici europei antiterrorismo riuniti a Firenze due mesi fa, ha segnalato che, dal 2003, il reclutamento di volontari per la jihad è cresciuto del 30 per cento; per questo motivo, la guerra in Iraq deve essere considerata «il migliore aiuto alla propaganda dell'ideologia qaedista».
L'altro motivo per cui il ritiro dei nostri soldati segna un passaggio chiave è che sigla il ritorno della nostra politica estera dentro l'alveo del multilateralismo, riaffermandone il valore come metodo per la soluzione concordata dei conflitti e per rafforzare il ruolo delle Nazioni Unite, restituendo loro una autorevolezza di cui hanno disperatamente bisogno.
Come Verdi, non possiamo però trascurare l'importanza di altre missioni, purtroppo, più lontane dai riflettori dei media, che avrebbero necessità di una maggiore attenzione da parte di tutti noi. Penso al genocidio troppo a lungo dimenticato del Darfur, in Sudan, tragedia che noi, Verdi europei, abbiamo segnalato con costante impegno anche grazie alla presenza nelle file dei negoziatori ONU, che hanno tessuto il fragile inizio di pace tra le opposte fazioni, del nostro portavoce europeo finlandese, Pekka Haavisto, lo stesso, peraltro e non a caso, che ha avuto un ruolo importante nella vicenda dell'uranio impoverito. È stato tra i primi a denunciare all'opinione pubblica internazionale questo problema.
Quindi, con soddisfazione ritroviamo nel disegno di legge l'impegno a proseguire lo studio epidemiologico, per accertare i livelli di uranio e di altri elementi potenzialmente tossici che espongono a seri rischi per la salute il personale militare impiegato nelle missioni, i civili dei luoghi contaminati e l'ambiente, che paga anch'esso un duro prezzo quasi mai preso in considerazione dalla follia distruttiva della guerra.
Colgo l'occasione per segnalare che, accanto all'uranio, gli esperti puntano sempre di più il dito, con sempre maggiore preoccupazione, sull'avanzata drammatica delle nanopatologie, malattie causate dall'immensa quantità di particelle infinitesimali che le esplosioni provocano. I militari si ammalano, spesso generano figli malformati, proprio perché inalano polveri sottili e sottilissime che ogni esplosione ad alta temperatura genera (ricordo che l'uranio è responsabile di temperature superiori ai tremila gradi). Quindi, si volatizzano insieme bersagli e proiettili, una


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sorta di orrenda nemesi che colpisce chi ha colpito il bersaglio e, purtroppo, contamina suolo, erba, l'intera catena alimentare, dunque, esseri umani ed ambiente. Un problema ancora sottovalutato che occorre, invece, sempre più denunciare come tremendo effetto collaterale nei teatri di guerra.
Ma vengo ora alla questione per noi più spinosa, all'Afghanistan, quindi al nostro «sì» più sofferto, più vacillante, per qualcuno di noi in bilico sul «no». Non può d'altronde stupire questa sofferenza in un partito, come quello dei Verdi, che, non a caso, ha l'arcobaleno di pace sulla sua bandiera, che ha il pacifismo e la non violenza nel suo DNA, che ha fatto della pace, insieme all'ambiente e ai diritti, una triade di tematiche che sono alla base del suo agire politico, della sua stessa ragione d'essere.
Abbiamo - lo sapete - detto «no» all'intervento in Afghanistan fin dall'inizio. Questo «no» lo abbiamo ripetuto otto volte. Se oggi diciamo il più faticato dei nostri «sì» non è solo per senso di responsabilità verso l'Unione, c'è anche questo ovviamente, ma perché non vogliamo e non possiamo sottovalutare i passi avanti contenuti nella mozione che accompagna il disegno di legge, su cui poi si soffermeranno i miei amici e colleghi Verdi, e che per noi costituiscono un punto non d'arrivo, ma di partenza verso la costruzione di un processo di pace e di democrazia in quel disastrato paese; un punto di partenza verso una exit strategy, una via d'uscita, per ora solo larvatamente evocata, ma che dovrà diventare un orizzonte verso cui procedere, non tanto e non soltanto per nostra scelta, ma perché la forza degli eventi lo imporrà in tempi probabilmente più brevi del previsto.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI (ore 11,10)

GRAZIA FRANCESCATO. Il fattore tempo sarà sempre più cruciale nella vicenda afgana. La situazione di quel paese si sta deteriorando sempre più velocemente. Scelgo un indicatore fra i tanti, uno dei più rilevanti, perché mette a rischio la sicurezza non solo dei civili, ma anche dei bambini e soprattutto delle bambine, che sono le vere martiri di questa cultura che ha fatto della misoginia uno dei baluardi: il rapporto recentissimo di Human Rights Watch, illustrato dalla presidente dell'AIDOS, Daniela Colombo, alle Commissioni competenti, intitolato «Lessons in Terror. Attacks on Education in Afghanistan», che mette in luce il tragico fenomeno degli assalti alle scuole, agli insegnanti e agli studenti, soprattutto di sesso femminile, vista l'imperante misoginia della cultura afghana, che permane anche dopo la cacciata dei talebani.
Parliamo di 204 attacchi in 18 mesi, con 17 educatori assassinati, specialmente nel sud e nel sud-est, che sono i luoghi più piagati dagli scontri. Questi attacchi hanno registrato un netto incremento nella prima parte del 2006 rispetto al 2005.
Minacce, insulti, aggressioni per mano dei talebani, dei signori della guerra e dei gruppi criminali legati al narcotraffico sono l'amarissimo pane quotidiano per i bambini e, soprattutto, per le bambine afghane. Il risultato è il seguente: mentre nel 2005 risultavano iscritti nelle scuole di ogni ordine e grado 5,2 milioni di studenti (le ragazze sempre in proporzione minore), Human Rights Watch indica oggi il raggiungimento di un plateau. Non so solo: prevede un ritorno indietro e, quindi, una netta diminuzione del numero degli iscritti entro il 2008. Ciò vuol dire che intere giovani generazioni troveranno sbarrate le porte della scuola e, quindi, del futuro.
L'insicurezza crescente che attanaglia non solo scolari e studenti, ma tutta la popolazione afghana impone alla comunità internazionale una rapida rilettura del concetto stesso di sicurezza in Afghanistan, oggi inteso in senso strettamente militare (numero di soldati dispiegati, dislocazione geografica e così via). Tale concetto dovrebbe essere rimodulato, in risposta alle esigenze dei cittadini, in primis delle nuove generazioni, e mirato a garantire


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il difficile percorso di ricostruzione, institution e capacity building, stabilizzazione e pace.
Non è solo la strategia di sicurezza, bensì tutta la missione afghana ad avere urgente bisogno di essere ridisegnata lungo queste linee e con grande celerità prima che la situazione si deteriori ancora di più. Basti pensare al boom del narcotraffico legato, come sappiamo, ai signori della guerra. Quest'anno ci si attende il raccolto di oppio più consistente della storia dell'Afghanistan, con un profitto vertiginoso di 3 miliardi di dollari: tutto combustibile che andrà ad alimentare il motore dei conflitti.
La nostra posizione faticata, tormentata e inquieta si pone, dunque, nel solco di questa verifica considerata - lo ripeto - non un punto d'arrivo, ma un punto di partenza (Applausi dei deputati del gruppo dei Verdi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Del Bue. Ne ha facoltà.

MAURO DEL BUE. Signor Presidente, signor viceministro degli affari esteri, mi atterrò alle questioni politiche che, a mio giudizio, sono essenziali nel dibattito sul disegno di legge presentato dal Governo per il finanziamento delle missioni italiane all'estero.
La prima osservazione, che può apparire ad un osservatore distratto quasi un paradosso, è che questo disegno di legge ha riscontrato, senza alcuna obiezione, il favore delle minoranze e ha posto, invece, in difficoltà la stessa maggioranza, tanto che - lo ha riferito correttamente prima di me l'onorevole Monaco - essa ha avvertito il bisogno di presentare una mozione politica di accompagnamento. Tale mozione, tra le pieghe - anche questo è stato ricordato dall'onorevole Bosi dell'UDC - introduce una sottile distinzione, per quanto riguarda l'Afghanistan, tra l'operazione Enduring freedom e la missione ISAF. Della prima si propone, sia pure in prospettiva, il superamento, anche se è prevista una presenza italiana navale nel Golfo arabico; della seconda non si parla affatto in termini di exit strategy (strategia di uscita).
Penso che la difficoltà di comporre una posizione di politica estera da parte della maggioranza non sia di oggi, ma risalga, da un lato, ai diversi atteggiamenti assunti in questa aula dalle diverse forze che la compongono a proposito delle missioni italiane all'estero e, in particolare, di quella in Afghanistan e, dall'altro lato, al momento dell'elaborazione del programma dell'Unione all'indomani del quale si svilupparono polemiche proprio sui temi delle missioni italiane all'estero. Si pensava, infatti, di aver trovato un accordo su due punti: l'Italia sarebbe andata via dall'Iraq, ma avrebbe mantenuto la propria partecipazione alle altre missioni all'estero. Evidentemente, tale accordo non era chiaro, oppure non era stato sufficientemente chiarito.
Un Governo, signor Presidente e signor viceministro degli affari esteri, deve avere una politica estera condivisa, soprattutto oggi. Vorrei fosse ben chiaro che, quando affermo «oggi», parlo di un momento storico iniziato con quell'attentato alle Torri gemelle di New York, l'11 settembre 2001, che ha cambiato il mondo, così come il 1989 cambiò l'Europa.
La lotta al terrorismo di matrice islamica, che ha proclamato la guerra santa contro l'Occidente miscredente e crociato, ha quindi imposto una assunzione chiara di responsabilità a tutti i paesi occidentali, nonché ai paesi arabi moderati, i quali rappresentano il primo bersaglio della stessa offensiva terroristica. Essa, infatti, mira ad unificare la grande nazione araba contro l'Occidente.
Ebbene, questa nuova fase richiede una globalizzazione degli interventi e, in una certa misura, anche un'interconnessione tra le operazioni svolte in Iraq, quelle in corso in Medio Oriente e quelle intervenute in Afghanistan ad alcuni mesi di distanza dall'attentato di New York. Vorrei evidenziare che quei mesi sono serviti per formare una coalizione antiterroristica capace di coinvolgere, per l'appunto, sia l'insieme delle democrazie occidentali, sia larga parte del mondo arabo. Desidero


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sottolineare, altresì, che le citate operazioni si sono svolte nel quadro delle regole della comunità internazionale, attraverso deliberazioni assunte dall'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nella mozione di accompagnamento al provvedimento in esame presentata dai gruppi della maggioranza, discussa sulle sue linee generali nella seduta di ieri, si sottolinea che tutte le operazioni devono avvenire sotto l'egida dell'ONU, ed io concordo con tale principio.
Nel corso della seduta di ieri ho ricordato due precedenti in questa materia. Il primo è stato la guerra nel Golfo del 1991, quando, nonostante le deliberazioni dell'ONU prevedessero la possibilità di ricorrere all'uso della forza per liberare il Kuwait, l'allora PCI (non ancora PDS) preferì esprimersi contro la partecipazione italiana e cavalcare i movimenti di protesta sorti in tutta Italia.
Ho altresì menzionato, all'opposto, la posizione assunta di fronte alla guerra in Kosovo e in Serbia, la quale si è svolta attraverso la NATO, senza tuttavia ricevere la legittimazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Mi riferisco, in altri termini, ai bombardamenti che l'allora Governo di centrosinistra, presieduto dall'onorevole D'Alema, ha compiuto su Belgrado e in Kosovo, nonché alle posizioni schizofreniche assunte da alcuni personaggi che facevano parte di tale Esecutivo. Ricordo, infatti, che essi - penso all'onorevole Diliberto ed al senatore Cossutta - erano ad un tempo favorevoli alla guerra, ma, contemporaneamente, manifestavano in Serbia a favore di coloro contro i quali il loro Governo stava agendo militarmente.
Pertanto, se vi è un punto della mozione della maggioranza che posso condividere, è proprio quello relativo al ruolo dell'ONU. Di fronte alla nuova offensiva terroristica, infatti, la globalizzazione degli interventi contro di essa deve avvenire sulla base di precise regole, non al di fuori di esse. Tali regole sono, a mio giudizio, quelle dettate dall'Organizzazione delle Nazioni Unite.
È questo il motivo per cui credo che abbiamo fatto bene a non partecipare direttamente alla guerra unilaterale che Stati Uniti d'America e Gran Bretagna hanno posto in essere contro l'Iraq e ad inviare, invece, nell'ambito delle prescrizioni, dei dettati e dei limiti stabiliti dalle risoluzioni dell'ONU, un contingente di pace, sia pur militare.
Ma il punto è che una parte della maggioranza non è neppure d'accordo sul fatto di intraprendere iniziative sancite da risoluzioni dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Lo ha affermato molto chiaramente ieri, in un intervento al quale ho dato atto di chiarezza politica ed onestà intellettuale, l'onorevole Mantovani, il quale ha detto: non tutte le iniziative prescritte dall'ONU noi le possiamo condividere.
Quindi la maggioranza si divide anche su questo. Si divide non sull'eventualità di intraprendere iniziative fuori dall'ONU, ma anche sulle iniziative da svolgere all'interno dell'ONU, perché una parte le ritiene in sé e per sé regolari, legittime, necessarie per il nostro paese, mentre un'altra parte non sempre le ritiene tali. Leggendo i giornali di quest'oggi, l'onorevole Letta ha affermato proprio sul tema della politica estera che occorre un allargamento della maggioranza. Anche perché questa maggioranza rischia di essere da un lato schiava degli atteggiamenti - a volte si può dire anche degli infortuni - dei senatori a vita, dall'altro schiava dei cosiddetti dissidenti dell'estrema sinistra, i quali potrebbero essere appunto determinanti in una delle due Camere del Parlamento della Repubblica italiana.
Un allargamento della maggioranza a pochi mesi dalla costituzione di un Governo è certamente un'ammissione di debolezza politica. Pur tuttavia, sui temi della politica estera, noi come Nuovo PSI, che abbiamo costituito un gruppo autonomo con la Democrazia Cristiana, ma anche l'UDC, a più riprese abbiamo detto che eravamo disponibili, a prescindere dalla decisione della Casa delle libertà, a votare a favore di un provvedimento di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero, in particolare di quella dell'Afghanistan. Lo avevamo detto prima, a prescindere


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dalle decisioni della minoranza e lo diciamo oggi a fronte di una decisione, che a mio giudizio è responsabile e saggia, presa dall'insieme delle forze di minoranza.
Il Presidente della Repubblica, senatore a vita, Napolitano, ha fatto recentemente una dichiarazione, sulla cui lucidità e chiarezza non è dato a nessuno dubitare. Egli ha detto: alcuni piccoli gruppi mostrano ostilità verso gli Stati Uniti e la NATO in Italia. Questi piccoli gruppi in realtà producono una regressione di impostazione politica e culturale all'insieme della sinistra italiana. Altro che Partito Comunista! Altro che Berlinguer, che già negli anni Settanta definiva la NATO un ombrello, sotto il quale poter riparare l'indipendenza nazionale. Siamo alla politica comunista degli anni Cinquanta, coniugata con un movimentismo di stampo sessantottesco.
Questa è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti e, facendo i conti con essa, da un lato emerge la preoccupazione, che queste forze hanno, di staccarsi da quei movimenti di protesta alla Gino Strada, che in qualche misura essi stessi hanno contribuito a creare, dall'altro lato devono fare i conti con un gioco allo scavalco dei due partiti dell'estrema sinistra, che pare lo sport preferito in questi ultimi tempi dall'onorevole Diliberto e dall'onorevole Rizzo! Questo ultimo si erge addirittura a nuovo sacerdote dell'ortodossia marxista, sconfessando e ritirando la patente di marxista al Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, al quale tutto si può imputare tranne certamente l'accusa di essere un nuovo vate di una nuova ortodossia! Piuttosto, diciamo che Bertinotti è sensibile ai movimenti di protesta ed anche ad un certo estremismo verbale, ma non riesco ad identificarlo come un nuovo cultore di una nuova ortodossia ideologica, che invece pare di moda all'interno di altri schieramenti politici.
Dovremmo un po' sprovincializzarci, evitare questa logica - in questo l'onorevole Monaco ha perfettamente ragione - di bottega, di nazionalizzare i grandi problemi di politica estera e di renderli oggetto di speculazione politica da parte delle diverse componenti il Parlamento della Repubblica italiana.
Il senatore Napolitano, Presidente della Repubblica, nella sua offensiva contro i gruppi antiamericani e anti NATO, aggiunge poi: i voti decisivi dell'opposizione sarebbero un grave segno di debolezza del centrosinistra, che non rimarrebbe senza conseguenze. Tra l'altro, a mio giudizio, la parola «conseguenze» rimanda, inevitabilmente, alla parola crisi di Governo. È evidente che una maggioranza non autosufficiente su un tema di politica estera fondamentale come questo non potrebbe che entrare in crisi politica ed il Governo dovrebbe, conseguentemente, rassegnare le dimissioni.
Prima di Napolitano, D'Alema aveva detto, più o meno, le stesse cose, minacciando le dimissioni da ministro degli affari esteri qualora la sua maggioranza non avesse approvato la politica indicata da egli stesso, in particolare la conferma della missione in Afghanistan; ciò, anche perché, come ha ricordato proprio ieri lo stesso D'Alema nel corso di una pubblica manifestazione, essere contro la presenza militare italiana in Afghanistan significa essere contro la NATO, l'ONU e significa portare l'Italia in una terra di nessuno.
In ogni caso, al di là delle opinioni, delle esplicite divergenze presenti all'interno della maggioranza, di questi sei-sette-otto possibili dissidenti, mi pare ancor più grave il dissenso occulto, l'accettazione per disciplina di partito, il voto per non far cadere il Governo e per non cedere alle ragioni dell'opposizione, il dire «sì» - come qualcuno ha detto - per limitare il danno (vorrei sapere se la missione in Afghanistan può essere considerata un danno), oppure il dire «sì» nel senso dell'onorevole Diliberto, il quale ha affermato: «... anche se eravamo, siamo e saremo contrari alla missione in Afghanistan». Ciò, rende manifesta nei termini politici - lo ricordavo ieri sera - una sorta di figura retorica dell'ossimoro, cioè la conciliabilità di due termini opposti tra loro. Siamo contrari e favorevoli: non mi pare il massimo della chiarezza politica!


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Poi vi sono i «sì» graduati, pronunciati in precedenza dall'onorevole Francescato con molta delicatezza e coerenza rispetto alle sue impostazioni politiche. Il primo «sì» è un «no» alla missione in Iraq, poi vi sono dei «sì» meno convinti, come quello alla prosecuzione della missione in Afghanistan. Insomma, una divisione esplicita, o anche sotterranea, che mette in profonda difficoltà il Governo del nostro paese in un momento particolare come quello che stiamo vivendo su un tema fondamentale di politica estera.
Recentemente la politica estera è stata teatro di una nuova grave tragedia in Medio Oriente, dovuta all'aggressione - da sud, attraverso il movimento Hamas, e da nord, attraverso Hezbollah - allo Stato di Israele.
Ieri sera ho partecipato ad una manifestazione a favore del popolo e dello Stato d'Israele assieme a molti deputati del centrodestra e del centrosinistra, e voglio portare in Parlamento quell'ansia di libertà e quel desiderio di vita ed indipendenza che la popolazione ebraica, dopo tanti anni di martirio, pretende per sé: pace, indipendenza, sicurezza.
Il Governo della Repubblica italiana deve dire con chiarezza che, a fronte di un'aggressione, sta dalla parte dell'aggredito, e l'aggressore è il terrorismo internazionale che attraverso Hamas e gli Hezbollah vuole oggi, come nel 1967, la distruzione dello Stato d'Israele. Questa è, oggi, la posta in gioco, che ha richiamato, in una lucida intervista sul Corriere della Sera, proprio ieri, il ministro Amato.
Dobbiamo esser chiari su ciò, dopodiché si potrà discutere sulla proporzione o sulla sproporzione della reazione israeliana all'aggressione. Anche su questo, però, chiedo chiarezza. Personalmente, sono per l'equivicinanza tra il diritto di Israele ad avere la vita e la sicurezza e il diritto sacrosanto del popolo palestinese ad avere una patria. Ma non sono e non sarò mai per l'equivicinanza tra lo Stato democratico e libero di Israele - dentro il quale vi sono partiti e tendenze diverse che si misurano anche in conflitto tra loro e al governo del quale vi è una coalizione composta dal partito di Kadima (fondato dall'ex premier Sharon, che ha liberato in modo unilaterale la striscia di Gaza, producendo anche gravi drammi ai coloni che ha fatto evacuare, e guidato da Olmert, oggi suo successore), che governa il paese assieme al leader storico della sinistra laburista israeliana, Simon Peres - i terroristi Hezbollah, nei confronti dei quali una risoluzione dell'ONU pretende il disarmo, ancora non avvenuto, e che hanno una libera rappresentanza nel Parlamento del Libano, e Hamas, che propone ancora tra i suoi principali punti l'annientamento e la distruzione dello Stato d'Israele.
La comunità internazionale intera, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, aveva chiesto un gesto di disponibilità: il riconoscimento dello Stato di Israele, che non è avvenuto. Hamas si configura, alle costole di Israele, come una tendenza di guerra pericolosissima per l'incolumità degli abitanti israeliani e per la salvaguardia dell'indipendenza e dell'integrità nazionale di questo Stato.
Si è parlato di «sproporzione», ma sproporzione rispetto a cosa bisognerebbe specificare. Se vi è stata una reazione sproporzionata di Israele rispetto all'attacco micidiale che ha subito, bisognerebbe anche chiarire se la sproporzione della reazione sia rapportata all'attacco, cioè se Israele abbia esagerato cercando di individuare la presenza degli Hezbollah in Libano e di colpire obiettivi militari (purtroppo, come si sa, non esistono bombe così «intelligenti» e «umane» da evitare di compiere, a volte, drammatici errori e di colpire anche i civili) in relazione all'attacco che la stessa Israele ha subito. Bisognerebbe capire bene cosa significhi «sproporzione», visto che il termine è stato usato più volte.
Signor Presidente, signor viceministro degli affari esteri, colleghi parlamentari, siamo qui per sostenere qualsiasi azione di mediazione e di pace del conflitto che insanguina il Medio Oriente. Kofi Annan propone, oggi, un'interposizione militare sotto l'egida dell'ONU, e sembra che il Presidente Prodi si sia dimostrato disponibile ad accogliere la proposta e a farvi


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partecipare anche un contingente italiano. Non so se le azioni militari per un antimilitarista ed un pacifista possano essere «buone» o «cattive» a seconda delle condizioni. Mi piacerebbe ascoltare su tale proposta opinioni da parte dei componenti dell'estrema sinistra del Parlamento.
Mi piacerebbe anche sapere perché ritengono una partecipazione militare italiana ad un'azione all'interno del Libano o della striscia di Gaza giusta, mentre ritengono la partecipazione alla missione di pace in Afghanistan una scelta sbagliata o un danno che deve essere limitato (o una prospettiva da cui poter uscire). Trovo in tutto questo, francamente, una certa contraddizione nei principi. Ad ogni modo, se sarà utile, daremo il nostro appoggio, perché nulla sia risparmiato per tentare di salvare la pace in quella martoriata zona del mondo, per cercare di difendere il diritto alla vita di tutti i cittadini di Israele, del Libano, della Palestina, per fare in modo che riprenda il processo di pace bruscamente interrotto dall'ascesa al potere di Hamas in Palestina e di Ahmadinejad in Iran, nonché dalla ripresa e dall'armamento degli Hezbollah grazie alla Siria e all'Iran, in un teatro che diventa sempre più micidiale ed esplosivo: il Medio Oriente. Diciamo «sì», dunque, a qualsiasi missione di pace che possa essere utile per scongiurare i drammi e le tragedie della guerra, «sì» alle missioni di pace italiane in Afghanistan e ovunque nel mondo si svolgano attraverso il consenso e le regole della comunità internazionale. Diamo il consenso a qualsiasi azione il Governo volesse intraprendere in questa direzione, ma chiediamo chiarezza allo stesso sui temi della politica estera e al Parlamento sulla politica estera di un grande paese come l'Italia.
L'Italia è un paese che in questo dopoguerra non ha mai condotto azioni di guerra nei confronti di alcuno, avendo partecipato sempre e soltanto ad azioni di mediazione e di pace. Oggi vorremmo che questa tradizione italiana, che non è stata - così come qualcuno ha detto - oscurata dal Governo Berlusconi, continuasse. Penso che Berlusconi abbia ereditato e sviluppato logicamente una politica estera coerente per il nostro paese. Riteniamo che questa politica estera debba continuare oggi, sia pure con un Governo diverso, il Governo Prodi dell'Unione, perché qualsiasi strappo, qualsiasi discontinuità - visto che si cita spesso questo sostantivo come se fosse positivo - in politica estera oggi non potrebbe che arrecare danno al nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo della Democrazia Cristiana-Partito Socialista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giuditta. Ne ha facoltà.

PASQUALINO GIUDITTA. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, i Popolari-Udeur, come già più volte preannunciato, partecipano alla discussione riguardante l'impegno italiano nelle missioni internazionali condividendo in pieno nel merito il provvedimento presentato dal Governo, ritenendo necessario che l'Italia non dimostri alcun disimpegno negli equilibri con i paesi atlantici per contribuire alla sicurezza internazionale sotto l'egida dell'ONU e nel pieno rispetto della nostra Costituzione (così come citato espressamente dall'articolo 11 della stessa). È assolutamente inconcepibile, secondo noi, intraprendere altre strade che ci allontanino dall'impegno del nostro paese a sostenere le missioni all'interno dello scenario internazionale.
Cari colleghi, il disegno di legge in esame - vorrei ricordarlo - si occupa non solo di Iraq e di Afghanistan bensì dell'insieme delle missioni italiane nel mondo, ispirate a prevenire i conflitti, a dare un contributo per la realizzazione della sicurezza internazionale, per la tutela dei diritti umani, per la costruzione della democrazia soprattutto, mirando anche al ripristino delle condizioni di pace e di sviluppo economico in quelle realtà non pacifiche.
Inoltre è necessario sottolineare come, sempre all'interno di questo provvedimento, sia previsto, entro l'autunno, il rientro delle nostre truppe che partecipano


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alla missione internazionale in Iraq, che dovrà avvenire con attenzione costante e con modalità che non determinino vuoti pericolosi di responsabilità e di potere.
Le norme presenti nel provvedimento hanno un duplice contenuto: da un lato, definiscono lo stato giuridico, il trattamento economico e la giurisdizione da applicare al personale inviato nelle missioni internazionali, dall'altro, autorizzano la partecipazione delle nostre Forze armate alle missioni, definendone lo status internazionale ed i compiti principali.
Entrando ancora più nel merito, ovvero toccando i profili più strettamente normativi, il provvedimento prevede la proroga del termine della partecipazione italiana alle missioni internazionali delle Forze armate e delle Forze di polizia, individuando per ciascuna di essa il costo previsto ed il termine temporale di differimento. Peraltro, all'interno del testo è prevista anche l'autorizzazione allo svolgimento di altre missioni internazionali. Per quanto riguarda le due missioni più importanti, l'Iraq e l'Afghanistan, come già anticipato, si prevede nel primo caso un disimpegno militare già nell'autunno prossimo e si autorizza una spesa di 129 milioni di euro contro i 190 milioni autorizzati nell'ultima proroga prevista dal precedente Governo. È prevista inoltre - profilo importantissimo, per chi ben conosce il valore e i compiti altamente edificanti ed importanti svolti dai nostri militari in missione - la prosecuzione della partecipazione di esperti militari italiani alla riorganizzazione dei Ministeri della difesa e dell'interno iracheni, nonché alle attività di formazione e addestramento del personale delle Forze armate.
Nel caso dell'Afghanistan, non si fa altro che autorizzare fino alla fine dell'anno la spesa necessaria per la proroga della partecipazione di personale militare alla missione internazionale ISAF, così come per la missione in Iraq è prevista una consistente riduzione del costo totale della stessa, essendo autorizzata la spesa di 136 milioni di euro.
È d'obbligo comunque ricordare che negli ultimi anni abbiamo partecipato con contingenti militari ad azioni di pace molto apprezzate, in vari punti caldi del pianeta, come ad esempio il Libano, l'Albania, il Kosovo e il Mozambico.
Tornando all'Afghanistan, colleghi, vorrei sottolineare l'importanza di una missione iniziata il 10 gennaio del 2002. L'ISAF, istituita a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha autorizzato la costituzione di una forza di intervento internazionale con il compito di garantire nell'area di Kabul un ambiente sicuro a tutela dell'autorità provvisoria afghana.
Bene, colleghi, ho voluto prima sottolineare l'importanza del tema ed attirare l'attenzione, perché purtroppo in questi giorni si è assistito, secondo noi, a troppi distinguo nella vicenda della nostra partecipazione alla missione in questione, che peraltro non prevede assolutamente in alcun modo la partecipazione dei militari italiani ad azioni di guerra o presunte tali. Lo ricordo, i Popolari-Udeur non approverebbero mai un provvedimento in tal senso. L'invio di contingenti militari all'estero non è da ritenersi un'azione militare, ma è in primis un'azione politica nella complessità dei suoi riflessi internazionali, così come credo che in quest'aula oggi nessuno voglia mettere in discussione l'articolo 11 della nostra Carta costituzionale. Mi duole dover sottolineare queste ovvietà, ma mi trovo costretto a farlo dopo avere assistito attonito ai tanti e troppi distinguo pronunciati in queste settimane riguardo al rifinanziamento delle missioni internazionali. Distinguo che hanno portato all'inizio della scorsa settimana a parlare addirittura di remissione dell'incarico da parte del nostro ministro degli esteri, onorevole D'Alema; distinguo che hanno determinato il Presidente della Repubblica, senatore Giorgio Napoletano, ad esprimersi in maniera forte sulla capacità di tenuta della coalizione, con un monito rivolto all'assunzione di responsabilità dell'intera maggioranza.
Cari colleghi, i Popolari-Udeur non hanno compreso i motivi e non condividono assolutamente l'atteggiamento per il quale alcuni settori della maggioranza non


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abbiano appieno condiviso quanto in precedenza sottoscritto, mettendo anche in discussione il nostro programma di Governo. Questo voto deve mettere in primo piano gli interessi nazionali, facendo prevalere il senso dello Stato rispetto agli interessi politici di partito. C'è assoluto bisogno di unità e di chiarezza rispetto alla politica estera per poterci porre da interlocutori prestigiosi nello scenario internazionale, anche in vista del prossimo vertice del G8.
Non mi soffermerei nemmeno a discutere sulla continuità o sulla discontinuità dell'azione di questo Governo rispetto al precedente, ma a nostro avviso è necessaria ed utile una continuità. La continuità è la scelta di fondo europeista ed atlantica che in un momento storico ed importante fece la Democrazia cristiana ispirandosi a valori di cui l'Udeur si sente erede. Tali scelte si sono rivelate strategiche per il prestigio e lo sviluppo del nostro paese. La strada che dobbiamo intraprendere nel futuro, possibilmente in maniera unitaria, non può essere che questa. Dopo la caduta del muro di Berlino, con la globalizzazione, con le mutate condizioni internazionali, la tutela della sicurezza internazionale ha assunto una nuova dimensione, divenendo condizione imprescindibile da cui non possiamo esimerci.
Sempre nel merito del provvedimento, mi preme sottolineare gli importanti compiti che i nostri militari hanno svolto e svolgono tuttora in quelle aree a rischio del pianeta. Le missioni, quindi, in linea con le citate risoluzioni dell'ONU, hanno il compito di affiancare i Governi per consolidare tutti i tipi di istituzioni e promuovere i diritti dell'uomo, nonché lo sviluppo economico e sociale. Le finalità delle missioni sono queste. Peraltro, l'Italia si muove in questo campo sulle orme dell'operato dell'ONU e della NATO, come ribadito in questi giorni anche dal Segretario generale dell'ONU in visita ufficiale nel nostro paese.
L'approvazione del disegno di legge elaborato dal nostro Governo vuole esprimere un'impronta significativa nella politica estera italiana, coinvolgendo il Parlamento in un dibattito che definisca con chiarezza i principi, gli obiettivi e le finalità delle nostre missioni. I Popolari-Udeur credono che in questi momenti così delicati vi sia bisogno di dimostrare unità e compattezza di intenti, unità da ricercare su questa vicenda, come atto di responsabilità, prevalentemente all'interno di questa maggioranza, che deve offrire al paese, con questo provvedimento, una condizione di forza a livello internazionale anche tramite l'auspicabile posizione favorevole delle forze di opposizione.
Signor Presidente, cari colleghi, la discussione di questi giorni, anche in riferimento agli ultimi eventi del Medio Oriente, ci fa riflettere su temi ed obiettivi legati alla sicurezza, alla pace, alla realizzazione della democrazia, allo sviluppo economico, alla tutela dei diritti umani in quelle aree del pianeta sconvolte da guerre e disordini. Per poter raggiungere tali obiettivi qualcuno deve lavorare per produrli: noi non possiamo esimerci (Applausi dei deputati dei gruppi dei Popolari-Udeur e de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Paoletti Tangheroni. Ne ha facoltà.

PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, nessuno può votare a cuor leggero e senza riflettere sulla partecipazione di soldati del proprio paese a missioni militari in un teatro di guerra, perché di guerre certamente si tratta, anche se di tipo nuovo e del tutto particolare. Tanto meno a cuor leggero si può intervenire in questo Parlamento a sostegno di una simile decisione. Vi assicuro che io non parlo a cuor leggero e non parlo senza riflettere, ma proprio una riflessione attenta mi porta ad una piena convinzione dell'opportunità e della necessità di un voto favorevole al proseguimento della missione, nella consapevolezza che tutti dobbiamo - quanto meno dovremmo - essere all'altezza della situazione storica in cui ci troviamo.
«Guerra» è una parola terribile, specie quando ci tocca direttamente. Tuttavia,


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signor Presidente, colleghi, non è giocando con le parole, ricercando sfumature, facendoci paralizzare dal politically correct, fingendo di non vedere, di non capire e di non prevedere che possiamo rimuovere la realtà. Invece, osservare la realtà, saperla interpretare, sapere ad essa rispondere è specificamente il compito della politica.
Come tutti, sono particolarmente sensibile alle immagini della guerra che vediamo, guerra che conosco bene, anche per ragioni professionali, nei suoi tragici risvolti e nei suoi orrori che mi hanno talvolta toccata direttamente.
Tuttavia, credo sia necessario per noi pensare al mondo futuro, sul quale verrebbe a gravare, ancor più dell'11 settembre e di quello che stiamo subendo oggi, l'ombra nera ed implacabile del terrorismo. Esso va fermato nei fatti e non con le parole, con i sogni, con utopistici progetti o con irrealistiche alternative ispirate, al di là della buona o cattiva fede di ciascuno, essenzialmente ad un antiamericanismo profondo. Quindi, si tratta di un pacifismo di tipo unilaterale, che rifiuta sostanzialmente la difesa dei nostri valori e della nostra civiltà, valori che hanno una portata universale. È questo che rifiutano, e tale rifiuto è la base del pacifismo che non riconosco perché si caratterizza come antiamericano. Ciò è apparso chiarissimo, signor Presidente, fin dal giorno successivo all'11 settembre, quando per alcuni la colpa di quanto stava accadendo era, in fondo, riconducibile agli americani e alla politica americana.
Sempre richiamandomi alla mia esperienza di lavoro e al mio impegno contro le spirali del sottosviluppo, lasciatemi dire che non si deve ammettere che ci si nasconda dietro le generalissime ed astratte considerazioni sulla povertà del cosiddetto sud del mondo. Questo terrorismo, che pretende di agire in nome dell'Islam, non ha diritto di richiamarsi al sud del mondo, né di parlare in nome di esso. I suoi fini sono l'umiliazione e l'annientamento dell'Occidente, con l'assunzione della guida politica del mondo islamico. I suoi fini, quindi, non sono certo lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni più povere, sviluppo che anzi, talvolta, viene ostacolato nei fatti proprio da questa matrice terroristica. Nelle mozioni presentate ieri dai colleghi della Casa delle libertà si rigettava il principio dello scontro di civiltà. In effetti, l'odio dei terroristi di matrice islamica si rivolge soprattutto verso quegli islamici che vorrebbero ritrovare insieme la strada, che oggi sembra smarrita, della convivenza. Strada che pure è stata percorsa, non solo in epoche remote - quando Fibonacci andava dagli arabi ad apprendere le nuove frontiere della matematica o Tommaso D'Aquino recepiva gli insegnamenti di Avicenna ed Averroè -, ma anche in epoche molto più vicine a noi, quando sul sud del Mediterraneo si affacciavano popoli con grandi potenzialità di sviluppo sociale e culturale.
Il giornalista Magdi Allam descrive l'Egitto degli anni Sessanta come un ambiente pieno di stimoli culturali ed assolutamente laico. Abu Mazen aveva scommesso con coraggio sulla possibilità di un percorso di pace, oggi gravemente compromesso dall'attuale crisi del Medio Oriente. A proposito di tale crisi, signor Presidente, credo sia indispensabile annettere in essa il partito degli Hezbollah e il terrorismo internazionale di matrice islamica. L'esercito rientra in Libano dopo sei anni dall'uscita ordinata da Ehud Barak. Tutto questo mentre eccitazione ed odio si rovesciano su Gerusalemme e si distribuiscono caramelle e pasticcini lungo le vie di Beirut e di Gaza in onore degli aderenti di Hezbollah.
Il primo ministro Ehud Olmert ha affermato che l'attacco di Hezbollah è un atto di guerra non provocato contro il territorio israeliano. Per Olmert l'esecutivo post «rivoluzione arancione» di Beirut ha cercato una politica di appeacement con Hezbollah, facendo anche entrare alcuni aderenti nel Governo. Quindi, il capo di Hezbollah, Nasrallah, dice: se Israele oggi vuole combattere, sappia che non siamo gli stessi di anni fa, ma molto più forti e più organizzati. Mi scusi, Presidente, per questa digressione sul Medio Oriente, ma davvero nel complesso quadro internazionale la globalizzazione della politica estera


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appare un dato di fatto e le interdipendenze ed i legami sono evidentissimi a tutti noi. Il nome in codice dell'operazione nel corso della quale gruppi di estremisti palestinesi hanno rapito tre israeliani è «illusioni distrutte»
L'operazione «illusioni distrutte» e la conseguente reazione del Governo israeliano dimostrano, purtroppo, signor Presidente, che il dialogo è difficile (Commenti del deputato Ranieri)... Credo che abbia rinunziato un mio collega a parlare, signor Presidente...

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, tentavo di «cacciare» dai banchi del Governo un «disturbatore»...

PRESIDENTE. Onorevole Paoletti Tangheroni, lei ha comunque ancora tre minuti a disposizione. Prego, continui pure.

PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. La ringrazio, signor Presidente. Come stavo dicendo, «illusioni distrutte» e la conseguente reazione del Governo israeliano dimostrano che il dialogo non può neppure iniziare. Ma tra le illusioni distrutte ve ne sono anche molte dell'Occidente, dell'Europa e dell'Italia. Gli avvenimenti degli ultimi giorni dimostrano, purtroppo, che Abu Mazen non conta più nulla e controlla a stento il suo palazzo, che in mezzo ai suoi miliziani vi sono alcuni tra i peggiori terroristi. Per quell'Europa che ha sperato che Abu Mazen potesse rappresentare i palestinesi è davvero la fine delle illusioni. Olmert ha ragione quando indica al mondo i mandanti dei rapimenti nella Siria e nell'Iran.
Un'altra «illusione distrutta» dell'Occidente è che si possa risolvere il problema palestinese senza intervenire sul regime siriano e senza trovare le vere responsabilità nell'Iran. Se, dunque, tutti questi nessi esistono, se non ci possiamo concedere di abbassare la guardia contro il terrorismo di matrice islamica - e a tal proposito, poiché credo di averne il tempo, vorrei citare una frase di un pacifista israeliano, apparsa oggi sul Corriere della Sera: «(...) La vera battaglia di questi giorni non infuria affatto tra Beirut e Haifa, ma tra una coalizione di nazioni in cerca di pace - Israele, il Libano, l'Egitto, la Giordania e l'Arabia Saudita, da una parte - e l'islam fanatico, alimentato da Iran e Siria, dall'altra (...)».
Ciò lo dice Amos Oz, un pacifista - ripeto - israeliano. Se, dunque, tutto cio è vero, credo non si debba assolutamente abbassare la guardia e sia pertanto necessario votare con convinzione a favore del rifinanziamento delle missioni previsto dal provvedimento in discussione. Sarà dunque garantita la prosecuzione di tutte le missioni militari di pace nei Balcani, ed il nostro progressivo e graduale disimpegno in Iraq dovrà realizzarsi senza compromettere la dignità e la credibilità dei nostri militari, ma soprattutto senza compromettere la situazione e la sicurezza delle popolazioni locali. In Afghanistan gli impegni assunti con la comunità internazionale, principalmente in qualità di membri della NATO e dell'ONU, saranno onorati. Pertanto, la nostra presenza sarà confermata per tutto il tempo ritenuto necessario, in accordo con i nostri alleati e con il legittimo Governo locale, per il ripristino delle condizioni di sicurezza e di pace.
Poiché questo provvedimento prevede tali operazioni, esso deve essere sostenuto, visto che è all'insegna della continuità, una continuità che noi condividiamo (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Zanella. Ne ha facoltà.

LUANA ZANELLA. Signor Presidente, il momento storico in cui siamo chiamate e chiamati ad esprimere il nostro voto sul rifinanziamento delle missioni italiane all'estero è di una criticità estrema. Ancora una volta, il Medio Oriente si è infuocato e, anche a causa della guerra angloamericana in Iraq, i rischi di espansione dell'incendio sembrano essere maggiori che in passato. In tale contesto, il ritiro delle nostre truppe in Iraq, previsto dal programma dell'Unione, invocato con passione ed instancabile determinazione dal Movimento per la pace, assume un valore


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politico e simbolico estremamente importante. Ma questa decisione certamente non risolve il problema. Non rappresenta, di per sé, l'uscita dalla tragedia irachena. Lo rammenta molto bene Giuliana Sgrena, in un suo articolo apparso su il manifesto di oggi. In Iraq rimangono soldati e terrore.
Certo, il ritiro dei militari dall'Iraq, sancito con un atto legislativo, è un segno chiaro di discontinuità in politica estera di questa maggioranza di Governo rispetto a quella precedente, che ben poco ha fatto per contrastare l'affermazione della logica della guerra. A tale ultimo riguardo, penso, ad esempio, all'unilateralismo, alla prevaricazione delle regole elementari del diritto internazionale, all'ulteriore indebolimento degli organismi sopranazionali, a partire dall'ONU.
Ma la politica estera del Governo dell'Unione non si esaurisce, non può esaurirsi nella fine della partecipazione italiana al conflitto iracheno; deve assolutamente andare oltre, avere una ambizione più alta, che dia vera e piena attuazione all'articolo 11 della nostra Costituzione, fino in fondo.
Una riflessione sulla strategia di lotta al terrorismo adottata in questi anni - lo sottolineava anche il presidente della III Commissione, Umberto Ranieri, nel suo intervento - è già in corso negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo. Sugli esiti terribili e fallimentari prodotti dall'uso della guerra come mezzo per risolvere i conflitti, combattere il terrorismo e le crisi geopolitiche si impone una riflessione in Parlamento, soprattutto nel momento in cui il nuovo Governo intende svolgere un ruolo di primo piano sullo scenario globale, valorizzando la nostra tradizione diplomatica, la capacità di mediazione, il dialogo culturale e interreligioso. Si impone una valutazione di tutte le missioni effettuate in questi anni e che si intendono prorogare; una vera valutazione.
È un bene che la mozione di maggioranza, che accompagna e sostanzia il provvedimento, preveda uno strumento parlamentare, un Comitato, per monitorare, passo dopo passo, le nostre missioni militari e doverosamente verificare gli interventi e renderli visibili all'opinione pubblica anche quando non siano, per così dire, sotto i fari dei mass media. Più volte ho avuto modo di osservare l'incredibile rimozione dell'attuale situazione del Kosovo dal dibattito pubblico, anche all'interno del variegato mondo pacifista; ringrazio la giornalista Ida Dominijanni, che invece oggi lo ricorda sul Manifesto.
Eppure, un'analisi attenta, franca e rigorosa della recente storia di questa piccola provincia balcanica consentirebbe di avere in mano elementi di interpretazione e di comprensione della realtà più vasta di grandissima utilità. Il Kosovo è una misura sotto gli occhi di tutti dell'esito paradossale della guerra umanitaria; mentre gli albanesi aspettano l'indipendenza promessa, i serbi e le altre minoranze vivono assediati nelle enclave, vittime di persecuzioni, della contropulizia etnica, della miseria, della disoccupazione (che, comunque, riguarda anche le masse albanesi). Su ciò, silenzio; sembra che abbiamo già dimenticato i pogrom del marzo 2004 - che pure occuparono, per due o tre giorni, qualche pagina nei nostri quotidiani -, quando una folla inferocita di estremisti si dette alla caccia del serbo. Abbiamo dimenticato gli assassini di serbi, dei rom, degli albanesi moderati, i desaparecidos, i 200 mila serbi fuggiti, i 150 monasteri e chiese ortodossi incendiati, le icone sacre ed i cimiteri profanati. Tutto ciò è avvenuto dopo l'ingresso delle truppe NATO nel giugno del 1999, dopo la pace di Kumanovo, che aveva posto fine ai bombardamenti durati ben settantotto giorni.
Non possiamo ammettere l'afasia, i balbettii sul pericolo che, come sostiene il generale Mini, già al comando delle truppe Kfor, il Kosovo potrebbe riesplodere, né possiamo continuare ad affidare alla presenza armata la possibilità della sopravvivenza, seppur grama, delle minoranze, la tutela del patrimonio culturale e spirituale serbo-ortodosso, di inestimabile valore. La vita stessa dei monasteri è resa possibile, appunto, solo grazie alla sorveglianza dell'esercito. È quindi indispensabile una svolta complessiva, culturale e politica, che sappia renderci capaci di affrontare la


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complessità e l'urgenza in quest'area, come nelle altre in cui siamo direttamente coinvolti. È questo il senso della nostra mozione.
Venendo all'Afghanistan, dove la situazione - come sottolineato da più parti - resta drammaticamente irrisolta, lo stato in cui versa attualmente il paese dà ragione a chi, come noi Verdi, aveva a suo tempo denunciato la problematicità di un intervento militare, cosiddetto umanitario, in quella regione del mondo, senza una strategia di ampio respiro o, peggio, per assecondare una strategia militare dai tratti oscuri. Noi Verdi - ricordo - votammo contro ripetutamente, argomentando puntualmente il nostro dissenso. La collega Tana De Zulueta, nel suo intervento in Commissione affari esteri, chiarisce bene, ancora una volta, come la missione ISAF, nata per garantire la sicurezza della popolazione civile e il processo di democratizzazione dell'Afghanistan, si sia confusa sempre di più con l'operazione bellica Enduring freedom. Truppe ISAF vengono coinvolte in questi giorni in azioni belliche, come quella definita «salto alla montagna» tuttora in corso nel sud-est del paese. Non possiamo certo tacere il numero impressionante di morti tra i civili, le continue lesioni dei diritti umani, le prigioni segrete, le condizioni di vita drammatiche, l'insicurezza e il terrore. Noi ascoltiamo non solo le ragioni del dissenso pacifista, ma la voce, purtroppo flebile, delle donne afgane di RAWA, l'organizzazione impegnata da decenni - sottolineo: decenni - contro il fondamentalismo islamico, che ora denunciano con forza la presenza nel Governo e nel Parlamento afghani dei signori della guerra e dell'oppio. Con questo non dobbiamo forse fare i conti, colleghe e colleghi, se è vero - come afferma anche il viceministro Ugo Intini - che per ogni area d'intervento militare deve esserci la relativa exit strategy e se è vero che in Afghanistan, l'Italia è meno libera rispetto all'Iraq - va detto - poiché maggiormente implicata nell'accordo NATO?
È anche vero, però, che la strategia di uscita dall'Afghanistan, al presente, è tutt'altro che chiara. Da qui, la necessità di impegnare con la nostra mozione il Governo in questo senso. Non si tratta - badate bene - di difendere posizioni ideologiche senza «se» e senza «ma», ma di saper guardare in faccia la realtà, calcolare il rischio, evocato qui più volte, dell'«irachizzazione» dell'Afghanistan. L'Italia - e concludo Presidente - ha il compito storico di adoperarsi per spegnere l'incendio che rischia di bruciare il mondo. È compito nostro, di noi parlamentari, porre le basi, come faticosamente stiamo facendo in questi giorni, per impostare un cammino differente rispetto a quello fin qui percorso, in sintonia con il dettato costituzionale del ripudio della guerra e in armonia con il bisogno globale di pace e giustizia, sempre più pressante e ineludibile (Applausi dei deputati dei gruppi dei Verdi e di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.

FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, riesce difficile a me - al pari di altri che mi hanno preceduto - intervenire oggi in aula per parlare di missioni internazionali di pace, avendo negli occhi le immagini di guerra che arrivano da Beirut e da Israele, senza farvi subito riferimento.
Un invito mi permetto di rivolgere, però, a ciascuno di voi, un invito alla cautela nei giudizi, a fronte di una situazione quanto mai delicata e complessa in cui tutto è possibile, tranne che tagliare a metà la mela dei torti e delle ragioni. In questa tragica vicenda israelo-libanese (la definisco così anche se in modo improprio) intravedo quasi una legge del contrappasso. Nella impotenza ed intempestività delle nostre pur pregevoli riflessioni, così come di quelle ancor più autorevoli del gruppo dei paesi del G8 riuniti a San Pietroburgo, i lampi e i tuoni di una guerra guerreggiata, con il suo carico di lutti, di sangue, di dolore, di profughi, di danni, di menzogne e di odio ma anche, riposta in fondo, di speranza, sono tornati


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minacciosi a lambire le acque del Mediterraneo. Non che l'eco di guerre lontane fosse, per le nostre coscienze, meno preoccupante ed angosciante. Tuttavia, si intravede, in questa nuova crisi mediorientale, un potenziale esplosivo ben più dirompente di quello che abbiamo potuto saggiare in questi anni di cosiddetta guerra preventiva al terrorismo internazionale. L'escalation militare, infatti, seguita al proditorio attacco degli hezbollah di Israele dopo la recente e tragica fase che è seguita al rapimento di un soldato israeliano nella striscia di Gaza, può rappresentare un drammatico salto di qualità e coinvolgere, con il Libano, anche la Siria e l'Iran e, sull'altro fronte, gli Stati Uniti d'America dietro ad Israele.
In quest'aula, quest'oggi ascolteremo le valutazioni del nostro ministro degli affari esteri ma, intanto, sento che c'è il rischio di compiere un grave errore nel sottovalutare e nel considerare quanto sta avvenendo soltanto come una difficile crisi regionale congiunturale. Al contrario, quello che ci arriva attraverso le immagini televisive e gli altri organi d'informazione mi sembra prefiguri in maniera plastica quanto potrà accadere in termini di scontro, se non ci sarà un intervento politico e diplomatico a livello internazionale.
Insomma, la materia ritengo sia strettamente legata a quanto è contenuto nel disegno di legge sul finanziamento delle missioni internazionali e nelle mozioni che stanno accompagnando le nostre decisioni in proposito. Ricordiamoci - lo ricordo soprattutto a me stesso - che anche il più vasto sforzo internazionale, quello dell'ONU, della NATO e di altri organismi, non produrrà effetti positivi e duraturi se non lavoreremo per affermare, insieme, il diritto di Israele ad esistere in sicurezza e il diritto del popolo palestinese ad una sua terra. Due popoli e due Stati, per riassumere in una formula la complessità della questione. Gli effetti non potranno essere, comunque, né positivi né duraturi se non lavoreremo - come fu efficacemente prefigurato, qualche anno fa - anche a prosciugare i giacimenti di odio che fanno da contraltare ai giacimenti di petrolio i quali, spesso, rappresentano, in verità, l'unico interesse delle politiche occidentali. Ecco perché ritengo che l'esame del provvedimento in titolo debba e possa rappresentare l'occasione per una riflessione più complessiva certamente, ma non soltanto, per il nostro paese, nel novero delle iniziative multilaterali assunte sia per la difficile e complessa lotta al terrorismo sia - perché no - per porre fine ai troppi conflitti e focolai di tensione sparsi in ogni angolo della terra. Ecco perché è importante ed utile la centralità assunta, tra le altre, dalla missione in Afghanistan, la missione ISAF. Una simile riflessione non può essere sganciata, oggi, da quella, appena avviata, relativa ad una forza ONU che possa fungere da interposizione pacifica in Libano. Al di là dei problemi tecnico-procedurali che quest'ultima solleva, non ho ascoltato una sola voce dissonante, almeno nel nostro panorama politico, rispetto ad una ipotesi di invio di caschi blu o, comunque, di truppe sotto l'egida dell'ONU.
Pertanto, chiedo se sia diverso lo spirito di un simile invio rispetto alla nostra presenza in Afghanistan. Possibile che, di 28 missioni internazionali di pace in ben 19 paesi, soltanto quella in Afghanistan oggi possa rappresentare un'azione che reca offesa anziché aiuto a un paese? O non siamo forse anche noi vittime innocenti di quel militarismo unilaterale con il quale si è inteso partire all'attacco delle centrali terroristiche - immaginate prima sulle alture che separano Kabul da Peshawar - e poi a caccia di inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq?
Dico questo perché personalmente ho fatto fatica ad immaginare di esprimere un voto favorevole sul provvedimento in esame se non fosse stato accompagnato anche da elementi di discontinuità. Invece - come affermato ieri dal collega Leoluca Orlando -, il presente testo contiene elementi di continuità e di discontinuità. Di continuità di carattere costituzionale diceva Orlando, per quanto riguarda una più marcata e più corretta affermazione dello spirito dell'articolo 11 della nostra Costituzione,


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ma anche di discontinuità rispetto al riferimento improprio che in precedenza si faceva a quell'articolo 11.
Il vero elemento di novità, la vera discontinuità contenuta in questo provvedimento si rinviene nel passaggio nel quale si afferma che il finanziamento, per quanto riguarda la missione Antica Babilonia, è per il ritiro delle nostre truppe da quel teatro di guerra. Ciò è importante e significativo in quanto su quel territorio le nostre truppe non si trovavano nel novero di un'azione multilaterale sotto l'egida dell'ONU - almeno all'inizio -, infatti eravamo al seguito di un'iniziativa sbagliata, di una guerra assolutamente inefficace nella lotta al terrorismo, che anzi ha prodotto il diffondersi del virus del terrorismo in quella realtà. Per non parlare delle atrocità delle quali siamo venuti a conoscenza, delle condizioni pietose in cui sono custoditi i detenuti a Guantanamo e di quanto accaduto ad Abu Ghraib. Senza dimenticare le operazioni sporche portate avanti dagli 007 a livello internazionale e persino nel nostro paese, come abbiamo potuto constatare nella vicenda del rapimento dell'imam di Milano, Abu Omar, sulla quale spero si riesca a fare chiarezza nonostante il segreto di Stato.
Potrà mai essere efficace la lotta al terrorismo bombardando le montagne dove si immagina possa essersi nascosto Bin Laden, senza scovare le vere centrali che lo alimentano? Mi riferisco al sistema bancario, a quello della finanza internazionale, che dovrebbero essere colpiti con efficacia. Questo è il primo elemento di discontinuità.
Il secondo elemento di discontinuità contenuto nel provvedimento in esame consiste nella messa in discussione della nostra presenza all'interno della missione Enduring freedom. Anch'essa, come la missione ISAF, opera in Afghanistan, ma è tutt'altra cosa: la prima rappresentava un atto di guerra quasi unilaterale contro l'Afghanistan - individuato come la centrale del terrore o la copertura di tale centrale -, la seconda è un'azione che accompagna anche altre iniziative civili. Un'azione volta alla ricostruzione delle istituzioni democratiche in quel paese e a superare una situazione che, francamente, faccio fatica ad immaginare migliore di quella odierna. Mi riferisco a quando vi erano i talebani.
Altro elemento di discontinuità - che abbiamo proposto proprio noi di Italia dei Valori - è costituito dal superamento del codice penale militare di guerra, limitato - così era scritto in una prima stesura - soltanto alle missioni che operano in Afghanistan. A fronte della presentazione di numerose proposte emendative in tale direzione, la disponibilità, finora affermata dal Governo, a rimettere in discussione l'applicazione del predetto codice per le sole tre missioni che operano in Afghanistan propone un altro elemento di discontinuità.
Infine, un altro elemento di discontinuità, non offerto dal provvedimento in esame, ma esplicitamente fornito dalla mozione Sereni ed altri n. 1-00014, che accompagna questa nostra riflessione, riguarda la creazione di un organismo di monitoraggio permanente volto a valutare non una exit strategy unilaterale (che, francamente, non avrebbe molto senso), ma - e davvero - la congruità tra gli scopi per cui siamo in Afghanistan, le finalità che abbiamo affermato, e i risultati che la missione stessa può far conseguire.
Avviandomi alla conclusione, signor Presidente, non posso non associarmi al saluto che la presidente della Commissione difesa, onorevole Pinotti, ha voluto rivolgere alle nostre Forze armate impegnate in Afghanistan, ai nostri uomini impegnati nei Balcani e in Iraq, a quelli che saranno impegnati nel Darfur e in Congo, a quelli che operano tra Kabul ed Herat: noi apprezziamo davvero il loro lavoro ed i loro sforzi e sappiamo che si trovano ad operare in situazioni estremamente complesse e contraddittorie; sappiamo che ad ogni timido successo, ad ogni timido sorriso fa riscontro una realtà drammatica dal punto di vista economico e sociale, resa ancora più difficile dal fatto che si tratta comunque di territori che sono teatri di guerra.


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Desidero concludere il mio intervento con un riferimento che vuole essere soprattutto un auspicio. Noi tutti siamo consapevoli - in quest'aula e nel paese - che è in atto una discussione, una riflessione, in ordine alla maggioranza che sosterrà il provvedimento in esame. Auspico che a sostegno del provvedimento non vi sia soltanto una maggioranza, ma l'unanimità di questa Assemblea. L'unanimità è possibile proprio sulla base di quegli elementi di continuità e di discontinuità di cui ho detto in precedenza.
Rivolgo un invito, però, alla maggioranza politica che, in primis, è chiamata a sostenere questo sforzo. L'invito è quello di fare davvero uno sforzo per dare la preferenza all'interesse generale rispetto all'interesse di parte. Al riguardo, desidero riportare in questa sede il senso di una telefonata cortese che ho ricevuto ieri sera da un caro amico di Rifondazione Comunista, consigliere comunale della mia città. Pur soffrendo, pur vivendo come contraddittorio questo passaggio, egli mi ha detto: Non è che, se noi ce ne andiamo via, a Kabul finisce la guerra .... Semmai, aggiungo io, la nostra presenza può servire a mitigare i drammatici effetti della guerra. Però, questa deve essere una riflessione compiuta. Io ho grande rispetto per chi, di fronte a un passaggio così delicato e complesso, è in difficoltà: noi tutti gli dobbiamo rispetto e non possiamo dileggiarlo. In questo senso, avrei preferito che, in un passaggio siffatto, certi riferimenti ad alti livelli istituzionali fossero quanto meno accompagnati dal riconoscimento di sensibilità alle quali mi sento sicuramente vicino.
Ovviamente, faremo un'apposita dichiarazione di voto, ma non ho difficoltà ad anticipare il voto favorevole dei deputati del gruppo dell'Italia dei Valori sul provvedimento in esame. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Evangelisti.
È iscritto a parlare l'onorevole Bianco. Ne ha facoltà.

GERARDO BIANCO. Signor Presidente, pochi ed intimi colleghi di buona volontà, vorrei trattare un unico tema che mi sembra meritevole di grande attenzione, perché, presentandosi come concezione generale di una politica, qual è quella del pacifismo programmatico, è, di per sé, rilevante. Infatti, non c'è alcuna buona politica, non c'è alcuna corretta impostazione, soprattutto nel campo della politica internazionale, se non è sorretta da una visione generale dei problemi, diciamo pure da un principio che regoli ed orienti.
Non devo evocare, in questa sede, la lunga, secolare e non inutile discussione sulle problematiche della cosiddetta guerra giusta. È importante che si possa verificare se questa visione della politica, che, peraltro, è emersa in maniera forte all'interno della nostra maggioranza, sia in grado di rispondere ai problemi del nostro tempo, e, in modo particolare, se tale logica sarebbe stata in grado di affrontare le 125 guerre civili che si sono verificate in questi cinquant'anni, le 57 guerre combattute, i 20 milioni di morti, vittime del terrorismo e delle guerre civili. Sì può corrispondere a tali esigenze con una impostazione generale di questo tipo.
Almeno su un punto, colleghi, dovremmo trovare un accordo e credo sia incontrovertibile che ai sanguinosi conflitti che sconvolgono il mondo non possiamo rimanere indifferenti. Nessuno può dire, rispetto alle tragedie che si vanno consumando, «io non c'entro; quello che accade non mi riguarda». Siamo irrimediabilmente dentro il conflitto, dentro lo scontro e per costruire la pace non basta proclamarla. Dobbiamo saper trovare le strade di un ordine mondiale che, come dicevo prima, sia ispirato ad un principio, ad una logica.
Non è un caso che ad una cattedra, alla quale troppo poco si presta ascolto, quale è quella del Pontefice, si è sempre regolato il rapporto della pace con il tema della giustizia. Oggi, in un pregevole articolo di Casavola sul Mattino, è stata richiamata l'importanza del diritto e della fonte del diritto. È il punto di riferimento, che può offrire una legittimazione, che è appunto quella dell'ONU.


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Possono apparire, queste, considerazioni un po' astratte, ma - lo ripeto - abbiamo bisogno di un filo conduttore e di riportare razionalità nell'azione politica, non soltanto entusiasmi, pregiudizi, ideologie, che praticamente disorientano, ma razionalità. Ancorare tutto ciò ai principi di giustizia significa creare un presupposto che consenta il necessario dialogo, un dialogo che sia efficace tra le parti in contesa, che aiuti a valutare dove, come e quando sia possibile l'uso della forza per allontanare i rischi di aggravamento della crisi.
Qualche minuto fa, ho sentito un'affermazione che, peraltro, sembra essere dirimente, ma che è persino ovvia: l'attuale politica dell'intervento militare non paga, si è dimostrata fallimentare. Ma è evidente che l'intervento militare non costruisce la pace; può creare le condizioni, perché la politica possa costruire la pace.
L'intervento militare - è stato anche scritto - serve sempre a far scendere la febbre ed a riportare la discussione intorno ad un tavolo.
Ma se si immagina che l'intervento militare per principio ed a priori non sia possibile, mi domando come possano essere affrontate le questioni aperte, come possa essere affrontato il terrorismo dilagante. Credo che anche i colleghi, come me, abbiano ricevuto un documento proveniente dai gruppi pacifisti (vedo che il presidente Ranieri ne possiede una copia), che comincia con un'affermazione: non è possibile ripetere la famosa frase, che appartiene alla cultura antico-romana, si vis pacem, para bellum. Poi, viene ripetuto uno slogan che ricorre nelle bandiere del pacifismo: si vis pacem, para pacem. Da un punto di vista linguistico, si tratta di una affermazione classicamente tautologica, cioè vi è un ritorno su se stessa.
Non penso che questa sia la strada. Forse, se dovessimo seguire la via del principio della giustizia, secondo cui iustitiam para, pax sequetur, forse si troverebbe un cammino molto più adeguato per riportare la pace nel mondo. La giustizia non può vivere rimanendo inerme. Ecco perché bisogna tener conto anche della necessità di utilizzare, in determinati momenti, la forza per poter costruire le condizioni per fare la pace. A meno che il termine «pace» non venga scambiato con il termine «resa».
Non è un caso che, sempre in quel documento che ho visto anche sul tavolo della presidente Pinotti, vi è un punto che mi ha impressionato e che, forse, la dice lunga sulla logica che ispira certe tendenze. Si dice: chi è contro la guerra ai talebani non può accettare l'intervento della guerra. In altri termini, c'è chi ritiene che la pax talebana sia preferibile alla odiata pax americana, il che mi sembra un incredibile paradosso. Direi che non ci si rende conto di ciò che è accaduto in Afghanistan: vi è un'amnesia storica. E l'amnesia storica porta a non rendersi conto che gli Stati Uniti d'America, dopo l'uscita dell'Unione sovietica dall'Afghanistan, hanno, per così dire, lasciato mano libera. E in quella realtà, che è stata conquistata e dominata per varie ragioni, che non è il caso di ricordare, dai talebani, si è creato il santuario da cui è partita la riorganizzazione della rete terroristica. Si vuol tener conto di questo o dobbiamo, invece, ritenere che oggi il ritiro sia una soluzione e non la creazione di nuove condizioni, affinché si ricreino le retrovie logistiche del terrorismo? Su questo interrogativo mi pare non vi siano adeguate risposte. Non devo intervenire sulle ragioni della legittimità dell'intervento in Afghanistan: vi sono le due pregevoli relazioni degli onorevoli Ranieri e Pinotti e l'intervento del viceministro.
Dobbiamo, invece, chiederci cosa fare e come realizzare un intervento, accanto a quello militare. Vorrei solo esprimere un concetto: non ci si rende conto che coloro che sostengono il multilateralismo (come i sottoscrittori della mozione presentata), coloro che sostengono che l'unilateralismo è un pericolo per la politica mondiale, portando avanti alcune tesi sostenute dai movimenti pacifisti, finiscono per favorire la logica tipica di quelle nazioni che, sentendosi in pericolo, ricorrono alla propria forza.


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Signor Presidente, ho consegnato al relatore Ranieri una pagina antica (che non ho il tempo di illustrare) che la dice lunga sulla logica dei paesi che, essendo potenti e sentendosi accerchiati dai nemici, ricorrono poi alle cosiddette guerre preventive. È soltanto l'isolamento, la mancanza della politica multilaterale che finisce per favorire quelle logiche. E si ottiene ciò che Vico chiamava l'eterogenesi dei fini, ossia l'effetto esattamente contrario: il pacifismo si rivolta contro se stesso e distrugge la pace.
Concludendo, signor Presidente, credo che il Governo abbia fatto bene a proporre una forza di interposizione rispetto alla guerra che si sta scatenando nel Libano. Ritengo altresì positivo il fatto che tutti vogliano convergere anche sull'approvazione del disegno di legge in esame: penso, infatti, che non possano sussistere differenze su tali questioni.
Credo che le convergenze, nell'ambito della continuità di una politica estera che trova il suo riferimento nell'articolo 11 della Costituzione e che ha visto, altresì, i Governi degasperiani gettare le basi di una politica di pace e di europeismo che dobbiamo conservare, costituiscano un elemento senz'altro positivo. Si tratta, infatti, dei fondamenti della nostra storia repubblicana (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dei Popolari-Udeur).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Zacchera. Ne ha facoltà.

MARCO ZACCHERA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi dispiace che una questione così seria ed importante, come quella che stiamo seguendo in questi giorni, si riduca, dal punto di vista politico, ad una domanda fondamentale: sette o otto parlamentari dell'estrema sinistra voteranno o no, al Senato, a favore del Governo? Tutto, infatti, gira intorno a questa situazione!
Credo sia un peccato. Infatti, non soltanto reputo importante la discussione su tale tema, ma ritengo, altresì, veramente difficile concepire la politica estera di un paese, nell'ambito dello scacchiere mondiale, come legata al voto di sette o otto «estremisti di estrema sinistra» che, forse, possono addirittura far cadere un Governo!
Mi dispiace veramente, anche perché, conseguentemente, emergono tonnellate di ipocrisia. Anzi, ciò non mi dispiace, ma mi indigna! Mi indigno, infatti, quando leggo anche solo una parte delle lunghissime prese di posizione assunte dai partiti di Governo per cercare di alzare, in qualche modo, alcune «cortine fumogene» ed accontentare tutti, tentando anche di compensare in qualche modo l'esistenza di sette o otto eventuali parlamentari dissenzienti.
Vorrei osservare, a tale riguardo, che mi sembra strano che non siano stati creati ulteriori sette o otto incarichi di sottosegretario: in tal modo, saremmo arrivati non a 102, ma 108 o 110 rappresentanti del Governo, e sarebbero stati sistemati tutti!
Come stavo dicendo, tuttavia, si cerca di individuare i termini e le condizioni per far sì che non siano decine i parlamentari della maggioranza di centrosinistra che, un domani, non dovessero sostenere più provvedimenti del genere. Andando al Governo, infatti, ci si rende conto che certe scelte possono anche non piacere, e possono anche essere considerate pericolose o difficili dal punto di vista politico; tuttavia vorrei osservare che si tratta di responsabilità che un paese serio ed importante, come l'Italia - piaccia o non piaccia sia al centrodestra, sia al centrosinistra! - deve assumersi nei confronti del mondo.
Non sto parlando delle piccole o grandi o stupide battute di Prodi, il quale ha affermato di non aver trovato neanche il tempo di farsi fotografare, ieri a San Pietroburgo, assieme agli altri leader mondiali perché era impegnato al telefono! Si tratta, piuttosto, di prendere atto dell'ipocrisia che si cela dietro determinate affermazioni.
Si parla, ad esempio, di discontinuità in ordine all'intervento in Iraq. Ebbene, vorrei rilevare che è stata operata una grandissima discontinuità rispetto al passato. Prima, infatti, le rubriche degli articoli


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dei provvedimenti in tale materia erano «Norme concernenti la missione umanitaria in Iraq» o «Partecipazione italiana alle missioni internazionali in Iraq»; adesso, grazie a tale discontinuità, la rubrica dell'articolo 1 del nuovo provvedimento è: «Interventi umanitari, di stabilizzazione, di ricostruzione e di cooperazione» in Iraq. Questi sono i cambiamenti apportati, perché i contenuti del provvedimento, in realtà, sono esattamente gli stessi di prima!
Vorrei altresì ricordare che il precedente Governo Berlusconi aveva affermato che la nostra missione militare in Iraq sarebbe stata conclusa entro la fine dell'anno, ma adesso si afferma che ciò si verificherà entro l'autunno. Orbene, l'autunno finisce il 21 dicembre, e dunque la differenza potrà essere, al massimo, di dieci giorni! Tutto questo, comunque, viene «venduto» come se fosse veramente una scelta di discontinuità!
Ciò che, invece, non rappresenta una discontinuità, ma è veramente demagogia e falsità, è affermare nel testo della vostra lunghissima mozione, colleghi della maggioranza, che: «(...) Il Governo ha programmato la conclusione della missione Antica Babilonia in Iraq, nata in conseguenza dell'intervento militare» - ovviamente, si intende quello americano - «deciso in violazione alle norme di diritto internazionale (...)».
Vorrei evidenziare, al contrario, che ci siamo recati in Iraq non nel momento in cui è scoppiato il conflitto, ma a seguito della risoluzione n. 1637 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite!

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. No: prima!

MARCO ZACCHERA. Ricordiamoci queste posizioni! Infatti, il comma 2 dell'articolo 1 del nostro decreto-legge n. 165 del 2003 ha stabilito proprio le finalità della nostra missione in Iraq, prevedendo interventi destinati al settore sanitario, al comparto delle infrastrutture, al settore scolastico (con particolare riguardo alla riabilitazione funzionale delle strutture distrutte), nonché alla conservazione del patrimonio culturale.
Se non vado errato, ieri, 17 luglio, quarantasei «poveri cristi» sono saltati in aria nel quartiere principale di Baghdad. Si trattava non di cittadini occidentali o di americani, ma di «poveri cristi» libanesi, dei quali forse si è parlato solo in quattro righe di un dispaccio ANSA!
Immaginiamo che nessuno di noi fosse andato in Iraq: quanti morti in più ci sarebbero stati nel frattempo? Tutti i pacifisti nostrani sarebbero stati così più contenti?
Il vero problema è stabilire cosa vogliamo fare dopo in Iraq. Tutti vogliamo uscire dalla situazione difficile, nella quale ci siamo messi in Iraq, ma poi che succederà? Quale altra esplosione ci sarà nel Medio Oriente? Quale altro pazzo presidente, come quello iraniano, andrà in giro a dire che vuole costruire bombe atomiche da distribuire a tutti? Queste sono le situazioni alle quali dobbiamo rispondere!
C'è ipocrisia quando dite: ma che bello che adesso in Afghanistan - dice sempre la vostra mozione - non siamo più impegnati nella missione Enduring Freedom, ma finalmente ci occupiamo soltanto di altre cose o di altre missioni all'interno dell'Afghanistan! Non dimentichiamo, colleghi, che Enduring Freedom era diventata, con l'utilizzo delle navi, una presenza militare abbastanza anomala. Quindi essa non era già dal 2003 una presenza militare in Afghanistan? Oggi noi in Afghanistan ci stiamo con l'ISAF, e qui si tratta di un movimento di migliaia di persone. Come dicevo in Commissione, in Afghanistan le cose vanno male; dobbiamo dirci la verità da questo punto di vista. Non possiamo prenderci in giro. Non possiamo, come sempre, fare le cose a metà. Così come non possiamo metterci in testa di conquistare l'Iraq manu militari, né tanto meno pensare di farlo con l'Afghanistan.
Non possiamo controllare un paese che è di fatto controllato in alcune zone da persone o ambienti collusi o comunque vicinissimi al terrorismo. Non possiamo farlo con una presenza che, a livello mondiale, impegna alcune decine di migliaia


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di soldati. È ridicola questa posizione! Il territorio dell'Afghanistan è immenso. Le risorse economiche non ci sono. È vero, quello della droga è un problema, ma non potete dire che risolverete il problema delle colture dell'oppio, utilizzandole per le terapie del dolore! Sottosegretario Intini, lei è una persona seria, vedo che mi ascolta: ma le sembra logico che il problema delle colture di oppio in Afghanistan possa risolversi utilizzando l'oppio per le terapie del dolore in Italia? È un'idea che bisogna dare al ministro Ferrero, così riuscirà a trovare qualche milione o meglio qualche decina di milioni di italiani che soffrono di insonnia, a cui dare l'oppio afghano!
Mi sembra veramente un po' leggero voler risolvere le situazioni con queste battute di spirito o con queste relazioni, che al punto in cui siamo servono solo per tacitare le coscienze! Le vere coscienze devono invece porsi un problema di fondo: volenti o nolenti, la gran parte delle presenze italiane all'estero, su ventotto missioni che in questo momento stiamo portando avanti, sono legate al terrorismo. Noi come ci confrontiamo con il terrorismo? Sono preoccupato quando sento dire che siamo equidistanti. La parola «equidistante» significa «essere distanti uguali». Uguali da chi? Uguali dagli Stati o uguali nei confronti del terrorismo? Poiché sono assolutamente convinto che tutti o la grandissima parte dei colleghi del centrosinistra sono, come me, contro il terrorismo, la domanda è: cosa si fa poi in concreto contro il terrorismo?
Non è infatti solo un discorso astratto o politico, così come non è bello fare tanti begli slogan e tante belle carovane che vanno in giro per l'Italia, ma è questione di dire se si ha o meno il coraggio di prendere determinate posizioni. Infatti anche di fronte alla crisi di questi ultimi giorni nel sud del Libano cosa abbiamo fatto per convincere gli Stati a togliere alcune postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, che da settimane martellavano Israele? Cosa hanno fatto i Governi occidentali? Cosa ha fatto l'Unione europea? Assolutamente nulla! Poi ci lamentiamo delle reazioni israeliane?
Ma cosa avremmo fatto in Italia se tutti i giorni, tutte le settimane, fossero arrivati dei razzi sul nostro territorio? Cosa avremmo fatto se fossimo stati in un paese, che il giorno successivo alla sua dichiarazione d'indipendenza - 1948, ormai quasi sessant'anni fa! - fosse stato attaccato da tutti i vicini? Che fare quando un paese liberamente si ritira da un territorio, dopo averlo occupato militarmente (il sud del Libano), così come si ritira dalla striscia di Gaza, ma poi vede che da lì arrivano gli attacchi terroristici? Come ci poniamo di fronte ad un paese che contro l'opinione pubblica mondiale ha costruito un muro che è stato chiamato «muro della vergogna», ma che ha ridotto quasi del 100 per cento gli attentati terroristici in Israele? Non volevamo questo muro, però intanto gli attentati sono stati interrotti.
Queste sono situazioni di cui dobbiamo renderci conto.
Noi con il terrorismo non abbiamo il coraggio di prendere determinate posizioni. Giustamente siamo uno Stato di diritto, non sto dicendo assolutamente che tutto sia lecito, ma stiamo spaccando il capello in quattro per conoscere come, quando e chi sapeva del prelievo coatto, del rapimento di una persona: ovviamente, mi riferisco all'imam catturato a Milano nel 2003. Ci preoccupiamo molto meno, come opinione pubblica, che in Iraq, dalle tasche di alcuni kamikaze, saltano fuori dei documenti rilasciati dalla questura di Milano, segno che queste persone erano state in quella città: di questo ci preoccupiamo molto meno e ne parlano molto meno anche i giornali.
Coscienza e serietà impongono di interpretare a fondo questi fatti ma, purtroppo, vi sono dei terroristi che usano determinati atteggiamenti sparando nel mucchio e che hanno sulla coscienza centinaia, migliaia di morti - come ce li hanno anche le grandi potenze -: non facciamo ipocrisie su queste cose.


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Noi dobbiamo anche avere il coraggio di renderci conto che vi sono interessi nazionali, europei ed internazionali che vanno difesi. Per concludere, è la presenza dell'Italia che conta all'estero e mi dispiace che la propaganda politica continui a sostenere - almeno a sinistra - che nei cinque anni scorsi l'Italia ha perso credibilità internazionale. Se avevamo perso credibilità internazionale, come mai eravamo noi al comando della missione in Kosovo? Come mai lo siamo stati in molti altri scenari, compreso l'Afghanistan fino a sei mesi fa, o fino all'ultimo passaggio di competenze con il comando inglese? Queste sono le credibilità di un paese che ci siamo presi all'estero. Come mai oggi, praticamente, abbiamo tutte le nostre Forze armate impegnate all'estero (voi sapete, infatti, che moltiplicando per 3,5 il numero di persone che sono all'estero esauriamo, in definitiva, le risorse operative delle nostre Forze armate)? Siamo diventati un paese credibile, ma non diventiamo più credibili perché siamo equidistanti, e soltanto quando abbiamo degli alleati seri manteniamo la parola data e difendiamo le nostre posizioni, costi quello che costi. Tutto ciò, lo hanno dimostrato anche i nostri poveri martiri di Nassiryia, perché tutto il paese - tranne qualche mascalzone - è stato dietro quelle bare, così come in tante altre situazioni di morti e di difficoltà, poiché ci si identificava con esse. È così che cresce un popolo, è così che un popolo si riunisce e non lo fa soltanto quando siamo tutti contenti perché ha vinto la nazionale di calcio.
Nel caso di questo provvedimento la preferenza per il disegno di legge nei confronti, invece, del decreto-legge rappresenta solo «fumisteria» organizzativa, utilizzata dalla Camera dei deputati solamente per coprire eventuali dissenzienti nelle file del Governo.
Penso che il senso di responsabilità debba prevalere e non importa se comanda il centrodestra o il centrosinistra; nel continuare un'opera dobbiamo essere disponibili con lealtà perché, ad un certo punto, dobbiamo portarla avanti agli occhi del mondo, ai quali interessa poco che vi sia Berlusconi o Prodi a comandare l'Italia. Al resto del mondo interessa sapere che può e deve contare sul futuro del nostro paese.
A voi, amici della sinistra, pongo però una domanda: che farete il 22 dicembre in Iraq? Sparirete? Non si sa più nulla, non c'è alcun disegno politico su questo? Stiamo parlando di una questione fondamentale: finiremo la nostra missione? La cambieremo? Se la cambieremo, in che modo tutto ciò verrà fatto? Non ditemi che ci penserete tra sei mesi, non si esce fuori dall'Iraq in tre giorni poiché, probabilmente, ci vorranno degli anni, perlomeno dei mesi, per andarsene. Riguardo a tutto questo non ho sentito assolutamente nulla. In Afghanistan, che cosa faremo dopo?
Mi permetto di dire che, nel mio piccolo, in questi posti vi sono stato; avrei voluto ascoltare maggiormente - lo dicevo anche in Commissione, presidente Pinotti - Alberto Cairo, un medico italiano che, senza fare politica come il signor Strada, è presente da anni in Afghanistan a curare tutte le persone, sotto qualsiasi regime e situazione. Gino Strada fa molta politica, sta molto poco in Afghanistan - sarebbe bello sapere quanto tempo vi è, effettivamente, stato in questi anni - e trasforma l'aiuto umanitario in politica: sono queste le cose che non mi vanno, perché mi sembrano molto ipocrite e, nel nostro caso, anche un po' da furbi.
A nome dei colleghi di Alleanza Nazionale affermo che voteremo con orgoglio a favore di questo provvedimento perché, in buona sostanza, si tratta dello stesso provvedimento di prima. Se è stato modificato, ciò è avvenuto soltanto per allungare il brodo perché bisognava, in qualche maniera, tener anche conto non dei sette-otto potenziali dissenzienti, ma delle decine di parlamentari dell'Unione che su tali questioni non sono d'accordo e non sono sostanzialmente equidistanti, ma stanno dall'altra parte, come lo sono sempre stati negli ultimi cinquanta-sessant'anni, quando i cortei per la pace erano sempre a senso unico.
Cambierò questa opinione quando vedrò qualche pacifista ammettere che


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tutti, nello scacchiere internazionale, possono avere ragioni, ma una cosa è fondamentale: la libertà. L'Italia deve lavorare seriamente per portare la libertà, per aiutare altri popoli ad averla. Questo è il fine.
Poi, potrebbe saltare fuori che l'unica nazione democratica libera in Medio Oriente è proprio Israele o che in Afghanistan i «signori della guerra» si sono inseriti nel nuovo Parlamento dove vi è un partito filo-Arabia Saudita o filo-iraniano. La libertà è difficile da conquistare nei cuori perché troppe volte se ne parla nelle piazze.
Il decreto-legge in esame necessita del voto favorevole della Casa delle libertà. Sarebbe bello che i deputati del centrosinistra votassero con convinzione e secondo coscienza, non per obblighi di partito o di maggioranza e di Governo. Scopriremmo, allora, che molti di quei parlamentari, deputati o senatori, non avrebbero il coraggio di votare la loro mozione (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale).

PRESIDENTE. Informo le colleghe ed i colleghi che, da un calcolo approssimativo relativo al tempo necessario per esaurire gli interventi dei deputati iscritti a parlare, arriveremmo intorno alle 15, forse troppo a ridosso delle 15,30, ora in cui è previsto il passaggio al terzo punto all'ordine del giorno. Il tempo degli interventi è contingentato e, quindi, la Presidenza non ritiene affatto di proporre ulteriori restrizioni. È rimesso comunque alla valutazione dei singoli deputati il mantenersi entro i limiti temporali massimi che ancora sono nelle loro disponibilità ed usare nel modo più parsimonioso possibile il tempo.
Questa è la situazione che porto a conoscenza dei colleghi, in quanto era stata rivolta un'esplicita richiesta in tal senso.
È iscritto a parlare il deputato Cassola. Ne ha facoltà.

ARNOLD CASSOLA. Signor Presidente, accolgo il suo invito e svolgerò un intervento più breve.
Signor viceministro, colleghe e colleghi, sarebbe superfluo da parte mia affermare che il dovere di tutti noi è lavorare per la pace in ogni angolo del mondo. Ciò che mi preme sottolineare, però, è che il nostro lavoro per la pace si deve basare su un forte impegno di cooperazione multilaterale, che trova il suo naturale sbocco in organismi quali l'Unione europea e l'ONU.
È altresì vero, però, che i due organismi summenzionati non stanno attraversando un momento felice, con l'Unione europea in una cosiddetta pausa di riflessione, che sembra piuttosto una crisi di impotenza dopo lo shock dei «no» olandese e francese, e l'ONU bloccata su una riforma che sembra proprio che «non s'ha da fare».
Tuttavia, chi veramente vuole la pace, come tutti noi, deve dare il massimo per rafforzare l'Unione europea e le Nazioni unite, perché solo con l'ONU e l'Unione europea forti ed in salute si può rinvigorire il diritto internazionale.
Ho parlato della sacralità della cooperazione multilaterale. In quest'ottica uscire dall'Iraq diventa un dovere sacrosanto per l'Italia, perché l'attacco all'Iraq non solo è stato frutto di una decisione bilaterale angloamericana, ma si è anche basato su motivazioni «nucleari» menzognere, come ormai tutti riconoscono.
In Afghanistan, invece, ci troviamo dinanzi ad una situazione diversa. L'operazione Enduring freedom lanciata dagli americani, senza mandato dell'ONU, ha totalmente fallito nei suoi scopi dichiarati sia di sconfiggere il terrorismo sia di eradicare il potere dei produttori di oppio. Quindi, l'Italia dovrebbe immediatamente farsi carico di proporre nelle sedi multilaterali internazionali il superamento di Enduring freedom, un'operazione chiaramente viziata da una genesi unilaterale. Ma in Afghanistan vi è anche l'International security assistance force, meglio conosciuta come ISAF, che ha mandato ONU e, al contrario di Enduring freedom, ha lo scopo preciso di assicurare la stabilità nel paese e di garantire sicurezza alla gente tramite la ricostruzione delle strutture democratiche, economiche e civili.


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In questo contesto l'Italia ha l'obbligo morale di dare il suo contributo per la ricostruzione del paese nell'ambito di questa missione che è sotto egida ONU. Dico ciò perché le esperienze drammatiche in Ruanda e in Bosnia ci hanno dimostrato che l'Europa non può permettersi il lusso di stare a discutere, a disquisire mentre centinaia, migliaia di vittime innocenti vengono fatte a pezzettini a colpi di machete ogni giorno.
I fatti tristi di questi giorni in Israele e in Libano rafforzano ancora di più questa mia convinzione. È quindi chiaro, anche per un convinto pacifista come me, che la ricostruzione dell'Afghanistan sarebbe impossibile senza la presenza di truppe estere in loco. Piuttosto, il Governo italiano dovrebbe adoperarsi con più convinzione per far sì che l'impronta militare dell'ISAF venga fortemente attutita. Bisogna trasformare l'operazione ISAF in modo che essa renda la vita più sicura, non solo per gli abitanti soggetti a tanto strazio, ma anche per tutti quei civili stranieri che stanno lavorando per la ricostruzione del paese.
Il concetto di sicurezza non ha niente a che fare con la logica della militarizzazione, come invece alcuni vorrebbero farci credere. Detto questo, non possiamo permetterci di abbandonare bruscamente l'Afghanistan, se vogliamo realmente aiutare quel popolo. Votare sì vuol dire qualche scuola in più per i bambini afghani, vuol dire qualche ospedale in più per i malati afghani; votare sì significa assicurare alle donne afghane un briciolo di quella libertà di cui le donne italiane godono da tanto tempo.
Chi, in questo Parlamento, crede nei diritti dei bambini, dei malati e dei deboli, chi crede nelle quote rosa, certamente, non può fare mancare il suo «sì» a questo disegno di legge.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rivolta. Ne ha facoltà.

DARIO RIVOLTA. Nell'ascoltare alcuni degli interventi in discussione generale riferiti a questo provvedimento, prendiamo atto del fatto che molti di essi non vertono sull'opportunità o meno del rifinanziamento delle missioni, bensì partono e hanno come presupposto un ragionamento sull'opportunità o sulla negatività - sotto i vari aspetti - degli interventi militari che furono fatti in Afghanistan e in Iraq in modo particolare.
A questo punto vorrei dire ai colleghi della sinistra che non solo nelle loro file vi furono molte voci contrarie alla scelta dell'intervento militare (in modo particolare in Iraq, mentre in Afghanistan direi che c'era una concordia nel mondo sulla necessità di quell'intervento), perché anche nelle file del centrodestra - anche nel Governo di centrodestra - si fece di tutto per cercare di evitare che la guerra in Iraq scoppiasse. Si cercarono altre soluzioni, si batterono altre strade: il rischio era chiaro a tutti.
Nel mio piccolo, io stesso ebbi modo sia di dire, in occasione di interventi pubblici, sia di scrivere che una guerra in Iraq avrebbe potuto causare degli effetti peggiori del male che allora si poneva. Il 18 aprile del 2002, l'Herald Tribune pubblicò alcune mie righe in cui, fra l'altro, dicevo che «un conflitto che coinvolgesse Baghdad, molto probabilmente, porterebbe alla dissoluzione dell'Iraq». Dicevo ancora: «(...) altri squilibri geopolitici derivanti dalla scomparsa dell'Iraq riguarderebbero l'Iran, quest'ultimo, da Komeini in poi - forse anche da prima - ha sempre cercato di esercitare un ruolo egemonico nella regione e il suo principale contrappeso è stato proprio l'Iraq di Saddam Hussein e la scomparsa di quest'ultimo creerebbe un vuoto politico nell'area a vantaggio degli stessi iraniani, con prevedibile disappunto degli altrettanto ambiziosi sauditi» (e non solo, aggiungo ora).
Inoltre, eravamo tutti consci, come dicevo nell'articolo, che le masse arabe, in parte già insoddisfatte dell'atteggiamento di alcuni loro Governi, avrebbero visto accentuarsi un sentimento di alterità e ci si sarebbe trovati ben presto a dover fronteggiare un'opinione pubblica araba facile preda di sentimenti antioccidentali e di fondamentalisti.


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Era quindi ovvio a molti lettori e analisti di politica estera, ma anche ai politici che componevano il Governo di centrodestra, che era meglio trovare altre soluzioni piuttosto che la guerra in Iraq; ma altre soluzioni non sono state trovate e oggi, poiché il nostro compito non è quello di storici, ma quello di politici: noi dobbiamo prendere le nostre decisioni, tenendo conto delle situazione di oggi e non di quella che avrebbe potuto essere o di quella che ci sarebbe piaciuto fosse.
Altre ipotesi forse sarebbero state migliori, ma la situazione di oggi è che l'Iraq è un paese sulla via della democrazia, anche se con molti punti di domanda. L'Afghanistan è un paese dove alla caduta del Governo dei talebani non ha corrisposto, nei tempi che ci si aspettava, una nascita di una nuova e moderna democrazia. Da politici dobbiamo chiederci cosa fare davanti a questa situazione: ritirare le truppe? Mantenerle così come sono? Aumentare la nostra presenza militare? La presenza internazionale? Chiunque volesse ragionare partendo dalla situazione attuale e lo volesse fare con buonsenso e con capacità di analisi, sa che per ciò che riguarda l'Afghanistan la diminuzione o addirittura il ritiro delle truppe internazionali lì presenti farebbe riprecipitare l'Afghanistan in un caos e in una anarchia ben maggiore di quel caos che ancora oggi purtroppo è presente nella maggior parte di quel territorio.
Noi tutti sappiamo che è indispensabile che il Governo legittimamente eletto in Afghanistan possa acquisire la forza per governare veramente quel paese. Sappiamo tutti che tante operazioni politiche, ma anche militari, devono ancora essere svolte perché queste condizioni si avverino. Non è sufficiente poterlo desiderare, non è sufficiente gridare alla pace o al dialogo; noi sappiamo che pace e dialogo sono due obiettivi da tutti desiderati, ma che per poter farli diventare una realtà occorre - ahimè! - passare per un periodo, ancora di durata indefinita, non solo di guerra, ma di vittoria necessaria della coalizione internazionale e di realizzazione del mandato dell'ONU, affinché si possa ottenere il risultato.
Chi chiede che le truppe dell'Afghanistan vengano ritirate, se non è amico del giaguaro, va contro il buon senso e contro le necessità della storia. Chi ha deciso di non assecondare la richiesta dell'ONU di aumentare la presenza militare, probabilmente per pavidità o per motivi non ben dichiarati o non ben chiariti, seppur dichiarati, ha deciso di non dare il contributo del nostro paese affinché si facciano tutti gli sforzi per portare a soluzione positiva un'operazione che fu iniziata ormai tempo fa, ma che dalla soluzione positiva è ancora lontana.
Non sono d'accordo sul contenuto di questo provvedimento, che di fatto congela la situazione. In Afghanistan, era indispensabile che tutti i paesi, anche l'Italia, che vogliono giocare un ruolo e vogliono rispettare il proprio senso di responsabilità, aumentassero la propria presenza; ma anche per quanto riguarda l'Iraq, non sono d'accordo sul fatto che sia stato deciso il ritiro delle truppe italiane. Intendiamoci con chiarezza: l'Italia non ha partecipato al conflitto in Iraq, l'Italia ha mandato dei militari che avevano come regole di ingaggio il compito di contribuire alla creazione delle istituzioni locali, alla formazione del personale locale e all'aiuto alle forze locali per il mantenimento dell'ordine.
Dal punto di vista militare, la nostra presenza non è indispensabile, ce ne rendiamo conto noi, se ne rendono conto anche gli iracheni, ma proprio quegli stessi iracheni, che sanno che dal punto di vista militare la presenza o l'assenza delle truppe italiane non è indispensabile, sanno che invece anche dal punto di vista politico e dal punto di vista simbolico la presenza delle truppe italiane in Iraq è eccezionalmente importante, per due motivi. In senso positivo, perché contribuisce a dare maggiormente l'impressione di una presenza internazionale variegata e a dimostrare, proprio perché noi non abbiamo partecipato alla guerra, la volontà di ricostruzione


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che, anche su richiesta dell'ONU, l'Italia sta svolgendo o ha svolto fino ad ora in Iraq.
Dal punto di vista negativo perché, nel momento in cui le nostre truppe si ritireranno, nessuno impedirà ai gruppi guerriglieri e terroristi di urlare alla vittoria e dire: vedete, così continuando stiamo ottenendo risultati, scacciamo gli stranieri. In altre parole, scacciamo quelli che vogliono contribuire alla costruzione di una democrazia effettiva in quel paese.
Nella legislatura precedente avevamo concordato che la nostra missione avrebbe subito un'ulteriore variazione che, peraltro, avrebbe implicato anche una diminuzione del numero dei militari italiani presenti in Iraq. Tuttavia, non si parlò mai di un totale ritiro delle truppe, perché la continuazione delle operazioni di sostegno alla costruzione delle istituzioni locali e la presenza di civili italiani che svolgevano tale compito aveva, ed avrebbe ancora oggi, assoluto bisogno di una protezione militare che garantisse loro di poter svolgere tale compito in totale sicurezza. Decidere il ritiro delle truppe italiane fino all'ultimo uomo, come sembra dalle dichiarazioni di gruppi dell'estrema sinistra, ma anche della maggioranza di questo Governo in maniera concorde, significa non inviare più civili, significa rinunciare a dare quel contributo sul territorio iracheno che abbiamo concordato con l'ONU stesso.
Vorrei leggere a questo punto due righe, non del sottoscritto, tratte da un libro pubblicato dall'onorevole Massimo D'Alema quando era Presidente del Consiglio in merito alla guerra del Kosovo. Diceva l'onorevole D'Alema, oggi ministro degli esteri: il rischio peggiore è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide; questo è un caso in cui l'eccesso di democrazia apparente preclude la democrazia vera, perché emargina dalle sedi dove si decide anche per te. Diceva ancora l'onorevole D'Alema, anche se oggi con queste decisioni sembra contraddirsi: l'Italia farà fronte alle sue responsabilità; siamo un popolo che ama la pace, siamo un popolo che ama la vita e i diritti umani e faremo quanto ci è richiesto per affermare questi valori.
Mi pare che con le decisioni e con i contenuti di questo provvedimento non si voglia fare quanto ci è richiesto per affermare i nostri valori.

PRESIDENTE. Onorevole Rivolta...

DARIO RIVOLTA. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente. Quanti minuti ho?

PRESIDENTE. Onorevole Rivolta, ha già esaurito il suo tempo, e ciò andrà a scapito degli altri due colleghi del suo gruppo che ancora devono intervenire.

DARIO RIVOLTA. Parlerò per un minuto soltanto.
Ai colleghi della sinistra che contestano la decisione della loro stessa maggioranza di mantenere almeno le truppe in Iraq, affinché non si stupiscano, ricordo sempre dal libro di Massimo D'Alema Gli italiani e la guerra, alcune affermazioni che l'onorevole D'Alema faceva allora: sostanzialmente c'è un patto non detto; il Governo svolge i compiti che gli spettano, le forze politiche sono libere di prendere le loro iniziative; il Governo ne tiene conto ma sempre nel quadro delle responsabilità da assolvere, degli impegni da onorare. Cioè, dite pure ciò che volete, noi facciamo ciò che riteniamo. Per meglio precisare il suo pensiero diceva ancora: io rispondo del mio operato alla maggioranza di Governo, naturalmente, ma ne rispondo alla fine, non giorno per giorno. E poi: se vogliamo influire, non possiamo chiamarci fuori; in una situazione eccezionale è consentito al Governo di interpretare il suo mandato con margini anomali; questo è stato accettato da tutti; anche chi - forse allude proprio, in maniera preveggente, ad alcuni suoi contestatori nell'attuale maggioranza - insisteva che l'Italia si pronunciasse contro l'intervento della NATO, sapeva che non potevamo farlo.

PRESIDENTE. Onorevole Rivolta, la prego di concludere, altrimenti sarò costretto


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a non dare la parola agli altri due colleghi del suo gruppo. Devono ancora parlare gli onorevoli Osvaldo Napoli e Della Vedova.

DARIO RIVOLTA. Concludo dicendo che, forse, a tutti i colleghi potrebbe essere utile rileggere le parole dell'onorevole Massimo D'Alema. Ce ne sono altre interessanti che non ho avuto il tempo di leggere.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Capezzone. Ne ha facoltà.

DANIELE CAPEZZONE. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghe e colleghi, siamo qui a discutere di uno specifico provvedimento, sul quale esprimeremo voto favorevole, ma non possiamo nasconderci il contesto in cui il nostro dibattito si colloca: quello di una gravissima crisi in Medio Oriente. È stato acutamente scritto che ora c'è uno scenario che, per alcuni versi, ricorda quasi quello che ha preceduto lo scoppio della Prima guerra mondiale, una situazione nella quale nessuno sembra avere un pieno controllo delle dinamiche che possono innescarsi. Prima di ogni cosa, guai se, dinanzi ad eventi così drammatici, il nostro dibattito italiano fosse provinciale, ombelicale, ripiegato sulle piccole risse, sulle polemiche, sui battibecchi di casa nostra, insomma sul cortile interno, quello con i panni stesi.
Prima di venire più direttamente al nostro provvedimento, non voglio esimermi da alcune osservazioni su questa drammatica attualità. È mia opinione che noi non vinceremo la lotta al terrorismo se prima non batteremo un vecchio riflesso antiisraeliano che lambisce - in qualche caso non solo lambisce -, attraversa e caratterizza settori non inconsistenti della politica italiana ed europea. Non possiamo fingere che lo scenario di questi giorni sia quello del «solito» conflitto israelo-palestinese. Oggi Israele deve misurarsi con una sfida tremenda, quella di un tentativo della sua cancellazione. Come si fa a non vedere il ruolo del quadrilatero Hamas, Hezbollah, Iran e Siria? Questo dobbiamo tenerlo presente e lo dico anche e soprattutto ai colleghi della maggioranza. A questo proposito, c'è stato un dibattito infelicissimo - ed è bene che il Governo si sia, almeno in parte e sia pure tardivamente, ad esso sottratto - su una presunta mediazione iraniana. Ho detto e ripeto che chiamare in causa Ahmadinejad per mediare in questa situazione è qualcosa di simile all'operazione di chi nel 1939 avesse chiamato Hitler per mediare sugli eventi di quegli anni. Il regime iraniano non è parte della soluzione, ma parte del problema. Lo dico alla sinistra: che sinistra siamo se non abbiamo al centro la lotta alle tirannie? Che sinistra siamo se non esprimiamo il nostro sostegno a quelli che a Teheran, a Damasco, ovunque cercano la loro strada per la libertà e la democrazia oppressi da quei regimi? Che sinistra siamo se non ci poniamo il problema delle dissidenze in quei paesi e di milioni di donne e di uomini che non hanno potuto conoscere il bene della libertà e della democrazia?
Non si tratta di esportare, ma di promuovere la democrazia. Lo dico con le parole di un'eroina birmana, Aung San Suu Kyi, con il suo grido rivolto a noi: «Usate le vostre libertà di occidentali per promuovere le nostre». Questo è quello che Aung San Suu Kyi chiede. Per questo credo che ci sia un gran bisogno di visione, di pensieri «lunghi» anche per affrontare le questioni mediorientali. Credo che oggi tutte le strade non ambiziose - e, purtroppo, tra queste anche la road map - non bastino. Occorre ridare una speranza grande, qualcosa che cambi i termini della partita, che riappassioni i cittadini, le donne, gli uomini, che parli ai cuori e alle menti.
Marco Pannella, i radicali, con tanti altri, propongono ad esempio da anni, ormai da lustri, la carta dell'ingresso di Israele nell'Unione europea: vale per Israele, vale su un altro piano per la Turchia.
Dare un segno vero, non solo a parole e non solo differito negli anni, che chi è democratico, chi gioca la carta democratica, può entrare nel club, significa cambiare


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la partita, significherebbe che Israele non sarebbe più solo lo 0,4 per cento del territorio del Medio Oriente, ma diverrebbe la marca di frontiera di 350-400 milioni di europei (Commenti di deputati del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
Ho fatto questa premessa per dire che, a mio avviso, abbiamo drammaticamente bisogno di politiche. Trovo assai insoddisfacente che, in tutti questi mesi, in Italia ed in ogni sede, si parli solo di una exit strategy rispetto a tutto e non si parli mai di una strategy. Ha ragione il Presidente Napolitano quando fa un'affermazione severa (ma severa è la realtà che il Presidente fotografa) dicendo alla nostra maggioranza che una maggioranza che non dovesse avere (o che già non abbia) una politica estera rischierebbe - e rischia presto - di disintegrarsi, di non esserci. Questo è il compito della politica, dei dirigenti politici, dei leader parlamentari e delle forze politiche: dire al popolo della sinistra ed ai cittadini che, ad esempio, anche Zapatero, quando ha lasciato l'Iraq, non se n'è andato dall'Afghanistan, ma ha rafforzato la presenza spagnola in tale paese. È compito dei dirigenti politici rispondere - non l' ha fatto quasi nessuno - alle vergogne di Gino Strada, vergogne per la storia di una sinistra che sia sinistra amica dei popoli e della loro marcia di libertà e di democrazia. È incredibile sentir dire che in Afghanistan si stava meglio ai tempi dei talebani: si stava meglio quando si stava peggio! Certo, vi sono alcuni piccoli aspetti irrilevanti - irrilevanti per Strada -, come il fatto che alcuni milioni di persone abbiano potuto votare ed irrilevante è il fatto che bambine e ragazze abbiano potuto trovare - o ritrovare - la strada della scuola, la strada di un minimo di dignità civile! Cosa ci stanno a fare la sinistra ed i leader della sinistra parlamentare e politica, se non rispondono a ciò con parole di sinistra?
Ho molto polemizzato in queste settimane con Oliviero Diliberto e con la linea del suo partito, tuttavia, devo dire con molta franchezza che ciò non deve divenire un alibi, perché Oliviero Diliberto ha una strategia, che è lontanissima ed opposta a quella che io preferirei, ma non ho capito quali siano la linea e la strategia della sinistra che si definisce riformatrice e riformista. Noi non possiamo «brandire» la parte di politica estera del programma dell'Unione, un programma vago e poco ambizioso in politica estera, degno di una ONG, ma di medio livello. Se noi avessimo una strategia chiara e comprensibile, allora sì potremmo appassionare la nostra gente e potremmo parlare all'opinione pubblica come fa Tony Blair, che quando ha cose difficili da spiegare non si nasconde, ma prova a spiegarle, in primo luogo dinnanzi ai suoi contraddittori. Allora, se avessimo tale strategia, potremmo anche provare ad appassionare gli elettori delle forze della sinistra non riformatrice e non riformista, convincendo anche loro. Non si può solo pensare sempre ad andare via e non si può sempre meccanicamente escludere il ricorso alla polizia internazionale. Adriano Sofri è tornato a scrivere su tale argomento cose che mi paiono intelligenti, umanissime e di sinistra. Non si tratta di essere favorevoli ad un uso indiscriminato dei mezzi militari, ma - questo sì - di fermare la mano dell'aggressore. Ciò è vitale, come è stato vitale farlo - troppo tardi, ma almeno lo si è fatto - nell'ex Jugoslavia, negli anni dello stupro etnico, del massacro di civili e delle fosse comuni. Ed allora, proviamo a darci una strategia.
Altri spunti: per esempio, basta soldi ai dittatori! È il nostro onore, di europei, di italiani ed anche di alcune regioni italiane, avere stipulato Accordi di cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Ottima cosa, ne siamo fieri, come siamo fieri che in genere, all'articolo 2 di tali Accordi di cooperazione, vi siano clausole esplicite sul rispetto dei diritti umani e della promozione della libertà e della democrazia. Il problema è che tali clausole non vengono mai rispettate e ciononostante il fiume di denaro va e, a quel punto, diventa un fiume di denaro che serve non a far crescere una democrazia possibile, ma a far fiorire dittature. Dunque, accordiamoci


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su tale aspetto. Può esservi una grande convergenza: non un euro a chi viola i suddetti principi!
Inoltre, un grande, nuovo, moderno, intelligente uso dei media, dalle radio ad Internet: con investimenti piccolissimi, risibili in termini percentuali rispetto ai bilanci della Difesa, noi possiamo oggi immaginare le nuove Radio Londra, capaci di destabilizzare le tirannie e di metterci in sintonia, ad esempio, con i giovani di Teheran, con le loro antenne, con i loro canali satellitari, con il loro tentativo di cercare clandestinamente la voce dell'Occidente.
Infine, quanto è più importante è far lavorare insieme le democrazie. Sono in tanti ad esserne convinti: non solo il partito radicale transnazionale; negli Stati Uniti, tutti, dagli esponenti democratici a quelli repubblicani, allo stesso Dipartimento di Stato, pur con molte cautele. Da Soros ai neocon, tutti sono attenti al progetto della comunità delle democrazie, ad un impegno comune delle democrazie, nell'ambito e all'esterno dell'ONU. Democrazie che sarebbero maggioranza, ma non sanno lavorare insieme con un'agenda comune, come invece hanno sempre fatto i nemici della libertà e della democrazia nell'ambito dell'ONU, dai «non allineati» in poi.
Questi sono solo alcuni spunti di un discorso che avremmo urgente bisogno di affrontare. Sono certo che se discutessimo di ciò, anziché delle solite contese, tanta parte del centrosinistra e del centrodestra potrebbe unirsi nella chiarezza e la voce della sinistra riformatrice potrebbe elevarsi con grandi consensi nel paese, isolando chi vorrebbe schiacciarci su posizioni estremiste, massimaliste e, in ultima analisi, amiche delle dittature e dei tiranni.
Mi auguro che il provvedimento (che alla fine approveremo con larga maggioranza), anziché chiudere una pagina - il che, peraltro, sarebbe un grave errore -, ne apra una nuova, generando un grande dibattito di cui questo Parlamento ha bisogno; un grande dibattito che evidentemente non è questo.
Auspico, signor Presidente, che vi sia la disponibilità di molti non a ritrovarsi in questa sede tra qualche mese per affrontare gli stessi temi in un dibattito stanco cui segua un voto, ma ad aprire un ampio dibattito di cui la politica italiana ha grande bisogno (Applausi dei deputati dei gruppi de La Rosa nel Pugno, della Democrazia Cristiana-Partito Socialista e del deputato La Malfa - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Deiana. Ne ha facoltà.

ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, inizio il mio intervento dalla crisi mediorientale che, come il viceministro Intini sa bene, pone problemi di primo piano; problemi che richiedono una lettura di qualità della politica estera del nostro paese. Alcuni passi compiuti dall'attuale Governo dinanzi a tale crisi, e dallo stesso Presidente del Consiglio, sono andati felicemente in questa direzione; ma sono molto timidi e, a mio giudizio, ancora molto limitati. Non bastano; occorre innanzitutto fare chiarezza su un problema di fondo, che però rimane sempre, per così dire, sottaciuto: quale è la reale posta in gioco? Quali sono gli obiettivi non delle azioni di formazioni come Hezbollah (o Hamas in Palestina) ma delle operazioni belliche compiute unilateralmente da Israele in Libano (ricordo, per inciso, che si tratta di una rappresaglia che ha assunto forme di vero e proprio attacco militare)? Solo la liberazione dei soldati fatti prigionieri da Hezbollah, obiettivo che, come è noto, non può essere certo realizzato con azioni di così violenta rappresaglia militare? Solo la necessità impellente di difendersi dal quadrilatero degli Stati evidentemente «canaglia» cui faceva testé riferimento con una certa qual disinvoltura l'onorevole Capezzone? Oppure, mettere in atto una assai discutibile strategia preventiva che leda alle radici la possibilità di un reale percorso di soluzione e di pace del conflitto palestinese-israeliano che lacera quella regione?
In che modo gli Stati Uniti d'America entrano in tutto questo? Sono domande


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assai spinose e scomode, che credo sia assolutamente necessario porsi, se vogliamo avviare una politica estera nuova e all'altezza sia dei complessi problemi che la globalizzazione e gli eventi contemporanei fanno emergere palesemente come la violenza, le bombe, i morti, sia anche di quelli che troppo spesso rimangono nell'ombra, coperti dalla retorica e dall'ideologia di parte.
Credo che i passi compiuti dal nuovo Governo segnino una discontinuità importante rispetto al passato, perché si sono rotti alcuni automatismi. Abbiamo ereditato dal Governo Berlusconi i frutti di una politica estera contrassegnata da grave subalternità nei confronti della Casa Bianca e da un'assoluta insipienza strategica nei confronti dell'Europa e delle Nazioni Unite. In ragione di ciò abbiamo condiviso, come paese, scelte di guerra - parlo dell'Afghanistan e dell'Iraq - che hanno violato la Costituzione della nostra Repubblica e hanno contribuito grandemente a vanificare le forme faticosamente acquisite di diritto internazionale nel secondo dopoguerra. Per questo voglio sottolineare la discontinuità che caratterizza la scelta del Governo e dell'attuale maggioranza, di ritirare le truppe dall'Iraq rispetto al calendario di rientro previsto dall'ex ministro Martino. La discontinuità - voglio sottolinearlo - non è soltanto e neanche eminentemente nel fatto che il ritiro, a differenza di quello messo in cantiere precedentemente, dovrebbe avvenire in forma completa.
Tra l'altro, personalmente ritengo che questo ritiro sarebbe potuto essere più veloce e più circoscritto nel tempo di realizzazione. Tuttavia, quel ritiro è frutto di un orientamento coerente nel tempo e non dell'urgenza dettata da una convenienza politico-elettorale, quella che invece ha sostanzialmente spinto Berlusconi a parlare di rientro entro l'anno. I dati - oggi peraltro pubblicati da alcuni giornali - dicono che il 61 per cento dell'opinione pubblica nazionale continua ad essere contraria a tutte le guerre, compresa quella in Afghanistan. Tutti i partiti dell'Unione hanno condiviso il giudizio critico sulla guerra in Iraq, a cominciare dalla condanna dell'imbroglio della guerra preventiva e dall'individuazione di quella guerra come di una strumento micidiale di attivazione infinita dell'escalation guerra-terrorismo. La precipitazione della crisi mediorientale - riprendo un punto che, a mio avviso, è di fondamentale importanza - con il rischio incombente di una deflagrazione catastrofica del conflitto e un suo incontrollabile allargamento, è frutto di quella strategia e di quella guerra, dell'infingimento con cui Bush ha preteso di far credere al mondo che l'abbattimento del dittatore di Baghdad avrebbe favorito, fra le tante fandonie raccontate, anche la soluzione del conflitto tra Israele e la Palestina. Un grande piano Marshall per il rilancio della Palestina aveva promesso Silvio Berlusconi, per l'appunto da gregario delle menzogne di guerra del Presidente americano. Noi vorremmo che la discontinuità in politica estera fosse più netta e decisa e investisse nei fatti concreti, non solo a livello di grandi ed astratti richiami all'articolo 11 della Costituzione, alla pace e alla pacificazione, lo snodo della legittimità dell'uso della forza (come, quando e perché si può) e delle alleanze militari, a cominciare dalla NATO. Nel 1999, durante il summit di Washington, peraltro in piena guerra - un'altra guerra assolutamente illegittima contro la Serbia - la NATO cambiò pelle.
Si trasformò, per ristretta volontà dei Governi alleati, in uno strumento di polizia bellica globale con diritto di intervento in qualsiasi parte del mondo e con finalità del tutto diverse da quelle che erano all'origine del Patto atlantico del 1949. Ciò è avvenuto senza che i Parlamenti, sicuramente quello italiano, ne sapessero alcunché e fossero messi nelle condizioni di discutere e decidere. Le questioni che poniamo con forza, e continueremo a porre con determinazione, all'Alleanza di cui facciamo parte sono, da un lato, quella relative alla natura odierna della Alleanza atlantica (chi l'abbia discussa, come e perché) e, dall'altro, quelle concernenti le forme di controllo politico e parlamentare sulle decisioni assunte in sede NATO e la


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necessità di contrastare l'automatismo del coinvolgimento del nostro paese nelle decisioni assunte in sede di Consiglio atlantico. Si tratta di un problema di fondo, dirimente, della nostra politica estera. Anche per questo abbiamo chiesto una discontinuità politica riguardo alla partecipazione italiana alla missione militare in Afghanistan, dove è in atto una vera e propria guerra - lo ammettono tutti gli analisti di questioni militari e gli analisti politici - e dove la NATO fa le prove del suo nuovo ruolo e del suo diritto a una proiezione militare globale, ben al di fuori e lontano da quel perimetro del Nord Atlantico che le era stato assegnato dal Trattato del 1949. Dall'agosto 2003, infatti, senza alcuna legittima sede di decisione, senza trasparenza dei ruoli (mi riferisco a chi comanda che cosa e alle filiere di comando), con un mandato autoreferenziale, per quanto riguarda la sede, ed eterodiretto, perché stimolato dal Pentagono, in base ad una decisione assunta esclusivamente in sede di alleanza militare, la NATO opera in Afghanistan con un ruolo di coordinamento e comando della missione ISAF. Tale organizzazione ha acquisito via via un ruolo sempre più ampio e determinante, arrivando a dirigere, attualmente, tutte le operazioni militari in quel territorio. Da una parte, ISAF, dall'altra, Enduring freedom; da una parte, la missione di polizia internazionale e di nation building (questo sarebbe il ruolo riconosciuto ad ISAF da una risoluzione delle Nazioni Unite), dall'altra, quella guerra a tutti gli effetti contro le zone del paese in cui si annida la guerriglia dei Taleban e si consumano le alleanze con i gruppi terroristici legati alla rete di Al Qaeda. Voglio essere chiara: noi non condividiamo la permanenza dell'Italia in Afghanistan e non certo per le ragioni invocate, ad esempio, da un nostro amico, Gino Strada, che ha sottolineato, molto negativamente, a mio avviso, come si stesse meglio prima. Si tratta, infatti, di situazioni di violenza ambedue assai negative; tuttavia, non è questo il problema. Noi siamo impegnati a costruire, nel dibattito parlamentare e nei rapporti con i movimenti, i soggetti e le associazioni pacifiste ed i partiti dell'alleanza di cui facciamo parte, le condizioni perché a questo giudizio di negatività tutta l'Unione arrivi insieme. Altri sono i terreni, a cominciare da quello della cooperazione, sul quale vorremmo che si investissero le risorse italiane; soprattutto, sono altri i modi di contribuire a risolvere i conflitti, gli scontri, le crisi e le guerre, a cominciare da un rilancio, da una reinvenzione delle forme di intervento dell'ONU. La situazione di guerra in Afghanistan è uno dei motivi per i quali siamo contrari alla permanenza delle nostre truppe. Nel sud del paese è in atto una violentissima operazione militare tesa debellare la guerriglia dei taleban. Nelle zone di Kandahar, Uruzgan, Helmand e Zabul sono state uccise centinaia e centinaia di persone. Tutti miliziani? Ovviamente no, perché i miliziani vivono nel seno delle loro comunità tribali.
Ma i morti afghani non hanno nome, neanche quando si tratta di vittime innocenti.
Tom Collins, portavoce delle forze statunitensi, di recente ha ammesso che la popolarità dei talebani sta crescendo; lo stesso affermano l'istituto di studi strategici di Londra e gli esponenti delle organizzazioni non governative e delle associazioni pacifiste impegnate sul campo, che abbiamo ascoltato durante un'audizione nelle Commissioni. La presenza dei militari è percepita negativamente, sottrae spazio all'attività civile, restituisce legittimità all'azione dei signori della guerra e dei Talebani.
La guerra in Afghanistan è stata la madre di tutte le nuove guerre del XXI secolo, guerre preventive, guerra per un nuovo ordine mondiale targato Stati Uniti d'America. Alla tragedia delle Torri gemelle l'Amministrazione Bush intende rispondere con una scelta di vendetta e di guerra che non aveva alcuna ragionevolezza politica e nessuna ragione di diritto.
La stessa richiesta di attivazione dell'articolo 5 del Trattato NATO è stato un atto illegittimo, teso a costruire le condizioni di un'altra ottica, completamente


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distorta, sulla questione del diritto internazionale. Mi rifaccio alle parole che l'allora ministro degli esteri, Ruggiero, pronunciò di fronte alle Commissioni esteri e difesa riunite il 13 settembre 2001, a due giorni dall'attentato alle Torri gemelle, per discutere delle conclusioni del Consiglio atlantico, in relazione alla richiesta degli Stati Uniti di attivare l'articolo 5 del suddetto Trattato.
Il ministro, nel leggere l'atto del Consiglio atlantico nel quale il Consiglio accettava la richiesta degli Stati Uniti in ordine all'articolo 5 del Trattato NATO, sottolineava il fatto che il Consiglio stabiliva che, laddove fosse stato accertato che questo attacco era stato diretto dall'estero contro gli Stati Uniti, esso sarebbe stato considerato come un'azione che ricadeva nell'ambito dell'articolo 5. Il ministro, dunque, evidenziava la sottolineatura del Consiglio, vale a dire la necessità di accertare se effettivamente vi fossero le ragioni per considerarlo un attacco dall'estero. Come sapete, le ragioni non sono state mai chiarite, nonostante le reiterate richieste presentate anche da parte del Congresso americano. Non sappiamo quale sia stato il lavoro di investigazione dell'intelligence.
In quella stessa occasione, il 13 settembre 2001, il senatore Andreotti, parlando della vaghezza e della pericolosità del concetto di attacco dall'estero, affermò: L'articolo 5, fortunatamente, non è stato mai applicato, proprio perché il successo della NATO è stato tale che la sua deterrenza si è rivelata così valida da dissuadere il potenziale aggressore, cosicché non è stato mai necessario sparare un colpo di cannone. Faccio solo presente che la frase che ho ascoltato, se si accerterà che viene dall'estero, non so cosa possa significare. Infatti, se si tratta di uno Stato, posso ancora capire - difatti, l'articolo 5 si attiva, si sarebbe dovuto attivare, laddove fosse stata riconosciuta la responsabilità di uno Stato - ma, dicendo «dall'estero», dobbiamo fare attenzione - sono sempre parole di Andreotti - esattamente perché si cade nel limbo della indeterminatezza e, cioè, in quel limbo che rende vano o rende un infingimento qualsiasi richiamo al diritto (che, per definizione, ha bisogno di chiarezza e non di margini di interpretabilità nell'ambito della vaghezza). Questa la vicenda che ha portato all'attivazione delle varie alleanze e alla decisione degli Stati Uniti di attaccare Kabul e di dar vita ad un nuovo regime, aprendo una fase infinita di escalation che non ha fine e che non ha fatto approdare a nulla.
Non voglio entrare nella retorica con la quale viene presentata la nuova situazione in Afghanistan. Ovviamente, i punti di vista sono molto diversi. Noi abbiamo ascoltato da Joya Malalai, deputata afghana che è stata assalita nell'aula parlamentare dai suoi colleghi signori della guerra e del narcotraffico, una presentazione dei problemi del suo paese - peraltro, con riferimento a zone sotto il controllo dell'ISAF, come Kabul - che non dà sicurezza circa il buon impiego delle risorse italiane in quel territorio.
Desidero concludere ...

PRESIDENTE. Onorevole Deiana...

ELETTRA DEIANA. ... riallacciandomi ad alcune questioni di ordine generale.
Il ritiro dei militari italiani dall'Iraq è una grande conquista per noi, un grande passo, un elemento di profonda ed importante discontinuità. Ovviamente, continuiamo ad essere sostenitori del ritiro delle truppe italiane anche dall'Afghanistan.
Si tratta di questioni decisive, ma che sono veramente tali soltanto nel contesto di una riflessione allargata, che noi proponiamo. Per quanto ci riguarda, ci impegniamo a far sì che la nostra riflessione promuova una discussione più ampia. In parte, la nostra impostazione è stata recepita dalla cosiddetta mozione di accompagnamento, che, a mio avviso, però, certamente non basta.
Innanzitutto, occorre decostruire una serie di luoghi comuni che gravano sulla cultura politica (in parte, anche su quella dell'Unione) e costituiscono la filiera di connessioni e consensi di quella politica


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bipartisan sulle questioni internazionali che da troppe parti viene invocata.
Voglio elencare...

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Deiana.

ELETTRA DEIANA. ... in maniera rapidissima - impiegherò un minuto, signor Presidente - i dogmi bipartisan che non condividiamo. Al primo posto, la funzione legittimante dell'ONU nei confronti delle guerre di aggressione: i famosi mandati ex post non sono la stessa cosa di un'assunzione di responsabilità da parte dell'ONU, come terzo soggetto al di sopra delle parti.

PRESIDENTE. Onorevole Deiana, ha già superato di oltre un minuto il tempo a sua disposizione...

ELETTRA DEIANA. I mandati ex post sono soltanto la legittimazione di azioni decise in altra sede.
Inoltre, e concludo, signor Presidente, contestiamo il ruolo di pacificazione e ricostruzione civile che può essere svolto - e che tutti dicono sia svolto positivamente nel mondo - da un'alleanza militare come la NATO, la funzione emancipatrice del militarismo umanitario praticato dall'Occidente in nome dei diritti dell'uomo. Si tratta di nodi profondi, di nodi culturali che si sono sedimentati come luoghi comuni e che noi riteniamo assolutamente disastrosi. Bisogna mettere in atto e sviluppare una politica di pace, di diplomazia e di cooperazione volta a disinnescare mine vaganti, bombe ad altissima potenza che attentano ...

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Deiana...

ELETTRA DEIANA. ... alla libertà, alla sicurezza ed alla convivenza tra i popoli.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garofani. Ne ha facoltà.

FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, la discussione sul disegno di legge in esame ha avuto, come baricentro (l'abbiamo sentito ripetere nel corso del dibattito di questa mattina), il tema della continuità o della discontinuità rispetto alla politica estera del Governo precedente.
Se consideriamo il tema del rientro delle nostre truppe dall'Iraq, possiamo affermare che, in questo caso, il massimo della discontinuità possibile coincide con il recupero di una continuità sostanziale, le linee portanti di cinquant'anni di politica estera italiana rispetto alle quali, con i Governi Berlusconi, si era realizzata una rottura che ritengo grave.
Chi, nelle file del centrodestra, cerca di ridurre, oggi, la portata delle decisioni sull'Iraq, affermando che, in fondo, anche il Governo precedente aveva già ipotizzato il rientro delle truppe italiane entro la fine dell'anno, svolge un ragionamento che finisce per confondere la politica con il calendario. Non si tratta di contare i giorni. Le date potrebbero anche coincidere, ma ciò che, comunque, assolutamente diverge sono le motivazioni politiche del rientro, oltre che, naturalmente, il giudizio politico sulla nostra partecipazione alle operazioni militari in Iraq, che era e resta un giudizio di netto dissenso per ragioni che non possono essere messe tra parentesi o troppo rapidamente archiviate come opinabili, ragioni che via via in questi mesi hanno svelato la gravità degli errori compiuti.
È su quelle ragioni che oggi misuriamo quella svolta nella politica estera, richiamata in tanti interventi, che riporta l'Italia in asse rispetto alla sua tradizione e l'allinea alle scelte delle principali democrazie continentali, nella cornice di un'alleanza transatlantica. Una discontinuità rispetto al recente passato che non riguarda, del resto, soltanto l'Italia, se è vero che ora anche il Presidente americano, George Bush, dice di comprendere le ragioni italiane sul rientro dei militari dall'Iraq. E non sono certamente considerazioni attinenti soltanto agli impegni che l'Unione ha assunto in campagna elettorale con i suoi elettori. C'è una valutazione di fondo che si sta facendo strada anche all'interno dell'amministrazione americana


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(anche ciò è stato ricordato nel corso del dibattito), oltre che nell'opinione pubblica mondiale, sul sostanziale fallimento dell'unilateralismo sperimentato in Iraq, sull'inefficacia in termini di sicurezza globale, sulla teoria della guerra preventiva. È ormai evidente che la democrazia non si esporta, tanto meno con le armi, caso mai - come ha detto il collega Capezzone nel suo intervento ricco di provocazioni, anche interessanti, se non tutte condivisibili - si promuove. Ed è ancora più evidente che nessuna potenza mondiale, nemmeno l'unica superpotenza sopravvissuta alla fine dei blocchi, oggi può disporre delle risorse che servirebbero a sostenere un'infinita campagna militare globale contro chi insidia pace e stabilità.
Pace e stabilità: anche in questo dibattito si è posto il tema di come distinguere, anche a livello teorico (lo ha ricordato anche Gerardo Bianco nel suo intervento), tra guerre e terrorismo. È entrata nel circuito lessicale la definizione di guerre simmetriche; si è sottolineato l'elemento di novità dei fenomeni che mettono a rischio la sicurezza globale e, dunque, la necessità di elaborare risposte altrettanto nuove in termini di politiche, di strumenti, per realizzare le decisioni che si assumono.
Se è vero che l'11 settembre ha definitivamente cambiato il nostro modo di vivere, è altrettanto vero che siamo ancora agli inizi di questa nuova era. Procediamo per tentativi. Le risposte politiche che fino a qui la comunità internazionale ha dato alle diverse aree di crisi sono quasi sempre insufficienti, inefficaci e, qualche volta, persino contraddittorie.
In una sua recente audizione, di fronte alle Commissioni riunite di Camera e Senato, il ministro Parisi ha insistito molto sulla dimensione del cambiamento di scenario, evidenziando due questioni. La prima è che, se si vuole essere fruitori di sicurezza, si deve essere, nello stesso tempo, produttori di sicurezza. Questo vuol dire disponibilità a partecipare alle decisioni, gli impegni che assume la comunità internazionale, una disponibilità che nasce non dall'obbligo di affermare un ruolo di potenza, ma dalla volontà di contribuire, in questo modo, al bene comune rappresentato dalla sicurezza e dalla pace.
Seconda questione: le risposte non possono essere solo militari. Esse devono essere globali, economiche, culturali e politiche.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 13,50)

FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. A questi due elementi potremmo aggiungerne un terzo, anch'esso già menzionato nel corso di questo dibattito, a proposito delle riflessioni che si impongono anche oltreoceano e da cui si ricava un dato fondamentale: la risposta più giusta ed efficace agli attacchi terroristici non può che essere multilaterale, cioè condivisa dalla comunità internazionale e governata dagli organismi sovranazionali.
Il tema della multilateralità è quello che più drasticamente ha rappresentato uno spartiacque, che ha diviso gli Stati Uniti dai suoi tradizionali alleati e, più ancora, l'Europa al suo interno, tanto da far distinguere una presunta vecchia Europa e una nuova Europa. Oggi, forse, questa divisione può essere superata e le linee di politica estera del Governo Prodi, a cominciare proprio dal rientro dall'Iraq, riaprono per il nostro paese un ruolo di primo piano nel processo di integrazione europea anche in materia di sicurezza.
In questo quadro complesso, ricco di rischi e di opportunità, si colloca la discussione sulle nostre missioni. Su alcune di esse il giudizio politico è positivamente condiviso tra maggioranza e opposizione e non soltanto per l'elevato grado di professionalità operativa dimostrata dai nostri soldati, unita ad un riconosciuto senso di umanità messo in campo anche nelle situazioni più difficili di cui tutti siamo grati.
La presenza italiana nei Balcani, in Africa, in Medio Oriente non solo non solleva obiezioni politiche, ma anzi riscuote un apprezzamento trasversale nei nostri schieramenti e si traduce nel sostegno al disegno di legge in discussione, nella


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consapevolezza che proprio in alcune di queste aree il nostro paese può esercitare un ruolo di protagonismo politico vero ed efficace.
È di straordinaria e drammatica attualità il tema del Mediterraneo. È stata citata la situazione in Medio Oriente ed è auspicabile che si rafforzi l'iniziativa preannunciata dal Governo. Non possiamo nascondere che il punto più critico riguarda la nostra presenza in Afghanistan. A questo proposito, è importante la cornice politica rappresentata dalla mozione sottoscritta da tutte le forze dell'Unione, che evidenzia i legami tra sicurezza, democrazia e sviluppo e che collega indissolubilmente il ricorso allo strumento militare a criteri di legittimità, in un quadro di legalità internazionale.
Rispetto i dubbi, il disagio politico e il dissenso motivato, che non può essere trasformato in caricatura, emerso in alcuni settori della nostra maggioranza, ma ritengo che sarebbe un grave errore politico mettere sullo stesso piano la missione in Iraq e quella in Afghanistan. Ciò significherebbe sottovalutare la svolta politica di questo Governo e ciò che si sta realizzando in politica estera.
In conclusione, credo che il disegno di legge predisposto dal Governo rappresenti un punto d'equilibrio credibile tra l'esigenza di un cambiamento di linea politica rispetto a scelte non condivise e la necessità di dare seguito agli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale, per contribuire alla costruzione della stabilità e della pace in una cornice di piena legalità. Così com'è essenziale che questa assunzione di responsabilità sia sostenuta, sia pure con motivazioni e sensibilità diverse, da tutte le forze che compongono la maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Osvaldo Napoli. Ne ha facoltà.

OSVALDO NAPOLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono trascorsi quasi cinque anni da quando, il 7 ottobre 2001, prese avvio l'operazione Enduring freeedom (libertà duratura). Due giorni dopo, il 9 ottobre, il Parlamento espresse il suo voto favorevole all'invio di militari e navi per sostenere il duplice impegno dell'Italia, con altre decine di nazioni del mondo libero, in due distinte missioni. Da un lato, Enduring freedom, la grande coalizione messa in piedi da Washington e Londra all'indomani dell'11 settembre per contrastare il terrorismo. Dall'altro lato, la missione ISAF con compiti più mirati - ma non per questo meno circoscritti - di stabilizzazione e di sicurezza in Afghanistan.
Il voto del Parlamento fotografò una situazione abbastanza chiara. La sinistra radicale si dissociò dall'ampia maggioranza che diede il via libera alla missione italiana. Quando, alcuni mesi dopo, si rafforzò il contingente italiano con l'invio degli alpini, si ripeté, nelle Camere, lo stesso schema, con qualche sofferenza in più tra i Democratici di Sinistra, anche se, alla fine del dibattito, e grazie all'astensione incrociata dei due schieramenti sulle rispettive mozioni, il Parlamento confermò gli impegni assunti dall'Italia sulla scena internazionale.
Nei cinque anni trascorsi, il nostro paese ha saputo mantenere fede agli impegni liberamente, e con grande convinzione, assunti nel consesso delle democrazie e di fronte al mondo libero. La partecipazione dell'Italia alle due missioni in Afghanistan è avvenuta con l'assunzione di un considerevole impegno di uomini, di mezzi e di risorse. Essa ha comportato non pochi sacrifici in termini di vite umane, così come è accaduto per le altre missioni di stabilizzazione e di pace (da ultima, quella in Iraq), sempre offrendo al mondo, in Iraq o Afghanistan, l'esempio dei nostri soldati, animati da abnegazione, umanità e professionalità.
Il Governo Berlusconi ha sviluppato, in questi cinque anni, una linea di politica estera che ha guadagnato al paese prestigio e considerazione sulla scena internazionale. Da quella linea non si può oggi tornare indietro, o denegare, senza, con ciò stesso, compromettere l'immagine e la credibilità dell'Italia.


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Questa mia affermazione è tanto vera al punto che oggi siamo qui, in questa Assemblea, per esprimere un voto di continuità rispetto agli impegni solennemente assunti, e più volte confermati, con i nostri alleati. Tanto è importante il voto che il Parlamento è chiamato ad esprimere da aver scosso, fin dalle fondamenta, la maggioranza malcerta ed esigua che sostiene l'Esecutivo in carica.
Mi permetta il Presidente Prodi, ma vorrei osservare che egli ha condotto la sua maggioranza ad un bivio politico drammatico, superato il quale, come auspico nell'interesse del paese, non viene tuttavia meno nessuna delle incognite che si addensano sul futuro del suo Governo. Dopo aver rassicurato fumosi ed alquanto generici impegni di discontinuità nel corso della campagna elettorale, infatti, egli si trova di fronte al primo serio impegno del suo Esecutivo, per assolvere il quale non ha altra scelta se non quella, limpida e sicura, che viene da una forte continuità con le decisioni, chiare e vincolanti, assunte dal Governo precedente.
Mi riferisco non alla vocazione vendicativa della realtà, o alla replica dei fatti più forte del velleitarismo fin qui mostrato, dal suo Esecutivo, sul terreno insidioso della politica estera, ma all'inadeguatezza degli strumenti prescelti e delle posizioni sostenute sia da lei in prima persona, signor Presidente del Consiglio, sia da numerosi suoi ministri.
Ciò al punto che i vertici istituzionali, innovando in modo alquanto irrituale rispetto ad una prassi consolidata, si sono spesi nel dibattito politico per ricordare a lei, signor Presidente del Consiglio dei ministri, a quali rischi espone il suo Esecutivo in assenza di una autonoma maggioranza in politica estera.
Le parole del Presidente della Repubblica sulla sopravvivenza, a sinistra, di gruppi e componenti «anacronistici» possono rientrare, compiendo qualche sforzo, nella sfera del potere di esternazione del Capo dello Stato, sia pure con una punta di irritualità, dal momento che le affermazioni di Napolitano, riferite nell'intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (ma precedute da altre dello stesso tenore), prefigurano una qualche forma di tutela istituzionale rispetto all'incerta e vacillante linea di politica estera del Governo. Si tratta di una circostanza decisamente nuova, sulla quale sarà bene riflettere il giorno in cui si potrà riprendere, con animo rasserenato, il processo di riforme costituzionali.
Non nascondo, invece, il mio stupore rispetto alle parole pronunciate dal Presidente della Camera. Il suo richiamo alla maggioranza affinché non faccia venir meno la sua coesione sulla politica estera, infatti, è una lesione ai doveri del suo ufficio di Presidente di una Assemblea parlamentare.
L'onorevole Bertinotti ha agito come un leader politico, mettendosi ben al di sotto delle parti rispetto al ruolo di Presidente della Camera dei deputati. Bertinotti e Napolitano sono intervenuti, dunque, in soccorso di una maggioranza, consapevoli che il suo venir meno sulla vicenda afgana non potrebbe rimanere senza conseguenze sul piano politico.
Ecco dunque, onorevole Prodi, un primo grave danno del suo Governo: aver costretto i vertici istituzionali ad esporsi nella battaglia parlamentare, per supplire alle inadeguatezze e alle insufficienze della maggioranza - come con grande onestà intellettuale ha riconosciuto ieri il sottosegretario Enrico Letta -, mettendo in qualche misura a rischio lo stesso ruolo di garanzia dei vertici istituzionali.
La Casa delle libertà non abbandona i militari italiani in Afghanistan. Noi ci siamo assunti la responsabilità il 9 ottobre 2001 di aiutare il popolo afghano a ritrovare la via della libertà dal terrorismo e la via della democrazia. Noi siamo pronti a sostenere con il nostro voto gli afghani nella ricerca, ancora difficile e lunga, della stabilità politica e dell'organizzazione civile del loro paese. Il ministro degli affari esteri ha ritenuto qualche giorno fa di evocare la possibilità di una missione internazionale di tregua in Medio Oriente. Ritengo, se ho ben capito le parole dell'onorevole


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D'Alema, che l'Italia potrebbe proporsi come protagonista attiva di questa nuova missione.
Credo che il ministro, venendo meno al suo tratto di uomo prudente, abbia lanciato un sasso molto in alto. Una missione di tregua, o di interposizione in Medio Oriente, non potrebbe non avvenire se non con l'assenso pieno e convinto di Israele, cioè di uno Stato democratico libero e sovrano, e non potrebbe realizzarsi se non sulla base di un presupposto di chiarezza: da un lato ci sono gli aggressori, cioè gli Hezbollah, dall'altro c'è uno Stato democratico aggredito, cioè Israele. È il punto di maggior chiarezza fissato nelle conclusioni del vertice G8 a San Pietroburgo, sia pure nella provvisorietà propria di un vertice, che si pronuncia su avvenimenti drammatici in svolgimento. In un sol colpo sono stati cancellati decenni di ambiguità diplomatiche e di contorsioni politiche. Non ci sono più letture e filtri ideologici per la situazione medio-orientale. Non c'è più spazio, onorevole D'Alema per contorcimenti che sfociano in improbabili posizioni di equivicinanza o di equidistanza, un metro di giudizio che pone le vittime sullo stesso piano degli aggressori: uno Stato democratico, Israele, sullo stesso piano di un'organizzazione criminale e genocidi, come Hezbollah.
L'Italia si è lasciata alle spalle una stagione troppo lunga di politica estera segnata da ambiguità e ipocrisie pelose, solidarietà più o meno imbarazzate verso il popolo israeliano, sempre al centro di aggressioni nei 58 anni di vita del suo Stato. Un silenzio dilagante e omertoso da parte di molti dei nostri Governi - con l'eccezione del Governo Berlusconi e, nel passato, del Governo Spadolini -, timorosi sempre di urtare la sensibilità di un'infima minoranza radicale ed estremista, che sapeva e sa tuttora occupare la piazza e la ribalta mediatica. È in questo terreno scivoloso, fatto di silenzi o di omertà, che ha potuto attecchire nel tempo una forma nuova e più insidiosa di antisemitismo. È quell'antisemitismo che si maschera di solidarietà all'apparire di una svastica nel ghetto di Roma - episodio deprecabile quant'altri mai, e mai troppo deprecato! -, ma è pronto a scattare come un sol uomo quando si tratta di criticare lo Stato di Israele ed accusarlo delle peggiori nefandezze.
Signor Presidente, lei si è fatto purtroppo interprete di questa irrisolta contraddizione di fondo della politica italiana nei confronti dello Stato di Israele.

PRESIDENTE. Onorevole Osvaldo Napoli, la invito a concludere.

OSVALDO NAPOLI. Un minuto e ho finito. L'onorevole Deiana, Presidente, ha parlato 8 minuti in più del tempo a sua disposizione. Le chiedo scusa, ma ho proprio poche righe per concludere.
Lei si è fatto purtroppo interprete di questa irrisolta contraddizione di fondo della politica italiana nei confronti dello Stato di Israele. Chiamare sul banco degli accusati lo Stato israeliano, come lei ha fatto, per una reazione sproporzionata, ignorando l'azione criminale specifica degli Hezbollah e la sua perdurante aggressione contro i villaggi civili israeliani da parte dell'area del sud del Libano, è stato quanto meno un azzardo politico, ma sicuramente un passo falso sul piano diplomatico. Questo ramo del Parlamento è dunque chiamato a dare un voto di conferma ad una linea di politica estera, che non nasce oggi e non nasce soprattutto da una scelta improvvisata.
La capacità dell'Italia di essere presente sulla scena internazionale per svolgere un ruolo, da tutti riconosciuto, di solidarietà e di sicurezza per le popolazioni civili, vittime di conflitti, è una questione più grande delle divisioni politiche e delle laceranti incertezze della sua maggioranza. Per questa ragione la Casa delle libertà è pronta a dare il proprio contributo decisivo, sul piano politico prima che su quello dei numeri, per salvaguardare il ruolo ed il prestigio del nostro paese.
La Casa delle libertà e Forza Italia hanno la coscienza chiara e forte delle responsabilità cui è chiamato il nostro paese perché noi, per primi, abbiamo assunto l'impegno solenne con il popolo


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afghano e con i nostri alleati. Da quella responsabilità non fuggiremo, intendiamo confermarla senza esitazioni né incertezze, ma nella doverosa chiarezza delle posizioni e dei ruoli tra Governo ed opposizione (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. Onorevole Osvaldo Napoli, lei ha parlato due minuti oltre il tempo a sua disposizione, come la collega Deiana; adesso non compenseremo più con nessun altro collega. È iscritto a parlare l'onorevole Allam. Ne ha facoltà.

KHALED FOUAD ALLAM. Onorevoli colleghi, onorevole Presidente della Camera, vi si sono certo diverse letture della questione afghana e della nostra missione in Afghanistan. Non mi soffermo sul fatto che dobbiamo rispettare i nostri impegni internazionali e che un paese come il nostro deve sapersi definire nella complessità del mondo odierno, evitando le tentazioni pericolose di un isolazionismo che si fonda sulla filosofia del rifiuto di qualunque intervento. In ogni caso, io che vi parlo studio da quasi vent'anni la questione del radicalismo nell'Islam contemporaneo e ho vissuto le prime fasi del fondamentalismo in Algeria all'inizio degli anni Ottanta. Mi sento dunque, emotivamente, oltre che politicamente, coinvolto in questa vicenda.
La questione afghana va ben oltre la peculiarità di quell'angolo del mondo, delle sue caratteristiche etniche, culturali e geografiche perché esiste una grande questione afghana che sarà il banco di prova su cui si giocheranno i destini del mondo. Ciò, perché il mondo del post 11 settembre è nato proprio lì e perché è lì che il radicalismo islamico ha sperimentato la sua veste politica, vale a dire il nuovo totalitarismo del ventunesimo secolo.
Vorrei ricordare che l'occupazione talebana aveva sostituito la dicitura Stato afghano con la parola Emirato. Ovviamente, non ho nulla contro gli Emirati, ma quella sostituzione lessicale mostra chiaramente come i talebani opponessero due ordini, due codici politici: il loro, fondato su un'interpretazione iperigorista della shari'a e quello di uno Stato fondato sulla libertà e la democrazia. Il lessico arabo non è privo della nozione di Stato: esiste la parola dawla, che in arabo significa Stato. Ma essi, giocando su un cambiamento del linguaggio politico, definivano, in realtà, la loro rappresentazione del mondo, un mondo chiuso in se stesso, un mondo senza sorriso, un mondo che si autodefinisce virtuoso. Vorrei ricordare anche in questo caso che sotto l'occupazione talebana il ministero della cultura fu sostituito da un ministero delle virtù; abbiamo visto, in seguito, in che cosa consistesse la virtù talebana. Un totalitarismo improntato ad un Islam che dimenticava totalmente l'uomo, su una rigidità comportamentale, individuale e collettiva, che non aveva nulla da invidiare a quel totalitarismo sovietico, così ben descritto da Solgenitzin.
Oggi, dunque, esiste una grande questione afghana ed esiste una linea di confine geopolitica e, ovviamente, culturale fra i difensori delle libertà e coloro che le negano.
L'Afghanistan ha segnato e segnerà il nostro ingresso nel post guerra fredda e so bene che tale ingresso è segnato oggi dall'irruzione di una violenza inedita, violenza che troppo spesso colpisce le popolazioni civili. Ma proprio perché quella violenza sta segnando la nostra storia è dovere di uno Stato, che ha firmato degli accordi internazionali, fare di tutto per impedire che l'Afghanistan sia inghiottito da quella violenza.
Che cosa vogliono ottenere i talebani con la loro strategia? Intendono conquistare il monopolio della violenza per inghiottire quello Stato e costruire un ponte verso altre entità come, ad esempio, la Somalia di oggi o altre aree del mondo dove il terrorismo di matrice islamica potrà ritmare la cadenza del modo, dove tenterà di uccidere la libertà, sostituendo l'ordine mondiale con la tirannia devastante della loro ideologia.
La questione afghana è la grande questione della nostra epoca e vorrei ricordare qui, in quest'aula, per chi lo avesse


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dimenticato, le tragiche immagini dell'ostaggio di Kabul, i riti di morti collettive, le donne lapidate e l'immagine che ha girato il mondo intero, quella della donna di cui non vedremo mai il volto, fucilata a bruciapelo come si abbattono gli animali, i cani.
Se dovessi votare il provvedimento in esame anche per salvare solo una donna, solo un uomo, solo un bambino, lo farei, cari colleghi. Non ho alcun dubbio, e non amo la guerra, ma fra l'oppressione, la tirannia e la libertà scelgo la libertà e chi aiuta a farla crescere, a conquistarla, a proteggerla.
Non vi parlo nemmeno delle strategie dei talebani, in maggioranza appartenenti alla tribù dei pashtun, in cui è presente il sogno di riunire i dodici milioni di pashtun divisi fra il Pakistan e l'Afghanistan; non vi parlo del traffico internazionale della droga, di cui i talebani si sono fatti maestri. Insisto unicamente sui destini della libertà, sul pericolo che incombe sul mondo e sul ruolo e la responsabilità che la comunità internazionale ha di fronte a chi, volendo instaurare un nuovo totalitarismo, minaccia anche il difficile tentativo del mondo musulmano, un mondo in totale crisi, di costruire il suo spazio democratico, di tentare un approccio alla libertà e alla convivenza civile (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, signor viceministro, ciò che accade in queste ore, l'attacco concentrico delle forze terroristiche alla democrazia israeliana, fa sì che il dibattito in corso venga sottratto definitivamente ai sofismi in cui le forze della maggioranza si sono asetticamente esercitate per settimane, nell'unico intento di trovare un accordo in cui non solo ciascuna forza politica dell'Unione - etichetta che oramai suona quanto mai grottesca - ma ciascun singolo deputato e senatore potesse riconoscere anche la propria posizione per poter non votare contro.
Iraq, Afghanistan, Israele, Iran, Siria, Libano, e poi Al Qaeda, Hezbollah, Hamas formano un unico puzzle che va affrontato con un'unità di intenti e di decisioni. Non è possibile continuare con i sofismi lessicali, ma è necessario scegliere il campo in cui militare, con i costi che ciò comporta.
Cosa sceglie il Governo italiano? Il campo della libertà e delle democrazie minacciate, democrazie consolidate come quella israeliana o nascenti come quella irachena e afghana, o quello delle forze e dei paesi che hanno interesse alla destabilizzazione terrorista?
Non intendo disconoscere le ragioni della diplomazia, per carità, ma confesso di non aver capito cosa significhi «equivicinanza», come non capisco come sia possibile che il Presidente del Consiglio italiano chiami in causa come mediatore nella crisi israeliana - e la smentita è arrivata troppo debole e troppo tardi - quell'Iran il cui Presidente vuole cancellare lo Stato ebraico dalle cartine geografiche. Oggi, innanzitutto, si sta con Israele o contro Israele. La Casa delle libertà è stata ed è con Israele; l'Unione non si sa o non si capisce con chi stia. Ciò è inevitabile. Quando la politica estera cessa di riflettere gli obiettivi e le strategie internazionali di un paese, per diventare una delle tante camere di compensazione degli equilibri di potere interni alla maggioranza, un paese cessa, di fatto, di avere una politica estera e un grande paese non può e non deve permettersi ciò. E, soprattutto, non può permetterselo quando, sulla base di impegni assunti nell'ultimo decennio, è impegnato con personale militare e civile in diversi scenari di crisi, perché così non si mette solo a repentaglio la credibilità delle politiche e l'autorevolezza delle istituzioni ma anche e, in special modo, la stessa sicurezza del paese.
Nella maggioranza si fronteggiano posizioni tra loro inconciliabili e non vi è nulla in comune né mediazione possibile fra chi ritiene che si stesse meglio nell'Afghanistan dei talebani, di cui ci ha parlato il collega Khaled Fouad Allam, o comunque non ci si dovesse immischiare nella vicenda afghana nell'unico modo possibile,


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quello militare, e chi vorrebbe, invece, mantenere l'ancoraggio atlantico, occidentale, democratico della politica internazionale italiana.
Una politica estera e internazionale non si fa mediando fra queste posizioni inconciliabili, ma scegliendone responsabilmente una. Invece, voi siete - qui noi tutti siamo - a discutere in che forma e a che prezzo un Governo possa onorare le cambiali elettorali accese alla sinistra antagonista antioccidentale, mantenendo, tuttavia, una qualche forma di solidarietà atlantica.
Avete, lo dico ai più «occidentali» della maggioranza - un Presidente del Consiglio che, a proposito dell'intervento italiano in Iraq, parlò di partecipazione alla guerra di occupazione.
Avete usato, qualcuno di voi suo malgrado, ne sono certo, la peggiore propaganda antiamericana per arruolare l'esercito elettorale delle piazze pacifiste, ma ora i nodi vengono al pettine e i conti vanno all'incasso.
Lo stesso tentativo che fate per distinguere la natura della missione italiana in Afghanistan da quella in Iraq è qualcosa di penoso, francamente parlando. In entrambi i casi, l'impegno italiano, che nessuno ha mai immaginato a tempo indeterminato, è volto ad assicurare il successo di una transizione democratica avviata ma non completata e minacciata dalla violenza di quanti vorrebbero ripristinare lo status quo ante o peggio. In entrambi i casi, la presenza italiana è necessaria al mantenimento dell'ordine e della sicurezza; in entrambi i casi, colleghi, la presenza italiana - non il complesso della vicenda bellica ma la presenza italiana sicuramente sì - adempie ad un mandato esplicito delle Nazioni Unite; in entrambi i casi, gli interlocutori politici ed istituzionali del nostro paese sono Governi legittimi e affidati, per la loro stessa sopravvivenza, al sostegno politico e militare di paesi liberi e democratici.
In Iraq come in Afghanistan, se combattiamo - come dite - una guerra, combattiamo quella che il fanatismo islamista, nazionalista e terrorista ha dichiarato al popolo afghano e iracheno e alle sue istituzioni in primis (in fondo, la guerra che il fanatismo islamista combatte contro l'Occidente libero). Sapete spiegare con una qualche coerenza perché, uscendo dall'Iraq, non dovremmo, per le stesse identiche ragioni, uscire dall'Afghanistan e, magari, dai Balcani o perché, al contrario, la nostra presenza in Afghanistan sarebbe più difendibile in termini politici e militari di quella in Iraq?
Sapreste spiegare per quale ragione il superamento - il termine vi piace molto - dell'impegno militare in Afghanistan a cui alludete debba, giustamente, essere concordato e governato in una prospettiva multilaterale e negoziale con gli alleati e le autorità politiche del paese e, invece, a Baghdad possa essere tale superamento imposto agli uni e agli altri come un fatto compiuto?
Forse perché in Iraq la situazione è - credo lo sia solo apparentemente - più difficile anche dal punto di vista militare, nel senso che il paese si trova sul crinale tra la stabilizzazione improntata ad un sistema democratico e il caos voluto dai terroristi antiiracheni prima che antioccidentali?
Perché la responsabilità è apparentemente maggiore e sicuramente maggiore è l'attenzione dei media? È questo che vi spaventa? È per questo che decretate una vera e propria fuga dalle responsabilità che abbiamo assunto?
È questo che intendono accettare tutte le forze della maggioranza, anche quelle che hanno sempre creduto nella necessità di una presenza occidentale, anche - in alcuni casi soprattutto - militare in favore della democrazia in Iraq e hanno denunciato il pericolo insito in un fallimento del regime change, del dopo Saddam? E, se le cose peggiorassero anche in Afghanistan, e quindi la nostra presenza militare diventasse ancora più necessaria al Governo legittimo, fuggiremo subito anche da lì?
In tutto questo, in più, pretendete di dare lezioni. La vostra politica estera tornerebbe - dite - ad essere multilaterale e diplomatica, dopo essere stata unilateralmente militare per il Governo che vi ha


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preceduto. La vostra politica estera - aggiungete - ha il proprio ancoraggio nell'ONU e nelle istituzioni europee.
Al di là della retorica e delle falsità contro la politica del Governo precedente, occorre precisare non solo quale sia la logica, più o meno multilaterale, ma anche quale sia il contenuto e l'obiettivo della politica internazionale del nostro paese. Il multilateralismo, la delega all'ONU non sono, di per sé, una soluzione, anzi il contrario, come la storia ci insegna.
Lo sapete, del resto, perché è passato meno di un decennio, che fu solo grazie all'unilateralismo americano, della NATO e anche italiano ed europeo in quel caso, che un intervento militare osteggiato in sede ONU dalla Russia salvò i musulmani kosovari dallo stesso destino a cui il protettorato ONU sui campi profughi consegnò i musulmani bosniaci: l'ONU li teneva fermi, mentre Karadzic e Mladic li massacravano. Adesso voi pensate a forze di interposizione sotto la bandiera dell'ONU in Libano e anche a Gaza.
Anche in questo caso lo strumento nella sua retorica - non so nella sua efficacia - è chiaro, ma i fini non lo sono. Volete andare lì per disarmare le fazioni di Hamas e Hezbollah e quindi per impedire che Israele venga bombardata e non abbia bisogno di reagire militarmente? Oppure volete andare lì per accerchiare anche politicamente, con la bandiera dell'ONU, il territorio di Israele, continuando a pontificare sulla sproporzione delle sue reazioni? Volete fare della nostra politica estera una dependance politica e diplomatica, non dico e non direi mai di Hezbollah o di Hamas, ma della lega araba forse sì? Non è il tempo - e concludo signor Presidente - dei compromessi, ma quello della chiarezza. Se il vostro unico orizzonte possibile è il primo, cioè quello dei compromessi, al vostro interno e indipendentemente da ciò che succede nel mondo, traetene la conseguenze il prima possibile. Lo hanno detto in molti e lo ripeto: non si governa oggi un grande paese senza una politica internazionale; è un lusso che gli italiani non possono permettersi (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.

ARTURO SCOTTO. Signor Presidente, signori deputati, la mozione parlamentare presentata dall'Unione segna uno spartiacque decisivo con questi ultimi anni di politica estera del paese. L'Italia rientra in Europa, rifiutando in maniera definitiva la logica che aveva animato la dottrina della guerra preventiva, portatrice di lutti e di errori, sia sul piano militare sia dal punto di vista della strategia geopolitica. L'Europa torna al centro della politica estera italiana, perché con la scelta di ritirare le truppe dall'Iraq nel prossimo autunno ci riconnettiamo a quei paesi, Francia, Germania, Spagna, che prima di noi, con modalità differenti, avevano rifiutato l'idea che la guerra fosse l'unico strumento per contenere il fenomeno crescente del terrorismo fondamentalista, che dopo l'11 settembre aveva destabilizzato relazioni internazionali, agende economiche dei paesi e la stessa quotidianità dei cittadini.
Ma come fanno i colleghi del centrodestra a non vedere che l'impianto della dottrina dei neoconservatori americani - alcune eco le sentivo anche nell'intervento di chi mi ha preceduto - nonché l'esplicito richiamo al conflitto di civiltà hanno condizionato inequivocabilmente il delicato rapporto su cui regge l'equilibrio tra noi e il resto dei paesi, che provengono da un passato di colonizzazione e che oggi vivono con maggiore preoccupazione e criticità i processi di globalizzazione economica? Di chi è figlia la follia antisionista ed espansionista del Presidente iraniano Ahmadinejad? Da dove proviene la vittoria di Hamas in Palestina? Perché, a cinque anni dall'11 settembre, le nostre città, le nostre metropolitane, i nostri luoghi di socialità sono sempre più percepiti come insicuri? Questo inevitabilmente finisce per restringere gli stessi spazi democratici. L'Italia oggi ripristina pienamente il dettato dell'articolo 11 della Costituzione, come avevano


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chiesto gli straordinari movimenti pacifisti, capaci di mobilitare milioni di donne e di uomini su un messaggio chiaro: mai più la guerra sostituisca la diplomazia! Mai più la guerra surroghi il diritto internazionale! Mai più la guerra scavalchi gli orientamenti delle Nazioni Unite! Mai più la guerra giustifichi inferni di tortura come Guantanamo e Abu Graib.
Dunque, il rientro dei militari italiani dall'Iraq è un grande fatto politico, che non può essere coperto dalle difficoltà che pure in queste settimane sono emerse sull'altro capitolo rilevante del provvedimento sulle missioni: cosa fare in Afghanistan.
Non possiamo nascondere che a Kabul i ritardi nel consolidamento delle infrastrutture civili e democratiche, nella riconversione delle colture dell'oppio, nella costruzione di un tessuto solido che tenga insieme società religiosa e società politica, nel rispetto dei diritti umani a partire dal ruolo della donna, siano tanti ed evidenti. Tuttavia, sarebbe un errore - e lo ritengono tale anche quei parlamentari critici dell'Ulivo che già nella scorsa legislatura avevano in più passaggi manifestato contrarietà alla partecipazione italiana a Enduring Freedom - scegliere di far uscire il nostro paese da un contesto multilaterale dove le principali nazioni europee svolgono un ruolo non solo militare, ma anche di ricostruzione di relazioni civili e di solida assistenza sociale. La mozione prevede che entro un tempo ragionevolmente breve l'Italia possa porre in sede ONU e NATO una valutazione rigorosa sull'efficacia della missione afghana senza escludere che, in un quadro di normalizzazione e pacificazione del paese, venga affidata al Governo legittimo di Kabul la responsabilità del controllo del territorio e del mantenimento della pace.
Concludendo, voglio solo aggiungere che il ritorno dell'Italia in Europa consente al nostro paese di far sentire con più forza ed autorevolezza la propria voce, in queste ore drammatiche, lì a Gaza, a Beirut, a Haifa, dove si stanno consumando scenari di guerra ed emergenze umanitarie incalcolabili. Israele sta vivendo un dramma enorme con il sequestro dei propri militari e gli attacchi di Hezbollah sul proprio territorio nazionale. Tuttavia, in questo caso ha ragione il Governo, il nostro ministro degli esteri, e lo stesso G8: la reazione dell'esercito israeliano su Gaza e Beirut è sproporzionata e va immediatamente predisposto il «cessate il fuoco» prima che la crisi precipiti irrimediabilmente. La pace non è solo assenza di guerra, la pace è uno spazio pieno, dove la democrazia, la tolleranza, il dialogo, la cooperazione riescono a costruire le basi per un rapporto nuovo fra i popoli e gli Stati (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tucci. Ne ha facoltà.

MICHELE TUCCI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, è del tutto evidente che, nel quadro della politica estera espresso dal Governo di centrodestra, anche la missione in Afghanistan si è mossa nella direzione di una nuova, accresciuta responsabilizzazione del grande processo di sicurezza globale che deve imporre a tutti di essere parte attiva e dinamica nella salvaguardia del bene comune. Di questa politica le nostre Forze armate sono state e devono continuare ad essere uno strumento essenziale, cui dobbiamo molto anche in termini di coerenza e di rispetto, preservandole dagli effetti delle divisioni strumentali e delle contraddizioni ideologiche.
Con grande impegno e con qualificata professionalità i nostri soldati hanno conquistato rispetto, prestigio e finanche la simpatia e l'affetto delle popolazioni civili, assumendo sempre più ruolo e responsabilità nonostante le complesse condizioni in cui si è svolto il loro mandato. Di questo noi diamo atto, di questo noi siamo grati, di tutto ciò siamo legittimamente orgogliosi.
Oggi, però, i soldati italiani, ignorati completamente dal dibattito in corso sul rifinanziamento delle missioni, rappresentano i veri convitati di pietra, che assistono


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impotenti ai pericolosi e deleteri contorsionismi del Governo Prodi. Tutti i nostri militari, tanto coloro che sono ancora lì, quanto quelli che sono eroicamente caduti nell'adempimento del proprio dovere, meritano un maggiore rispetto anche dal Governo Prodi, oltre che una migliore considerazione per l'immagine che hanno dato del nostro paese.
Il consenso, l'adesione verso le missioni umanitarie internazionali trascende dalle collocazioni di parte e dagli interessi di politica di schieramento. Si tratta di scegliere, consapevoli delle responsabilità internazionali che incombono sul nostro paese, il senso del dovere verso lo Stato, il senso della patria, la solidarietà che abbiamo sempre espresso per tutte le popolazioni civili. Ecco, è questo il sistema dei valori al quale facciamo riferimento come elemento fondamentale del nostro impegno politico: quel comune senso dei valori che certamente non appartiene alla composita e contraddittoria maggioranza che in questa fase guida il governo del paese.
Soprattutto sull'Afghanistan, ma non solo, il centrosinistra ha offerto uno spettacolo penoso, frutto non solo di profonde divisioni interne, ma anche di ipocrite convenienze di parte. La nostra scelta, quella espressa pubblicamente e lucidamente dal presidente Casini, rappresenta un atto di responsabilità nazionale che neanche una concezione primitiva e irresponsabile del bipolarismo può indurre a modificare. Noi abbiamo espresso la nostra posizione con tempestività e chiarezza ed oggi prendiamo atto con soddisfazione che tutta la Casa delle libertà si ritrova in una posizione di grande responsabilità verso la nazione e i nostri militari, ma anche verso la comunità internazionale, che non ha mai fatto mancare il proprio apprezzamento per il ruolo significativo e positivo che il nostro paese ha fin qui avuto nel processo di pace. Abbiamo registrato come il ministro degli esteri D'Alema, intimamente conscio degli effetti devastanti per le prese di posizione irresponsabili emerse all'interno della maggioranza di Governo, si sia affannato ad affermare che non vi era alcun problema all'interno delle forze di maggioranza sulla politica estera. Ma abbiamo soprattutto registrato come prontamente l'onorevole Diliberto, in buona e numerosa compagnia, lo abbia ripetutamente e freddamente smentito, ricordando a lui e a Prodi - non certamente all'UDC e alle altre forze del centrodestra - di avere sempre votato contro la presenza militare italiana in Afghanistan.
D'altra parte, in che modo mai potrebbe giustificare davanti ai suoi elettori un così radicale cambiamento di posizioni proclamate con tanta veemenza in tutte le piazze d'Italia? Quelle stesse posizioni che hanno fatto guadagnare a Prodi un gruzzolo di voti, forse anche decisivo e determinante per la vittoria delle elezioni politiche da parte di quell'elettorato di marca pacifista. Questo è il punto centrale del contendere, un punto che aiuta a comprendere innanzitutto perché la sinistra radicale abbia ottenuto una significativa vittoria nella definizione della linea politica internazionale del Governo Prodi. La sinistra antagonista è riuscita ad imporre un compromesso tutt'altro che al ribasso. La missione, seppur rifinanziata con questo voto, viene svuotata del suo significato strategico e geopolitico. Escono così sconfitti coloro che, come D'Alema - che, voglio ricordare a me stesso, è pur sempre l'attuale ministro degli esteri -, avevano annunciato un rafforzamento dell'impegno italiano in Afghanistan, preparando invece la strada al disimpegno italiano dal coinvolgimento come protagonista di primo piano nella lotta al terrorismo islamico al fianco degli Stati Uniti d'America.
In politica estera non servono, per coprire la sconfitta di Prodi e del suo Governo, le dichiarazioni rese nelle ultime ore da lui e da D'Alema sulla partecipazione dell'Italia ad una forza di interposizione nel Libano e a Gaza all'interno della crisi israeliana. Resta forte in noi, invece, la preoccupazione di un possibile ridimensionamento del ruolo internazionale del nostro paese, con conseguente perdita, questo sì, di credibilità politica. Allora, appare chiaro come la sinistra radicale voglia determinare le condizioni


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dell'uscita dell'Italia dalla NATO, un traguardo cui ancora oggi non rinuncia, nonostante il compromesso sul voto odierno. Non c'è altro senso nelle reiterate richieste di un disimpegno in Afghanistan, dove pure siamo sotto l'egida della NATO e grazie ad una risoluzione dell'ONU. La sinistra radicale, tradendo la storia del nostro paese, vorrebbe un'Italia neutralista, soltanto perché questa rappresenterebbe l'unica via per rivedere e ricontrattare il ruolo del nostro paese in tutti gli organismi internazionali, compresa magari anche la Comunità europea. Sembra di capire che la posizione che assume il Governo in relazione alla nostra presenza in Afghanistan sarà elastica ed ingannevole pur di soddisfare la sinistra radicale; per questo appare particolarmente ambigua la posizione definita in sede di Governo.
Il dato che emerge è, ancora volta, una situazione di perenne affanno di una maggioranza che deve nascondere le proprie lacerazioni dietro un gioco di parole, in un esercizio di acrobazia condotto sul filo della crisi, con l'incubo di ogni votazione già tra gli stessi componenti dell'esecutivo, divisi tra riformisti moderati e sinistra radicale: una convivenza che risulterà sempre più nociva per il paese, per la sua storia e per la sua prospettiva politica all'interno del processo di stabilizzazione e di pace.
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, il nostro obiettivo - quello dell'UDC - non è mai stato soccorrere né una maggioranza, che è - e rimane -, nonostante questo voto, insufficiente prima ancora sul piano politico che su quello numerico, né un Governo costretto a navigare a vista, senza alcuna prospettiva credibile e di lunga durata. Si tratta di una maggioranza che fa tutto da sola, persino l'opposizione a se stessa sulla politica economica e sulla politica estera. Noi lo diciamo con chiarezza: se la maggioranza non avrà i voti necessari, ossia se non risulterà autosufficiente ed i nostri voti saranno determinanti, Prodi avrà il dovere morale e politico di dimettersi, e bene ha fatto il Capo dello Stato a sottolinearlo, dall'alto del suo ruolo istituzionale e di garanzia.
Onorevoli colleghi, un'opposizione non è condannata a dire sempre «no»: un'opposizione seria e responsabile ha il dovere di lavorare soprattutto nell'interesse del paese, non contro l'Italia, non contro gli italiani e meno che mai contro i nostri militari, come, invece, è successo, molto spesso, nella precedente legislatura da parte dell'allora opposizione. Non abbiamo mai pensato di strumentalizzare e penalizzare i nostri soldati, al solo fine di mettere in crisi una maggioranza inidonea a guidare il paese in un contesto temporale e politico così delicato. Noi abbiamo sostenuto, e continueremo a sostenere, le nostre missioni militari all'estero, facendo prevalere il senso di responsabilità istituzionale rispetto alle convenienze politiche di parte; proprio quel senso di responsabilità, onorevoli deputati, che pure dovrebbe accomunare il paese nelle grandi scelte di politica estera e che in noi è presente, tanto più - e soprattutto - quando è assente in chi ha la responsabilità di governare il paese [(Applausi dei deputati del gruppo dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro)].

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 1288)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore per la III Commissione, onorevole Ranieri.

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, rinunzio alla replica.

PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Ranieri.
Ha facoltà di replicare la relatrice per la IV Commissione, onorevole Pinotti.


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ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, anch'io rinunzio alla replica.

PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Pinotti.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, onorevoli deputati, tra ieri ed oggi - con le mozioni e con il presente provvedimento - si sono svolte oltre otto ore di discussione. Si è trattato di una discussione importante, in cui non si è fatta propaganda, ma si è tentato di approfondire gli argomenti. Ho ascoltato, ho preso nota ed ho imparato dagli interventi dei deputati della maggioranza e dagli interventi dei deputati dell'opposizione.
Svolgo anzitutto, una breve riflessione politica generale, che riguarda gli schieramenti. In qualunque paese normale, anche dove al Governo vi è non una coalizione di partiti, ma un solo partito, non il cento per cento di tale partito è d'accordo con il cento per cento della politica estera. Nel Regno Unito non il cento per cento del Labour Party è d'accordo con la politica irachena di Blair. Negli Stati Uniti non il cento per cento del Partito Repubblicano è d'accordo oggi con il multilateralismo di Condoleeza Rice, che apprezziamo, e non il cento per cento era d'accordo ieri con l'unilateralismo di Rumsfeld, che apprezzavamo molto meno. In qualunque paese normale, su una larga parte della politica estera sono d'accordo sia la maggioranza sia l'opposizione. Esattamente questa è la forza delle grandi democrazie: più largo è il consenso tra maggioranza ed opposizione, più uniti sono gli sforzi, più stabile ed autorevole è la politica estera di un paese.
Queste sono le ovvie considerazioni dalle quali iniziare. Anche l'Italia è un paese normale, anche in Italia, dunque, la maggioranza non è unanime su tutta la politica estera. La maggioranza e l'opposizione non sono pertanto divise su tutta la politica estera.
Passiamo alla sostanza del provvedimento: si finanziano quasi trenta missioni militari all'estero. L'impegno militare lontano dai confini è assolutamente normale per qualunque grande paese moderno, è routine. Nel mondo globalizzato nessun incendio può essere lasciato divampare senza che esso riguardi qualsiasi zona del mondo, senza che sia necessario l'intervento dei pompieri. L'impegno militare all'estero è, dunque, normale ed è importante; tuttavia sono più importanti l'impegno per lo sviluppo e l'impegno politico e diplomatico.
Noi riconosciamo questa gerarchia negli impegni all'estero; sappiamo che la statura internazionale di un paese non dipende dal peso del suo impegno militare, ma quest'ultimo, anche ciò sappiamo, è indispensabile. È indispensabile anche se non tutti gli impegni militari possono essere valutati sullo stesso piano. Anche tra gli impegni militari vi è una gerarchia, come ama ricordare l'onorevole Mantovani, e a ragione.
La filosofia dell'Italia in materia è molto semplice; noi preferiamo gli impegni multilaterali, le azioni militari di peace keeping, quando sono multilaterali, perché sono più neutrali, più legittimate e, quindi, più efficaci. Preferiamo dunque gli interventi sotto la guida diretta delle Nazioni Unite e vorremmo una capacità militare diretta delle Nazioni Unite stesse; ma non sempre ciò è possibile. Dunque, possiamo anche impegnarci nell'ambito delle alleanze tradizionali (la NATO o l'Unione europea), purché tali azioni siano promosse dalle Nazioni Unite, come appunto è avvenuto in Afghanistan. Non possiamo invece impegnarci al di fuori di tutte le alleanze tradizionali, e anche per questo ci ritiriamo dall'Iraq.
Dunque, anche la cornice, la forma degli interventi militari comporta una gerarchia: in cima si pongono le iniziative delle Nazioni Unite mentre, ad un livello minimo di efficacia e di accettabilità, si pongono quelle unilaterali.
La comunità internazionale interviene militarmente dunque nel mondo, ma purtroppo l'impegno non sempre è proporzionato alla gravità delle sofferenze umane; spesso è proporzionato piuttosto


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all'importanza strategica dell'area in cui si interviene: per tale ragione, in Africa, abbiamo avuto crisi con milioni di morti dimenticati da tutti.
Oggi, la maggioranza è molto sensibile a tale tema ed è perciò significativa l'intenzione di concorrere ad una missione in Darfur, che si auspica sia decisa il più presto possibile dalle Nazioni Unite.
Le nostre missioni sono di pace; il codice militare che deve essere applicato, dunque, è quello militare di pace, e non di guerra. Se mai sarà necessario, si potrà ammodernarlo per renderlo adatto alla nuova realtà delle missioni degli anni Duemila, una realtà impensabile quando, tanti decenni fa, si costruirono i codici militari attuali.
Il Governo vuole seguire una politica coerente, ed è coerente che ci si ritiri dall'Iraq rimanendo, però, in Afghanistan. Ciò, per la semplice ragione che l'Iraq non è l'Afghanistan e che in Iraq, per la prima volta dal dopoguerra, siamo intervenuti al di fuori di tutte le alleanze internazionali tradizionali, dalle Nazioni Unite alla NATO all'Unione europea: non era mai accaduto. In Afghanistan, invece, siamo intervenuti sotto l'egida della NATO, insieme a paesi come la Svezia e la Finlandia che, pur non facendo parte di tale organizzazione, sono tuttavia noti per il loro impegno umanitario e pacifista.
L'intervento in Iraq è nato da una menzogna o da un errore, dall'affermazione che esistessero armi di distruzione di massa che in realtà non esistevano. In Afghanistan, invece, l'intervento è nato dalla circostanza di fatto che in quella regione esistevano davvero le basi di Al Qaeda e che in quell'area, certo, si nascondeva Bin Laden. Si tratta di fatti reali, non inventati, che furono alla base dell'azione militare condotta in Afghanistan; analogamente, fu un fatto reale e non inventato la tragedia dell'11 settembre.
Dall'Iraq, dunque, si può venire via come singoli perché ci siamo andati come singoli, come parte di una coalizione di willings, di volenterosi. In Afghanistan, no. In Afghanistan, infatti, siamo intervenuti non come singoli ma come parte delle comunità NATO e Unione europea; anche se volessimo, non potremmo venire via dall'Afghanistan senza rompere una solidarietà collettiva. A tale proposito, ancora sull'Iraq, ci si deve porre una domanda molto semplice alla quale non ho mai sentito una risposta: perché mai in Iraq si dovrebbe chiedere all'Italia un impegno diverso e maggiore di quello che si chiede alla Francia, alla Germania, alla Spagna e a tutti i paesi dell'Europa continentale? Perché mai si dovrebbe chiedere a noi qualcosa che non si chiede a nessuno? La risposta non c'è e, difatti, la domanda non viene posta. Bush ha capito la posizione italiana: ci siamo disimpegnati dalla presenza militare in Iraq, ma non dalla presenza in Iraq, senza venir meno ad un rapporto corretto con i nostri alleati. L'Italia in Iraq se ne stava militarmente impegnata, ma isolata rispetto al cuore dell'Europa e rispetto ai padri fondatori dell'Europa tra cui ci siamo noi. Questo era anche il modo simbolico di un capovolgimento della tradizionale politica estera italiana. Vedete, la politica estera italiana tradizionale, da decenni, con i Governi guidati da democristiani e da socialisti, si è basata su due pilastri: da un canto l'Alleanza atlantica e, dall'altro, l'unità politica dell'Europa. Due pilastri legati l'uno all'altro, perché un rapporto paritario con gli Stati Uniti si può avere soltanto attraverso un'Europa politicamente unita. Per la prima volta, il Governo Berlusconi non si è più appoggiato a questi due pilastri, ma ad uno solo: l'Alleanza atlantica. È per questo che la politica estera del Governo Berlusconi è stata profondamente sbilanciata.
Tornando all'Afghanistan, occorre dire che in quel paese le cose non vanno bene. Non sempre c'è rispetto sufficiente per la popolazione, un adeguato sforzo per lo sviluppo o una fermezza verso la corruzione e l'arroganza dei signori della guerra, gli stessi che erano stati cacciati dai talebani. Non c'è sufficiente fantasia nell'iniziativa politica. A proposito di fantasia, si è parlato di oppio; ne ha parlato con competenza l'onorevole D'Elia ieri, e l'onorevole Zacchera avrebbe dovuto


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ascoltarlo. In effetti, si è sempre tentato di distruggere le coltivazioni di oppio, ma non ci si è mai riusciti. Allora, si può tentare una strada diversa, vale a dire quella di acquistare legalmente l'oppio per l'industria farmaceutica internazionale. Il denaro illegale proveniente dalla vendita dell'oppio è l'acqua nella quale navigano i pesci del terrorismo e della guerriglia: bisogna prosciugare quest'acqua e lo si può fare anche attraverso questa strada. Si risponde: ma non serve tanto, non è presente una tale domanda di oppio!. Ciò non è vero, perché non stiamo parlando della domanda in Italia. A Zurigo o a Roma si muore di cancro - grazie a Dio senza sofferenze atroci - perché c'è la morfina. Nel Lagos o a Kinshasa, si muore tra sofferenze atroci: perché non deve essere dato questo aiuto anche ai sofferenti del terzo mondo? Come si vede, la domanda non è anelastica. La domanda può crescere se si sviluppano ragioni di umanità.
Le cose dunque in Afghanistan non vanno bene. È giusto monitorare la situazione affinché non sfugga di mano, ma l'Italia deve prendersi le sue responsabilità. Poi, proprio per questo, avrà l'autorità di dire la sua in seno alla NATO e all'Unione europea. Su questi temi, onorevoli deputati, la filosofia del Governo è ispirata al semplice buonsenso. Il pacifismo è un valore, certo, ma non lo è più se diventa isolazionismo. Prima viene la politica e l'aiuto allo sviluppo e la lotta alla povertà, ma spesso senza la sicurezza e senza l'impegno militare non c'è né politica, né sviluppo, né lotta alla povertà. Questo è il senso delle nostre missioni all'estero.
Vorrei concludere, sottolineando il grande sforzo che tutti dobbiamo compiere e che si è avvertito in questo dibattito. Il terrorismo fondamentalista islamico, come la guerra fredda, durerà per decenni, non dobbiamo farci illusioni; andiamo incontro ad una guerra che durerà per decenni. Non si può affrontare questa nuova guerra degli anni 2000 con la psicologia, la filosofia, il dogmatismo ed i pregiudizi del secolo scorso. Tutti, maggioranza ed opposizione, dobbiamo compiere un grande sforzo di modernizzazione politica e culturale (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, dell'Italia dei Valori, de La Rosa nel Pugno, dei Comunisti Italiani, dei Verdi, dei Popolari-Udeur, del Misto-Minoranze linguistiche e del Misto-Movimento per l'Autonomia).

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Avverto che la discussione sulle linee generali del disegno di legge in materia di società operanti nel settore dell'energia e del gas avrà luogo al termine dell'informativa urgente del Governo.
Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15,30 con la deliberazione sulla richiesta di stralcio relativo alle proposte di legge in materia di amnistia ed indulto. Seguirà l'informativa urgente del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente.

La seduta, sospesa alle 14,55, è ripresa alle 15,35.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FAUSTO BERTINOTTI

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, il deputato Bimbi è in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono cinquanta, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Deliberazione sulla richiesta di stralcio relativa alle proposte di legge nn. 525, 662, 663, 665, 1122, 1266, 1323 e 1333.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la deliberazione su una richiesta di stralcio.


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La II Commissione (Giustizia), nel corso dell'esame delle proposte di legge C. 525 ed abbinate, in materia di concessione di amnistia e di indulto, ha deliberato di chiedere all'Assemblea lo stralcio delle disposizioni in materia di amnistia, ovvero: degli articoli 1 e 3 della proposta Buemi ed altri n. 525; degli articoli 1, 2, 3, 4 e 6 della proposta Boato n. 662; degli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della proposta Boato n. 663; degli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 11 della proposta Forlani ed altri n. 665; degli articoli 1, 2 e 3 della proposta Giordano n. 1122; degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 16 e 17 della proposta Capotosti n. 1266; degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 8 e 10 della proposta Crapolicchio n. 1323; degli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 8 della proposta Balducci e Zanella n. 1333.
Sulla richiesta di stralcio ha chiesto di parlare contro il deputato Donadi. Ne ha facoltà.

MASSIMO DONADI. Signor Presidente, il gruppo dell'Italia dei Valori esprimerà un voto contrario su questa proposta di stralcio, in quanto riteniamo che, con o senza stralcio, il provvedimento di indulto - come anche quello riguardante l'amnistia, ad esso originariamente collegato - non sia accettabile da chi in questo Parlamento (e mi auguro che ciò riguardi un numero più ampio dei componenti il nostro gruppo) ritiene che in questo paese si debba ancora tenere alto il significato e il valore della legalità.
Presidente, il nostro non è un voto contrario dettato da ragioni di cosiddetto giustizialismo. Diciamoci la verità, siamo di fronte ad un provvedimento di indulto del quale noi stessi conosciamo le ragioni, legate ad un sovraffollamento delle nostre carceri che ormai è divenuto insostenibile.
Tuttavia, prevedere un provvedimento di indulto - dunque, un atto di clemenza - non per ragioni proprie di clemenza, ma per motivi di necessità, dovuta al numero esorbitante di detenuti rispetto alla capienza del sistema carcerario, non può costituire una giustificazione per inserire all'interno di tale testo anche reati e situazioni di carattere generale che nulla hanno a che vedere con le motivazioni di diminuzione della pressione carceraria.
In Commissione giustizia, abbiamo avanzato richieste precise affinché dal provvedimento di indulto fossero cancellati... Chiedo scusa, ci farebbe piacere se, almeno dai banchi della nostra maggioranza, ci fosse un po' di attenzione sulla problematica che poniamo, ma evidentemente l'interesse non c'è!
Noi abbiamo chiesto che alcune tipologie di reati - mi riferisco ai reati contro la pubblica amministrazione, ai reati societari (falso in bilancio e analoghi) e fiscali - fossero escluse dal contenuto di un provvedimento che, come ho già detto, ha come giustificazione chiara, esplicita e più volte ribadita (in quest'aula e fuori da essa, anche utilizzando i mezzi di comunicazione), non la volontà di approvare un atto di clemenza, ma una necessità.
Ebbene, non vediamo la necessità di includere nel campo di applicazione del provvedimento le indicate tipologie di reati, che, da quanto abbiamo potuto apprendere a seguito di una prima, parziale indagine dei nostri uffici, vedono reclusi nelle carceri italiane - per tutte e tre le tipologie che ho menzionato - da 35 a 70 persone in tutto! Non crediamo che liberare un numero così limitato di persone, peraltro a costo di rimettere in discussione tre punti cardine del programma dell'Unione (mi riferisco alla volontà di contrastare il problema dell'evasione fiscale, cresciuta in questi anni, alla necessità di contrastare le mille speculazioni dei tanti «furbetti del quartierino», pagate dal milione di famiglie italiane truffate negli ultimi dieci anni, nonché alla necessità di contrastare fenomeni di corruzione e di degenerazione nella pubblica amministrazione), giustifichi l'inclusione dei suddetti reati nel provvedimento di indulto.
Questi sono i motivi per cui oggi voteremo «no». Qualora non si fosse trattato, come invece si tratta, di un atto trasversale espressione di una maggioranza nata e formatasi in quest'aula, ma di un atto del Governo e della maggioranza, avremmo immediatamente tratto le doverose conseguenze dal mancato accoglimento delle


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nostre proposte e dalla grave violazione dei patti costitutivi dell'accordo di maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo dell'Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare a favore il deputato Boato. Ne ha facoltà.

MARCO BOATO. Signor Presidente, con il massimo rispetto per il collega Donadi, che, ovviamente, si è pronunciato del tutto legittimamente, poco fa, contro la proposta di stralcio, nell'invitare l'Assemblea ad esprimere, invece, un voto favorevole sulla proposta della Commissione giustizia, desidero ricondurre la discussione nell'ambito appropriato.
Il collega Donadi si è riferito a questioni legittime, ma di merito. Esse riguardano la portata del provvedimento di indulto, che, come tutti sappiamo, è all'esame della Commissione giustizia di questa Camera. Poiché l'orientamento maturato all'interno della Commissione non può essere di maggioranza politica di Governo (l'articolo 79 della Costituzione, nel testo in vigore dal 1992, prevede che i provvedimenti di amnistia e/o di indulto siano approvati con la maggioranza dei due terzi dei componenti delle Camere, per cui è necessario che, in relazione a tali provvedimenti, si formi un'ampia maggioranza parlamentare che vada ben al di là di quella di Governo), e poiché in seno alla Commissione giustizia è maturato un orientamento favorevole alla predisposizione per l'Assemblea, nel corso della prossima settimana, di un testo riguardante, in questa fase, esclusivamente l'indulto, logica istituzionale e legislativa vuole che tutti gli aspetti delle numerose proposte di legge che lei, signor Presidente, ha elencato poco fa, tutti gli articoli delle proposte concernenti un eventuale provvedimento di amnistia, siano stralciati; in caso contrario, sarebbe necessario, per tutti i proponenti o per altri colleghi, ripresentare altre proposte di legge riguardanti la materia dell'amnistia.
Quindi, rinviando il dibattito di merito, che il collega Donadi ha voluto introdurre poco fa, all'esame in sede referente in Commissione giustizia (e, successivamente, all'esame in Assemblea), invito la Camera ad approvare la semplice proposta di stralcio. Ciò comporterà che giunga in Assemblea, la prossima settimana, un provvedimento esclusivamente limitato all'istituto dell'indulto. Nei prossimi mesi, la Commissione valuterà l'opportunità di affrontare anche la tematica dell'amnistia, che rimarrà formalmente aperta in virtù dello stralcio che ci accingiamo a votare.
Quindi, invito i colleghi a votare a favore della proposta di stralcio.

PRESIDENTE. Poiché sono state avanzate alla Presidenza numerose richieste di intervento, ai sensi dell'articolo 45 del regolamento, darò la parola ad un rappresentante per ciascun gruppo che ne faccia richiesta.
Inviterei i deputati che prendono la parola a farlo nel modo più conciso possibile, ricordando a tutti che subito dopo si svolgerà una discussione assai impegnativa: quella conseguente all'informativa urgente del Governo sulla situazione in Medio Oriente.
Ha chiesto di parlare il deputato La Russa. Ne ha facoltà.

IGNAZIO LA RUSSA. Signor Presidente, raccolgo il suo invito all'estrema sintesi. Vorrei annunziare che il gruppo di Alleanza Nazionale non é favorevole alla richiesta di stralcio delle disposizioni in questione dal provvedimento originario; tuttavia, si asterrà, con una semplice motivazione. Abbiamo manifestato un'apertura rispetto alla possibilità di esaminare con attenzione la proposta di votare il provvedimento sull'indulto. Abbiamo rivolto all'esecutivo, ai promotori del provvedimento, alcune richieste. Abbiamo sottolineato la necessità di intervenire sui presupposti necessari a farci compiere tale sforzo, primo tra tutti (lo voglio ripetere) la prosecuzione di quanto è già stato fatto riguardo alla situazione di emergenza e, in particolare, agli interventi avviati nella passata legislatura e sostenuti finanziariamente dal Governo Berlusconi a favore delle vittime del dovere. Abbiamo anche


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chiesto, in maniera molto chiara e sintetica, che il provvedimento di indulto fosse accompagnato da una statuizione di non applicazione ai plurirecidivi e che venissero quantificate, fin dal prossimo Documento di programmazione economico-finanziaria, le risorse da investire sui fronti prima annunziati, ossia l'edilizia carceraria e la legge sulle vittime del dovere. Queste ed altre proposte non sono state minimamente degnate di attenzione.
A questo punto, lo stralcio per noi è indifferente. Ci apprestiamo a votare contro l'indulto; lo dico chiaramente: contro l'indulto, così come viene proposto. Dunque, ci è del tutto indifferente la proposta di stralcio. Per tale motivo, adotteremo una posizione di astensione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Forgione. Ne ha facoltà.

FRANCESCO FORGIONE. Signor Presidente, colleghi deputati, il gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, voterà a favore dello stralcio riguardante la misura dell'indulto. Credo sia un atto dovuto a livello di civiltà, civiltà da ricostruire nelle carceri del nostro paese, che oggi versano in una condizione di sovraffollamento inaccettabile, una condizione priva di una rete di diritti che non possono essere cancellati neanche nell'espiazione di una pena. Credo che di questo - ne parleremo entrando nel merito del provvedimento - dobbiamo tenere assolutamente conto.
C'è un'attesa nel nostro paese, nelle carceri e non solo. Mi riferisco alle dichiarazioni del ministro, alla conclusione della passata legislatura con il provvedimento sull'amnistia, al dibattito che si è sviluppato in questi mesi e che credo richieda a questo Parlamento un atto di clemenza, come hanno saputo fare le Camere nei momenti alti della storia di questo paese e di questa Repubblica.
Pur tuttavia, pronunciandoci a favore dello stralcio della misura relativa all'indulto, non possiamo non rimarcare, come crediamo, che questa misura rimane monca se il Parlamento non affronterà in termini brevissimi anche il provvedimento di amnistia. È un tema che riproponiamo alla ripresa dei lavori; lo abbiamo riproposto nella Commissione giustizia. Lo faremo nel momento in cui il Governo proporrà una riforma del codice penale avviandosi così ad una ridefinizione del sistema delle sanzioni penali, coerentemente con le trasformazioni sociali intervenute nel paese.
Rispetto a ciò, credo che questo Parlamento debba assumere impegni precisi.
Avremmo voluto un provvedimento di indulto diverso rispetto a quello che verrà sottoposto all'esame dell'Assemblea e che, attualmente, è in discussione presso la Commissione giustizia. Avremmo voluto, ad esempio, estenderlo a tutti i reati connessi con gli anni di piombo, per rispondere ad un dibattito che più volte ha impegnato in modo trasversale le forze politiche non solo in Parlamento, ma anche al di fuori di esso.
Tuttavia, pensiamo che questo sia un primo importante passo per la ricostruzione di una civiltà giuridica del nostro paese e per dare una risposta positiva ai problemi del carcere, che rappresenta solo una parte della risposta più complessiva che dovremo fornire in ordine alla riforma dell'ordinamento (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, questo dibattito, evidentemente, non si avvia oggi: non siamo all'anno zero. Tale dibattito ha avuto un prologo durante il periodo natalizio dello scorso anno. In quella circostanza, come Presidente della Camera, mi trovai a dire che non vi erano le condizioni per un provvedimento di clemenza, come successivamente dimostrò il dibattito in Assemblea, che mi sembra si svolse il 27 dicembre.
In questa occasione, ci troviamo, ancora una volta, a fare i conti con un tema - collega Donadi, me lo consenta - che


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non riguarda, come lei stesso ha ricordato, l'attenuazione di un principio di legalità che va salvaguardato sempre e comunque, bensì riguarda le condizioni disumane esistenti nelle carceri italiane. Ora, mi chiedo se vogliamo ricominciare tale dibattito, tra l'altro, dopo le impegnative dichiarazioni del ministro della giustizia. Quest'ultimo, a mio parere, è stato anche un po' troppo coraggioso, perché forse nelle carceri certi temi è bene non evocarli. Certi provvedimenti il legislatore o li fa oppure non li preannuncia!
Oggi, ci troviamo nella condizione di fare i conti con questa realtà sociale, con il rischio - che intravedo nelle sue parole - di ricominciare il balletto degli equivoci e gli argomenti tipici delle campagne elettorali, in un dibattito che non appartiene alla campagna elettorale. La campagna elettorale è finita, cari colleghi! È molto onesto che ci sia chi, come l'onorevole La Russa, afferma di essere contrario a prescindere, e rispetto questa posizione. Non la condivido, ma la rispetto.
Tuttavia, se si ritiene che oggi dobbiamo entrare nel merito della tipologia dei reati ed esprimere un giudizio positivo o negativo, allora, seguendo la stessa strada, si dovrebbe affrontare anche la questione, posta dal collega di Rifondazione Comunista, concernente i cosiddetti anni di piombo. Ma non lo dobbiamo fare! Non lo abbiamo fatto! Abbiamo un senso di responsabilità che ci deve portare in questa Assemblea ad assumere una decisione chiara: o «sì» o «no». Tutto il resto, secondo me, non ci deve e non ci può appartenere.
In caso contrario, ancora una volta, avremo dimostrato che questo Parlamento - e non solo quello della precampagna elettorale - è imprigionato in una logica che poco ha a che fare con la pelle dei detenuti e che ha molto più a che vedere con gli interessi dei nostri partiti [Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e di Forza Italia].

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Buemi. Ne ha facoltà.

ENRICO BUEMI. Signor Presidente, il problema della legalità riguarda certamente i cittadini, ma nella fattispecie riguarda anche lo Stato. Di qui nasce la necessità di sfasare l'esame dei due provvedimenti: quello relativo all'amnistia e quello concernente l'indulto.
Ci troviamo in una situazione particolarmente grave di inadempienza da parte dello Stato rispetto ai principi costituzionali e alle leggi ordinarie del nostro paese. Vi è, quindi, la necessità di ricondurre ad una condizione di normalità la situazione esistente nelle carceri. In tal senso, la Commissione giustizia della Camera ha ritenuto di richiedere lo stralcio, dal provvedimento in oggetto, delle parti relative all'istituto della amnistia, affinché esso possa essere più celermente approvato.
Ciò fermo restando l'impegno, assunto sia dal relatore, sia dalla stessa Commissione giustizia, di portare al più presto all'esame dell'Assemblea anche un provvedimento di amnistia, poiché la concessione dell'indulto senza varare una amnistia costituisce un intervento zoppo, nonché irrazionale. Esiste l'esigenza di applicare entrambi gli istituti, anche se, per lo stato di necessità che ho precedentemente rappresentato, si impone al momento la separazione delle due misure di clemenza (Applausi dei deputati del gruppo de La Rosa nel Pugno).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la deputata Lussana. Ne ha facoltà.

CAROLINA LUSSANA. Signor Presidente, intervengo per ribadire che il gruppo della Lega Nord Padania è contrario alla richiesta di stralcio avanzata; al contempo, vogliamo esprimere, in questa sede, la nostra contrarietà all'adozione di qualsiasi provvedimento di clemenza, sia che si tratti di amnistia, sia che si tratti di indulto. Ritengo giusto assumere una posizione precisa e chiara in tale materia: o si è a favore o si è contro, e su tale aspetto mi trovo perfettamente d'accordo con l'onorevole Casini.
Vorrei formulare, tuttavia, un'ulteriore considerazione. Oggi ci troviamo ad affrontare


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tali questioni in Assemblea proprio perché, onorevole Casini, la campagna elettorale è finita. Infatti, voi, che nella passata legislatura ritenevate di approvare comunque provvedimenti clemenziali di questo tipo, non avete avuto il coraggio di andare fino in fondo, nonostante la cosiddetta marcia di Natale e tutte le attese suscitate nella popolazione carceraria che non siete riusciti a soddisfare.
Adesso che la campagna elettorale è conclusa, è chiaro che si può adottare anche una scelta impopolare, come quella alla nostra attenzione. È vero che, quando si parla di provvedimenti di amnistia e indulto, si cerca di offrire una soluzione tampone al problema del sovraffollamento carcerario, tuttavia vorrei far presente che si varano misure assolutamente pericolose per la sicurezza dei cittadini. Ricordo che, negli anni passati, quando tali istituti sono stati applicati, abbiamo registrato un indice di recidiva altissimo! Chi viene rimesso in libertà senza aver completato il proprio processo di rieducazione, infatti, purtroppo torna ad essere facile vittima della criminalità!
Per quanto riguarda la condizione difficile delle nostre carceri, allora, starei attenta a parlare di «disumanità»; magari, esistono situazioni sicuramente particolari, ma vorrei ricordare che, nei cinque anni della passata legislatura, molto è stato realizzato per migliorare le condizioni di vivibilità all'interno dei penitenziari.
Pertanto, non ritengo giusto scaricare la responsabilità del sovraffollamento carcerario sui cittadini onesti e sulle vittime dei reati, le quali, ancora una volta, in questa Assemblea risulteranno essere silenti, dimenticate ed offese due volte (Applausi dei deputati del gruppo della Lega Nord Padania)! Esse, infatti, sono state offese nel momento in cui hanno subito il reato e saranno egualmente offese quando lo Stato rimetterà in libertà il loro aguzzino! Sono altre, a nostro avviso, le strade da seguire per contrastare il sovraffollamento nei penitenziari!
Il ministro Mastella non è stato così chiaro riguardo a ciò che vorrà compiere nel corso di questa legislatura. Egli, infatti, non ha parlato chiaramente, come ha fatto l'ingegner Castelli, di un piano certo a favore dell'edilizia carceraria! Non ha detto che vuole far applicare in modo rigido la cosiddetta legge Bossi-Fini, la quale prevede, ad esempio, la conversione delle pene detentive fino a due anni in un provvedimento immediato di espulsione! Non ha affermato, inoltre, di voler continuare lungo la strada degli accordi bilaterali con i paesi dell'area balcanica e del Maghreb, al fine di far scontare ai detenuti extracomunitari la pena a casa propria!
Noi attendevamo risposte su tali questioni, nonché rispetto alla questione della depenalizzazione. Intanto, voi trovate la scorciatoia o la via breve. Oggi assistiamo allo stralcio di parti del provvedimento di clemenza alla nostra attenzione semplicemente per risolvere problemi all'interno della vostra maggioranza. La volta scorsa, infatti, abbiamo visto che vi era qualcuno a favore dell'indulto ma non della amnistia; Forza Italia, invece, insisteva sul fatto che non poteva esservi indulto senza la concessione dell'amnistia.
Adesso, avete stipulato un accordo politico abbastanza «trasversale», che troverà applicazione con il provvedimento di indulto, sul quale ribadiamo comunque la nostra contrarietà. Si tratta sicuramente della via più breve per approvare un provvedimento tampone, che rimetterà in libertà detenuti che hanno commesso anche reati pericolosi.
Avete sicuramente compiuto una selezione oggettiva dei crimini, come la violenza sessuale ed i reati connessi alla pedofilia o alla mafia, come peraltro ha affermato il ministro Mastella.
Però usciranno anche come fine pena coloro che hanno commesso degli omicidi, così come coloro che hanno commesso reati finanziari. Cosa dice al riguardo l'Italia dei Valori? Vedremo nel prosieguo del dibattito in Commissione.
Tutto ciò dunque per motivare la nostra netta e decisa contrarietà alla proposta di stralcio in esame (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega Nord Padania e di Alleanza Nazionale).


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Preavviso di votazioni elettroniche senza registrazione di nomi (ore 16).

PRESIDENTE. Poiché nel corso della seduta avranno luogo votazioni mediante procedimento elettronico senza registrazione di nomi, decorre da questo momento il termine di preavviso di cinque minuti previsto dall'articolo 49, comma 5, del regolamento.

Si riprende la discussione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Crapolicchio. Ne ha facoltà.

SILVIO CRAPOLICCHIO. Noi Comunisti Italiani voteremo «sì», però subendo questa decisione. Avremmo voluto un progetto generale di amnistia e di indulto, ma ciò non è possibile. Per i Comunisti Italiani questa è una priorità ed in tal senso abbiamo presentato una proposta di legge, proprio perché riteniamo l'atto di clemenza un atto doveroso, anche alla luce di alcune leggi, come la Bossi-Fini, che hanno riempito le carceri. Daremo quindi battaglia per portare avanti l'amnistia (Applausi dei deputati del gruppo dei Comunisti Italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Maran. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO MARAN. Nel programma dell'Unione abbiamo scritto, citando Dostoevskij, che il livello di civiltà di un paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri ed abbiamo sostenuto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Nel nostro paese le condizioni attuali di vita carceraria sono lontane da ogni senso di umanità e di rispetto della dignità del detenuto. Il degrado è connesso sempre più pesantemente al sovraffollamento delle carceri. In cima alle nostre priorità abbiamo posto la necessità di prevedere la detenzione in carcere come misura ultima.
Per questo noi voteremo lo stralcio proposto - perché di questo si discute, dello stralcio e non dei contenuti del provvedimento -, cogliendo l'opportunità di giungere ad un provvedimento di clemenza che sia condiviso (non è detto che poi ci si riesca, ma vogliamo cogliere tale opportunità), poiché riteniamo condivisibile l'iniziativa diretta all'adozione di un provvedimento di indulto, posto che non risulta più rinviabile l'esigenza di affrontare lo stato di degrado in cui versa il nostro sistema carcerario. Uno stato di degrado che è connesso alle condizioni di sovraffollamento che si sono determinate negli istituti penitenziari.
Se è vero, come è vero, che il regime di detenzione della popolazione carceraria deve sempre essere conforme alle finalità di recupero e di reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale, è altrettanto vero che lo stato di deterioramento che si è verificato nelle strutture carcerarie in questi anni, in ragione del costante aumento della popolazione, appare ormai assolutamente incompatibile con tali finalità.
Naturalmente dei contenuti discuteremo, e già ne stiamo discutendo, in Commissione. Vi sono dei problemi che dovremo affrontare in merito alle esclusioni ed in merito al quadro complessivo del provvedimento. Tuttavia ritengo di poter essere ragionevolmente fiducioso che si possa giungere ad un provvedimento condiviso. Se così riusciremo a fare, noi potremo anche realizzare l'auspicio che Giovanni Paolo II ha rivolto in questa sede a tutti noi, perché un segno di clemenza verso i carcerati, diceva il Papa qualche anno fa, mediante una riduzione della pena, costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l'impegno di personale recupero, in vista di un positivo reinserimento nella società. Sono anche consapevole che la concessione di misure di clemenza deve abbinarsi a misure di sistema ed è per questo che rivestono un interesse primario gli interventi anche ordinamentali volti a garantire il rispetto del canone costituzionale della ragionevole durata dei processi, già indicati come assoluta priorità.


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Ma questo è compito del Governo e della maggioranza che lo sostiene, che non mancherà di incalzarlo anche su questo tema (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Pecorella. Ne ha facoltà.

GAETANO PECORELLA. Signor Presidente, c'è chi ha colto l'occasione di questa decisione, che riguarda semplicemente il programma della Commissione giustizia, per discutere nel merito la questione dell'indulto e dell'amnistia. È singolare come, quanto più sia necessario procedere con serenità e con razionalità, tanto più si colga ogni occasione, viceversa, per dividere gli animi.
Noi siamo convinti che la questione dell'indulto e dell'amnistia riguardi la coscienza di ciascuno di noi e che sia impossibile, solo per l'appartenenza politica ad un gruppo, essere tutti contro o tutti a favore, laddove la coscienza di ognuno sta decidendo, nel momento in cui si vota, del destino di singole persone; infatti, non si sta trattando di un provvedimento in astratto.
Non è il caso di entrare nel merito, ma semplicemente di prendere atto della questione - se ciò è possibile in questo momento - e di dare una risposta al paese sulla situazione d'emergenza delle carceri, trattando anche l'amnistia o soltanto l'indulto. Mi pare evidente l'impossibilità di raggiungere un accordo in tempi ragionevoli sui contenuti dell'amnistia, mentre si sta delineando la possibilità, perlomeno in linea di massima, di un testo abbastanza condiviso sull'indulto; ebbene, se così è, abbiamo a che fare con un senso di responsabilità che appartiene a tutti noi. Pur convinti che i due provvedimenti dovrebbero andare in parallelo, affrontiamo il più urgente, quello che tocca direttamente la pelle e la vita delle persone. Si deve dare una risposta allo stesso Presidente della Repubblica che lo ha considerato come un impegno di civiltà del paese, così come anche il Pontefice.
Vorrei ricordare ad alcuni colleghi che essi, di fronte al Pontefice, ebbero una reazione emotiva di approvazione, così come oggi hanno una reazione emotiva di dissenso. Ebbene, noi cerchiamo di seguire, viceversa, una giusta linea, secondo cui è possibile discutere subito, anche in quest'aula, dell'indulto ma, probabilmente, non è possibile farlo per l'amnistia. Vi è un'aspettativa politica, un impegno politico per affrontare anche questo secondo tema, e noi lo faremo quando ci saranno la maturità e il momento per poterlo fare.
Per tutti questi motivi il gruppo di Forza Italia voterà a favore dello stralcio, pur nell'impegno di tutti a proseguire i lavori per ciò che concerne anche l'amnistia (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Barani. Ne ha facoltà.

LUCIO BARANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, scriveva la brillante penna di Curzio Maltese nel dicembre 2005: «Cinque anni fa si erano levati tutti ad applaudire, commossi, l'appello di Giovanni Paolo II al Parlamento per alleviare la pena supplementare e barbara inflitta a migliaia di detenuti, ormai stipati in carceri di livello boliviano». Passata la festa, gabbato il Santo Padre: sono trascorsi cinque anni, con cinque Pasque, cinque Natali, cinque Capodanni, cinque Epifanie e, soprattutto, cinque Carnevali, senza mai trovare la data giusta per approvare il provvedimento.
Il garantismo da salotto che imperversa da un decennio non si smentisce mai. Il solo commento serio è venuto da dietro le sbarre di Rebibbia, dove il comitato dei detenuti ha fatto sapere di non essere deluso perché, alla lettera: «non ci aspettavamo nulla»; e qualcuno continua ad aggiungere di non aspettarsi nulla neppure da questa XV legislatura.
Si vede che ci conoscono bene, eppure voglio ricordare come le passate amnistie ed i passati indulti abbiano segnato importanti passaggi di civiltà e importanti decisioni politiche per la vita democratica


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della nazione. L'ultima amnistia risale al 10 aprile 1990 e fu concessa durante il settennato al Quirinale di Francesco Cossiga, in concomitanza con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale approvato nel 1989. Quella amnistia-indulto, come ricordò l'allora ministro della giustizia Giuliano Vassalli in sede di replica in Parlamento, segnava un passaggio importante del sistema giuridico. Ma voglio ricordarne altre per far comprendere l'importanza politica di un indulto e poi di un'amnistia.
Quella del 22 giugno 1946 è passata alla storia come l'amnistia Togliatti, perché portava la firma dell'allora segretario del PCI, ministro della giustizia. Venne varata 20 giorni dopo il referendum per la scelta tra Repubblica e monarchia, in un clima di pacificazione nazionale, e ne beneficiarono, infatti, tutti coloro che erano rimasti compromessi con la Repubblica di Salò ed anche con i delitti dell'immediato dopoguerra. Portò alla scarcerazione di 11.800 detenuti politici.
Poi, ve ne furono altre nel 1953, nel 1959, nel 1966, nel 1970, nel 1978; nel 1981 ne beneficiarono oltre diecimila detenuti.
Dal 1990 ad oggi, le carceri italiane si sono gonfiate di stracci e di dolore. Il carcere è un luogo di contrasti stridenti, dove pericolosi assassini vivono insieme ad improvvisati ladruncoli, dove i casi più strillati dai media sono proprio quelli che, in genere, se la cavano con poco, mentre rimangono intrappolati per anni quelli anonimi, di cui nessuno parla, che hanno fatto più che altro sciocchezze; il problema è che non avevano gli avvocati «giusti», gli amici influenti, la «parolina» appropriata al momento opportuno.
Si chiederà qual è oggi il senso politico per il Parlamento di approvare nella quasi totalità l'indulto e, poi, l'amnistia. Le carceri affollate, certo, sono un problema; la lentezza della giustizia è un altro problema; un atto di umanità per accontentare in modo postumo il Santo Padre, che non c'è più, è un atto di coscienza personale.
Noi del gruppo della Democrazia Cristiana-Partito Socialista ravvisiamo invece un altro motivo. Il Parlamento ed i cittadini italiani si rendono conto dei pericoli inerenti ad un potere incontrollabile della magistratura e vogliono ormai una vera riforma della giustizia. Ci rendiamo conto che, tra lentezze, politicizzazione, inefficienze e sistemi di diffusa illegalità massmediatica, il problema di una giustizia «giusta» - direi di una giustizia «normale» - non è più differibile. Il Governo ed il Parlamento, nel corso dell'attuale legislatura, dovranno mettere profondamente mano al sistema della giustizia.
Se questa è la consapevolezza e questo è giusto che si faccia, allora l'indulto - e l'amnistia poi - avrà una forte valenza politica di cambiamento. Lo si realizzi con questa motivazione, per dare un preciso segnale al paese, e sarà un grande cambiamento che tutti aspettano. Per ora votiamo a favore dello stralcio per poter procedere al varo dell'indulto, perché siamo stati, siamo e saremo sempre garantisti (Applausi dei deputati del gruppo della Democrazia Cristiana-Partito Socialista).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Capotosti. Ne ha facoltà.

GINO CAPOTOSTI. Signor Presidente, signori colleghi, la questione su cui siamo chiamati a pronunciarci rientra nel piano della tecnica legislativa e vorrei sottolineare che ciò significa tenere conto di tutte le condizioni: condizioni relative alla maggioranza qualificata, nonché all'indirizzo e alla vocazione delle varie sensibilità che compongono il Parlamento, che è sovrano.
Come altri hanno ricordato, raggiungere una maggioranza così ampia impone a tutte le forze politiche un confronto laico, sereno, oggettivo. Per quanto attiene al gruppo cui appartengo, i Popolari-Udeur, abbiamo predisposto e presentato un progetto di legge che indica le nostre concezioni, che non abbiamo esitato a mettere in discussione, perché anche una deliberazione come quella oggi al nostro esame, di natura formale, ha un contenuto di merito.


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Per noi si tratta di un merito che viene da lontano, dall'impegno preso in Assemblea con il Pontefice. Per altri sarà presente una connotazione più laicista. In ogni caso, si potrà tenere conto del sovraffollamento delle carceri e della necessità di una riforma sistematica dell'intero sistema giustizia, che addita l'Italia come un paese arretrato rispetto agli altri paesi d'Europa?
Per questo motivo, il Governo sta mettendo mano ad una riforma di ampio respiro che tiene conto dei vari processi, del sistema delle carceri, dell'intera nostra storia e, per questo motivo, marcando il fatto che, oggi, ci pronunciamo solamente sullo stralcio, cioè sulla modalità che, forse, renderà possibile, un domani, portare a termine il provvedimento, il gruppo dei Popolari-Udeur annuncia un voto favorevole (Applausi dei deputati del gruppo dei Popolari-Udeur).

ANTONIO BORGHESI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. A che titolo?

ANTONIO BORGHESI. Per un richiamo all'articolo 41 del regolamento.

PRESIDENTE. Le ricordo che il suo gruppo, l'Italia dei Valori, è già intervenuto.

ANTONIO BORGHESI. Allora, chiedo di parlare a titolo personale...

PRESIDENTE. Mi scusi, non è possibile.
Passiamo ai voti.
Pongo in votazione, mediante procedimento elettronico senza registrazione di nomi, la richiesta di stralcio relativa alle proposte di legge numeri 525, 662, 663, 665, 1122, 1266, 1323 e 1333.
(È approvata).

L'assegnazione delle proposte di legge risultanti dallo stralcio dei predetti articoli - cui è stato attribuito un nuovo titolo - è comunicata nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Informativa urgente del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca lo svolgimento di un'informativa urgente del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente.
Dopo l'intervento del ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema, interverranno i rappresentanti dei gruppi per 12 minuti ciascuno.

(Intervento del ministro degli affari esteri)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema.

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Signor Presidente, colleghi deputati, permettetemi innanzitutto di ricostruire la dinamica della crisi del conflitto che sta infiammando il Medio Oriente, che ci riempie tutti di angoscia e che presenta aspetti di inquietante novità.
A differenza che in passato, non si tratta soltanto di una drammatica ripresa del conflitto tra Israele e i palestinesi o di una nuova escalation nel Libano del sud. La novità della crisi che sta colpendo al cuore la sicurezza di Israele e sta, insieme, provocando enormi costi umani e civili a Gaza e nel Libano è data dalla sua potenziale dimensione regionale, dal rischio, cioè, che inneschi una spirale di guerra tale da investire la regione mediorientale. Anche per questo, arrestare questa spirale subito appare decisivo all'Italia e alla Comunità internazionale.
Le origini della crisi vanno ricondotte al confronto nella regione tra le forze che, con realismo, intravedono nella pace e nella stabilità l'unica reale prospettiva per il futuro e le forze radicali ed estremistiche che credono invece nel conflitto. Sono


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forze che attraversano i confini degli Stati nazionali, che sono in parte appoggiate o finanziate dall'esterno e sono forze che ritengono di poter imporre con la violenza le loro regole nella regione. È un calcolo pericoloso, costoso in termini di vite umane e destinato ad essere perdente.
Non a caso, la crisi è stata innescata da forze radicali, l'ala oltranzista di Hamas con base a Damasco e guidata da Mechal, e dal gruppo fondamentalista Hezbollah, proprio nel momento in cui si stava aprendo un importante spiraglio per la ripresa del dialogo israelo-palestinese grazie alla mediazione del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen.
L'attacco, il 25 giugno scorso, del kibbutz di Kerem Shalom, con l'uccisione di due soldati israeliani e il rapimento del caporale Shalit, è praticamente coinciso con il primo incontro, il 22 giugno, tra il primo ministro israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, che aveva alimentato qualche positiva speranza di ripresa del dialogo israelo-palestinese. Parallelamente, lo stesso Abu Mazen stava negoziando con l'ala moderata del Governo di Hamas la piattaforma politica nota come «documento dei prigionieri», con l'intenzione di condurre al riconoscimento di Israele da parte di Hamas e alla ripresa del processo di pace.
Ma le forze estremiste, come ho detto, non hanno permesso che ciò avvenisse. È seguita la reazione israeliana. A partire dal 27 giugno, è iniziata un'ampia offensiva militare di Israele nella striscia di Gaza, al fine di impedire l'eventuale fuga dei rapitori in altri paesi, di fatto sigillando la striscia di Gaza e il valico di Rafah, dove opera la missione di monitoraggio dell'Unione europea comandata dal generale italiano Pietro Pistolese, che ha potuto riaprire il valico di Gaza, almeno temporaneamente, solo nella giornata di ieri, per motivi umanitari.
La risposta israeliana ha comportato il reingresso delle Forze armate nella striscia di Gaza, che era stata abbandonata nel quadro del piano di ritiro unilaterale di Sharon. Operazioni di rastrellamento hanno portato all'arresto di 9 membri del Governo palestinese, di 20 parlamentari, di decine di membri di Hamas, cui è stato contestato il reato di appartenenza a banda armata.
La reazione israeliana, legittima sulla base del diritto di autodifesa, come sancisce l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, è andata al di là di una ragionevole proporzione che il diritto internazionale richiede, soprattutto per quanto riguarda le tante vittime civili, l'attacco a infrastrutture essenziali, come la centrale elettrica di Gaza, con conseguenze molto gravi per tutta la popolazione e per il funzionamento di servizi fondamentali, come gli ospedali collocati nella striscia di Gaza.
È per questo che il Governo italiano e l'Unione europea, nel condannare fermamente l'azione terroristica dei gruppi radicali islamici, hanno anche invitato Israele a moderare la propria risposta, nell'interesse della sua stessa sicurezza. Rileggiamo la dichiarazione del 30 giugno dell'Unione europea: dura condanna della violenza dell'attività terroristica contro Israele da parte dei gruppi radicali islamici e nello stesso tempo invito ad Israele ad esercitare il massimo di autocontrollo - restraint - nella risposta.
La giornata del 12 luglio ha segnato un repentino salto di qualità nella crisi con l'apertura di un ulteriore fronte di conflitto, quello libanese. Il blitz di un commando di Hezbollah in territorio israeliano ha provocato l'uccisione di 8 soldati israeliani e il rapimento di due. La reazione israeliana è stata immediata con un'escalation militare diretta in primo luogo contro obiettivi Hezbollah, ma che ha colpito infrastrutture civili nel sud del Libano e poi, via via, in tutto il Libano, l'aeroporto di Beirut e i quartiere a maggioranza sciita della capitale, imponendo di fatto un blocco degli accessi aerei e navali alla capitale libanese.
La progressiva estensione delle operazioni militari indica che l'obiettivo perseguito da Israele, anche con il parziale utilizzo di truppe di terra, è quello della totale neutralizzazione della base militare di Hezbollah. L'equipaggiamento militare di questo gruppo, che dispone di un arsenale


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di migliaia di missili, lo ha dotato di una capacità di risposta che rappresenta una seria minaccia per Israele, soprattutto per l'alta Galilea e la stessa città di Haifa, dove gli attacchi di Hezbollah hanno già provocato numerosi morti e feriti.
Tuttavia, l'offensiva militare israeliana colpisce complessivamente il Libano. In questo momento il bilancio delle operazioni militari è già drammatico sia in termini di perdite di vite umane - 220 morti si conterebbero sin qui nel Libano, in grandissima parte tra la popolazione civile; oltre 850 feriti, oltre 100 vittime nei territori palestinesi -, sia per gli ingenti danni a infrastrutture, rete viarie, edifici, aeroporti, che giungono dopo una faticosa e costosa opera di ricostruzione, a cui aveva concorso l'intera comunità internazionale, con l'Italia in prima linea, riportando indietro le lancette dell'orologio ai disastri della guerra civile.
Anche il Governo libanese è posto in una seria difficoltà; e non dimentichiamo che il Libano è una fragile ma preziosa democrazia in quella regione del mondo.
Nel frattempo, la situazione umanitaria a Gaza è letteralmente disastrosa. Il rischio principale, oggi, è costituito da un allargamento del conflitto anche ad altri paesi della regione. È questo uno scenario che la comunità internazionale sta cercando in tutti i modi di prevenire e di evitare: i costi umani sarebbero altissimi, quelli politici ed economici inestimabili.
Colleghi deputati, questa è la rapida ricostruzione della dinamica della crisi, una ricostruzione che spiega sia i dilemmi di Israele, sia quelli dei suoi vicini. Israele ha letto nelle operazioni di commando di Hamas e Hezbollah una regia precisa volta a destabilizzare il quadro locale regionale e che si concretizza, ormai, come una vera e propria minaccia esistenziale per lo Stato ebraico. È evidente che Israele ha la forza militare per rispondere, ma è altrettanto evidente che il rischio politico di una disintegrazione del Libano certo non rafforzerebbe la sicurezza di Israele stesso. Va tenuto conto che Hezbollah non controlla solo il sud del paese: dopo il ritiro delle truppe siriane ed in chiara violazione della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite, Hezbollah è anche una forza politica sciita libanese, rappresentata in Parlamento e nel Governo.
Il confronto militare nel sud del Libano rischia quindi, se l'escalation non si fermerà, di mettere a dura prova l'unità del paese. Nel frattempo, la Siria, che, come è noto, non ha mai firmato con Israele un trattato di pace, ha dimostrato di volere ancora esercitare un ruolo regionale, potendo, fra l'altro, contare sull'appoggio dell'Iran, il cui Presidente continua a negare il diritto all'esistenza di Israele o, peggio, a parlare della cancellazione di Israele dalle carte geografiche.
Questa è la situazione in tutta la sua gravità. Non si tratta più soltanto del ripetersi di crisi gravi e dolorose, ma che abbiamo già visto in passato: si tratta di una dimensione diversa che coinvolge radicalismo, terrorismo, equilibri di potere regionale. Vorrei dire che se la situazione oggi è così drammatica per Israele, per i palestinesi, per il Libano, per l'intera regione dipende anche dai fallimenti della politica di questi anni. Torna alla mente l'analisi semplicistica di chi considerava la guerra in Iraq come l'avvio di una nuova, straordinaria stagione, l'effetto domino che avrebbe prodotto democrazia e pace in tutta la regione: una visione ideologica, illusoria.
Ci eravamo opposti a quella guerra anche per questa ragione, perché eravamo convinti che la teoria secondo cui avremmo rifatto il Medio Oriente partendo da Baghdad si sarebbe dimostrata una tragica illusione. Per meglio dire, in effetti è stato rifatto il Medio Oriente, ma non con i risultati sperati.
In questo momento, il terrorismo ed il fondamentalismo sono più forti che nel passato e si alimentano di un odio anti-occidentale in tanta parte del mondo arabo ed islamico che certamente la guerra in Iraq ha alimentato. Il fondamentalismo religioso si è rafforzato, in particolare quello di marca sciita, anche perché paradossalmente il regime di Saddam Hussein era un contrappeso rispetto


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alla forza del fondamentalismo sciita. Insomma, la situazione di oggi è molto più esposta di prima e molto più rischiosa e questo rischio investe non solo Israele, ma tutta la regione, il mondo intero.
Credo anche sia doveroso da parte mia sottolineare come la crisi attuale metta in evidenza come una visione prevalentemente militare della sicurezza di Israele, quale quella che ha prevalso sin qui - omicidi mirati, rappresaglie, restrizioni che aggravano le condizioni di vita dei palestinesi - non solo produce non sostenibili costi umani, ma accresce il livello dell'odio e, quindi, dell'insicurezza. È mia convinzione che chi ha autenticamente a cuore la sicurezza ed il destino di Israele deve preoccuparsi di costruire una pace che è l'unica condizione perché la sicurezza sia autentica e duratura.
Il Governo italiano si è, sin dall'inizio, attivato attraverso i suoi contatti bilaterali con i principali attori della crisi. Abbiamo svolto la nostra azione in costante sintonia con i nostri principali partner. Ho personalmente contattato il Presidente Abu Mazen per invitarlo a fare pressioni su Hamas affinché venisse facilitato il rilascio del soldato israeliano rapito.
Parallelamente, ho espresso al ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni le preoccupazioni per un'escalation della crisi, invitando il suo Governo ad una reazione moderata.
Il Presidente del Consiglio Prodi ha avuto colloqui con il Primo ministro israeliano Olmert e il Primo ministro libanese Siniora. Congiuntamente, in momenti diversi, abbiamo esercitato pressioni verso il Governo siriano - Prodi, parlando più volte con Assad -, al fine di facilitare l'avvio di un dialogo che resta quanto mai problematico. Sia il Presidente Prodi che io abbiamo sollecitato direttamente gli Stati della regione - inclusi l'Iran e la Siria, le cui ipotesi di indiretto coinvolgimento sono per noi difficili da verificare - a svolgere un ruolo costruttivo, di convinzione, di pacificazione e, innanzitutto, per la restituzione dei militari israeliani rapiti allo Stato di Israele e alle loro famiglie.
Dirò tra poco del ruolo svolto dal nostro Governo nel G8. Lasciatemi prima sottolineare un aspetto importante per il nostro paese, anche se può apparire marginale nel corso della crisi. L'Italia è stato tra i primi paesi a procedere al rimpatrio dal Libano dei propri cittadini che intendevano lasciare il paese, con un'operazione delicata di cui credo si debba dare atto qui a chi l'ha compiuta, innanzitutto la struttura dell'unità di crisi della Farnesina, con la cooperazione della difesa, che ha portato a compimento, in modo brillante e in stretto coordinamento non solo con gli altri paesi europei ma anche con il Governo libanese e le autorità israeliane, il rimpatrio di diverse centinaia di cittadini italiani via terra, attraverso la Siria, e poi con un ponte aereo, e in parte via mare, con la collaborazione della Marina militare e del cacciatorpediniere Durand de la Penne dal porto di Beirut. Sono stati rimpatriati 450 connazionali e 340 cittadini di nazionalità non italiana. Calcoliamo che siano presenti in Libano ancora numerosi italiani, circa 700, la maggior parte dei quali al momento non ha chiesto di rientrare in Italia. Si tratta, infatti, di cittadini radicati da tempo in Libano, che si presume chiederanno di rimanere, almeno in parte, fino all'ultimo nel paese. Siamo preoccupati per un gruppo ristretto di connazionali che si trovano nel Libano del sud, l'area più critica dal punto di vista della sicurezza. È allo studio un piano di cooperazione con i partner dell'Unione europea per prestare loro assistenza e condurli in una zona sicura.
Tornando all'azione politica-diplomatica, il Governo italiano ha concorso attivamente, attraverso il Presidente Prodi che ha preso parte ai lavori del vertice del G8 di San Pietroburgo, alla formulazione della dichiarazione sul Medio Oriente, che indica una possibile via d'uscita, ardua ma probabilmente l'unica possibile, dall'attuale crisi. Ne ricordo gli aspetti qualificanti.
Primo: la creazione delle condizioni per un cessate il fuoco. Le condizioni individuate sono, com'è noto, la liberazione dei soldati rapiti, la cessazione dei lanci di


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missili sul territorio israeliano, la fine delle operazioni militari israeliane, il ritiro da Gaza e la rimessa in libertà dei ministri e dei parlamentari palestinesi detenuti.
Secondo: la presa d'atto che una vera pacificazione in Libano passa attraverso la piena attuazione della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite, che prevede il disarmo delle milizie presenti sul territorio albanese e il pieno controllo sul sud di quel paese e su tutto il territorio nazionale da parte dell'esercito regolare libanese.
È in questo contesto che la dichiarazione del G8 fa espresso riferimento alla possibilità di una missione di monitoraggio e sicurezza internazionale su mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Come è noto, una missione di monitoraggio esiste già nel paese, con la presenza di 2 mila caschi blu. Essa, tuttavia, si è rivelata assolutamente insufficiente. La forza di cui si sta discutendo sarebbe una forza internazionale di sicurezza assai più consistente dell'attuale numero di caschi blu, con mandato delle Nazioni Unite volto a garantire l'applicazione della risoluzione n. 1559. Si tratta di una forza che sarebbe spiegata solo dopo un cessate il fuoco, che dovrebbe garantirne l'applicazione nel tempo. A questa forza delle Nazioni Unite, proposta da Kofi Annan al vertice del G8, il Governo italiano si è detto disposto a contribuire ed io confermo questo intendimento del Governo in questa sede.
Personalmente, pur sapendo che oggi tale questione non è all'ordine del giorno, mancando, sino ad ora, la disponibilità delle parti, in particolare della parte israeliana, ritengo che sarebbe giusto studiare anche l'ipotesi di una presenza di monitoraggio dell'ONU nella striscia di Gaza, allo scopo, al tempo stesso, di fermare la spirale della violenza e di garantire - ed anche di contribuire a garantire - la sicurezza di Israele.
Sono di queste ore alcune dichiarazioni, in particolare una dichiarazione del ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, e, poi, una dichiarazione del ministro dell'ambiente di Tel Aviv, che fanno registrare una possibile disponibilità da parte del Governo israeliano ad accettare un dispiegamento consistente di forze ONU nel sud del Libano, allo scopo di garantire la sicurezza di Israele contro attacchi di tipo missilistico e di garantire un possibile futuro cessate il fuoco. Si tratta di segnali positivi che credo debbano essere sottolineati.
È in corso, in questi giorni, una missione ricognitiva dell'ONU, guidata dall'inviato speciale del Segretario generale Roed Larsen. Il Consiglio di sicurezza esamina giornalmente l'evoluzione della crisi. Le diplomazie di paesi arabi moderati - oltre ad Egitto, Giordania ed Arabia Saudita - sono al lavoro. È in preparazione una riunione del «quartetto». Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Condoleeza Rice, ha annunziato come imminente una sua missione nei paesi dell'area.
Ma è anche per l'Europa e per l'efficacia della sanzione esterna che questa crisi costituisce un delicatissimo banco di prova. Xavier Solana si è recato a Beirut nel fine settimana, dove ha espresso la solidarietà europea al premier, Fuad Siniora. L'Alto rappresentante ha riferito ieri di questa missione ai ministri degli esteri dell'Unione europea, riuniti a Bruxelles per il Consiglio affari generali. Nelle sue conclusioni, il Consiglio ha ribadito la preoccupazione per la situazione, in particolare per l'aggravamento della situazione umanitaria, deplorando il numero di morti civili. Il Consiglio ha chiesto nuovamente il rilascio dei soldati rapiti e l'immediata cessazione delle ostilità. Le conclusioni ribadiscono che l'Unione europea riconosce il diritto legittimo di Israele all'autodifesa, ma esortano ancora Israele a non ricorrere ad azioni sproporzionate. Le conclusioni riaffermano l'urgenza che la comunità internazionale si impegni attivamente in direzione di un negoziato politico, l'unica strada che può garantire alla regione una pace duratura.
Come vedete, la linea del Governo italiano è perfettamente coerente con l'impostazione dell'Unione europea. La linea del Governo italiano punta oggi a rendere possibile una forte iniziativa a sostegno degli obiettivi fissati dal G8. La nostra convinzione è che l'Europa possa - e


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debba - disegnare un suo ruolo in Medio Oriente, proprio cominciando ad assumersi impegni concreti per l'attuazione delle linee concordate a San Pietroburgo (Commenti del deputato Elio Vito).
Se l'Unione europea vuole davvero essere in grado di esercitare un'influenza in Medio Oriente, un'influenza moderatrice su Israele e dissuasiva verso il terrorismo islamico, essa deve rassicurare gli israeliani che la comunità internazionale - e, in primo luogo l'Europa - intende fare qualcosa di concreto per l'attuazione della risoluzione ONU n. 1559, per fermare i gruppi terroristici Hezbollah. In questi termini, del resto, il presidente Prodi si è espresso ieri sera, sia con il premier israeliano Olmert, sia con il premier libanese. L'Unione europea dovrebbe anche dichiarare sin da subito la propria volontà di assumere un ruolo di primo piano per la realizzazione dei passi successivi previsti dal G8, inclusa la Conferenza donatori per il Libano, iniziativa in cui l'Italia intende impegnarsi attivamente.
Infine, l'Europa dovrebbe preparare una posizione autenticamente comune in vista delle prossime decisioni del Consiglio di sicurezza. Abbiamo già visto quanto le divisioni europee abbiano, in passato, pregiudicano la nostra possibilità di influenza in Medio Oriente. È una lezione negativa, da non ripetere.
In conclusione, una crisi drammatica come quella che abbiamo sotto gli occhi, richiede risposte tempestive e coraggiose. L'Italia ha cercato di fare il possibile per muoversi in tal senso, come dimostrano i passi compiuti, non solo i passi politici, ma anche l'impegno umanitario diretto del nostro paese a Gaza e lo sforzo per favorire una convergenza degli europei e del G8, fino ai tentativi di richiamare gli attori regionali ad atteggiamenti responsabili, fino alla nostra disponibilità immediata a sostenere gli oneri, anche militari, oltre che politici ed economici, previsti dalla dichiarazione del G8.
Ma il nostro impegno non basterà certo se rimarrà sul piano bilaterale, se non diventerà un impegno corale dell'Europa e se l'Europa non riuscirà ad avere un'influenza in accordo con gli Stati Uniti, la Russia ed i paesi arabi interessati alla pace.
Date le polemiche interne nate sulle linee dell'impegno italiano, concluderò ricordando i principi che orientano la nostra azione. Sono tre e molto chiari.
Innanzitutto, la difesa della sicurezza di Israele e insieme, sullo stesso piano, l'affermazione del diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente e democratico.
In secondo luogo, la convinzione secondo cui tale soluzione non può essere raggiunta con scelte unilaterali ma solo con un negoziato tra le parti, appoggiato attivamente dalla comunità internazionale. Proprio perché teniamo a che la pace tra Israele ed i suoi vicini sia duratura e non precaria o illusoria, siamo fermamente convinti che solo il negoziato sia la via seriamente percorribile. L'esperienza tragica di queste settimane dimostra che le iniziative unilaterali non bastano e non garantiscono la sicurezza.
In terzo luogo, l'esigenza di costruire progressivamente, a partire dalla pacificazione del Libano, un nuovo assetto della sicurezza regionale, che permetta di fare avanzare i diritti democratici dei popoli, di combattere efficacemente il terrorismo e di opporsi alla proliferazione nucleare.
A tali principi e orientamenti se ne aggiunge un altro che tendiamo regolarmente a sottovalutare: l'assetto futuro del Medio Oriente è una variabile decisiva della nostra stessa sicurezza, della sicurezza europea. Se vi è un'area dove l'Europa deve riuscire ad impegnarsi in modo più unitario e concreto di quanto sia avvenuto fino ad oggi, questa è il Medio Oriente. Paradossalmente, una crisi come quella che abbiamo sotto gli occhi non sottolinea solo la passata debolezza dell'Europa: può anche essere l'occasione di una ripresa e di una iniziativa. Questo è l'impegno verso il quale si orienta il Governo italiano (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, dell'Italia dei Valori, de La Rosa nel Pugno, dei Comunisti Italiani, dei Verdi e dei Popolari-Udeur).


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PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole ministro.

(Interventi)

PRESIDENTE. Secondo la prassi, gli interventi nell'ambito delle informative urgenti sono previsti in ordine decrescente in base alla consistenza dei gruppi. Tuttavia, essendo intercorse intese tra i gruppi stessi per scambi di turno, la Presidenza non ha alcuna difficoltà ad aderirvi.
Ha chiesto di parlare il deputato Gianfranco Fini.
Prima di dargli la parola, ricordo che seguiranno gli interventi dei deputati Mattarella e Cicchitto.
Prego, deputato Fini, ha facoltà di parlare.

GIANFRANCO FINI. La ringrazio, signor Presidente.
Onorevole ministro degli affari esteri, desidero anzitutto darle atto, ringraziandola, della solerzia e della tempestività con le quali ha inteso riferire a questa Assemblea sulla situazione attualmente in atto nel Medio Oriente e sulle linee guida che il nostro Governo intende perseguire.
La ringrazio non solo per la tempestività e la solerzia, ma anche per l'ampiezza della relazione che - dichiaro subito - è per molte parti condivisibile, anche perché vi è una sostanziale continuità con quanto operato, in altri momenti, in quell'area, dal precedente Governo.
Non so se tale affermazione renda lieta tutta la sua maggioranza, ma si tratta di un aspetto che, come ha dichiarato il Presidente Prodi, attiene alle questioni di politica interna, e non è su tali elementi che intendo soffermarmi.
Vi è certamente, nella relazione, una lodevole volontà espressa in modo ripetuto, la volontà di operare perché cessi il conflitto e perché - uso le sue parole - si arresti la spirale di violenza e di ritorsioni. È un dovere che credo venga avvertito da tutti, al di là delle distinzioni e delle divisioni politiche, che pur ci sono. Non intendo nascondermi dietro un dito al riguardo e spero, nei minuti che ho a disposizione, di spiegare in cosa sussistano oggettive, diverse valutazioni in ordine a quanto sta accadendo e alle responsabilità pregresse.
Ritengo altresì doveroso esprimere il cordoglio della mia parte politica per tutte le vittime civili e innocenti. Credo che sia l'unica «equivicinanza» doverosa: è possibile essere contemporaneamente vicini alle popolazioni civili, siano esse colpite ad Haifa o a Beirut. Infine, anche da parte mia, avendo avuto modo di registrarne la capacità, va il ringraziamento all'unità di crisi per il modo con cui, ancora una volta, di fronte ad una emergenza nazionale, ha contribuito ad alleviare i disagi dei nostri connazionali.
Lei si è chiesto, signor ministro degli esteri, il perché di questa escalation di tipo terroristico-militare che è sotto gli occhi di tutti. Credo che la prima risposta che debba essere fornita è relativa alla strategia dell'integralismo e a quella di tipo politico del fondamentalismo musulmano. Quest'ultimo è all'opera, e non soltanto dall'11 settembre 2001, in diverse aree del pianeta e credo di non andare molto lontano dal vero dicendo che individua nel conflitto israelo-palestinese quella che può essere considerata - per usare un'espressione che fu usata da Saddam - la madre di tutte le guerre. In altri termini, il fondamentalismo musulmano ha ben chiaro che, se riesce a chiudere quella finestra di opportunità che fu aperta non più tardi di qualche mese fa, per decisione unilaterale del premier Sharon, di ritirare le truppe da Gaza - se riesce a farlo - può raggiungere l'obiettivo strategico del fondamentalismo islamico, che è quello di incendiare il mondo intero e di alimentare lo scontro tra civiltà.
In altri termini, credo che si possa dire che l'escalation derivi da una precisa strategia politica del fondamentalismo e che in essa il popolo palestinese è la prima vittima di un'autentica follia. Infatti, non soltanto il popolo palestinese vede allontanarsi il sacrosanto diritto ad avere una patria e uno Stato, ma soprattutto perché anch'esso vive in queste ore momenti


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drammatici. Coloro che soffiano sul fuoco e dimostrano di volere lo scontro di civiltà, sanno perfettamente che, per alimentare il fanatismo delle masse arabe, è indispensabile dimostrare che la pace non si raggiunge attraverso il dialogo e che, per garantire ai palestinesi il diritto ad uno Stato, non servono uomini come Sharon, da un lato, e Abu Mazen, dall'altro, bensì altri attori ed altri protagonisti.
Questa strategia integralista e dello scontro - lo ripeto - determina danni in particolar modo per il popolo palestinese, e non soltanto per il popolo israeliano, che giustamente - come dirò - rivendica il diritto alla sicurezza. Questa strategia è, come anche in molti altri casi, agevolata ma non - lo dico subito - a causa dell'azione del Governo israeliano. Credo che non si possa dimenticare che il Governo uscito dalle elezioni israeliane non può essere giudicato come un Governo di falchi o di estremisti. Il movimento Kadima è certamente un movimento politico che, sulla scia della decisione coraggiosa di Sharon, lavora convintamente per la pace.
Mi permetto di essere in disaccordo con lei, signor ministro, quando dice che Israele intende la sicurezza solo come risposta militare; non è così: basti pensare a quanto è accaduto nella politica israeliana dopo la decisione di Sharon e la nascita di Kadima. La strategia dell'integralismo è agevolata dall'azione concomitante di Hamas e di Hezbollah, ma anche dalla loro rappresentatività.
Credo che sia arrivato il momento, soprattutto se per ragioni diverse ci si interessa seriamente della questione mediorientale, di dire cose anche apparentemente scomode ma - ahimè - corrispondenti al vero. Hamas ed Hezbollah non sono soltanto delle organizzazioni terroristiche, anche se, certamente, nelle loro ali militari vi sono delle organizzazioni dedite ad episodi, anche pianificati, di terrorismo, ma sono - mi duole dirlo - delle organizzazioni rappresentative di parti consistenti di quella che è l'opinione pubblica sia tra i palestinesi, sia in alcune aree del Libano.
Che queste organizzazioni godano di solidarietà, di aiuti non solo internazionali e di simpatie è confermato da tanti episodi. Almeno a me, questa circostanza è ben chiara da quando, nel corso di uno dei colloqui istituzionali con Abu Mazen, un esponente politico moderato palestinese, Nabil Shaath, mi disse, con grande lucidità, che noi occidentali avremmo dovuto riflettere sul fatto che le comunità arabe aiutano, anche economicamente, non coloro che lavorano per la pace, ma anche e soprattutto coloro che preparano la guerra. Hamas ed Hezbollah sono organizzazioni politiche rappresentative, profondamente diverse tra loro. La prima è a prevalente ispirazione sunnita, la seconda a prevalente ispirazione sciita. Tuttavia, si tratta di due organizzazioni che, nella loro diversità, sono accomunate almeno da due elementi. In primo luogo, esse dimostrano una certa ingenuità della comunità occidentale. Lo affermo nel modo più diretto che mi è possibile: vogliamo riflettere, onorevoli colleghi, sul fatto che la democrazia non necessariamente coincide e si riassume nelle elezioni? Vogliamo prendere atto del fatto che le elezioni sono soltanto il modo con cui si verifica il consenso e non sempre quel consenso è basato su valori? Credo di capire l'ironia ed il sorriso di alcuni esponenti della sinistra che, magari, in cuor loro pensano: lo hai detto quando eri ministro degli affari esteri, a Washington? Se ho intuito il sorriso, non soltanto l'ho detto, ma è agli atti. Soprattutto, per ragionare su questi temi occorre, accanto alle analisi, avere la coerenza di assumere impegni. Fin quando ci limiteremo alle analisi, senza assumere impegni, sarà difficile spiegare agli statunitensi la particolare sensibilità di noi europei. Anche per questo, onorevole D'Alema, la discontinuità che reclamate rispetto al precedente Governo, a ben vedere, non lavora per la pace.
Il secondo aspetto che unisce, a mio modo di vedere, Hamas ed Hezbollah è costituito dal fatto che, accanto ad una certa ingenuità di valutazione di una parte dell'Occidente, le due organizzazioni dimostrano l'impotenza dell'Occidente. Lei


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ha citato - lo hanno fatto tutti - la disattesa risoluzione n. 1559 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Fin quando la comunità internazionale, con le risoluzione dell'ONU, stabilirà principi che, poi, rimangono solo sulla carta, non si potrà pensare che coloro i quali alimentano la violenza ed il terrorismo e, in alcuni casi, sono dediti ad azioni di terrorismo, dicano che la comunità internazionale è credibile.
Tutti sappiamo che più volte è stato chiesto ad Hamas, che ha vinto le elezioni, di riconoscere Israele e sappiamo perfettamente che questo appello della comunità internazionale è destinato a cadere nel vuoto. Allora, se la citata risoluzione n. 1559 è disattesa, vogliamo chiederci in che cosa consista la sovranità del Libano? Il premier Siniora controlla davvero il territorio dello Stato libanese? Infatti, se non lo controlla, allora non è uno Stato sovrano; se, al contrario, lo controlla, è in quello Stato sovrano, nella sua fascia meridionale, che sono ospitate le sedi di Hezbollah ed è da quella fascia di territorio che partono i razzi katiuscia che colpiscono quotidianamente la parte nord della Galilea. In entrambi i casi, non soltanto non si può negare ad Israele il diritto di ricorrere all'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e il diritto all'autodifesa, ma credo sia abbastanza fuori luogo misurare, con una sorta di metro politico, se quella reazione sia o meno commisurata all'offesa.
Accanto a questo aspetto, la solidarietà di cui godono Hamas ed Hezbollah è di tipo internazionale. Il ruolo di Teheran in questa vicenda è centrale. Mi meraviglia, signor ministro, che in una relazione comunque ampia non abbia dedicato - contrariamente ad altri - una sola considerazione riguardo al ruolo che il regime iraniano svolge in questa circostanza. La chiave di volta della crisi in Medio Oriente è certamente a Teheran. Non voglio ironizzare in alcun modo sulla autodefinizione del nostro Presidente del Consiglio di «facilitatore» nei rapporti tra Teheran e la comunità internazionale. Mi limito ad affermare che, se non si riesce a facilitare il rapporto tra Capezzone e Diliberto, è difficile facilitare il rapporto tra Teheran ed il resto della comunità internazionale (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza Nazionale, di Forza Italia e della Lega Nord Padania).
Tornando alle cose serie, è certamente vero che Teheran, lo ripeto, è la chiave di volta della crisi. Ed è certamente vero che, per agire a Teheran, occorre essere consapevoli che l'Italia è il primo partner economico, ma occorre utilizzare l'influenza che abbiamo a Teheran per rendere la comunità internazionale ancor più incisiva per chiedere da parte delle autorità di quel paese che vi sia assoluta chiarezza, trasparenza e collaborazione sul progetto nucleare e non, come mi è sembrato in qualche occasione - sarà un processo alle intenzioni -, utilizzare il nostro ruolo di partner economico privilegiato per attenuare la pressione della comunità internazionale.
Infatti, l'Iran - per la prima volta, dopo molti anni - non dispone di quella dicotomia tra potere teocratico e potere istituzionale che spesso ha rappresentato l'alibi dell'Europa nei confronti di quel paese. Oggi, Rafsanjani non c'è più, Khamenei è di fatto superato da una doppia leadership democratica ed istituzionale, vale a dire quella di Amadinejad che, quotidianamente, auspica un nuovo olocausto.
Non vi è dubbio che la comunità internazionale debba essere unita, non vi è dubbio che l'Unione europea debba far sentire la propria voce. Mi permetto, signor ministro - senza offesa -, di derubricare le ultime sue considerazioni al novero degli atti dovuti, a declamazioni di intenti. Tuttavia, mi auguro che l'Unione europea, nel momento in cui...

PRESIDENTE. Onorevole Fini, dovrebbe concludere.

GIANFRANCO FINI. Chiedo al collega di Forza Italia di poter utilizzare due minuti del suo tempo, avendo avuto l'onore di rappresentare il Governo di centrodestra. Se il collega Vito me lo consente...


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MARCO BOATO. Tanto non è possibile!

GIANFRANCO FINI. Dicevo, se l'Unione europea vuole davvero...

PRESIDENTE. Non ho capito se il presidente Vito acconsente; vorrei essere garantito. La prego di aiutarmi nel mio compito.

GIANFRANCO FINI. Io aiuto il suo, lei cerchi di aiutare il mio. Era di tutta evidenza che, se ho fatto questa richiesta all'onorevole Vito, eravamo già d'accordo. Ma non è l'interruzione che mi impedisce di concludere il mio ragionamento.
Affermando che l'Unione europea deve contare di più, ci dobbiamo chiedere per quale motivo per anni l'Unione europea ha contato poco o nulla. Ci dobbiamo chiedere perché Washington è l'unico attore capace di intervenire nella sede mediorientale con reciproca credibilità. La mia risposta è molto semplice: l'Unione europea in tante circostanze è stata squilibrata.
Mi rendo conto della necessità che avete, per ragioni politiche, di cogliere gli elementi di discontinuità con il nostro Governo. Ma, onorevole D'Alema, attenzione a non mettere in evidenza discontinuità per certi aspetti negative per il raggiungimento della pace, che è l'obiettivo di tutti.
Se l'Unione europea, negli ultimi tempi, quando governava il centrodestra, ha avuto un ruolo un po' più attivo nella questione mediorientale, come dimostra il fatto che l'unica presenza dell'Unione europea in quell'area è guidata da un generale italiano, è perché il nostro Governo riuscì, fermo restando il rapporto privilegiato con il popolo palestinese...

PRESIDENTE. Deputato Fini, dovrebbe concludere, per cortesia! Le regole valgono quasi per tutti!

CARLA CASTELLANI. Casini faceva parlare ore ed ore!

GIANFRANCO FINI. Va bene, concludo sottolineando che il dovere della discontinuità non vi può essere quando allontana la pace.
L'Unione europea ha inciso perché l'Italia, amica tradizionale del popolo palestinese, aveva acquistato credibilità agli occhi del popolo e del Governo israeliano. Attenzione ad affermazioni incaute, attenzione ad espressioni provocatorie! L'onorevole D'Alema aveva il dovere di dire che il Governo non condivide la richiesta giunta da qualche parte della sua maggioranza di ritirare il nostro ambasciatore in Israele: attenzione a non perdere la credibilità che avevamo acquisito, perché così facendo non si lavora per la pace e tutte le sue considerazioni rimarranno sulla Carta [Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza Nazionale, di Forza Italia, dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e della Lega Nord Padania]!

PRESIDENTE. Onorevole Fini, provo ugualmente a ringraziarla, malgrado la fatica che introduce nel compito di presiedere l'Assemblea.
Capisco che si tratta di una discussione molto importante e che ogni intervento normativo che preclude a un deputato di continuare a sviluppare il suo ragionamento è sgradevole ed antipatico. Tuttavia, mi corre l'obbligo di far notare che il deputato Fini ha parlato 3 minuti (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)...
Cari signori deputati, se voi pensate che le norme valgano soltanto per qualche gruppo, e non per gli altri, vi sbagliate, vi sbagliate assolutamente (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)! Allora, siccome questo ruolo lo svolgo (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)... Io pensavo semplicemente di introdurre...

IGNAZIO LA RUSSA. Pensavamo che fosse come Casini: tutto qui!

PRESIDENTE. Io pensavo di poter invitare, in questo dibattito, a concentrarsi


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sulla questione all'ordine del giorno. Come avete visto, e vi prego di avere pazienza, non ho avuto assolutamente un atteggiamento fiscale, assolutamente (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)! Se voi non interrompeste ed accettaste di applicare le regole (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)... Allora io, come Presidente, d'ora in poi, farò soltanto notare le trasgressioni in questo dibattito. Tuttavia, ritengo che tutto il tempo preso in più è tempo sottratto a qualche altro (Commenti): sarà una consuetudine egualitaria, ma di essa vorrei avvalermi!
Ha chiesto di parlare il deputato Mattarella. Ne ha facoltà.

SERGIO MATTARELLA. Signor Presidente, signor ministro degli esteri, ieri, dalla Santa Sede, il cardinale Martino definiva la grave crisi che si è aperta in Medio Oriente come una situazione complessa e di difficile decifrazione. In linea analoga, l'altro ieri, sul The New York Times, Thomas Friedman scriveva che, «osservando quanto sta accadendo in questi giorni in Medio Oriente, sembra di assistere ad uno spettacolo già visto. In realtà, c'è qualcosa di diverso rispetto al passato, e faremmo bene a rendercene conto. In Iraq, nei territori palestinesi ed in Libano, i partiti islamisti stanno infatti tentando di usare le elezioni per raggiungere l'obiettivo di lungo termine, vale a dire radicalizzare il mondo arabo musulmano». Hanno in comune, le due note citate, l'allarme per una nuova condizione: la diffusione crescente del fondamentalismo islamico.
Il ministro D'Alema, poc'anzi, ha raccolto, ha sottolineato le novità della condizione che si è creata. Tanti fattori vi hanno contribuito: l'inerzia di questi anni sulla questione israelo-palestinese, dopo l'intelligente tentativo del presidente Clinton, purtroppo non riuscito; gli errori commessi in questi anni, a partire - va detto, doverosamente, ancora una volta - dalla dissennata avventura irachena. The Washington Post, giornale di area repubblicana, la stessa del Presidente Bush, ha scritto, due giorni fa, che ai tempi dell'avvio della missione in Iraq il vicepresidente Cheney garantì che, dopo la caduta di Saddam Hussein e del suo regime, gli estremisti della regione sarebbero stati costretti a rivedere la strategia della guerra santa e che i moderati avrebbero avuto la meglio, così come la capacità degli Stati Uniti di portare avanti il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Oggi - scrive The Washington Post - queste parole di Cheney rappresentano la prova più evidente del fallimento di quella strategia.
È una condizione nuova. Non si può, quindi, restare imprigionati in schemi astratti e precostituiti. Tanto più occorre evitare mediocri manovre polemiche per banali obiettivi di politica interna. Non si può essere schierati pregiudizialmente, alla cieca, comunque sia, ma, al contrario, occorre essere capaci di analisi obbiettive, di ruolo di mediazione, di iniziative, qualunque sia la preferenza. In questo, onorevole Fini, io ravviso qualche discontinuità. Mediazione credibile, naturalmente, che è tale se assume come base, e se si fa carico dell'esistenza e della sicurezza di Israele. Il riconoscimento dell'esistenza, della sicurezza di Israele, tante volte colpita da attentati crudeli: nessuno può ipotizzare che questo sia un punto discutibile. Si tratta del punto di partenza: questo vale anche per Hamas, vale anche per il Presidente dell'Iran, vale anche per Hezbollah.
Hezbollah, nel sud del Libano, è la principale causa di recrudescenza della crisi in Medio Oriente. Fino a qualche anno fa, prima dell'incendio che ha devastato l'area della regione larga mediorientale, gli Hezbollah sembravano aver perso strategia e ruolo; ed hanno riversato su Israele una grande quantità di razzi e missili in questo periodo di crisi. Deve far riflettere tutti il fatto che l'intero movimento pacifista israeliano è, questa volta, collocato a fianco del suo Governo. E bene ha fatto il Presidente Prodi ha iniziare con una telefonata al presidente Olmert in Israele, che ha chiesto il rilascio degli ostaggi, lo schieramento delle truppe regolari nel sud del Libano ed il disarmo


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delle milizie, secondo le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (il ministro degli esteri, onorevole D'Alema, ha citato la n. 1559).
Si tratta, dunque, di posizioni ragionevoli. Il problema è l'equilibrio tra una risposta efficace e le conseguenze sui civili innocenti. In questo risiede, colleghi, il problema della proporzione o della sproporzione.
Il Libano ha avuto, come ha ricordato il ministro degli esteri, 220 morti. Sono state sconvolte e distrutte tante importanti infrastrutture civili, così a Gaza. Il Libano è un paese, dopo la cosiddetta rivoluzione dei cedri, che è stato abbandonato a se stesso, un paese che, una volta, era unito nelle sue diversità, che stava uscendo da una fase di occupazione, di divisione e di guerra civile e che torna, come il ministro D'Alema ha appena detto, indietro. Da esempio di convivenza, come era nel passato, rischia di diventare vittima del fondamentalismo e dello scontro violento. La comunità internazionale non può assistere inerte a quanto avviene. Occorre intervenire.
Questa mattina, Amos Oz invitava a non equiparare Israele al terrorismo. Nel nostro paese, qualcuno ha posto l'alternativa: o con Israele o con il terrorismo. Non è questa l'alternativa e lo dimostrano, oggi, e tre giorni fa, il presidente Mubarak e Abdallah di Giordania, quando denunciano l'avventurismo di alcuni gruppi estremisti arabi.
La scelta non è tra Israele e terrorismo. La scelta è tra il terrorismo e la civile e serena convivenza in Israele, tra palestinesi, in Libano. Questa è la scelta in cui collocarsi: la sicurezza civile in Israele, così come nel Libano, così come tra i palestinesi. Le vittime innocenti hanno tutte la stessa dignità. Suscitano tutte lo stesso dolore.
Occorre avere la consapevolezza che ogni periodo di violenza e di scontri sanguinosi provoca ferite difficili da rimarginare ed un rafforzamento del radicalismo. Israele non deve contare soltanto sulla sua supremazia militare. Soltanto con questa non si esce dalla condizione di crisi che si trascina da decenni.
Deve far riflettere ciò che poc'anzi ha ricordato il ministro degli esteri, ossia che questa esplosione di violenza, innescata da due rapimenti di soldati israeliani, a Gaza e al confine con il Libano, e ancor più gli attacchi di Hezbollah, si sono verificati subito dopo che si era delineata una possibile linea comune in ambito palestinese tra Al Fatah e Hamas per la trattativa con Israele e che queste interessanti iniziative e prospettive sono state bloccate dalle iniziative di aggressione che hanno dato vita a questa crisi.
È stata una crisi scatenata da chi respinge la soluzione pacifica di due Stati, che vuol dire, in realtà, una difesa anche di due democrazie. È interessante quanto poc'anzi ha detto l'onorevole Fini, ossia che non bastano le elezioni per fare una democrazia (e questo fa riflettere anche sulla vicenda irachena), ma noi intendiamo difendere due democrazie, quella matura, sperimentata, solida di Israele e quella immatura, incompleta, ma da tutelare anch'essa, che si è sviluppata e si deve sviluppare tra i palestinesi.
Occorre difendere due Stati e due democrazie. Occorre, in realtà, capire che oggi la comunità internazionale è ad un momento di svolta che può utilizzare adeguatamente. Occorre capire come interpretare questo momento, come fare passi avanti, piuttosto che esercitarsi in polemiche talvolta sterili.
Oggi possiamo avere il consenso internazionale per agire con determinazione e non solo per imporre una tregua che sarebbe fragile ed inevitabilmente transitoria.
Kofi Annan oggi ha dichiarato che tocca alla comunità internazionale fare la differenza: questo è l'impegno che ci dobbiamo assumere e che il nostro paese intende assumere, come poc'anzi ha dichiarato il ministro degli affari esteri. Mi riferisco allo schieramento di forze internazionali dell'ONU nel sud del Libano con un mandato nuovo. Ritengo che abbia ragione il ministro degli affari degli esteri quando afferma che anche a Gaza andrebbe dispiegato un contingente dell'ONU. Occorre un mandato nuovo, una


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consistenza maggiore; occorre che le richieste del G8 siano suffragate da una capacità di intervento delle Nazioni Unite e dall'assunzione di responsabilità della comunità internazionale.
L'Unione europea si sta impegnando: le parole di Barroso e di Solana sono state interessanti e le ha richiamate, in questa sede, il ministro degli affari esteri. Occorre dare concretezza a questi impegni, la stessa concretezza che poc'anzi il ministro degli affari esteri ha indicato per quanto riguarda gli impegni che il nostro paese intende assumere.
Su questa linea si è mosso il nostro Governo attraverso vari contatti e si sono mossi il Presidente del Consiglio ed il ministro degli affari esteri. A queste iniziative e attività, che si svolgono in tante direzioni, diamo il nostro consenso.
Inoltre, signor ministro degli affari esteri, esprimiamo il nostro consenso anche in ordine a tutti i punti della sua comunicazione, perché gli impegni che ella ha indicato e gli impegni che il nostro paese è disposto ad assumere sono concreti, all'altezza della difficoltà del momento. Si tratta di una difficoltà a cui il nostro paese, così come l'Unione europea e l'intera comunità internazionale, non possono sottrarsi (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, dell'Italia dei Valori, de La Rosa nel Pugno e dei Comunisti Italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Cicchitto. Ne ha facoltà.

FABRIZIO CICCHITTO. Signor Presidente, innanzitutto, vorrei associarmi alla solidarietà che poco fa l'onorevole Fini ha manifestato rispetto a tutte le vittime. Vorrei, inoltre, esprimere la solidarietà, mia e del nostro gruppo, ad Israele ed al popolo ebraico. Vorrei esprimere la mia solidarietà agli aggrediti e la contrapposizione agli aggressori (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
Se in politica estera manca questa chiarezza, se tutte le vacche sono grigie, ecco che anche la funzione del nostro paese - come quella dell'Europa - rischia di essere subalterna, appiattita, non all'altezza della gravità della situazione.
In questo quadro, signor ministro degli affari esteri, reputo deludente la sua relazione, sia dal punto di vista dell'analisi sia dal punto di vista delle conclusioni politiche. Dal punto di vista dell'analisi, la considero deludente, perché anche dal suo schieramento, dal centrosinistra, dallo stesso onorevole Fassino e, ieri, da Furio Colombo, nel corso di una manifestazione indetta dalla comunità ebraica, ho ascoltato analisi molto più penetranti rispetto alla gravità della situazione, che è estrema.
Non ci troviamo di fronte ad una guerriglia di ordinaria amministrazione, alla quale Israele ha avuto il torto di rispondere in modo sproporzionato. Il vostro discorso sulla sproporzione è molto infelice. Ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più grave. E, per quanto riguarda alcuni paesi arabi ed Israele, vi è un andamento totalmente divergente. Per un verso, non siamo di fronte a delle scaramucce o ad una guerriglia di ordinaria amministrazione, bensì ad un disegno politico di distruzione di Israele.
Dobbiamo comprendere il salto di qualità che, purtroppo, si sta tragicamente verificando in un contesto che, dietro di sé, ha un percorso politico, culturale e religioso molto profondo; dobbiamo capire, inoltre, che Hezbollah ed Hamas costituiscono la punta di un processo internazionale dietro al quale vi sono la Siria da una parte e l'Iran dall'altra.
Vorrei segnalare che l'Iran ha parlato chiaramente rispetto al suo disegno: il Presidente iraniano, infatti, per sostenere la linea della distruzione di Israele, ha addirittura assunto una posizione negazionista della Shoah! Pertanto, abbiamo assistito ad un'azione concentrata su due poli, Gaza da una parte ed il Libano dall'altra. Si tratta di una operazione combinata, condotta nell'ambito di un processo che rappresenta un salto di qualità rispetto a tutto ciò che è avvenuto in passato.
Vorrei evidenziare che ciò avviene perché un fattore molto negativo è maturato in profondità. L'onorevole Fini ha poc'anzi ricordato la complessità di Hamas e di Hezbollah; tuttavia, la complessità


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di Hamas, che coniuga elementi di terrorismo con un'attività in campo sociale, da cosa deriva, se non dal fallimento di Al Fatah? Da cosa trae origine, se non dalla subalternità di Al Fatah rispetto al fondamentalismo islamico? Ricordo che Al Fatah aveva una connotazione laica, ma l'ha dispersa perché, nel frattempo, si è corrotta profondamente. Pertanto, la combinazione tra la sua corruzione e la subalternità al fondamentalismo ha condotto alla vittoria di Hamas ed alla sconfitta di Al Fatah.
Per l'altro verso, ovvero per quanto riguarda gli Hezbollah, vorrei sottolineare che assistiamo alla destabilizzazione dello Stato libanese (di cui ci si accorge solo oggi), nonché alla totale negazione dell'azione dell'ONU: la presenza di 2 mila esponenti delle Nazioni Unite, infatti, ha dato una copertura, in quel territorio, a ciò che ha compiuto Hezbollah. Pertanto, ci troviamo in una situazione di straordinaria gravità, perché lo Stato libanese è stato smantellato dalla Siria e gli Hezbollah sono stati usati in funzione militare. È questo il «nocciolo duro» con il quale dobbiamo misurarci!
Ebbene, se non consideriamo la situazione esistente sulla base della visione fondamentalmente negativa con cui lei, signor ministro degli affari esteri, ha analizzato la politica di Israele, osserviamo che lo Stato israeliano ha cercato non da oggi, ma dai tempi di Begin e di Camp David prima, di Rabin (il quale ha addirittura sacrificato la propria vita) e Sharon poi, di gettare le fondamenta di una politica di pace; ogni volta, tuttavia, questa politica di pace ha incontrato una contrapposizione ed una negazione radicale!
Infatti, se confrontiamo, da un lato, Israele e la politica per la pace che tale Stato ha perseguito e, dall'altro, ciò che è avvenuto e maturato negativamente all'interno del mondo arabo, ecco che riscontriamo, oggettivamente, non una linea evolutiva, ma un percorso involutivo. In tal senso, infatti, esiste un'area grigia: ancora una volta l'Europa - ed in questo caso, anche l'Italia, facendo registrare un'involuzione rispetto a quanto compiuto dal Governo precedente - non offre una sponda ai paesi arabi moderati! Non è un caso, infatti, se abbiamo visto (magari con un incidente semantico) il Presidente Prodi inseguire l'Iran, il quale, tuttavia, è il mandante degli assassini che stanno operando sul campo. Questi sono i nodi duri con i quali bisogna misurarsi!
Si parla molto dell'atteggiamento di Israele; tuttavia, vorrei segnalare che un senatore del vostro schieramento, Antonio Polito, si domanda giustamente, in un suo articolo pubblicato oggi, cosa debba fare tale Stato. Ogni risposta di Israele, egli afferma, è infatti sproporzionata o sbagliata, sia che ceda territori, sia che risponda sul piano militare, sia che pratichi gli omicidi mirati, sia che conduca una trattativa di pace: in ogni caso, Israele sbaglia sempre ed ogni sua azione è sempre sproporzionata!
Ma voi non vi rendete conto che con questo distinguo in effetti date una copertura ad una linea strategica che è molto più lucida e più spietata, rispetto all'episodicità che voi le attribuite? Queste sono le ragioni per le quali, non per banali questioni di politica interna ma per un dissenso sulla politica estera, noi definiamo deludente la relazione del ministro D'Alema. Vogliamo anche chiedervi qual è la vostra politica estera. È quella della Rosa nel Pugno, espressa da Pannella e da Capezzone, che noi condividiamo interamente? È quella oscillante che ha due poli, il suo e quello dell'onorevole Fassino, che hanno le loro profonde differenze di analisi, che noi abbiamo colto? O è quella dell'estrema sinistra, che in effetti fiancheggia e dà la sua solidarietà alla linea contro Israele?
Non avete una politica estera omogenea, e questa è la ragione per cui una persona assennata come l'onorevole Enrico Letta ieri ha espresso tutta la sua angoscia su una maggioranza, che non solo non regge numericamente, avendo il concorso ed il contributo dei senatori a vita, ma che non regge politicamente per le sue grandi contraddizioni in politica estera ed in politica economica [Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di


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Alleanza Nazionale, dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e della Lega Nord Padania - Congratulazioni].

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Giordano. Ne ha facoltà.

FRANCESCO GIORDANO. Signor ministro, vorremmo esprimere il nostro apprezzamento per la prontezza con cui il Governo ha fornito questa informativa ed anche l'apprezzamento per le prime reazioni del nostro Governo sulla vicenda, ed in particolar modo per le sue.
Nel breve volgere di pochi giorni è esploso un conflitto che rischia di incendiare l'intera regione del Medio Oriente. Centinaia di morti: nella sola giornata di ieri 47, complessivamente 227 nel Libano, un centinaio di morti in Palestina. Distruzione di infrastrutture e di abitazioni, di servizi, di ospedali: una tragedia ed un'angoscia crescente. Occorre subito far cessare il fuoco, far tacere le armi. Occorre far cessare l'offensiva militare israeliana, che non è solo sproporzionata, ma si configura come una violazione del diritto internazionale. Colpisce civili ed infrastrutture.
Occorre chiedere dunque il ritiro dal Libano ed il cessate il fuoco da entrambe le parti. Occorre riprendere per via negoziale la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri. Occorre proseguire sulla strada tracciata dal cosiddetto documento dei prigionieri, anche da lei citato. Vorrei poterle ricordare che l'attacco alla pace viene da entrambe le sponde e che prima ancora degli attacchi terroristici, che noi condanniamo ovviamente e naturalmente, c'è stata una sequenza, una escalation, innescata anche dallo stesso Governo israeliano precedentemente.
Questo divampare del conflitto mediorientale è la più clamorosa conferma - su questo la sua analisi è in totale sintonia con la nostra - del fallimento degli obiettivi dichiarati dagli Stati Uniti d'America con la guerra in Iraq. Volevano darci maggiore stabilità. Oggi è sotto gli occhi di tutti la situazione in Medio Oriente. In Iraq, quella guerra non ha fine ed io credo che abbiamo fatto bene a decidere di uscire - lo discuteremo con il prossimo provvedimento - da quel teatro di guerra e non lasciare più lì neanche un militare. L'intervento doveva stabilizzare i rapporti fra Israele e Palestina; anzi, in alcuni momenti, sembrava addirittura l'alibi, era addirittura propedeutico a quell'operazione.
L'effetto è che non solo non è andata così, ma è dal 1990 che non vi era una situazione così grave: il massimo della crisi del conflitto tra Israele e Palestina. In ogni caso, tutto il Medio Oriente è stato destabilizzato: siamo sull'orlo di una guerra civile in Libano, invaso dal Governo di Israele. Vi sono tensioni con la Siria, vi è una crescita di tensioni ed un inasprimento di rapporti con l'Iran: l'operazione americana e il tentativo di tradurre con la guerra preventiva tutta questa operazione ha prodotto, come si è visto, una totale destabilizzazione di tutto il Medio Oriente. Ora la politica di pace passa per la stabilità dell'area.
La legalità internazionale si ripristina e poggia su basi solide solo se si dà una soluzione al diritto del popolo palestinese di avere un proprio Stato e di poter convivere in sicurezza con lo Stato d'Israele: due popoli, due Stati.
Riaprire il negoziato, dunque: è questa la strada maestra. E un'iniziativa forte può essere quella di una Conferenza internazionale di pace: questo è il ruolo a cui possiamo dare un grande contributo e questo può essere anche il ruolo dell'Europa che, spesso, ha guardato solo al nord, all'Occidente, ma che può trovare una sua identità politica e culturale solo se guarda al sud, al Mediterraneo, alle sue culture, ai suoi drammi.
È bene che l'ONU intervenga nell'immediato; come lei sa, noi esprimiamo una critica alla legittimità del G8 che rilascia opinioni di parte e dà consigli, ma è il Consiglio di sicurezza dell'ONU che è titolato in materia. Come dicevo, è bene che l'ONU intervenga nell'immediato; siamo stati tra i primi a chiedere la necessità di una forza di interposizione, l'ha chiesta anche il Governo libanese.


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Vorremmo chiarire per noi, signor ministro, il ruolo e le funzioni di una missione che lavora per l'interposizione. L'interposizione deve poter essere a protezione dei confini e delle popolazioni civili: un'interposizione di peacekeeping e non di coercizione. Ma oltre che ai confini del Libano - come lei, peraltro, ha affermato - occorrerebbe dispiegare le forze d'interposizione a Gaza e in Cisgiordania; dobbiamo evitare, insomma, di legittimare a valle scelte unilateralmente determinate con l'uso della forza.
Se questa missione serve ad applicare, come lei ha detto, una risoluzione dell'ONU, allora è indispensabile far applicare altre disposizioni e risoluzioni dell'ONU che riguardano i confini dello Stato di Palestina, vale a dire la risoluzione n. 338 e la risoluzione n. 242. Bisogna uscire da ogni unilateralismo, evitare di coprire con scelte multilaterali azioni frutto di una politica unilaterale. Per questo chiediamo un coinvolgimento di tutti gli attori che hanno un peso nell'area, tutte le parti coinvolte nell'escalation, esattamente come si è espresso il Governo spagnolo in queste ore attraverso il suo collega, il ministro degli affari esteri Moratinos.
La missione, quindi, deve trovare il consenso di tutte le forze in campo, solo così ci si avvia al negoziato e alla risoluzione alla radice del problema.
Signor ministro, occorre sbloccare gli aiuti umanitari: la Palestina è allo stremo, non può pagare un popolo lo smarrimento del ruolo della politica. Questa sofferenza può alimentare i bacini d'odio e il senso di disperante solitudine di un popolo. Noi dobbiamo rispondere a questo dramma perché esso parla di noi, della nostra storia, della nostra cultura, della nostra relazione con tutti i popoli che si affacciano sull'altra sponda del Mediterraneo.
Il muro, le sanzioni, l'allargamento e gli insediamenti sono ostacoli alla soluzione di due Stati per i due popoli. La sicurezza d'Israele passa per la pace, per la fine dell'occupazione, che prosegue da troppo tempo. L'uso della guerra pregiudica il futuro del Mediterraneo.
Ora, signor ministro, servono atti concreti, che diano all'equivicinanza tra tutti quei popoli una base giuridica e di legalità (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e de L'Ulivo - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, onorevole ministro, anzitutto vorrei esordire con una precisazione di metodo che ritengo importante. Stiamo discutendo su un'informativa urgente. Ringrazio il ministro che è venuto in Parlamento a fornirla con grande puntualità e precisione. Naturalmente, come sempre in queste circostanze, le affermazioni politiche sono opinabili. Se, però, intendiamo impostare correttamente i lavori della legislatura, dato che oggi non si vota e il dibattito non si conclude con una proposta di risoluzione, dobbiamo cogliere un'occasione per noi che siamo all'opposizione e per il ministro che ha la responsabilità della direzione della politica estera del paese per un dialogo, finalizzato non solo alla propaganda delle rispettive posizioni politiche ma anche ad offrire con la nostra responsabilità e le nostre convinzioni un supporto di opinioni al Governo.
Spero che il Governo - ed il ministro D'Alema in particolare - avrà l'intelligenza di guardare alla maggioranza che lo sostiene ma anche di farsi carico delle opinioni e degli indirizzi forniti dall'opposizione.
Trovo negli interventi svolti dagli onorevoli Fini e Cicchitto, che mi hanno preceduto, riflessioni e spunti anche critici, ma importanti, poiché crediamo al valore della continuità della politica estera italiana. Il Governo che è andato al Vertice del G8 si colloca nell'ambito, necessariamente, di una continuità istituzionale con quello che lo ha preceduto. Allo stesso modo, il ministro degli affari esteri svolge il proprio lavoro nell'ambito della continuità con gli impegni assunti dal suo predecessore. È importante osservarlo, perché è un fatto di metodo che, mai come in questa circostanza, può diventare di sostanza.


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Vi sono alcune questioni che non ci dividono: il cordoglio a cui ci associamo nei confronti delle vittime civili di tutte le parti; la preoccupazione per il Mediterraneo, una preoccupazione italiana perché se questo mare non sarà un'area di pace e di stabilità non vi sarà sicurezza neanche per il nostro paese; l'affermazione del diritto di Israele di vivere in pace e, contemporaneamente, del diritto alla patria per un popolo martoriato come quello palestinese. Anche le voci ed i moniti provenienti dal mondo cattolico a questo fine non debbono essere lasciati cadere, perché si tratta di moniti di verità: non vi può essere un popolo, quello palestinese, condannato, anche per la beffa della storia, ad uno stato di minorità permanente e continuato.
Inoltre, non ci divide la richiesta di un alt alle violenze, di una presenza dell'ONU, come ha detto bene ora l'onorevole Giordano, con il consenso di tutte le parti interessate (questa è la condizione nel sud del Libano per il «cessate il fuoco»), di una pacificazione del paese e della messa in libertà dei parlamentari e dei ministri. Come abbiamo detto ieri alla riunione interparlamentare a Ginevra, non vi può essere giustificazione; deve essere tutelata la libertà dei parlamentari di recarsi nel loro Parlamento.
L'onorevole D'Alema ha parlato del fallimento dell'Europa in questi anni. Concordo con lui, anche degli Stati Uniti; ma non individuo con lui, come «madre» di tutti gli errori, la guerra in Iraq.
Ciò non perché la guerra in Iraq, onorevole D'Alema, non possa essere criticata, contestata o anche ritenuta una guerra gestita male nel periodo post azione militare - pensiamo allo smantellamento dell'esercito iracheno, criticato da tutti e anche da Condoleeza Rice - ma perché, certamente, se c'è una data di inizio in questa vicenda drammatica, questa non è data dalla guerra in Iraq bensì dall'11 settembre del 2001 [Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro), di Forza Italia, di Alleanza Nazionale e della Lega Nord Padania]. L'11 settembre è la data dell'offensiva di un terrorismo islamico che strumentalizza Dio e la religione, mentre noi ricordiamo quanto attuale sia ancora il monito che, proprio in quest'aula, riportò Giovanni Paolo II quando disse che nessuna guerra si può fare in nome di Dio. Certamente, quella è la strumentalizzazione di una religione che non ha come suo obiettivo il propagandare odio. In realtà, sono venute al pettine altre questioni.
Abbiamo sempre parlato del Libano come di uno Stato sovrano ma, cari amici, parliamoci chiaro: tutti abbiamo saputo che quella del Libano è stata una finta statualità. Non ho sentito in questo dibattito nessuno che ricordasse l'omicidio Hariri, il premier libanese. Oggi ancora ci sono indagini di una Commissione dell'ONU che parlano di responsabilità siriane a questo proposito ma poi non si è mai arrivati alla fine perché ha prevalso, in quella circostanza, la ragion di Stato.
Mattarella ha parlato della «rivoluzione dei cedri», che è stata, senza dubbio, un evento di libertà per il Libano; in realtà, era un messaggio disperato alla comunità internazionale: non lasciateci soli, dicevano quelli scesi in piazza! Tuttavia, tutti sappiamo che i siriani si sono ritirati fintamente perché gli Hezbollah in realtà hanno utilizzato questo periodo di pace per accrescere il loro arsenale militare, come ha riconosciuto qui l'onorevole D'Alema parlando di un accresciuto arsenale militare. Allora, Israele si muove rispetto ad un contesto libanese di questo tipo, con Hamas che vince le elezioni palestinesi ma non riconosce diritto di esistenza allo Stato di Israele, con l'Iran che elegge un nuovo presidente della Repubblica che parla di Israele come dell'impero del male.
In questo contesto, Israele, con più o meno eccessi, cerca di difendere il diritto all'esistenza messo in discussione dal contesto stesso. Devo dire che, a dimostrazione del fatto che non sono accecato dalle ideologie della propaganda, ho ritenuto molto coraggioso ciò che a questo proposito ha detto l'onorevole Fassino il quale


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ha riportato le preoccupazioni di Israele all'interno di un contesto che le rende credibili.
L'onorevole D'Alema ci dice che la reazione è sproporzionata. Massimo D'Alema, è sproporzionata per noi che stiamo in Italia, che siamo qui tranquilli!

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Anche per i cittadini libanesi!

PIER FERDINANDO CASINI. È sproporzionata veramente per loro che si trovano in un contesto, in una situazione che li ha portati a dover convivere dolorosamente con scenari di guerra permanenti per quel paese, ma sono caduti tanti israeliani in queste ore.
Ritengo che tutto ciò che il Governo italiano, l'Europa, farà per assumere una posizione di mediazione o di facilitazione debba incontrare l'appoggio impegnato e pieno di questo Parlamento. Tuttavia, debbo ammettere che difficilmente l'Europa potrà essere un mediatore o anche solo un facilitatore a fronte delle affermazioni del Presidente francese Chirac che ha definito aberrante la posizione di Israele in questi giorni, perché, in questo caso, l'Europa non appare come una forza, un elemento terzo nel contesto di questo conflitto. In realtà, essa appare, come ha denunciato l'ex ministro degli esteri pochi minuti fa, di parte, non in grado di esercitare una mediazione o una facilitazione perché si colloca in un'operazione di fiancheggiamento politico.
Non c'è dubbio che il popolo palestinese in questa vicenda è l'attore debole, subisce drammaticamente le conseguenze di questa situazione. Onorevole D'Alema, concordo con lei nel dire che noi dobbiamo esprimere anche il nostro appoggio ad Abu Mazen, che è forse il primo destinatario, come elemento che lavora per il dialogo, di questo estremismo islamico, che in realtà ha come primi bersagli proprio i dirigenti palestinesi moderati. Dunque, continuiamo su questa strada del dialogo.
Credo che il ministro degli esteri, nel portare avanti la sua azione diplomatica, non debba disperdere il grande patrimonio storico che il nostro paese ha sempre avuto, anche grazie alla Democrazia Cristiana: essere interlocutore forte del mondo arabo e del mondo palestinese. Noi abbiamo una tradizione di rapporti nel Mediterraneo che tutti, ai diversi livelli, dalle diverse collocazioni politiche, ci siamo sforzati di coltivare. Ma perché non dirlo? Credo che non sia male abbinare a questa carta forte che abbiamo anche quella posizione di nuova e più forte comprensione introdotta dal Governo Berlusconi nei confronti dello Stato di Israele.
Allora, capisco che vi sono problemi di politica interna, ma in questo caso non è un buon servizio all'Italia parlare di discontinuità. Cerchiamo di operare nella continuità, nella continuità con quanto si è fatto in questi cinque anni per quanto riguarda lo Stato di Israele e nella continuità con la grande tradizione di una politica italiana che ha sempre visto nel mondo arabo non un nemico, ma un interlocutore. Se lei farà questo, certamente anche da posizioni diverse, deve sapere che da parte nostra ci sarà grande rispetto e grande condivisione per le sue fatiche [Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro), di Forza Italia, di Alleanza Nazionale e Misto-Movimento per l'Autonomia - Congratulazioni].

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Giancarlo Giorgetti. Ne ha facoltà.

GIANCARLO GIORGETTI. Signor Presidente, signor ministro, il Libano, oggi sconvolto dalle armi, fino a poco più di un mese fa rappresentava l'unico e forse insperato esempio di paese mediorientale che, dopo decenni di occupazioni e di guerre anche civili, era riuscito a rinascere in uno Stato democratico e indipendente, nel quale la coesistenza di gruppi etnici e religiosi profondamente diversi aveva raggiunto un certo equilibrio, fatto anche di separazione fisica ed alchimie costituzionali. Di fatto, il Libano costituiva un modello per l'intera area. Evidentemente,


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un modello che le milizie di Hezbollah e chi le sostiene non volevano preservare né tantomeno esportare. In particolare, non dovrebbe sfuggire a alcuno - e a noi della lega non è sfuggito - che Hezbollah da movimento di liberazione si è trasformato in esercito di aggressione; a null'altro, se non al desiderio di riaccendere la miccia di un conflitto che pareva definitivamente avviato a ricomposizioni, si può infatti imputare lo stillicidio di azioni provocatorie portate avanti da Hezbollah nei confronti di Israele, da quando quest'ultimo, in ottemperanza ad una risoluzione, si era ritirato nel 2000 dal territorio libanese entro i confini della linea blu approvata dal Consiglio di sicurezza.
Il rapimento dei due soldati israeliani del 12 luglio scorso è solo l'ultima azione di violenza in ordine di tempo ai danni di uno Stato - lo si riconosca con onestà - che ha saputo fare passi coraggiosi in cerca di un riconoscimento pacifico dei propri confini, attraverso ritiri concordati e volontari da Gaza come dal Libano, pur nel contesto di una lotta disperata e ineguale per affermare il proprio diritto all'esistenza.
La reazione israeliana è stata militarmente tarata su possibili scenari anche di intelligence, che paventano un'estensione del conflitto a Stati sostenitori della guerriglia antisemita, con effetti moltiplicatori della minaccia che quotidianamente grava sulla testa di ciascun israeliano. Non c'è comunque alcun dubbio che la reazione israeliana, sotto il profilo del diritto internazionale, sia pienamente legittima. Si tratta di uno Stato sovrano che ha subito un atto lesivo diretto e volontario a due propri concittadini da parte di gruppi terroristici stabilmente radicati in un paese confinante.
Inoltre, esiste ormai una lunga serie di risoluzioni dell'ONU che, a partire dagli anni Ottanta e fino all'anno scorso, oltre a chiedere il ritiro di tutte le truppe straniere di occupazione dal Libano, impongono il disarmo delle milizie Hezbollah che sono oggi, invece, palesemente attive, vivaci, organizzate e talmente certe delle proprie posizioni da sfidare apertamente uno degli eserciti migliori del mondo.
Con la risoluzione n. 1559, già citata, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiedeva che tutte le rimanenti forze militari straniere presenti in Libano nel 2004 abbandonassero il paese con lo scioglimento ed il disarmo delle milizie libanesi e straniere presenti nel Libano. Ebbene, questa risoluzione del 2004 veniva deliberata quando Israele si era già ritirato, mentre truppe siriane mantenevano, di fatto, un protettorato sul Libano ed una protezione su Hezbollah, tanto che siriani e «partito di Dio» sono condannati dalla stessa risoluzione. La verità è che probabilmente la maggior parte di noi si sta chiedendo fino a che punto dovrà o potrà spingersi Israele e, se e quando saranno coinvolti altri Stati dell'area, come il Libano uscirà da questa tragedia.
Ci sono, però, alcuni punti assolutamente chiari e, purtroppo, assolutamente scoraggianti. È chiaro che in questo momento l'Italia non ha una politica estera, che l'Europa non sembra esistere nemmeno e che anche il G8 non si sa bene cosa pensi di se stesso e del proprio ruolo. La prova di questa totale impotenza e confusione sta nel fatto che non appena Kofi Annan ha proposto un invio di caschi blu si sono accordati tutti, in primis il nostro Presidente del Consiglio, felici di rifugiarsi sotto il primo ombrello resosi disponibile, non sapendo costruire alcun riparo più sicuro. A noi risulta che i caschi blu siano già in Libano da molti anni e non siano riusciti né a disarmare Hezbollah, né a rafforzare sufficientemente l'esercito ed il Governo libanese, né ad impedire nuove crisi. Se le forze ONU in cospicuo numero si muovessero, non potrebbero far altro che applicare le risoluzioni ONU sul disarmo di Hezbollah appena richiamate. Chi ci crede? Lei, signor ministro, crede veramente che lo possano fare?
Non riesco ad immaginare come oggi potrebbero posizionarsi le forze internazionali in mezzo alle bombe, non volute né da Israele, né da Hezbollah, senza strumenti militari paragonabili a quelli israeliani


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e senza un disegno politico che ne giustifichi l'intervento nel quadro di una soluzione in profondità del problema della convivenza e del terrorismo. Anche ammesso che riescano davvero a posizionarsi come forza cuscinetto al confine tra i due Stati, dovremmo prevedere uno stanziamento a tempo indefinito, in mancanza di proposte risolutive che abbiano un minimo di respiro di lungo periodo. Resta il fatto che qualsiasi azione ONU potrà iniziare dopo un «cessate il fuoco» e dovrà implicare la messa in silenzio delle bombe di Hezbollah, che poi sono semplicemente le condizioni già chieste da Israele per porre fine ai propri attacchi.
Fa sorridere, peraltro, a chi sta seguendo il difficile iter del provvedimento di proroga delle nostre missioni all'estero che la maggioranza del Governo abbracci con tanto entusiasmo l'ipotesi di questa nuova missione. Non è una novità che la sinistra italiana giudichi le guerre buone o cattive ed i morti legittimi o illegittimi a seconda di chi è il nemico. Se dovessimo ragionare alla luce di una coerenza che certo non vi appartiene, la decisione di inviare soldati italiani armati in un territorio di un altro paese a bloccare l'azione di gruppi interni al medesimo territorio dovrebbe sollevare per lo meno le stesse perplessità che tanto vi turbano riguardo alla missione in Afghanistan. L'impressione è, invece, che la scelta a favore della soluzione ONU sia più che altro il tentativo più diplomatico possibile di non aprire ulteriori spaccature in questa maggioranza, che anche in politica estera sta offrendo uno spettacolo abbastanza grottesco.
Non può, naturalmente, mancare nelle nostre piazze la solita marcia della sinistra estrema, con la kefia, la bandiera arcobaleno e, dall'altra parte, i Rutelli e i Veltroni inginocchiati in sinagoga. Se a ciò aggiungiamo la novità delle posizioni dei nuovi alleati radicali e gli abili espedienti lessicali del ministro D'Alema, che inventa equidistanze da interlocutori che non sono niente affatto politicamente equivalenti né equiaffidabili, peraltro nettamente criticato dal collega di Governo Amato direttamente a mezzo stampa, direi che l'immagine di un'Italia sconclusionata e poco responsabile, purtroppo, si sta riaffacciando. Ciò senza citare il Presidente del Consiglio Prodi, su cui è meglio sorvolare in merito alla sconclusionata proposta di proporre addirittura l'Iran come mediatore nel conflitto: una delle parti che lo stesso ministro D'Alema, nell'intervento di oggi, ha chiaramente ascritto come suggeritore delle milizie Hezbollah.
A poco serve rifugiarsi dietro il paravento delle Nazioni Unite. Del resto, lei stesso, ministro D'Alema, l'11 luglio scorso ai parlamentari italiani europei diceva testualmente: «Lanciare la parola d'ordine di una forza di interposizione può dare una falsa sensazione di potenza». Più che una falsa sensazione di potenza, a noi sembra piuttosto che con questo comportamento voi stiate cercando disperatamente di nascondere una vera sensazione di impotenza, la realtà che oggi traspare anche dal suo intervento (Applausi dei deputati del gruppo della Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Leoluca Orlando. Ne ha facoltà.

LEOLUCA ORLANDO. Signor Presidente, signor ministro degli esteri, colleghi deputati, anch'io esprimo apprezzamento per la sensibilità e la prontezza del Governo, che si è presentato subito a riferire in Parlamento, e condivido, a nome dell'intero gruppo dell'Italia dei Valori, la solidarietà per le tante e le troppe vittime di questo ennesimo massacro. L'apprezzamento va reso al ministro degli esteri per aver fornito una relazione ampia e completa che, a nostro avviso, conferma l'impegno del Governo italiano per la pace e la legalità internazionale nel mondo, nel Medio Oriente e nel Mediterraneo.
L'apprezzamento al ministro degli esteri va anche per avere indicato con chiarezza la posizione del nostro Governo su una crisi che è necessario, ma al tempo stesso riduttivo, riferire soltanto al Medio Oriente. La situazione mediorientale è da anni, ed oggi appare esserlo chiaramente, specchio della difficoltà di affermare una


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vera legalità internazionale, oltre che di inaccettabili terrorismi e guerre preventive. In Medio Oriente si gioca il diritto di uno Stato, Israele, come tanti altri Stati nel mondo, di proseguire un cammino pacifico e democratico. In Medio Oriente si gioca il diritto di un popolo, quello palestinese, come tanti altri popoli nel mondo, di avere un Stato riconosciuto e di essere in condizione di darsi un cammino pacifico e democratico. In Medio Oriente si gioca il diritto di uno Stato, il Libano, come tanti altri Stati nel mondo, di non essere ridotto a Stato fantoccio, a mero terreno di scontro, di volta in volta ostaggio e bersaglio di Siria o di Israele e, comunque, rifugio di ogni specie di terrorismo e violenza. In Medio Oriente si gioca ancora la credibilità di quanti dichiarano di voler prevenire le guerre non con altre guerre ma con il dialogo, la cooperazione e la diplomazia. In Medio Oriente si gioca anche la credibilità di quanti dichiarano di voler contrastare ogni forma di terrorismo. La soluzione e i modi di pervenire alla soluzione della crisi mediorientale condizioneranno per anni il clima internazionale, la cultura di pace e il terrorismo dilagante, questo terrorismo dilagante che non è la terza guerra mondiale, ma la vera guerra mondiale del terzo millennio.
Sono in gioco valori e regole che vorremmo fossero occasione di confronto e di condivisione e non di scontro o di steccati. Ieri a Roma si sono tenute due manifestazioni: una, in una piazza per ribadire il diritto dello Stato di Israele di vivere pacificamente; l'altra, in un'altra piazza, per ribadire il diritto del popolo palestinese di avere uno Stato. La volontà di tanti, certamente la mia volontà, era ed è di essere presente ad entrambe le manifestazioni, a conferma che siamo in presenza del rischio di una perversione del diritto dello Stato di Israele, così come di una perversione del diritto del popolo palestinese. Le vittime di quella perversione del diritto dello Stato di Israele sono gli stessi israeliani e le vittime di quella perversione del diritto del popolo palestinese a avere uno Stato sono in primo luogo i palestinesi.
È nella perversione di quei diritti l'attentato più forte all'affermazione della pace, che ieri ha fatto vittime Rabin e Sadat, che oggi mette all'angolo la scelta di Sharon di lasciare i territori occupati, che mortifica gli sforzi di Abu Mazen e che ancora determina quella perversione di diritti nella condizione del premier Siniora, ridotto al ruolo di rappresentante di uno Stato che taluno vorrebbe restasse Stato fantoccio, luogo di compensazione di interessi troppo più grandi, e non da oggi, di questo piccolo Stato che è il Libano. Un Libano «congelato» in una ripartizione istituzionale, sciita, sunnita e cristiano-maronita, quasi perché sia pronta in qualunque momento a servire a questa o quella perversione di questa o di quella identità «congelata» in tale Stato. È nella perversione di quei diritti il più forte attentato alla legalità internazionale e l'ennesimo attentato al ruolo incisivo di organizzazioni quali le Nazioni Unite e l'Unione europea.
Signor ministro, lei ha detto con chiarezza qual è l'impegno ed il ruolo dell'Italia. In primo luogo, la sicurezza di Israele e, contestualmente, del diritto del popolo palestinese di avere uno Stato. In secondo luogo, il «no» ad iniziative e scelte unilaterali ed un'opzione chiara per una comunità internazionale che si faccia carico - ed è un ulteriore aspetto - di un nuovo assetto della sicurezza del mondo e della sicurezza regionale.
L'assetto futuro del Medio Oriente - lo ha ricordato sempre lei, signor ministro, e noi condividiamo - condiziona la sicurezza dell'Europa. Ma l'Europa, in tutto ciò, dov'è? Mentre esprimo l'apprezzamento per il ruolo dell'Italia e del Governo italiano, devo riconoscere che l'Italia, da sola, non ce la fa. L'Italia può svolgere un ruolo significativo nelle istituzioni internazionali di cui fa parte e torna la domanda: dov'è l'Unione europea? E torna anche l'altra domanda: cosa fanno le Nazioni Unite? Perché l'Unione europea appare, in politica estera, ancora debole e talora assente? Perché l'Organizzazione delle Nazioni Unite appare, ancora una volta, debole? Sappiamo il perché, conosciamo


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la risposta a tali domande; un perché che non è figlio di un «destino cinico e baro»: la debolezza delle Nazioni Unite e quella dell'Unione europea è, ancora una volta, la resistenza che incontra il multilateralismo quale strumento di prevenzione di guerra e di contrasto al terrorismo. Non è questa la sede - ma è, al tempo stesso, questa la sede - per ricordare l'importanza di una politica estera europea, l'importanza della rivendicazione da parte della stessa Unione europea di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L'Italia dei Valori - ma non certamente soltanto l'Italia dei Valori - sosterrà tutte le iniziative (ripeto, tutte le iniziative) che il Governo italiano vorrà assumere all'interno e nel rispetto delle sedi internazionali di cui l'Italia fa parte. Attivare quelle sedi internazionali, come lei, signor ministro, ha ricordato, è molto più importante del pur importante impegno umanitario del Governo italiano. È in quest'impegno di attivare le sedi internazionali la vera discontinuità, non con il Governo precedente di questo paese, ma con la politica internazionale, resa debole da unilateralismi e mortificazioni degli organi internazionali. Tale impegno di pace e legalità internazionale, tale impegno di continuità, che sia al tempo stesso discontinuità, tale impegno di una continuità con l'articolo 11 della nostra Costituzione ha caratterizzato il provvedimento sul rifinanziamento delle nostre missioni all'estero e la mozione presentata dall'Unione che ci accingiamo a votare. Quest'impegno di pace e legalità internazionale dell'Italia, ne siamo certi, il Governo italiano saprà confermare in Medio Oriente, costruendo nelle sedi internazionali, e non con scorciatoie al di fuori di esse, la vera credibilità delle Nazioni Unite, dell'Italia in Europa e dell'Unione europea e, con essa, del nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo dell'Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Villetti. Ne ha facoltà.

ROBERTO VILLETTI. Signor Presidente, signor ministro degli esteri, la gravissima crisi che si è aperta in Medio Oriente ha riproposto antichi interrogativi; ha fatto riaffiorare minacce crescenti e gravi per il diritto di Israele alla propria esistenza ed alla propria sicurezza; ha rimesso in primo piano l'accentuarsi di odiose campagne antisemite, che non sono portate avanti solo dal terrorismo fondamentalista di matrice islamica, ma anche da un capo di Governo di un grande paese quale l'Iran; ha evidenziato ancora una volta come le risoluzioni delle Nazioni Unite, come quella del 2004 che impone lo smantellamento dei gruppi armati in Libano, rimangano in Medio Oriente lettera morta; ha riproposto, pur non essendo in discussione il diritto di Israele all'autodifesa, il problema se vi debba essere o no una proporzione tra la risposta militare da dare e l'attacco subito; ha nuovamente chiamato in causa l'Europa che, come ha scritto Barbara Spinelli su La Stampa, ha una voce flebile nelle questioni mediorientali, e non solo nelle questioni mediorientali.
Si tratta di questioni che non riguardano solo la politica ma attraversano le coscienze, con divisioni che non passano solo attraverso gli schieramenti, e neppure solo tra i partiti e al loro interno. Ciò è avvenuto anche all'interno della Rosa nel Pugno, e non solo tra socialisti e radicali, che ne sono le componenti principali.
Tuttavia, partendo da differenti analisi, è possibile arrivare ad alcune considerazioni che ci accomunano e che offriamo al dibattito parlamentare. La situazione che si è creata è diversa e tra le più pericolose; non ci si può nascondere che la nuova crisi si colloca nello scenario apertosi dopo l'11 settembre con l'attacco alle Twin Towers.
Non vi è più soltanto il conflitto tra israeliani e palestinesi; vi è anche e soprattutto uno scontro che non si pone tra Occidente democratico ed islam ma attraversa lo stesso mondo islamico. Tale nuova situazione, e non possiamo nascondercelo, può rimettere davvero in pericolo il diritto all'esistenza di Israele.
La principale domanda che dobbiamo rivolgerci è come fronteggiare il terrorismo


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islamico; questa è la nuova sfida nella quale si colloca l'acutizzarsi della crisi mediorientale.
In tale ambito si apre un campo nel quale le scelte sono assai difficili; alla questione poc'anzi citata, infatti, si può rispondere puramente e semplicemente: con tutti i mezzi, leciti ed illeciti. Non importa quale siano il grado e le modalità di risposta: quel che conta è difendersi. Tale ricetta ha una sola strada: la guerra, ovunque e dovunque si annidino i nemici; l'uso delle detenzioni illegali, come avvenuto a Guantanamo; della tortura, come avvenuto in Iraq; il bombardamento delle popolazioni civili.
L'occidente democratico deve considerare la difesa dei principi di libertà e di democrazia e dei diritti umani non come un fattore di debolezza che deve essere rimosso, ma come il suo principale elemento di forza rispetto a dittature, teocrazie e totalitarismi. La strada che punta solo alla forza e sacrifica i principi porterebbe inesorabilmente a compattare tutti i popoli islamici contro l'Occidente democratico e a favorire in tutto quel mondo le forze fondamentaliste. Gli interventi militari sotto l'egida delle Nazioni Unite non vanno affatto esclusi, ma non possono essere il principale strumento da adottare; ciò, non perché siano troppo risolutivi ma, al contrario, perché si possono, talvolta, rivelare inconcludenti, se non addirittura controproducenti.
Contemporaneamente ad un'auspicata missione dell'ONU di peacekeeping, va ricercata la via del dialogo, della trattativa e del raccordo con le forze moderate del mondo islamico attraverso la ricerca di soluzioni adatte ai singoli conflitti.
L'allarme crescente per il precipitare della situazione in Medio Oriente e per la perdita di vite umane si accompagna al timore che si arrivi ad un vero e proprio conflitto che coinvolga Siria ed Iran fino ad allargarsi a tutta la regione. La guerra deve essere fermata rimuovendone le motivazioni. L'orrore per l'uccisione di bambini israeliani non è diverso se si tratta di bambini palestinesi o libanesi; ormai, da decenni, in Medio Oriente, la storia si ripete ciclicamente. Se non si riesce a riavviare il dialogo, la trattativa e la cooperazione, inevitabilmente si avvia una spirale negativa con una escalation della violenza che non risparmia nessuno. La questione israelo-palestinese è ormai da tempo la ragione o l'alibi per tutte le violenze; ma esistono, come abbiamo sempre ripetuto, due ragioni e due popoli: da una parte, vi è il diritto dello Stato di Israele a vivere in condizioni di sicurezza; dall'altra, vi è il diritto del popolo palestinese ad avere un suo Stato. Si tratta di due diritti che non sono affatto in conflitto; anzi, si tratta di due diritti che sono complementari ed interdipendenti. Non è garantita, infatti, la sicurezza di Israele senza uno Stato palestinese guidato con senso di responsabilità; non è garantita l'esistenza di uno Stato palestinese senza la sicurezza di Israele. Il carattere democratico che dovrà assumere lo Stato palestinese potrà rappresentare un elemento di sicurezza per il mantenimento di rapporti pacifici e cooperativi con lo Stato di Israele.
Ogni volta che si apre un varco alla possibilità di avere un assetto di pace, com'è stato con la decisione dell'ex primo ministro israeliano Sharon di far ritirare i coloni da Gaza, si mettono in moto forze che lavorano per rinfocolare una vera e propria tragedia, com'è accaduto - purtroppo - con la vittoria elettorale di Hamas, che ha drammaticamente rifiutato di riconoscere il diritto all'esistenza dello Stato di Israele e ha contribuito ad aprire la crisi in tutta la sua portata distruttiva.
Si tratta ora di circoscrivere e risolvere le cause dell'attuale e gravissima crisi, seguendo le proposte contenute nei dieci punti del documento del 18 luglio del Consiglio dell'Unione europea, punti sui quali concorda il gruppo della Rosa nel Pugno. In particolare, ricordo: i soldati israeliani sequestrati devono essere immediatamente liberati, le milizie di Hezbollah devono essere disarmate e sciolte affermando la piena sovranità, unità, integrità e indipendenza politica del Libano, in modo da far cessare la gravissima minaccia esistente per il territorio israeliano.


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È in discussione la possibilità che il Consiglio di sicurezza dell'ONU invii una forza ben più consistente di quella esistente: lo ha accennato nella sua introduzione il ministro degli esteri; una forza con caratteri di interposizione tra il Libano e Israele e nella striscia Gaza, come garanzia di sicurezza per tutti, in queste zone altamente instabili. L'Europa può svolgere un ruolo essenziale perché ha una tradizione di amicizia nei confronti di Israele e verso il mondo arabo. Dai paesi europei possono venire innanzitutto le forze militari per contribuire alla forza ONU di interposizione. Il Mediterraneo può tornare ad essere al centro del mondo, dopo lo sviluppo clamoroso della Cina e dell'India, che convoglia traffici senza precedenti attraverso il canale di Suez, di cui anche Israele, con le sue importanti risorse umane, si può largamente avvantaggiare.
Nessuno come l'Europa, e soprattutto come l'Italia, è più dipendente dal gas e dal petrolio della regione. Che il Mediterraneo sia un mare di pace e non di guerra è dunque un obiettivo vitale per la nostra economia. L'Italia deve perseguirlo con il massimo di unità possibile e potrà, in questo modo, continuare ad essere interlocutore affidabile, rispettoso e credibile di entrambe le parti, di Israele come del mondo arabo. È un'interlocuzione difficile, mentre le armi fanno sentire la loro voce, tuttavia, è l'unica strada possibile. Prima l'iniziativa ritornerà alla politica e alla democrazia, meglio sarà. Perché sempre e inevitabilmente, dopo le guerre, gli attacchi terroristici e le stragi il dialogo è ripreso; è sempre accaduto così in Medio Oriente. Prima o poi, è lì che si deve comunque tornare: al dialogo e alla trattativa.
La questione di Israele, signor Presidente e onorevoli colleghi, non può essere trattata con distacco dai paesi europei. Infatti, sono ancora forti le responsabilità storiche per l'olocausto, che resta la più grande tragedia avvenuta nel cuore del vecchio continente. A ciò si aggiungono le gravi responsabilità del colonialismo europeo, che ingiustamente vengono a ricadere su Israele. Nessuno, signor Presidente, signor ministro degli esteri e onorevoli colleghi, - lo ripeto: nessuno - si può sentire innocente di fronte a tutte le vittime del conflitto mediorientale, tanto meno l'Europa, che deve assumere una sua iniziativa che tutti, in Parlamento, durante il dibattito parlamentare che abbiamo avuto, hanno considerato essenziale per poter effettivamente dare un contributo alla pace in una regione martoriata come il Medio Oriente (Applausi dei deputati del gruppo de La Rosa nel Pugno).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Galante. Ne ha facoltà.

SEVERINO GALANTE. La sua relazione, signor ministro, ci conferma nella convinzione che questo Governo ha avviato gli indirizzi fondamentali della politica estera italiana su un percorso nuovo e positivo. Questi indirizzi si collocano al di fuori della logica primitiva dell'amico-nemico, che abbiamo sentito echeggiare anche in questa Assemblea, poc'anzi, ed al di fuori dalla coazione dello schierarsi a priori, come compete, lo sottolineo, a qualsiasi soggetto subalterno. Questi indirizzi si collocano, invece, nell'ambito di una pratica intelligente, quella della analisi concreta della realtà specifica. Si tratta di un atteggiamento che appartiene ad una cultura antica e solida di questo paese e che condividiamo. Questa condivisione di fondo dei primi passi del suo lavoro - auspico che ve ne saranno altri ancora più innovativi - mi consente, signor ministro, di incentrare il mio intervento su pochi punti che lei stesso ha toccato e dei quali mi preme sottolineare qualche aspetto.
Lei ha affermato, signor ministro, che i due diritti e le due regioni sono insieme e sullo stesso piano. Questo è un punto che deve essere valorizzato, ricordando, però, che i due soggetti detentori degli stessi diritti non si muovono, non sono e non si trovano sullo stesso livello. Gli israeliani, infatti, hanno un loro Stato e deve essere loro garantito che sia uno Stato sicuro, protetto e in grado di assicurare a quei cittadini del mondo la possibilità di vivere


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in pace, di crescere e di svilupparsi. Questo diritto deve essere loro garantito e assicurato, lo sottolineo. I palestinesi, invece, uno Stato non ce l'hanno e ne hanno diritto. È un diritto loro riconosciuto dalla storia; ma non ce l'hanno (Applausi dei deputati del gruppo dei Comunisti Italiani)! Allora, bisogna porre rimedio a questo squilibrio; è necessario che quella che viene chiamata comunità internazionale ponga rimedio e riconosca quel loro diritto. Non è possibile che, citando gli Stati di quell'area, ci si riferisca all'Iran, all'Iraq, al Libano e ai territori. Quali territori? Questo è un modo equivoco di evitare di riferirsi allo Stato di Palestina. Lo sappiamo: quello Stato non esiste e quel territorio, quello di Gaza, in particolare, è stato trasformato - può spiacere, ma è la verità - in una sorta di grande riserva di caccia a cielo aperto nella quale si va a prelevare ciò che serve alla bisogna, catturandolo, rapendolo o uccidendolo. Sono queste le pratiche alle quali abbiamo assistito in anni e anni. Ricordo in questa sede che è lunga la storia di quel territorio e di quei paesi. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno assistito a tutti i passaggi, signor ministro, che hanno portato alla tragica situazione attuale. Bisogna garantire l'esercizio effettivo dei diritti di tutti gli Stati che esistono in quel territorio, ivi compreso il Libano - ho ascoltato l'intervento del collega Fini, il quale ne negava l'esistenza quale autentico Stato sovrano - che oggi è aggredito e violato nel suo diritto di esistenza, come Stato.
In un altro passaggio del suo intervento, signor ministro, lei ha sollevato il problema della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite e, più in generale, della funzione dell'ONU. Siamo d'accordo sulla proposta, sull'ipotesi - così è stata definita - di inviare una forza internazionale di sicurezza, in base ad un mandato ONU, in quel complesso scacchiere. Siamo d'accordo e ne vediamo le difficoltà e la complessità, che nasce da una aspetto che credo debba essere evidenziato.
Parliamo di ONU, ma sappiamo che oggi questa parola è un guscio vuoto, perché il suo contenuto è stato svuotato attraverso i decenni, ma in maniera particolare negli ultimi lustri. L'ONU è un guscio vuoto, tutte le sue risoluzioni - non soltanto la n. 1559 - dovrebbero essere attuate, ma così non è stato. Invocare l'intervento dell'ONU, senza sottolineare il fatto che attualmente non siamo di fronte ad un autentico soggetto della realtà internazionale, comporta implicazioni di inefficacia assoluta di ciò che si propone. Pertanto, è indispensabile che l'ONU recuperi effettivamente, con il contributo di chi ha la volontà di farlo - a partire dall'Italia -, la sua funzione, il suo ruolo internazionale.
Ho già detto in precedenza che appartengo alla scuola realista della politica, quindi non ho alcun dubbio sul fatto che il sistema delle relazioni internazionali, da quando si è costituito, sia stato e sia regolato dalla politica di potenza e dai rapporti di forza tra gli Stati. Il diritto - almeno secondo il mio modo di vedere -, anche quello internazionale, ne è sempre espressione; questa è la realtà in cui operiamo!
Tuttavia, partendo da tale realtà e senza dimenticarne i vincoli, sono altrettanto convinto che si debba lottare, che ci si debba battere avendo quale motivo ispiratore e quale obiettivo la costituzione di un mondo effettivamente fondato sul diritto, nella consapevolezza che anche un mondo siffatto esigerebbe comunque l'elemento della forza legittima.
E vengo al terzo aspetto. Lei, signor ministro, ha parlato dell'Italia e del suo ruolo nell'Unione europea. È evidente che, nell'epoca attuale, la sicurezza di un paese come l'Italia non si garantisce soltanto all'interno dei suoi confini territoriali. Come lei ha detto, signor ministro, l'Italia è direttamente interessata al riassetto in corso nel Medio Oriente dato che, in quell'area, si concentrano gran parte delle tensioni che coinvolgono direttamente anche il nostro paese. Quindi, non è ciò in discussione, ma gli obiettivi di quel riassetto e i soggetti che lo stanno realizzando: chi vi partecipa, il ruolo dei popoli e degli Stati in quell'area.


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Voglio sottolineare che quei popoli non possono essere trattati - secondo una prospettiva neocolonialista e classicamente imperialista - come semplici oggetti del riassetto, ma vanno considerati come coprotagonisti di tale riassetto. Finora sono stati oggetti e non soggetti!
Finché il nostro paese è stato percepito quale parte di tale prospettiva, esso non ha potuto e non potrebbe svolgere in Medio Oriente alcuna funzione, tantomeno di mediazione. Eliminare questa percezione è dunque condizione indispensabile per svolgere un qualche ruolo politico.
Il rientro delle nostre truppe dall'Iraq - dal mio punto di vista - va inteso in questo senso, appunto quale avvio di un percorso di rilegittimazione della nostra presenza e della nostra azione in quell'area così complicata. La condotta adottata dal Governo nella crisi in atto va in questa direzione e, per tale motivo, la condividiamo e la sottolineiamo.
Infine, nella pubblicistica, si è parlato di una strana visione geopolitica: il tema del grande Medio Oriente, che andrebbe dall'Atlantico fino alla Cina. In questo spazio sono in corso singolari sperimentazioni, che tuttavia sono connotate da un preciso elemento.
Quell'area non è fatta di singole tessere: è un impressionante poliedro di crisi interconnesse sul quale si è scatenato, a più riprese, il maglio della potenza statunitense. Non possiamo dimenticare quello che non è un dettaglio, ma l'elemento fondamentale che ci consente di capire cosa sta avvenendo e cosa dovremmo fare.
In questi giorni, in queste ore, si sta anche chiarendo, almeno dal nostro punto di vista, ciò che è successo con la guerra in Afghanistan, prima, e con quelle in Iraq, poi. In mezzo, c'è l'oggetto della discussione attuale e del futuro. Questo oggetto, signor ministro degli esteri, si chiama Iran.
In un articolo pubblicato ieri si diceva: secondo un'autorevole fonte militare, Israele spera nell'impegno, da parte della comunità internazionale, a fermare il nucleare in Iran (sappiamo che questo percorso non ha un grande futuro). Se questo non avesse alcun risultato, allora Israele spera in un attacco da parte degli americani; ma se l'Amministrazione Bush fosse troppo indebolita da potersi permettere di attaccare l'Iran, Israele dovrà agire unilateralmente.
Signor ministro degli esteri, scongiurare questa tragedia è l'imperativo principale che cade sulle sue spalle e su quelle del Governo (Applausi dei deputati del gruppo dei Comunisti Italiani - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Bonelli. Ne ha facoltà.

ANGELO BONELLI. Signor Presidente, signor ministro degli esteri, colleghi, innanzitutto i Verdi vogliono ringraziare il Governo per la tempestività con la quale è venuto in Parlamento a informare il paese in ordine ai gravi avvenimenti che stanno interessando tutta la comunità internazionale e, in primo luogo, i paesi direttamente colpiti. Ovviamente, ci associamo al cordoglio per i numerosi civili che, in queste ore, sono stati colpiti in Libano, a Gaza e in Palestina.
La situazione che si è creata in questi ultimi giorni in Libano rischia di far precipitare tutto il Medio Oriente in un conflitto globale. Noi Verdi apprezziamo e sosteniamo l'iniziativa assunta dal Presidente del Consiglio Romano Prodi, e da lei, signor ministro degli esteri, di dialogare con Siria ed Iran per cercare di realizzare le condizioni per una tregua in Libano e, aggiungiamo, anche a Gaza. Si tratta di un fatto molto importante che fa recuperare al Governo italiano, all'Italia, il suo storico ruolo di paese che dialoga con i paesi e con i popoli del Mediterraneo. Ha ragione l'onorevole Casini quando dice che l'Italia deve recuperare questo ruolo. Bene, il Governo Prodi ce lo sta facendo recuperare. Tuttavia, quando facciamo una simile affermazione, è evidente anche l'affermazione, implicita (anche nell'intervento dell'onorevole Casini), del drammatico fallimento delle politiche del Governo di centrodestra, che, in realtà, non ha assolutamente cercato e realizzato questo dialogo negli anni precedenti.


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Questo è sicuramente un importante elemento di cambiamento della politica italiana sul piano della politica estera: è un elemento molto importante, ovviamente, per i popoli dei paesi arabi, che guardano all'Europa, in primis all'Italia, come ad una possibilità, ad una speranza di cambiamento della loro vita che non possiamo e non dobbiamo assolutamente deludere.
Apprezziamo anche la disponibilità, offerta dal Governo italiano all'ONU, di inviare truppe multinazionali di pace, di interposizione, nel sud del Libano. Questo è un fatto importante. Si deve restituire agli organismi internazionali il ruolo principe di favorire la pace e il dialogo. Infatti, la pace e il dialogo si devono basare sul ripudio della guerra, del terrorismo e della violenza, si devono affermare sui principi di legalità, di rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani e sulla volontà di riconoscere ad entrambi i popoli, israeliano e palestinese, la stessa dignità e gli stessi diritti. Nessuno può minacciare la distruzione dello Stato di Israele, così come nessuno può negare il diritto dei palestinesi di avere un vero Stato indipendente. Tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei e musulmani, hanno diritto di vivere nella propria terra in libertà e in sicurezza. La mancata risoluzione di questo lungo conflitto e la tragica conclusione del processo di pace avviato con gli accordi di Oslo hanno portato ad una gravissima paralisi politica e ad un continuo deterioramento della situazione, che oggi sta precipitando nel caos, in un ulteriore bagno di sangue. È dovere ed interesse primario dell'Europa, dell'ONU e dell'intera comunità internazionale lavorare con gli strumenti della politica e del dialogo.
La continuazione dell'isolamento internazionale del Governo palestinese e del blocco dei finanziamenti è un problema. Questa politica deve essere superata, perché sta affamando ed impoverendo le condizioni di vita del popolo palestinese. In molti campi profughi si fa la fame; beni primari ed essenziali per la vita, come l'acqua, non ci sono più. A ciò, dobbiamo dare risposte anche attraverso gli strumenti della cooperazione.
Abbiamo potuto constatare come la violenza e la guerra siano strumenti che rafforzano il terrorismo e non è vero il contrario. Ci fa piacere, signor ministro degli esteri, che lei l'abbia potuto ricordare in quest'aula, perché è un elemento molto importante di cambiamento della politica estera di questo paese che avremo modo, domani durante il dibattito e in sede di dichiarazioni di voto sul disegno di legge riguardanti le missioni internazionali, di affermarlo con forza.
Ci troviamo di fronte a violenze inaccettabili. Dal 28 settembre 2000 ad oggi, 18 luglio 2006 per l'esattezza, in Medio Oriente si sono prodotti 4.089 vittime palestinesi e 1.048 vittime israeliane. Non è un problema di differenza di numeri. Ogni morto in più, è un fallimento della politica non solo di questo paese, ma di tutta l'Unione europea. È una violenza inaccettabile.
Abbiamo sentito le parole dell'onorevole Fini. Poche argomentazioni sulla non condivisione della posizione assunta dal Governo, senza sottolineare le posizioni di grave e forte critica al Governo precedente assunte dall'onorevole Casini (posizioni che condividiamo). Ma - lo voglio dire con molta franchezza, perché le parole sono pietre, sia se si pronunciano solennemente nell'aula della Camera dei deputati, sia quando si rilasciano dichiarazioni -, siamo rimasti interdetti dalle parole pronunciate, il 14 luglio scorso, dall'onorevole Fini quando, in merito alla crisi liba nese, ha dichiarato: la discontinuità del Governo di Prodi rispetto al nostro Governo Berlusconi, ammettendo che vi è una discontinuità, favorisce solo i gruppi islamici più radicali ed estremisti ed alimenta la violenza.
Sono parole senza coscienza, che non avremmo mai voluto sentire. Non vi è alcuna giustificazione né comprensione per chi, in nome di una sacrosanta lotta al terrorismo, bombarda nel mucchio, provocando la morte di civili e bambini, distrugge infrastrutture ed abitazioni civili.


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Su questo, non può che esservi la condanna. Questa non è lotta al terrorismo. Questo è un modo per alimentare ulteriormente e dare ragione a chi, invece, vuole fare ulteriori proseliti per questa lotta indegna e criminale, come quella del terrorismo.
Bene ha fatto il Governo italiano, in linea con altri governi europei e il Vaticano, a chiedere il cessate il fuoco e a condannare i bombardamenti su obiettivi civili.
La politica del Governo italiano, come dicevo prima, e le giuste iniziative assunte dal Presidente Prodi vanno nella direzione del recupero di questo ruolo storico diplomatico italiano nei rapporti con i paesi arabi. Diciamo recupero, perché il Governo Berlusconi ha contraddistinto la sua azione in politica estera da notaio, ovvero si è limitato alla ratifica di decisioni prese da altri e abbiamo abdicato ad una nostra autonomia a favore di quelle decisioni unilaterali che hanno contraddistinto la politica negli ultimi anni, che si è rivelata fallimentare.
Oggi, quindi, la debolezza della politica estera dell'opposizione si rivela anche da un fatto che sembrerà simbolico, ma che voglio evidenziare in un'aula semivuota, ed è l'assenza del capo dell'opposizione, Silvio Berlusconi, in un dibattito che riguarda il futuro della politica estera italiana e della sicurezza dello scenario mediorientale. Il capo dell'opposizione, Silvio Berlusconi, non c'è, non si presenta, non partecipa al dibattito, ma siamo rispettosi della sua privacy e non vogliamo assolutamente indagare su dove si trovi.
Israele, che noi riteniamo uno Stato democratico, non può essere lasciato da solo nella lotta al terrorismo e nel garantire la sicurezza del suo Stato e del suo popolo. Vi deve essere, in questa direzione, un'assunzione di responsabilità da parte della comunità internazionale. Riteniamo che la richiesta dell'ONU di inviare truppe di interposizione di pace sia un primo segnale che va in questa direzione per garantire tale sicurezza.
In questo nuovo gravissimo scenario chiediamo all'Unione europea, ai Governi nazionali che la compongono, alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale di avviare un intenso dialogo con le nuove leadership dei due popoli - palestinese e israeliano - per scongiurare un nuovo sanguinoso scontro.
Signor ministro degli affari esteri, chiediamo anche che l'Italia - coerentemente con la nuova azione diplomatica internazionale - si faccia promotrice di questo dialogo, anche ospitando a Roma l'avvio dei negoziati bilaterali, almeno in una prima fase, tra ONU e Governo palestinese e tra ONU e Israele e con paesi come Siria, Iran ed Egitto, per ottenere l'arresto delle azioni terroristiche, il ritiro delle truppe israeliane dalla Palestina e l'avvio di un piano di cooperazione per il popolo palestinese.
Il dialogo - non l'isolamento - è lo strumento migliore per persuadere a rinunciare definitivamente al terrorismo e a riconoscere il diritto all'esistenza dello Stato di Israele e di quello palestinese.
Signor ministro, in conclusione, i Verdi si riconoscono nell'informativa da lei resa al Parlamento e nelle posizioni assunte dal Governo, confidando ovviamente nel sostegno da parte del gruppo parlamentare dei Verdi all'azione del Governo in questa così delicata materia (Applausi dei deputati del gruppo dei Verdi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la deputata Cioffi. Ne ha facoltà.

SANDRA CIOFFI. Signor Presidente, signor ministro ho ascoltato con estrema attenzione l'informativa del Governo sulla situazione in Medio Oriente. Desideriamo ringraziarla, ministro D'Alema, non solo per la tempestività con cui ha ritenuto di dover riferire in Assemblea, ma anche e soprattutto per la chiarezza delle indicazioni concernenti l'azione di Governo, che non sono certamente solo dichiarazioni di intenti.
Desidero, inoltre, dirle, signor ministro, che c'è da sentirsi fieri, come italiani, del modo in cui il Governo ha garantito una rapida evacuazione dei nostri civili e sta contribuendo a rassicurare quei 700 italiani che hanno deciso di restare in Libano.


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Siamo d'accordo che le preoccupazioni per questa escalation di violenza fra Israele e Libano sono notevoli e fondate, perché - come lei ha sottolineato - rappresentano un pericolo non solo per la pace del Medio Oriente.
Apprezziamo il fatto che l'Italia, di fronte a questo conflitto, stia tenendo un atteggiamento chiaro e trasparente, svolgendo un ruolo strategico in una dimensione multilaterale, multipolare e globale. Tutto ciò è certamente frutto del lavoro che si sta compiendo per rilanciare la posizione dell'Italia in una dimensione europeista. Stiamo tornando ad essere protagonisti nel processo di rafforzamento e di riposizionamento dell'Europa. Ciò consente all'Italia di giocare un ruolo attivo nella riconquista della pace e nell'evitare nuovi conflitti.
Alla luce di quanto espresso, signor ministro, siamo d'accordo che è necessario prendere decisioni in tempi rapidi, affinché si scongiuri l'allargamento di un conflitto che potrebbe riguardare non solo Israele e il Libano.
Vorrei ribadire che non si può non comprendere la paura di un popolo, quello israeliano, che ha diritto all'autodifesa. Al tempo stesso, non si può non condannare qualsiasi reazione spropositata nei confronti di un paese - in questo caso parliamo del Libano - che tra l'altro ha un Governo fragile, che si trova a convivere con gli estremisti di Hezbollah.
È quindi giusto che il nostro paese si impegni in modo da non permettere che il Medio Oriente venga spinto nel caos più profondo da alcun tipo di estremismo e da attentati terroristici.
Siamo d'accordo con Kofi Annan che è necessario prevedere un contingente più massiccio che svolga sulla frontiera un'operazione di pace: mi riferisco ad una forza di peacekeeping. Ma siamo anche d'accordo con lei che è necessario un monitoraggio delle forze dell'ONU nella striscia di Gaza.
Vorrei ricordare, a tal proposito, che tra i 2 mila soldati presenti nell'Unifil, vi sono 53 italiani, che dal 1979 stanno svolgendo con grande dedizione il loro lavoro.
È inutile dire che siamo colpiti dall'aumento continuo delle vittime civili da entrambe le parti, nonché dai pesanti danni arrecati alle infrastrutture. Penso che basti guardare la televisione per vedere il Libano distrutto: ricordo, peraltro, si tratta di un paese alla cui ricostruzione anche l'Italia ha contribuito.
È giusto, quindi, che l'Italia sia, in questo momento, in prima fila nel contribuire a gettare le basi per l'instaurazione di un dialogo in grado di arrestare questa terribile escalation di violenza, cercando di dialogare anche con paesi come l'Iran e la Siria.
Siamo d'accordo, quindi, con le decisioni assunte dal nostro Presidente del Consiglio in sede di G8 e condividiamo, ministro D'Alema, la politica estera da lei condotta. Riteniamo con soddisfazione che, in questo modo, l'Italia stia dimostrando che ha ripreso, con vigore, l'iniziativa in politica estera senza alcuna subordinazione, acquisendo un nuovo rispetto da parte dei nostri tradizionali partner, anche in campo europeo.
Ciò significa che il centrosinistra sta dimostrando, in discontinuità rispetto al precedente Governo, di saper mettere in campo una politica estera innovativa e propositiva. Tale politica è in sintonia con il programma dell'Unione, nel quale, pur con diversi accenti, tutti i partiti della maggioranza si riconoscono.
In conclusione, quindi, riteniamo necessario che il Governo prosegua la sua azione, facilitando l'instaurarsi di un dialogo politico che utilizzi tutti gli strumenti in grado di aiutare a conquistare la sicurezza in Medio Oriente ed a bloccare questa drammatica escalation di violenza.
Reputiamo importante anche il lavoro che sta compiendo il nostro paese per favorire il dialogo tra i paesi moderati del mondo arabo; per questo motivo, riteniamo che l'Italia possa svolgere efficacemente un ruolo costruttivo.
Apprezziamo, dunque, l'impegno che si sta profondendo: l'Italia, in sintonia con


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l'Unione europea, nonché con l'intera comunità internazionale, sta dimostrando di operare per mantenere la pace e scongiurare l'esplosione di nuovi conflitti. E questo, signor ministro, care colleghe e cari colleghi, sarà una grande banco di prova non solo per il nostro paese, ma anche per l'Europa (Applausi dei deputati del gruppo dei Popolari-Udeur - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Nardi. Ne ha facoltà.

MASSIMO NARDI. Signor Presidente, signor ministro, abbiamo ascoltato, in questa Assemblea, diversi colleghi far riferimento al momento difficile che sta attraversando il paese in conseguenza di quanto sta accadendo in Medio Oriente. Le scelte e le posizioni che assumiamo a livello internazionale possono rappresentare, infatti, un fattore attraverso il quale il mondo può fare un passo avanti oppure un passo indietro.
Ricordo che il rappresentante del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, nel corso del suo intervento, ha evidenziato più di altri come la crisi che stiamo attraversando in questo momento sia, forse, la più drammatica esistente dal 1990. Debbo riconoscere che, una volta tanto, mi trovo d'accordo con le affermazioni pronunciate dal collega.
La crisi che stiamo attraversando, infatti, è sicuramente una delle più drammatiche degli ultimi anni. Il problema, signor ministro, è comprendere perché ciò sta accadendo, chi è che ha eventualmente interesse a fomentarla e quali sono le finalità e gli obiettivi che, attraverso tale crisi, ci si prefigge di conseguire.
Cercare di individuare i mandanti e capire quali siano le motivazioni che li spingono in tale direzione è sempre un compito arduo e difficile; vorrei tuttavia richiamare l'attenzione del signor ministro su una ipotesi che, personalmente, non considero neanche troppo peregrina.
C'è, infatti, qualcuno che teorizza che l'escalation della crisi mediorientale sia la conseguenza di un'iniziativa, ad opera dell'Iran, volta a distrarre l'opinione pubblica internazionale da un altro aspetto, ben più significativo e preoccupante. Vi è, in sostanza, chi afferma che acuire lo scontro in Palestina serva all'Iran per poter affermare l'esistenza della necessità di dialogare con tale paese, venendo incontro alle sue preoccupazioni ed ai suoi problemi in ordine alla questione nucleare.
Allora, se questa teoria fosse vera, a me sembrerebbe particolarmente preoccupante l'iniziativa del premier Prodi, il quale ha chiamato proprio l'Iran a svolgere un ruolo di mediazione. Sembrerebbe quasi un assist ad un disegno politico ben definito, nel quale il centrosinistra o comunque una parte di essa si identifica: facilitare che l'Iran possa accedere ad un programma nucleare nel prossimo immediato futuro.
Non so se questa sia un'eventuale disponibilità di una frangia dell'attuale maggioranza, però so che, qualora lo fosse, ne sarei terribilmente preoccupato, perché - lo dico con molta franchezza - non mi fido di quello che potrebbe capitare con un Iran in grado di governare la potenza nucleare. È un qualcosa che mi spaventa tantissimo. In questa logica, c'è da capire quale può essere il nostro atteggiamento, perché se è vero com'è vero che questo discorso ha una sorta di credibilità, bisogna anche riconoscere che può essere vero l'esatto contrario, almeno il contrario rispetto ad altre preoccupazioni. Mi riferisco per esempio al fatto che sollecitare l'attenzione della pubblica opinione sul fatto che i missili che arrivano in Israele sono di fabbricazione guarda caso di quei paesi definiti «paesi canaglia» può essere un modo, peraltro neanche troppo velato, per poter incidere sull'opinione pubblica occidentale.
Allora se questi disegni possono esistere, e magari esistono - forse qualche collega che mi ha preceduto ha in qualche modo ragione quando afferma che potrebbero essere strumento per l'uno o l'altro obiettivo, dove l'altro di fatto è l'obiettivo di immaginare un'azione ritorsiva nei confronti anche dei paesi confinanti -, è


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evidente che il Governo italiano, il Parlamento italiano, devono immaginare un percorso.
Quale può essere questo percorso? Credo che il Governo abbia una responsabilità particolare. Deve essere in grado, forte del rapporto che l'Italia ha, anche a livello commerciale, con altri paesi, di far capire a tali paesi che non saremo disponibili ad essere utilizzati come strumento per raggiungere un fine che non condividiamo e se questo fine si chiama nucleare non possono contare sulla nostra disponibilità, così come non possono contare sull'eventuale necessità che il mondo intero potrebbe avere bisogno della loro mediazione. Del resto, dobbiamo dire anche ad altri che se immaginano che attraverso l'escalation di determinate posizioni si possa arrivare ad invasioni o ad azioni terribilmente cruente nei confronti di altri paesi, anche questi devono sapere che non c'è da parte nostra una disponibilità.
Noi crediamo quindi che si debba agire in due direzioni. Quella diplomatica, che ho appena tentato di evidenziare, e quella di rimanere ai fatti e alle cose che sono realmente successe, cercando di interpretarle nella maniera che possa essere utile per fronteggiare una crisi, che diventa sempre più difficile e che rischia di finire fuori controllo. Se ci limitiamo ai fatti, signor Presidente, signor ministro, dobbiamo dire questo. L'esplosiva situazione in Medio Oriente, accanto a motivazioni antiche, ha come causa scatenante la ripresa degli atti terroristici e l'elezione del Governo di Hamas, che sembra abbia commissariato di fatto il Presidente Abu Mazen. Quando si sente parlare di reazione esagerata di Israele, si dimentica che si tratta di una reazione, a fronte di un'azione terroristica continuata nel tempo e con tassi di crescita esasperanti.
In questi anni, gli unici segnali di pace sono venuti dal popolo e dal Governo di Israele. Due avversari storici della politica israeliana, Ariel Sharon e Simon Perez, si sono uniti in un'alleanza di Governo, senza la quale il ritiro dei coloni dalla striscia di Gaza non sarebbe stato possibile. Quel ritiro fu garantito anche con la violenza da parte delle Forze armate e dell'ordine di Israele, sapendo - o meglio ancora sperando - che il ritorno della striscia di Gaza sotto il Governo palestinese avrebbe fatto fare un salto di qualità al processo di pace. La reazione dei palestinesi fu la vittoria di Hamas alle ultime elezioni.
Io non so come avremmo reagito noi italiani se, di fronte ad uno sforzo che avesse visto il profondo sacrificio di alcuni sentimenti di odio, di rancore, di passione, la nostra controparte avesse premiato coloro che erano contro le nostre posizioni, che si erano già dichiarati favorevoli a fare di Israele terra bruciata. Io non so se avremmo avuto la stessa capacità, tranquillità e determinazione a continuare che ha mostrato Israele fino qualche mese fa.
Signor ministro, se ricordiamo tutto questo, non lo facciamo per un'azione di sostegno al bombardamento israeliano del Libano e dei territori palestinesi; lo diciamo perché sappiamo che se ad un paese non si offre garanzia sulla propria sopravvivenza fisica, oltre che politica, si riterrà, sbagliando, che due soldati rapiti non valgono dieci civili uccisi.
La comunità internazionale e l'Unione europea, innanzitutto, debbono garantire questa sicurezza ad entrambi i paesi non solo con le pressioni economiche e diplomatiche, ma anche con la presenza di Forze armate dell' ONU, in un'area di quel territorio capace di interporsi tra i due popoli e di offrire, in tal modo, quelle garanzie che in particolare per Israele non vi sono mai state.
Non dimentichiamo, signor ministro, che in questi ultimi cinquant'anni, se Israele non si fosse difeso con forza e con durezza, sarebbe stato spazzato via da quel territorio che le Nazioni Unite gli riconobbero a suo tempo e per il quale tutti i paesi fecero grande dichiarazione di riconoscimento ad un popolo che era stato massacrato durante la seconda guerra mondiale.
Signor ministro, un processo di pace e gli strumenti indicati non avranno però efficacia sino a quando i due popoli, i due


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Governi non riconosceranno reciprocamente il diritto ad esistere. Un'iniziativa di pace in questa direzione deve essere accompagnata anche da un'offensiva diplomatica verso i Governi di quell'area, a cominciare dalla Siria e dall'Iran: lo ripeto, un'offensiva diplomatica, signor ministro!
Noi della Democrazia cristiana-Partito socialista apprezziamo il tentativo del Governo di muoversi in tal senso e lo sollecitiamo affinché possa spingere l'Unione europea a mettere in piedi un tavolo di negoziato chiamando in questa conferenza la lega araba, i paesi interessati e confinanti nell'area del conflitto, oltre che la Russia e gli Stati Uniti, tenendo però ben presente quello che dicevo all'inizio, signor ministro, e cioè che questa offensiva diplomatica non deve mettere in dubbio gli aspetti fondamentali della nostra linea politica estera da un punto di vista strategico.
Un'iniziativa immediata che possa convincere Israele e l'autorità palestinese a dichiarare subito una tregua che sarà, per l'appunto, possibile se la comunità internazionale offrirà ad entrambi i popoli, israeliano e palestinese, un orizzonte di progressiva conquista della sicurezza reciproca, dello sviluppo economico e di una pace duratura.
Signor ministro, concludo il mio intervento affermando che, diversamente da ciò, dibatteremmo scioccamente sui termini di equidistanza o equivicinanza, dimostrando come paese tutta la nostra inadeguatezza e quella dell'Unione europea, al fine di garantire quel multilateralismo nel governo del mondo tanto invocato, ma poco veramente praticato (Applausi dei deputati del gruppo della Democrazia Cristiana-Partito Socialista).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Reina. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE MARIA REINA. Signor Presidente della Camera, signor ministro degli affari esteri, onorevoli colleghi che avete almeno la cortesia di assistere a questi ultimi scorci di dibattito, è stato osservato da un filosofo francese vissuto nel secolo andato, che non mette conto qui ricordare, che la vita umana non vale niente; però, egli ha anche aggiunto subitaneamente che niente può valere quanto una vita umana. Ed io ci tengo qui a sottolineare che ritengo di essere prima di tutto un cristiano, un cattolico, e che un cattolico in quanto tale non può venire a patti con questa sua scelta.
Nel corso del dibattito in quest'aula ho sentito proferire le cose più strambe, financo una contestazione che, personalmente, non mi sento di muovere nei confronti del ministro degli affari esteri in ordine all'esagerazione della reazione, come se vi fosse un punto, una sorta di limite oltre il quale anche ad un cattolico è permesso riconoscere che è consentita una reazione alla violenza.
Ciò è assurdo, è al di fuori della consapevolezza del nostro essere ed appartenere a questa fede religiosa. Per questo motivo sostengo, francamente, che non si tratta del cordoglio che esprimiamo ma della manifestazione più forte, di una vera afflizione che abbiamo per tutti coloro che hanno perduto la vita, non solo nell'ultima fase di questo conflitto.
È vero: è una guerra più pericolosa di quelle fin qui svolte, perché rientra nella strategia del fondamentalismo islamico, che cerca di radicalizzare la propria battaglia contro l'Occidente. Però, ciò a cui assistiamo è l'epilogo di una storia lunga nel tempo.
Il ministro degli affari esteri, di cui personalmente apprezzo il modo con cui ha reso edotto il Parlamento delle circostanze che hanno connaturato la vicenda di cui ci occupiamo e, soprattutto, la solerzia che ha avuto nel venire in Assemblea, ci ha informati di quanto è accaduto oggi. Dovremmo, però, andare più indietro nel tempo: la colpa di ciò che avviene è di quella che, qui, abbiamo chiamato la comunità internazionale. Infatti, preferiamo tutti dimenticare che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, ciò che è avvenuto è stato il frutto delle determinazioni delle nazioni vincitrici. Se, oggi, siamo di fronte ad un


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problema irrisolto, è perché nella logica della separazione dei due grandi blocchi, al momento in cui è crollato il muro di Berlino, il mondo occidentale, ai cui valori molti di noi sono stati e sono profondamente legati, non ha ritenuto di interrogarsi a sufficienza su tutti gli effetti che ne sarebbero derivati.
Il conflitto cui assistiamo è anche figlio di questa grave disattenzione della cosiddetta comunità internazionale e del fatto (anche ciò è stato osservato da parte di altri colleghi) che non esiste uno strumento, che oggi chiamiamo ONU, in capo alla comunità internazionale che sia veramente in grado di avere l'autorevolezza per regolare questi rapporti.
Debbo aggiungere che mi sembra specioso parlare di «smarcamento» della politica del Governo italiano attuale rispetto al precedente, perché si può anche (per uscire fuori dalla metafore) pensare di non stare nella logica dell'assoggettamento agli Stati Uniti, però poi si rimane comunque prigionieri dell'assoggettamento al G8, che nella sostanza non fa grande differenza.
Si possono salvare, forse, alcune forme, ma la sostanza del ragionamento politico non muta perché vi è un problema di fondo: siamo in grado, come paese impegnato, tra i più importanti della terra, di contribuire non dico al rafforzamento ma alla rinascita di una politica forte da parte della comunità internazionale?
Concludo dicendo che siamo fermamente convinti del diritto di Israele ad esistere non solo come nazione ma anche come Stato. Allo stesso tempo, non possiamo non riconoscere il diritto del popolo palestinese ad essere riconosciuto non solo come nazione ma anche come Stato. Se non siamo in grado di fare questo e ci attardiamo soltanto a cercare di capire quali siano le responsabilità, i torti o le ragioni, in tutte le fasi di questo grande conflitto, così come si è sviluppato, probabilmente commetteremo l'errore di non riuscire a capire fino in fondo in che modo trarci d'impaccio.
Signor Presidente - mi avvio a concludere - come tanti in quest'aula sono un padre, però mi sono chiesto spesso come può accadere che dei giovani, non degli anziani, ma dei giovani ragazzi che hanno studiato, che hanno conseguito una laurea decidano di immolare la propria vita.
Qualcuno di noi si è mai chiesto come mai ciò possa accadere, quali possano essere le ragioni di fondo che sottendono ad azioni gravi di questo tipo? Ritengo che nei ragionamenti che sviluppiamo, ogni tanto, dovremmo fermarci, senza farci troppo prendere da ciò che cattura la nostra attenzione, per avere l'umiltà e la capacità di approfondire anche queste tematiche al fine di comprendere meglio quanto accade (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Movimento per l'Autonomia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato La Malfa, al quale ricordo che ha due minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà.

GIORGIO LA MALFA. Condivido il giudizio del ministro degli esteri per cui la nuova crisi mediorientale, drammatica, può allargarsi e diventare guerra aperta coinvolgendo non solo gruppi terroristici ma anche gli Stati di quella regione. Mi ha però sorpreso la sua analisi nella quale lei, onorevole D'Alema, ha detto con chiarezza - nella parte iniziale del suo intervento - che la crisi nasce da uno scontro interno alle diverse parti del mondo palestinese e del vasto mondo mediorientale tra coloro i quali vogliono aprire una trattativa e coloro i quali non intendono fare ciò (c'è uno scontro fra i palestinesi, che forse coinvolge l'Iran e così via). Tuttavia, cosa c'entra con questo il giudizio così reciso e pesante che il ministro dà sul comportamento di Israele? Israele è oggetto di un attacco dalle caratteristiche che il ministro stesso implicitamente ha ricordato. Di fronte ad un attacco di questo genere, se da un lato c'è bisogno di moderazione, dall'altro bisogna che il messaggio per cui il paese sa difendersi arrivi con molta chiarezza. È la ragione per la quale il fronte interno della società israeliana, compresi gli intellettuali pacifisti, oggi dicono e scrivono sui giornali che essi sono dietro la ferma posizione del loro Governo.


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Israele che cosa può fare, signor ministro? Cosa si chiede ad Israele? In che modo dovrebbe rispondere a una tale minaccia? Ho avuto l'impressione che questa sua affermazione su Israele serva in parte il dibattito di politica interna, così come lo serve l'affermazione apodittica secondo cui la causa di tutto questo sarebbe la guerra in Iraq: ne discuteremo quando vi sarà il tempo, ma le posso subito dire che una delle ragioni per le quali Israele si è potuto ritirare dai territori - da Gaza - potendo compiere passi importanti sta nel fatto che era caduto uno dei bastioni della lotta contro Israele. Era infatti caduta la dittatura in Iraq.
Quindi, che un uomo intelligente come lei, accorto e sottile quando lo ritiene, usi argomenti che assomigliano a delle clave, mi ha colpito.
Mi sono domandato se lei parlasse alla comunità internazionale o alla sua maggioranza, se il tema del dibattito fosse Israele o l'Afghanistan. In altre parole, ho l'impressione che lei voglia rassicurare una parte della sua maggioranza dicendo: abbiamo una nuova politica, quindi, potete votarci.
Per fortuna, ci sono anche posizioni come quelle di Fassino o Amato, molto diverse, ma da questo non nasce una politica di Governo.
Fateci capire esattamente qual è la politica del Governo italiano perché io non riesco a intravederla.

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento dell'informativa urgente del Governo.

Discussione del disegno di legge: Abrogazione delle norme in materia di partecipazioni in società operanti nel settore dell'energia elettrica e del gas naturale (A.C. 1041) (ore 19).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Abrogazione delle norme in materia di partecipazioni in società operanti nel settore dell'energia elettrica e del gas naturale.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 1041)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare di Forza Italia ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che la X Commissione (Attività produttive) s'intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, deputato Ruggeri, ha facoltà di svolgere la relazione.

RUGGERO RUGGERI, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, mi permetto di illustrare questo provvedimento presentando prima una breve introduzione. Possiamo dire che da un punto di vista energetico ormai l'intero mondo è entrato in una nuova età, un'età dominata da una crescente domanda internazionale di energia, da prezzi sempre più elevati sia per il gas che per il petrolio. Siamo in presenza di mutamenti climatici che incidono profondamente sulla domanda di energia.
Per l'Europa, ad esempio - ciò che a noi preme e che è punto di riferimento per quanto riguarda la nostra politica industriale -, le cifre ci dicono quanto si sia trasformato questo panorama energetico. I prezzi di gas e petrolio sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni e la dipendenza europea dalle importazioni è previsto che aumenterà del 70 per cento entro il 2030.
Gli investimenti sono carenti lungo tutta la filiera globale dell'energia e per soddisfare la domanda prevista di energia e sostituire una infrastruttura ormai obsoleta nei prossimi vent'anni è stato stimato che occorreranno più di 16 mila miliardi di euro.


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Oltre a questo nuovo scenario si aggiunge quello indicato dai G8, e cioè il punto centrale che riguarda la sicurezza dell'energia, una attenzione ed un controllo su tutta la filiera, dalla produzione al consumo. Quindi, penso che lo scenario europeo nei prossimi anni si dovrà confrontare con le risposte che anche il Governo italiano deve dare.
Il provvedimento che abbiamo davanti riguarda l'abrogazione di due decreti-legge in materia di partecipazioni in società operanti nel settore dell'energia elettrica e del gas naturale. Secondo me, questo non è un provvedimento da assumere necessariamente; per me è un tassello della politica industriale energetica di questo Governo di centrosinistra.
Vorrei qui ricordare che abbiamo già davanti a noi alcuni di questi tasselli, per far vedere come c'è già un disegno, che ovviamente si deve concretizzare, che riguarda la politica industriale dell'energia e che sta assumendo fisionomia.
Il 4 luglio 2006 il Governo ha presentato il provvedimento sulle liberalizzazioni. Si parla molto dei taxi, delle medicine e di altro, ma in quel provvedimento ci sono alcuni punti per noi qualificanti e viene affrontato il tema della concorrenza per quanto riguarda alcuni servizi pubblici locali.
Un altro articolo riguarda il tema dell'energia, le fonti di calore; vi è un articolo che riguarda l'IVA, volto a rendere più competitive le energie alternative.
L'8 luglio è stato presentato il DPEF ed in tale documento c'è un quadro ancora più definito di quello che si intende per liberalizzare a monte e a valle il nostro paese da legami, da ingessature.
Questo è il refrain, la filosofia che ritroviamo nel DPEF e nella politica del Governo: si tratta di eliminare qualche privilegio, togliere qualche muro, aprire qualche porta, trovare qualche strada per rimuovere l'ingessatura di questo paese. La concorrenza è vista lì come strumento, ma l'obiettivo riguarda una società più giusta, una società in cui i nostri giovani possano trovare un'occupazione aderente alle proprie aspettative ed i propri curriculum di studi.
Nel DPEF vediamo un disegno che riguarda la liberalizzazione a monte, l'ENI, la possibilità che le reti siano finalmente terze rispetto ai produttori ed ai consumatori. La distribuzione dell'energia per avere più concorrenza riguarderà la presenza di più distributori.
Vi è, poi, la necessità che le nostre municipalizzate trovino un'aggregazione coerente con la loro missione di realtà locali ma rimangano sul mercato.
Vi sono, inoltre, la necessità di un mix di fonti energetiche e l'investimento massiccio per quanto riguarda tutte le energie rinnovabili.
Di un terzo tassello discuteremo tra qualche minuto. Infine, un ulteriore tassello strategico è rappresentato dalle deleghe al Governo per riprendere il cammino della riforma del sistema elettrico e di quello del gas. Ancora una volta vi è attenzione al risparmio energetico ed alle fonti rinnovabili: mi riferisco ai disegni di legge delega al Governo per il gas, l'energia elettrica ed il sistema delle utility. In questo quadro collochiamo il provvedimento in esame, che sembrerebbe toglierci le difese, perché andiamo a scongelare i diritti delle imprese estere monopoliste nell'acquisto e nella partecipazione di società italiane: tutto ciò non riusciremmo a capirlo se dietro non vi fosse un disegno organico, come prima ho cercato di indicare in modo sommario.
Passo ora, in particolare, al tassello che va a completare questo disegno di politica industriale. L'articolo 1, che è poi l'unico articolo di questo disegno di legge, prevede l'abrogazione di due provvedimenti normativi in tema di partecipazioni a società operanti nel mercato dell'energia elettrica e del gas al fine di corrispondere pienamente alle richieste dalla Commissione europea ed evitare onerose sanzioni pecuniarie previste. Si tratta del decreto-legge 25 maggio 2001, n. 192, recante disposizioni urgenti per salvaguardare i processi di liberalizzazione e privatizzazione di specifici settori dei servizi pubblici, convertito


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dalla legge 20 luglio 2001, n. 301, e del decreto-legge 14 maggio 2005, n. 81, recante disposizioni urgenti in materia di partecipazioni a società operanti nel mercato dell'energia elettrica e del gas.
Al di là dei numeri e delle indicazioni di cui si deve comunque tenere conto, la sostanza è che nel 2001, dopo l'inizio di un processo di ammodernamento del nostro paese con le riforme del sistema elettrico e del gas del primo Governo Prodi, abbiamo riscontrato alcune questioni aperte, una delle quali era appunto la possibilità che colossi europei entrassero nel nostro mercato per acquisire nostre società. Fu il caso, appunto, del maggio 2001, quando il monopolista francese dell'energia l'Electricité de France (EDF) acquistò il 20 per cento di Montedison Spa e dell'OPA di Italenergia Spa su Montedison Spa ed Edison Spa, assumendo una partecipazione pari al 18,03 per cento in Italenergia bis Spa, cioè la holding che controlla Edison Spa, il secondo produttore italiano di energia elettrica. Quindi, per tutelare non tanto le aziende italiane, ma un processo di liberalizzazione che riguardava il mercato europeo e la nascita di asimmetrie nei processi di riforma - che vedeva l'Italia una delle prime nazioni che si era adeguata alle direttive europee -, ci siamo trovati di fronte alla Francia con un monopolio che, invece di creare più libertà, veniva a chiudere libertà nei mercati nazionali.
Quindi, è stato emanato questo primo disegno di legge di «difesa» che, appunto, sospendeva tutti i diritti societari che quelle società, come nel caso di EDF, avevano giustamente sulle società acquisite o compartecipate: i diritti, per quanto riguarda la gestione societaria, erano limitati al massimo al 2 per cento del capitale. Questo è stato un primo intervento. Come si legge nella relazione di accompagnamento, le motivazioni che avevano indotto il Governo ad adottare quel disegno di legge dovevano essere individuate in un giudizio, in una valutazione di non compatibilità comunitaria, espresso già in sede europea, nei confronti della disciplina normativa introdotta dal provvedimento.
In data 4 aprile 2006, la Commissione europea ha chiesto allo Stato italiano di conformarsi alla sentenza del 2 giugno 2005, n. 54, della Corte di giustizia, con la quale, con riferimento alla richiamata legge n. 301 del 2001, il giudice comunitario aveva ritenuto che la previsione della sospensione automatica dei diritti di voto inerenti a partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale sociale di imprese operanti nel settore dell'energia elettrica e del gas, quando queste partecipazioni erano detenute da imprese pubbliche straniere non quotate in mercati finanziari e che beneficiano nel proprio mercato nazionale di una posizione dominante, costituisse una violazione dell'articolo 56 del Trattato, che appunto riguardava la concorrenza.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIULIO TREMONTI (ore 19,15)

RUGGERO RUGGERI, Relatore. Questa è la motivazione del perché queste misure di difesa, ripeto, non tanto delle industrie nazionali ma di un processo più equilibrato di liberalizzazione nel mercato europeo, in realtà, sono state poi giudicate come contrarie e violanti gli articoli del Trattato dell'Unione europea.
In tale sentenza la Corte ha dichiarato che, mantenendo in vigore il decreto-legge del 2001 (quello varato dal centrosinistra, per intenderci), recante disposizioni urgenti per salvaguardare i processi di liberalizzazione, l'Italia è venuta meno agli obblighi che le incombono ai sensi dell'articolo 56 del Trattato della Comunità europea sulla libera circolazione dei capitali. La legge italiana, infatti, dispone la sospensione automatica dei diritti di voto inerenti partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale sociale di imprese che operano nei settori dell'elettricità e del gas, quando tali partecipazioni siano acquisite da imprese pubbliche non quotate in mercati finanziari regolamentati e che beneficiano nel proprio mercato nazionale


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di una posizione dominante: è il caso tipico e specifico di EDF.
La Corte aveva ritenuto che la sospensione dei diritti di voto impedisse la partecipazione effettiva degli investitori alla gestione ed al controllo delle imprese italiane che operavano, appunto, nei mercati dell'elettricità e del gas. A seguito di alcuni passaggi, incontri e soprattutto con il cambiamento del Governo in Italia, con il Governo Berlusconi di centrodestra, la questione rimaneva aperta ed il centrodestra, proprio per evitare le procedure di infrazione e, quindi, trovare una soluzione alle motivazioni che la Corte di giustizia, nella sentenza citata, aveva indicato, varò il decreto-legge n. 81 del 14 maggio 2005, con il quale trovò non un escamotage, ma una strada per rispondere alle esigenze ed alle motivazioni espresse dalla Corte di giustizia delle Comunità europee.
La stessa Corte di giustizia delle Comunità europee, a seguito del citato decreto-legge, recante disposizioni urgenti in materia di partecipazioni a società operanti nel mercato dell'energia elettrica e del gas, escluse che l'applicazione di tali previsioni limitative dell'esercizio del diritto di voto nelle deliberazioni assembleari, ossia di acquisto o sottoscrizione a termine o differita, potessero valere se non quando fossero presenti alcune condizioni, ossia che le competenti autorità degli Stati interessati avessero iniziato un processo di privatizzazione e che il Governo italiano intendesse tutelare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e l'apertura del mercato.
In sostanza, anche il provvedimento del Governo di centrodestra, sulla scia e nella stessa filosofia di ciò che aveva fatto in precedenza il centrosinistra, ha cercato di rispondere nella maniera più corretta possibile - per quanto riguardava le valutazioni italiane - a tale questione non da poco, perché interrompeva o rischiava di interrompere i processi di liberalizzazione europei. In realtà, entrambi i citati provvedimenti hanno trovato, ancora una volta, un giudizio negativo da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee.
Per quanto riguarda, in particolare, il requisito della reciprocità, che era il punto centrale degli interventi dei nostri governi in relazione all'ingresso dei colossi esteri nel nostro paese, la Commissione ha successivamente precisato che, sebbene ciò sia previsto da alcune direttive comunitarie relative a norme comuni per il mercato interno nel settore dell'energia, tale requisito si riferisce esclusivamente alla fornitura del servizio interessato e non riguarda, quindi, la proprietà di imprese o l'esercizio di diritti derivanti da tale proprietà. Questa è stata la contestazione delle nostre risposte normative al problema dell'ingresso di società estere nei nostri mercati.
La reciprocità, che voleva essere il cuore dei nostri interventi, in realtà, a giudizio della Commissione, deve intendersi collegata esclusivamente alla fornitura dei servizi, e non anche alla proprietà; tale è stata la motivazione.
Quindi, ad avviso della Commissione, qualsiasi considerazione di reciprocità che possa determinare il condizionamento del diritto di investimento all'interno dell'Unione europea non può giustificare restrizioni alle libertà fondamentali del Trattato e potrebbe condurre ad un'applicazione discriminatoria di norme nazionali nei confronti di operatori economici di altri Stati membri. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, poiché i diritti conferiti dal Trattato istitutivo della Comunità europea sono incondizionati, uno Stato membro non può condizionare tali diritti ad un esame di reciprocità imposto allo scopo di ottenere vantaggi corrispondenti in un altro Stato membro.
La Commissione ha quindi fissato il termine di due mesi per l'adozione, da parte dell'Italia, dei necessari provvedimenti di adeguamento dell'ordinamento interno alla normativa comunitaria.

PRESIDENTE. Onorevole...

RUGGERO RUGGERI, Relatore. Questo disegno di legge è, per l'appunto, la risposta data in ordine all'adeguamento a tali indicazioni.


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Vorrei concludere, signor Presidente, rassicurando i colleghi, come ha fatto il Governo in X Commissione, sulla non sopraffazione: non si indeboliranno né i processi di liberalizzazione né le nostre industrie nazionali. Rimane in piedi, infatti, nella legge n. 239 del 2004 relativa al riordino del settore energetico, una previsione che, se vogliamo, possiamo definire qualificante nella difesa della nostra industria: in caso di operazioni di concentrazione di imprese operanti nei mercati dell'energia elettrica e del gas, a cui partecipano imprese o enti di Stati membri dell'Unione europea, ove non sussistano adeguate garanzie di reciprocità, il Presidente del Consiglio dei ministri - su proposta, ora, del ministro dello sviluppo economico - può intervenire per definire condizioni e vincoli.
Quindi, con queste garanzie, sono convinto che il disegno di legge in esame possa rappresentare una risposta adeguata alle condizioni poste dalla Comunità europea e, altresì, una risposta al problema dello sviluppo dell'industria italiana (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dei Comunisti Italiani).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

ALFONSO GIANNI, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Signor Presidente, per il momento il Governo si limita a concordare con il relatore, riservandosi di intervenire nel prosieguo del dibattito.

PRESIDENTE. Sta bene.
È iscritto a parlare l'onorevole Rosso. Ne ha facoltà.

ROBERTO ROSSO. Onorevoli colleghi, il disegno di legge in esame - come è noto, composto da un solo articolo - prevede l'abrogazione per intero di due decreti-legge in materia del mercato dell'energia elettrica e del gas; si tratta del decreto-legge 25 maggio 2001 n. 192 e del decreto-legge 14 maggio 2005 n. 81, adottato dopo le obiezioni sollevate in sede comunitaria sul primo provvedimento.
Nella relazione di accompagnamento, si legge che il Governo intende aderire pienamente al principio della libera circolazione dei capitali stabilito dall'articolo 56 del Trattato di Roma.
In data 4 aprile 2006, la Commissione europea ha infatti chiesto allo Stato italiano di conformarsi alla sentenza del 2 giugno 2005 n. 54 della Corte di giustizia con la quale, con riguardo al decreto-legge n. 192 del 2001, il giudice comunitario aveva ritenuto che costituisse una violazione dell'articolo 56 del Trattato la previsione della sospensione automatica del diritto di voto per partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale sociale di imprese operanti nel settore dell'energia elettrica e delle gas qualora detenute da imprese pubbliche straniere dominanti nel proprio mercato nazionale.
La Corte ha ritenuto che la sospensione dei diritti di voto configurasse una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Dopo quella pronuncia, lo Stato italiano ha adottato il decreto-legge n. 81 del 2005, con il quale si esclude la sospensione dei diritti di voto nei confronti di quei soggetti controllati dallo Stato membro dell'Unione europea o dalla sua amministrazione pubblica, anche se titolare nel proprio mercato nazionale di una posizione dominante, qualora le competenti autorità degli Stati interessati abbiano avviato il processo di privatizzazione di tali soggetti e siano state definite con il Governo italiano intese finalizzate a tutelare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e l'apertura del mercato. La Commissione europea, con parere motivato del 4 aprile 2006, pur accogliendo con favore lo sforzo delle autorità italiane di conformarsi alla sentenza, ha giudicato insufficiente la modifica sopra richiamata, in quanto non verrebbe data esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia, ed ha fissato il termine di 2 mesi per l'adozione da parte dell'Italia dei necessari provvedimenti di adeguamento dell'ordinamento interno alla normativa comunitaria.
Per quel che riguarda la condizione posta dal decreto-legge n. 81 del 2005, relativo alla reciprocità nel processo di


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privatizzazione, la Commissione osserva che, sebbene i requisiti di reciprocità siano previsti in alcune direttive comunitarie relative a norme comuni per il mercato interno nel settore dell'energia, essi si riferiscono esclusivamente alla fornitura del servizio interessato e non riguardano quindi la proprietà di imprese o l'esercizio di diritti derivanti da tale proprietà. Come risulta dalla giurisprudenza della Corte, poiché i diritti conferiti dal Trattato comunitario sono incondizionati, uno Stato membro non può condizionare tali diritti ad un esame di reciprocità.
Si ricorda che a norma dell'articolo 228 del Trattato di Roma, gli Stati membri sono tenuti a dare esecuzione alle sentenze della Corte di giustizia, pena l'adozione di una sanzione pecuniaria. Si rammenta poi che nella stessa data del 4 aprile 2006, la Commissione europea ha inviato una lettera di messa in mora nei confronti di altri 17 Stati membri che non hanno correttamente recepito le direttive 2003/54 e 2003/55 della Comunità europea, relativamente al mercato interno dell'energia e del gas. Le lettere di messa in mora contestano differenti violazioni, a seconda dello Stato membro interessato. Per quanto riguarda l'Italia, sono contestate le seguenti violazioni: assenza o insufficiente separazione funzionale fra gli operatori incaricati alla trasmissione e alla generazione del gas; assenza o insufficiente separazione tra gli operatori incaricati alla distruzione del gas e all'energia; esistenza, infine, di un regime di prezzi regolati che impedisce l'ingresso nel mercato dell'elettricità di nuovi fornitori.
Poiché nel successivo decreto Bersani sulle sedicenti liberalizzazioni del sistema non vi è traccia di questi interventi strutturali per l'apertura della nostra economia ad un'effettiva logica di mercato, questo la dice lunga sulla capacità e la volontà dell'attuale esecutivo di assumere provvedimenti rigorosi contro gli effettivi monopolisti dei servizi, limitandosi invece ad una ben più comoda ramazzata nei confronti delle categorie del lavoro autonomo quali taxisti, farmacisti, avvocati e notai, assurto al ruolo di novello untore di una peste monopolista che la sinistra non mostra alcuna fretta di voler davvero debellare.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sanga. Ne ha facoltà.

GIOVANNI SANGA. Signor Presidente, colleghi deputati, come bene ci ha ricordato il relatore poco fa, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 2 maggio 2005, ha dichiarato non compatibile con l'articolo 56 del Trattato che istituisce la stessa Comunità europea ed inerente la libera circolazione dei capitali, il decreto-legge n. 192 del maggio 2001, relativo alla sospensione automatica dei diritti di voto per le azioni eccedenti il limite del 2 per cento del capitale sociale di quelle società operanti nei settori dell'elettricità e del gas, qualora le partecipazioni siano di imprese pubbliche non quotate in mercati finanziari regolamentati e titolari di una posizione dominante nel proprio mercato nazionale.
Non possiamo che aderire alle richieste della Commissione che sono seguite alle sentenze della Corte e non abbiamo altra strada che l'approvazione di questo disegno di legge che porta all'abrogazione del decreto-legge n. 192 del 2001 e del successivo decreto legge n. 81 del 2005. La Commissione, il 4 aprile scorso, ha fissato il termine di due mesi per l'adozione da parte dell'Italia dei provvedimenti necessari. La Commissione pone un problema serio al nostro paese, che va giustamente risolto. Noi, d'altro canto, ci siamo mossi e ci dobbiamo muovere perché siano garantite le condizioni di reciprocità con gli altri paesi europei.
La discussione di questo provvedimento riporta alla nostra attenzione ed a quella del Parlamento questioni rilevanti: anzitutto, quella della centralità del tema dell'energia; poi, quella della necessità di procedere, anche a livello europeo, sulla strada delle liberalizzazioni già avviate dal Governo di centrosinistra negli anni 1996-2001, cogliendone i risvolti positivi per i cittadini, i consumatori, le famiglie e le imprese; infine, quella della reciprocità di


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condizioni rispetto agli altri paesi europei e delle tentazioni protezionistiche che, talvolta, sembrano riemergere.
Cominciamo da quest'ultimo tema, quello della reciprocità. Con l'approvazione del provvedimento in esame e la conseguente eliminazione dei due decreti-legge precedenti non vengono meno gli strumenti di cui il Governo si giova per intervenire. Il Presidente del Consiglio dei ministri, infatti, dispone sempre della facoltà, riconosciutagli dall'articolo 1, comma 29, della legge n. 239 del 2004, nota come legge Marzano, di porre condizioni e vincoli alle imprese degli Stati membri per tutelare la concorrenza dei mercati. Inoltre, c'è la strada tutta politica che il Governo ha dichiarato di voler percorrere fino in fondo, quella del confronto con gli altri paesi europei per rafforzare i rapporti di collaborazione. Del resto, dobbiamo avere una forte consapevolezza del fatto che le politiche energetiche nazionali sono sempre più deboli. La dimensione dei problemi esula, ormai, dal livello nazionale e la capacità dei singoli Stati di incidere è alquanto ridimensionata.
Il secondo tema è quello della liberalizzazione dei mercati, nell'obiettivo di favorire i cittadini ed i consumatori, di ridurre i costi per le famiglie e per le imprese e di liberare il nostro paese da privilegi e incrostazioni tipici di una società di altri tempi.
Il nostro gruppo parlamentare non intende sottrarsi a questa sfida: vuole giocare con coraggio una partita non facile e intende essere protagonista, insieme al Governo del paese, di una stagione di cambiamenti di grande respiro e di svolta lungimirante.
In materia di energia, l'esecutivo precedentemente in carica si è caratterizzato per l'adozione di specifici provvedimenti, senza che fossero inseriti in una strategia di medio-lungo periodo. Non è un caso che la Conferenza nazionale sull'energia, più volte annunciata, alla fine non si sia mai svolta. Quest'ultima avrebbe potuto costituire la sede in cui definire le priorità e le linee guida della politica energetica nazionale, raccogliendo il contributo delle tante realtà che operano, investono, studiano ed elaborano e, magari, anche l'apporto trasversale di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, vista la delicatezza, l'importanza e la rilevanza del tema nell'interesse del paese.
La nostra situazione è difficile. Non possiamo dimenticare che importiamo metano da tre soli paesi - Algeria, Libia e Russia - e che disponiamo di scorte per pochi giorni soltanto. L'indagine conoscitiva sul settore energetico, condotta dalla Commissione attività produttive della Camera dei deputati nel corso della precedente legislatura, rilevava come, almeno per i prossimi tre anni, l'Italia sia seriamente esposta ai rischi di una carenza di gas. Dopo avere rinunciato alle centrali nucleari, importiamo energia dalla Francia, che la produce in centrali nucleari. Il petrolio che acquistiamo dal Medio Oriente sta raggiungendo prezzi stratosferici. Abbiamo già vissuto il rischio che qualche fornitore di gas possa chiudere o stringere troppo i rubinetti. Siamo a conoscenza dei rischi di black out causati dal sovraccarico o dalla siccità dei bacini elettrici ed abbiamo già maturato esperienze in merito. Il divario, rispetto alla media europea, del costo dell'energia è tutto a nostro svantaggio, con una ricaduta sulla competitività delle imprese.
Questi sono alcuni degli elementi. Pensiamo che sia giunto il momento di agire con il più ampio consenso possibile su questi temi ma anche con la massima determinazione, perché le scelte di oggi determineranno il quadro del prossimo decennio.
Non si può dimenticare, infatti, che nell'energia sono necessari imponenti investimenti di medio e lungo periodo che vanno ben oltre la singola legislatura e che per realizzarli bisogna sconfiggere tante resistenze che solo un grande accordo tra le forze politiche, sociali e culturali del paese può superare.
Avremo presto una grande occasione in sede di discussione del provvedimento sulla liberalizzazione del mercato dell'energia e sul risparmio energetico, che il


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ministro per lo sviluppo economico ha già annunciato. Nell'interesse del nostro paese, non sprechiamo questa opportunità (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Valducci. Ne ha facoltà.

MARIO VALDUCCI. Signor Presidente, componenti del Governo, onorevoli colleghi, questo provvedimento, composto da un solo articolo, prevede l'abrogazione di due precedenti decreti-legge, il n. 192 del 2001 e il n. 81 del 2005.
Il primo decreto - meglio conosciuto come congelamento dei diritti di voto per EDF - è stato emanato per salvaguardare i processi di liberalizzazione e privatizzazione di specifici settori dei servizi pubblici. Esso stabilisce che, fino alla realizzazione all'interno dell'Unione europea di un mercato pienamente concorrenziale nei settori dell'elettricità e del gas, il rilascio o il trasferimento di autorizzazioni o concessioni, previste dai decreti legislativi di liberalizzazione dei suddetti mercati, è effettuato a condizioni particolari. Tali condizioni si applicano ai soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno Stato o da altre amministrazioni pubbliche; titolari di una posizione dominante nei propri mercati nazionali; non quotati in mercati finanziari e regolamentati; che acquisiscono direttamente o indirettamente partecipazioni superiori al 2 per cento nel capitale di società operanti nei settori predetti in via diretta o tramite controllate e collegate. In caso di superamento del predetto limite, il rilascio o il trasferimento dell'autorizzazione o concessione di cui sopra presuppone la riduzione al 2 per cento del diritto di voto del soggetto controllato dallo Stato estero o dall'amministrazione pubblica straniera.
Tali disposizioni si sono applicate a tutte le acquisizioni effettuate in data successiva alle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Stoccolma del 23 e 24 marzo del 2001. Il decreto - come sembra mostrare il caso Montedison e EDF - ha spinto i soggetti monopolisti a limitare la partecipazione azionaria attiva ad una quota di minoranza, ferma restando la possibilità di investimenti puramente finanziari da parte di tali soggetti e la normale libertà finanziaria dei soggetti che operano totalmente in regime di libero mercato.
L'impatto di questo provvedimento era meramente sostitutivo degli effetti che potranno essere prodotti da una piena liberalizzazione del mercato energetico europeo. Il decreto fu emanato a causa delle profonde asimmetrie e distorsioni di concorrenza tra i singoli paesi dell'area europea. Ad esempio, EDF in Francia, che detiene l'80 per cento del mercato domestico, ha sfruttato la cassa generata dalla rendita monopolista e il fatto che non deve distribuire dividendi agli azionisti per entrare in mercati europei liberalizzati. Ciò ha creato e crea evidenti problemi di reciprocità e mina alle basi il progetto di creazione in Europa di un mercato concorrenziale dell'energia.
In teoria, non si dovrebbe proibire che un operatore pubblico compri una partecipazione in una società quotata, per giunta non di proprietà dello Stato. Allo stesso tempo, non si dovrebbe impedire che società italiane - a controllo sia pubblico sia privato - acquistino partecipazioni in società estere; fatto, invece, recentemente accaduto con l'Opa di Enel su Suez, fronteggiata dalla Francia con l'acquisizione di Suez da parte di Gaz de France. Questa operazione, realizzata dal Governo francese e discutibile dal punto di vista politico e finanziario, è ineccepibile sul piano del diritto.
In proposito, la Commissione europea non discrimina tra società a controllo pubblico o privato. La questione delle asimmetrie nelle aperture dei mercati nazionali è tornata al centro dell'attenzione dopo che EDF ha lanciato la scalata ad una società spagnola e, successivamente, è entrata con il 20 per cento nel capitale Montedison.
A seguito di questa iniziativa il Governo Berlusconi ha emesso il decreto-legge per salvaguardare la reciprocità delle regole nei processi di apertura tra i diversi paesi dell'Unione europea e per non introdurre


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effetti distorsivi che possono creare asimmetrie nei processi di liberalizzazione e privatizzazione del settore.
Inoltre, il Governo Berlusconi aveva visto bene l'ingresso della FIAT nella compagine nazionale dell'energia, proprio perché in tal modo si sarebbe realizzato un nocciolo duro di nazionalità italiana. Ma la crisi finanziaria del gruppo torinese e il successivo - peraltro legittimo - ruolo di portage a favore di EDF, svolto da alcune banche italiane, ha riaperto la questione.
Il primo elemento che occorre tenere in considerazione è che, se in Europa non esiste ancora un vero mercato dell'energia, esiste tuttavia, da tempo, un mercato unico finanziario. Ciò vuol dire che, in presenza di regole di liberalizzazioni non equilibrate tra i diversi paesi membri, alcune imprese possono trarre vantaggio dalle rendite dei privilegi sul mercato interno per un proficuo shopping nei mercati degli altri. In sostanza, se nell'emanare le direttive europee si cede ad un eccesso di compromessi, le liberalizzazioni possono produrre guasti ed anomalie. Ciò è dimostrato da EDF, che, in Spagna come in Italia, ha assunto iniziative che hanno costretto i Governi ad intervenire con provvedimenti tesi ad evitare che un soggetto pubblico, e sostanzialmente monopolista nel suo paese, approfittasse di tali vantaggi per aggredire i mercati dei due paesi. Il primo impegno deve essere, quindi, quello di stabilire, in Europa, condizioni di corretta competizione tra gli operatori.
Purtroppo, sull'obiettivo della liberalizzazione del mercato non sussiste ancora una piena convergenza di tutti gli altri paesi europei. Ricordo come anche un recente studio condotto dalla Commissione europea abbia individuato come il percorso di liberalizzazione del mercato elettrico in Italia sia sicuramente nella media alta dei percorsi di liberalizzazione rispetto agli altri paesi europei. Dunque, bisogna tentare di convincere tutti i paesi europei a seguire questi percorsi; ma se il tentativo di convincere tutti i paesi della correttezza politica ed economica dell'obiettivo di liberalizzare e rendere competitivo il mercato fallisce, è necessario avere il coraggio di prendere decisioni anche a maggioranza. Se non fosse possibile, quindi, l'allargamento ad ampie maggioranze, rimarrebbe soltanto la strada dell'introduzione con pari forza, accanto al principio della sussidiarietà, di quello della reciprocità, che erroneamente non fu adeguatamente introdotto nella prima direttiva sull'elettricità.
Con il decreto adottato nel 2005 dal Governo Berlusconi furono poste due condizioni basilari: l'esistenza di un'intesa tra Governo italiano e Governo dello Stato membro controparte; l'esistenza di un progetto di quotazione del soggetto interessato sui mercati finanziari regolamentati. Tutto questo, in parte, non ha avuto riscontro, perché l'accordo bilaterale sottoscritto tra i due Governi in data 25 gennaio 2005, ispirato al principio di reciprocità, era basato, essenzialmente, sulla partecipazione dell'Enel ad iniziative energetiche in Francia, con particolare riguardo allo sviluppo, in partnership con EDF, del reattore nucleare di nuova generazione, e sulla rimozione del tetto del 2 per cento ai diritti di voto di EDF in Edison, in un quadro di effettiva pariteticità con il partner.
L'impegno è stato puntualmente mantenuto dal Governo italiano mediante il menzionato provvedimento, ma non è stato mantenuto dal Governo francese, perché il negoziato di Enel con EDF non ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissato. Enel ha provato ad annunciare un'OPA sul controllo di Suez (che non è andata a buon fine) e, ancor prima, ha manifestato interesse per l'acquisizione di una partecipazione di rilievo in SNET, secondo produttore elettrico francese (anche questa non ha avuto buon esito). Tale situazione ha prodotto, sostanzialmente, un indebolimento delle nostre posizioni rispetto alle posizioni dei processi di liberalizzazione del mercato francese.
La risposta alle istanze prodotte dal Governo italiano sia in sede comunitaria sia in sede francese è stata che la decisione di fusione tra i due gruppi, voluta


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dal Governo francese, risponde a logiche di riorganizzazione interna del comparto energetico senza violare alcuna norma europea e, semmai, tradendo il mero spirito di un principio comunitario.
Nel recente incontro tra i due Governi, francese e italiano, a Parigi, il Presidente Prodi ha parlato del caso Enel con il Presidente Chirac e con il primo ministro de Villepin. Nell'occasione, per quanto riguarda Enel, il premier ha ammesso che, considerata l'enorme presenza di EDF in Italia, l'interesse Enel ad espandersi in Francia è più che giustificato ed esiste un grande problema di simmetria tra Francia e Italia in tema di fusioni ed acquisizioni. A riprova della scarsa considerazione che la Francia ha per il nostro Governo, Chirac ha replicato, attraverso un portavoce, che la Francia predilige offerte amichevoli (ricordando l'esistenza del progetto di fusione tra Suez e Gas de France). Il Presidente francese ha sottolineato, inoltre, che le parti sono attente alle dimensioni industriali e sociali delle grandi operazioni fra aziende e che, in ogni caso, spetta alla società decidere del loro futuro.
Quindi, mentre in Francia prosegue l'operazione di consolidamento e di ingrandimento degli operatori del mercato dell'energia elettrica e del gas esistenti, il Governo italiano dovrebbe studiare risposte adeguate alle decisioni assunte dal Governo francese, come, peraltro, hanno auspicato numerosi esponenti della maggioranza. La proposta di approvazione del provvedimento oggi in esame, sicuramente, è doverosa nei confronti delle decisioni assunte dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, ma non sottolinea adeguatamente, nei confronti del Governo francese, la necessità di rispettare il principio di reciprocità e di eliminazione delle asimmetrie.
Vorremmo fosse chiaro in Francia e in Europa che l'Italia non vuole, non deve e non può ridurre la propria competitività senza alcuna garanzia di reciprocità.
Forza Italia e la Casa delle libertà vigileranno perché il Governo, su un punto così importante per il sistema paese, non sia, al solito, passivo ed inconcludente.
Vorrei ricordare che quello dell'energia elettrica, in Italia, è un mercato competitivo e che non dobbiamo indebolire ulteriormente i nostri operatori, che hanno solo il problema di diversificare le fonti di approvvigionamento; del resto, è un paese interconnesso con gli altri e ha portato ad un buon livello la competitività del proprio mercato interno dell'elettricità (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zipponi. Ne ha facoltà.

MAURIZIO ZIPPONI. Signor Presidente, al fine di evitare sanzioni pecuniarie previste dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, il Governo propone l'abrogazione dei due citati decreti-legge. È importante ciò che ha detto il relatore, ossia che questa discussione rappresenta un tassello di un dibattito che riguarda l'energia, il nostro paese e l'indipendenza economica dello stesso.
Allora, proviamo a vedere cosa stabiliscono quei decreti-legge per capire (la storia già è stata riassunta), perché è utile che il Parlamento se ne occupi.
I due decreti-legge dispongono la sospensione automatica dei diritti di voto inerenti alle azioni eccedenti il limite del 2 per cento del capitale sociale di società operanti nei settori dell'elettricità e del gas nel nostro paese. Ciò vale quando un'azienda italiana è acquisita, in tutto o in parte, da imprese pubbliche di altri paesi non quotate nei mercati finanziari e dominanti nel proprio mercato nazionale.
I decreti-legge sono stati adottati, perché chi governava e chi ha governato anche recentemente riteneva strategico il settore dell'energia per il nostro paese, quindi, mise un limite alla acquisizione delle nostre aziende del settore. Tant'è vero che la Edison Spa è stata acquistata dai francesi monopolisti nel loro paese con EDF. Si tratta di un'acquisizione di quote ben superiore al 2 per cento, ma, per quanto riguarda le decisioni strategiche di quella società, il loro voto, per un lungo periodo - ancora oggi - non vale più del 2 per cento.


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La Comunità europea ha reagito, affermando che ciò contrasta con la libera circolazione dei capitali. In risposta, il Governo italiano ha deciso di non applicare le norme relative al limite del 2 per cento, per le situazioni che avessero condizioni pari a quelle del nostro paese, che vi fosse reciprocità, ossia la possibilità per le aziende italiane di acquisire aziende elettriche e del gas nei paesi che si proponevano di acquisire le nostre. Qui nasce un problema, anzi il problema.
Enel, azienda nazionale di energia, si propone di acquisire la società francese Suez operante nel settore energia, gas, rifiuti, acqua, service. Dal momento che Enel si propone, in Francia nasce una reazione generale per impedire ciò che le regole comunitarie permettono. Interviene addirittura il Presidente della Repubblica francese per rispondere in modo sprezzante al ministro dell'economia di allora, Tremonti.
Ci risulta che in Francia si stiano predisponendo per impedire questa acquisizione anche con misure legislative.
Quindi, riassumendo: noi eliminiamo i vincoli previsti dai decreti-legge e l'EDF francese ha voce in capitolo in Edison. Inoltre, i francesi tentano di impedire all'Enel un'operazione simile.
Quindi, non esiste reciprocità e nel prossimo disegno di legge in materia energetica si impone un urgente intervento per difendere l'interesse nazionale. Ciò anche perché, oltre al danno, rischiamo la beffa. In un articolo su Il Sole 24 Ore del 15 luglio, Franco Debenedetti si chiede se Enel in mano straniera sia davvero un pericolo da scongiurare e il giornale titola «Enel scalabile dall'estero è nell'interesse del paese». Quindi, questa vicenda rischia di concludersi con i francesi che, attraverso l'EDF, gestiscono ed intervengono pesantemente nelle aziende italiane e ne influenzano le scelte industriali e strategiche; mentre gli italiani - se fosse vero quanto afferma Debenedetti - consegnano in mani straniere addirittura l'Enel per una sorta di logica economica che ignoro.
La domanda che ci siamo posti, come gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea è la seguente: perché ci occupiamo di processi come questi? Che conseguenze hanno questi processi e perché discutere subito dell'energia, anche nell'ambito dell'esame di un provvedimento limitato che, tra l'altro, abolisce il limite del 2 per cento? Le risposte che diamo a queste domande sono le seguenti. Primo: il costo dell'energia è uno dei fattori fondamentali nella concorrenza tra imprese, soprattutto quelle manifatturiere. Secondo: in Italia il costo dell'energia per le famiglie (ossia, consumatori, lavoratori e pensionati) è al secondo posto in Europa, con 21,8 euro per ogni 100 kWh, mentre in Francia è pari a 12,5, in Spagna a 11,4, in Germania a 18,3. Anche per i con sumi più elevati, ossia per quelli delle industrie, si pone la questione della differenza dei costi dell'energia, che creano gravi problemi di competitività alle imprese italiane.
In questo anno, da gennaio 2005 al 2006, l'aumento medio del costo dell'energia è stato del 10,5 per cento. Sappiamo che si stanno operando aggregazioni enormi in questo settore ed Enel o cresce, o verrà assorbita da altri monopolisti - privati o pubblici che siano - che non rispondono alle logiche di programmazione industriale del nostro paese. Francia, Spagna e Germania stanno seguendo questa direzione.
L'acquisizione di Suez da parte di Enel permetterebbe a quest'ultima di collocarsi in una dimensione considerata di sicurezza in Europa, cioè nel gruppo di testa del settore, anche perché si tratta di due aziende complementari nei mercati e nei prodotti e non si riscontrano grandi sovrapposizioni.
Anche qui sorge un problema: ossia, il problema principale. Enel è disposta a operare e a crescere, avendo però dei riferimenti importanti che rispondono all'interesse collettivo? In altri termini, è disponibile a discutere con noi, con gli organi competenti, con il Ministero delle attività produttive, di come l'Italia può rispettare i parametri di Kyoto nella fabbricazione dell'energia? Enel è disposta, all'interno di un piano strategico nazionale, ad aumentare consistentemente le


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fonti rinnovabili come il fotovoltaico e l'eolico? E, in questo settore, con quali investimenti intende operare in Italia e in quanto tempo? Enel è disponibile a programmare anche un percorso che si ponga come obiettivo, oltre alla propria crescita, anche la riduzione dei costi della bolletta per gli utenti, i lavoratori, i pensionati e le imprese? In quanto tempo e con quale progressione intende farlo?
Ecco che diventa chiaro il ruolo fondamentale del Governo italiano nel rapporto con Enel e nei confronti del Governo francese. Non chiediamo che il Governo italiano riporti la Gioconda in Italia, ma almeno che si faccia rispettare quando si discute di politica industriale e di reciprocità. Quindi, chiediamo che sia fatto valere, senza trucchi, il principio di reciprocità verso il Governo francese e domandiamo, altresì, che l'interesse nazionale rappresenti un punto di riferimento per la predisposizione del piano energetico italiano. Riteniamo giusto, infine, che le aziende nazionali abbiano la possibilità e l'occasione di crescere in Europa avendo punti di riferimento certi, vale a dire quelli dettati dall'Unione europea.
È chiaro, dunque, il motivo per cui una forza come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea si ponga tale problema. Sappiamo, infatti, che si tratta di difendere gli interessi dei lavoratori, dei pensionati, degli artigiani e di quegli imprenditori che rispettano le regole partendo dall'ultimo anello della catena. La concorrenza di un sistema economico, la buona occupazione a tempo indeterminato ed imprese che funzionano vengono realizzate se un sistema paese reagisce alle sfide pensando alla propria dignità industriale. Vorrei rilevare che tale dignità si difende intervenendo non sul costo del lavoro, ma su quello di altri fattori, come ad esempio l'energia elettrica ed il gas.
In conclusione, quindi, chiediamo che, una volta approvato il disegno di legge in esame, si proceda celermente a discutere, di fronte al paese, il piano energetico nazionale, coinvolgendo tutte le imprese operanti nel settore e dichiarando quale sia l'interesse nazionale da tutelare. È necessario affrontare temi fondamentali per l'interesse collettivo, come ad esempio i limiti di inquinamento stabiliti dalla Conferenza di Kyoto.
Vogliamo, inoltre, che le fonti energetiche alternative rappresentino veramente un investimento strategico, così come accade, ad esempio, in Germania e che tale politica conduca alla riduzione dei prezzi e delle tariffe. Non crediamo a tutti quei soloni che spiegano che, attraverso la liberalizzazione e la privatizzazione nei settori economici, sia possibile disporre di strumenti efficaci per rendere il nostro sistema economico competitivo; infatti, come abbiamo visto, esiste il rischio di passare da un monopolio pubblico ad uno privato, come dimostra l'esempio delle autostrade. Si rischia, in altri termini, di cedere alle multinazionali la decisione su quanto il sistema economico italiano può competere, a quale livello e con quali possibilità.
Credo, pertanto, che il Governo italiano abbia di fronte a sé un'occasione importante: quella di farsi valere in sede europea, chiedendo regole uguali ed esigendo che valgano anche per altri paesi. Non basta, infatti, ciò che è già scritto, vale a dire che, qualora altri soggetti violassero le regole vigenti, allora noi faremo valere, attraverso il Presidente del Consiglio, il cosiddetto interesse nazionale. Se viene rimosso il limite al 2 per cento dei diritti di voto di EDF (perché, altrimenti, subiremmo sanzioni che non è giusto pagare), dobbiamo tuttavia ragionare rapidamente sul modo con cui sostituire tali vincoli.
Questi limiti sono stati sostituiti, nel recente passato, dal principio di reciprocità (ed ho provato a dimostrare che tale reciprocità non esiste) e dall'idea di interesse nazionale, anche se vorrei osservare che, in tal modo, si rischia di non stare al passo con i tempi seguiti dai processi finanziari relativi alle aggregazioni di grandi aziende.
È necessario affrontare, quindi, la questione del modo in cui l'energia italiana debba essere offerta ai cittadini, ai lavoratori, ai pensionati ed alle imprese a prezzi inferiori rispetto a quelli attuali,


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rendendo le nostre aziende protagoniste del perseguimento di tale obiettivo. Come ciò si debba realizzare è un problema che affronteremo sia nel dibattito sulle grandi scelte, sia in quella discussione del piano energetico nazionale che, con grande determinazione, invochiamo (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Saglia. Ne ha facoltà.

STEFANO SAGLIA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, con il provvedimento al nostro esame si conclude una vicenda che ritengo non sia banale nella storia economica del nostro paese. Si tratta, infatti, di una norma che era stata elaborata dall'esecutivo presieduto da Giuliano Amato proprio nelle ultime settimane della sua attività governativa.
Si decise, di fronte all'OPA lanciata su Montedison da parte di Italenergia Bis, all'interno della quale vi era una partecipazione consistente di Electricité de France, di congelare il diritto di voto in assemblea al 2 per cento. Fu una scelta che fece discutere sia in Europa sia in Italia. L'allora Presidente del Consiglio, Amato, decise di contattare i rappresentanti del Governo Berlusconi che si stavano insediando, per decidere assieme se questa misura fosse adeguata rispetto al problema che si andava evidenziando.
La FIAT entrò in quest'operazione. Si disse all'epoca, nel 2001, che avrebbe garantito la continuità italiana. Tutti sapevano che, per le ragioni finanziarie successivamente emerse, la FIAT non sarebbe riuscita a mantenere questo impegno, tant'è che successivamente la FIAT è uscita dal capitale di Italenergia, con una somma consistente, facendo una grossa operazione finanziaria, all'incirca intorno ai due miliardi di euro.
Oggi dunque rimuoviamo definitivamente questo vincolo; un vincolo che riguarda le imprese dominanti nel mercato domestico, che vanno a fare operazioni finanziarie e industriali al di fuori dei propri confini. Lo facciamo dopo aver già modificato precedentemente il provvedimento in materia, perché appunto il decreto-legge n. 192 del 2001 è stato modificato dal decreto-legge n. 81 del 2005. Quello che abbiamo denunciato nel dibattito in Commissione è che la relazione governativa di accompagnamento al disegno in esame è insufficiente, innanzitutto perché non si può ritenere che quel provvedimento venga abrogato solo ed esclusivamente per ragioni relative alla sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia europea. Abbiamo l'esperienza degli anni passati, laddove ogni volta che si evocava questo provvedimento - quando si parlava di alcune possibili sue modifiche o della possibilità di implementarlo o di eliminarlo -, corrispondeva una trattativa che era in corso fra i due paesi, fra l'Italia e la Francia.
Quindi noi oggi chiediamo al Governo di evidenziare in sede di replica quale sia lo stato delle trattative in corso, sia per quanto riguarda il tema dei rapporti bilaterali Italia-Francia, sia per quanto riguarda l'approccio che sta portando avanti il Governo Prodi nei confronti della politica energetica internazionale. Proprio ieri abbiamo letto una dichiarazione del Presidente del Consiglio, Prodi, il quale, a margine dei lavori del G8 - che avrebbe dovuto occuparsi principalmente dell'energia e che la crisi internazionale ha portato su altri temi, ma che poi si è occupato ovviamente anche di politica energetica -, ha dichiarato: siamo interessati alla discesa a valle di Gazprom, a prescindere dal partner che sceglierà; per questo non ho parlato né di ENI, né di Enel o di municipalizzate, ma questo deve avvenire a patto che corrisponda una salita a monte dei nostri protagonisti.
Questo significa che evidentemente il rapporto con il principale fornitore di gas nel nostro paese, che ha comportato in passato, nel precedente inverno, problemi dal punto di vista della tenuta dell'approvvigionamento di gas e quindi del riscaldamento e della tenuta produttiva degli impianti, oggi è di fronte ad una trattativa internazionale che il Governo Prodi sta conducendo. Il Governo Prodi dice che


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Gazprom è benvenuta in Italia, che può distribuire direttamente il gas nel nostro paese, ma che non abbiamo ancora deciso se ciò deve passare attraverso le nostre aziende nazionali o se può farlo direttamente.
Questo è un fatto nuovo ed importante, che riguarda il nostro dibattito, perché la concorrenza e il tema delle liberalizzazioni, che si è evidenziato in questi anni, ha riguardato solo ed esclusivamente il mercato unico dell'energia a livello europeo, senza curarsi invece del grande confronto concorrenziale dell'Europa con il mondo. Quindi abbiamo di fronte giganti come Gazprom, che vogliono venire a distribuire direttamente il gas nel nostro territorio. Abbiamo poi di fronte l'altro grande nostro fornitore di gas, che è l'Algeria. Il Parlamento algerino, proprio nelle ultime settimane, ha deciso un'altra svolta storica: ha rimesso in discussione la privatizzazione delle attività di upstream dei giacimenti e sta andando verso una rinazionalizzazione dei giacimenti delle materie prime.
La situazione quindi è piuttosto complessa ed è necessario che il Governo la affronti con grande realismo e senza approcci ideologici. Lo dico pur essendo favorevole e avendo lavorato nella precedente legislatura a favore del tema delle liberalizzazioni. In ogni caso, oggi abbiamo di fronte uno scenario internazionale che, come dicevamo, ci pone nella condizione di dover guardare sia la concorrenza interna al mercato europeo sia la concorrenza esterna dell'Europa nei confronti del mondo. Oltretutto, ci troviamo in uno scenario all'interno del quale il mercato unico dell'energia non si è compiuto. Noi, addirittura, abbiamo una Commissione europea che ha messo in mora 17 Stati membri - quasi tutti - per non aver recepito le prime due direttive nel campo dell'energia elettrica e del gas. Abbiamo di fronte un interlocutore, la Francia, che è stata messa in mora dalla Commissione europea perché ha deciso, attraverso una legge dello Stato, di subordinare ad una preventiva autorizzazione l'acquisizione da parte di investitori stranieri di un terzo e più del capitale sociale di società francesi operanti in undici settori sensibili, tra i quali l'energia. Quindi, si è trattato di una scelta altamente protezionista, che ha eletto undici settori simbolo nei confronti dei quali, per poterli rendere oggetto di attenzione finanziaria da parte di società europee od estere, ci si trova addirittura nella condizione di dover impedire e, quindi, di dover rilasciare una preventiva autorizzazione.
Noi siamo convinti che la rimozione di questo limite del 2 per cento proposto dal provvedimento in esame rappresenti il compimento di un percorso, ma che anche quest'ultimo debba essere più trasparente.
Il Governo deve comunicare al Parlamento qual è lo scenario nel quale si sta muovendo sia sul fronte internazionale extraeuropeo sia nell'applicazione dell'accordo che venne stipulato con la Francia il quale, come alcuni colleghi sottolineavano, prevedeva una serie di iniziative.
Inoltre, vale la pena ricordare che, recentemente, il 15 giugno, Endesa ha presentato alla Commissione europea (direzione generale sulla concorrenza), al Governo italiano ed alle autorità di regolazione del nostro paese un ricorso contro l'accordo tra Enel e EDF per l'ingresso nel mercato francese del gruppo italiano.
Bisogna capire se il Governo, alimentando il dibattito sulle liberalizzazioni, intende orientarsi verso un'opzione esclusivamente mercatista: teoricamente, quindi, lo stesso non dovrebbe neppure mettersi nella condizione di far violare le norme europee sulla concorrenza e non dovrebbe neppure preoccuparsi dei rapporti bilaterali Italia-Francia, ma dovrebbe scegliere la strada principale, facendola rispettare attraverso le decisioni di Bruxelles in una proiezione esclusivamente di libera concorrenza di mercato. Quindi, o comportarsi così o avviare un intervento statale riguardante i rapporti bilaterali delle imprese energetiche; in questo caso, è necessario chiarirsi sulla linea che il Governo intende seguire. È evidente, infatti, come gli accordi tra Stati producono delle norme inevitabilmente anticoncorrenziali; in questo caso, non ci


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si può ergere a paladini del liberismo. Comunque, se si scegliesse l'altra strada, in un mercato dove la reciprocità è assolutamente inesistente e le asimmetrie tra i mercati nazionali sono evidenti, non vi sarebbe la possibilità di immaginare un percorso che non veda qualcuno soggiacere alla dominanza di qualcun altro.
Siamo di fronte a questi interrogativi, quindi ripetiamo che per il Governo non può esser semplicistica la strada che intende sottolineare come questo provvedimento deve essere rimosso, perché non si è nelle condizioni di poterlo sostenere di fronte ad un contenzioso con l'Unione europea che potrebbe produrre una multa.
Vogliamo sapere qual è lo stato della trattativa in corso fra l'Italia e la Francia nell'applicazione di quel protocollo che si ricordava in precedenza riguardante la collaborazione in campo energetico.
Vogliamo, inoltre, conoscere lo stato dei rapporti con la Russia e quali aspettative vi siano, anche in relazione alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e se Enel ed Electricité de France stiano arrivando ad un'intesa e se essa contrasti con le norme concorrenziali o se avvenga nell'interesse del paese e dell'azienda.
Vogliamo che il Governo si ponga al più presto questi interrogativi, perché riteniamo che la politica energetica possa essere condivisa se ne è condiviso il percorso e la sua elaborazione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.

FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge all'ordine del giorno, per cui l'Assemblea aveva deliberato l'urgenza il mese scorso, risulta, come è emerso anche nel corso dell'esame in Commissione, un atto dovuto alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee.
Tutti noi abbiamo ben chiara l'importanza della normativa comunitaria nella nostra vita quotidiana, non solo per l'incidenza che ha sulle nostre attività ma, soprattutto, perché il nostro paese deve moltissimo ai vincoli imposti da Bruxelles. Con troppa facilità, spesso, si imputano all'Europa, in particolare alla moneta unica, molte delle responsabilità per le difficoltà economiche che ha attraversato il paese in questi anni. Alcune forze politiche, ora all'opposizione, hanno anche assunto in passato atteggiamenti antieuropeisti; a caccia di qualche voto in più hanno dato corpo ad un sentimento irresponsabile e potenzialmente dannoso per il futuro del paese.
Onorevoli colleghi, fatemelo dire: ricordiamo in quali condizioni erano le «casse» del paese nel 1992 e nel 1993? Se non vi fosse stato il Trattato di Maastricht con i suoi vincoli, se non vi fosse stata la rincorsa e lo sforzo per entrare nella moneta unica, in quali condizioni ci ritroveremmo oggi? L'Europa, cari colleghi, è certamente una risorsa ed una grande opportunità per il nostro paese. Questa consapevolezza è e deve continuare ad essere uno dei principali tratti caratteristici del Parlamento, dell'attuale Governo e del paese.
In proposito, ricordo il costante impegno che caratterizzò già il primo Governo Prodi, accompagnato in particolare dalle capacità dell'allora ministro Carlo Azeglio Ciampi, dei suoi collaboratori, che hanno consentito, insieme agli sforzi compiuti dai nostri cittadini, di raggiungere traguardi inimmaginabili solo fino a poche settimane prima e, alla fine, in fondo al percorso, hanno anche permesso di entrare, tra i primi, nella moneta unica provocando un immediato sollievo alla nostra economia.
Ora, ci troviamo in una situazione simile (non so dire se meno grave), certamente causata da chi ha preceduto il Governo Prodi e - mi rivolgo in particolare al Presidente - forse anche dalla famosa finanza creativa. Nonostante tutto, siamo fermamente convinti che il Presidente Prodi, insieme alla valida squadra di Governo che lo assiste e all'aiuto dei cittadini, sarà in grado di traghettarci fuori da questa nuova impasse economica, rimediando ancora una volta ai danni prodotti da cattive gestioni.
Troppo spesso, infatti, il nostro paese si è distinto per il mancato recepimento e


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rispetto della normativa comunitaria ed è proprio per questo motivo che l'Italia dei Valori esprime, oggi, apprezzamento per il Governo Prodi, che con il disegno di legge in esame dimostra di avere a cuore il rispetto, come paese, della normativa comunitaria.
Inoltre, i termini per l'adeguamento alla normativa comunitaria, e da ciò la necessità della dichiarazione d'urgenza, erano scaduti lo scorso 5 giugno e, in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui chiediamo sacrifici ai cittadini per il risanamento dei conti pubblici, sarebbe veramente clamoroso sperperare denaro pubblico nel pagamento delle sanzioni pecuniarie derivanti dall'inadempimento del nostro paese.
Il disegno di legge al nostro esame riguarda il tema dell'energia. Credo che sarà opportuno aprire un dibattito su una tematica così delicata, anche e soprattutto per il costo che andiamo a sopportare insieme ai nostri cittadini, che tanti problemi ha creato negli ultimi anni al paese. Non posso non pensare a quel black out notturno del settembre 2003, che lasciò la penisola al buio per troppe ore e poi ancora a tutti gli allarmi lanciati all'inizio di ogni estate dal gestore della rete elettrica. Ma la deliberata urgenza è dovuta alle motivazioni già ricordate. Oggi non ci consente di aprire questo dibattito.
Infatti, il Consiglio ha subito approvato questo disegno di legge per poter fare un passo avanti. La predisposizione del disegno di legge governativo di settore appare comunque auspicabile, anche perché una delle prime potenze mondiali non può permettersi il persistere di problematiche di questo tipo, che alla fine dimostrano una debolezza strutturale inaccettabile.
Una seria politica di buon governo dunque non può prescindere da una costruttiva politica industriale, soprattutto in una realtà come quella italiana che da sempre denuncia carenze con particolare riferimento ad alcune zone del nostro paese, che non riescono proprio a superare una depressione storica. Apprezziamo molto, quindi, l'intenzione del Governo, manifestata nel corso del dibattito che ha accompagnato il provvedimento nella Commissione per le attività produttive, di affrontare il problema energetico partendo dalla predisposizione di una seria politica industriale. Sarà su quel terreno che apriremo un confronto produttivo per riuscire là dove chi ci ha preceduto non ha risolto i problemi in campo.
Per tutte queste motivazioni preannuncio il voto favorevole dell'Italia dei Valori e l'espressione di un convinto apprezzamento nei confronti della politica del Governo, in particolare della linea intrapresa con riferimento al provvedimento oggi in esame.

PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Allasia e Lazzari, iscritti a parlare: s'intende vi abbiano rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Affronti. Ne ha facoltà.

PAOLO AFFRONTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge in esame si inserisce nel complesso tema della liberalizzazione e della reciprocità. Le disposizioni contenute nel disegno di legge rappresentano, infatti, una soluzione contingente al problema più vasto di una effettiva liberalizzazione del mercato dell'energia elettrica e del gas nel nostro paese, che verrà affrontato dal Governo con il disegno di legge a firma del ministro Bersani, già deliberato dal Consiglio dei ministri. Quando discuteremo quel provvedimento, auspichiamo che si possa affrontare in modo sistematico il problema di un organico riordino delle politiche energetiche nazionali; un reale processo di realizzazione che richiede infatti sin dall'inizio della legislatura grande determinazione e l'adozione di provvedimenti di carattere strategico.
In questo senso, occorre ricordare la debolezza delle politiche energetiche del Governo precedente, caratterizzate spesso dalla estemporaneità degli interventi, affidati in larga misura a decretazione d'urgenza, nonché all'assenza di una visione organica dei problemi connessi alla sostenibilità economica e alla compatibilità ambientale dell'approvvigionamento energetico.


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Nella passata legislatura si sono spese molte parole e poco si è realizzato. Il Governo precedente ha brillato per poca progettualità e per qualche black out, i cui effetti sono stati finalizzati alla emanazione di decreti-legge, che hanno consentito la produzione di energia in deroga alle norme sulle emissioni in atmosfera e in danno al territorio.
Tornando al merito del provvedimento in esame, esso prevede, in adempimento alle richieste della Commissione europea, l'abrogazione dei decreti-legge n. 192 del 2001 e n. 81 del 2005, non soltanto per evitare sanzioni pecuniarie, ma anche e soprattutto per garantire all'Italia una apertura effettiva del mercato, consentendo quindi la partecipazione alla gestione e al controllo delle nostre imprese, secondo i principi generali relativi all'esercizio del diritto di voto nelle società in condizioni di parità con la politica di liberalizzazione internazionale.
Il decreto-legge n. 81, infatti, sbloccava il tetto del 2 per cento ai diritti di voto della società francese Électricité de France in Edison, che era stato introdotto nel 2001 dal Governo Amato per tutelare l'interesse nazionale nel corso del tentativo di scalata dell'allora Montedison da parte di EDF. Tali limiti al diritto di voto erano stati imposti con il decreto-legge n. 192 del 2001 in un contesto del tutto diverso dall'attuale. L'obiettivo del Governo era quello di impedire un'operazione da parte di un soggetto straniero pubblico nei confronti del secondo gruppo elettrico italiano in assenza di ogni condizione di reciprocità.
Già nel 2001 queste erano norme che non avremmo mai voluto fossero emanate, ma le stesse erano conseguenza logica di quella che l'allora commissario Monti definiva eufemisticamente asimmetria tra i diversi livelli di apertura nei mercati dell'elettricità e del gas dei paesi membri dell'Unione europea. Erano norme che avremmo quanto prima dovuto eliminare sia per quello che esse certificavano, cioè gli squilibri gravi di mercato, sia perché avremmo conseguentemente voluto vedere approvate a livello europeo nuove norme che definissero reali condizioni di tutela dei mercati liberi e liberalizzati.
Eravamo consapevoli che ciò non era utile per l'immagine del nostro paese. Già nel 2001 era stato sollecitato ed avvertito il Governo che bisognava mettersi a lavorare da subito per abolire quelle norme che allora erano state introdotte per stato di necessità. Al contrario, il Governo precedente ha continuato a legiferare senza tener conto che, soprattutto in un settore delicato e specifico come quello dell'elettricità in cui esistono difficoltà, abbiamo offerto un'immagine non perfettamente serena e rispettosa dei regolamenti che noi stessi contribuiamo a predisporre a livello europeo, ma ciò fa parte di quel discorso di credere scarsamente nell'Europa, come è stato accennato prima.
Profonde e radicali trasformazioni hanno infatti investito nell'ultimo decennio l'intero settore sotto la crescente pressione di istanze di sviluppo e di liberalizzazione provenienti per un verso dai settori economici e produttivi nazionali e, per un altro verso, dall'Unione europea attraverso i vincoli di armonizzazione comunitaria. Interpretando tali istanze i Governi di centrosinistra avevano promosso un'estesa riforma del settore energetico mirata, in primo luogo, ad accrescere l'efficienza e la competitività nei mercati nazionali, anche attraverso l'avvio della privatizzazione dell'ENI e dell'Enel. Il principale punto di approdo di quel processo di riforma aveva coinciso, nella XIII legislatura, con l'emanazione dei cosiddetti dei decreti Bersani e Letta con i quali si è, di fatto, avviata la liberalizzazione dei mercati rispettivamente dell'energia elettrica e del gas naturale.
Restano ancora da affrontare compiutamente le questioni sia delle dotazioni energetiche e del parco di generazione, cioè il problema della produzione dell'energia nazionale, sia della definizione di norme di indirizzo idonee a risolvere, quanto meno nell'immediato, il consistente contenzioso costituzionale con le regioni che si è nel frattempo sviluppato.


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Quanto alle misure per favorire l'effettiva liberalizzazione del mercato energetico e garantire la tutela degli interessi generali e collettivi, l'aspetto cruciale rimasto tuttora aperto è quello dei costi dell'approvvigionamento energetico per le imprese e per i cittadini, costi ancora troppo alti. Non può infatti trascurarsi come la debolezza del nostro sistema risenta anche dell'elevata incidenza fiscale e della scarsa efficienza degli impianti produttivi di energia. Basti ricordare che le accise sui prodotti petroliferi arrivano a circa il doppio del valore della produzione.
Oggi una famiglia italiana paga quasi il 50 per cento di luce in più della media europea e tale sistema tariffario svantaggia ovviamente tutte le famiglie meno abbienti. Il divario con le tariffe europee aumenta ancora di più nel settore del gas, gravato da un'imposizione fiscale pesantissima, senza parlare del problema delle imprese. Di fronte a questi dati, non a parole ci stiamo occupando delle imprese e dei cittadini consumatori. Dobbiamo garantire una sovracapacità di approvvigionamento che ci consenta di avere la sicurezza dell'energia e, possibilmente, anche di ridurre i prezzi: questo ha detto nella recente audizione in Commissione il ministro Bersani. Tuttavia, il mercato dell'energia è europeo: quindi, o si costruisce insieme pian piano un sistema in cui la concorrenza sia equa, oppure non se ne verrà a capo e le nostre famiglie pagheranno sempre il 50 per cento di luce in più rispetto a quelle europee.
I processi di liberalizzazione e di apertura dei mercati sono, comunque, i principali catalizzatori di quel meccanismo virtuoso che, tramite la competizione, conduce alla discesa dei prezzi e, di conseguenza, all'accresciuta competitività delle imprese. Tuttavia, sappiamo che non basta affidarsi al mercato per ridurre le tariffe elettriche ed energetiche: da solo il mercato non è in grado di assicurare il funzionamento più efficace del sistema energetico. Non si può, quindi, fare quello che il Governo precedente ha fatto nella passata legislatura, cioè rinviare le scelte strategiche ed affrontare l'emergenza che tale rinvio inevitabilmente crea.
Infine, l'altra principale sfida della politica energetica nazionale deve consistere nell'integrazione della dimensione ambientale nei suoi obiettivi e nelle sue azioni, nel quadro della messa a punto di una politica energetica che sia duratura. Rimane per il legislatore nazionale l'esigenza di perseguire obiettivi specifici, che mirino a conciliare la competitività, la sicurezza dell'approvvigionamento e la tutela dell'ambiente nel settore energetico.
Le questioni ambientali sono ormai imprescindibilmente legate agli aspetti della nostra vita; il rispetto dell'ambiente e la sua conservazione sono un obbligo fondamentale a cui nessuno deve sottrarsi. A questo proposito, la politica energetica dovrebbe essere indirizzata ad identificare gli strumenti più idonei, ad incentivare le forme di risparmio energetico, a favorire la produzione energetica proveniente dall'uso delle fonti rinnovabili e a promuovere la ricerca e l'innovazione tecnologica di fonti energetiche che garantiscano una maggiore tutela ambientale.
Rispetto sì, ma senza esasperazioni, altrimenti ogni provvedimento non troverà mai sbocco positivo e finiremo per subire passivamente le decisioni di altri. In definitiva, noi Popolari-Udeur crediamo che il Parlamento debba riappropriarsi del controllo della politica energetica e legiferare di conseguenza, al fine di affrontare al più presto il tema di una seria politica industriale, che è strettamente legata a quella energetica. Dobbiamo inoltre cercare di comprendere le cause che portano le nostre famiglie e le nostre imprese a pagare una bolletta energetica molto più alta dei nostri partner europei ed agire prontamente per eliminare questa odiosa sperequazione che agisce come una palla al piede del nostro sviluppo economico (Applausi dei deputati del gruppo dei Popolari-Udeur).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bernardo. Ne ha facoltà.


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MAURIZIO BERNARDO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa sera affrontiamo l'esame di un disegno di legge necessario a seguito di una sentenza della Corte di giustizia, che ci porta poi ad osservare il dispositivo ed entra anche nel merito, secondo la Comunità europea, di una violazione dell'articolo 56 del Trattato istitutivo della stessa.
Mi riferisco alla parte che riguarda la libera circolazione dei capitali ed a quanto il precedente Governo decise di fare su una materia estremamente delicata. Tra l'altro, ho anche avuto occasione di leggere la prima e - successivamente, a fine legislatura - la seconda relazione della X Commissione sullo scenario delle politiche energetiche e di ciò che ha prodotto il precedente Parlamento, trovando anche una comunione di intenti da parte dei gruppi che lo rappresentavano allora.
Per quanto riguarda gli argomenti, i colleghi che mi hanno preceduto sono entrati nel merito di ciò che hanno significato i due decreti-legge, il primo approvato nel 2001 ed il successivo nel 2005, provvedimenti d'urgenza successivamente convertiti in legge, rispetto alla sospensione automatica del diritto di voto, e su ciò che il Governo Berlusconi immaginava di dover sostenere, difendendo il sistema paese ed immaginando che quella reciprocità di cui tanto si parla in questo periodo si potesse poi attuare attraverso provvedimenti di legge importanti, che difendevano posizioni italiane rispetto ad uno scenario che andava oltre i confini nazionali.
Oggi discutiamo di un argomento estremamente delicato, che già in diverse occasioni, in queste ultime settimane, ha avuto modo di essere approfondito in occasioni quali il workshop dell'Aspen Institute, il forum promosso dall'Economist e - non ultimo, e forse ancor più importante - il G8, occasione, quest'ultima, in cui sul tema delle politiche energetiche il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha avuto modo di soffermarsi, mettendo in evidenza anche le preoccupazioni espresse in alcune occasioni temporali a noi vicine - mi riferisco a ciò che stiamo vivendo oggi ed a ciò che potrebbe accadere nel corso dei prossimi mesi -, ossia che si possa verificare un disagio qualora non fossero poste in essere iniziative importanti e vere da parte di questo Governo riguardo ai temuti black out che nel corso degli anni, purtroppo, si sono già verificati.
Ciò anche perché dobbiamo comprendere le esigenze che il nostro paese ha in funzione della necessità di disporre di infrastrutture migliori. Mi riferisco all'esigenza di nuovi rigassificatori, di linee di interconnessione tra i paesi europei - quindi, in una visione globale dell'Europa e non in una visione di singolo paese o di rapporto di reciprocità tra lo Stato italiano ed un altro Stato -, di nuovi accessi al gas, nonché alla capacità di coniugare la tutela ambientale con la sicurezza energetica, aspetto, quest'ultimo, che comporta anche la necessità di diversificare le fonti di energia.
Devo anche aggiungere che non bisogna dimenticare - lo ricordavano alcuni colleghi che mi hanno preceduto - quali siano i canali di approvvigionamento - mi avvio alla conclusione - che riguardano, in particolar modo, quattro linee. Mi riferisco ai quattro metanodotti che contribuiscono alle esigenze del sistema paese, segnatamente a quelli provenienti dalla Russia, dall'Algeria, dalla Svizzera e dalla Libia. Ormai da diverse settimane, anche nel corso dell'audizione svolta con la partecipazione del ministro Bersani, si parla di comprendere meglio ciò che si potrebbe verificare riguardo a Gazprom, oltre a ciò che potrebbe nascere, e con quali realtà imprenditoriali italiane. Mi riferisco ad ENI, ad Enel ed alla grande aggregazione delle utilities, che forse anche l'onorevole Ruggeri ricordava in precedenza.
Il DPEF, a proposito proprio delle aggregazioni di utilities su materie che riguardano le politiche energetiche è certamente un motivo di riferimento. Resta da capire, da parte del Governo, quale sia l'intenzione reale della Russia e del colosso russo Gazprom, che ha ambizioni, più o meno legittime, di inserirsi nel mercato italiano. D'altro canto, vi è l'esigenza di entrare nel sistema di produzione e di estrazione. Ciò, anche perché parliamo


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di costi e di tariffe e di quanto le famiglie italiane e le nostre imprese devono sopportare in termini di costi fissi, con ripercussioni sulla competitività, argomento necessariamente collegato alla situazione del sistema energetico.
Pertanto, ritengo - e concludo - che esista la necessità per il Governo di intraprendere una politica di continuità rispetto al quinquennio precedente. Si deve evitare che gli interventi realizzati in altri Stati membri della Comunità europea e consistenti nel non lasciare gli spazi necessari alle imprese italiane possano verificarsi anche nel nostro Stato. È un discorso che non riguarda soltanto il sistema energetico, il sistema elettrico o del gas; quella reciprocità - che però la Corte a volte ha ricordato essere limitata a questioni riguardanti l'azionariato di impresa, e non ad un mercato vero - porta poi alcuni paesi a non rispettare delle regole che dovrebbero essere di tutti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barani. Ne ha facoltà.

LUCIO BARANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la Commissione europea ha deciso di invitare formalmente l'Italia a modificare la legislazione sull'esercizio dei poteri speciali nelle società privatizzate. La Corte di giustizia europea ha condannato l'Italia in quanto ritiene che alcune disposizioni della normativa italiana riguardanti gli investimenti nelle società privatizzate costituiscono restrizioni ingiustificate alla libera circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento in violazione delle norme del Trattato istitutivo della Comunità europea. Mi riferisco all'articolo 56 ricordato dall'onorevole Bernardo e, anche, all'articolo 43.
I diritti speciali, anche conosciuti come golden share, sono usati dai Governi per mantenere il controllo sulle imprese privatizzate, riservandosi diritti che vanno oltre quelli derivanti dalla normale partecipazione azionaria. Tali diritti, inoltre, permettono ai Governi di bloccare eventuali OPA, di limitare il diritto di voto e di opporre il veto ad importanti decisioni aziendali.
Il Trattato europeo consente eccezioni per ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica, salute pubblica e difesa; pertanto, l'obiettivo di proteggere alcune attività economiche può essere accertabile in casi specifici. La Commissione ha giudicato, però, eccessivo l'uso dei poteri speciali previsti dalla normativa italiana per raggiungere tali obiettivi; ha ritenuto che i criteri per l'esercizio di tali poteri siano vaghi e di portata indeterminata e pertanto danno al Governo italiano ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato. Ha ritenuto inoltre che le preoccupazioni di interesse pubblico, vale a dire garantire la fornitura di alcuni servizi di interesse generale, avrebbero potuto essere prese in considerazione mediante disposizioni alternative meno restrittive.
Comunemente, viene sostenuto che, dalla CECA all'Euratom, il progetto europeo è nato con il pretesto dell'energia; ancora comunemente, viene sostenuto che tale progetto rischia di perdere credibilità proprio a causa dell'atteggiamento protezionistico dei paesi membri del mercato energetico.
Eppure, noi sappiamo che il caso italiano non è unico e che numerosi, importanti paesi partner hanno sollevato il problema degli interessi vitali dello Stato. Ciò è accaduto, come si legge nelle recensioni ufficiali di siti di informazione europei, quando il 21 febbraio 2006 il colosso energetico tedesco E.On ha lanciato un'offerta di pubblico acquisto, l'OPA, su Endesa, importantissima società energetica spagnola operante sostanzialmente nel settore dell'elettricità. L'ingresso «a gamba tesa» dei tedeschi rappresenta un vero e proprio colpo di scena nella partita per la conquista della società madrilena e rischia di far sfumare il sogno del Governo spagnolo di dar vita ad un campione energetico nazionale. Le regole del gioco internazionali sono determinanti ma devono essere compatibili con ragionevoli interessi nazionali. Così si può sintetizzare la reazione del Presidente del Consiglio spagnolo


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Zapatero: «Comprendo perfettamente la volontà della Germania di avere un'impresa forte nel mercato nazionale, ma tutto il mondo deve capire che la Spagna vuole avere un'impresa forte nel settore energetico e nel mercato internazionale».
Zapatero ha messo a punto, in un arco di tempo veramente limitato - cosa che, credo, non siamo capaci di fare noi - un'efficace strategia di contrattacco, facendo approvare dal Consiglio dei Ministri alcuni provvedimenti legislativi in grado di impedire l'entrata del gigante tedesco nel settore energetico spagnolo, attraverso l'acquisto di Endesa.
Il primo provvedimento, il più criticato - e non solo a livello internazionale - ha comportato un ampliamento dei poteri della Commissione nazionale per l'energia, la CNE. Il Consiglio dei Ministri ha approvato la modifica della cosiddetta «funzione 14», in base alla quale è riconosciuto alla CNE il potere di esprimere il suo giudizio sulle operazioni di acquisizioni suscettibili di colpire gli interessi pubblici e strategici ed eventualmente di bloccare tale operazione ponendo il veto. La sfida dell'energia tra Germania e Spagna ha immediatamente mobilitato l'Europa. Agli scontri verbali hanno fatto poi seguito una serie di iniziative da parte della Commissione europea che non solo il 4 aprile scorso ha rinviato il Governo iberico alla Corte di giustizia per la legge spagnola del 1999, la quale viene considerata incompatibile con la legislazione comunitaria, ma ha anche aperto il 3 maggio scorso una procedura di infrazione contro la Spagna nella vicenda di E.On-Endesa. Si richiede a Madrid di modificare il decreto che, adducendo ragioni di sicurezza e di stabilità del sistema, conferisce alla CNE poteri di veto speciale riguardo ad operazioni volte a minacciare gli interessi strategici della Spagna.
Stesso discorso riguarda la Francia sul caso della golden share dello Stato nella Société Nationale Elf Aquitaine, per cui la Francia è stata condannata dalla Corte di giustizia, come l'Italia. In questo caso, il Governo francese ha sostenuto che l'approvvigionamento di prodotti petroliferi in caso di crisi sia garantito, da un lato, dal diritto alla requisizione delle riserve di petrolio grezzo della Société Nationale Elf Aquitaine all'estero e, dall'altro, dalle procedure di autorizzazione volte a mantenere in Francia il centro decisionale di tale società, che rientra nella pubblica sicurezza.
La tesi francese è quella che i prodotti petroliferi sarebbero essenziali per l'esistenza di uno Stato, poiché da essi dipenderebbe non solo il funzionamento della sua economia, ma soprattutto quello delle sue istituzioni e dei suoi servizi pubblici essenziali e, perfino - come nel caso della Francia - la sopravvivenza della popolazione.
Un'interruzione delle forniture dei prodotti petroliferi - e noi ne sappiamo qualcosa con la crisi ucraina - e i rischi che ne derivano per l'esistenza dello Stato potrebbero pertanto compromettere gravemente la pubblica sicurezza, a maggior ragione in quanto la Francia, in questo settore, dipende ampiamente dalle importazioni. Infatti, in caso di crisi grave, la Francia potrebbe efficacemente garantire la sicurezza dei suoi approvvigionamenti di prodotti petroliferi solo procedendo alla requisizione delle riserve di petrolio greggio che la Société Nationale Elf Aquitaine detiene all'estero; ciò sarebbe tuttavia possibile solo qualora il centro decisionale di tale società sia mantenuto in Francia. Non è secondario neppure il fatto che la posizione francese fosse sostenuta dalla Gran Bretagna e dall'Irlanda del Nord: mercato unico, interessi nazionali. Siamo quindi di fronte alla solita vecchia tensione che, sin dalla nascita, l'Europa si trova ad affrontare.
Ne è emblematica testimonianza la dichiarazione che il premier spagnolo e quello francese Villepin hanno fatto al termine di un incontro alla Moncloa. Essi hanno assunto una posizione comune contro le accuse di protezionismo, invocando una politica energetica europea fondata sulla creazione di grandi gruppi frutto, però, non di OPA ostili, ma di accordi, e al limite facendo in modo che sia garantita la sicurezza dei rifornimenti.


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«Difendiamo l'idea dell'Europa dei progetti ma è vero che vogliamo che questi progetti industriali siano portati a termine sulla base della cooperazione o della decisione amichevole tra i gruppi industriali».
Spagna e Francia sono, quindi, favorevoli ai gruppi europei ma da costituire nella maniera in cui si fanno le cose nell'Unione europea: con il dialogo e il fair play e mediante accordi. Sembra lecito chiedersi: vi è compatibilità fra il concetto di libero mercato e quanto proposto da Zapatero e de Villepin? Qual è la posizione che l'Italia ed il nuovo Governo Prodi dovrebbero sostenere?

PRESIDENTE. Onorevole Barani...

LUCIO BARANI. A ben guardare, vale la pena di soffermarsi a riflettere su un'altra questione che emerge da questa vicenda. Infatti, l'intervento del Governo spagnolo per impedire la realizzazione dell'operazione finanziaria contrasta, certamente, con il principio della libera circolazione dei capitali, affermato già nei Trattati di Roma con l'idea di dare vita ad un mercato unico ed integrato.
D'altro canto, l'acquisizione di Endesa da parte di Eon darebbe vita ad un vero e proprio colosso nel mondo dell'energia. Eon è la prima impresa tedesca del comparto e se l'offerta andrà a buon fine nascerà il più grande gruppo mondiale dell'energia, superando anche la francese EDF. Nascerebbe, così, di fatto, un potentissimo duopolio europeo governato da tedeschi e francesi, che lascerà alle spalle, come dimensioni, tutti gli attuali concorrenti del continente. L'emergere di un vero e proprio gigante nel settore energetico, quale sarebbe Eon qualora acquistasse Endesa, può dirsi compatibile con la creazione di un grande mercato concorrenziale? La liberalizzazione europea ha fatto affidamento, sin dall'origine, sull'idea che si potesse rafforzare la concorrenza all'interno dell'area, ottenendo una significativa diminuzione dei prezzi e rendendo il mercato più efficiente attraverso la moltiplicazione degli attori e l'agevolazione del loro accesso alla rete dell'operazione tradizionale.
È pur vero, come è stato accertato da tempo, che il settore energetico poco si presta ad un tipo di liberalizzazione quale quello sopra descritto. Le imprese energetiche, infatti, devono affrontare costantemente importanti investimenti sia al fine di migliorare e rimodernare le strutture esistenti sia per finanziare la ricerca e lo sviluppo, particolarmente importanti in questo settore. Tra l'altro, avere imprese energetiche rilevanti sul piano internazionale può rappresentare un'esigenza sul piano della sicurezza dei rifornimenti, con importanti implicazioni politiche ancor più che economiche. La questione risulta essere, evidentemente, molto complessa e delicata. Deve essere assolutamente affrontata con attenzione e serietà da parte dei Governi dei paesi membri.
Non è sufficiente, per l'Italia, ottemperare a quanto disposto dalla Corte di giustizia e, quindi, revocare le disposizioni di legge in materia. Non avremmo risolto problema. Infatti, è necessario - e in questo ci attendiamo risposte precise su quanto il Governo Prodi intenderà realizzare - procedere speditamente verso la creazione di una politica energetica comune che tuteli l'interesse di tutti gli Stati. Si tratta di un obiettivo difficilissimo da raggiungere. Infatti, siamo molto distanti da questa prospettiva, forse anche perché siamo lontani dal pensarci europei e dal cercare soluzioni comuni a problemi comuni, con l'intento di ottenere migliori risultati per tutti. L'Europa rimane quel «nano politico» che sta all'ombra del gigante economico.
Per questi motivi ci asterremo dall'esprimere un voto, perché riteniamo che, così facendo, il Governo è spronato a trovare tutte le soluzioni che i nostri cittadini si aspettano. Non possiamo più permetterci, infatti, di dipendere, in campo energetico, dal nucleare francese, svizzero, austriaco o sloveno o dall'approvvigionamento di gas proveniente dai quattro serbatoi e condutture citate dai colleghi.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Agrò. Ne ha facoltà.


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LUIGI D'AGRÒ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, non pensavo che un provvedimento legato quasi ad uno stato di necessità conducesse ad una discussione generalizzata sul tema dell'energia, come è avvenuto. Vale la pena comunque di svolgere una puntualizzazione, in quanto da questo provvedimento si dovrebbero trarre due o tre considerazioni.
La prima è che partiamo da una politica condivisa, nel senso che sui provvedimenti precedenti - sia il decreto Amato sia il decreto Marzano - entrambe le parti hanno condiviso il percorso. Quindi, si trattava di una norma che tutelava l'interesse nazionale.
Occorre domandarsi se, eliminata la tutela contenuta in tale norma, il sistema Italia è garantito dai venti che sul settore possono abbattersi. Il nostro paese, nel campo della privatizzazione del sistema energetico, è quello che in Europa ha compiuto più passi in avanti. Siamo stati i più bravi di tutti, anche se ciò non ha comportato immediati risultati in ambito tariffario. Ma la motivazione - come sappiamo - è dovuta a ben altri aspetti!
La cosiddetta asimmetria nei mercati dell'energia a livello europeo esiste fortissimamente ed è dimostrata dalla tendenza a costituire monopoli europei rispetto ai vecchi monopoli nazionali. Occorre evitare che ciò avvenga, mentre i grandi movimenti in atto nella politica energetica continentale testimoniano che le aziende egemoni tendono ad impadronirsi dei mercati locali. Pertanto, noi non dobbiamo diventare un mercato locale o, in caso contrario, dobbiamo avere anche la capacità di essere mercato dominante in altri settori della vita strategica del sistema Italia. Altrimenti, il rischio è quello di essere colonizzati.
Vorrei svolgere solo altre due considerazioni, in quanto ormai su questo provvedimento abbiamo già detto moltissimo.
Non so come il Governo intenderà muoversi in questo settore. Non credo che quanto previsto sull'IVA dal decreto Bersani-Visco costituisca la novità più appariscente di una politica energetica da parte del Governo appena insediato, né credo che tale decreto cambierà la strategia per quanto concerne i cosiddetti valori di fondo della politica energetica portati avanti in questi anni.
Ritengo che il problema sia il rapporto che anche questo provvedimento pone in essere, vale a dire come si riesce a contrattare a livello continentale la forza del nostro sistema.
Nella scheda di lettura redatta dal Servizio studi della Camera, si dice che l'abrogazione dei due provvedimenti non toglie, di fatto, la possibilità di tenere in piedi quanto previsto dal comma 29 dell'articolo 1 della legge n. 239 del 2004, riguardante il riordino del settore energetico, in base al quale, fino alla completa realizzazione del mercato unico dell'energia elettrica e del gas naturale, in caso di operazioni di concentrazione di imprese operanti nei mercati dell'energia elettrica e del gas cui partecipano imprese o enti di Stati membri dell'Unione europea, ove non sussistano adeguate garanzie di reciprocità, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro delle attività produttive e di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, può, entro trenta giorni dalla comunicazione dell'operazione all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, definire condizioni e vincoli cui devono conformarsi le imprese o gli Stati membri interessati, allo scopo di tutelare esigenze di sicurezza degli approvvigionamenti nazionali di energia.
Agganciandomi a questo aspetto di tutela del sistema energetico italiano, vorrei capire se sia quella indicata la «ciambella» su cui il Governo farà affidamento, appunto, nell'attività futura di tutela del sistema. Se non lo è, pur riconoscendo, ormai, che il mercato dell'energia dovrebbe essere di carattere continentale, il problema è quello di verificare se vi sia, anche nei rapporti bilaterali (in particolare, con quel colosso che, in qualche modo, è oggetto del provvedimento, per la reciprocità convenuta, ma mai dichiaratamente ed apertamente realizzata), una cosiddetta impuntatura.
Varrebbe la pena di verificare perché, se la situazione fosse quella ipotizzata,


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anche tutti quei progetti che erano stati indicati come fattori di reciprocità da parte di Enel in suolo francese verrebbero meno e ciò indicherebbe un'iniziativa effettivamente povera del nostro paese in materia di tutela di interessi particolari sull'importante scena quotidiana della tutela del servizio energetico nazionale.
Non credo che avremo difficoltà particolari come gruppo, anche se il compito di precisare la nostra posizione sul provvedimento in esame spetterà a chi farà la dichiarazione di voto finale. Tuttavia, attenderemo un segnale preciso da parte del Governo per quanto riguarda gli aspetti che sono stati sottoposti alla sua attenzione da numerosi colleghi, in particolare in ordine a ciò che sarà dopo l'abrogazione di quel 2 per cento che, in qualche modo, era stato congelato dai precedenti provvedimenti.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 1041)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Ruggeri, al quale mi permetto di segnalare che il tempo a sua disposizione è già stato consumato.

RUGGERO RUGGERI, Relatore. Signor Presidente, desidero ringraziarla per essere stato molto cortese e per avere evitato di essere «fiscale».
Penso di non dover replicare perché sul tema specifico c'è la condivisione di molti colleghi. In particolare, la Commissione ha sempre lavorato in modo bipartisan su questioni che meritavano, in precedenza ed anche oggi, un lavoro comune. Grazie.

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

ALFONSO GIANNI, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Signor Presidente, anche se brevemente, in considerazione dell'ora, ritengo doveroso svolgere qualche considerazione poiché gli onorevoli colleghi hanno più volte richiesto l'esplicitazione di un nostro punto di vista su argomenti da loro trattati.
Naturalmente, siamo di fronte ad un disegno di legge dalla portata molto limitata non solo dal punto di vista quantitativo, il che è ovvio, ma anche da quello qualitativo. Originariamente, esso faceva parte di un provvedimento più ampio che ha cominciato il suoi iter parlamentare presso il Senato. Si tratta di un disegno di legge delega che ci permetterà di discutere l'argomento dell'energia, nei due rami del Parlamento, in maniera certamente più ampia e più appropriata di quanto non ci consenta di fare l'esame del disegno di legge n. 1041.
Tuttavia, va precisato che, mediante il disegno di legge in esame, rispondiamo positivamente ad una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee: lo facciamo con urgenza, considerati anche i tempi che sono stati fissati dalla medesima Corte, per evitare di pagare pesanti sanzioni che ricadrebbero sull'erario e, di conseguenza, sui cittadini; lo facciamo nell'unico modo possibile, che è quello di abrogare quanto era stato previsto dal decreto-legge del 2001 e successivamente modificato, con temperamenti, nel 2005. Proprio il tentativo di temperare la norma, operato nel 2005, non è stato considerato sufficiente da parte della Corte di giustizia per far cadere le sue obiezioni. Quindi, l'idea di riproporre una normativa solamente modificativa e non abrogatoria non avrebbe risposto all'emergenza di far fronte alle sanzioni della Corte europea.
È corretto, dunque, dire, come hanno detto alcuni colleghi, che l'approvazione di questo disegno di legge praticamente si presenta come un atto dovuto, il che significa, per ragioni logiche - ma lo voglio sottolineare - che la sua approvazione non pregiudica in alcun modo, né in negativo né in positivo, una più ampia discussione, che va fatta, sulla politica energetica del nostro paese nel contesto internazionale. Questa discussione che dobbiamo fare e che più opportunamente


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e proficuamente comincerà a prendere corpo sull'altro disegno di legge delega che il nostro Ministero ha già presentato (ed attualmente è al Senato) riguardante la liberalizzazione della fornitura del gas e misure per lo sviluppo della produzione energetica tramite fonti rinnovabili, ci permetterà di entrare nel vivo in un percorso a coronamento del quale, a mio parere, bisognerà giungere a determinare una conferenza nazionale sull'energia, cosa che il precedente Governo non ha fatto, in modo tale da valutare con i diversi soggetti interessati l'effettiva necessità per il nostro paese nonché quanto serve per essere presenti nel mercato internazionale e, quindi, definire un piano energetico nazionale nel rispetto del Protocollo di Kyoto che costituisce un impegno sovradimensionante per tutti i paesi - o almeno dovrebbe esserlo per tutti i paesi -, certamente per il nostro che lo approva.
Dico questo non per sottrarmi a tutti gli stimoli emersi nella discussione, ma per cercare di ricollocarli in un ambito dove possano trovare una migliore soddisfazione. Vorrei però sottolineare che, anche se un po' apoditticamente, non c'è dubbio che la questione energetica è la questione centrale per le politiche dello sviluppo economico su scala mondiale, che diversi soggetti pubblici e privati si stanno riposizionando nel mercato mondiale dell'energia e che il nostro Governo non può stare a guardare passivamente questi fenomeni.
Nello stesso tempo, a me appare chiaro che non si può affrontare la questione energetica con vecchie strumentazioni analitiche, peggio ancora ideologiche. Lo dimostra la vicenda qui richiamata da diversi colleghi del Governo francese e del Governo spagnolo, l'uno per difendere il proprio campione nazionale e l'altro idem, nel caso della Spagna, Endesa.
Richiamo questa circostanza perché i due Governi hanno un colore politico diverso (secondo la logica dell'alternanza, si potrebbe dire persino opposto); eppure entrambi, e con una significativa contemporaneità, hanno deciso di adottare misure forti e in alcuni casi di carattere legislativo per difendere i loro campioni nazionali da tentativi di scalata che derivavano da altri campioni nazionali di altri paesi europei.
Comprendo perciò la preoccupazione che, in modo generale, diversi colleghi hanno espresso, ossia che il provvedimento n. 1041, doveroso per le ragioni che abbiamo già detto, possa disarmare il nostro paese da tentativi di scalata nei confronti delle aziende produttrici di energia. Allora, su questo devo cercare di essere obiettivo e preciso.
L'onorevole Saglia ci ha chiesto come ci comporteremo con la Francia. Salvo invitare gli onorevoli colleghi che desiderano maggiori approfondimenti ad interrogare specificatamente il Governo su questo punto, come ho già fatto in Commissione, posso solo rispondere che sono in corso rapporti tra Enel e Suez e che le azioni intervenute da parte del Governo francese non hanno creato situazioni particolarmente drammatiche nelle relazioni tra i nostri paesi.
Non vi è ombra di dubbio che il provvedimento che vi chiediamo di approvare ha proprio quelle caratteristiche che permettono alle nostre imprese di agire sul mercato internazionale in una condizione di piena e totale legittimità e di acquisire - se riescono - quote o partecipazioni in società estere. Quindi, ciò che oggi facciamo è funzionale a una presenza più attiva dell'Italia nel mercato internazionale.
Nello stesso tempo, l'approvazione di questo disegno di legge non disarma il nostro paese per quanto riguarda la situazione interna. Infatti, come ha ricordato il collega D'Agrò, rimane in vita la norma prevista nella cosiddetta legge Marzano bis: faccio riferimento al comma 29, dell'articolo 1, della legge n. 239 del 2004, che permette al Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministero dello sviluppo economico, entro 30 giorni dalla comunicazione dell'operazione all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, di definire condizioni e vincoli cui devono conformarsi le imprese o gli enti degli Stati membri interessati allo


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scopo di tutelare esigenze di sicurezza degli approvvigionamenti nazionali di energia ovvero la concorrenza dei mercati.
Per onestà, devo dire che vi è anche chi in campo giuridico ritiene - ma non è il parere personale di chi vi parla, se mi è permesso esprimerne uno - che una norma di questo genere non potrebbe essere «agita», senza incorrere in obiezioni, ai sensi del Trattato costituzionale europeo. Tuttavia, la norma rimane in vigore. Essa è, comunque, un deterrente e rappresenta un'eventualità cui possiamo ricorrere e che ci permette, nelle pieghe di una legislazione più ampia e solida, di non rimanere senza la dovuta protezione.
Certamente, concordo sulla necessità di adottare altri provvedimenti all'interno di un piano energetico nazionale, ma evidentemente ciò richiede un'ulteriore discussione e riflessione che consiste esattamente nel governare prestando attenzione ai problemi reali del nostro paese e alla sua collocazione nella politica internazionale.
Detto ciò - come affermava il collega Zipponi, riferendosi con una battuta alla situazione francese - richiamando la norma contenuta nella cosiddetta legge Marzano bis - non pretendiamo di riportare la Gioconda in Italia. D'altro canto, ciò è già stato fatto circa cento anni fa da parte di un imbianchino italiano che la rubò e tentò di venderla in quel di Firenze, nell'hotel che allora si chiamava Tre Scalini e che ora si chiama La Gioconda. L'operazione di questo nostro astuto compatriota è esattamente il valore aggiunto che ha permesso alla Gioconda di essere il quadro più bello del mondo, probabilmente non essendolo di suo, ma a causa di questi avvenimenti storici che hanno arricchito la curiosità mondiale. Ciò per dire che il Governo non intende competere con quello storico imbianchino cui rimarrà per l'eternità questo merito unico e irripetibile.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Mercoledì 19 luglio 2006, alle 9,30:

1. - Seguito della discussione delle mozioni La Russa ed altri n. 1-00011, Elio Vito ed altri n. 1-00013 e Sereni ed altri n. 1-00014 in materia di missioni italiane all'estero.

2. - Seguito della discussione del disegno di legge (per la discussione degli articoli e per la votazione degli articoli, degli emendamenti e degli ordini del giorno):
Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali (1288-A).
- Relatori: Ranieri (per la III Commissione) e Pinotti (per la IV Commissione).

(ore 15)

3. - Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata.

(ore 16,30)

4. - Votazione finale del disegno di legge:
Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali (1288-A).
- Relatori: Ranieri (per la III Commissione) e Pinotti (per la IV Commissione).

5. - Discussione della domanda di autorizzazione a eseguire la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del deputato Adolfo (Doc. IV n. 2-A).
- Relatore: Paniz.


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6. - Discussione della domanda di autorizzazione a eseguire la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del deputato Fitto (Doc. IV n. 3-A).
- Relatore: Giovanardi.

7. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Abrogazione delle norme in materia di partecipazioni in società operanti nel settore dell'energia elettrica e del gas naturale (1041).
- Relatore: Ruggeri.

La seduta termina alle 21,10.

TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO ROBERTA PINOTTI SUL DISEGNO DI LEGGE N. 1288

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Il provvedimento che giunge oggi all'esame dell'Assemblea è stato discusso in sede congiunta dalle Commissioni esteri e difesa a partire dal 6 luglio. È stato posto alla nostra attenzione all'inizio di una nuova legislatura e ciò ha comportato anche l'opportunità di una riflessione complessiva sugli indirizzi di sicurezza e difesa del nostro paese e sull'insieme degli impegni militari che l'Italia ha nel tempo contratto sullo scenario internazionale. Colgo l'occasione per inviare a nome di tutti i parlamentari delle Commissioni un saluto affettuoso e riconoscente a tutti i nostri militari impegnati nelle missioni all'estero, per la generosità e la professionalità con cui svolgono il loro dovere.
Nella mutata realtà internazionale i concetti di sicurezza interna e internazionale così come le iniziative di politica estera e militari sono sempre più interdipendenti. Ecco quindi l'opportunità di affrontare contestualmente alla discussione di questo provvedimento la discussione e la votazione di atti di indirizzo come quelli presentati ieri in aula, che formalizzino la volontà del Parlamento e diano allo stesso Governo le direttrici strategiche su cui condurre la propria iniziativa sulla base della necessaria legittimazione internazionale nelle sedi e nelle organizzazioni di cui l'Italia fa parte: l'ONU, l'Europa, la NATO. È questo un obbligo che il nostro paese deve sentire vincolante per due fondamentali motivi. Il primo trova la sua ragion d'essere nel nostro dettato costituzionale. L'altro nella spinta che in questa direzione prepotentemente esercitano l'interdipendenza e la globalizzazione dei fattori che condizionano ormai le relazioni tra gli Stati e la politica internazionale. A ricordarcelo ancora una volta, ammesso che ce ne fosse bisogno, è la drammaticità delle immagini che entrano nelle nostre case da Beirut, da Haifa, dalla striscia di Gaza. La stessa agenda del G8 - convocata su temi cruciali per la comunità internazionale quali sono appunto quelli della sicurezza, della lotta al terrorismo, dell'energia, della non proliferazione nucleare - è diventata altra cosa di fronte al rischio concreto di una nuova guerra in Medio Oriente.
Ecco perché vanno quindi sostenuti con forza l'appello del G8 e l'iniziativa avviata dal Governo italiano in quella stessa direzione.
Le «Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali», contenute nell'atto Camera n. 1288, sono state discusse con serietà e larga partecipazione nei lavori di Commissione.
È stato un impegno serio segnato anche da uno sforzo organizzativo che tenesse in conto le diverse emergenze del lavoro parlamentare. Proprio per questo occorre dare atto della buona volontà di tutti i componenti delle Commissioni, che ha consentito di superare le difficoltà procedurali e organizzative per garantire, comunque, tempi adeguati per la discussione, come dimostra il fatto che sono state svolte, nei limiti delle disponibilità degli auditi, tutte le audizioni richieste ed è stato realizzato in video conferenza un collegamento con i comandi militari a Kabul e ad Herat. Durante la discussione in Commissione sono apparse chiare le linee guida di politica estera seguite dal Governo italiano. I rappresentanti del Governo


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hanno ampiamente illustrato tali linee e sono sotto gli occhi di tutti sia gli elementi di continuità sia quelli di discontinuità con il recente passato. L'Italia sceglie di muoversi nell'ambito degli organismi multilaterali di cui fa parte, facendosi carico delle responsabilità derivanti da un mondo ormai globalizzato, al contempo rifiutando però impegni di tipo unilaterale, nel pieno rispetto, come già detto, del dettato costituzionale.
Va precisato che le norme in discussione hanno un duplice contenuto: da un lato definiscono lo stato giuridico, il trattamento economico e la giurisdizione da applicare al personale inviato nelle missioni internazionali. Dall'altra «autorizzano» la partecipazione delle nostre Forze armate alla missione, definendone lo status internazionale e i compiti principali.
Così è per prassi normativa in uso da tempo. Una prassi legittima che può però essere migliorata ove le due tematiche venissero, dal punto di vista normativo, separate. Non vi è infatti alcuna necessità, dal punto di vista legislativo, di ridefinire periodicamente le norme che regolano gli aspetti del personale (trattamento giuridico ed economico) che, sia detto per inciso, vengono - con la stessa periodicità - riconfermate nei loro contenuti. Questa materia potrebbe quindi essere definita da una legge quadro.
Resta intatta invece l'assoluta necessità di lasciare nelle mani del Parlamento la decisione sulla partecipazione a missioni internazionali, per tutto ciò che riguarda non solo la durata e i compiti, come si è fatto sinora, ma anche gli obiettivi, la valutazione dei risultati, le regole e la legittimazione internazionale dentro le quali può essere consentito l'uso della forza militare.
Desta preoccupazione, infine, nella coscienza giuridica cui è ispirato il nostro stato di diritto il permanere di norme tratte dal codice penale militare di guerra. Risultano presentati emendamenti intesi a sopprimerne l'applicazione nelle missioni Antica Babilonia, Enduring Freedom e ISAF. Mi auguro che l'Assemblea approvi questa soppressione, e rivolgo quindi una precisa sollecitazione al Governo affinché predisponga un provvedimento che, facendo propri i principi e gli istituti del diritto umanitario e i profili di responsabilità dei militari impiegati in missioni armate, senza ricorrere al codice penale militare di guerra, garantisca tutti i soggetti - i militari, i civili e le popolazioni locali - disciplinando organicamente, mediante un apposito codice, i profili penali concernenti le particolari situazioni di impiego dei contingenti militari armati all'estero. Ricordo che i codici in vigore risalgono al 1941.
Nel contenuto, il disegno di legge che stiamo esaminando autorizza la prosecuzione di tutte le missioni internazionali delle Forze armate e delle Forze di polizia, che per semplicità possono essere ricomprese in tre grandi gruppi: l'area dei Balcani, Iraq e Afghanistan, altre parti del mondo. Si individua per ciascuna di esse il costo previsto e il termine temporale di differimento e si autorizzano tre nuove missioni. L'articolo 2 del provvedimento stabilisce invece la conclusione della nostra partecipazione militare in Iraq con la missione Antica Babilonia.
Iraq: il provvedimento dispone il rientro del contingente militare e contestualmente la prosecuzione dell'opera di stabilizzazione, ricostruzione e cooperazione e per queste attività stanzia 33 milioni di euro contro i 19 milioni del semestre precedente. Si tratta di uno stanziamento ancora lontano dalle effettive necessità dopo che la guerra e il terrorismo hanno distrutto il paese, ma è la parte di cui si fa carico l'Italia, proprio a concretizzare sotto altre forme la continuità del nostro impegno come concordato con lo stesso governo iracheno. La fine della missione militare in Iraq prevista nel programma elettorale del centrosinistra è stata decisa attraverso un'ampia iniziativa diplomatica che ha coinvolto tutti i soggetti interessati, rinunciando a scorciatoie unilaterali. Il rientro del nostro contingente avviene in un quadro accettato dal governo iracheno e dai nostri alleati e, sul piano operativo, si realizzerà con ordine, avendo attenzione alla massima sicurezza di tutti, secondo


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modalità decise dai nostri comandi militari, della cui professionalità e capacità abbiamo avuto già ampie prove. Si autorizza, quindi, fino al 31 dicembre 2006, la spesa per la prosecuzione della partecipazione di esperti militari italiani alla riorganizzazione dei Ministeri della difesa e dell'interno iracheni, nonché alle attività di formazione e addestramento del personale delle Forze armate irachene.
In coerenza con gli stessi principi e condividendo le preoccupazioni che molti parlamentari hanno espresso su una situazione di permanente difficoltà in Afghanistan, ritengo che nelle sedi internazionali e negli organismi multilaterali, di cui l'Italia fa parte, debba essere avviata una seria e puntuale riflessione su come continuare ad aiutare quel paese a consolidare l'esperienza democratica appena avviata. C'è bisogno di una forte iniziativa politico-diplomatica. Gli obiettivi proposti dalla risoluzione dell'ONU, di per sé già difficili da raggiungere in un contesto segnato da retaggi tribali e conflitti interni, divengono ancor più problematici perché è in atto un'attività terroristica e larga parte del paese è protagonista e vittima della coltivazione dell'oppio e dei traffici ad essa collegati. La questione dell'oppio, come la situazione di generale instabilità del paese, non può essere sottovalutata ed anzi diventa condizione necessaria per qualunque progetto di ricostruzione e normalizzazione istituzionale e civile del paese.
Tali considerazioni testimoniano l'esigenza di una discussione più approfondita dell'intera situazione afgana in Parlamento e nell'ambito delle organizzazioni internazionali a cui partecipa il nostro paese. È evidente che alla presenza militare deve essere affiancata una più incisiva strategia politica, economica e umanitaria in grado di corrispondere ai bisogni più urgenti della popolazione e alle attese della società afgana.
Le condizioni di sicurezza restano in Afghanistan molto precarie, si sono moltiplicati negli ultimi mesi attentati anche contro obiettivi civili registrando in tal senso una ripresa dell'attività dei gruppi armati e delle milizie talebane che rendono difficili anche gli interventi primari di ricostruzione.
Per quanto riguarda l'Afganistan, si prevede l'autorizzazione fino al 31 dicembre 2006, con una spesa di oltre 136 milioni di euro (quasi 149 milioni nell'ultimo decreto di differimento) per la proroga della partecipazione di personale militare alla missione internazionale International Security Assistance Force (ISAF). La partecipazione italiana a tale missione è iniziata il 10 gennaio 2002.
Ricordo che ISAF è stata costituita a seguito della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1386/2001 che, come previsto nell'Allegato 1 all'Accordo di Bonn, ha autorizzato la costituzione di una forza di intervento internazionale con il compito di garantire, nell'area di Kabul, un ambiente sicuro a tutela dell'allora autorità provvisoria afghana.
Il mandato iniziale, di sei mesi, è stato successivamente rinnovato dalle risoluzioni nn. 1413/2002, 1444/2002 e 1510/2003. La risoluzione n. 1510 del 13 ottobre 2003, oltre a prorogare il mandato per un periodo di dodici mesi, autorizza la riorganizzazione delle attività di ISAF. Alla missione prendono parte circa 5.500 uomini di trentuno nazioni diverse, il 95 per cento dei quali provenienti da paesi NATO.
Il contingente italiano ha il compito di provvedere alla sicurezza del Comando della missione e alle attività di bonifica da ordigni esplosivi o da armi chimiche. Esso è costituito, oltre che da unità dell'Esercito e dei Carabinieri di stanza a Kabul, anche da un nucleo dell'Aeronautica militare presente ad Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti).
Il 16 aprile 2003 il Consiglio Nord Atlantico (NAC) ha deciso l'assunzione, da parte della NATO, del comando, del coordinamento e della pianificazione dell'operazione ISAF, senza modificarne nome, bandiera e missione.
La decisione è stata resa operativa 1'11 agosto 2003, con l'assunzione della guida della prima missione militare extraeuropea dell'Alleanza Atlantica.


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La guida politica è esercitata dal NAC, in stretto coordinamento con i paesi non NATO che contribuiscono all'operazione. Il vertice NATO di Istanbul di giugno 2004 ha deciso il rafforzamento della presenza militare in Afghanistan, in occasione delle elezioni presidenziali che si sono tenute il 9 ottobre 2004. L'Italia, per consentire lo svolgimento della consultazione elettorale, ha potenziato il proprio contingente con l'invio, da metà settembre a metà novembre 2004, di 500 alpini del battaglione Susa. Da ultimo, il decreto-legge n. 10 del 2006 ha prorogato il termine della partecipazione italiana al 30 giugno 2006.
La missione, ora a guida NATO, in linea con le citate risoluzioni dell'ONU, ha il compito di assistere il governo afgano al fine di realizzare e mantenere un ambiente sicuro favorendo lo sviluppo istituzionale e creando le condizioni per estendere l'autorità del governo a tutto il paese.
La missione, inoltre, mira a consolidare le istituzioni politiche afgane e ad accelerare la riforma del settore della giustizia e a promuovere i diritti dell'uomo e lo sviluppo economico e sociale.
La campagna militare che ha portato all'abbattimento del regime talebano è stata condotta dagli Stati Uniti e da una coalizione ad essi collegata con l'operazione Enduring Freedom.
All'operazione partecipano sia paesi dell'Alleanza atlantica sia paesi non facenti parte della NATO. Dopo gli attentati di New York e Washington, il Consiglio atlantico, il 3 ottobre 2001, ha riconosciuto, per la prima volta nella storia dell'Alleanza, le condizioni per l'applicazione dell'articolo 5 del Trattato. Contestualmente il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha approvato due risoluzioni in materia di lotta al terrorismo internazionale: la risoluzione n. 1368 del 12 settembre 2001, che condanna gli attacchi terroristici ed esprime la disponibilità a prendere tutte le misure necessarie per rispondere a tali attacchi; la risoluzione n. 1373 del 28 settembre 2001, che riafferma, tra l'altro, il diritto all'autodifesa. Le operazioni militari, iniziate il 7 ottobre con una serie di attacchi aerei contro obiettivi militari e basi terroristiche in territorio afgano, sono proseguite nei due mesi successivi provocando la caduta del regime talebano.
L'operazione Enduring Freedom si propone attualmente di realizzare la definitiva pacificazione e stabilizzazione del paese, di definire d'intesa con gli altri paesi della coalizione, gli strumenti necessari a prevenire il riemergere del terrorismo e a supportare le operazioni umanitarie, nonché l'addestramento dell'esercito afgano. In Afghanistan convivono come è noto due missioni: ISAF ed Enduring Freedom, che pur essendo tra loro coordinate, operano con modalità diverse. La prospettiva di una loro unificazione sotto ISAF ha molti aspetti problematici che sollecitano quindi un serio approfondimento a livello internazionale.
Sotto la missione Endurig Freedom sono state svolte attività navali nell'area del mare arabico e del Mediterraneo orientale.
In tal senso è utile precisare che in questo quadro l'Italia ha partecipato all'operazione dal 18 novembre 2001 con un Gruppo navale d'altura composto dalla portaeromobili Garibaldi, da due fregate e da una rifornitrice di squadra. Successivamente, l'impegno italiano si è ridotto prima a due unità (un cacciatorpediniere e una fregata) e poi ad una fregata, la Euro, presente fino al 28 giugno, affiancata per un breve periodo da un'altra unità. Dal 15 marzo al 15 settembre 2003 è stato operativa in Afganistan la Task Force «Nibbio», costituita dal circa 1.000 unità dell'Esercito, con il compito di effettuare attività di interdizione d'area nella zona di Khowst, al confine tra Afganistan e Pakistan, impedendo infiltrazioni di talebani e di terroristi. Si sono alternati nell'area gli alpini della Brigata «Taurinense» ed i paracadutisti della Brigata «Folgore». La situazione operativa in cui furono chiamati ad operare registrò anche nella discussione parlamentare molta preoccupazione.
Dal gennaio 2003 al dicembre 2004 la componente navale italiana ha operato nell'ambito della forza marittima europea


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EUROMARFOR che, con l'operazione Resolute Behaviour, ha svolto nella zona del Corno d'Africa e del Golfo Arabico compiti di identificazione, sorveglianza e riconoscimento, eventualmente di operazioni di interdizione marittima e operazioni di interdizione della Leadership, nonché di monitorizzazione di eventuali traffici illeciti. Attualmente oltre a 8 uomini dell'Esercito presenti presso il Comando USA di Tampa in Florida, dove ha sede il quartier generale del comando centrale statunitense, che esercita la responsabilità operativa delle forze in campo, è presente nell'area delle operazioni la fregata Euro che, unitamente ad unità delle Marine USA e tedesca, costituisce la Task Force 150 (TF 150) incaricata di svolgere operazioni di interdizione e contrasto navale, controllo del traffico marittimo, scorta di unità della coalizione.
Da ultimo, il decreto-legge n. 10 del 2006 ha prorogato il termine della partecipazione italiana al 30 giugno 2006. Alla data del 5 giugno 2006, il contingente italiano ammontava, oltre ai citati 8 militari dislocati in Florida, a 240 unità della Marina militare.
Il disegno di legge autorizza, fino al 31 dicembre 2006, la spesa di 25.569.180 milioni di euro per la proroga della partecipazione di personale e mezzi della Marina militare italiana alla missione multinazionale già denominata Resolute Behaviour, operante nel quadro della missione Enduring Freedom, e alla missione della NATO Active Endeavour ad essa collegata.
Stando alla relazione governativa, la spesa complessiva della missione sembrerebbe riferita anche alla presenza di una fregata che, soltanto ipotizzata (e quindi non dotata della relativa copertura finanziaria) nel provvedimento di proroga della missione per il primo semestre 2006, è stata di fatto impiegata a partire dal mese di febbraio. Al momento, e più esattamente in data 28 giugno è stata fatta rientrare dal mare arabico la fregata Euro (unità della classe Maestrale con spiccate capacita e dotazioni per il combattimento contro sottomarini, navi e aerei). Sotto la stessa data l'Italia ha assunto, con 1'ammiraglio Ruzitto il comando della 152a task force che opera nel Golfo Persico e sono state schiera due unità: nave Etna (nave appoggio con capacità logistiche ed ospedaliere) e nave Foscari, un pattugliatore armato di un cannone e due mitragliatrici con capacita belliche decisamente minori rispetto a quello dello schieramento precedente.
Per quanto riguarda le altre missioni, ricordo che nel teatro balcanico l'impegno italiano è decisamente considerevole ed anche il più ampio per il numero di personale impiegato che assomma a 3378 unità. Il processo di riorganizzazione politica nei Balcani pone tuttora la comunità internazionale davanti a problemi di non facile soluzione, ma proprio per questo è evidente che appare obbligato un percorso che apra agli Stati che si sono formati dopo la disgregazione dell'ex Jugoslavia la prospettiva e l'opportunità di essere parte dell'Unione europea. È dentro questa cornice che può svilupparsi con successo una iniziativa politico-diplomatica come quella che i1 Governo italiano è impegnato a portare avanti.
Per quanto concerne specificatamente le missioni in atto, in particolare quella nei Balcani, ricordo che quelle sotto comando NATO sono le seguenti: Multinational Specialized Unit (MSU) svolta da carabinieri, insieme ad appartenenti a forze di polizia militare di altri paesi, in Kosovo, con compiti di mantenimento dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, a supporto delle autorità locali, e per il reinserimento dei rifugiati; Joint Enterprise, svolta da forze militari, nell'area balcanica, con compiti di attuazione degli accordi sul cessate il fuoco, di assistenza umanitaria e supporto per il ristabilimento delle istituzioni civili; Criminal Intelligence Unit (CIU), svolta da carabinieri, in Kosovo, con compiti di intelligence contro la criminalità; Albania 2 svolta in Albania dal 28o gruppo navale, con compiti di sorveglianza delle acque territoriali albanesi, al fine di prevenire e contenere il fenomeno dell'immigrazione clandestina in Italia.


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Nel sottolineare come le missioni sotto la responsabilità dell'Unione europea rappresentino anche un significativo banco di prova delle capacità militari dell'Unione di intervenire con risorse proprie, ricordo che esse sono costituite dalle seguenti: ALTHEA in Bosnia-Erzegovina, volta a contribuire al mantenimento delle condizioni di sicurezza per l'attuazione dell'accordo di pace di Dayton; European Union Planning Team (EUPT) in Kosovo, che vede la partecipazione di personale dell'Arma dei carabinieri; Temporary International Presence in Hebron (TIPH 2), dove opera una forza multilaterale con il compito di contribuire alla sicurezza del territorio mediante attività di monitoraggio e osservazione; European Union Border Assistance Mission in Rafah (EUBAM Rafah), con finalità di assistenza alle frontiere per il valico di Rafah. La missione, collocandosi nel più ampio contesto degli sforzi compiuti dall'Unione europea e dalla comunità internazionale per sostenere l'Autorità nazionale palestinese nell'assunzione di responsabilità per il mantenimento dell'ordine pubblico, è volta a contribuire allo sviluppo delle capacità palestinesi di gestione della frontiera a Rafah, nonché ad assicurare il monitoraggio, la verifica e la valutazione dei risultati conseguiti nell'attuazione degli accordi in materia doganale e di sicurezza; AMIS II, ovvero la partecipazione di personale militare alla missione dell'Unione europea di supporto alla missione dell'Unione africana nella regione del Darfur in Sudan, denominata per il rispetto dell'accordo sul «cessate il fuoco» fra le due parti in lotta, siglato l'8 aprile 2004, e la protezione degli osservatori; EUPOL Kinshasa, missione di polizia dell'Unione europea nella Repubblica democratica del Congo, con funzioni di controllo, guida e consulenza dell'unità integrata di polizia (IPU) costituita a Kinshasa, nell'ambito della forza di polizia locale, con finanziamenti del Fondo europeo di sviluppo e con ulteriori contributi dell'Unione europea e degli Stati membri; EUFOR RD CONGO, missione militare dell'Unione europea nella medesima Repubblica democratica del Congo per sostenerne il processo di transizione verso l'istituzione dello stato di diritto nel paese.
Nel seguito del provvedimento sono essenzialmente autorizzate, fino al 31 dicembre 2006, le spese per la proroga della partecipazione di personale militare alle diverse missioni nell'area balcanica: si può citare in primo luogo la partecipazione di personale militare del Corpo della guardia di finanza, nonché della Polizia di Stato, alla missione denominata United Nations Mission in Kosovo (UNMIK), forza internazionale dell'ONU delegata all'amministrazione civile del Kosovo. Ricordo che la missione UNMIK ha il compito di organizzare le funzioni amministrative essenziali, creare le basi per una solida autonomia ed autogoverno del Kosovo, facilitare il processo politico per determinare il futuro status del Kosovo, coordinare gli aiuti umanitari di tutte le agenzie internazionali, fornire sostegno alla ricostruzione delle infrastrutture più importanti, mantenere l'ordine pubblico, far rispettare i diritti umani, assicurare la sicurezza ed il regolare ritorno in Kosovo di tutti i rifugiati ed i dispersi.
Si ricorda inoltre la partecipazione di personale dell'Arma dei carabinieri alla missione in Bosnia-Erzegovina denominata EUPM, nella quale è coinvolto personale proveniente da quarantadue paesi, con il compito di assicurare il proseguimento delle attività di riorganizzazione delle locali Forze di polizia. Il mandato della missione, in linea con gli obiettivi generali stabiliti nell'Accordo di Dayton, consiste nello stabilire dei dispositivi di polizia sostenibili sotto l'autorità della Bosnia-Erzegovina conformemente alle migliori pratiche europee ed internazionali, elevando in tal modo gli standard della polizia della Bosnia-Erzegovina. Il 24 novembre 2005 l'Unione europea, su invito delle Autorità bosniache, ha focalizzato il mandato della missione sul supporto alla lotta contro il crimine organizzato e sul processo di riforma della polizia.
Rimando alla lettura della relazione governativa per quanto concerne l'illustrazione delle disposizioni riferite ai profili giuridici ed economici connessi alla proroga


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delle missioni: si tratta, in buona sostanza, delle consuete norme in materia di trattamento economico accessorio ed assicurativo da erogare al personale impiegato, delle disposizioni contabili e delle norme in materia penale, (sulle quali mi sono già espressa).
È inoltre prevista la clausola di salvaguardia degli atti adottati, delle attività svolte e delle prestazioni effettuate dal 1o luglio 2006 alla data di entrata in vigore della legge e si stabilisce il termine di entrata in vigore della legge.
In conclusione, a proposito delle diverse missioni che oggi stiamo per discutere, desidero sottolineare che molto a lungo ci siamo soffermati su quella in Afghanistan e molto meno su altre missioni, tra cui quella nei Balcani - una missione per noi molto importante, nella quale, come ho già ribadito sono impegnati quasi 3.500 soldati - e quella altrettanto significativa sul valico di Rafah, che era stata inviata immaginando che il problema circa la situazione israelo-palestinese fosse costituito da quel confine. Purtroppo, il problema è esploso con molta virulenza da un'altra parte e questo ci pone, oggi, nuove domande. Credo che sia necessaria una attenzione da parte del Parlamento - come anche è richiesto dalla mozione - per un monitoraggio costante di tutte le missioni, non solo di quelle che costituiscono, per così dire, l'attualità del momento politico e della discussione politica. Purtroppo, il mondo si muove, a volte, secondo direttrici diverse da quelle del nostro dibattito politico. Credo sia molto importante che i soldati che noi decidiamo di inviare oggi sentano davvero vicino il Parlamento e le sue decisioni.