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COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 3 ottobre 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LINO DUILIO

La seduta comincia alle 15.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Fincantieri.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul patrimonio pubblico, l'audizione di rappresentanti di Fincantieri.
Ringrazio per la partecipazione il dottor Bono, amministratore delegato di Fincantieri, che è accompagnato dal dottor Palermo, responsabile del settore finanza, dal dottor Marinoni, responsabile dei rapporti istituzionali e dal dottor Autorino, responsabile dell'ufficio stampa.
Questa audizione è stata decisa nell'ambito dell'indagine, che stiamo conducendo da tempo, finalizzata alla valorizzazione del patrimonio pubblico sia immobiliare che mobiliare.
In questo caso ci troviamo di fronte ad un'azienda che potremmo definire - non so se il presidente mi correggerà - come l'ultimo pezzo di industria ancora in mano allo Stato. Fincantieri rappresenta un gruppo leader nella costruzione di navi da crociera, che oggi ottiene risultati brillanti, per quanto mi risulta, a livello non solo nazionale, ma anche internazionale: conti in attivo, debiti azzerati, valutazione di estremo interesse delle banche d'affari e una prospettiva di investimento sul mercato di una quota dell'azienda stessa. Su quest'ultimo punto, fra tanti altri, credo che il presidente ci dirà qualcosa.
Come abbiamo detto in più occasioni, ribadisco che questa nostra indagine è finalizzata ad esplorare tutti i sentieri che conducono a una valorizzazione del patrimonio dello Stato, affinché i cespiti che assicurano entrata allo Stato non siano semplicemente quelli che derivano da provvedimenti di natura fiscale, ma attengano anche ad elementi di natura patrimoniale. Ovviamente, tale indagine va condotta tenendo conto di implicazioni diverse che riguardano le realtà aziendali, l'occupazione nonché la ricchezza delle aziende del nostro Paese.
Dopo aver svolto questa breve premessa di carattere generale, volta ad introdurci nelle tematiche relative alla nostra indagine conoscitiva, do volentieri la parola al dottor Bono.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Signor presidente, ringrazio lei e la Commissione per l'opportunità che ci viene offerta di rappresentare brevemente la storia di questi ultimi anni e le prospettive future di Fincantieri. È una storia di grande successo, di cui possiamo essere orgogliosi.
Alcuni di voi, forse, ricorderanno gli anni passati, quando non si dava molto credito alla possibilità che un'industria matura e antica come la cantieristica avesse un futuro, soprattutto assicurando la salvaguardia dei numerosi siti produttivi di cui l'azienda dispone.


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Siamo orgogliosi, obiettivamente, di lavorare in Fincantieri. Lo siamo per la sua storia passata: complessivamente l'azienda ha costruito più di 7.000 navi; alcuni cantieri risalgono alla fine del '700, altri, come minimo, hanno cento anni. Si tratta quindi di una storia antica, che ci impone una responsabilità maggiore. Se i nostri predecessori hanno saputo preservare quest'attività nel tempo, noi avvertiamo tale responsabilità ancora di più per il futuro.
È ovvio che oggi non è più come una volta, direi che la costruzione delle navi avviene come una specie di grande «Meccano», in cui la capacità ingegneristica e di progettazione a monte è altrettanto fondamentale della capacità organizzativa a valle. Pensate che negli ultimi due o tre mesi prima della consegna, sulla nave lavorano fra 50 e 60 dipendenti diretti di Fincantieri e fino a 2000 lavoratori dell'indotto.
Quindi, la capacità di organizzare tutti gli appuntamenti deve essere massima, tenuto anche conto che riusciamo a costruire una nave da crociera in 18 mesi e vorremo riuscire a farlo anche in minor tempo. Si tratta di un prodotto che, peraltro, credo sia uno dei più complessi che esistono al mondo, poiché su una nave vengono impiegate tutte le tecnologie possibili ed immaginabili: materiali, comunicazioni, automazione. Possiamo dire che c'è tutto.
In Italia abbiamo otto cantieri. Il più grande è quello di Monfalcone, poi c'è Marghera e, per quanto riguarda l'Adriatico, scendendo più a sud, Ancona. Sul Tirreno abbiamo Sestri Ponente e Riva Trigoso, entrambi in provincia di Genova; Muggiano in provincia di La Spezia, Castellammare di Stabia e Palermo. Questi cantieri hanno dimensioni più o meno adeguate - spiegherò poi questa affermazione - e sono assistiti da un centro di ingegneria per la parte mercantile e civile, ubicato a Trieste, ed uno per il militare, che ha sede a Genova.
Credo che Fincantieri detenga la più grande capacità ingegneristica e progettuale d'Europa. Occupiamo circa 9.300 addetti e, attualmente, nell'azienda sono presenti altre 10.000 persone delle ditte d'appalto.
Fino al 2000 la cantieristica era un settore assistito; infatti essa riceveva contributi che mediamente arrivavano al 9 per cento del valore del prodotto, più altri cospicui contributi per ricerca e sviluppo. Dal 2000, perlomeno per le navi ordinate nel 2000 e consegnate entro il 2003, sono venuti a cessare i contributi per una decisione della Unione europea; questo vale, ovviamente, per tutta l'industria cantieristica continentale.
Dal 2003, poi, nelle varie leggi finanziarie che si sono succedute, tranne la penultima, abbiamo subito la cancellazione di tutti i contributi alla ricerca.
Segnalo, per la cronaca, un fatto curioso: per le navi che godevano del contributo e che noi abbiamo consegnato entro il 2003, dobbiamo ancora incassare 100 milioni di euro. Sono stato informato che nella legge finanziaria attuale ci hanno concesso qualche cosa.
Una grave crisi - alla fine degli anni '90, sostanzialmente '98 e '99 - portò quasi al fallimento dell'azienda, che fu salvata attraverso un marchingegno. Essendo posseduta al cento per cento dall'IRI, non poteva, ovviamente, fare aumenti di capitale e coprire le perdite, in quanto unica azionista. Allora, fu trovato un escamotage: furono cedute quote a tre banche e, così, si procedette alla ricostituzione del capitale che era stato defalcato dalle perdite.
Le banche avevano un diritto di recesso, che poi nel tempo hanno esercitato tutte, tranne una, e, quindi, oggi il 98,8 per cento dell'azienda è in mano a Fintecnica che, come sappiamo, è al 100 per cento proprietà del Tesoro.
Io sono in Fincantieri dal 2002 e credo che in questi anni abbiamo consolidato una leadership mondiale nella costruzione delle navi da crociera. Dal 2002 ad oggi, abbiamo acquisito ben 23 navi, per un valore di oltre 10 miliardi di euro. Abbiamo ricostruito un portafoglio prodotti nel settore che noi definiamo «trasporti», cioè quello - per intenderci - dei traghetti.


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Abbiamo approntato, nel periodo, alcune grandi commesse per la Marina italiana nell'ambito del piano di ammodernamento di quest'ultima. Consegneremo, il prossimo anno, una portaerei; abbiamo già consegnato due sottomarini e stiamo lavorando alla costruzione di grandi fregate in collaborazione con l'industria francese, grazie a un accordo fra il Governo italiano e francese e fra le due Marine.
Oggi possiamo registrare un'azienda consolidata, leader mondiale nel suo settore. Ci rammarichiamo che in Italia esistano poche aziende che possano vantare leadership mondiali e lavoriamo, quindi, per mantenerle. Nel frattempo, non ci siamo fermati soltanto a consolidare i settori tradizionali e abbiamo lanciato, invece, nuove iniziative in settori che sono abbastanza collaterali e simili ai nostri. Non abbiamo voluto correre avventure in settori nei quali non avevamo esperienze e ci siamo lanciati allora nella costruzione di mega yacht oltre i 70 metri. Fino a 70 metri, l'industria privata italiana è leader mondiale e non ci sembrava il caso di andare a fare concorrenza a un'industria che già presidiava bene questo segmento di mercato.
Oggi il segmento da 70 metri in su sta avendo un successo incredibile: l'anno scorso ne sono stati ordinati 20 in tutto il mondo e la maggior parte in Europa (soprattutto in Germania e in Olanda). Noi siamo entrati da un paio d'anni, abbiamo già due commesse e speriamo di incrementare sostanzialmente questo lavoro.
Poi abbiamo pensato che l'incremento delle flotte passeggeri, quindi sia traghetti che navi da crociera, avrebbe, forse, costretto le compagnie armatrici a dare all'esterno il lavoro di refitting, di manutenzione che attualmente eseguono a propria cura. Quindi abbiamo lanciato questa nuova linea di manutenzioni e trasformazioni, pensando di organizzare un network mondiale.
Noi già svolgevamo attività di riparazione nel nostro cantiere di Palermo (per la verità, di basso livello), che abbiamo attrezzato per eseguire grandi trasformazioni, ma, abbiamo pensato di essere presenti anche altrove. Infatti, la nave viene portata per le riparazioni o le trasformazioni laddove essa presta normalmente servizio. È impensabile che qualcuno, dall'America, porti la nave a Palermo, perché i tempi di viaggio sarebbero talmente lunghi da non permettere una riparazione veloce e quindi di offrire un servizio efficiente.
Allora abbiamo comprato un cantiere in Germania, a Brema, per presidiare il Mare del Nord (si tratta, anche in questo caso, di un cantiere con una tradizione di cento anni in questo settore) e abbiamo anche pensato di comprare un cantiere ai Caraibi, per coprire un'altra area molto importante. Tenete conto che i bacini del Mediterraneo, del Mare del Nord e dei Caraibi, non sono solo i bacini più importanti per la movimentazione passeggeri a livello turistico, con le navi da crociera, ma lo sono anche per l'attività di ricerca ed estrazione petrolifera. Essere presenti in questi bacini, pertanto, ci ha fatto pensare ad una rentrée della Fincantieri nel settore dell'offshore, che aveva abbandonato vent'anni fa.
Passo a presentare i risultati del periodo. Abbiamo registrato, nel quinquennio 2002-2006, 377 milioni di utile netto e abbiamo pagato imposte per 176 milioni. Abbiamo portato il patrimonio netto a un incremento del 90 per cento. Oggi siamo a circa 780 milioni di euro.
Se pensate che nel 1999 l'IRI versò un capitale di 340 milioni di euro, si deduce che in questi anni lo abbiamo più che raddoppiato.
Oggi non abbiamo debiti, anche perché pensiamo che questa sia un'azienda che può essere gestita profittevolmente solo non indebitandosi. Di fatto, noi fungiamo da banca per i clienti.
Sul mercato internazionale le navi vengono acquistate pagando più o meno un 15 per cento all'ordine e l'85 per cento alla consegna. Parliamo di navi che valgono 450 o 500 milioni di euro; quindi l'85 per cento lo dobbiamo finanziare, in quanto dobbiamo pagare i dipendenti e i fornitori a date che non sono quelle in cui incassiamo.


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Dobbiamo essere molto forti, dal punto di vista finanziario, per poter svolgere quest'opera con profitto.
Ad oggi abbiamo un portafoglio ordini che supera i 10 miliardi di euro e fatturiamo circa 2 miliardi e mezzo all'anno.
Sembrerebbe un'azienda nei cui confronti si può stare tranquilli. Cosa chiede, allora, il suo presidente, che, fra l'altro, nel 2009 scade e quindi per quella data potrebbe uscire tranquillamente con il lavoro per l'azienda già assicurato? La domanda sorge spontanea: perché Bono si ostina a creare problemi?
Io mi accorgo di creare problemi, ma sono abituato a pensare a lungo termine. Le aziende stesse hanno necessità di pensare a lungo termine e questa credo sia una delle principali discrasie che si verifica per le aziende di proprietà pubblica. Il settore pubblico è caratterizzato da fattori importanti, quali il governo del Paese e la politica. La politica, lo vediamo, ragiona nel breve o brevissimo periodo, non ragiona mai con dieci anni di anticipo, producendo i fatti politici effetti abbastanza immediati. L'azienda invece deve avere la forza, la capacità di lavorare e di pensare a quello che succederà, almeno con dieci anni di anticipo.
Sentendo anche la responsabilità di preservare questo marchio glorioso dell'industria italiana, abbiamo pensato che non potevamo dormire sugli allori e che dovevamo in qualche modo, forti dei risultati raggiunti, immaginare quello che si sarebbe potuto e dovuto fare per il futuro.
Tenete conto che l'Europa, negli ultimi 20 anni, ha perso in pratica l'80 per cento della cantieristica, a vantaggio prima del Giappone, poi della Corea, oggi della Cina.
Ci stiamo difendendo su un tipo di navi a elevata tecnologia, ma non so per quanto tempo ancora potremo farlo, se non ci attrezziamo prima. Gli altri le navi le sanno fare, dal momento che costruiscono le grandi gasiere e petroliere; da noi il lavoro è certamente più complicato, soprattutto dal punto di vista organizzativo, essendo contraddistinto dalla presenza di una rete di fornitori che noi abbiamo e gli altri no.
Volendo mantenere i siti produttivi che abbiamo (un'altra scelta potrebbe essere quella di chiuderne qualcuno e di concentrarci sui rimanenti, ma noi vorremmo proiettare nel futuro quanto la storia ci ha lasciato), ci siamo immaginati un grande programma di investimenti per migliorare le tecnologie dei cantieri e dare a questi ultimi più spazio. In alcuni casi abbiamo proposto alle autorità locali quasi degli sconvolgimenti, che però aiutano anche i comuni, in quanto danno più possibilità di soddisfare le necessità di questi ultimi.
Noi ci spostiamo, andiamo in mare, interriamo, facciamo tutta una serie di opere che ci consentono di avere dei cantieri efficienti.
Oggi il cantiere più efficiente che abbiamo è quello di Monfalcone, non tanto perché sorge in quella città, quanto perché è sviluppato su 75 ettari di spazio. Abbiamo bisogno di spazi, perché, sostanzialmente, la nave si costruisce molto a terra; fornitori e sub fornitori vengono e costruiscono a terra, poi noi portiamo il materiale a bordo. Questo è il sistema: tanto più si costruisce a terra, tanto meno costa la nave.
Abbiamo invece altri cantieri che sono sacrificati, in quanto chiusi nelle città. Se vogliamo che questi cantieri possano mantenersi in futuro, li dobbiamo dotare di tutte le attrezzature, di tutti gli spazi, di tutti gli impianti che sono necessari per renderli competitivi in uno scenario come quello che ho descritto prima.
Considerato che ci siamo lanciati sulle nuove attività prima menzionate, dobbiamo comprare un cantiere in Germania e un altro nei Caraibi.
Noi sappiamo che non è possibile che ogni cinque anni ci vengano ordinate portaerei, fregate e simili navi militari, visto che i grandi programmi di ammodernamento di una forza armata avvengono grosso modo ogni 20 anni. Nel frattempo avremmo forse dovuto chiudere qualcuno dei nostri cantieri?
Per esempio a Muggiano, che è uno dei cantieri militari, abbiamo inaugurato la costruzione dei mega yacht, che vengono costruiti interamente a terra e vengono


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trasportati in acqua solo negli ultimi due o tre mesi. Lì abbiamo bisogno di attrezzature, di capannoni che dobbiamo realizzare, altrimenti non possiamo costruire i mega yacht. Abbiamo allora immaginato un grosso programma di investimenti, che abbiamo quantificato in 800 milioni, di cui circa 600 sono per la dotazione impiantistica. La maggior parte della cifra è destinata ai cantieri italiani e il resto per le acquisizioni all'estero.
Abbiamo detto che non vogliamo delocalizzare la produzione che oggi svolgiamo. Non tanto perché vogliamo andare contro la storia (se i fatti ci inducessero a trasferirci da un'altra parte, ci si potrebbe opporre per qualche anno, ma poi alla fine saremmo comunque costretti), quanto perché oggi, sulla produzione che abbiamo, la delocalizzazione forse ci porterebbe in un certo senso più svantaggi che vantaggi. Pensate che uno scafo su una nave da crociera vale il 15 per cento del totale. Facendo produrre fuori lo scafo, probabilmente risparmieremmo qualcosa, ma è anche probabile che avremo problemi nel momento in cui la nave verrà allestita. Noi dobbiamo consegnare oggetti che il giorno dopo partono per la crociera, quasi chiavi in mano.
Per non andare a indebolire la struttura finanziaria dell'azienda, abbiamo valutato che abbiamo bisogno di 400 milioni di euro di capitale.
Ciò che compete al management è portare i piani al proprio azionista. Quest'ultimo ci ha risposto che condivideva le linee strategiche e gli interventi programmati, ma che non poteva dare i soldi adducendo ostacoli posti dall'Unione europea.
Ebbene, vi rivelo in confidenza, che personalmente non sto a distinguere tra pubblico e privato; penso che le aziende debbano essere gestite sempre con lo stesso metro, sia che siano in mano pubblica, sia che siano in mano privata, sia che siano di uno o di un altro azionista, sia che siano completamente sul mercato come capita in America e in Inghilterra, cioè delle public companies. L'essenziale è che le aziende vengano gestite secondo le regole aziendali.
Forse un azionista pubblico, se ha risorse finanziarie proprie, dovrebbe impiegare queste ultime per le opere del Paese e non per dare soldi a me che devo fare le navi, ad esempio, per il gruppo Carnival (quelle risorse sarebbero ben impiegate nella costruzione di strade, scuole e ospedali),ma se i soldi vengono reperiti sul mercato, non vedo perché non si dovrebbe fare.
Peraltro, abbiamo avuto tutta una serie di incontri col sindacato e col Governo per spiegare il piano e, alla fine, il Governo ha deciso di procedere alla quotazione mantenendo, però, il 51 per cento in mano allo Stato. Mi è stato chiesto da più parti se ciò avrebbe potuto condizionare la quotazione. Personalmente pensavo che si sarebbe dovuto mettere sul mercato più del 49 per cento, invece, dai sondaggi fatti, consultando tutte le più importanti banche italiane e del mondo, ci viene assicurato che non esistono problemi.
In più, il Governo si impegna affinché l'azienda non delocalizzi le produzioni e si impegna al mantenimento dei livelli occupazionali. Quest'ultima cosa nel nostro piano era già scritta: noi non vogliamo ridurre i livelli occupazionali, anzi li aumenteremo un poco.
Siamo in una fase in cui sono state prese alcune decisioni ma ancora non c'è il «via» operativo.
Visto che sono di fronte a una Commissione che svolge un'indagine sul patrimonio dello Stato, ho detto prima che oggi abbiamo un patrimonio netto intorno agli 800 milioni di euro, rispetto ad un capitale versato di 340 milioni. Quanto vale, oggi, l'azienda? Stabilirlo è sempre un problema, in quanto il valore dipenderà dalla situazione del mercato al momento della stima. Oggi, rispetto al patrimonio netto di 800 milioni, stimiamo che il range di valutazione dell'azienda possa oscillare fra 1,2-1,3 e 1,5-1,6 miliardi di euro. Quindi prenderemo di più se siamo bravi, di meno se siamo meno bravi, e comunque secondo il momento del mercato.


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Devo dire che, forse per la prima volta, il Governo ha dichiarato che questa non era una quotazione per fare cassa, ma, principalmente per far affluire all'interno dell'azienda le risorse necessarie per portare avanti il suo piano, fornendo le garanzie di cui parlavamo prima: il mantenimento del 51 per cento, la non delocalizzazione, i livelli occupazionali e quant'altro.
Ci sarebbe tanto da dire, ma spero ugualmente di aver fatto un sunto comprensibile, seppure rapido.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre questioni o chiedere approfondimenti.

BRUNO TABACCI. Ho preso nota delle dichiarazioni del presidente Bono, che confermano una serie di notizie che erano già in nostro possesso. C'era un'intenzione del Governo di cedere il 49 per cento di Fincantieri sul mercato, per consentire uno sviluppo finanziario che era necessario per realizzare investimenti e acquisizioni estere: una via maestra. I risultati dell'azienda lo consentivano, poiché sono incoraggianti. I prodotti della Difesa sono diventati ormai marginali rispetto al fatturato. Il mercato mondiale è giudice della qualità e dell'efficienza di Fincantieri.
Sennonché, la questione che si è posta è di tipo squisitamente politico. Abbiamo potuto leggere dai giornali - non abbiamo altre informazioni - che la FIOM (federazione impiegati operai metallurgici) teme la perdita di posti di lavoro. In realtà si tratta di una posizione che contesta gli investimenti per timore dello sviluppo industriale. Rifondazione comunista dice che la Borsa non è il Vangelo: ci mancherebbe altro! Il punto è che la quotazione è sbagliata in quanto manca un piano condiviso con il sindacato. Questo è proprio il punto sul quale, si potrebbe dire, «casca l'asino».
Se i piani industriali dovessero essere condivisi con il sindacato, abbiamo già tracciata una strada maestra che è quella di Alitalia. In quel caso i piani industriali sono stati condivisi per dieci anni con il sindacato e siamo in attesa che l'azienda porti i libri in tribunale. Quindi, presidente Bono, se posso darle un consiglio, convinca il Governo a non seguire questo esempio preclaro, perché non la porta nella direzione giusta.
In evidenza resta la difficoltà di un partito di Governo che appalta al sindacato l'opinione di merito. Questo è un problema che ha una sua rilevanza istituzionale, poiché capovolge addirittura il senso dell'antica «cinghia di trasmissione». Chi ha cultura di queste cose sa che si è svolto un lungo dibattito, nella politica italiana, sui rapporti tra le forze politiche e sociali. La cinghia di trasmissione apparteneva ad una considerazione in base alla quale si ipotizzava il ruolo prevalente della politica rispetto al sindacato. Qui abbiamo addirittura rovesciato questo schema, per cui la cinghia di trasmissione è diversa: se non c'è il bollino del sindacato, non si può fare nulla.
Si parla di un sindacato che non sa leggere le mosse dei concorrenti esteri - quindi non credo che lei vi si debba affidare - e pretende un diritto di veto, senza accollarsi la corrispondente assunzione di responsabilità. Non siamo nell'ottica del mitbestimmung tedesco, bensì in un contesto diverso. Capirei se sussistesse una pari responsabilità, se fossero essi gli stakeholders, non ci sarebbe difficoltà a riconoscere una pari assunzione di responsabilità ed un pari diritto a decidere. Poiché tuttavia non è così, in realtà si vuole decidere con le finanze, i soldi o la fiscalità generale, il che è del tutto inaccettabile.
Quindi, ed ho finito, il caso Fincantieri è emblematico della confusione politica, economica e finanziaria che attraversa il nostro Paese, per cui non siamo neanche capaci - a distanza, ormai, di parecchio tempo da un'evoluzione che ha attraversato tutti i mercati mondiali - di chiamare le cose col loro nome. E poi vogliamo essere capaci di concorrenza e quant'altro?
Credo che Fincantieri sia uno degli ultimi esempi di un miracolo che, pure, si è determinato nel quadro dell'esperienza


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storica delle partecipazioni statali (che andrebbe riconsiderata a fondo). Ma poiché lo Stato ha, giustamente, deciso di uscire dal ruolo di imprenditore per dedicarsi ad altro, a regolare i mercati, non può stare continuamente a metà del guado.
Quello che è inaccettabile è che si sia usciti e si pretenda di restare dentro per un'astratta questione di potere, come dimostra lo spaccato del sistema di controllo delle autonomie locali sui servizi pubblici locali: è lo stesso meccanismo. Vedo che, rispetto ai temi della legge finanziaria, c'è qualcuno che si lamenta del fatto che si sarebbero limitate le rappresentanze nei consigli di amministrazione dicendo che questo, addirittura, nega la rappresentanza. Ma guardate che dovete distinguere il problema delle aziende, ancorché pubbliche, dal problema della vita democratica.
Se pretendete di allargare questo campo, ha ragione il presidente Bono: lui l'ha detto con un termine un po' osé, però non c'è dubbio che quando uno è chiamato a gestire un'azienda deve fare il bene dell'azienda e non può pensare di fare il bene di altri. Nel caso in cui l'azienda sia dello Stato - esistono anche aziende pubbliche che rispondono a questa finalità - deve fare il bene dell'azionista Stato, cioè dell'interesse generale. Se, invece, l'azienda è in mano di azionisti privati, deve fare il loro bene ed il loro interesse, creando valore per conto degli azionisti privati.
Il meccanismo di gestione, però, è lo stesso: nell'azienda pubblica non possiamo arraffare quanto più si può perché, tanto, alla fine, c'è qualcuno che paga. Questo è un principio che abbiamo superato nel momento in cui abbiamo detto che le partecipazioni statali avevano molte contraddizioni e che era necessario uscire su una strada diversa. Ebbene, se siamo usciti su una strada diversa, allora andiamo sulla via principale, che è quella di confrontarci col mercato.
Se il presidente Bono riesce a vendere le navi, rendiamo omaggio a questo fatto, però bisogna essere conseguenti nella riflessione complessiva. Purtroppo non siamo conseguenti, in quanto siamo tutti impastoiati. E allora la nostra azione comincia a dipendere da quanto qualcuno, considerato amico, riesce a rispondere, a fare, a brigare. Se non è così, le teorie di fondo cadono, non hanno più una rispondenza reale.
In conclusione, sono venuto oggi ad ascoltarla e le faccio auguri di successo, ma sono abbastanza pessimista. Mi pare che gli orientamenti non siano quelli di andare nella direzione verso la quale si dovrebbe andare, ma invece quelli di condizionarla pesantemente sul terreno politico.
Questo credo che sia uno degli elementi che più dovrebbero preoccuparci. Non so quanto ci preoccupino: guardando il dibattito che attraversa l'aula parlamentare, non ho l'impressione che ci sia una preoccupazione molto diffusa su queste vicende. Anzi, mi sembra che siano del tutto marginali, come dimostra il dibattito di questi tre giorni.

PRESIDENTE. Onorevole Tabacci, speriamo di infonderle un po' di ottimismo, considerata la sua analisi pessimistica.

ANDREA RICCI. Signor presidente, l'intervento dell'onorevole Tabacci chiamava in causa le posizioni espresse da Rifondazione comunista su Fincantieri.
L'onorevole Tabacci, per la verità, sintetizzava le posizioni espresse dal mio partito in una maniera un po' imprecisa. Questa circostanza mi dà l'occasione per chiarirle ulteriormente.
L'esposizione del dottor Bono è stata, sia pur nella sua sinteticità, molto puntuale nel descrivere una situazione di Fincantieri ormai completamente risanata dopo i gravi rischi di fallimento che aveva avuto alla fine degli anni '90.
Credo, in primo luogo, che questa sia la dimostrazione che un'impresa pubblica può essere capace, pur essendo posseduta interamente dallo Stato, di essere efficiente e competitiva. La presenza pubblica nel capitale azionario non è affatto un ostacolo al risanamento e perfino al raggiungimento di posizioni di leadership


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mondiale in settori industriali particolarmente complessi come ad esempio quello della cantieristica. Non è l'unico esempio, vi sono anche in Italia altre industrie partecipate e controllate dallo Stato che hanno questo tipo di competitività.
Quindi bisogna smettere di identificare la presenza pubblica in sé come indice di una posizione contraria all'efficienza e alla competizione sul mercato. Bisogna vedere come l'azienda è gestita e che ruolo vuole svolgere il proprietario pubblico. Mi pare che la vicenda di Fincantieri dimostri che su entrambi i fronti - la gestione e l'indirizzo strategico del proprietario pubblico - siamo di fronte ad una situazione virtuosa. Tutto ciò costituisce la premessa.
La nostra perplessità rispetto all'ipotesi di una collocazione in Borsa, con cessione del 49 per cento ai privati, deriva dalle seguenti ragioni.
Con la cantieristica siamo di fronte ad un settore maturo, come ci diceva il dottor Bono, che, rispetto ad altri settori che dominano il mercato azionario, è sostanzialmente a bassa redditività. Si richiede un grande esborso di capitale in termini di mezzi tecnici e di capacità di gestione finanziaria rispetto a una prospettiva di utile che è più bassa di altri settori.
Devo dire che i risultati che ci portava il dottor Bono, rispetto ad un utile nel triennio di circa 300 milioni di euro, sono eccezionali, anche rispetto ad altre realtà internazionali di questo settore. Speriamo che si continui così, ma può anche darsi che ci si possa assestare su livelli di redditività inferiore.
Siamo, infine, di fronte a un settore strategico per l'industria nazionale, poiché la costruzione di navi, come ci veniva ricordato dal dottor Bono, utilizza tutte le più moderne tecnologie e quindi fa parte di una rete di interconnessione con l'intero sistema produttivo, rappresentando uno strumento di diffusione all'interno del nostro apparato industriale delle nuove tecnologie.
Tra l'altro le scelte industriali strategiche di Fincantieri sono state compiute non per fare concorrenza alla cantieristica privata italiana, bensì per svilupparsi su nuovi settori più rischiosi, dove occorreva un maggior investimento di capitali che dovevano essere coperti da imprese che non avessero come obiettivo immediato la massima utilità nel breve periodo. Questa, mi pare di capire anche dall'esposizione del dottor Bono, è la chiave del successo di Fincantieri.
Allora cosa vuol dire la collocazione in Borsa? Se Fincantieri si colloca in Borsa deve garantire lo stesso livello di redditività di breve e medio periodo delle altre società quotate in Borsa. Il rischio di un andamento negativo della quotazione azionaria di Fincantieri sarebbe pesante, poiché le logiche dei mercati finanziari sono diverse da quelle dei mercati industriali.
La collocazione in Borsa comporterebbe indubbiamente un vincolo stringente nella gestione di Fincantieri, distorcendone, rispetto all'attuale assetto, la conduzione verso la ricerca di una redditività di breve periodo e, in modo particolare, di una redditività finanziaria. Altrimenti non avrebbe senso collocare in Borsa questa società.
I fatti da considerare sono due: non è solo la cessione del 49 per cento ai privati, ma anche la collocazione in Borsa. Non siamo di fronte ad una scelta di vendere una parte minoritaria ad altri operatori della cantieristica; siamo di fronte alla scelta di collocare il 49 per cento del capitale in Borsa e quindi di entrare in una altra logica di gestione aziendale, assumendo vincoli differenti da quella prospettiva di lungo periodo che il dottor Bono indicava. Necessariamente sarà così.
Abbiamo udito che questa azienda, oltre a produrre circa 100 milioni di euro di utile all'anno, ha un patrimonio netto di 780 milioni di euro, raddoppiato nel corso dell'ultimo quinquennio, ha un portafoglio di commesse di 10 miliardi di euro, che garantisce almeno per i prossimi quattro anni, e infine non ha alcun debito.
Il dottor Bono rappresentava in termini positivi il fatto di non avere nessun debito ed indubbiamente ciò è giusto, anche se, per una qualsiasi impresa che si pone nell'ottica di ampliare la propria attività e


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di fare investimenti strategici, il comportamento normale - e anche corretto - è quello di assumersi dei debiti (se sono necessari, ovviamente).
Se Fincantieri intende sviluppare un ammontare sostanzioso di investimenti per estendere la propria capacità produttiva, il vincolo di non aver nessun tipo di debito non è un vincolo convincente, perché quegli investimenti possono essere realizzati in tutto, in parte, in una grande parte, in una piccola parte, anche attraverso una politica di indebitamento. È una gestione sana questa, non una gestione fallimentare.
Questa è una prima perplessità. Di fronte ad una azienda che ha queste caratteristiche in termini di solidità finanziaria, perché si esclude a priori l'ipotesi di ricorrere, in tutto o in parte, al meccanismo dell'indebitamento? Perché si rifugge da una conduzione assolutamente normale?
Infine, è stato sollevato il problema del ruolo del sindacato. Sul piano industriale, le questioni che noi abbiamo posto nella Commissione competente che si occupa delle politiche industriali e del settore dei trasporti, rispetto al piano industriale, sono quelle di una maggiore definizione delle scelte, non solo in termini generali, dato anche l'ammontare rilevante degli investimenti, bensì in termini anche più dettagliati, fornendo garanzie rispetto al mantenimento in Italia dei cantieri attuali e dei livelli occupazionali.
Qualche parola sul ruolo del sindacato: nel settore della cantieristica, innanzitutto per il tipo di lavorazione, credo che il ruolo della manodopera sia fondamentale, anche rispetto ad altri settori. Quindi, per chiunque diriga un'impresa di cantieristica, avere la partecipazione ed il consenso della manodopera rispetto a progetti di ristrutturazione aziendale è decisivo, anche per garantire la qualità della produzione.
In secondo luogo, storicamente, in Italia, la sindacalizzazione nel settore della cantieristica è molto forte, più che in tantissimi altri settori. Questo è un dato della realtà, un dato storico confermato anche in tempi recenti. Quindi, ritengo che, anche da parte di chi gestisce un'impresa di questo tipo, sia necessario, per garantire il successo delle operazioni, conseguire il consenso o, perlomeno, garantire il coinvolgimento nella definizione delle linee strategiche della ristrutturazione da parte di chi rappresenta questo tipo di manodopera così centrale nel processo produttivo.
Stiamo parlando di questo tipo di impresa, non di un altro settore, con un'altra storia e altre caratteristiche. Da questo punto di vista, l'ipotesi di uno scontro, di una rottura delle relazioni industriali in un'azienda di questo tipo, rispetto ad una scelta com'è quella della collocazione in Borsa, deve preoccupare chiunque. Non si può proporre a cuor leggero di andare avanti lo stesso anche se il sindacato non è d'accordo sul piano degli investimenti, perché ciò rischia di far esplodere il «miracolo» Fincantieri. Chiunque gestisca quest'azienda si deve porre questo problema perché, diversamente, la prospettiva è difficile.
Questo è il nostro ragionamento: come vedete, non è affatto ideologico - non mi sembra di aver portato motivazioni ideologiche - bensì molto concreto e attento alla particolarità di questo settore.

PRESIDENTE. Invito i colleghi a svolgere interventi sintetici.

GUIDO CROSETTO. Onorevole Ricci, probabilmente molte parti del suo ragionamento non sono ideologiche. Un po'più ideologica è la conclusione, in cui lei dice che non si può pensare che un'azienda possa andare avanti su un piano di investimenti senza ascoltare il sindacato. Avrò forse una visione troppo liberistica, ma a mio parere - non importa se l'azionista sia lo Stato, o siano tanti piccoli risparmiatori, o anche soltanto due o tre risparmiatori - un'azienda deve produrre fatturato e, possibilmente, ricchezza, mentre il sindacato deve tutelare i lavoratori. Se in questo Paese si arrivasse al punto che il sindacato, per la tutela dei lavoratori, dovesse decidere gli investimenti dell'azienda


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ed il futuro dell'azienda, allora cambierei Paese. Mi pare che il ruolo storico del sindacato sia un altro e che non sia nato per proteggere il futuro delle imprese, bensì per tutelare i lavoratori, così come gli amministratori di un'azienda sono nati per tutelare l'azienda.
La discussione, in questi termini, è meno ideologica. Posso pensare che il sindacato abbia una sua visione sul futuro dell'azienda, ma poi mi rendo conto che ciò che determinerà il futuro dell'azienda, al di là di quattro anni di fatturato già acquisito, non è la posizione della FIOM, bensì quello che succederà semmai in Cina, in Corea, negli Stati Uniti.
Da quel poco che so di un mercato che non conosco perfettamente, la Fincantieri ottiene questi risultati perché sposta la sua produzione su un livello più elevato, faticando a reggere la competizione coreana. Adesso i coreani faticano a reggere la competizione cinese; i coreani stessi, aiutati dallo Stato coreano, stanno cercando di spostare verso l'alto la loro produzione, cioè stanno tentando di entrare in futuro in competizione non più con i cinesi, con cui non riescono a competere, ma probabilmente con chi ha un mercato di più alto livello. Quindi, intersecheranno la vita di Fincantieri.
All'interno di quest'ottica, che va al di là degli amministratori attuali, degli azionisti, dell'Italia e quindi anche della FIOM, penso sia indice di serietà degli amministratori affermare che potenzialmente, tra qualche anno, il mercato mondiale ci porterà a incontrare nuovi competitor su un settore elevato come il nostro e che quindi devono mettersi in campo investimenti che mantengano il divario attualmente esistente dai possibili concorrenti. Oggi, a suo dire, abbiamo una società che rende poco e la cui quotazione in Borsa non sarebbe bene accetta. Per la verità, 160 milioni su due miliardi e mezzo di euro non sono molti, ma se lei guarda i bilanci e gli utili del 70 per cento delle società quotate in Borsa, si renderà conto che si tratta di una resa assolutamente accettabile per la Borsa italiana. Lo sarebbe meno per alcune Borse anglosassoni. Nella Borsa italiana, considerando un ciclo di almeno dieci anni, l'utile di questa società è assolutamente appetibile per gli investitori, soprattutto viste le possibilità di sviluppo.
Io, come lei, non ho pregiudiziali ideologiche sul fatto che lo Stato non possa essere un buon azionista, purché faccia effettivamente l'azionista! Lo Stato, secondo me, vale come un fondo comune, se chiede agli amministratori di far crescere la società, glielo lascia fare e non segue altre logiche.
Ma, se ho capito bene l'intervento della presidente Bono, il problema è che lo Stato non ha la possibilità di realizzare l'aumento di capitale che gli investimenti invece richiederebbero.
Se ho capito il suo ragionamento, lo Stato non può aumentare il capitale; voi, come azienda, avete la necessità di un aumento di capitale per affrontare il futuro e, non potendolo chiedere allo Stato e dovendo pensare al futuro dell'azienda, vorreste rivolgervi al mercato.
Non è una scelta ideologica quella di far diminuire la quota in mano allo Stato dal 100 per cento al 51 per cento; si tratta di una necessità, stante fatto che l'azienda, se vuole continuare a crescere, a produrre occupazione, utili e fatturato, deve investire. Allora la scelta diventa obbligata: se lo Stato non può investire, subentra il mercato.
Mi pare anche forzata la discussione fin qui svolta, perché altrimenti l'assunto che va negato, onorevole Ricci, è il fatto che la società abbia bisogno di investimenti; la conclusione del suo ragionamento avrebbe senso se invece avesse affermato che l'azienda sta sul mercato senza fare investimenti. Il collega ha detto che la società, non avendo debiti, può utilizzare linee di debito per effettuare i necessari investimenti.
Stavo controllando sul bilancio proprio il debito, in quanto è veramente strano trovare in questo Paese aziende che non ne abbia, tuttavia, in un settore economico difficile, l'assenza di debiti (e quindi di oneri finanziari negativi) genera un utile che, per quanto presente, non è molto elevato. L'incidenza di un investimento del


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tipo ventilato e dei relativi oneri finanziari è pari a circa 800 milioni di euro che, iscrivendoli nello stato patrimoniale, trasformerebbe quest'ultimo da positivo a negativo. Alla fine, dedotta una settantina di milioni di euro, rimangono in tutto 52 milioni di utile; aggiungendo 800 milioni di indebitamento e quant'altro, si manda l'azienda in passivo e si rischia di mettere quest'ultima in condizioni rischiose dal punto di vista finanziario.
Capisco che la competitività è data dal fatto che il cliente anticipa il 15 per cento e paga il restante 85 per cento alla fine della costruzione, però, per questo motivo, l'azienda ha necessità di un capitale che non sia preso in prestito da banche. Riassumendo l'assunto di partenza del ragionamento mi sembra il seguente: c'è bisogno di un aumento di capitale e ci si rivolge al mercato perché lo Stato non è in grado di assicurarlo.
Si tratta di un discorso banale; ricordo che questo problema era stato sollevato in questa Commissione anche durante la discussione del DPEF (mi sembra che il relatore fosse l'onorevole Ventura): la Commissione fu sollecitata ad aggiungere, nel DPEF, un'indicazione per bloccare l'entrata in Borsa di Fincantieri, ma alla Camera tale indicazione non passò, per volontà, mi pare, condivisa da maggioranza e opposizione, escluso il gruppo di Rifondazione comunista.
Sebbene lo sia diventato dopo i primi interventi, non è però questo il tema oggi in discussione. Oggi, nell'ambito di una serie di audizioni, stiamo banalmente cercando di capire dove lo Stato ha allocato le risorse e come vengano gestiti i soldi.
Nella scorsa seduta lo abbiamo ribadito al nuovo amministratore di Sviluppo Italia, dicendo quanto di peggio potevamo sulla precedente gestione di quella società; in questo caso mi pare che il lavoro fatto dagli amministratori, da chi ha gestito Fincantieri fino ad ora, sia assolutamente positivo. Questo è il compito della Commissione.
Per quanto riguarda il futuro, mi pare - si può condividere o meno - che la scelta sia obbligata: se lo Stato non ha possibilità di aumentare il capitale e una società non vuole morire, quest'ultima deve andare sul mercato.
Signor presidente - forse non sarà possibile perché non è questa la giusta sede -, potremmo fissare all'ordine del giorno delle prossime sedute di questa Commissione la discussione di una mozione, di una risoluzione o di qualche altro strumento di indirizzo per invitare lo Stato a proseguire su questa strada. Non conoscevo Fincantieri fino ad oggi, lo confesso, ma è assurdo che non aiutiamo a svilupparsi un'azienda con questo potenziale.
Se noi potessimo dire al Governo che questa strada, in un modo o nell'altro, va perseguita, che in qualunque modo - onorevole Ricci, non voglio scavalcare il sistema - quest'azienda deve trovare 800 milioni di euro per reggere il mercato e per crescere e che il Governo deve decidere in che modo trovarli, ebbene, se potessimo svolgere un'azione di questo tipo, faremmo sicuramente qualcosa di positivo.

PRESIDENTE. Onorevole Crosetto, visto che ha conosciuto oggi Fincantieri, lei potrebbe essere anche un potenziale cliente, visto che essa costruisce mega yacht. Ovviamente, sto scherzando. Certamente, alla fine redigeremo una sintesi complessiva del lavoro svolto in questa Commissione, che tenga conto delle esperienze che sono state qui rappresentate, dei problemi, delle opportunità e delle valutazioni.
Voglio ricordare, a titolo puramente descrittivo e in relazione alla mia funzione di presidente, che qui abbiamo già ascoltato il racconto di esperienze relative ad aziende precedentemente possedute dallo Stato e poi andate sul mercato, che ci ha consentito di raccogliere alcune considerazioni. Pertanto, le valutazioni che esprimeremo, rispetto a ciò che potrebbe accadere, dovranno tenere conto anche delle valutazioni circa ciò che è già accaduto sul versante della politica aziendale di società che sperimenteranno performances varie nel prossimo futuro.


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Faremo allora, tutti insieme, una valutazione complessiva del lavoro svolto, anche per evitare che si riveli un lavoro inutile, cioè un lavoro che consista esclusivamente nell'ascoltare. L'ascolto, infatti, è sempre propedeutico all'intenzione di fare tesoro delle cose che si sono ascoltate. Oltre che sentire vogliamo, appunto, valutare.

MICHELE VENTURA. Signor presidente, ho ascoltato con grande interesse e attenzione l'esposizione del dottor Bono e penso che dobbiamo esprimere al gruppo che ha lavorato in questi anni in Fincantieri il senso di un apprezzamento vero. Tutti noi ricordiamo il momento in cui sembrava che in quel settore fossimo spacciati, a causa della concorrenza giapponese e coreana. Essere riusciti a rilanciarlo, come da tutti è stato ricordato, su un punto e su una produzione più alta, è un fatto sicuramente di grande significato.
Stiamo parlando, per fortuna, di un'azienda che va bene, tuttavia, colleghi, vi inviterei ad esaminare le questioni per come realmente sono. Prevale di volta in volta, in questo stranissimo Paese, il vizio di attribuire a uno schieramento o a un altro le responsabilità di tutto e del contrario di tutto.
Su Alitalia, lo dico all'onorevole Tabacci, se fosse vero che è prevalso un ricatto dei sindacati, la responsabilità sarebbe bipartisan. Ha riguardato il centro-destra (Commenti dei deputati Tabacci, Crosetto e Garnero Santanchè)... Ho notato una identificazione Rifondazione comunista-sindacato.
Su Alitalia, se è passata quell'impostazione, allora stiamo sbagliando tutti da dieci anni (Commenti dei deputati Tabacci, Crosetto e Garnero Santanchè).
Quello che riesco difficilmente ad accettare è che, ogni tanto, sembra che qualcuno passi da qui per la prima volta, mentre ci sta passeggiando da alcuni anni. Bisogna saperlo che da queste parti stiamo passeggiando tutti da alcuni anni, perché diversamente non ci intendiamo neppure.

PRESIDENTE. Considerato il clima di antipolitica, non utilizzerei il termine «passeggiando».

MICHELE VENTURA. «Passeggiando» o «passando», il senso è lo stesso. Oltre all'esperienza di Fincantieri, siamo di fronte a quella di Finmeccanica, dal cui bilancio - ci è stato inviato e ne ho preso visione - si rilevano risultati molto importanti.
Inoltre, abbiamo una realtà come ENI che acquisisce, cresce e si sviluppa.
Credo però che possiamo essere d'accordo tutti sul fatto che alcune privatizzazioni non hanno funzionato o non hanno funzionato come sarebbe stato auspicabile, indipendentemente da chi le ha fatte.
Non è questa la sede per aprire un dibattito e, onorevole Tabacci, sono d'accordo su un punto: ognuno faccia il suo. Quindi, quando lei afferma che il sindacato pone veti sul piano industriale, rispondo che è bene sentire il sindacato, per ragioni di carattere generale, ma anche che di veti non ne possono essere accolti.
In questo caso specifico, l'osservazione che farei, rivolgendomi anche all'onorevole Ricci, è la seguente: non ci possiamo accontentare del risultato raggiunto. Il dottor Bono ci parlava dello stato patrimoniale e delle commesse acquisite: ci sarebbe da stare tranquilli per alcuni anni. Sono però d'accordo che non ci possiamo adagiare e che le aziende hanno bisogno di ragionare in termini medio lunghi, non giorno per giorno.
Credo che queste audizioni siano molto utili, perché consentono una riflessione sul meccanismo. Non ci troviamo di fronte ad una privatizzazione al buio, bensì al fatto che il 49 per cento - se ho capito bene - sarebbe messo sul mercato per acquisire risorse relative ad uno sviluppo complessivo del gruppo e delle attività di Fincantieri, mantenendosi la garanzia di un gruppo che ha guidato questo processo.
Pragmaticamente, una soluzione in questi termini non mi sembrerebbe costituire un grande problema. Se ce n'è bisogno, continueremo ad approfondirlo.


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Mi sembra che quello che ci ha esposto il dottor Bono meriti un'attenta riflessione, non solo da parte nostra, ma anche da parte del Governo.

ROBERTO MENIA. Signor presidente, faccio mio il suo appello alla brevità, con un piccolo inciso.
Essendo espressione di una comunità territoriale, entro la quale insiste la sede di Fincantieri a Trieste e il cantiere di Monfalcone (quello che il dottor Bono precisava con orgoglio essere il più importante, una sorta di fiore all'occhiello invidiato sotto diversi profili, non solo a livello nazionale, ma anche europeo), ho sentito la precedente esposizione con piacere. Ciò che ha detto il dottor Bono su questo settore e sulla Fincantieri in particolare, che oggi è comunque uno di quei simboli che rendono protagonista l'Italia nel mondo, mi ha trasmesso, in qualche modo, anche un certo orgoglio di appartenenza nazionale.
Ci sono tanti modi per essere ambasciatori dell'italianità: lo si può fare con la diplomazia, ma lo si può fare con l'impresa e con l'eccellenza e Fincantieri sicuramente ricade in quest'ultimo caso. A parte questo sentimento di orgoglio, ci sono poi i numeri che parlano da soli - alcuni li ho annotati - essendo numeri estremamente significativi: più di 9000 occupati, un patrimonio netto di 800 milioni di euro, un utile di quasi 400 milioni in un quadriennio. Pensando che quelle imposte sono versate dalle parti di casa mia, non è che mi dispiaccia. Sono anche questi elementi in più che mi fanno sostenere la tesi (che poi è quella che ha sostenuto il mio partito) a supporto del disegno che Fincantieri ha indicato. Parlo del sostegno alla prospettiva della quotazione in Borsa, che abbiamo dato in quanto esistono dinamiche di mercato che travalicano le nostre buone intenzioni e segnano in qualche modo la via.
Bono dice, responsabilmente, che le logiche sono le stesse che si tratti di una società privata o pubblica; a tali logiche bisogna adeguarsi e soprattutto occorre pensare a lungo termine.
Devo dire, come considerazione supplementare, che abbiamo guardato con una certa preoccupazione a ciò che avvenuto in sede di approvazione del DPEF nell'altro ramo del Parlamento, cioè al Senato, dove è stata posta una serie di condizioni e di paletti che rischiano di diventare altrettanta sabbia negli ingranaggi, tanto per parlarsi chiaro. Se è giusto, per argomenti che non sono poi tanto patriottici, tenersi il 51 per cento e dare inoltre una serie di indicazioni, dall'altra parte sono state fatte affermazioni che rischiano di diventare sabbia dell'ingranaggio.
Sul piano industriale concertato con i sindacati, sposo alcune delle affermazioni fatte dall'onorevole Tabacci: unicuique suum.
Ritengo peraltro che il sindacato tuteli i lavoratori soprattutto quando fa sì che una buona conduzione d'azienda porti non soltanto utili a quell'azienda, ma anche, di conseguenza, la salvaguardia del posto di lavoro dei lavoratori.
Passando ad altro, senza voler banalizzare la questione delle spese militari, ma evidentemente interpretando in un certo modo, per esempio, le linee di indirizzo sul mancato sostegno delle spese di carattere militare, potremmo evidentemente individuare, attraverso una certa lettura, ulteriore sabbia negli ingranaggi.
Vorrei fare un'ultima annotazione, sempre a proposito della riflessione del dottor Bono sull'opportunità di pensare a lungo termine.
È evidente che il pensare a lungo termine e quindi reggere la concorrenza, vuol dire soprattutto pensare a rimanere «eccellenza» e, a sua volta, ciò significa produrre innovazione.
L'innovazione, in definitiva, si produce attraverso la ricerca. Ecco perché è importante quel passaggio, anche se assai breve, in cui il dottor Bono, quasi sogghignando, diceva che un conto è togliere gli aiuti di Stato in ossequio a una direttiva europea, un altro conto è la cancellazione dei contributi della ricerca.
Ebbene, quando ci domandiamo che cosa si debba chiedere alla politica, rispondo


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che la politica responsabilmente può pronunciarsi in ordine all'opportunità di seguire questa strada.
Da una riflessione che porti a dare sostegno alla ricerca, che vuol dire innovazione, competizione e quindi possibilità di rimanere sugli attuali livelli, credo che possano derivare anche fatti concreti.

FRANCESCO PIRO. Vorrei fare due considerazioni, una di carattere generale e una più specifica. Per quanto riguarda il dibattito che qui si è acceso sulla privatizzazione, il mio è un approccio molto pragmatico. D'altro canto credo che l'esperienza del nostro Paese di questi anni - ormai più di uno - sul processo di privatizzazione induca anche a un approccio meno rigido, più capace di verificare le situazioni concrete.
Nel nostro Paese ci sono state privatizzazioni che indubbiamente hanno comportato un rilancio delle aziende, mentre altre sono risultate, da questo punto di vista, meno riuscite. Ci sono state anche finte privatizzazioni o privatizzazioni che sono intervenute in situazioni in cui il soggetto, sia pur nominalisticamente privatizzato, continuava ad agire in regime di monopolio. Devo dire che questa è la peggiore delle situazioni, soprattutto per chi gestisce servizi essenziali. Prendo ad esempio il servizio postale. Effettuare una finta privatizzazione, una finta aziendalizzazione, non sempre riesce poi a soddisfare le esigenze concrete cui un'azienda di questo tipo deve essere chiamata a fare fronte. Altra cosa è privatizzare un'azienda di produzione in una situazione di mercato aperto, anzi di mercato esasperato, di concorrenzialità esasperata.
Ritengo che se l'azionista Governo ritiene che la messa sul mercato di una parte, peraltro non maggioritaria, del capitale sociale di un'azienda come la Fincantieri possa dar luogo a risultati positivi, non solo dal punto di vista dell'apporto di capitali freschi (che altrimenti non ci sarebbero per finanziare gli investimenti indispensabili per la sopravvivenza e per la crescita dell'azienda), ciò deve essere valutato nella sua realtà. Per quanto mi riguarda, non vedo alcun ostacolo.
Non credo, tuttavia, si possa affermare che da parte delle organizzazioni sindacali non ci debba essere il massimo di attenzione. Quello che fa l'azienda e la sua trasformazione anche societaria indubbiamente possono determinare ricadute sotto il profilo della sua presenza nel territorio italiano, quindi sulla permanenza dei siti produttivi, sul mantenimento o lo sviluppo addirittura dei livelli occupazionali. Sono questioni, credo, che interessano il sindacato e che hanno sempre fatto parte della cultura sindacale del nostro Paese, anche se mi pare che non ci sia una totale omogeneità di vedute da parte delle organizzazioni sindacali su questo processo di privatizzazione.
Certamente, una volta che da parte dell'azienda e da parte del Governo, che comunque resterà azionista di maggioranza, venissero date, come mi auguro, tutte le assicurazioni e informazioni possibili, non credo che poi da parte del sindacato sarà possibile, in tutte le sue articolazioni, mantenere un «no» pregiudiziale.
Per quanto riguarda la parte più specifica del mio intervento, vorrei porre alcune brevissime domande. Il presidente non ha fatto cenno a partecipazioni della Fincantieri. Mi piacerebbe sapere se la Fincantieri partecipi ad altre aziende e dove. Gradirei un chiarimento anche sull'acquisizione di questi cantieri. Lei, se non ricordo male, ha parlato di Brema e di un cantiere nei Caraibi non meglio localizzato, ma ha poca importanza. Comprendo bene la scelta dei Caraibi dal punto di vista delle navi da crociera, ma non ho capito bene il ruolo di Brema in questo quadro.
L'ultima questione riguarda i siti produttivi italiani. Io provengo dall'area del palermitano, che è stata fortemente interessata dai processi di crisi e di ristrutturazione della Fincantieri. I cantieri navali di Palermo sono stati, storicamente, una delle maggiori attività produttive della nostra città e dell'intera regione. Francamente


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devo dire che tuttora permangono parecchi dubbi e incertezze. Anche recentemente ci sono state agitazioni sindacali. Mi pare che, alla fine, il nodo resti la destinazione e la mission produttiva del cantiere navale di Palermo.
Lei ha detto che Palermo nei piani aziendali si è specializzata nell'attività di trasformazione, che deve essere sviluppata ulteriormente, però lei sa meglio di me che la sola attività di trasformazione presenta rischi, dal punto di vista della produttività del sito.
Io non so come l'azienda valuti il potenziale produttivo del cantiere navale di Palermo; per come lo conosco io, si tratta di un potenziale ancora molto alto, sia dal punto di vista logistico che da quello delle attrezzature, almeno quelle che c'erano un tempo. Occorre tenere presente che Palermo è il più meridionale dei cantieri della Fincantieri ed è quello più vicino a due rotte fondamentali: quella che arriva a Gioia Tauro e quella che, dallo Stretto di Gibilterra, va fino al Canale di Suez (e viceversa). Quindi, esso potrebbe avere, in effetti, una forte attrattività anche per l'attività di riparazione oltre che per l'attività di produzione in cui, un tempo, il cantiere navale di Palermo era specializzato.

DANIELA GARNERO SANTANCHÈ. Signor presidente, volevo riallacciarmi all'intervento dell'onorevole Ventura, in cui egli ha detto di stupirsi dei «passeggiatori» che si trovano da tempo in questi luoghi. Frequento questa Commissione da meno tempo, forse, rispetto all'onorevole Ventura, al quale devo dire di sentirmi, oggi, veramente una marziana sentirei fronte a questa discussione. Stiamo discutendo se per un'azienda come la Fincantieri, della quale abbiamo visto i bilanci, sia giusta o meno la collocazione in Borsa e se sia giusto che i sindacati o la FIOM si intromettano in una scelta strategica sul suo futuro.
Veramente mi sento un po' una marziana, poiché di solito sono abituata, in questa Commissione, a seguire interventi che aiutano le aziende che falliscono. Siamo abituati a dare i soldi all'Alitalia, alle Ferrovie e a tutte quelle aziende che non sanno stare sul mercato senza la politica.
Allora, presidente Duilio, quando andremo ad analizzare la legge finanziaria, mi farebbe piacere, seguendo un po' la discussione ideologica di quest'oggi, che ai manager non regalassimo le stock options quando escono dopo aver fatto fallire le aziende. Bisognerebbe individuare meccanismi, non dico per farci restituire i soldi, ma almeno per non fare diventare miliardario chi ha fatto fallire un bene pubblico. Credo non sia il caso di fare nomi.
Piuttosto, oggi mi porrei un altro problema: capire come debba essere fatta la collocazione in Borsa. Ci sono modi diversi per realizzarla. Vorrei capire se intendiamo farlo come public company.
Quello che mi dispiacerebbe, «passeggiando» in questi luoghi comunque da un po' di anni, è che si vendesse agli amici degli amici. Allora sì che Fincantieri sarebbe finita. C'è chi sostiene che è uno scandalo se un'azienda si mette sul mercato per potersi finanziare, per poter avere il cash flow, per poter investire e per far diventare più grande l'azienda. Io non solo sono d'accordo, ma al 49 per cento addirittura la collocherei domani mattina sul mercato. Faccio l'imprenditrice da tanto tempo e quello che mi interessa delle aziende è detenere la maggioranza; le minoranze le potrei cedere in qualsiasi momento.
Ma se questo non piace per un motivo ideologico (capisco che la quotazione in Borsa, forse, qua dentro ad alcuni evoca qualcosa di ideologicamente sbagliato), allora vorrei fare un'altra proposta: abbiamo visto quanti utili hanno aziende come ENI o Finmeccanica ; perché, allora, ENI non può comprare il 49 per cento di Fincantieri, visto che potrebbe anche ricavarne un business strategico? Fincantieri potrebbe costruire petroliere, visto che il business è quello della costruzione delle navi.
Io opterei sicuramente per una quotazione in Borsa e, anzi, cercherei di far capire alla FIOM che sarebbe bene che si


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occupasse dei diritti dei lavoratori e, magari, di quella politica fallimentare della contrattualizzazione centralizzata che ha fatto sì che non si aumentassero i salari. Questo è un problema della FIOM. Non credo invece che in questa Commissione si debba discutere se sia giusta o sbagliata la quotazione in Borsa, né dobbiamo stare a discutere, secondo me, sull'ipotesi che resti al 100 per cento di proprietà dello Stato.
Credo che lo Stato abbia troppo, dovremmo cominciare a dismettere e non certo a fare quelle privatizzazioni, come sono state fatte in anni un po' più lontani, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Presidente Bono, la ringrazio per questa audizione, che è stata molto importante e ringrazio anche i vertici di Fincantieri per averci messo bene a conoscenza dello stato della società. Credo però che non si possa neanche pensare che lo Stato debba versare 800 milioni di euro. Se gli italiani e le italiane capissero e sentissero che noi potremmo anche solo ventilare l'idea che lo Stato metta i soldi in Fincantieri, allora personaggi come «Grillo» continuerebbero ad aumentare.

IVANO STRIZZOLO. Signor presidente, esprimo apprezzamento per il quadro che il presidente Bono ha descritto alla Commissione circa l'attuale situazione di Fincantieri, un'azienda, come è stato ricordato, che è stata non solo risanata, ma che si colloca ai vertici dei mercati mondiali per quanto riguarda la cantieristica. Proprio in questa fase, nella quale l'azienda gode di buona salute per i dati che ci sono stati forniti, evidentemente essa è chiamata a fare scelte importanti affinché la sua posizione in prospettiva si consolidi.
Esistono gli elementi - ho ascoltato con attenzione anche gli interventi di quasi tutti i colleghi - per individuare, se non un punto di convergenza, almeno una base di discussione. Credo sia giusto avere qualche preoccupazione e fare qualche valutazione in più sulle prospettive del mercato, come quella del collega Ricci, il quale dice di porre attenzione sul fatto che la remunerazione del capitale investito eventualmente dai privati, con l'acquisizione del 49 per cento, forse non sarà sufficiente per mantenere l'investimento privato in Fincantieri; però occorre considerare che l'impresa è anche rischio. Credo che dobbiamo nutrire un certo ottimismo nei confronti delle capacità di questa azienda che oggi è forte sul mercato, proprio perché ha saputo innovarsi ed acquisire tecnologie che le hanno assicurato importanti quote di mercato.
In definitiva se lo Stato, che attualmente detiene il 100 per cento delle azioni, mantenesse una quota del 51 per cento, andando avanti con l'ipotesi di collocazione in Borsa del restante 49 per cento, ciò rappresenterebbe comunque una garanzia - se questa è la preoccupazione di fondo - che l'azienda non verrà abbandonata in mare aperto (visto che parliamo di cantieristica) senza alcuna possibilità di tutelarsi in futuro o di far fronte a situazioni possibili di difficoltà. Credo che, magari ragionando ancora e approfondendo alcuni aspetti, ci sia la possibilità di convincere se non tutti, almeno una parte di quelli che oggi nutrono qualche riserva, che questa operazione deve essere fatta e non rimandata nel tempo, poiché le condizioni dei mercati, le situazioni complessive possono anche cambiare. Oggi Fincantieri vive un momento favorevole.
Probabilmente si presenterà la necessità di una revisione della missione di alcuni degli otto cantieri attualmente esistenti, ma in una visione complessiva che sicuramente può rafforzare questa azienda.
Certamente, prescindendo dal dato ideologico, la possibilità di ragionare attorno a un tavolo così da realizzare qualche forma di condivisione da parte delle rappresentanze dei lavoratori, non costituisce sicuramente uno scandalo: basta che questo non sia un punto che ritarda e impedisce il rafforzamento dell'azienda, che deve avvenire oggi, in queste settimane, perché altrimenti si rischia di perdere qualche ulteriore potenzialità.
Mi pare poi che l'onorevole Crosetto abbia ricordato che il 15 per cento viene incassato all'ordine, l'85 per cento alla consegna.


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Poiché il presidente Bono ci ha ricordato che la stragrande maggioranza dei fornitori è costituita da aziende italiane delle regioni in cui sono collocati i cantieri, credo che l'attuale capacità finanziaria di Fincantieri, costituisca un aspetto importante che ha rilievo nell'indotto occupazionale. Penso infine che se questa condizione consente anche di rafforzare ulteriormente la competitività, allora essa può trovare un sostegno attraverso la collocazione in borsa del 49 per cento delle azioni.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al presidente Bono per qualche eventuale puntualizzazione o ulteriore riflessione, mi permetto di aggiungere una considerazione e alcune domande molto sintetiche.
In termini conoscitivi noi ci troveremo presto in Commissione bilancio ad esaminare un decreto legislativo del Consiglio dei ministri che recepisce la nuova direttiva comunitaria in materia di Opa, modificando la legislazione precedente che risale al 2004. Con questa nuova direttiva comunitaria in materia di offerte pubbliche di acquisto, che andrà recepita, si stabilisce che, al fine di favorire la possibilità di detenere la governance di grandi gruppi industriali e delle public companies in cui, come sappiamo, il capitale è molto polverizzato, si prevede una percentuale minima di partecipazione del 30 per cento. Ne parleremo meglio, evidentemente, quando il decreto legislativo di recezione della direttiva comunitaria sarà sottoposto all'esame della Commissione.
Desidero inoltre ricordare, a beneficio di tutti noi, è che di questa materia, cioè di Fincantieri, si è parlato anche nella risoluzione sul documento di programmazione economica e finanziaria (in particolare se ne è parlato al Senato). Noi abbiamo recepito la parte della risoluzione che era stata approvata dai colleghi del Senato, sottolineando e approfondendo alcune questioni. Ebbene, in questa risoluzione del Senato che è stata, diciamo così, «fagocitata» dalla risoluzione della Camera, si parla non tanto di ancorare la decisione di investimento ad un discorso specifico di assetto proprietario, quanto di subordinare il procedimento all'adozione alla presentazione di un piano industriale che, attraverso un confronto più aperto, possa portare comunque a delle decisioni.
In questo senso, mi interessava porre due domande semplici: in primo luogo, essendo molto importante il confronto con il sindacato, che rappresenta i lavoratori, volevo sapere quale sia il quadro degli orientamenti delle organizzazioni sindacali che operano in Fincantieri e se il presidente Bono ci possa rappresentare la situazione - ovviamente senza invadere campi altrui - semplicemente in termini conoscitivi. Immagino che abbiate parlato a lungo di queste cose.
In secondo luogo, pongo una questione che credo stia a cuore a tutti, poiché certamente interessano i risultati aziendali e le prospettive di crescita, ma interessa anche il risvolto occupazionale. Occorre che il risultato di esercizio non diventi una specie di feticcio. Mi interessa dunque capire, dato che si faceva riferimento a prospettive di crescita occupazionale - si parlava di 250-300 persone, più il rimpiazzo del turn over (se non ho capito male) - se questo discorso è collocato geograficamente all'interno del nostro Paese, oppure spazia anche su altri Paesi nei quali operate. Do la parola al nostro ospite per la replica.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Grazie a tutti per gli interventi e per le parole di apprezzamento che sono state spese sull'operato del gruppo dirigente e, quindi, su tutta l'azienda. Non ho mai pensato, infatti, che solo il capo o il gruppo dirigente siano l'azienda. Un'azienda è composta da tutti: 9.000 addetti, più altri 10.000, più 6.000 fornitori che lavorano per la Fincantieri.
Parto dall'ultima questione posta. Abbiamo detto che rimpiazzeremo il turn over e, in più, avremo 250 nuove assunzioni sul territorio nazionale. Abbiamo stimato, sulla base dell'esperienza, un turn over con circa 250 fuoriuscite all'anno e quindi abbiamo calcolato, se ci si mantiene entro questi limiti, 250 nuove assunzioni,


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considerando quelli che vanno in pensione oppure coloro che vanno via avendo trovato un'altra occupazione. Se saranno di più, li rimpiazzeremo.
Ho sempre espresso una preoccupazione, sia al sindacato che al Governo: secondo me sarà difficile che questo Paese riesca a darci, nei prossimi anni, 1.250 o 1.500 professionalità fra quelle che noi vogliamo. Di ciò, secondo me, si parla poco: rischiamo che tra dieci anni molte imprese italiane smettano di lavorare in Italia perché non ci saranno le professionalità. Non ci saranno i saldatori, non ci saranno i carpentieri, non ci saranno i progettisti.
Questo è uno dei problemi che, secondo me, andrebbe affrontato. Noi facciamo tanta formazione, svolgiamo anche molte attività di inserimento, ma non riusciamo a trovare tali professionalità. Mi auguro che nei prossimi anni le troveremo, altrimenti sarà un problema mantenere queste produzioni nel nostro Paese. Credo che su questo il Parlamento debba fare una riflessione.
Capisco l'atteggiamento del sindacato, perché io porto l'esperienza di un'azienda tra le poche che hanno mantenuto un'alta intensità di lavoro. Si tratta di un'azienda che ha una sindacalizzazione che in altre aziende non c'è (qui si fa industria).
Ho sentito ripetere diverse volte la questione del piano industriale. Non sono abituato a fare polemica, anche perché non avrei il tempo di farla. Ebbene, noi abbiamo avuto, col Governo o da soli, una serie di incontri con il sindacato. Quando il Governo, il 18 luglio, ha dichiarato che avviava il processo di quotazione dopo un anno di discussioni - ero presente a tutte le discussioni, non ricorro a qualche insider di informazione, quindi lo posso dire - la CISL, la UIL, la UIM e la FIM, come sigle dei metalmeccanici, hanno dichiarato il loro accordo e la FIOM non l'ha fatto. Questo è il quadro attuale.
Capisco anche che devono essere difesi sia l'azienda che i lavoratori, ma questo è proprio quello che noi facciamo. In più abbiamo anche proceduto ad una ridistribuzione: nel 2004, nell'ambito di una tempesta sindacale - ricordo che nel 2003 la Federmeccanica aveva firmato il rinnovo del contratto dei metalmeccanici solo con CISL e UIL, mentre la FIOM non l'aveva firmato -; io, a nome della Fincantieri, unica grande azienda del Paese, mi sono adoperato in una trattativa di piattaforma integrativa aziendale, per fare un accordo con tutti e tre i sindacati, dando più soldi di quelli stabiliti dal contratto, in quanto ritenevo giusto che, in parte, l'azienda dovesse ridistribuire.
La difesa del lavoro, per noi, è fondamentale. Lo dicevo prima: la mia preoccupazione è quella di riuscire a trovare quelle professionalità che perderemo nei prossimi anni a causa dei pensionamenti e quant'altro. Tra il 2000 e il 2002, sono andate via, in virtù della legge sull'amianto, 2.500 persone, che abbiamo rimpiazzato sostanzialmente con giovani inesperti, i quali - ne ho parlato con il sindacato e lo propongo come esperienza, non per polemica - ci hanno portato dei problemi che, secondo me, sono di carattere sociale e come tali vanno affrontati.
I giovani di oggi che entrano in una fabbrica a lavorare non sono quelli di venti o trent'anni fa, perché hanno un altro modo di vivere, un altro stile di vita. Questo non è un problema solo dell'azienda e deve essere affrontato dalle comunità locali, dalle autorità locali e dal sindacato. Abbiamo tassi di assenteismo all'interno dell'azienda che raggiungono, in alcuni casi, il 15 per cento. Non voglio fare la lotta al sindacato, anzi chiamo il sindacato ad essere a fianco dell'azienda.
Capisco che è scomodo dire queste cose, però penso che nella responsabilità di chi gestisce aziende con professionalità e, nel mio caso, anche con amore, certe cose vanno dette! Io, poi, contro il pubblico non posso avere niente, in quanto ho lavorato e fatto tutta la mia carriera nelle partecipazioni statali di cui ho visto i lati positivi e quelli negativi. Dobbiamo anche ammettere i lati negativi, altrimenti rimpiangiamo il passato come l'età dell'oro, che forse c'è stata all'inizio, ma poi è passata. Pongo alla vostra attenzione problemi reali su cui, secondo me, andrebbe


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svolta una discussione: occorre fare formazione, avere la capacità di attrarre i giovani a scegliere certi mestieri, retribuendoli meglio e facendo loro intravedere delle prospettive, spiegando cioè che non saranno per tutta la vista saldatori, carpentieri o ebanisti. Capisco che un ragazzo che deve intraprendere una carriera preferisca strade diverse, però il tessuto industriale del Paese è questo, deve essere questo.
Rispondo all'onorevole Piro - quando vorrà ne parleremo più approfonditamente - dicendo che noi, in questo momento, stiamo facendo a Palermo una delle cose più importanti dal punto di vista tecnologico. Abbiamo vinto una commessa con la SAIPEM. Questo per dirle come funziona il mercato.
La SAIPEM aveva messo in gara una nave posa tubi, che doveva andare a Palermo. Abbiamo fatto la gara; dal punto di vista tecnico tutto era a posto. Ho mosso mari e monti, ovviamente (Prodi, Bersani; sono stato personalmente a parlare anche con Scaroni) e alla fine, abbiamo offerto con sofferenza 370-380 milioni di dollari, mentre la Cina ha offerto 200 milioni di dollari. Scaroni mi ha detto che se la differenza fosse stata del 20 per cento avremmo avuto l'aggiudicazione, ma al doppio non era possibile! Di questo stiamo parlando.
Successivamente è stato messo a gara l'allestimento di una piattaforma offshore costruita, per la parte scafo, in Russia. Per fortuna hanno messo a gara solo l'allestimento, gara che noi abbiamo vinto. Concorrevamo solo noi e un cantiere olandese, perché l'allestimento era veramente qualcosa da far tremare i polsi. Parlo di una commessa da 250 milioni di euro, che facciamo a Palermo.
Non ci possiamo addormentare, perché ci saranno sempre navi da crociera. Ci dobbiamo attrezzare perché anche in altri segmenti la tecnologia avanza. Stiamo studiando a proposito della nave che porta l'olio di colza dalla Malesia per produrre qui da noi il biodiesel; oppure dobbiamo attrezzarci per la realizzazione di una nave gasiera che degasifica a bordo.
Se analizziamo i dati relativi all'investimento, noi sosteniamo le spese per la ricerca ogni anno: considerate che spendiamo qualcosa come 50 milioni di euro.
Vengo al punto della redditività. La FIAT, marginalmente, ha una redditività inferiore a quella della cantieristica. Purtroppo, chi mastica di economia (o è appassionato oppure semplicemente legge), deve sapere - lo so perché è una vita che lavoro nell'industria - che l'industria è maledetta, perché è lì che si fanno i prodotti, ma non si guadagna. Si guadagna invece dove questi prodotti vengono utilizzati. Guadagna chi fa le crociere, guadagna l'ENEL, ma non chi fa le centrali. Io sono stato in Finmeccanica e posso dire che l'Ansaldo energia non guadagna tanto. Sono questi i livelli in cui noi ci inseriamo perfettamente, pur collocandoci ad un livello maggiore.
L'industria lavora con questi margini. Allora vuol dire che la Borsa non va bene per questa industria? Ma in tutto il mondo è così.
Infine, per chiudere, svolgo una considerazione. Ogni tanto questo Paese si dimentica i fatti che sono accaduti e non ne trae spunto per il futuro. Abbiamo in Italia un caso emblematico. Non voglio parlare dell'Alitalia, caro presidente Tabacci, perché sparare sulla Croce rossa è facile, però abbiamo il caso della FIAT, che è una società quotata.
Fino a due anni fa credo che non ci fosse una sola persona in tutto il Paese che potesse scommettere sulla FIAT. Ma la FIAT andava male perché era quotata in Borsa? Non credo. La FIAT andava male perché era gestita male, era gestita da gente incompetente che non sapeva e non voleva fare le macchine e voleva pensare ad altre cose. Quando è arrivato un bravissimo ragioniere che sa fare i conti, costui ha fatto i suoi calcoli, ha presentato un piano industriale, l'ha portato in Borsa e la Borsa ha dato i soldi ad un'azienda che tutti dichiaravano fallita.
Posso fare un esempio personale. Nel 1997 ero direttore generale di Finmeccanica, un'azienda fallita! Abbiamo chiuso il


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bilancio del 1997 con 2.350 miliardi di perdita; a previsione chiudevamo il 1998 con 800 miliardi di perdita e avevamo bisogno di fare un aumento di capitale. L'IRI possedeva il 61 per cento e non poteva dare più del 61 per cento. Ci siamo presentati alla Comunità europea con un piano di ristrutturazione e risanamento molto doloroso, che credo abbia dato i suoi frutti, considerato che adesso tutti parlano bene di Finmeccanica. Per non avere l'obiezione della Comunità, abbiamo detto che l'IRI avrebbe sottoscritto il 61 per cento e il resto saremmo andati a cercarlo sul mercato. Abbiamo lanciato un aumento di capitale di 1.800 miliardi, spiegando bene la nostra strategia, e la Borsa ci ha dato il 39 per cento di questi 1.800 miliardi. Se non ci fosse stata la Borsa, Finmeccanica era chiusa, perché l'IRI non poteva erogare i 1.800 miliardi senza aprire un contenzioso con la Comunità (il che non è un capriccio). Viviamo in un mercato che è ormai integrato: se domani il Governo mi desse 400 milioni di euro, i tedeschi, i finlandesi, i norvegesi, o i francesi protesterebbero. Infatti, quei soldi mi consentirebbero di fare investimenti e, trattandosi di risorse fornite dallo Stato, saremmo di fronte ad un'operazione distorcente della concorrenza.
Come sapete, ogni anno si aggiorna il piano precedente. L'anno scorso abbiamo elaborato il piano 2007-2011; adesso stiamo preparando il piano 2008-2012. Come ogni anno, in ogni cantiere, con il sindacato, si discutono, si illustrano e si spiegano gli investimenti che si fanno nel cantiere stesso. Una simile attività costituisce la prassi normale. Conosciamo e rispettiamo le relazioni industriali e le relazioni sindacali e vorremmo che il sindacato ci stimolasse a fare meglio.
Se il presidente lo consente, lascio agli atti di questa Commissione una documentazione relativa al gruppo Fincantieri.

PRESIDENTE. La presidenza autorizza la pubblicazione di tale documentazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna. Ringraziamo il presidente per la passione che mette nel fare questo mestiere e nell'esporre la sua attività nelle diverse sedi, al di là del fatto che si possa essere d'accordo o meno.
Continueremo a svolgere la nostra indagine e poi alla fine tireremo le somme.
Prego i colleghi della Commissione bilancio di tenersi all'erta perché, nel caso fosse necessario, ci dovremo convocare per l'esame degli gli emendamenti relativi al provvedimento in discussione in Assemblea sull'avvio dell'anno scolastico.
Ricordo, per chi non lo sapesse, che domani alle 14 si svolgerà l'audizione del Ministro dell'economia e delle finanze Tommaso Padoa-Schioppa, che inizia al Senato il ciclo di audizioni sulla legge finanziaria.
Nel ringraziare tutti gli intervenuti, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,45.

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