Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 9,45.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul titolo V della parte II della Costituzione, l'audizione di rappresentanti delle regioni, degli enti locali, delle imprese, dei sindacati e di altri enti associativi in tema di riparto di competenze tra Stato, regioni e autonomie locali.
Il presidente Bianco ed io vi ringraziamo per aver raccolto il nostro invito. Le Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato hanno svolto nei mesi scorsi un'approfondita discussione sulle prospettive in materia di riforme costituzionali, dopo l'esito del referendum del 25 e 26 giugno.
Le Commissioni all'unanimità hanno convenuto sull'esigenza preliminare di individuare un punto di partenza condiviso ed avviare iniziative mirate a questioni specifiche che si propongono di essere utili nell'interesse del paese e delle singole istituzioni. Naturalmente non abbiamo tutti lo stesso giudizio sia sul significato del voto referendario sia sulle vicende che hanno portato a quell'esito. Tuttavia, vi è un comune riconoscimento di alcuni dati di fatto che qui sintetizzo.
In primo luogo, l'esito della consultazione referendaria non chiude il discorso sulle riforme, ma segna una netta cesura ed impone una fase di riflessione sui metodi con cui riprendere il lavoro. In secondo luogo, questa fase di riflessione deve avvalersi dell'attività svolta nella XIII e nella XIV legislatura. In terzo luogo, la fase di riflessione non può più limitarsi al dialogo tra le diverse forze politiche, ma deve dare voce e rendere protagoniste le rappresentanze delle regioni, delle autonomie locali, del mondo del lavoro, dell'impresa e della scienza costituzionale.
Il luogo primario di questo confronto è il Parlamento come rappresentanza unitaria della comunità nazionale, ma possono rivelarsi utili anche altre iniziative da parte delle regioni, degli enti locali e di altri soggetti.
Il discorso sulle riforme può ripartire in modo graduale e differenziato, cominciando dalle cose che, comunque, si devono fare (penso, per esempio, al federalismo fiscale) e che corrispondono alle esigenze obiettive, avvertite, in primo luogo, dalla comunità dei cittadini.
Il processo di attuazione e, ove necessario, di revisione del vigente Titolo V sulla base dell'esperienza fin qui compiuta corrisponde a queste caratteristiche. È un'esigenza avvertita e reclamata dalle diverse componenti territoriali e sociali della comunità nazionale ed è la sola qualità
riconosciuta da tutte le forze politiche. Pertanto, le Commissioni affari costituzionali del Senato e della Camera hanno convenuto sulla necessità di ricostituire un quadro conoscitivo sullo stato delle esperienze finora acquisite, condiviso anche dal sistema delle autonomie, chiedendo valutazioni e suggerimenti (questo è lo scopo di questi quattro incontri) a tutti i soggetti organizzati che sono o destinatari o attuatori delle disposizioni costituzionali in materia di federalismo.
Le Commissioni hanno, quindi, deliberato di svolgere questa indagine conoscitiva, che si articolerà in quattro sedute, concentrata su alcune specifiche tematiche. Non vi sfuggirà che si tratta di un modulo abbastanza innovativo, perché in genere le indagini conoscitive procedono audizione per audizione, ma in questo modo possiamo cogliere meglio insieme le ragioni degli altri, uno dei modi con il quale si può andare avanti nel lavoro politico.
L'indagine conoscitiva, quindi, è mirata a conoscere lo stato delle cose. Non si tratta di un'indagine di carattere conoscitivo, ma di sviluppare la capacità della politica di fare sintesi delle varie questioni che emergono.
Questa impostazione implica una serie di indicazioni di metodo. Primo: una indicazione va a favore del metodo realistico, nel quale il cambiamento è unito all'altro concetto di consenso. Secondo: si può mirare ad una razionalizzazione e semplificazione del sistema, eliminando gli elementi che si rivelano nella pratica come sovrastrutturali, non essenziali e costosi.
In questa prospettiva è utile tener presente che la trasformazione del sistema di governance in Italia è fortemente collegata al contesto europeo dal quale non si può prescindere.
Occorre, quindi, considerare i fattori di rango costituzionale che sorreggono l'Unione europea in questa fase, ed anche le riforme in atto, appena effettuate o da effettuare, in particolare in tre paesi europei, Germania, Austria e Spagna. La Germania ha appena concluso, il 29 luglio scorso, una riforma del sistema federale. È necessario procedere attraverso un dialogo paritario tra tutti i soggetti interessati. Sulla base di queste indicazioni di metodo, l'indagine conoscitiva può essere indirizzata all'approfondimento delle quattro tematiche a voi ben note.
Permettetemi di ricordare, infine, alcune norme di sistema contenute nella riforma del Titolo V e non modificate dalla riforma proposta nella scorsa legislatura, quindi quelle che sono passate attraverso due legislature. Esse sono l'attribuzione a Stato, regioni ed enti locali di una pari dignità, quali enti costitutivi della Repubblica, l'esercizio delle competenze legislative di Stato e regioni nel quadro dei vincoli stabiliti dall'ordinamento comunitario, l'inversione del criterio di riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni realizzatasi elencando le materie di competenza esclusiva dello Stato e quelle rientranti nella competenza concorrente di Stato e regioni ed attribuendo alle regioni la competenza legislativa piena su tutte le altre materie, l'attribuzione delle competenze amministrative in via generale ai comuni, l'attribuzione a regioni ed enti locali dell'autonomia finanziaria di entrata e di spesa, la soppressione del visto sulle leggi regionali e dei controlli preventivi sugli atti delle regioni e degli enti locali. Questi sono i punti sui quali si è realizzata un'intesa, tra la XIII e la XIV legislatura.
I quattro temi, come noto, sono il riparto delle competenze tra Stato, regioni e autonomie locali, oggi; domani, al Senato, con la presidenza del presidente Bianco, tratteremo del federalismo fiscale; successivamente, nella terza sessione, il 19 ottobre, delle sedi di raccordo, consultazione e codecisione tra Stato, regioni ed autonomie locali, infine, il 20 ottobre, di aree metropolitane, Roma capitale ed altre forme istituzionali di governo nelle diverse articolazioni territoriali.
Ora sarà espresso un indirizzo di saluto da parte del presidente della 1a Commissione, affari costituzionali, del Senato, senatore Enzo Bianco, dopodiché il senatore Pastore introdurrà brevemente il tema ed a quel punto gli interventi saranno liberi. Essendo questa una sede informale, se vi
è qualcuno che vuole intervenire, anche più di una volta e su temi specifici, con la necessaria sintesi, credo che sarebbe utile, perché ciò che ci occorre è avere da parte vostra, che siete coloro che applicano - o subiscono, per taluni aspetti - questo tipo di riforme, il quadro reale delle valutazioni e delle proposte.
ENZO BIANCO, Presidente della 1a Commissione permanente del Senato. Grazie, presidente Violante. Anch'io desidero associarmi al ringraziamento espresso agli esponenti delle regioni, delle province, dei comuni, delle organizzazioni rappresentative del sistema delle autonomie locali, del mondo produttivo, del mondo del lavoro, del mondo delle categorie professionali, per avere accolto il nostro invito.
Vorrei sottolineare due aspetti che mi sembrano di particolare rilievo e che già il presidente Violante ha posto alla vostra attenzione. Il primo aspetto è il metodo con cui sono svolte queste audizioni. Mi preme rilevare, in particolare, che noi troviamo particolarmente utile, per le Commissioni della Camera e del Senato che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovranno occuparsi dell'argomento, mettere a confronto le diverse posizioni, consentendo, tra l'altro, a ciascuno di voi di conoscere le valutazioni, le riflessioni, i suggerimenti e le impostazioni degli altri. Quindi, si tratta non di una - permettetemi l'espressione informale - arida comunicazione predeterminata, che vi viene sottoposta, per quanto naturalmente essa possa essere frutto di elaborazioni, di riflessioni ed anche di studi, ma di un confronto che può consentire a noi di conoscere anche le posizioni dialettiche.
Il secondo aspetto che vorrei mettere in luce è il metodo con cui intendiamo operare, nel senso che non vi sono, come avete potuto constatare, tesi precostituite. Non è un'indagine conoscitiva fondata sulla base del principio, che qualche volta si pratica, di una tesi che le Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato, o il Governo, sottopongono ad una riflessione ed alla ricerca di un consenso o di approfondimenti, ma si tratta di esaminare alcuni problemi. Sappiamo che le soluzioni a tali problemi sono naturalmente diverse e diversificate; desideriamo conoscere su ciò le vostre valutazioni e trarremo, dalle valutazioni che saranno compiute, le ragioni per decidere in che modo proseguire.
Con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, le regioni e gli enti locali sono assurti al rango di enti costitutivi della Repubblica.
Il testo vigente dell'articolo 114 della Costituzione stabilisce che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. Tale innovazione va posta in relazione ai principi fondamentali delineati dall'articolo 5 della Costituzione: il riconoscimento delle autonomie, la loro compartecipazione all'unità e alla indivisibilità della Repubblica, la necessità che la legislazione repubblicana adegui i suoi principi e metodi alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
Persino l'abrogazione di alcune norme, che riguardavano i controlli sulle regioni e gli enti locali, può ricollegarsi al fatto che non vi è più una sovraordinazione gerarchica dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali, in base alla quale si debba necessariamente esercitare una funzione di tutela sugli enti sottordinati.
Ogni livello istituzionale citato nell'articolo 114 della Costituzione è titolare di autonomia politica e normativa che ha legittimazione nella cura degli interessi generali della comunità territoriale rappresentata.
Va altresì considerato che l'articolo 118 della Costituzione prevede l'attribuzione dell'attività amministrativa ai comuni, quali enti più vicini al cittadino e, solo in via residuale ed in armonia con i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, agli altri enti territoriali, ove vi siano esigenze legate al loro esercizio unitario.
Nell'ambito di tale quadro costituzionale, diverse sono le questioni tuttora aperte. Questioni che, in sede di relazione introduttiva, possono essere enumerate
senza presunzione di esaustività e che in parte sono state già ricordate dal presidente Violante.
Il tema dei raccordi tra i diversi livelli amministrativi, che implica la ricerca di soluzioni atte a coniugare l'esigenza di coordinamento tra i diversi enti della Repubblica con il rispetto delle sfere di autonomia costituzionalmente garantite. In tale ottica, è oggetto di discussione l'eventuale introduzione di nuove forme, compatibili con il complessivo quadro costituzionale, delle funzioni di controllo.
La valorizzazione del principio di sussidiarietà in tutte le sue accezioni, che comporta tra l'altro una riflessione sulle esigenze di governo per le dimensioni territoriali che non coincidono con le articolazioni tradizionali. Esigenze che potrebbero trovare soddisfazione attraverso l'effettiva istituzione delle città metropolitane, ad esempio con il nuovo statuto di Roma Capitale.
L'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione e dei sottesi principi di autonomia finanziaria e impositiva degli enti territoriali.
L'attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), in relazione all'individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali e alle modifiche correlate della disciplina del Testo unico delle autonomie locali.
La definizione dell'ordinamento di Roma Capitale nonché l'individuazione di forme istituzionali atte a consentire l'emersione dei punti di vista degli enti territoriali nella fase prodromica all'approvazione delle leggi statali.
Saranno le risultanze dell'indagine, che ci accingiamo ad avviare, a fornire gli elementi conoscitivi per approfondire i temi citati. Ci aspettiamo molto da questa indagine conoscitiva e - come affermato dal presidente Violante -, dopo questa fase, continueremo a svolgere ulteriori approfondimenti. Siamo curiosi di conoscere le vostre riflessioni e valutazioni.
ANDREA PASTORE. Signor presidente, a me tocca il compito di iniziare questa sessione dell'indagine conoscitiva e, nel salutare tutti i presenti, i colleghi parlamentari ed i presidenti, vorrei dire che le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato hanno raggiunto da subito un'intesa generale su tale indagine conoscitiva. Le rappresentanze parlamentari, infatti, si rendono conto che occorre verificare, approfondire e mettere mano alla riforma del Titolo V che ha scandito tutta la passata legislatura, ha creato molti problemi ed altri problemi potrebbe continuare a determinare.
Vorrei richiamare brevemente un'esperienza che la Commissione affari costituzionali del Senato fece all'inizio della scorsa legislatura. Anche tale esperienza fu condivisa da tutte le forze politiche e si tradusse in un'indagine conoscitiva sulla riforma che stava entrando in vigore in quei giorni. Fu proprio il 17 ottobre 2001, cioè all'indomani del referendum costituzionale confermativo della riforma del Titolo V, che venne autorizzata dal Presidente del Senato la suddetta indagine conoscitiva della I Commissione che condusse i lavori con una relazione condivisa da tutte le forze politiche presenti in Commissione, nella quale venivano riassunti i punti più significativi e quelli maggiormente problematici del nuovo assetto costituzionale ed erano prospettati i percorsi da seguire per attuare, ed in alcuni punti correggere e completare, la riforma.
Le conclusioni di tale indagine sono ancora attuali, in gran parte confermate, approfondite ed in alcuni punti anche corrette dall'esperienza parlamentare e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalla giurisprudenza amministrativa. I lavori furono presentati in forma solenne, anche alla presenza del Capo dello Stato, e rappresentarono un buon viatico per l'attuazione e per la correzione della riforma costituzionale.
Ricordo le problematiche che emersero allora perché sono state verificate nel corso di questi cinque anni di esperienza. Innanzitutto, emerse la convinzione che i problemi che elencherò di seguito avrebbero potuto compromettere la stessa vita istituzionale del nostro paese determinando
a tutti i livelli di governo o la paralisi, ovvero il conflitto permanente e diffuso tra le istituzioni di volta in volta interessate. Nella relazione si lamentava la mancanza di norme transitorie di prima attuazione che avrebbero, invece, dovuto guidare i processi di avvio della riforma costituzionale. Si rilevava con preoccupazione diffusa l'indebolimento della centralità dello Stato che veniva «asciugato» di competenze e poteri dall'Unione europea - allora era in corso l'elaborazione della Costituzione europea - e dalle regioni. Si mettevano in evidenza l'erosione del valore della certezza del diritto, dovuta appunto alla conflittualità, sia per le istituzioni, sia per i singoli cittadini, l'affievolimento del principio gerarchico tra le varie fonti del diritto e l'introduzione di un sistema molto articolato, frantumato e spesso contraddittorio di poteri e competenze. Vi era anche la scomparsa del richiamo all'interesse nazionale, considerato fino a quel momento dalla giurisprudenza della Corte costituzionale come il parametro principe nella valutazione degli interessi in gioco, laddove si determinassero conflitti tra competenze dello Stato e delle regioni. L'interesse nazionale, infatti, fino a quel momento era considerato fondamentale per lo scrutinio di legittimità da parte della Corte.
Non mancava, poi, una serie di dati che portava a ritenere persistente il valore dell'unità nazionale. Vi era un elenco piuttosto nutrito, e perciò disomogeneo, delle materie cosiddette trasversali (articolo 117, secondo comma), la previsione di poteri sostitutivi in capo allo Stato (articoli 117 e 120), oltre che elementi di contesto ravvisabili, ad esempio, nella vigenza dell'articolo 5 non modificato della Costituzione, che definisce la Repubblica come «una e indivisibile» ed attribuisce, già dal 1948, alle autonomie una dignità costituzionale, e la presenza forte e significativa del principio di sussidiarietà.
Quale fu la conclusione di quell'indagine, al di là dei punti specifici? Nello sviluppo e nella valorizzazione di procedure concordate tra i vari livelli di governo si indicava l'attuazione del principio di leale collaborazione, non tanto come antidoto, ma come una sorta di vaccino preventivo rispetto ad una possibile trasformazione del federalismo da competitivo-solidale in federalismo conflittuale. Pertanto, si intravedeva nel ricorso alla Commissione bicamerale per gli affari regionali, integrata con i rappresentanti delle regioni - prevista dall'articolo 11 della riforma - uno strumento da attuare e valorizzare, in attesa della riforma costituzionale per l'introduzione di una vera e propria Camera o Senato delle regioni.
Per quanto riguarda la mancanza di norme transitorie, si evocava l'esistenza di una transitorietà implicita che dovesse presidiare l'attuazione della riforma, si prefigurava un percorso legislativo di attuazione e, contestualmente, di correzione della riforma. Ricordo tutto ciò, non per una sorta di Amarcord parlamentare, ma per ribadire che l'esperienza successiva ha confermato che si tratta di problemi che, per lo più, non sono stati risolti. Tuttavia, è stato portato avanti un complesso processo di attuazione; ricordo per tutti la legge cosiddetta La Loggia e la riscrittura della legge La Pergola, in materia di recepimento di atti comunitari; potremmo ricordare anche la legge quadro sul sistema di elezione delle regioni e così via.
Queste leggi sono nate da un confronto sereno nelle aule parlamentari e sono state condivise anche dall'opposizione di allora. La giurisprudenza della Corte è, secondo me, un punto di riferimento indispensabile perché, da una parte, conferma quello che già emergeva dal testo costituzionale e che avevamo sviluppato in quella indagine, dall'altra, valorizza e focalizza quegli aspetti della riforma costituzionale che, secondo me, devono rappresentare un punto fermo per un eventuale percorso di successiva riforma dell'articolo 117 e di quelli che riguardano il federalismo.
La giurisprudenza della Corte ha consentito e consente, oggi, di considerare il modello costituzionale come più articolato e strutturato di quanto sia apparso anche al primo esame di cui parlavo prima, ma soprattutto di guardare ad un percorso di ripensamento costituzionale non portato a
compimento - com'è noto dall'indagine precedente - a causa della mancata conferma referendaria della riforma, ma i cui lavori e i cui esiti non possono essere né ignorati nè dispersi.
Sul punto della transitorietà implicita, la Corte ha affermato il principio della continuità normativa, per il quale le norme statali continuano a vivere nonostante il mutato assetto istituzionale, fino a quando non vengono adottate leggi regionali conformi al nuovo riparto di competenze. Inoltre, si è affermato un altro principio abbastanza noto, quello della continuità istituzionale, in funzione di conservazione degli apparati - soprattutto quelli amministrativi -, finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali, con richiamo sistematico ai decreti Bassanini che hanno, prima della riforma costituzionale, riorganizzato funzioni e uffici della pubbliche amministrazione.
Sul riparto delle competenze, la stessa giurisprudenza è in continuo divenire ed intrinsecamente transitoria. Esso non è un riparto definitivo e immutabile, ma variabile ed elastico, con ampi margini per l'interpretazione e la valorizzazione del principio di sussidiarietà, mediante l'ormai nota «chiamata in sussidiarietà», a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, la quale depotenzia - fino quasi ad annullarlo - il valore precettivo dell'elenco delle materie contenute nell'articolo 117, esaltando, altresì, il principio di leale collaborazione ed i processi consultivi e concertativi tra Stato e regioni.
È un passaggio estremamente importante perché questa sussidiarietà, utilizzata per così dire a rovescio, cioè, dal basso verso l'alto, ha rappresentato un'assoluta novità interpretativa della riforma costituzionale. Anche in questo caso, comunque, ciò si traduce poi nella necessità di valorizzare i procedimenti, più che i contenuti e le competenze.
Come è stato rilevato, il nodo centrale è che un sistema istituzionale multilivello non può funzionare attraverso il conflitto giurisdizionale e le sentenze della Corte costituzionale, ma ha bisogno di serie e funzionanti istituzioni e di procedure di cooperazione. Non compete a me certamente trarre delle conclusioni né formulerò proposte di sorta, posto che mi auguro scaturisca dal dibattito stesso e dagli interventi che seguiranno una linea condivisa da parte delle Commissioni riunite della Camera e del Senato, al fine di iniziare un percorso di completamento dell'attuazione e di correzione della riforma. Ritengo, tuttavia, inevitabile procedere ad una revisione costituzionale che, senza stravolgere il modello complessivo, costituzionalizzi gli elementi di stabilità ed efficienza che dovrebbero presiedere ad un sistema di governo federale, facendo tesoro della nostra esperienza, nonché di quella di paesi a noi vicini quali la Repubblica federale tedesca, la quale è stata interessata da una recente modifica del proprio modello federale che dovremmo approfondire. È questo l'impegno che ritengo potremmo assumere fin d'ora perché il modello federale tedesco rivisitato presenta elementi di estremo interesse per un'eventuale riforma ulteriore del Titolo V.
Ritengo inoltre che si debba dare attuazione a quanto finora è rimasto inattuato, procedendo, quindi, all'integrazione della Commissione parlamentare bicamerale per gli affari regionali. Ricordo che vi era già un progetto predisposto che, tra l'altro, in Senato era stato in qualche modo informalmente accolto, ma che poi si è perso nei meandri parlamentari.
Si può incominciare a regolamentare il federalismo fiscale, un processo quest'ultimo, di lunghissimo respiro e occorrerebbe riscrivere l'ordinamento degli enti locali nonché le leggi di contabilità pubblica. Tutti questi elencati sono livelli di legislazione nei quali si potrebbe intervenire, senza nascondere le difficoltà dei problemi che esistono, con grande senso di responsabilità da parte di tutte le forze politiche. C'è anche molto da fare da parte delle regioni e del sistema delle autonomie. Se molto deve essere fatto a tutti i livelli di Governo, si richiede altresì un alto senso di responsabilità da parte delle forze politiche.
Occorre prendere coscienza del fatto che un fallimento della riforma federalista non può che comportare anche fallimento del nostro complessivo quadro politico.
PRESIDENTE. Ringrazio molto il senatore Pastore, anche per la sintesi e ricchezza del suo intervento. Do ora la parola a coloro che intendono intervenire.
MARIA RITA LORENZETTI, Presidente della regione Umbria. Parlo a nome delle regioni italiane dicendo subito che apprezziamo molto l'iniziativa delle Commissioni riunite della Camera e del Senato. Per le notizie lette e per quanto abbiamo ascoltato questa mattina, condividiamo molti contenuti e l'impianto stesso dell'indagine conoscitiva. Siamo in un momento, fra l'altro, che deve portarci ad una riflessione congiunta di Stato, regioni, autonomie locali e Parlamento. Penso sia alle iniziative del Governo, sia all'indagine conoscitiva in atto e, per ci quanto riguarda, ribadisco che condividiamo i contenuti espressi. Siamo d'accordo: dopo cinque anni attuiamo questo Titolo V! Evitiamo di cambiare continuamente e di passare da una modifica all'altra senza pensare di attuare tale titolo, dando finalmente stabilità al quadro costituzionale ed istituzionale di questo paese.
Diciamo no, dunque, a continui interventi di riforma.
Due referendum popolari hanno confermato l'attuale assetto; assumiamoci dunque le nostre responsabilità, ognuno per la propria parte, nell'interesse del paese.
Così noi concepiamo - e per tale ragione condividiamo i contenuti e l'approccio - il confronto con il Parlamento ed il Governo per innovare davvero il sistema istituzionale; serve un'intesa larga tra regioni, sistema delle autonomie locali, Parlamento e Governo per non ricominciare daccapo la prossima legislatura, il che davvero sarebbe devastante.
Attuare il Titolo V: i meccanismi della legge n. 131 del 2003, la cosiddetta legge La Loggia, si sono dimostrati di difficile applicazione; occorre quindi mutuare dalle pronunce della Corte costituzionale i principi per procedere all'attuazione di un modello, già richiamato negli interventi che mi hanno preceduto, di federalismo cooperativo e non conflittuale, unico strumento in grado di rendere più agevole l'inquadramento e la disciplina delle materie all'interno del sistema di competenze Stato-regioni.
Il primo elemento dal quale si deve partire è che l'ordinamento italiano non potrebbe ancora una volta tollerare la riproposizione di processi di riforma di così lunga durata. Al riguardo, apprezziamo molto l'iniziativa di una riflessione comune tra livelli istituzionali e forze economiche e sociali: sappiamo bene, infatti, quanto le trasformazioni della società e dell'economia siano così rapide da non poter davvero, ancora una volta, sopportare processi che dovessero allungarsi. Solo così, oltretutto, potremo procedere a quella vera semplificazione delle decisioni pubbliche da tutti noi auspicata.
Quindi, è necessaria una cooperazione tra Stato e regioni che, con parola magica, potremmo definire governance; insomma, cooperazione tra Stato e regioni, codeterminazione delle politiche e codecisione degli interventi da realizzare nelle singole materie.
Abbiamo in mente alcuni esempi come quello del turismo; abbiamo da poco svolto la Conferenza nazionale del turismo: naturalmente, dopo il referendum, si tratta di competenza esclusiva delle regioni, ma è evidente che abbiamo bisogno di un quadro di riferimento nazionale se vogliamo aggredire i mercati globali; sarebbe davvero molto miope se agissimo diversamente. Analogo discorso potrebbe farsi per l'agricoltura; insomma, dobbiamo riflettere su quanto davvero occorra al sistema paese.
Quindi, è necessario un sistema di relazioni e di concertazione delle politiche a livello nazionale che superi la logica della rigida ripartizione delle competenze; sotto tale aspetto, dunque, concordo con quanto ho appena ascoltato.
Riteniamo anche necessario abbandonare quella logica delle decisioni separate
in base alla quale, dove sussiste la competenza esclusiva dello Stato, questi agisce senza sentire regioni ed autonomie locali e laddove, invece, sussiste la competenza esclusiva delle regioni, queste agiscono senza sentire Stato ed autonomie locali: è sbagliato; basta! Adottiamo, invece, le sedi e le modalità di consultazione e di concertazione interistituzionali irrobustendole: si può fare; facciamolo senza orpelli, ma facciamolo.
Troviamo un vero e proprio accordo - così noi l'abbiamo definito - per la consultazione preventiva e reciproca, evitando, per l'appunto, decisioni ed iniziative separate o solitarie che non condurrebbero da nessuna parte se non, via via, ad una maggiore conflittualità e ad un incremento del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, evenienza che davvero non gioverebbe. Quindi, abbiamo bisogno di sedi di concertazione sempre più efficaci sicché la previsione di una Camera delle autonomie deve essere sicuramente l'obiettivo principale. Non mi soffermo al riguardo sui vari modelli esistenti come quello tedesco; avremo modo, nell'ambito della discussione, di poterlo fare. Però, la previsione di una Camera delle autonomie rimane - ripeto - l'obiettivo principale anche se non va sottovalutata l'importanza della sede integrata della Commissione parlamentare per le questioni regionali; anzi, auspichiamo che la procedura relativa si svolga rapidamente. Si tratta, infatti, di una sede necessaria che può essere predisposta subito in quanto ciò è già stato stabilito e sono tutti d'accordo. Essa comincerebbe a garantire un adeguato equilibrio nei rapporti tra i titolari dei poteri legislativi della Repubblica.
Differentemente da quanto avevamo ritenuto all'inizio della legislatura, al momento non siamo per interventi modificativi del sistema delle conferenze; prima, infatti, dobbiamo verificare se davvero si sia d'accordo - scusate il bisticcio delle parole - sull'accordo per la consultazione preventiva reciproca. Se si riscontra l'accordo sul metodo e sull'approccio, allora possiamo porre mano anche alla riforma del sistema delle conferenze; ma prima deve intervenire tale accordo tra tutti gli attori istituzionali.
Per quanto riguarda le competenze legislative, statali e regionali, così come per quelle concorrenti, il problema non è quello di compiere un'astratta e sterile rivendicazione delle stesse. Respingiamo l'idea stessa di protrarre la logica del contenzioso di fronte alla Corte costituzionale; non ci tireremmo indietro qualora fossimo costretti a farlo, ma davvero vogliamo percorrere un'altra strada. Quindi, ripensiamo insieme gli snodi essenziali del sistema per tenerlo insieme.
In tale quadro, parlando dell'assetto e delle competenze legislative, è necessario un contesto chiaro di princìpi fondamentali, che ancora manca, al cui interno le regioni possano dispiegare correttamente le proprie prerogative legislative. Ovviamente penso agli articoli 1 e 8, comma 6, della legge La Loggia n. 131 del 2003, che prevedeva decreti legislativi ricognitivi oppure disegni di legge (gli strumenti da noi preferiti) per individuare i princìpi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente.
Bisogna fare questo insieme, ovviamente in stretto collegamento a quanto disposto dall'articolo 119. Lo abbiamo già detto per la riforma Bassanini e dobbiamo ripeterlo anche in questo caso: competenze e risorse, solo così si può realizzare una semplificazione, garantire autorevolezza delle decisioni, tenendo insieme assunzioni di responsabilità ed autonomia. Quindi, ribadisco la necessità di competenze e risorse. Ci sembra questa la strada giusta per elaborare i princìpi fondamentali nella legislazione concorrente. Quindi, occorre evitare interventi normativi statali che non si muovono in questa direzione, riferendomi ad alcuni esempi che mancano di coerenza: la riforma del procedimento amministrativo, la riforma dei servizi pubblici locali, la disciplina delle incentivazioni alle imprese, la bozza della riforma del Testo unico per gli enti locali, più comunemente denominato Codice delle autonomie.
Ovviamente non è possibile rimettere soltanto alla Corte costituzionale gli snodi interpretativi perché dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, regioni e Stato come soggetti titolari dei poteri legislativi. È essenziale che vi sia tra di noi collaborazione e per questo diciamo «no» a solitarie iniziative della legislatore nazionale. D'altra parte, è questo lo spirito di «pari dignità» contenuto nell'articolo 114. La Corte ha già fornito strumenti e percorsi per l'attuazione condivisa; si tratta di stabilizzarli con meccanismi più stringenti e veloci. Tanti sono i problemi di definizione dei confini, ma un dato è certo: le regioni sono enti costitutivi dello Stato, non sono contraddittori né «controparti» dello Stato. Il cuore delle riforme, sia di quella Bassanini che di quella del Titolo V della Costituzione, ha riguardato il rafforzamento del ruolo e delle responsabilità regionali per quanto concerne i poteri legislativi ed il rafforzamento del ruolo delle autonomie locali per quanto concerne i poteri amministrativi.
Da ultimo affrontiamo la questione della «chiamata in sussidiarietà» ed ovviamente confermo quanto affermato all'inizio. Innumerevoli sono gli esempi, i settori nei quali la competenza legislativa regionale si deve coniugare con esigenze di rilievo nazionale che impongono la conseguente chiamata in sussidiarietà di funzioni amministrative, se non legislative. È questo lo spirito delle sentenze della Corte costituzionale: la sentenza n. 303 sulla legge obiettivo, la questione delle grandi infrastrutture, i meccanismi della stessa legge obiettivo, il turismo, l'agricoltura, così come dicevo all'inizio.
È necessario, dunque, adottare un disegno organico e graduale che non comporti ulteriori disequilibri ed asimmetrie a livello territoriale. Non sempre servono nuove leggi e nuovi strumenti giuridici, ma solo la forte, determinata, coerente ed equilibrata connessione di strumenti già esistenti. Per questo diciamo che occorre dapprima l'attuazione del federalismo legislativo (articolo 117), poi quella del federalismo amministrativo (articolo 118), l'integrazione della Commissione ed il Codice delle autonomie per evitare che, tramite tale codice, si mettano in discussione le competenze delle regioni. Al centro della questione vi è l'appropriatezza delle politiche. La vera riflessione da compiere è quella sull'adeguatezza dei livelli di governo a svolgere le funzioni di cui sono titolari.
Rifacendomi a quanto detto inizialmente, perno essenziale di snodo deve essere la condivisione tra Stato, regioni ed autonomie locali in luoghi di concertazione stringenti, con poteri e tempi definiti. Tale concertazione va fatta anche prima di emanare i provvedimenti e non al momento dei pareri, che sono da costruire insieme.
Mi riferisco a tutti quanti i provvedimenti che il Governo sta annunciando e, per ultimo, proprio per le criticità che lo contraddistinguono, al nuovo Testo unico degli enti locali, o Codice delle autonomie.
In ogni caso, prima di tutto, si dovrebbe ragionare sull'accordo della consultazione preventiva e reciproca che, se fosse trovato, ci vedrebbe in grado di discutere rapidamente di tutto; se, invece, questo accordo non fosse trovato potrebbero esserci dei rischi. Quindi, una stabile condivisione mi par essere il modo migliore per inaugurare una nuova stagione al servizio di ciò che serve al nostro paese.
PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Lorenzetti.
Come avete visto, la presidente Lorenzetti ha presentato un quadro complessivo della questione. Nei primi giorni di agosto avete avuto a disposizione una serie di quesiti ai quali si è risposto in modo unitario. Naturalmente, se nel corso del dibattito qualcuno intendesse chiedere un ulteriore chiarimento, il presidente Bianco ed io ci permetteremo di fornirvi il massimo dei suggerimenti.
Ringrazio di nuovo la presidente Lorenzetti e do la parola a Fabio Melilli, presidente dell'UPI.
FABIO MELILLI, Presidente dell'UPI. Grazie, signor presidente, soprattutto per averci fornito questa occasione, credo il
segno di una rinnovata sensibilità delle Commissioni affari costituzionali nei confronti della difficile stagione che ci attende.
Ieri in Commissione bilancio - convocato, naturalmente, per l'audizione sulla finanziaria - mi sono permesso di usare un termine, forse forte nei confronti del Parlamento, che ho il dovere di riferire anche a lei e alle Commissioni affari costituzionali, che tanta parte hanno nello sviluppo del processo legislativo del Parlamento.
Ho ricordato come, rispetto a questa stagione, le autonomie locali non possono che essere più esigenti, anche nei confronti della maggioranza e del Governo del paese. Questa è, infatti, la maggioranza che ha «costruito» il Titolo V della Costituzione, quindi sarebbe molto strano se questo processo di attuazione costituzionale non accelerasse. Credo che tale accelerazione possa essere portata a compimento - al riguardo, è giusto quanto affermato dalla presidente Lorenzetti - soprattutto costruendo lo spirito di un paese che vuole essere federale. Bisogna cioè rafforzare i livelli interistituzionali di governo, i raccordi, l'ossatura di un paese federale che si articola sul territorio. Non è un'impresa semplice, forse anche di fronte ad una classe politica che difende a denti stretti la propria sovranità, facendo fatica a ragionare e a concertare scelte che prima, invece, appartenevano a sovranità forse un po' più isolate se paragonate alla situazione presente.
In ogni caso, dobbiamo attivarci per i cittadini e per le imprese al fine di rendere efficiente la pubblica amministrazione, qualità che ci viene richiesta dal paese. Non credo si tratti di un problema relativo a personali sensibilità, ma di una condizione attraverso cui il paese può raggiungere alti livelli rispetto al panorama europeo.
Signor presidente, mi permetta di svolgere una considerazione che, come presidente delle province italiane, non può non tenere conto delle nostre competenze. In questi ultimi anni è stato giusto esercitarsi a ragionare sulla possibile articolazione nel paese del potere normativo. Mi riferisco a chi deve vedersi riconosciuto il compito di legiferare, alle materie interessate e all'opportunità di prevedere la legislazione concorrente piuttosto che esclusiva. Si tratta di un dibattito di alto profilo portato avanti dalla dottrina e dal mondo politico.
Affermo con grande franchezza che, secondo il mio parere, dovremmo dedicare un po' più di attenzione ai compiti che ognuno di noi è chiamato ad esercitare nel paese in riferimento alla funzione amministrativa. Sommessamente ammetto di essere arrivato in ritardo al nostro appuntamento di questa mattina - me ne scuso - perché cento lavoratori di una fabbrica compresa nella mia provincia hanno rischiato di vederla chiudere a causa di un ritardo della pubblica amministrazione nel rilascio di un'autorizzazione sullo smaltimento dei fumi. Il tema vero è come la pubblica amministrazione possa stare al passo della velocità relativa al sistema imprenditoriale del paese.
Bisogna, quindi, concedere estrema attenzione all'attuazione degli articoli 117, lettera p), e 118.
Prestiamo estrema attenzione alla costruzione di un'ipotesi di vera competenza statale, all'individuazione delle funzioni fondamentali di ciascun ente locale e all'articolo 118, che stabilisce che le funzioni amministrative spettano ai comuni e agli enti locali nella loro generalità. Occorre una norma che eviti di invadere i campi della funzione amministrativa, sia a livello nazionale sia a livello regionale, per lasciare all'autonomia dell'ente locale la possibilità di organizzare la funzione amministrativa nel modo più consono e più efficace rispetto alla società civile. Non vi è la stessa situazione al nord e al sud del paese, nelle aree interne e nelle città metropolitane. Vi sono condizioni molto diverse, poiché il paese vive la sua diversità e, forse, trae forza da essa.
Allora, con riferimento all'articolo 118 e alle funzioni amministrative, condividendo quanto affermato dalla presidente Lorenzetti rispetto all'integrazione della Commissione bicamerale per gli affari regionali
e alle questioni di più grande respiro, dobbiamo accelerare il processo di attuazione.
Ricordo a tutti che il Titolo V della Costituzione fu modificato da una maggioranza parlamentare esigua, ma tale impianto - per noi ciò, naturalmente, conta - era ampiamente condiviso dal sistema delle autonomie regionali del paese. Noi svolgemmo una riflessione - il presidente Bianco lo ricorderà meglio di me - e condividemmo quell'impianto contenente una scelta che è bene definire una volta per tutte.
I paesi federali, quasi al 100 per cento, hanno dato forza, anche ordinamentale, al sistema delle regioni. In altri termini, hanno costruito una equiparazione tra sistema regionale e sistema statale, e le autonomie si pongono, inevitabilmente, al di sotto del sistema regionale: era una scelta possibile. Qualche autore ritiene che il federalismo debba coincidere con il regionalismo, altrimenti non può essere tale; e, probabilmente, avrà anche ragione.
Tuttavia, la scelta operata dal legislatore costituzionale in quel periodo è stata diversa: si è optato, infatti, per l'equiparazione dei livelli di governo. Su questo ci vuole coerenza, oppure una riforma che cambi percorso e torni all'origine, ossia alla costruzione di un forte regionalismo nel paese. Presidente Lorenzetti, se così non è, come dimostra il Titolo V, mi permetto sommessamente di dire che, forse, abbiamo bisogno di un sistema di garanzie che consenta che il federalismo si dispieghi anche «a caduta» e non soltanto nella sensibilità del Parlamento. Altrimenti, si rischia un decentramento di funzioni verso il basso, avvicinando le istituzioni ai cittadini attraverso la sussidiarietà orizzontale e verticale, che si ferma a livello regionale. Infatti, legittimamente, ogni regione esercita la sua sovranità e articola il proprio sistema come ritiene opportuno, probabilmente, a volte, anche in contraddizione con la logica che ha mosso la riforma del Titolo V. Ciò senza che nessuno, almeno sul versante delle autonomie, possa invocare strumenti di garanzia. Infatti, non possiamo ricorrere alla Corte costituzionale, come possono fare le regioni nel caso di invadenza dello Stato a livello normativo. Allora, c'è una questione che non può non essere risolta da un grande patto tra i sistemi istituzionali del paese: mi riferisco alla costruzione di un percorso normativo che identifichi le funzioni fondamentali di ogni ente con chiarezza, senza sovrapposizioni. Però, presidente Lorenzetti, non si possono non identificare anche le materie di competenza regionale.
Che l'annona, più del commercio, rientri nelle competenze dei comuni è storia di questo paese e credo che nessuna ragione possa metterlo in discussione. Però, vi è il problema di come le funzioni fondamentali - è questo compito del Parlamento - possano essere declinate rapidamente con chiarezza, cominciando a ragionare su chi fa che cosa, senza sovrapposizioni e senza ridondanze.
Probabilmente, gli enti che rappresento dovranno anche perdere qualche competenza: non credo sia un grosso problema. Sono profondamente convinto che i comuni siano la risposta più immediata ai cittadini per i servizi alla persona e che le province siano la risposta adeguata per il governo del territorio. Occorre tener presente la diversità tra le città metropolitane, ossia tra la vita complessa della grande realtà urbana e la grande forza delle aree interne del Paese. Non credo che si possa dare risposta alla tenuta dell'ambiente, dei fiumi, ai processi di salvaguardia ambientale e alle reti con la debolezza degli 8.100 comuni italiani.
Credo che il mercato richieda di essere più forti sui servizi pubblici locali e sulla presenza delle aziende, nonché sulla connessione tra sistema pubblico e privato. Non possiamo rispondere con la sovranità di oltre 8 mila enti. Probabilmente, ci vuole un aumento di dimensioni, così come per le imprese, anche per le imprese locali. Credo che oggi le province siano in grado di farlo. Questo è il percorso che ritengo sia necessario al paese: un grande aumento della qualità normativa del Parlamento, che cominci a dettare davvero le regole secondo le quali il sistema si articola
con l'autonomia. Servono regole di coordinamento generale, che tengano insieme il paese. Troppo spesso il paese o, meglio, le istituzioni si articolano nei mille rivoli che consentono di costruire il federalismo, perdendo così il senso dell'unità del paese, dando risposte forse incomprensibili ai cittadini e alle imprese.
Credo che tutti dobbiamo fare uno sforzo di semplificazione. Ne abbiamo fatto uno importante a Costituzione invariata. Resta sicuramente il maggior fascino di farlo con una nuova Costituzione, che ci consente di esprimere la forza delle istituzioni italiane in modo più moderno di quanto abbiamo fatto finora.
ALESSANDRO TESINI, Coordinatore della Conferenza dei presidenti dell'assemblea, dei consigli regionali e delle province autonome. Presidente Violante, la ringrazio. In effetti, la Conferenza dei consigli regionali ha colto immediatamente e ha apprezzato il fatto che le due Commissioni, congiuntamente, abbiano inteso promuovere questa iniziativa per interessare e coinvolgere le parti e non solo per audire, come è stato detto.
Quindi, abbiamo colto e apprezzato le modalità con le quali questa iniziativa è stata pensata e si sta realizzando, ossia per coinvolgere tutte, proprio tutte, le parti interessate in un ragionamento su come riprendere il percorso delle riforme all'inizio della legislatura, dopo la storia lontana e recente che ci lasciamo alle spalle.
La nostra Conferenza ha inteso contribuire a questa discussione e a questo confronto portando un contributo, che è stato consegnato assieme ad altri, che - lo dico subito - è un dossier, nel senso che è più di una bozza, ma, evidentemente, è meno di un documento, proprio perché su questi temi, pur stando anche molto rigorosamente attenti alle competenze e al ruolo che svolgono le assemblee legislative, non è agevole trovare un minimo comun denominatore su tutte le questioni e su tutti gli aspetti. Però, dal momento che ci avete chiesto di contribuire ad una discussione in fieri, con questo spirito abbiamo affrontato la questione, raccordando correttamente ciascuna regione con i governi regionali e con la Conferenza delle regioni, che è già intervenuta tramite la presidente Lorenzetti poc'anzi.
Vorrei fare due avvertenze: mi compete di dire che in questa discussione, ovviamente, le cinque regioni speciali entrano con una loro peculiarità. Tale sottolineatura può sembrare banale, ma lo è molto meno di quanto si possa ritenere, anche leggendo le cronache relative alle iniziative di questi giorni.
La seconda avvertenza è che ci sono regioni che, sia pure con cinque anni di ritardo, stanno leggendo tutto l'articolo 116 della Costituzione, sono arrivate anche al terzo comma e si stanno appassionando alla questione e alla materia.
Noi condividiamo lo spirito e l'approccio con il quale si avvia questa discussione e mi pare che anche qui questa mattina vi sia un approccio molto concreto, molto realistico e responsabile.
Evidentemente, il paese si lascia alle spalle una stagione troppo lunga fatta di tentativi, di percorsi avviati e non portati a compimento.
Condividiamo, dunque, la valutazione del presidente Violante, ripresa dal presidente Bianco, secondo cui il referendum non chiude il percorso delle riforme, salvo il fatto che adesso è indispensabile capire come partire.
Troviamo una sintonia con il ragionamento del presidente Pastore, che, peraltro, porta a suffragio del suo ragionamento l'indagine svolta nella scorsa legislatura. Lo spirito di questa conversazione induce a porre la seguente domanda: se l'esito dell'indagine era quello, perché diavolo ci si è incaponiti su una riforma che ha portato ad un risultato referendario netto, chiaro ed indiscutibile, anche negli esiti critici e problematici? Del resto, chi si è pronunciato a favore della riforma approvata sul finire della scorsa legislatura ha una peculiare concezione del territorio. Il paese manifesta una articolazione alla quale dobbiamo saper corrispondere con un impianto costituzionale ed un ordinamento istituzionale adeguati
ed in grado di dare alle istituzioni e alla politica gli strumenti per risolvere i problemi.
Per queste ragioni - è questo il senso del contributo che abbiamo portato alla discussione di oggi -, crediamo che, con gradualità e spirito intelligente, si possano affrontare le questioni aperte ed avviare iniziative che, evidentemente, sono state insufficienti.
Quindi, crediamo che portare a compimento la riforma del 2001, che per cinque anni è rimasta sostanzialmente inattuata o attuata parzialmente, debba essere il punto di partenza sia nella sostanza, sia nel modo con il quale vengono affrontate le questioni, assieme a tutti i soggetti interessati.
Ci si rende perfettamente conto che una ripartizione di competenze, attuata principalmente per materie, oggi pone una difficoltà molto grande nel racchiudere la complessità della situazione economica, sociale ed istituzionale del paese. Ma crediamo che dovremmo resistere alla tentazione di riordinare le materie, salvo alcune questioni importanti, ma non sconvolgenti, citate dalla presidente Lorenzetti e sulle quali interveniva la stessa riforma respinta con il referendum.
Ci sembra che questo sia il punto principale, anche perché gli interventi della Corte costituzionale, se, per un verso, indicano una possibile patologia del sistema, dall'altro, ci hanno aiutato a chiarire e ad interpretare la questione, soprattutto laddove la Corte stabilisce (l'ha citata anche il presidente Pastore) che non dobbiamo concepire la ripartizione delle competenze come una definizione rigida, a fronte di una situazione dinamica e flessibile che varia nel tempo.
Quindi, il punto di caduta di tutte queste considerazioni è quello di dare un seguito intelligente al principio della leale collaborazione tra il sistema delle regioni e lo Stato (il presidente Melilli, poco fa, ha detto, che, quando torniamo a casa nostra, dobbiamo saper applicare lo stesso principio), tra regioni ed autonomie locali.
Credo che nessuno di noi sia così irresponsabile da non condividere tale considerazione. È il caso che ci concentriamo sui modi, sulle procedure, sui luoghi, sulle sedi che possono dare consistenza e seguito al principio di leale collaborazione ed al raccordo.
Comprendo e, anzi, riprendo e rafforzo la considerazione proposta dalla presidente Lorenzetti, la quale ha rilevato che, prima di mettere mano alla definizione delle «scatole» - e non credo che l'abbia detto per diffidenza -, dobbiamo cercare di capire se intendiamo dire la stessa cosa, proprio perché non possiamo aggiungere errori ad errori, vuoti a vuoti (sarebbe interessante, poi, sentire cosa ne pensino le parti sociali, i rappresentanti dell'economia e delle forze sociali). Se è vero che, oggi, la nostra società non consente di abbracciare, di costringere le competenze all'interno di una delimitazione rigida, perché in tutto ciò che, per anni, è stato rigorosamente economia, società, istituzioni e pubblica amministrazione oggi c'è un intreccio creato dalla consistenza delle questioni e dal concorrere di diverse competenze, in modo tale che per ogni politica di sviluppo c'è un pezzo d'Europa, un pezzo di Stato, un pezzo di regioni, un pezzo di autonomie locali, diventa indispensabile definire - ma senza ingabbiarli in una burocrazia asfissiante - modalità, luoghi e procedure che non facciano semplicemente rinvio alla buona volontà e alla generica disponibilità, ma siano anche codificati secondo una metodologia seria ed efficace che, in quanto tale, ci costringerà, probabilmente, a rivedere anche le modalità di lavoro.
E qui mi permetto di dire che c'è una competenza specifica delle assemblee legislative. Probabilmente, sarà indispensabile evitare di fare fronte alle questioni sempre con le stesse fonti e le stesse procedure. Sarà il caso, come ha già affermato la presidente Lorenzetti, di fare le leggi, quando servono, come servono: sarà il caso di farle in un certo modo piuttosto che in un altro e di riservare alla normativa di livello inferiore una grande capacità di flessibilità, di immediatezza, di prontezza e di efficacia.
Tuttavia, occorre recuperare in fretta il vuoto ed i ritardi che abbiamo alle spalle. È già stato detto che il Parlamento avrebbe dovuto correggere il nuovo Titolo V del 2001, superando il parallelismo tra fonte legislativa ed amministrativa e rinviando ad una ricognizione. Oggi, c'è una scollatura, un gap, uno scarto incredibile tra le competenze effettivamente affidate a regioni ed enti locali e quello che ancora è rimasto in capo allo Stato. È vero che la Corte costituzionale ci ha detto che è legittimo, presidente Pastore; ma è altrettanto vero che ciò ha generato disfunzioni evidenti ed anche frustrazioni altrettanto evidenti.
Questo dovremo fare anche all'interno delle nostre regioni, ma rendendoci conto di una cosa. A proposito della pari dignità costituzionale, fondata sull'articolo 114 della Costituzione, ho sempre contrastato l'idea (non perché non ci sia disponibilità, da parte mia, a valutare la questione) che la pari dignità costituzionale corrisponda ad una equiordinazione generale generica: non è così, tant'è che i principi di adeguatezza e di efficacia sono indispensabili per non creare il corto circuito che, poi, porta ad affidare competenze e responsabilità ad enti che non sono in grado di farvi fronte.
In altri termini, la grande complessità e la grande articolazione dei nostri livelli istituzionali deve portare ad una sintesi, ad una razionalizzazione alla quale siamo obbligati, oggi, non solo da ragioni di costi, ma da autentiche ragioni di efficacia.
Noi abbiamo un sistema istituzionale, che, per come è congegnato, produce meccanismi decisori lenti, difficili e spesso inefficaci. Ciò spiega il senso delle riforme, che adesso per gradi affronteremo, quindi la parziale correzione dell'articolo 117 e l'avvio dell'attuazione dell'articolo 119.
Per ciò che riguarda l'articolo 11 della legge n. 3 del 2001, mi auguro che uno degli esiti concreti di queste quattro giornate sia proprio quello di arrivare a capire se veramente ci sono le condizioni per attuarlo oppure no. Infatti, nella scorsa legislatura non ci siamo arrivati e questo è sufficientemente noto. Mi pare che questa legislatura parta con l'intenzione di realizzarlo, ma credo che in questo caso serva un'operazione anche di verità, perché, se non abbiamo le idee chiare su ciò che può significare come approdo finale una seconda Camera superando un bicameralismo perfetto, è altrettanto chiaro che, nel frattempo, la Bicamerale prevista dall'articolo 11 viene ritenuta una forma intermedia soddisfacente. È indispensabile quindi capire se veramente ci si vuole arrivare o meno.
Queste a noi sembrano le questioni essenziali, sulle quali intendo ribadire che le assemblee legislative hanno avviato un serio lavoro di rivisitazione dei propri modelli organizzativi interni, per poter assicurare la loro parte, che è quella di esercitare in modo efficace la funzione legislativa, quella di indirizzo e quella di controllo.
GAETANO SATERIALE, Sindaco di Ferrara in rappresentanza della Lega delle autonomie. Mi unisco ai commenti positivi rispetto all'iniziativa di oggi. La Lega delle autonomie ha consegnato un testo di risposte, pensiamo puntuali, ai quesiti che ci sono stati sottoposti. Ciò mi permette di svolgere solo alcune considerazioni sintetiche. La prima è la seguente.
Vorrei rappresentare una preoccupazione, temo piuttosto diffusa. Credo si stia aprendo, senza il volere di nessuno, una stagione di riscrittura normativa, a partire appunto dal Titolo V della Costituzione, una nuova stagione cioè di definizione delle norme. Vorrei segnalare al riguardo che una nuova stagione di precisazione ulteriore e di perfezionamento normativo si riproduce, sul versante delle attività dei sistemi delle autonomie, in una stagione di nuova incertezza, in una stagione che produce contenziosi, dove tutti provano a fare tutto, naturalmente - è il caso di ricordarlo - senza avere le risorse adeguate alle competenze che si pretende invece di poter assumere.
A nostro parere, sarebbe opportuno che si aprisse invece una stagione di applicazione del Titolo V e di aggiustamento progressivo in fase attuativa, piuttosto
che non di continuo perfezionamento delle norme. Per aprire una stagione di applicazione, c'è bisogno probabilmente di provvedimenti attuativi transitori. La loro mancanza oggi produce ancora difficoltà interpretative o diversità interpretative troppo rilevanti sul testo costituzionale.
La seconda cosa necessaria è che si costruiscano dei luoghi veri di concertazione istituzionale, a tutti i livelli. Sono molto affezionato alla parola «concertazione» e le attribuisco un significato molto nobile. Non si tratta solo di stare insieme e discutere insieme, bensì di distribuire ruoli e compiti una volta che si è condiviso un obiettivo generale: cosa fa chi, una volta che si è condiviso - ripeto - un obiettivo generale.
Credo che questo tema dei luoghi di concertazione, come diceva il presidente della regione Umbria, con il quale sono molto d'accordo, possa essere il punto nodale che consente un'attuazione progressiva, che si perfeziona cammin facendo. Naturalmente, questi luoghi di concertazione possono partire dall'integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali, che potrebbe essere appunto il primo luogo transitorio in cui si esercita questa funzione sollecitata e riconosciuta dal nuovo testo costituzionale.
La stagione applicativa, a nostro parere, si basa su tre principi costituzionali (almeno i primi due senz'altro). Il primo è quello della sussidiarietà: le risposte ai luoghi e alle istituzioni più vicine ai cittadini.
Il secondo è quello della adeguatezza e, in qualche modo, bilancia il primo, poiché non sempre la dimensione istituzionale o amministrativa è in grado di dare ai cittadini i servizi di cui hanno bisogno. In quel caso, allora, il principio di sussidiarietà viene necessariamente temperato.
Il terzo principio - non so se possa essere definito costituzionale, ma mi pare di grande buon senso - è quello secondo cui a distribuzione di competenze corrisponde distribuzione di risorse. Altrimenti, stiamo ragionando in termini astratti, troppo astratti per l'attività quotidiana di ciascuno dei nostri enti.
Per tradurre in parole, per così dire, più nobili quest'ultima considerazione, sarei portato ad affermare che il federalismo amministrativo, o istituzionale, e il federalismo fiscale debbono essere attuati insieme - ma, fino a questo momento, non lo sono stati - oppure non debbono essere attuati affatto, né l'uno, né l'altro. Temo che questo sia uno dei pericoli che abbiamo dinanzi a noi, fin quando non riusciremo a contemperare, appunto, la riforma amministrativa federale con la riforma federale relativa alle entrate finanziarie del sistema delle autonomie.
Rispetto al federalismo, con molta sincerità, vorrei dire - in questo rappresentando, forse, un parere originale rispetto al panorama delle autonomie locali - che capisco i timori del neo-centralismo regionale di cui si parla molto ma non riesco ad immaginare, ad oggi, un federalismo, nel nostro paese, che non ruoti attorno alle regioni, cioè che non ruoti attorno a quel livello istituzionale che, in questo momento, ha il massimo della competenza ed il massimo delle risorse da distribuire e da impiegare. Certamente, le regioni continuano ancora a sovrapporre ruoli di programmazione, che dovrebbero essere loro più propri in una visione federale di sistema, con ruoli di gestione diretta che, invece, dovrebbero essere sempre meno loro attribuiti. Tuttavia, immaginare un federalismo al di sotto delle regioni ed indipendente e autonomo rispetto ad esse mi sembra una utopia non utile.
Perché si possa realizzare, invece, questa forma di federalismo regionale anche a geometria variabile - non credo che dobbiamo immaginare uno stampo, un modello uguale per tutti - è necessario, certamente, come indicato dai quesiti che ci sono stati sottoposti, che sia risolto il problema del rapporto di competenze tra Stato e regioni. Però, anche per questo capitolo, che rischia di avere tempi infiniti perché non si risolverà mai compiutamente e in maniera pienamente soddisfacente, consiglierei di usare il buonsenso.
Secondo me, fissate le competenze esclusive dello Stato, che sono le più importanti e quelle rispetto alle quali abbiamo espresso per iscritto, anche in dettaglio, il nostro parere, sarei favorevole a «partire», cercando di assumere in una fase di concertazione ex ante - come affermato dalla presidente Lorenzetti - quelle linee guida che, se attuate prima, possono ridurre il contenzioso ex post. A mio avviso, questo potrebbe essere il modo di immaginare una fase di attuazione e di perfezionamento, per così dire, in corso di lavori, del rapporto tra competenze dello Stato e competenze delle regioni. Non riesco a pensare, invece, ad una stesura definitiva delle competenze esclusive o concorrenti che possa soddisfare tutti i punti di vista. A mio parere, rischia di essere un dibattito un po' accademico. Fissate le competenze, quindi, si determina in sede concertativa quali sono gli obiettivi e quali le sperimentazioni che possono essere realizzate a livello regionale.
Al di sotto del livello regionale, c'è la sperimentazione di forme non tutte identiche - quindi, con flessibilità - di amministrazione federale del territorio. In riferimento alla mia regione, l'Emilia-Romagna (ma credo che ciò sia vero in riferimento anche a molte altre regioni italiane), ritengo che, se dovessimo iniziare riscrivendo i testi che attribuiscono le competenze, perderemmo ancora molti anni durante i quali, invece, è necessario assumere iniziative e non procedere alla riscrittura di leggi. A mio parere, si può procedere, invece, sulla base di accordi che non necessariamente siano considerati definitivi. Immagino un sistema nel quale, anche sulla base della storia e della evoluzione di un determinato territorio, si possa sperimentalmente attribuire una certa competenza alla città capoluogo oppure una certa competenza alle province, sulla base di ciò che è stato realizzato in questi anni.
Secondo me, se la regione «pilota» un percorso di questa natura, che ritengo molto pratico e fattivo, non si perderà tempo ulteriore nel tentativo di riscrivere le leggi che disciplinano le funzioni dei diversi enti locali.
FABRIZIO MAIMERI, Rappresentante dell'ABI. Signor presidente, rispetto alle interessanti e complete indicazioni espresse da chi mi ha preceduto, vorrei rappresentare che il sistema bancario, ovviamente, è influenzato in misura molto minore, anche se non secondaria, dalla tematica affrontata nella giornata odierna.
Informo che abbiamo presentato una memoria, che potremmo lasciare agli atti per poterla mettere a disposizione delle Commissioni. Tale documento contiene soprattutto un'idea di fondo, seguita da alcune applicazioni concrete.
L'idea di fondo è, sostanzialmente, quella che è stata rappresentata anche dai numerosi relatori che mi hanno preceduto. Siamo interessati, infatti, più a ragionare sui criteri e sulle modalità applicative del dettato costituzionale piuttosto che ad ipotizzare revisioni della stessa Costituzione, con riferimento al Titolo V della sua II Parte. Pertanto, assunto costante l'assetto vigente - e, quindi, una volta stabilite le competenze esclusive e concorrenti dall'articolo 117 della Costituzione -, ci sembra importante darvi attuazione, verificando come ed in che modo i principi fissati divengano successivamente norme operative.
In questo caso, con riferimento al sistema bancario, mi sembra che la via seguita e completata sia dalla cosiddetta legge La Loggia, sia dal successivo decreto di attuazione, che ha precisato la nozione di «banca regionale» (quindi, l'ambito di applicazione della potestà legislativa concorrente delle regioni), abbia fornito un esempio efficace. Attraverso la norma primaria, infatti, sono stati individuati i criteri fondamentali, sia pure attraverso quel meccanismo particolare, previsto dalla legge La Loggia, che individua come principi fissati per legge innanzitutto le indicazioni recate dal decreto delegato (si tratta di aspetti tecnici che possono risultare interessanti su altri piani).
Di fatto, vi è stata un'individuazione completa della potestà legislativa delle regioni, con riferimento alle banche, che mi sembra abbia un po' chiuso il cerchio. Credo che per il sistema bancario (quindi, per un settore non amplissimo rispetto a tutti quelli per i quali il legislatore nazionale deve fissare dei principi) si sia trattato di un'operazione positiva. Affermo ciò perché, attraverso sia la cosiddetta legge La Loggia sia il decreto legislativo di attuazione, è stato possibile puntualizzare alcune indicazioni non proprio perfette contenute nel dettato normativo di cui all'articolo 117 della Carta costituzionale.
Vorrei evidenziare, infatti, che la disciplina delle banche regionali era ed è tuttora riferita a nomenclature ormai abbandonate dal nostro ordinamento, che creavano evidenti problemi applicativi ed interpretativi, poiché si parla ancora di casse rurali e di casse di risparmio. Si tratta di banche che ormai non esistono più, così come non vi è più una disciplina specifica. Da ciò, ovviamente, conseguivano anche questioni e problemi riferiti alla tipologia dei poteri di cui le autorità regionali potevano disporre in tale materia.
Peraltro, sempre con riferimento sia alla legge delega, sia al decreto delegato relativi all'attuazione della riforma del Titolo V della II Parte della Costituzione, vorrei ricordare che abbiamo già avuto modo di segnalare questi problemi ed i nostri dubbi nel corso dei lavori svolti nelle precedenti legislature, che riteniamo debbano essere tenuti ancora presenti nell'ambito del dibattito attuale.
Questi problemi pare siano stati in qualche modo risolti, a conclusione dell'iter legislativo avviato dalla cosiddetta legge La Loggia. Pertanto, disponiamo di un'indicazione di banca regionale, comunque sia denominata (l'imperfetta terminologia dell'articolo 117 della Costituzione è solo un problema terminologico, ma non di contenuto), sufficientemente chiara. È definito l'ambito delle materie attribuite alle regioni e di quelle, invece, demandate alla legislazione statale. Ne risulta un quadro sufficientemente stabile che ha, tra l'altro, depotenziato il rischio di una segmentazione a livello regionale del mercato creditizio, assolutamente controproducente, considerando che si sta procedendo, sia pur faticosamente, ma con qualche efficacia, verso il mercato unico europeo. In tale contesto, immaginare una segmentazione del mercato con competenze a livello regionale ci sembrava tra l'altro in evidente controtendenza. Pertanto, per quanto riguarda l'ambito applicativo dell'articolo 117 della Costituzione, con riferimento specifico alle materie demandate alla legislazione regionale concorrente, il quadro ci sembra oggi sufficientemente chiaro e abbastanza soddisfacente. Si potrebbe al riguardo intervenire ulteriormente, ma solo per un problema di completamento degli interventi.
Vorrei porre l'attenzione sui problemi applicativi cui facevo cenno (saranno oggetto di approfondimento nei prossimi incontri); mi riferisco al federalismo fiscale. Occorre completare il disposto dell'articolo 119 della Costituzione. Siamo di fronte ad una situazione oggettivamente di stallo: le sentenze della Corte costituzionale, con riferimento ai tributi propri, hanno fatto chiarezza tra il vecchio ed il nuovo testo dell'articolo 119, ma hanno anche individuato i problemi che lo stesso articolo pone nella sua applicazione pratica. Quindi, credo che su questa materia occorra procedere - riteniamo sia opportuno farlo in tempi ragionevoli - ad attivare quei principi costituzionali di cui si è parlato.
L'ultimo aspetto che ci sembra interessante, che ingenera il timore che l'applicazione dei principi di legislazione concorrente segmenti il mercato, è la questione relativa alle competenze in materia di diritto del lavoro, di diritto sindacale.
A livello potenziale, le regioni hanno la capacità di intervenire su materie oggi di competenza statale. È un discorso accettabile e condivisibile, purché, però, nell'individuazione dei principi generali, si evitino i rischi di una pericolosa segmentazione. Mi limito anche qui ad alcuni esempi. Penso, per esempio, al discorso dei profili formativi dell'apprendistato, agli incentivi
per la formazione, alla regolamentazione dei corsi connessi ai contratti a contenuto formativo, alla definizione di programmi operativi regionali con cui vengono utilizzate le risorse dei fondi strutturali. Sono tutti meccanismi che le regioni possono e devono intelligentemente ed efficacemente attuare.
Ci sembra che, sotto tale aspetto, il percorso da attivarsi sia quello che si è felicemente concluso per quanto riguarda la prima questione che ci interessava, ossia l'ambito di applicazione, il contemperamento ed il rispetto della determinazione dei principi generali dell'ordinamento che, per queste materie, ancora manca. L'interesse e l'attenzione dell'industria bancaria sotto questo aspetto, quindi, sono quelli di vigilare e fare quanto è nelle possibilità e nelle competenze della stessa perché si giunga a soluzioni che non generino, ancora una volta, conflitti, non solo - o non anche - con la Corte costituzionale, ma conflitti operativi nell'individuazione e nell'applicazione concorrente della normativa nazionale e delle normative regionali.
PRESIDENTE. Mi pare stia emergendo, da questi primi interventi, un punto di fondo. Ne parlavo poc'anzi al presidente Bianco. Vi è l'idea è che non si debba rimettere mano all'ordinamento. La preoccupazione è questa; si tratta di un favore per la stabilità dell'ordinamento giuridico, pur con le piccole correzioni che sono necessarie, ma evitando appunto di avviare una fase di nuova instabilità nel paese. Vedo cenni di assenso diffusi in ordine a questo ridotto esercizio di poteri parlamentari, per intenderci. Tale è anche l'orientamento che abbiamo, ma vi sono ancora alcuni punti da chiarire, ad esempio su questioni quali il federalismo fiscale.
Nel documento che vi è stato inviato agli inizi di agosto vi erano due o tre questioni che mi permetto di segnalare; poi, nel corso degli interventi, se lo riterrete, si potranno approfondire. Alcune risposte, in merito, sono già state date ed altre sono contenute nei documenti. Ad esempio, vi sono materie che si ritiene di dover sottrarre o aggiungere alle competenze esclusive dello Stato?
Vi è un'altra questione: in Germania, recentemente, è stata varata una riforma, approvata come detto il 29 luglio scorso, che cerca di affrontare il problema della distinzione tra leggi di principio e leggi attuative, un discrimine abbastanza complicato. In Germania è rimasta, anche se fortemente ridotta, la legislazione concorrente, ma si è introdotta una forma di legislazione statale limitata agli obiettivi e alle procedure.
La terza questione sulla quale intendo richiamare l'attenzione degli ospiti è come si valuta la possibilità di una clausola di chiusura, tale per cui - il riferimento è sempre a quella tedesca; il senatore Pastore faceva giustamente riferimento a quel modello come il più sperimentato nell'esperienza europea - si conferisca allo Stato una facoltà di intervento legislativo quando si manifesti la necessità di assicurare l'unità dell'ordinamento giuridico. Come credo molti dei presenti sappiano, la Corte costituzionale ha dovuto ricavare questa facoltà attraverso una sorta di sussidiarietà a rovescio, laddove fosse necessario attuare un meccanismo di unità della normativa sul territorio nazionale.
Mi permetto di segnalare questi dati. Se chi ha parlato intende intervenire nuovamente, va benissimo. A noi serve per acquisire i dati sui limitati interventi che eventualmente fossero considerati necessari.
SECONDO AMALFITANO, Presidente della Consulta ANCI piccoli comuni. Signor presidente, mi unisco al coro unanime di ringraziamenti. La delicatezza e importanza della materia è testimoniata anche da questo modello innovativo che è stato introdotto, di coinvolgimento e di consultazione. Abbiamo apprezzato anche l'invito ad essere abbastanza informali nella partecipazione a queste giornate. Ovviamente, di ciò siamo molto grati. Auspichiamo, pertanto un percorso rapido, certo, che aiuti a restituire un maggior tasso di fiducia nelle istituzioni che indubbiamente,
in questi ultimi tempi, si è piuttosto logorato nell'opinione pubblica.
Noi ci siamo cimentati in risposte pedisseque ai quesiti, cercando di dare il nostro contributo, anche se ci rendiamo conto che le tappe successive vedranno forse più direttamente coinvolti i comuni e le autonomie locali. In ogni caso, rispondiamo puntualmente.
L'idea di eliminare la potestà legislativa concorrente, nonché di confinare entro limiti invalicabili la competenza legislativa statale, è abbastanza illusoria, a nostro avviso.
Invero, ciò che l'esperienza di questi anni ha mostrato, e ciò che anche altre esperienze federali di più ampia data - come quella statunitense e quella tedesca - hanno evidenziato, è la indispensabilità di clausole di unità e di uniformità sufficientemente elastiche, capaci di consentire al legislatore statale un intervento trasversale a tutela di interessi nazionali uniformi. Questo tema è stato invocato dal presidente Violante e noi siamo d'accordo in ordine a tale interpretazione.
Occorre pertanto fare tesoro anche di quanto affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003; in tale occasione, la Corte ha cercato di preservare la natura unitaria dell'ordinamento anche attraverso la definizione delle cosiddette «materie trasversali», ovvero di quelle competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di ambiti materiali, quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela dell'ambiente, la tutela della concorrenza e la materia penale.
È, infatti, opinione ricorrente che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto poiché, in alcuni casi, come quelli poc'anzi indicati, si tratta di competenze legislative statali idonee ad investire una pluralità di materie e la cui ricomprensione nelle categoria delle materie trasversali risulta diversamente giustificata.
A nostro avviso, occorre inoltre individuare meccanismi in virtù dei quali il legislatore regionale non possa utilizzare la potestà legislativa regionale per rendere inapplicabile nel proprio territorio la legge statale che ritenga illegittima o solo dannosa, anziché agire in giudizio ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione.
La fedele applicazione di questi principi - impliciti in qualunque sistema costituzionale che, pur federale, aspiri a rimanere unitario - comporta l'irrinunciabilità di clausole elastiche di tutela dell'interesse nazionale, siano esse il principio di sussidiarietà o altre formule che sono state proposte. Il che non impedisce una valorizzazione della potestà legislativa concorrente; anzi, potrebbe dirsi che la potestà legislativa concorrente è il naturale corollario, l'altra faccia della medaglia, del riconoscimento allo Stato di competenze diffuse trasversali a tutela dell'interesse nazionale. Il legislatore statale pone norme di principio trasversali, il legislatore regionale stabilisce a sua volta norme di dettaglio in tutte le materie che non siano incompatibili con un frazionamento di disciplina a livello regionale e nel pieno rispetto del ruolo e delle funzioni affidate dalla Costituzione.
In questo senso, nella riforma della Costituzione approvata definitivamente il 16 novembre 2005 e successivamente abrogata, vi era stato il tentativo di eliminare la potestà legislativa concorrente, individuando un'ipotesi di duplice competenza esclusiva dello Stato e delle regioni, su cui l'ANCI già si era pronunciata esprimendo perplessità anche forti. In particolare, tale soluzione appare inadeguata perché l'esistenza di due competenze esclusive non può impedire di per sé che sui medesimi oggetti possano darsi discipline dell'uno come dell'altro legislatore. Questo può accadere perché il legislatore può regolare un oggetto da un punto di vista particolare e l'altro da un altro punto di vista (la tutela della salute, l'assistenza e l'organizzazione sanitaria). Ma può anche darsi l'ipotesi che da una chiara descrizione degli oggetti che costituiscono le materie possa giungersi comunque ad
una duplicazione e sovrapposizione delle competenze; ad esempio, l'ordine pubblico e la sicurezza appaiono materie idonee a ricomprendere anche la polizia locale. E, in questo caso, entrano in gioco anche i comuni.
Andrebbe mantenuta, dunque, la logica di una diffusa e generalizzata potestà concorrente, salvo alcune materie espressamente elencate incompatibili con le competenze regionali, valorizzando poi le sedi di concertazione e di raccordo tra centro e periferia, anche sul piano legislativo.
A tale proposito, sarebbe utile approvare in sede di Conferenza unificata una «carta dei principi fondamentali», nella quale vengano declinati i criteri, gli ambiti e i limiti della legislazione statale e di quella regionale. Tutto ciò potrebbe realizzarsi a Costituzione invariata.
Si giunge, così, al punto spesso invocato come quadratura del cerchio della riforma dei rapporti tra centro e periferia, ovvero alla necessità di porre mano alla modifica del Senato. Quest'ultimo può essere trasformato in Camera del sistema delle autonomie, secondo gli obiettivi più ambiziosi, ma forse anche più velleitari, come ha dimostrato la difficoltà incontrata dall'ultima riforma costituzionale; oppure, quanto meno e come obiettivo minimo, si può consentire il recupero di quello strumento previsto dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ovvero della Commissione bicamerale per le questioni regionali, integrata dai rappresentanti delle regioni e degli enti locali, dimenticato fino ad oggi, ma che nondimeno può risultare utile al fine di assicurare una sede di raccordo e di mediazione politica significativa tra Stato, regioni ed enti locali.
In altre parole, se si vuole realmente semplificare il contenzioso, non esiste, a nostro avviso, una formula magica idonea a definire in modo netto i riparti di competenza: poiché il conflitto politico-istituzionale è inevitabile, una volta che si è valorizzata la dimensione politica delle regioni, piuttosto che scaricarlo sulla Corte costituzionale, meglio portarlo in una sede di concertazione, mediazione e leale collaborazione, come può essere quella della Commissione parlamentare integrata.
Se si guarda, infatti, ai più consolidati ordinamenti federali, è ormai prassi diffusa il superamento della logica degli elenchi di materie e viene preferito un criterio che distingue la competenza legislativa sulla base del livello degli interessi coinvolti: se essi sono nazionali, la competenza appartiene al Parlamento centrale; se sono regionali o locali, la competenza spetta ai parlamenti o consigli regionali e locali. In questo caso, qualora si addivenisse ad una scelta di tal genere, ciò comporterebbe una modifica radicale nell'assetto del riparto delle competenze, ponendo l'attenzione, più che sul livello delle stesse, sui processi di formazione delle norme cui dovrebbero partecipare tutti i soggetti istituzionali rappresentanti degli interessi coinvolti.
Rimane, in ogni caso, la sensazione che la vera partita dell'autonomia, ancora oggi ed in una realtà di governance multilivello e di intreccio di funzioni fra i diversi livelli territoriali, non possa ragionevolmente giocarsi sul piano legislativo o solo su questo, perché è ben difficile pensare una reale differenziazione legislativa tra regioni italiane. Tale partita va giocata sul piano amministrativo e finanziario, ovvero mettendo regioni ed enti locali in condizione di dare reale attuazione, anche sul piano finanziario, alle politiche di sviluppo locale. Ecco perché appare corretto continuare sulla strada del principio di sussidiarietà (e di adeguatezza) amministrativa, ancorché sganciato da analoghi riconoscimenti sul piano legislativo. Oggi il profilo di autonomia più urgente sul quale porre maggiormente l'attenzione è senz'altro quello finanziario e tributario.
In merito all'attuale riparto delle competenze, apparrebbe, tuttavia, opportuno proporre alcune modificazioni relative alla collocazione di alcune materie che effettivamente concernono un assetto di interessi correttamente dislocato a livello statale. Ci si riferisce all'ordinamento della comunicazione, alla produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia, alla sicurezza della circolazione e della navigazione,
all'ordinamento delle professioni. Si tratta di materie attualmente attribuite alla legislazione concorrente, delle quali viene proposta l'attribuzione alla competenza esclusiva dello Stato.
In merito al concetto di sussidiarietà legislativa, la sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003 pareva aver posto in termini perentori il principio secondo il quale la deroga alla distribuzione costituzionale delle potestà legislative che la sussidiarietà consente può considerarsi legittima solo se la legge statale definisce un «iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertate e di coordinamento orizzontale», e, ancor più chiaramente, solo «se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato (...) sia oggetto di un accordo stipulato con la regione interessata».
Un accordo, si era precisato nella sentenza n. 6 del 2004, che deve assumere le forme dell'intesa «forte», nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento.
Successivamente la sentenza n. 151 del 2005, pur nella laconicità dell'argomentazione, si spinge oltre avvalorando invece l'idea che il principio di sussidiarietà, così come consente di derogare al riparto formale delle funzioni legislative, in senso analogo autorizzi una deroga alla regola distributiva della potestà regolamentare. Ad una valutazione d'insieme essa muove dunque in direzione contraria rispetto all'esigenza - che anche in sede comunitaria sta diventando pressante - di rendere più stringenti i presupposti della clausola sussidiaria, giacché ne rimuove la più rigida condizione procedimentale di esercizio e ne propizia l'espansione anche nell'ambito della funzione regolamentare, in tal modo conferendo ai regolamenti statali la capacità di incidere sugli ordinamenti regionali a livello primario.
Sulla base delle pronunce ora esposte, la dottrina ha più volte affermato che la riforma costituzionale ha avuto poco impatto poiché l'orientamento della Corte costituzionale ha implicato uno svuotamento della potestà legislativa regionale e l'affermazione di una lettura del testo costituzionale continuista rispetto allo stato pre 2001.
In realtà, nell'ottica degli enti locali, tale tesi non appare condivisibile in quanto costruita su un rapporto Stato-regioni che emargina del tutto gli enti locali. Non si tratta, infatti, di invocare più spazio alla legislazione regionale ma di costruire una nuova qualità della medesima che realizzi adeguati sistemi di competitività e solidarietà regionali ed interregionali, valorizzando e non uniformando e quindi comprimendo l'autonomia normativa degli enti locali.
La collocazione delle autonomie locali in una posizione di subalternità alla legge regionale, pertanto, non può esser condivisa e deve essere inequivocabilmente chiarito che le aree di primario interesse dell'azione amministrativa degli enti locali, quali quelle della autorganizzazione dei servizi pubblici locali, dell'impiego locale, dei tributi locali e così via, attengono all'autonomia loro costituzionalmente garantita e pertanto mettono solo sotto il profilo ordinamentale le norme statali di principio.
Fuori dal TUEL, che sarà il nuovo codice delle autonomie locali, dunque, non dovrebbe essere più consentito ad alcuna altra fonte legislativa statale e regionale di intervenire.
In merito alla sussidiarietà legislativa, inoltre, sarebbe opportuno immaginare una sussidiarietà «verso il basso»; ossia un meccanismo in virtù del quale quando la regione non esercita il proprio potere legislativo i comuni attraverso l'esercizio della potestà regolamentare disciplinano per il proprio ambito di competenza la materia rispetto alla quale sussiste un vuoto normativo regionale.
Per quanto riguarda la sussidiarietà amministrativa, il nuovo articolo 118 della Costituzione - e concludiamo - esclude una corrispondenza necessaria tra competenze legislative e competenze amministrative ed ha introdotto espressamente nella Costituzione il principio di sussidiarietà. Nel nuovo assetto gioca un ruolo determinante
la fine del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative. Oggi il parallelismo non c'è più, almeno nell'accezione precedente, cioè nella correlazione tra potere legislativo e titolarità delle funzioni amministrative. Punto di partenza è quindi la competenza generale del comune.
In merito all'attuazione concreta dell'articolo 118 della Costituzione poco si è fatto finora. In particolare, occorre procedere nella trasformazione dell'ente regione quale soggetto di gestione di un'infinita molteplicità di funzioni amministrative gestionali allocate presso una miriade di enti strumentali regionali e, conseguentemente, procedere alla riallocazione delle stesse presso i comuni, affinché questi ne realizzino una nuova gestione singola o associata.
Alla luce della complessità del sistema comune italiano, appare evidente che è ormai giunto il momento di dare ad ogni comunità una risposta adeguata ai propri bisogni e alla propria capacità di erogare servizi ai cittadini. È necessario iniziare a progettare un vestito che sia fatto su misura, con modelli flessibili, con elasticità nell'organizzazione e nel sistema delle funzioni esercitate.
La risposta può essere data attraverso la distinzione fra il concetto di titolarità ed esercizio delle funzioni amministrative. In quest'ottica è quindi opportuno che legislatore sia per quanto attiene l'attuazione la lettera p) dell'articolo 117, sia per quanto attiene l'attuazione dell'articolo 118 della Costituzione, definisca un quadro omogeneo in cui tutti i comuni italiani risultino titolari del stesse funzioni, ma l'esercizio di esse dovrà essere consentito solo quando la dimensione organizzativa e territoriale del comune (o dei comuni) consenta un esercizio tale da poter garantire una qualità dei servizi pubblici elevata a costi congrui.
Per i comuni tradurre in legge i principi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà vuol dire normare la gestione associata e sovracomunale di servizi e funzioni pubbliche.
Ora occorre tentare uno sforzo aggiuntivo che consenta di dare una risposta nuova ad un bisogno che resta tale utilizzando l'articolo 118, vale a dire, rimodellare la funzione-missione di ogni ente. In questa prospettiva, sembra utile coinvolgere le province e poi le città metropolitane in un lavoro di nuova organizzazione sistemica delle funzioni amministrative. Il codice delle autonomie, nel ridisegnare il chi e il come la Repubblica può farsi interprete dei bisogni dei cittadini potrebbe attuare il principio di differenziazione attribuendo ai comuni la titolarità di tutti i compiti e le funzioni che determinano un contatto diretto con il cittadino e nelle formazioni sociali in cui si organizza (servizi alla persona, servizi sociali, educativi, formativi, atti di concessione, autorizzazione, verifica, controllo e quant'altro). Il comune dovrebbe, in sostanza, essere una sorta di front line del cittadino e dovrebbe organizzare la propria funzione attraverso una serie di attività polifunzionali volte a dirimere la frattura, che oggi esiste, fra cittadini, imprese e pubblica amministrazione.
In conclusione, vorrei ribadire che condividiamo la perplessità avanzata dal presidente Lorenzetti in tema di conferenze unificate. Infatti, prima di modificare eventualmente gli assetti è bene chiarirsi le idee e vedere in quale direzione andranno le nuove norme.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cota. Ne ha facoltà.
ROBERTO COTA. Vorrei rivolgere un saluto a tutti gli ospiti intervenuti. Vorrei segnalare (anche se, probabilmente, molti di voi lo avranno già appreso dai giornali o, come nel caso dei rappresentanti degli enti locali, per via istituzionale) il fatto che due regioni, la Lombardia e il Veneto, hanno attivato ufficialmente un processo di attribuzione di competenze ai sensi dell'articolo 116, terzo comma. Senza questa valutazione, il dibattito rischia, ovviamente, di essere monco. L'attivazione di queste competenze nasce sul presupposto che il Titolo V, pur avendo introdotto
alcuni principi, anche positivi e importanti, risulta monco proprio sotto l'aspetto della chiarezza delle competenze e dell'attribuzione delle medesime alle regioni, anche in vista dell'attuazione della II parte che oggi è stata giustamente ricordata, cioè, quella attinente al federalismo fiscale. Se, in capo alle regioni, non abbiamo delle competenze chiare, indipendentemente dalle clausole di garanzia con riferimento al rispetto di esigenze che attengono all'unitarietà dell'ordinamento (che, peraltro, trovano ampiamente una formulazione nell'attuazione della Costituzione), il federalismo fiscale diventa impossibile da attuare, rischiando di diventare soltanto una partita di giro, come abbiamo visto in questi giorni con riferimento alla legge finanziaria. In altre parole, lo Stato taglia i finanziamenti agli enti locali e alle regioni, decidendo poi di colmare tale taglio con l'imposizione di tasse a livello regionale. Ciò rischia di essere una partita di giro, o meglio, il gioco delle tre carte.
Perché vi sia federalismo fiscale, è necessario che le competenze attribuite alle regioni siano chiare e che lo Stato riduca proporzionalmente, ovviamente, la sua macchina burocratica in ragione di tale trasferimento di competenze. È altresì necessario che lo Stato riduca proporzionalmente la sua pressione fiscale in quanto non esercita più alcune competenze e che l'autonomia fiscale attribuita alle regioni consista nel fatto che le risorse rimangono sul territorio dove si è operato il prelievo e non provengono da un processo di trasferimento sotto forma di concessione, come sinora è avvenuto...
MARCO BOATO. Presidente, ma abbiamo tramutato questa audizione in dibattito politico!
PRESIDENTE. Consentiamo al collega Cota di concludere il suo intervento.
MARCO BOATO. Vorrei sapere se possiamo intervenire tutti...
PRESIDENTE. Onorevole Cota, prego.
MARCO BOATO. Siamo in sede di audizioni o stiamo facendo un dibattito politico (Commenti)?
PRESIDENTE. La prego, onorevole Boato, di non interrompere, per favore.
ROBERTO COTA. La ringrazio, presidente. Siamo abituati alle interruzioni dell'onorevole Boato.
Questo argomento, a mio avviso, è importante e dovrebbe essere compreso nella discussione. Vorrei anche segnalare che, oltre ai casi ricordati della Lombardia e del Veneto è ufficialmente depositata una proposta di legge anche dinanzi al consiglio regionale del Piemonte; peraltro, vedo presente in questa sede il presidente di quel consiglio regionale. Mi sembra, da questo punto di vista, che la stessa presidente del Piemonte Bresso - che non è della Lega, e neppure della Casa delle libertà; come vede, presidente, mi pongo dal punto di vista istituzionale e non politico: le regioni sono ancora istituzioni e non partiti politici (quanto meno, per così dire, in certe aree del paese) - abbia rilasciato diverse dichiarazioni agli organi di informazione sostenendo di essere interessata all'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Vorrei segnalare ciò perché si tratta di un argomento politico e istituzionale molto importante, che afferisce all'ambito del Titolo V della Costituzione ma nello stesso tempo realizza istanze di trasformazione della nostra Carta in senso più moderno che riprendono anche l'impostazione seguita con la riforma varata nella scorsa legislatura. Quest'ultima aveva carattere generale ma, per la parte riguardante le competenze, stabiliva quanto sostengono oggi le regioni muovendosi nell'ambito di un trasferimento di competenze legislative esclusive.
MARCO BOATO. Chiedo di intervenire sull'ordine dei lavori, presidente.
PRESIDENTE. No, onorevole, non siamo in Commissione.
MARCO BOATO. No, presidente, chiedo la parola sull'ordine dei lavori; la prego di darmela!
PRESIDENTE. Voglio informare gli ospiti che si era stabilito che i parlamentari intervenissero alla fine; per tale ragione si è testé sollevata una questione in merito all'ordine dei lavori. L'onorevole Cota doveva però partire per una necessità urgente ed improvvisa e questo è il motivo per il quale gli ho dato subito la parola.
ANDREA CIRILLO, Vicepresidente dell'UNCEM. Ringrazio le Commissioni riunite per l'invito rivoltomi a partecipare all'odierna audizione.
Anche l'UNCEM ha consegnato un documento. In sintesi, l'UNCEM ravvisa la necessità di una riforma costituzionale che tenga nella dovuta considerazione sia gli interessi dei territori montani, nello spirito di quanto sancito dai padri costituenti nell'articolo 44 della Costituzione, sia il riconoscimento costituzionale dell'ente locale essenziale per la governance della montagna, la comunità montana. Nello specifico del sistema di riparto delle competenze tra Stato, regioni ed autonomie locali, è utile ed opportuno ricordare lo stato dell'arte prima che il referendum confermativo dello scorso 25 giugno facesse tornare il confronto alla legge costituzionale n. 3 del 2001 ed alla legge n. 131 del 2003.
Il 29 settembre 2004 l'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato l'articolo 35 (l'articolo 40 nel testo finale) della cosiddetta «riforma della riforma», concernente la riformulazione dell'articolo 118 nel quale trovarono pieno riconoscimento costituzionale le forme associative dei piccoli comuni della montagna, rappresentate dalle comunità montane.
Alle forme associative dei piccoli comuni «e di quelli situati in zone montane», quindi alle comunità montane, venne riconosciuta in Costituzione la medesima autonomia dei comuni e tali forme venivano così assoggettate all'ordinamento di principio dello Stato. La formulazione accolta dell'ultimo comma dell'articolo 40 citato recitava testualmente: «La legge approvata ai sensi dell'articolo 70, terzo comma, favorisce l'esercizio in forma associata delle funzioni dei piccoli comuni e di quelli situati nelle zone montane, attribuendo a tali forme associative la medesima autonomia riconosciuta ai comuni». La norma costituzionale allora approvata ribadiva il contenuto della legge La Loggia, riaffermando coerentemente il ruolo delle forme associative della montagna e la loro piena autonomia normativa.
L'UNCEM valuta fondamentale chiarire la questione circa la competenza legislativa primaria e di principio nella promozione e regolamentazione giuridica di detti enti locali - come tali configurati all'articolo 2, comma 1, del testo unico n. 267 del 2000 - che riteniamo competa alla legge statale e non a livello regionale, confermando non solo il cammino intrapreso nella definizione e configurazione giuridica delle comunità montane a livello di legge dello Stato, come richiamato nello spirito dell'articolo 44 della Costituzione, ma anche all'interno del nuovo testo unico predisposto dalla commissione Vari, insediata al Ministero dell'interno.
In conclusione, secondo l'UNCEM la montagna è un sistema unitario territoriale e socioeconomico complessivo, quindi degno di attenzione e meritevole di tutela, anzitutto da parte del legislatore nazionale; pertanto esso non può essere strategicamente, programmaticamente ed istituzionalmente di livello regionale perché perderebbe il proprio carattere unitario e rappresentativo, ma deve essere affidato, come valore fondamentale e collettivo, al legislatore statale, secondo il principio costituzionale sancito nell'articolo 44 della Costituzione e come del resto è sino ad oggi avvenuto.
PRESIDENTE. La ringrazio anche per la brevità dell'intervento. Vorrei informare i presenti che i lavori saranno sospesi verso le 12,45 per riprendere alle 14. L'orientamento è quello di concludere la seduta entro le 17. Pertanto, considero l'intervento del rappresentante dell'UNCEM un modello dal punto di vista dei
tempi. Inoltre, faccio notare che molti parlamentari intendono porre domande agli auditi. Le domande e le risposte sono necessarie per poter lavorare in modo più approfondito.
BRUNO PANIERI, Direttore dell'area economica della Confartigianato. Signor presidente cercherò di tener conto della sua indicazione sui tempi tanto più che la Confartigianato ha già risposto al vostro questionario, rispondendo puntualmente a tutte le domande. Inoltre, allegato alla documentazione, abbiamo redatto un rapporto sullo stato di attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione. Quindi, nel mio brevissimo intervento vorrei rimarcare la condivisione della metodologia utilizzata nell'audizione. Infatti, essa consente un confronto contemporaneo tra i rappresentanti delle istituzioni statali e degli enti locali e i rappresentanti del mondo delle imprese.
Ovviamente, infatti, questo può fluidificare un'osmosi di interessi, intenzioni e considerazioni che possono aiutare le Commissioni a tenere conto di tutte le diverse angolazioni e dei modi di vedere relativamente al problema che stiamo esaminando.
Per quanto riguarda il posizionamento di Confartigianato circa le considerazioni intorno al processo di riforma del Titolo V, dobbiamo dire che esso è stato sempre accompagnato con grande entusiasmo dal mondo delle piccole imprese che rappresentiamo, sin dai tempi in cui si cominciò ad avviare il processo di decentramento con Bassanini. Infatti, le piccole imprese vedevano in questo processo un avvicinamento delle istituzioni a livelli più prossimi ed auspicavano, in qualche modo (cosa che poi, purtroppo, non è avvenuta), un alleggerimento complessivo del sistema istituzionale. Mi riferisco intanto alla valorizzazione della sussidiarietà orizzontale; inoltre si presumeva che le istituzioni più vicine alle imprese avrebbero potuto meglio comprendere come generare un impatto sostenibile da parte del mondo delle imprese e, soprattutto, generare anche nell'ambito della funzionalità amministrativa la fluidificazione e la rimozione di tutti quelli che ancora oggi, purtroppo, continuano a rappresentare nel nostro Paese vincoli pesanti all'esercizio dell'attività d'impresa.
La prima nostra considerazione, svolta dopo la riforma, è che tutto questo non si è avverato. Sicuramente riteniamo che questo sia dipeso soltanto in parte - anche se mi riferisco all'aspetto più qualificante - dal fatto che alcuni aspetti dovevano essere presi meglio in considerazione; ad esempio, mi riallaccio a quanto detto a proposito delle materie, della ripartizione delle competenze. Certamente auspichiamo vengano portati a compimento un miglior ordinamento e una migliore ripartizione di ciò che, attualmente, è contenuto nel Titolo V riguardo alle materie di competenza statale e regionale. Inoltre, auspichiamo sia introdotto un principio che consenta alla legislazione nazionale di intervenire, magari attraverso la fissazione di standard di servizio, di prestazioni laddove, evidentemente, vi è da garantire un'omogeneità, una conformità di comportamenti a livello complessivo di paese. Stiamo parlando, proprio in riferimento all'esercizio della funzione amministrativa, di una criticità molto forte; basti pensare a tutta la legislazione ambientale che trova nell'articolazione, nell'applicazione territoriale una sensibile diversità di approccio e di comportamento anche nell'individuazione di procedure, di atti amministrativi. Il che, evidentemente, costituisce per le imprese un criterio fortemente disorientante.
Tornando al ragionamento che stavo portando avanti poco fa, probabilmente la ripartizione delle competenze non è l'unica questione sulla quale sarebbe necessario riflettere con attenzione. Infatti, dobbiamo cominciare - questa audizione rappresenta un primo esempio in tal senso - a rifondare il patto all'origine del modo in cui deve venire attuato un processo federalista all'interno del nostro Paese.
Quindi, da questo punto di vista, il nostro auspicio è di proseguire nell'acquisizione di elementi conoscitivi che consentano di rifondare i fondamentali sui quali
si basa questo processo e di introdurre i correttivi, ma solo dopo che questo processo di rivisitazione complessiva di tutta la questione sarà stato portato a compimento con un livello di adeguata condivisione istituzionale e politica per poi sostenerne effettivamente la rapida applicazione.
EDOARDO GARRONE, Presidente del Comitato tecnico per le riforme istituzionali e il federalismo di Confindustria. Presidenti Violante, Bianco e Pastore, mi unisco come rappresentante di Confindustria agli apprezzamenti per questa iniziativa, che noi valutiamo molto importante sia per il metodo sia perché rimette in evidenza quanto è fondamentale riaffrontare le problematiche delle riforme istituzionali e del funzionamento di quella che, più volte, abbiamo definito la «macchina» dello Stato.
Come Confindustria, abbiamo risposto al questionario che ci avete inviato, cercando di condividerlo anche nell'ambito del nostro sistema, articolato per territorio e per categorie, e di individuare dei punti di sintesi. Abbiamo, quindi, evitato di rispondere ad ogni singola domanda e, oggi, con il mio intervento, tenterò di affrontare il tema più generale del sistema di riparto di competenze tra Stato e regioni. Nelle prossime sessioni, poi, approfondiremo alcuni temi che ci stanno a cuore, uno dei quali è il federalismo fiscale, su cui tornerò successivamente.
In questi anni di dibattito e di applicazione della riforma del 2001, ci siamo resi conto che se, da una parte, la costruzione di un sistema federale nella fase progettuale necessita di tempi e approfondimenti, dall'altra, la sua costruzione e la sua implementazione richiedono attenzioni ancora più forti. Quindi, la fase operativa è quella più complessa. È come quando si riorganizza un'azienda: ci sono tempi e metodi complessi e bisogna continuare a lavorare insieme per rendere il sistema efficace.
Nell'attuale impianto costituzionale - come delineato dalla riforma del 2001 -, nella parte riguardante il riparto delle competenze, a nostro avviso, è venuto meno il sostegno legislativo necessario per la messa in opera del modello allora proposto. Come ha affermato qualcun altro, si è fatto poco in termini legislativi. Ciò ha comportato un'attuazione della riforma più sulla base dell'esperienza, in assenza di un quadro chiaro e di sedi di coordinamento realmente efficaci. Sappiamo tutti che ciò ha determinato un eccessivo impegno della Corte costituzionale nel dirimere i numerosissimi conflitti tra Stato e regioni in termini di competenza ed ha generato una serie di cortocircuiti e di rallentamenti anche delle iniziative di tipo industriale sui territori del nostro Paese.
Nell'affrontare il tema del riparto delle competenze fra Stato, regioni e autonomie locali l'approccio del mondo industriale preferisce, in genere, un'analisi degli effetti concreti del regionalismo, delle esperienze positive maturate e delle opportunità emerse, nonché dei punti di criticità riscontrati, privilegiando gli aspetti di funzionalità piuttosto che architetture giuridico-formali.
Gli aspetti che per le imprese di Confindustria destano maggiore interesse sono, in sintesi, tre: la distribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo, l'efficienza del processo legislativo e il disegno dei rapporti fiscali tra Stato, regioni e gli altri enti territoriali.
Le imprese, prima di tutto, hanno bisogno di certezze in ordine a cosa si può fare e in quali tempi si può operare. Quando si parla di costi, non si fa riferimento solo ai costi diretti della macchina della pubblica amministrazione nel suo insieme, dello Stato nelle sue varie articolazioni. Riteniamo che i danni - e, quindi, i costi che ne conseguono - dell'incertezza del diritto rispetto ad un investimento siano molto superiori ai danni amministrativi nel loro complesso.
In un'epoca di globalizzazione, che implica rapidità decisionale e un forte cambiamento del sistema delle imprese e della loro organizzazione, il tempo è diventato, ancor più, una variabile fondamentale per la competitività. E i tempi della burocrazia
italiana, che derivano anche da una sovrapposizione di competenze, sono ormai inaccettabili e rischiano di mettere in crisi la trasformazione del sistema imprenditoriale industriale italiano.
Pensiamo che, se, da una parte, è giusto ragionare e riflettere sulla possibilità di mettere di nuovo mano al Titolo V della Costituzione, dall'altra, da subito e nell'immediato, si può dare applicazione all'attuale Titolo V con interventi ordinari e, in parallelo, svolgere un ragionamento sul Titolo V che, necessariamente, essendo una riforma costituzionale, ha bisogno di tempi più lunghi.
In particolare, secondo noi, occorre innanzitutto supplire, in qualche modo, alla mancata adozione del principio dell'interesse nazionale all'interno della Costituzione, perché oggi esso non esiste, con interventi legislativi di rango ordinario, sperimentando, se necessario, accordi o intese di rilievo politico e istituzionale tra Stato e regioni.
In secondo luogo, occorre sviluppare il principio della leale collaborazione tra Stato e regioni e tra organi dei vari livelli di governo, poiché solo da esso possono emergere azioni a saldo positivo. Occorre, inoltre, innovare e rafforzare gli strumenti e le procedure dei raccordi interistituzionali tra Stato, regioni ed enti locali e che le sedi di confronto svolgano una funzione di camera di compensazione delle diverse e legittime istanze. Bisogna approvare i decreti necessari per individuare i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente e mettere a punto le procedure e i meccanismi necessari per consentire l'attuazione dell'articolo 116 della Costituzione sul regionalismo differenziato, su cui noi siamo assolutamente d'accordo. Occorre procedere nell'attuazione dell'articolo 118 della Costituzione sull'attribuzione delle funzioni amministrative sulla base del principio di sussidiarietà, fondato sulla valutazione dell'adeguatezza, dell'efficienza e dell'efficacia dell'azione amministrativa, tenendo in forte considerazione il problema dei costi, di cui ho già parlato prima.
Però, attenzione, per il mondo delle imprese è fondamentale mettere mano al principio di sussidiarietà orizzontale. Attenzione, perché, dal 2001, in realtà, con il trasferimento di competenze, è avvenuto il fenomeno esattamente opposto a quello che ci si aspettava. C'è stato un proliferare di società per azioni pubbliche o a controllo pubblico. Pensiamo alle public utilities, che operano direttamente in economia, quando, secondo gli imprenditori, gli enti locali devono fungere da soggetti regolatori e non intervenire, direttamente o indirettamente, attraverso le società per azioni, nell'attività economica dei territori. Per questo abbiamo parlato di un pericoloso neostatalismo municipale.
Da ultimo, occorre assolutamente da subito dare attuazione all'articolo 119 sul federalismo fiscale, perché non si può pensare che ad una responsabilità di un amministratore locale in termini di gestione dei costi non corrisponda direttamente una gestione anche sui ricavi. Questo principio generale, che vale in tutte le aziende nella gestione industriale, pensiamo che debba valere anche nella gestione sana e nella responsabilità della gestione dell'amministrazione locale.
Comunque, dare piena attuazione, in tempi rapidi, al Titolo V non significa e non deve significare trascurare o accantonare la necessità di riaprire un dibattito sulla riforma delle attuali regole, come dicevo prima.
Nei cinque anni trascorsi dall'entrata in vigore della riforma, il lavoro della Corte costituzionale ha dato comunque soluzioni coerenti al dettato costituzionale e ha fornito numerosi elementi di chiarezza e di indirizzo circa il riparto di competenze, facendo altresì emergere alcuni limiti dell'attuale formulazione del Titolo V.
Ci sono alcune criticità, che adesso elenco, sulle quali, magari, torneremo successivamente. La prima criticità che rileviamo si riferisce alla difficoltà interpretativa legata al rapporto tra competenze esclusive regionali e alcune materie trasversali statali. C'è una scarsa chiarezza dei principi indicati per la distribuzione delle competenze amministrative tra Stato,
regioni ed enti locali e c'è una mancata attuazione del principio di autonomia finanziaria e l'assenza di qualsiasi indicazione in ordine al meccanismo applicativo delle norme sul federalismo fiscale.
C'è un eccessivo numero di materie sottoposte alla potestà legislativa concorrente tra Stato e regioni.
L'attuale Titolo V risente, inoltre, dell'utilizzo di espressioni a volte troppo generiche, che non permettono di distinguere tra una materia in senso stretto ed una policy che là abbia il suo soggetto, nonché della difficoltà interpretativa legata al rapporto tra competenza esclusiva regionale ed alcune materie trasversali statali.
Inoltre, il riparto delle competenze è disciplinato in maniera rigida, talvolta troppo, senza prevedere clausole di flessibilità e di adeguamento ai casi in cui, rispetto all'ordinario riparto di competenze, sia indispensabile far prevalere esigenze unitarie.
Una revisione di ripartizione di competenze troverebbe una giustificazione per due ordini di motivi. Quanti più livelli di governo hanno competenza su una stessa maniera, tanto più, evidentemente, diventa difficile tener ferme le precise responsabilità di ciascuno. Il tutto, naturalmente, va a danno sia del contenimento della spesa pubblica che del sistema delle imprese, perché il rallentamento dei processi decisionali determina la decelerazione dei processi autorizzativi, quindi, aumenta l'incertezza del diritto, come dicevo prima, ad operare o a fare investimento.
Da ultimo, rilevo la necessità di riportare nella competenza esclusiva dello Stato quelle materie per le quali è evidente l'esigenza di garantire una legislazione unitaria di riferimento sull'intero territorio nazionale.
Presidente Violante, lei prima ha chiesto specificatamente se avessimo materie su cui suggerire una ripartizione più chiara. Non voglio fare un elenco di materie, ma sicuramente riteniamo che tra le materie strategiche debbano essere considerate l'energia - mi pare che gli ultimi anni l'abbiano dimostrato -, le infrastrutture e la promozione - in senso unitario - del sistema paese. Queste, sostanzialmente, sono le materie che Confindustria ritiene attualmente strategiche.
Inoltre, visto che, secondo noi, la Costituzione non può essere modificata ad ogni legislatura, bisognerebbe prevedere determinati meccanismi attraverso i quali individuare, di volta in volta, quelle che possono diventare materie industriali strategiche per un paese. Probabilmente, sessant'anni fa, non avremmo pensato che l'ITC sarebbe stato così strategico. Oggi, lo è, tanto per fare un esempio. Fra sessanta anni, non so su cosa un paese dovrà investire per essere competitivo nel mondo. Non lo possiamo prevedere oggi.
Ci sono, quindi, materie che hanno ricadute, comunque, sul sistema economico nazionale che, secondo noi, dovrebbero essere riportate al centro.
LEOPOLDO FACCIOTTI, Vicedirettore generale della Casartigiani.Signor Presidente, la risposta analitica ai quesiti è contenuta nelle note che abbiamo già inviato. Quindi, mi limiterò ad un discorso di sintesi e ad un ragionamento su alcuni punti di maggiore interesse.
È evidente che il riferimento alla complessità dei procedimenti normativi che inducono alla formazione delle leggi ha avuto ed ha un'incidenza notevole nelle problematiche che la giurisprudenza copiosa della Corte costituzionale ha evidenziato. Tuttavia, a nostro avviso, occorre aggiungere una serie di riflessioni che riguardano l'impianto strutturale dell'articolo 117 e la dinamica attraverso cui questi procedimenti normativi giungono in porto.
La stessa formulazione dell'impianto espositivo dell'articolo 117 è caratterizzata dalla complementarizzazione della fissazione dei principi, con immediati e contestuali vulnus interpretativi. L'articolo 117 è pieno di ricorrenti incisi «salvo», «con esclusione», rispetto a principi fondamentali. Ogni qual volta - lei ne ha un'esperienza diretta per il suo passato
professionale - la legge preveda vulnus interpretativi, esiste una problematica di conflitti giurisprudenziali.
Quando, poi, questi vulnus interpretativi vengono offerti non tanto all'interpretazione del magistrato, il quale applica la legge, ma ai Governi, che sono comunque partecipi di una funzione istituzionale nella quale l'elemento politico è, spesso, preordinato e prioritario rispetto a quello giuridico, si capisce come questi incisi rendano più semplice la dilatazione e l'espansione dei conflitti. Recenti esperienze hanno anche evidenziato come una forma sedimentata di interpretazione, diciamo così, un po' estensiva dei principi costituzionali - quella riferita alla decretazione d'urgenza di cui all'articolo 77 della Costituzione - sia diventata prassi operativa di tutti i Governi che si sono succeduti.
A questo proposito, la riflessione forse più importante investe il fatto che i conflitti vengono proposti al vaglio della Corte costituzionale ex post. Riteniamo, invece, che il confronto possa avvenire ex ante, nella fase di formazione delle leggi, per fare in modo che, al momento della decisione da parte del Parlamento nazionale o dell'assemblea regionale, si sia già svolta una fase preliminare di discussione nella quale i diversi orientamenti abbiano potuto trovare sbocco in una interpretazione o, addirittura, in una possibile forma di soluzione. Una interlocuzione di ordine preventivo potrebbe essere assicurata anche da un passaggio nelle Commissioni parlamentari. In tal modo, il Parlamento e le regioni potrebbero esprimersi in una fase antecedente all'approvazione della legge. Si potrebbe prevedere, altresì, una possibilità di intervento ex ante, in queste problematiche, di organi consultivi (come il Consiglio di Stato), riservando alla Corte costituzionale la soluzione ex post di quei soli conflitti che si fossero rivelati insuperabili nella fase di formazione.
Per quanto riguarda gli specifici quesiti relativi alla possibilità di individuare, nell'ambito della competenza nazionale, leggi o materie di intervento da riservare alla competenza regionale, per quel che riguarda il settore dell'artigianato, occorre evidenziare che, ormai, è sedimentata l'opinione secondo la quale, nel settore delle incentivazioni al credito, la competenza debba essere riservata esclusivamente alle regioni. Tuttavia, il passaggio delle predette incentivazioni dal livello statale a quello regionale non sempre trova una compiuta capacità pratica di espressione, se non altro perché i relativi fondi confluiscono in una dimensione finanziaria delle regioni che tende a privilegiare altri settori, quale quello della sanità. Quindi, si è perso molto, sul piano concreto, di quella capacità e di quella influenza che la legislazione statale poteva, invece, garantire ad una seria e concreta politica delle incentivazioni.
Per quanto concerne il riferimento alla clausola di chiusura, esso è senz'altro recepito in senso positivo. Ci sentiremmo anche di sottoporre ad una valutazione di fondo la motivazione di molte sentenze della Corte costituzionale che tendono ad evidenziare come l'interesse prevalente di carattere nazionale e le esigenze unitarie possano intervenire come ambito interpretativo anche nel conflitto relativo a materie di competenza esclusiva e materie di competenza concorrente. Il legislatore nazionale potrebbe intervenire su tutte le problematiche connesse a materie trasversali con una dichiarazione di principio circa l'appartenenza della materia su cui legifera a quelle di prevalente interesse nazionale.
Per quanto riguarda la sussidiarietà, desideriamo soltanto evidenziare il ritardo che l'attuazione della sussidiarietà orizzontale (vi alludeva anche il collega di Confartigianato) sembra subire, se non altro sul piano dell'impostazione e del recepimento dal punto di vista politico, rispetto alla sussidiarietà verticale.
Per il resto, rinvio alle note già fornite, pubblicate nel nostro documento.
MARIA TROFFA, Responsabile dell'ufficio riforme istituzionali della CGIL. Anzitutto, ringrazio i presidenti Violante e Bianco per averci invitato.
Anche la CGIL ritiene giusto ed opportuno avviare una riflessione sulle riforme e sullo stato di attuazione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Riteniamo, altresì, che un confronto su questi temi non possa non partire da un'attenta riflessione sull'esito del referendum del 25 e 26 giugno scorso.
Quel voto ha segnato una straordinaria volontà di protagonismo dei cittadini di questo Paese ed ha evidenziato il sostegno e la condivisione di massa della nostra Carta del 1948, dei suoi principi e dei suoi valori. A nostro parere, con quel voto i nostri concittadini hanno in qualche modo voluto rinnovare quel patto, dopo 60 anni. Un patto realizzato questa volta dalla maggioranza delle donne e degli uomini di questo paese. Noi, che come CGIL abbiamo convintamente partecipato all'attività del comitato promotore del referendum, vogliamo innanzitutto sottolineare la valenza di quel voto e ricordare che abbiamo deciso, con tutti gli altri soggetti del comitato, di tenere in vita la sua attività, di promozione della conoscenza dei principi della Costituzione ed ora anche di vigilanza del rispetto della scelta espressa nel voto.
Vogliamo qui ricordare, come già altri hanno fatto in precedenti sedute, che abbiamo constatato con stupore come il comitato che ha raccolto le firme e che ha condotto la campagna per il «no», che è stato il vero protagonista della difesa della Costituzione, non sia stato chiamato a partecipare a queste audizioni. Vogliamo sottolineare, altresì, che il comitato presieduto dal presidente Scàlfaro rappresenta comitati presenti in tutto il territorio nazionale. Tutti sono ancora operanti e non tenerne conto ci pare equivalga a voler condurre un approfondimento già monco in partenza.
Tornando al voto del 25 e del 26 giugno, ci sentiamo di poter affermare che esso consente delle revisioni della nostra Carta solo se in coerenza con i suoi valori ed i suoi principi fondanti. Quel voto ha espresso certamente un forte e sicuro «no» ad una grande riforma, quale quella proposta nella precedente legislatura. Riterremmo un errore se si pensasse di ripetere esperienze passate, sulle quali già ci siamo espressi in queste sedi, unitariamente a CISL e UIL, in precedenti audizioni, e sulle quali non torniamo per brevità.
Rispetto a questa audizione, vorremmo far notare che audizioni così preparate - quattro lunghe sessioni, una serie corposa di quesiti, moltissimi soggetti convocati - potrebbero quasi sembrare andare esattamente nella direzione, da noi non auspicata, di grossi interventi. Tuttavia, abbiamo sentito poc'anzi anche il presidente Violante sottolineare che non è questo né l'orientamento, né l'intenzione. Anche a nostro parere, non vi è necessità di grosse iniziative. Non vi è necessità di grandi interventi costituzionali, ma solo di piccole e parziali correzioni rispetto a quanto - l'esperienza di questi anni, in parte (ma solo in parte), ce lo ha insegnato - è risultato complicato ed oscuro nel Titolo V rinnovato nel 2001.
Va però anche ricordato che, nella passata legislatura, si è tentato in ogni modo di ostacolare il percorso del Titolo V, anche rispetto a quanto poteva essere ottenuto e corretto con un'applicazione attenta; questo perché si voleva sancire la grande riforma. Sono stati così anni di inapplicazione, di conflitti fra istituzioni, di problemi sui quali troppe volte è dovuta intervenire la Corte costituzionale, dando essa spesso l'interpretazione, in carenza di provvedimenti applicativi, ed esercitando quindi una funzione di supplenza.
Per il prossimo futuro, è necessario a nostro parere per prima cosa - questo è il primo intervento che chiediamo - mettere in sicurezza la Costituzione, alzando il quorum previsto dall'articolo 138. Pensiamo che il quorum debba essere tale da coinvolgere tutte le forze e che la tappa finale del percorso debba comunque essere il referendum. Solo in questo modo ci pare possibile dare garanzie, certezze e serenità ad un possibile percorso di riforma. Non ci pare superfluo ribadire che non si può cambiare la Carta fondamentale ad ogni nuova maggioranza e che l'esito referendario dovrebbe aver chiuso -
speriamo per un bel po' di tempo - una lunga fase di «uso politico» della Costituzione. La sua stabilità viene vissuta dai cittadini come certezza dei diritti e delle regole democratiche.
Da queste valutazioni generali ci pare emerga chiaramente la risposta ai quesiti odierni, per quanto attiene al sistema del riparto delle competenze fra Stato, regioni e autonomie locali. Pur avanzando critiche su alcuni punti per noi importanti, oltre che sul metodo, noi condividemmo l'ottica generale della riforma del 2001 di voler procedere ad un federalismo solidale, con un consistente spostamento di funzioni e poteri dal centro alla periferia.
Ma le innovazioni introdotte avrebbero richiesto - come abbiamo già detto - una attenta gestione ed una serie di importanti provvedimenti, che sono mancati. Mi riferisco, solo per fare un esempio, a quelli sui principi fondamentali nelle materie concorrenti, a quelli necessari per dare attuazione all'articolo 119 della Costituzione, a quelli relativi alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e ad altri. Si tratta di provvedere, ora, con legge ordinaria, per colmare tutte quelle lacune.
Un compiuto giudizio sul Titolo V della Costituzione, dunque, non può essere espresso perché, a nostro avviso, è mancata la volontà di attuazione che, invece, deve essere promossa, in questa fase, anche alla luce delle sentenze già pronunciate dalla suprema Corte. Altri interventi lo hanno già ricordato.
Occorrerà, inoltre, porre mano ad un'altra carenza che è stata riscontrata, quella concernente le relazioni fra Stato, regioni e autonomie locali, che anche la Corte ha ricordato, in più sentenze, e che è accentuata dalla mancata attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Su questo, però, è prevista una apposita sezione, per cui il tema sarà meglio affrontato in questa sede. Tuttavia, ci pare opportuno sottolineare da subito che, a nostro parere, solo trovando un adeguato strumento di collaborazione tra istituzioni possono essere gestiti anche i problemi derivanti dall'adeguatezza, o meno, rispetto al riparto attuale delle competenze. Questo mi pare sia stato affermato già nel corso di altri interventi, in questa audizione.
Per quanto riguarda le correzioni al Titolo V della Costituzione, si tratta, quindi, di intervenire dopo avere agito con legge ordinaria rispetto a tutti i problemi che, con tale strumento, possono essere risolti. Solo in ultima analisi potrà essere proposto un intervento di rango costituzionale, limitato e parziale, per quanto risultasse di assoluta necessità per il Paese e non altrimenti percorribile. Un intervento limitato, quindi, a pochi e ben definiti aspetti, come lo spostamento, richiesto da più parti, di alcune materie dall'elenco delle competenze concorrenti a quello delle competenze statali - mi riferisco, ad esempio, alle materie attenti al lavoro ed alla previdenza, alle grandi reti di trasporto o all'energia -, ove il problema non possa essere risolto nelle sedi di cooperazione istituzionale. Un approfondimento a parte meriterà, inoltre, il tema del bicameralismo e del Senato delle autonomie, sul quale sarà opportuno avviare una specifica discussione, liberi da urgenze ed anche alla luce del funzionamento del sistema di raccordo tra lo Stato e le autonomie, che dovrà essere realizzato nella prima fase.
PRESIDENTE. Volevo informare che i rappresentanti sia del comitato per il referendum sia del comitato che si batté per il «no» nel referendum saranno ascoltati successivamente, in occasione dell'audizione dei costituzionalisti, ai quali consegneremo i risultati di tutte e quattro le audizioni svolte, affinché possano studiarli. I risultati saranno disponibili ad una distanza di tempo ragguardevole ma, naturalmente, entro l'anno. In quella sede, saranno ascoltati i rappresentanti dei due comitati, anche insieme.
Ci sono alcuni parlamentari che intendono porre specifiche questioni agli intervenuti. Pertanto, potremmo ascoltare ancora alcuni interventi generali e, se i colleghi che hanno chiesto di intervenire intendono porre questioni specifiche, sarebbe
opportuno che lo facessero alla fine della mattinata, in modo tale che su di esse si possa riflettere e si possano riprendere i lavori con le eventuali risposte. Alcuni tra coloro che sono già intervenuti e che intendono replicare potranno farlo nella seconda parte della nostra sessione di lavoro.
RICCARDO GIUSTINO, Vicepresidente per le opere pubbliche dell'ANCE. Signor presidente, la ringrazio molto per l'invito rivolto alla nostra associazione. Consideriamo questa iniziativa importante e doverosa perché consente a noi, che viviamo direttamente questi cambiamenti, di informare chi legifera riguardo a ciò che essi hanno comportato. Cercherò di essere sintetico e, comunque, desidero consegnare a queste Commissioni una nota analitica. Restringerò, dunque, il mio intervento al tema dei lavori pubblici.
Credo che il nostro problema debba essere inquadrato sotto un duplice aspetto: quello più pragmatico, alla luce degli effetti prodotti, in questi cinque anni, dalla riforma del Titolo V della Costituzione, e quello di carattere giuridico.
Primo aspetto: le regioni che in questo periodo hanno legiferato in materia hanno, di fatto, ricalcato - e poi ne spiegherò il motivo - in larghissima parte la legge già vigente, introducendo, tuttavia, disposizioni mirate a favorire le imprese locali (si tratta del cosiddetto localismo). Tali disposizioni sono state censurate dalla Corte costituzionale perché contrastanti con i principi in materia di concorrenza e di libera circolazione dei beni e dei servizi.
Ciò ha comportato un particolare problema per le nostre aziende, poiché, come si sa, le aziende che operano nel settore edile sono imprese «nomadi», dal momento che si muovono sull'intero territorio nazionale anche per importi abbastanza limitati. Pensiamo, ad esempio, ai restauri ed alle ristrutturazioni: in tale ambito, vi sono imprese che lavorano in tutta Italia.
Se si pensa di sottoporre a venti leggi, a venti regolamenti ed a quant'altro aziende che occupano, sì e no, un ingegnere, un geometra e qualche operaio, allora diventa obiettivamente difficilissimo riuscire a seguire tutte le normative; non solo, ma sussiste anche il rischio che ciò possa comportare problemi economici notevoli.
Il cosiddetto localismo, inoltre, arreca un ulteriore danno, poiché le imprese residenti nella regione in cui sono state approvate le norme cosiddette localistiche hanno una loro nicchia di mercato, mentre le altre aziende non solo subiscono la concorrenza delle prime nella loro stessa regione, ma non possono operare nelle altre aree del Paese. Il «nomadismo», pertanto, rappresenta un problema abbastanza sentito.
Le citate leggi, nonché una sentenza della Corte costituzionale di cui parlerò a breve, hanno determinato una situazione normativa caotica, con conseguente blocco e annullamento di bandi di gara e di lavori già appaltati, se non addirittura delle stesse leggi approvate.
Questo è il punto di vista, per così dire, pragmatico. Per quanto riguarda l'aspetto giuridico, occorre rilevare che la materia dei lavori pubblici consta, sostanzialmente, di tre fasi. La prima è rappresentata dalla programmazione, dalla localizzazione e dalle procedure decisionali da seguire nella realizzazione di un singolo intervento; la seconda è costituita dallo svolgimento del procedimento di gara per la scelta dell'appaltatore; la terza, infine, è quella relativa al contenuto del contratto stipulato, nonché alla successiva esecuzione.
Ebbene, mentre il primo di questi tre momenti - quello relativo alla programmazione, alla localizzazione ed alle procedure decisionali - appartiene sicuramente alla competenza regionale, il secondo, più che rappresentare una materia a sé stante, rientra (in particolare, il procedimento di gara per la scelta dell'appaltatore) nella materia della tutela della concorrenza in generale, che spetta alla competenza esclusiva dello Stato.
L'altra fase, vale a dire quella del contenuto del contratto stipulato e della relativa disciplina, rientra sicuramente
nell'ambito dell'ordinamento civile, che appartiene anch'esso alla competenza esclusiva dello Stato centrale. In tal senso, quindi, i lavori pubblici sono una materia «trasversale», poiché attengono ad una pluralità di settori che comprende, al suo interno, anche i lavori pubblici.
Quanto detto trova conforto nella sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003, la quale si è espressa nel senso che i lavori pubblici non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono. Questa stessa interpretazione è stata pienamente recepita dall'articolo 4 del recente codice degli appalti pubblici (mi riferisco al decreto legislativo n. 163 del 2006), che ha adottato una corretta razionalizzazione e suddivisione di competenze legislative tra Stato e regioni.
In sintesi, signor presidente, riteniamo che più che di cambiamento ulteriore della normativa, si debba parlare di corretta e condivisa interpretazione di essa, alla luce di quanto esposto sia nella citata sentenza della Corte costituzionale, sia nel decreto legislativo n. 163 del 2006.
PRESIDENTE. Mi sembra che l'onorevole Franco Russo volesse intervenire per porre una questione specifica.
FRANCO RUSSO. Sì, signor presidente. Non voglio assolutamente svolgere un intervento - poiché, secondo lo spirito delle hearing, è bene che i parlamentari (i quali hanno sempre l'occasione per parlare) ascoltino -, tuttavia vorrei porre soltanto due domande specifiche. Purtroppo, una di esse era destinata alla presidente della regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti, ma se ho visto bene...
PRESIDENTE. Onorevole Franco Russo, la informo che è comunque presente anche un altro presidente di regione.
FRANCO RUSSO. Va bene, signor presidente, mi rivolgerò a lui. La prima domanda è molto semplice.
La presidente Lorenzetti ha parlato di federalismo cooperativo. In questa ottica, vorrei sapere - la presidente Lorenzetti non si è espressa al riguardo - se, per i presidenti delle regioni o per chi li rappresenta, gli strumenti attualmente previsti ed operanti - mi riferisco alle conferenze tra lo Stato, le regioni e all'interno del Parlamento - sono sufficienti ai fini dell'attuazione del federalismo cooperativo o se non si richiedono dei passaggi ulteriori più radicali, finalizzati all'attuazione, in maniera effettiva, della cooperazione fra i diversi livelli di Governo.
La domanda è abbastanza semplice, ma non so se la risposta lo sarà altrettanto: vorrei capire se gli strumenti attuali di collaborazione, gli incontri tra Stato, regioni e autonomie locali, siano sufficienti o non si richiedano degli interventi istituzionali più radicali.
La seconda domanda è rivolta, se lo riterrà utile per la nostra discussione, al rappresentante della Confindustria, che ha polemizzato - lo leggo spesso su Il Sole 24Ore - sul neostatalismo municipale. Al di là di questa aggettivazione, vorrei sapere se, da parte della Confindustria, è stato fatto o si ritenga utile per noi fare, anche in prospettiva dell'intervento sui servizi pubblici locali, un bilancio sulla privatizzazione delle utilities, magari facendo anche i conti con i risultati nel campo delle telecomunicazioni e delle autostrade, i cui proprietari risulta siano membri autorevoli di Confindustria.
CARLO VIZZINI. Signor presidente, vorrei porre alcune questioni, partendo dalle domande che sono state sollevate. Alcune risposte sono state fornite solo in modo parziale, mentre altre non sono state proprio date.
Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti, ma apprezzo di più coloro che, provenendo da una certa esperienza rappresentativa, ci portano il loro contributo sulla Costituzione, partendo da ciò che rappresentano. Verrà poi la stagione dei professori, che ci spiegheranno la dottrina, ma, onestamente, ciò non tocca né a noi ne a coloro che sono presenti. Noi siamo parlamentari e loro sono i rappresentanti di organismi, enti e categorie; poi verrà il
momento di coloro che faranno dottrina sul diritto costituzionale!
Dico subito, peraltro, che, ovviamente, abbiamo aderito con assoluto compiacimento a questa iniziativa, pur non volendo negare, lo dico in premessa, che vi sono profonde differenze di merito che hanno contraddistinto e contraddistinguono le posizioni politiche delle parti in campo.
La prima domanda è la seguente: come può funzionare il Titolo V, rispetto al contenzioso costituzionale, in assenza di una Camera - mi riferisco alla circostanza che un ramo del Parlamento diventi federale - e di una sede politico-istituzionale dove si appianano le divergenze e si risolvono le questioni, senza delegare più alla giurisdizione il problema che travaglia in questo momento la nostra vita istituzionale? Molti dicono: attraverso l'allargamento, già previsto dalla modifica al Titolo V, della Commissione bicamerale per le questioni regionali. Ho maturato una discreta esperienza del funzionamento di questa Commissione ed ho ascoltato anche il ministro degli affari regionali in carica, il quale ci ha spiegato che si sta organizzando un circuito importante di nuovi rapporti tra gli esecutivi, con modifica ed operatività più pregnante della Conferenza Stato-regioni e delle autonomie locali, un circuito che passa tutto per gli esecutivi.
Dahrendorf parla nei suoi scritti - mi consento solo questa citazione - dell'«insostenibile leggerezza dei Parlamenti». Non vorrei che l'allargamento della Commissione bicamerale per le questioni regionali avvenisse in un solco che porta all'ingresso degli esecutivi in un organismo parlamentare. Nella scorsa legislatura, si studiò un regolamento che prevedeva alcuni limiti, per cercare di attuarli, ma il vero rischio è che, poi, nulla vieti alle regioni di mandare rappresentanti degli esecutivi. In tal caso, ci troveremmo in una condizione politica nella quale, da un lato, ci sono rappresentanti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e, dall'altro, rappresentanti delle regioni, che non sono necessariamente rappresentanti dei consigli regionali, ma gli stessi rappresentanti degli esecutivi che partecipano alla Conferenza Stato-regioni. Di fatto, avremmo inquinato un circuito, quello del potere legislativo, inserendo esponenti del potere esecutivo delle regioni che interferiscono con il lavoro del Parlamento. Ciò non sarebbe un principio di federalizzazione di un ramo del Parlamento, ma un sistema un po' confusionario, che certamente non darebbe i risultati voluti.
Nella scorsa legislatura - lo dico perché su ciò vorrei conoscere l'opinione soprattutto dei consigli regionali e della Conferenza dei presidenti delle regioni -, pur di far funzionare un organismo che è pur sempre ibrido, si pensò di adottare un regolamento in cui le componenti avessero voto separato. Diciamolo francamente, ciò significa che quando non vi è un accordo, la Commissione va a vuoto perché, se si facesse mancare, in ipotesi, il numero legale per la parte che riguarda la rappresentanza parlamentare, se la rappresentanza delle regioni prendesse il sopravvento, di fatto, non si delibererebbe mai. Poiché la funzione di questa Commissione ha un senso solo se può esprimere pareri rafforzati, che in seguito possono essere superati, sì, dalle Assemblee parlamentari, ma con la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto e non dei presenti - quindi sono pareri di una certa rispettabilità -, ciò o lo si fa per far funzionare tale Commissione, o oggettivamente non servirebbe a molto.
Aggiungo una domanda che rivolgo ai rappresentanti dei consigli regionali. I consigli regionali hanno assunto tutti consapevolezza che, nel 2001, è cambiato il Titolo V e che ci volevano - e ci vogliono - nuovi statuti che cambiano il modo di essere dei consigli regionali rispetto ai presidenti eletti direttamente dal popolo e rispetto ad un ruolo di interdizione e di crisi che è finito? In precedenza, i consigli regionali vivevano con un ruolo di interdizione e di crisi che non hanno più. Oggi, debbono diventare consessi diversi, si devono istituire una serie di nuovi organismi, quali il consiglio regionale dell'economia e del lavoro ed il consiglio delle autonomie
locali. Diversamente, finiremmo per creare un meccanismo a scala in cui, alla fine, tutto il conto lo pagherebbero gli enti locali terminali, ossia i comuni e le province.
Ritengo che non sia questo il modello sul quale lavorare. Ma, su ciò, dalle regioni sono provenute risposte non sempre - ebbi l'onore di presiedere, il 3 marzo 2005, un convegno sugli statuti regionali giunti al traguardo ed erano poco più della metà, a quella data - consapevoli che bisognava andare verso un sistema che non era più quello regionale, ma quello federale. Su tale aspetto, senza voler entrare nella logica dei poteri delle autonomie, o facciamo un ragionamento comune per capire quale modello si vuole costruire o, diversamente, avremo un sistema «zoppo»: ammesso che si riesca a far funzionare la parte nazionale, non funzionerebbe l'interfaccia regionale, ossia l'altra faccia della medaglia.
Mi corre, poi, l'obbligo di rivolgere alcune domande concrete ai presenti, poiché ho ascoltato anche valutazioni assolutamente rispettabili sul referendum, sul «no», sul popolo che «ha stroncato coloro che tentavano di uccidere i valori fondamentali della Carta costituzionale, passando sopra, con le scarpe, con i tacchi a spillo, per lacerarla (...)». La norma su cui lavorammo cinque anni, ossia l'articolo 117 della Costituzione, prevedeva che diventassero competenze esclusive dello Stato le norme generali sulla tutela della salute, sulla sicurezza e la qualità alimentare, sulle grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e le relative norme di sicurezza, l'ordinamento della comunicazione, l'ordinamento delle professioni intellettuali, l'ordinamento sportivo nazionale, ed ancora, la produzione strategica ed il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia.
La domanda è la seguente: queste modifiche vengono ritenute, da coloro che stiamo ascoltando oggi, utili, necessarie, e tali da poter far funzionare meglio l'apparato statuale?
Ci fornite una vostra opinione? C'è ancora qualcuno che pensa che il federalismo possa essere duale, separando quello che è dello Stato da quello che è delle regioni, o ci rendiamo conto che il federalismo e le competenze dispongono di una fascia nella quale o si fissano le linee di cooperazione tra lo Stato e le regioni o non funzionerà mai niente? Tant'è che proprio per differenziare il lavoro del Parlamento, approvammo la parte più brutta di quella riforma, vale a dire quella relativa alle competenze delle due Camere e al procedimento legislativo.
Un'ultima domanda. Ci rendiamo conto che con il vigente Titolo V della Costituzione la crisi della FIAT nel 2002 avrebbe dovuto essere gestita a Torino e non a Roma e che il primo blackout elettrico provocato dalla Svizzera avrebbe dovuto essere gestito dalle regioni e non dallo Stato? Ciò è affermato da Augusto Barbera quando svolge il suo mestiere di professore universitario e di uomo di grande intelligenza; non lo dice quindi un uomo della parte politica che ha scritto le modifiche dell'articolo 117. Su tali aspetti o siamo consapevoli di voler svolgere una riflessione nell'interesse generale del paese o se ci imponiamo di dover dire in un modo pur pensando in un altro, ho l'impressione che il Titolo V ce lo terremo così com'è, con tutte le sue inadeguatezze e la terza Camera sarà la Corte costituzionale.
MARCO BOATO. Mi scuso con i presenti per l'interruzione che ho fatto in precedenza, ma ritenevo non fosse opportuno che si svolgessero interventi politici da parte nostra senza possibilità di confronto. Al contrario, ritengo prioritario il fatto che ci troviamo in sede di indagine conoscitiva il cui principale intento è quello di ascoltare i molti organi istituzionali e associativi qui presenti.
A tal riguardo, intendevo accennare ad alcune questioni. Da più di qualche intervento è stata sollevata la problematica relativa al cosiddetto interesse nazionale. Vorrei ricordare che nella legge costituzionale, approvata ma non promulgata, poi sottoposta a referendum, l'ipotesi dell'intervento
nell'interesse nazionale prevedeva una seduta del Parlamento a Camere riunite per la possibilità di bocciare, in tutto o in parte, una legge regionale.
Tutti si rendono conto della paradossalità di tale meccanismo, mentre chiedo a tutti i nostri interlocutori se non sia più moderno ed adeguato ad un sistema come il nostro, che non è formalmente federale - come invece è quello della Bundesrepublik Deutschland -, immaginare clausole di salvaguardia o di chiusura del sistema che facciano riferimento non tanto all'interesse nazionale quanto a quello della Repubblica. Infatti, il primo comma, dell'articolo 114 della Costituzione, ha cambiato completamente l'impostazione, facendo riferimento ai soggetti costitutivi della Repubblica. Richiamare ancora oggi, nel 2006, l'interesse nazionale ritengo sia assolutamente contraddittorio.
Sull'articolo 116, terzo comma, della Costituzione - il cosiddetto regionalismo differenziato - ho sentito con piacere una valutazione positiva da parte del rappresentante della Confindustria. È stato il momento in cui ho interloquito polemicamente con il collega Cota.
Come si fa a rivendicare con tale forza e con tale polemica l'applicazione del terzo comma dell'articolo 116 - io sono uno di coloro che l'ha votato, il collega Cota ha votato contro tale articolo - quando nella legge costituzionale non fatta entrare in vigore dal referendum era prevista l'abrogazione del suddetto comma? Personalmente, sono favorevole e non mi risulta che attualmente sia formalmente iniziato alcun processo.
Leggo con attenzione le cronache dei giornali veneti - essendo io eletto in Trentino, ma veneto di origine - che descrivono uno stato confusionale del consiglio regionale del Veneto dove in questa settimana si sono spaccati tutti contro tutti sulla proposta al Parlamento di inserire il Veneto nel primo comma dell'articolo 116 della Costituzione, e vi sono state spaccature anche all'interno del gruppo di cui fa parte il collega Cota. Lo dico perché se se ne fa oggetto da brandire contro qualcuno non si fa molta strada. Se se ne fa oggetto di uno sviluppo ulteriore dell'assetto regionalista e tendenzialmente federalista del nostro Paese, in una logica di regionalismo differenziato, si deve costruire un consenso perché il terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione parla di intesa tra Stato e regioni e di approvazione a maggioranza assoluta dei componenti della legge di attuazione del terzo comma da parte del Parlamento. Mi pare che soltanto la Confindustria si sia pronunciata oggi sul punto; vorrei sottoporre anche agli altri nostri ospiti interlocutori un'ipotesi di valutazione su tale punto che in passato, come polemica politica, era stato definito comma secessionista, come se si potesse fare una secessione con intesa tra Stato e regioni e con il voto della maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento.
Mi pare che nessuno finora abbia toccato l'argomento dei poteri sostitutivi come articolati all'articolo 120, secondo comma, della Costituzione. Si tratta di un tema molto importante ma che probabilmente richiederà - si fa riferimento al Governo e quando si tratta di leggi la competenza è del Parlamento - alcuni limitati interventi di modifica.
In merito all'articolo 117 il collega Vizzini ha parlato in modo polemico, ma sa che invece su questo vi era pieno assenso. Nella contrapposizione frontale della scorsa legislatura sulla modifica di alcune competenze inserite nel terzo comma dell'articolo 117 come concorrenti da riportare in capo alla competenza dello Stato, al secondo comma, vi era stata un'ampia convergenza. Sarà giusto affrontare tale tema senza pensare che dobbiamo stravolgere ogni volta la Costituzione. Forse, su questi aspetti vi sarà un assenso sia dei nostri interlocutori qui presenti, sia sul piano parlamentare.
La rappresentante della CGIL ha ipotizzato il referendum sempre (Commenti). Due giorni fa la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura - spero che rapidamente lo faccia il Senato e si giunga presto alla conclusione dell'iter - una modifica dell'articolo 27 della Costituzione per abolire definitivamente la pena di
morte dalla Costituzione. L'abbiamo approvata all'unanimità con un voto contrario che, mi si dice, è stato frutto di un errore materiale di un collega. Dobbiamo immaginare che anche in casi di questo genere si debba sottoporre a referendum un'eventuale modifica costituzionale? Credo che dovremmo riflettere su ipotesi che riguardano la cosiddetta messa in sicurezza della Costituzione ma che non comportino automatismi o quorum così elevati da non modificare la Costituzione neanche quando fosse necessario, o da mobilitare il popolo italiano quando vi fosse un consenso pressoché unanime del Parlamento.
Il federalismo fiscale (articolo 119) è stato richiamato più volte e condivido pienamente tale sollecitazione. Ricordo, tuttavia, che nella legge costituzionale sottoposta a referendum si rinviava con norma costituzionale il federalismo fiscale di tre anni. È un tema di grandissima delicatezza; in relazione ai discorsi che facciamo sulle competenze e sulle responsabilità e così via, se non vengono collegate le competenze con la gestione diretta delle risorse ovvero la possibilità ampia di autonomia fiscale, è difficile immaginare un autentico federalismo. È un tema, però, che oggi si pone - e si può porlo come un tema dell'oggi, quindi del prossimo anno come arco temporale - solo perché non si è fatta entrare in vigore una riforma costituzionale che lo posticipava quantomeno di tre anni.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Boato, e mi scuso per prima. Colleghi, io direi che potremmo adesso sospendere la seduta, come d'accordo, considerato che sono le 12,45. Riprendiamo alle 14 dopo una breve colazione; lavoriamo per due ore sugli interventi (o anche un'ora e cinquanta potrebbe bastare) e, successivamente, apriamo la discussione sulle questioni che sono state poste, chiedendo un'interlocuzione rapida. Sono state poste domande da parte dei colleghi Vizzini, Russo e Boato e forse se ne aggiungeranno altre.
Pregherei gli ospiti che interverranno nel pomeriggio, se possibile, di tener conto delle questioni che sono state poste per poter accelerare il dialogo tra parlamentari e non parlamentari. Sospendo pertanto la seduta.
La seduta, sospesa alle 12,45 è ripresa alle 14,05.
PRESIDENTE. Riprendiamo dunque i nostri lavori dando senz'altro la parola ai nostri ospiti.
GIAMPAOLO BUONFIGLIO, Dirigente dell'AGCI. Ringrazio le Commissioni dell'invito rivoltomi. Tocca a me, signor presidente, l'arduo compito del primo intervento postprandiale; lo affronto anzitutto esprimendo l'apprezzamento dell'Associazione generale delle cooperative italiane per l'iniziativa delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato; apprezzamento che manifestiamo, ovviamente, anche per l'approccio adottato in occasione di questa indagine conoscitiva.
Entrando nel merito del tema all'ordine del giorno, vorrei ricordare come già nel 2001, in occasione del dibattito sulla riforma del Titolo V della Costituzione, la nostra organizzazione manifestò un grande favore per questo programmato processo di avvicinamento delle istituzioni e dei poteri decisionali ai territori; è proprio sul territorio, come già è emerso dagli interventi che mi hanno preceduto, che sorgono i bisogni più differenziati dei cittadini cui occorre dare risposte puntuali.
Tutta la cooperazione - e quindi anche quella rappresentata dall'AGCI - ha nel suo DNA i valori della partecipazione, della solidarietà, della sussidiarietà; la nostra associazione è da anni organizzata su base regionale, in molti casi anche provinciale ed auspica quindi un'accelerazione dell'ormai ultratrentennale evoluzione verso un deciso decentramento politico-istituzionale. L'acquisizione di crescenti livelli di efficienza e di responsabilità da parte dei diversi interlocutori istituzionali gioverebbe senza
dubbio non solo alle comunità amministrate ma anche all'intero sistema produttivo; intendiamo però oggi sottolineare che, a nostro avviso, è fondamentale premessa di ogni intervento modificativo che si voglia proporre la necessaria riduzione del numero di enti territoriali previsti dall'attuale testo costituzionale.
Per quanto riguarda, poi, lo specifico tema in discussione oggi - nei prossimi giorni affronteremo gli altri -, premesso che i poteri decisionali debbono restare in capo a soggetti ben individuati che se ne assumano pienamente la responsabilità, riteniamo che il sistema di riparto delle competenze tra Stato, regioni ed autonomie locali, fissato nella sua nuova formulazione dell'articolo 117 della Carta, debba essere ulteriormente riveduto e modificato. In particolare, è nostra convinzione che la legislazione concorrente sia fonte soltanto di inopportune sovrapposizioni nonché, in ultima analisi, di immobilismo decisionale e che quindi, come tale, essa vada limitata il più possibile in favore di una generale competenza regionale accompagnata dalla previsione della cosiddetta clausola di necessità; si tratta di una clausola in vigore nel sistema tedesco (una forma di sussidiarietà verticale) a proposito dei rapporti Stato-Länder, rapporti sui quali, peraltro, ci si chiedeva un pronunciamento.
Occorre poi tener conto del fatto che i nuovi bisogni e diritti sorti con il progresso civile della nostra comunità così come l'aspirazione diffusa ad essere cittadini della più ampia comunità costituita dall'Unione europea richiedano tutele generali in capo ai Governi di molte delle materie che l'articolo 117 della Costituzione rimette, invece, alla legislazione concorrente. In particolare, a titolo esemplificativo - ma anche perché uno dei quesiti posti concerneva proprio l'individuazione delle competenze e delle materie -, mi soffermerò sui rapporti internazionali che, del resto, per definizione riguardano gli Stati. Si deve infatti osservare, a tale proposito, che il proliferare degli uffici regionali a Bruxelles, e non solo, nonché le missioni all'estero di singole regioni, anche singolarmente apprezzabili e giustificabilissime, danno però l'impressione...
PRESIDENTE. Praticamente, lei sta approfittando della momentanea assenza dei presidenti delle regioni...
GIAMPAOLO BUONFIGLIO, Dirigente dell'AGCI. È puramente casuale, ma tanto è tutto agli atti, è scritto nella relazione.
Ebbene, tutte queste missioni all'estero delle regioni danno assolutamente l'impressione di uno Stato non unitario; anche in questi giorni, per esempio in materia di politica agricola, gli impegni esteri delle regioni stanno mettendo in difficoltà il Governo. Il nostro ministro, infatti, oggi sta di fatto cercando di rendere coerenti pronunciamenti che si accavallano continuamente in sede comunitaria; ciò, peraltro, avviene in un momento di delicate e difficili trattative sul piano multilaterale nell'ambito delle quali la nostra agricoltura sta cercando di ottenere specifiche tutele.
Oltre ai rapporti internazionali, riteniamo che non possano non essere di competenza esclusiva dello Stato la tutela della salute, quella della sicurezza del lavoro, l'istruzione, il riconoscimento delle professioni, la ricerca in tutti i suoi aspetti, la tutela dell'alimentazione ma anche altri capitoli come porti, aeroporti, grandi infrastrutture elettriche - si è citata l'energia -, di trasporto, di navigazione, la protezione civile e altri ambiti ancora: è lunga, in realtà, la lista delle materie che a nostro avviso dovrebbero essere di esclusiva competenza dello Stato.
In questi ambiti, poi, per quanto possano sembrare estremiste le mie affermazioni, noi non escludiamo affatto che le autonomie locali possano o debbano avere più voce in capitolo ma certamente la loro partecipazione alle scelte del Governo centrale potrà essere utilmente attivata ricorrendo, ogni qual volta se ne ravvisi la necessità, ad ampie forme di consultazione, ferma restando chiaramente l'attribuzione della competenza. Ovviamente spetta ai costituzionalisti, al di là dei
nostri suggerimenti, valutare l'opportunità o meno di un'elencazione analitica, caratteristica dei sistemi federali, dei settori di competenza esclusiva del Governo nazionale rispetto al sistema attualmente in essere che lascia spazio ad una potestà legislativa di carattere residuale in campo alle regioni le quali possono intervenire su ogni materia che non sia espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Ristabilito il principio dell'univocità delle competenze - e questo è un po' l'aspetto centrale, ristabilire l'univocità delle competenze - per le materie residue attribuite alle regioni, e anche per quelle ulteriori che lo Stato intenda delegare esplicitamente ad esse, riteniamo comunque indispensabili leggi quadro e di indirizzo che non includano anche statuizioni di merito e che garantiscano la pienezza dei diritti e dei doveri a tutti i cittadini indipendentemente dalla rispettiva residenza.
A tale proposito, purtroppo osserviamo che la formulazione dell'ultimo documento di programmazione economico-finanziaria e ora il testo del disegno di legge finanziaria per il 2007 ci confermano un'altra tendenza; in realtà i provvedimenti dello Stato riguardanti le fondamentali scelte di politica economica e fiscale sono andati via via perdendo il loro valore di quadro di riferimento, il loro originario carattere di generalità per essere invece 'farciti', per così dire, di minuterie meritevoli di altro iter. Si tratta dunque di un processo che va in senso contrario a quanto da noi auspicato ovvero alle leggi quadro leggere e generali che rimandino ad altri livelli i dettagli, le minuterie e gli aspetti più operativi.
Infine, presidente, come lei avrà già capito, non ci sentiamo di unirci al coro di chi oggi è particolarmente preoccupato di possibili 'riscritture' in quanto esse allungherebbero sicuramente i tempi; oggi, infatti, molti interventi hanno riguardato tale punto sottolineando l'importanza di andare avanti nel processo di attuazione. Noi però riteniamo che, senza 'riscrivere' alcune parti della disciplina, comunque non sarà facile andare avanti, come d'altra parte è abbastanza evidente e come prova un numero incredibile di contenziosi dinanzi alla Corte costituzionale.
In conclusione, vengo ai quesiti posti dagli onorevoli intervenuti. Con riferimento alla regionalizzazione differenziata, noi riteniamo che questo sia un principio assolutamente naturale e ammissibile a condizione che non si tratti di diritti e opportunità fondamentali che noi riteniamo debbano essere assolutamente uguali per tutti cittadini della Repubblica in ogni regione.
Quanto alle possibili storture relative alla legislazione concorrente segnalate dal senatore Vizzini nel suo intervento, riteniamo che esse debbano essere meritevoli di particolare attenzione; effettivamente, infatti, sarebbe strano quel travaso di poteri esecutivi nei poteri legislativi che sicuramente non consentirebbe un armonico sviluppo del processo di decentramento.
FRANCO QUARANTA, Dirigente della CISAL. Signor presidente, accogliendo il suo invito, vorrei contribuire al dibattito con una piccola valutazione sulle disfunzioni del sistema, per poi fornire qualche suggerimento, magari anche provocatorio.
Sembra necessario analizzare quali possono essere le cause che affliggono la funzionalità del sistema costituzionale odierno che versa in uno stato confusionale. Tale confusione nasce in primo luogo dal fatto che l'ente regione, a nostro avviso, non trova nel Titolo V della Costituzione una sua precisa identità costituzionale, essendo la sua configurazione tuttora incerta. Innanzitutto, non può dirsi del tutto sciolto un nodo basilare sulla natura stessa della regione, che sembra rimanere comunque un ente subpolitico o superamministrativo. È certo invece che la regione non trova ancora una tradizione storico-giuridica nel nostro Paese, a differenza dello Stato e dei comuni, istituti profondamente radicati nella nostra storia nazionale. Eppure, con il voluto decentramento politico si è puntato a rendere il livello regionale il livello legislativo privilegiato, grazie anche al principio di sussidiarietà
introdotto dall'articolo 118 della Costituzione, ma soprattutto grazie all'inversione dei destinatari della famosa riserva legislativa, dal momento che la tassatività delle competenze legislative, prima ad appannaggio della regione, è passata allo Stato. Pertanto, in base alla clausola dei poteri residui di cui all'articolo 117 della Costituzione, il potere legislativo delle regioni riguarda tutte le materie residuali non riservate né concorrenti.
In secondo luogo, la confusione nasce anche dal fatto che la definizione delle competenze legislative riservate allo Stato è così ampia da consentire ai poteri centrali di conservare l'occupazione degli spazi già ricoperti, aiutati come sono dalla predominante cultura centralista e neocentralista.
In terzo luogo, vi è confusione perché l'attuale disciplina delle competenze legislative concorrenti contribuisce alla commistione dei ruoli, dal momento che un decentramento politico, che trova la sua regola fondamentale nel principio della sussidiarietà, può funzionare in modo soddisfacente solo a condizione che gli enti tra i quali intercorre la sussidiarietà abbiano ciascuno competenze ben precise e delimitate.
In quarto luogo, vi è confusione perché il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo locale e lo Stato, al fine dell'effettivo potenziamento delle autonomie regionali, presuppone la chiarezza delle basi di partenza. Non può esservi una collaborazione del tutto paritaria, a nostro avviso, tra Stato e regioni, in quanto la nostra è una forma di Stato unitario, con decentramento regionale, e non una forma di Stato federale. Infatti, gli ordinamenti regionali non sono originari, bensì derivati da quello statale e rendono necessaria un'inversione di tendenza per arrivare al federalismo.
In quinto luogo, vi è confusione perché l'articolo 114 della Costituzione contiene un numero eccessivo di enti autonomi, tra i quali ripartire le competenze, soprattutto dopo la previsione delle città metropolitane. Dobbiamo allora chiederci - ed è la prima riflessione provocatoria - se la provincia, oggi sorpassata dalla stessa città metropolitana nell'ordine costituzionale di importanza tra le autonomie locali, rimanga tuttora un ente strettamente necessario.
Ora vorrei fornire qualche suggerimento in base a queste brevissime valutazioni sulle modalità con cui procedere alla semplificazione del sistema di riparto.
Intanto, sembra opportuno declinare una precisa identità costituzionale della regione, eliminando l'ambivalenza dell'attuale modello (ente di governo oppure ente di amministrazione) confermando o conferendo alla regione una competenza legislativa primaria o piena.
Inoltre, sembra opportuno ribadire che il nostro non può essere uno Stato federale, bensì uno Stato unitario con decentramento regionale (perché bisogna rincorrere modelli altrui quando abbiamo un nostro modello regionale proprio?) con il superamento della clausola dei poteri residuali. Bisogna anche riflettere sulla possibilità - altro suggerimento provocatorio - di sfoltire il panorama degli enti autonomi, stralciando la provincia, superata dalla stessa città metropolitana nell'ordinamento costituzionale.
Sembra poi opportuno ridefinire le competenze riservate allo Stato, contenendone il numero e facendo maggiore chiarezza per porre argine allo strisciante neocentralismo.
Sembra opportuno, altresì, eliminare la legislazione concorrente, prevedendo per tutte le materie non riservate allo Stato solo un controllo finale del Governo (si vedrà se di legittimità o di merito), senza funzioni statali preventive di indirizzo e coordinamento, per porre fine all'esercizio di una potestà legislativa ripartita che presuppone la previa emanazione da parte dello Stato delle famosi leggi cornice; i princìpi fondamentali, cui le regioni debbono attenersi, devono essere desunti dall'ordinamento positivo vigente. Si è favorevoli inoltre alla clausola di chiusura che conferisca allo Stato la facoltà di intervento legislativo nel caso di esigenze unitarie.
Per quanto sopra detto, sembra inoltre opportuno dare riscontro normativo all'orientamento della giurisprudenza costituzionale che, nell'applicare il principio di sussidiarietà ex articolo 118, ha subordinato comunque l'intervento statale all'individuazione di sedi e procedure di cooperazione e concentrazione con le regioni ai fini della ripartizione delle competenze legislative ed amministrative.
Senza entrare troppo nel merito dell'applicazione del principio di sussidiarietà e della ripartizione delle competenze amministrative, si suggerisce tuttavia l'intervento sulla sussidiarietà orizzontale, maggiormente in sofferenza e perciò meritevole di maggiore attenzione.
COSTANTE PERSIANI, Assistente del direttore generale per le politiche legislative della Confcommercio. Innanzitutto, il tema di oggi va visto secondo il nostro obiettivo primario, quello di consentire alle imprese del mondo del commercio di operare in un sistema di regole certe ed ispirate a criteri di efficienza e di sviluppo. La nostra ottica, pertanto, non è squisitamente giuridica.
Premetto che abbiamo consegnato un documento nel quale si risponde a tutti quesiti e che non è esente da approfondimenti in materia costituzionale dove le sentenze della Corte costituzionale hanno avuto un forte peso.
Vorrei già da ora porre l'accento sul tema previsto nelle successive sessioni quando sarà trattato il sistema delle competenze e la regolamentazione del territorio. Tali tematiche richiamano il problema importantissimo dell'attuazione della legge n. 142 del 1990 in ordine alla regolamentazione delle autonomie locali. Quindi, non si potrà non partire dal presupposto che si tratta in gran parte di una legge non a caso disapplicata e su cui andrà svolto un dibattito piuttosto approfondito.
Tornando al tema odierno, non credo che sia semplice ed opportuno il ribaltamento della riforma fin qui attuata.
Sicuramente, invece, è opportuno procedere ad una verifica di questa riforma, alla luce dell'esperienza dell'applicazione sul campo, e ciò rappresenta un po' il motivo per cui noi, come rappresentanze di impresa, siamo in questa sede. Alcuni dubbi andranno posti, non certo sulla qualità del sistema in atto, perché noi siamo convinti che non possa - e non debba - non essere il decentramento - sia regionale, sia a livello di enti locali - il più fedele interprete delle esigenze locali del territorio. Quindi, il sistema deve funzionare, con i necessari accorgimenti. Tali necessari accorgimenti, a mio avviso, sono relativi ad alcune incongruenze applicative, alcune duplicazioni di competenze, all'applicazione delle competenze «trasversali» e a volte - mi sia consentito dirlo - anche ad inerzie locali nell'applicazione ed anche nella stessa codificazione delle normative, oltre che ad alcune interpretazioni della giurisprudenza che hanno condotto all'adozione di pronunce di segno abbastanza differente.
Inoltre, non possiamo non tener conto anche di suggerimenti che sono scaturiti dall'interpretazione giurisprudenziale. Sicuramente, uno tra i problemi è cercare di scandire nettamente, spiegare e definire finalmente le varie materie, indicate nei vari commi dei diversi articoli della Costituzione, cercando di dare una maggiore certezza.
Bisognerà, altresì, rivedere il sistema della prevalenza e, comunque, dell'oggettività delle fonti normative, un tema che è stato delineato proprio in via giurisprudenziale.
Inoltre, vi è una mancata chiarezza sulle competenze esclusive e «trasversali» dello Stato e delle regioni. Su tale punto noi, nel nostro documento, abbiamo anche avuto la volontà di suggerire soluzioni. Mi limito a ricordarne alcune.
A mio avviso, una prima soluzione sui primi punti evidenziati rinvia alla necessità assoluta di un luogo certo di mediazione politico-istituzionale che possa essere preventivo rispetto ai conflitti e che conduca anche ad una verifica preventiva. Questo è un po' mancato, fino ad oggi. Quella esposta è sicuramente una soluzione che può essere perseguita senza bisogno di una revisione degli articoli della
Costituzione. Se, invece, si deve fare una revisione costituzionale, si potrebbe arrivare all'attribuzione differenziata e graduata delle competenze, a seconda della solidità organizzativa delle regioni e degli enti locali.
Per semplificare il sistema si potrebbe, quanto meno per quanto riguarda le competenze concorrenti, rendere un po' più flessibili i confini tra le materie concorrenti ed anche la possibilità di interventi legislativi da parte dello Stato e delle regioni.
Per quanto attiene, inoltre, alla competenza trasversale, la competenza legislativa dello Stato deve trovare una definizione molto più chiara. Ciò perché vi sono alcune materie, attualmente di competenza «trasversale» dello Stato, sulle quali lo stesso Stato tende a dilatare molto la propria competenza. Faccio un esempio: nella disciplina del commercio, la competenza statale, quella in ordine al tema della concorrenza, ha portato, a volte - in questa e nelle scorse legislature - a travalicare questo ambito per cui si è giunti a legiferare su aspetti tecnici propri del commercio e demandati alle regioni. Anche su tale aspetto, bisognerebbe tentare di arginare tale tendenza.
Mi riallaccio ad una domanda che è stata posta dal presidente questa mattina in merito ad alcuni esempi di competenze che si vorrebbero esclusive, «nuove» per lo Stato. Mi riferisco a chi ha sostenuto che dovrebbe essere una competenza esclusiva dello Stato quella in tema di norme generali sul lavoro, perché vi è una necessità in merito, che è stata anche riscontrata sul territorio. Faccio anche qualche altro esempio: le scorte strategiche, la tutela della salute - quanto meno, sul sistema di base - il coordinamento delle condizioni riguardanti il trasporto merci, ad esempio quelle sanitarie nelle varie regioni d'Italia. Chi deve portare stock di merce deperibile dalla Lombardia alla Sicilia, a volte non trova legislazioni omogenee nel percorso e, a questo punto, salvo non applicare strettamente la legge, si giunge ad alcune distorsioni.
Per quanto riguarda il tema della legislazione concorrente, sicuramente vi potrebbero essere alcune soluzioni. Ulteriori disposizioni interpretative della riforma potrebbero essere, sotto forma legislativa, più precise per evitare il ripetersi dei conflitti di competenza che si sono riscontrati fino ad oggi. Concordo, poi, con chi ha parlato - e sono stati molti - dell'opportunità di consentire allo Stato interventi legislativi diretti, ove vengano manifestate esigenze indispensabili utilitarie sotto il profilo del concetto dell'interesse nazionale (ed aggiungerei, anche sotto il profilo delle situazioni di necessità e di urgenza che, di volta in volta si profilano, a volte anche in casi di inerzia di altri poteri legislativi).
Non mi dilungo oltre sul principio della sussidiarietà legislativa. Sicuramente è necessario proseguire sulla strada intrapresa, ma nelle sedi efficaci e con procedure codificate di consultazione e cooperazione tra gli enti, che siano comunque normate. Anche per quanto riguarda il principio di sussidiarietà nei provvedimenti amministrativi, credo che sia assolutamente opportuno proseguire sulla strada intrapresa, che peraltro è stata anche seguita dalla giurisprudenza.
VINCENZO MANNINO, Segretario generale della Confcooperative. Signor presidente, già nel materiale distribuito stamattina era compreso il nostro contributo, con note che si raccordano ai quesiti posti. Eviterò, quindi, di ripetere affermazioni già disponibili per chiunque fosse interessato ad esse e mi concentrerò su poche questioni generali, cercando anche di tener conto dei lavori che si sono, fino ad ora, svolti.
Anzitutto, in questi anni noi abbiamo avvertito, ed anche ripetutamente denunciato, come un limite della elaborazione costituzionale che si andava svolgendo, l'ascolto insufficiente della società, del mondo imprenditoriale, delle parti sociali e credo che questa iniziativa, assunta dalle due Commissioni, sia molto significativa ed
incoraggiante, per l'iniziativa in sé, per la modalità, che consente un avvio di interazione, e per il tempo dedicato.
Al limite dell'insufficiente ascolto noi abbiamo sempre correlato un altro limite, quello di una sottovalutazione dei profili funzionali ed economici dei disegni istituzionali che si perseguivano. È naturale che chi propone una riforma costituzionale si prefigga un grado di rispondenza della stessa alla propria visione politica. È ovvio che una riforma costituzionale non è una legge finanziaria e non possa farsi carico di risolvere problemi che attengono ad altre sfere dell'operare della politica e del legislatore.
Tuttavia, il legislatore costituzionale non opera in un mondo ideale ed astratto, opera in questo Paese, nel quale sappiamo che vi è una drammatica necessità di riduzione, o quanto meno, di contenimento dei meccanismi di espansione della spesa pubblica ed una grande necessità di semplificazione, «disboscamento» rispetto al «roveto» di procedimenti amministrativi ed autorizzatori che gravano sulle imprese e che danno verso i potenziali investitori esteri un'immagine di non moderno, un'immagine di arcaico, evidenziando una grande necessità di imparare ad affrontare taluni problemi con maggiore rapidità decisionale.
Credo che se ciascuno facesse l'esercizio di ricordare quante volte, negli ultimi dieci anni, siamo partiti con il proponimento di adottare delle misure urgenti per l'economia e per la competitività, e quante volte e in quali tempi queste iniziative hanno raggiunto il traguardo, questo sarebbe già grandemente istruttivo. Quindi, un disegno riformatore che tenga più conto dei profili funzionali ed economici e che produca delle istituzioni più efficienti. Ne deriva, ovviamente, la convinzione che ci voglia un grado di maggiore stabilità del paesaggio istituzionale; l'incertezza di quest'ultimo, in cui operano il cittadino e l'impresa, non favorisce il dinamismo e l'innovazione. Al contrario, sollecita piuttosto un atteggiamento che tende a che il gioco si fermi, si calmino le acque, si capisca quale sarà lo scenario in cui si dovrà operare.
Va da sé che in tutto ciò è contenuta anche una preferenza per correzioni incisive, coraggiose del Titolo V esistente, piuttosto che per la riapertura di quella che a Roma usano chiamare la fabbrica di San Pietro. Per carità, si tratta di un nobilissimo precedente, ma l'idea che occorrano vari secoli per giungere ad una compiutezza definitiva sarebbe oltremodo inquietante. Va anche da sé che non si deve colludere con spinte all'eccessiva proliferazione delle province, che non si debbono assecondare disegni di irrazionalità semplificativa e - mi rendo anche conto che andrebbe detto con più precisione, ma non riesco a fare meglio - bisogna evitare che a problemi politici, di politica economica o di finanza pubblica si cerchino risposte di carattere istituzionale; altrimenti, il legislatore costituzionale viene sottoposto a sollecitazioni, a spinte, a pressioni del quotidiano politico, alle quali non è possibile dare risposte compatibili con un buon disegno costituzionale.
Per quanto possa apparire una digressione c'è un nesso tra questi temi di oggi, quelli dell'integrazione europea ed anche quello, distinto ma connesso, della globalizzazione. Ormai abbiamo - in Italia, ma non solo - problemi di governabilità (sviluppo economico, modelli di protezione sociale, sicurezza, politica estera) che possono essere veramente affrontati e risolti solo su scala continentale. Il legislatore costituzionale italiano non può risolvere questi problemi, ma può affrontare quelli della vita domestica con uno sguardo non ripiegato e nostalgico, ma rivolto ad integrare i problemi interni con questo più ampio orizzonte. Quando incontro qualche cooperatore (i cooperatori sono molto radicati nel territorio, vi è un'identità della buona cooperazione fortemente localistica) acceso da entusiasmi decentrativi cerco di spiegargli la possibilità che la prossima riforma del diritto societario non si faccia più a Roma, a Milano, a Bologna, a Firenze o ad Ancona, ma a Bruxelles.
Se il presidente mi perdona vorrei fare ancora un esempio. Il lavoro che sta facendo il commissario Kovac per far partire una nozione standard di imponibile per l'imposta sul reddito delle società in tutta l'Unione europea è più gravido di futuro rispetto alla gran parte dei dibattiti a cui dedichiamo il nostro tempo, impegno e, talora, i nostri conflitti in Italia.
Circa la preoccupazione che non si crei la possibilità di segmentare normativamente il mercato, un disegno istituzionale può indirettamente rappresentare un fattore di migliore competitività; cerchiamo di fare almeno in modo che non sia un fattore di declino. In questo senso - è implicito in quello che ho detto -, alcune competenze, sfere di responsabilità non possono essere parcellizzate. Credo sia nella natura dell'evoluzione, che si può cogliere anche dal nostro dibattito, lo sforzo di esplicitare l'interesse nazionale; in ogni caso, credo già molto si farebbe sollevando le sussidiarietà verticali-orizzontali da elementi secondari e marginali del disegno, facendone leve forti, pilastri portanti ed orientanti del disegno che dobbiamo realizzare.
Già da molti anni la nostra esperienza ci ha reso insofferenti nel veder ragionare sul riparto delle competenze come se vi fossero dei container sigillati da etichettare e spedire in ogni luogo. L'esperienza degli operatori ci ha insegnato che crescono processi decisionali attuativi aperti - che spesso partono da Bruxelles, talora da istituzioni internazionali sovraeuropee poco trasparenti e non democratiche -, i quali man mano scendono fino a provvedimenti non meramente esecutivi delle regioni o degli enti locali. Quindi, accanto a qualche accorgimento che occorrerà per riallocare con maggiore lucidità alcune competenze, nella giornata di oggi è emersa la consapevolezza che il problema consiste nell'imparare a collaborare con uno spirito più evoluto, più maturo, più responsabile, costruendo - laddove ciò sia possibile - i meccanismi istituzionali e procedimentali opportuni. Infatti, nei casi in cui vi sono filiere di legislazione e processi decisionali aperti vi deve essere la capacità dei diversi attributari di lavorare assieme. In questo senso, uscirò dai lavori - se continueranno ad essere portati avanti allo stesso modo di quando sono iniziati - anche con maggiore fiducia e consapevolezza che gli anni trascorsi, anche se non hanno ancora definito il paesaggio istituzionale, non sono, però, stati inutili rispetto alla maturazione (mi sembra di poterla registrare) di una coscienza istituzionale più responsabile e comprensiva delle ragioni altrui.
STEFANO COLOTTO, Funzionario del dipartimento riforme istituzionali della CISL. Egregio presidente, egregi senatori e deputati, nel ringraziarvi per queste audizioni organizzate dalle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato ribadiamo, in premessa, l'attenzione con la quale la CISL ha da sempre seguito le tematiche istituzionali ed i processi di riforma costituzionale che il nostro paese, da diversi anni, sta affrontando.
Vorremmo ricordare, in premessa, di aver già espresso in questa sede, in particolare in occasione dell'audizione tenuta nel gennaio 2002 sugli effetti nell'ordinamento del nuovo Titolo V della Costituzione, degli orientamenti favorevoli ad una riforma in senso federale che rendesse il nostro Paese più adeguato alle nuove esigenze poste dall'integrazione europea e dalla globalizzazione, ma fosse anche la base per una nuova idea di Stato in grado di valorizzare le diversità nel quadro dell'unità nazionale senza aggravare, anzi riducendo nel nome di una cooperazione solidale, i conflitti e gli squilibri tra le varie aree del Paese, ed in grado anche di recuperare la dimensione locale come luogo di partecipazione e di democrazia compiuta, secondo il modello, sostenuto dalla CISL, di federalismo cooperativo e solidale.
Dopo il referendum dello scorso giugno, per il quale la Cisl e il sindacato confederale si sono fortemente impegnati nel sostenere le ragioni del no, che ha respinto con un pronunciamento popolare chiaro nell'esito e consistente nella partecipazione il progetto di riforma della Parte II
della Costituzione predisposto dal precedente Governo, si apre ora una nuova stagione per le riforme istituzionali e per il federalismo.
Secondo noi, occorre partire dal dato normativo di riferimento, ovvero il testo della Costituzione vigente, ovvero il Titolo V riformato nel 2001, ragionando essenzialmente sotto due profili: quello delle eventuali correzioni ed integrazioni della normativa vigente, da un lato, e quello, soprattutto, dell'attuazione della stessa, dall'altro.
In questo senso, riteniamo comunque opportuno procedere in tempi congrui ad interventi di riforma precisi e puntuali, che riguardino singoli aspetti, abbandonando una volta per tutte suggestioni, che non condividiamo, di riforme complessive di una Carta che consideriamo tuttora valida ed attuale nel suo impianto e nei suoi valori fondanti.
Riteniamo importante, in premessa, effettuare in questa sede una raccomandazione da noi fortemente sentita e, cioè, che le riforme della Costituzione e degli assetti istituzionali non siano più decise a maggioranza, come avvenuto per la riforma del Titolo V nel 2001 e come è avvenuto per la riforma della Parte II, respinta con il referendum dello scorso giugno.
Riteniamo, infatti, che le riforme istituzionali, in considerazione della loro portata in termini complessivi di assetto e di equilibri istituzionali, ma anche per le loro immediate ricadute sul sistema dei diritti, sulla società civile e sul mondo del lavoro, debbano necessariamente essere ampiamente condivise tra maggioranza e opposizione nelle aule parlamentari, e partecipate con la società civile.
In tale senso, sarebbe opportuno, prima di ogni intervento sulla Carta costituzionale, pensare ad una riforma della procedura di revisione prevista dall'articolo 138, che porti ad un innalzamento del quorum dei due terzi previsto per la seconda votazione.
In ordine al tema specifico di oggi, l'attuale disciplina del riparto delle competenze tra Stato e regioni, prevista dall'articolo 117 della Costituzione, prevede un elenco tassativo di materie rimesse alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, un elenco altrettanto tassativo di materie rimesse alla competenza concorrente Stato-regioni e una competenza residuale, esclusiva, omnicomprensiva delle regioni su tutte le materie non inserite nei due suddetti elenchi.
A nostro avviso, alla prova dei fatti, nei cinque anni successivi alla riforma del 2001, questa disciplina ha presentato rilevanti problemi di applicazione, riteniamo sotto tre profili.
Primo profilo: alcune materie non risultano opportunamente e correttamente collocate nel rispettivo elenco.
Secondo profilo: per le materie di legislazione concorrente non è sempre possibile, all'atto pratico, definire fino a che punto debba spingersi la normativa di principio di competenza dello Stato e dove possa iniziare la normativa di dettaglio di competenza regionale.
Terzo profilo: un grave problema è quello di definire i principi fondamentali per la legislazione concorrente nei casi in cui non esista, allo stato attuale, una normativa statale di riferimento. In alcuni casi, è possibile desumerli dall'ordinamento nel suo complesso, in altri casi, alla prova pratica, tale operazione è risultata particolarmente ardua e complessa.
Com'è noto, si è generato un consistente contenzioso fra Stato e regioni davanti alla Corte Costituzionale, che, andando oltre i confini del proprio ruolo, ha dovuto svolgere funzioni giudice di merito e una notevole attività interpretativa.
Da tale esperienza risulta evidente, secondo noi, la necessità di riformare l'articolo 117 della Costituzione sotto un duplice profilo: rivedere gli elenchi delle materie e ridurre, per quanto possibile, le materie di legislazione concorrente, effettuando scelte più nette tra competenza esclusiva dello Stato o competenza esclusiva delle regioni.
Come ho già detto, sotto il profilo della legislazione ordinaria, è necessario emanare rapidamente le leggi che definiscono i principi fondamentali, qualora mancanti, per le materie che rimarrebbero comunque
di legislazione concorrente. A nostro giudizio, le incertezze determinate dall'attuale riparto potrebbero essere affrontate con un ripensamento dello stesso, che preveda l'attribuzione alla legislazione esclusiva dello Stato di tutte le materie inerenti le politiche generali che si propongono il raggiungimento di finalità ampie e di tipo trasversale.
Questa operazione è fondamentale perché avrebbe lo scopo di assicurare l'uniformità su tutto il territorio nazionale delle suddette politiche e, di conseguenza, eviterebbe sperequazioni territoriali nella tutela e nell'esercizio concreto dei diritti ad esse inerenti.
Va, poi, ricordato, a questo proposito, ai fini dell'unitarietà del sistema, che diverse sentenze della Corte costituzionale hanno individuato alcuni criteri o principi di carattere generale, quali ad esempio la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, dotati di una particolare capacità espansiva, tale da renderli vincolo e limite per la legislazione concorrente, ma anche per la legislazione esclusiva delle regioni.
Sotto un profilo operativo, in considerazione dei conflitti che si sono verificati in questi anni tra Stato e regioni, ma soprattutto allo scopo di assicurare politiche uniformi e diritti uguali su tutto il territorio nazionale in ordine a settori di assoluto rilievo, riteniamo, rispetto all'attuale formulazione dell'articolo 117, che debbano esplicitamente essere attribuite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato: le norme generali sulla tutela della salute; le norme generali sulle grandi reti di trasporto e di navigazione; l'ordinamento delle comunicazioni; l'ordinamento delle professioni intellettuali; la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell'energia; la disciplina dei rapporti di lavoro; la tutela e la sicurezza del lavoro; la previdenza complementare ed integrativa.
In particolare, come organizzazione sindacale, per quanto riguarda le tematiche del lavoro, come abbiamo avuto modo di sottolineare fin dall'audizione in Commissione Affari costituzionali del Senato del gennaio 2002, l'aver ricompreso, al terzo comma dell'articolo 117, tra le materie di legislazione concorrente anche la «tutela e sicurezza del lavoro» e la «previdenza complementare ed integrativa» comporta il rischio di possibili differenziazioni territoriali, che mettono a rischio l'unitarietà del diritto del lavoro e del sistema contrattuale.
Riteniamo, invece, che il sistema di diritti inerenti il lavoro debba essere sancito come vincolo unitario per tutto il territorio nazionale.
In ordine alla necessità e all'opportunità di una rivisitazione del riparto di competenze, nel senso di procedere ad una riduzione dell'area della legislazione concorrente, possiamo anche dire che l'ipotesi di una riduzione, anche consistente, delle materie di legislazione concorrente, con conseguente riassegnazione di alcune di esse alla competenza dello Stato, sembra essere soluzione maggiormente praticabile rispetto all'ipotesi di un'abolizione integrale della stessa.
Ciò perché, in alcuni casi, un'alternativa secca Stato-regioni non è possibile, e anche perché probabilmente una ripartizione maggiormente articolata e un tasso di elasticità nell'applicazione della stessa può giovare alla funzionalità del sistema nel suo complesso.
In ordine ai fini della tenuta complessiva del sistema (chiaramente, abbiamo seguito anche la traccia del questionario che ci avete sottoposto), della garanzia di unitarietà dei diritti, ma anche al fine di risolvere in via preventiva eventuali conflitti di competenza tra lo Stato e le regioni, riteniamo fondamentale la previsione di una sorta di clausola generale di supremazia, attualmente prevista in diversi sistemi federali, che consenta di superare una rigida separazione delle competenze, legittimando l'intervento della legge statale anche in ambiti rimessi alla competenza regionale, al fine di tutelare gli interessi unitari della Repubblica, vale a dire gli interessi superiori della collettività, l'unità giuridica ed economica del
Paese, e di garantire l'eguaglianza dei cittadini nell'esercizio dei diritti e delle libertà costituzionali.
Un ultimo punto sottoposto alla nostra attenzione in ordine al tema in questione, riguarda l'individuazione di sedi e procedure di cooperazione e concertazione tra Stato e regioni, sia sotto il profilo delle competenze amministrative, sia sotto il profilo delle competenze legislative.
Riteniamo che la necessità di prevedere istituzioni di raccordo tra Stato e autonomie - necessità esaudita in molti sistemi federali compiuti attualmente esistenti - è assolutamente da soddisfare, e la mancata soluzione di questo problema comporta il rischio di conflitti.
Rinviando a quanto si dirà nello specifico in ordine al tema C, riteniamo che vadano valorizzate e attuate pienamente le sedi di cooperazione e concertazione già esistenti o previste dalla normativa in vigore. In particolare: la Commissione bicamerale per le questioni regionali, da integrare, ai sensi dell'articolo 11 della legge n. 3 del 2001, con i rappresentanti di regioni ed enti locali; il sistema delle conferenze, attualmente uniche sedi che consentono un coordinamento, sebbene soltanto degli esecutivi; il consiglio delle autonomie locali, previsto dagli statuti regionali recentemente riformati, per i rapporti regioni-enti locali.
Resta, comunque, sullo fondo la necessità di un intervento costituzionale molto rilevante, cioè l'istituzione del Senato delle regioni, come base del possibile equilibrio e della possibile cooperazione tra le varie istanze di governo del Paese e come luogo di regolazione tra unità e autonomia, fondamentale sotto un duplice profilo: sotto il profilo della rappresentanza istituzionale delle regioni e sotto il profilo della loro competenza legislativa.
GIUSEPPE DELL'AQUILA, Responsabile dell'ufficio legislativo della Confesercenti. Signor presidente, l'intervento nell'ambito dell'indagine conoscitiva odierna del rappresentante di una confederazione rappresentativa degli interessi di imprese - in questo caso di una confederazione come la Confesercenti che rappresenta gli interessi di piccole e medie imprese del commercio, del turismo e dei servizi - non deve andare sprecato in un'analisi di taglio generalista. Quindi, con soddisfazione del senatore Vizzini, ritengo che ciò che ci si aspetta da noi sia la testimonianza di problematiche reali, che nascono dal vissuto quotidiano delle imprese. Questo cercherò di fare attraverso il mio intervento.
Senza frapporre indugi, per dare qualche situazione esemplificativa delle condizioni del nostro comparto, la riforma del Titolo V della Costituzione e, in particolare, dell'articolo 117, che ha conferito alle regioni, in via residuale, la potestà legislativa in materia di commercio, turismo e in ogni altra materia che non sia ricompresa nella elencazione tassativa delle materie riservate allo Stato, non ha finora convinto del tutto le imprese del terziario. Prova ne sia la recentissima riforma recata dal decreto Bersani-Visco, un provvedimento che, per poter esplicare i suoi effetti nella materia del commercio senza l'apertura di un sicuro contenzioso con le regioni, ha dovuto surrettiziamente utilizzare il riferimento alle lettere e) sulla tutela della concorrenza ed m) sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali del secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione.
Lo stesso ministro, che nel 1998, con il decreto n. 114 di riforma del commercio, già prima dell'approvazione della riforma federalista della Costituzione, aveva riformato la disciplina del commercio, delegando sostanzialmente alle regioni aspetti fondamentali, quali quello relativo alla programmazione, poche settimane fa ha sentito l'esigenza di richiamare le regioni medesime all'osservanza di determinati principi, alcuni dei quali, fra l'altro, ormai chiari da tempo, in materia di commercio. Facciamo riferimento, ad esempio, alle distanze obbligatorie fra esercizi.
Altri principi, al contrario, sono apparsi innovativi, come nel caso della soppressione del registro abilitante all'esercizio
della somministrazione di alimenti e bevande, delle commissioni per i pubblici esercizi.
Infine, gli indirizzi del ministro alle regioni in alcune situazioni sembrano lasciare eccessivo spazio alla libera interpretazione, come nel caso del divieto di porre limiti relativi a quote di mercato, decisione che ancora oggi, pur dopo l'emissione di una circolare esplicativa, non appare del tutto chiara, né il Governo sembra voler approfondire tale aspetto, proprio a testimonianza della pericolosità dell'intervento statale in una materia che è appannaggio delle regioni.
La soppressione dei registri comporta oggi un'assurda eterogeneità per ciò che concerne i requisiti professionali richiesti per l'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande dalle legislazioni delle regioni. Si pensi, ad esempio, che ovunque è possibile utilizzare quale requisito professionale la pratica commerciale, cioè l'esperienza acquisita sul campo, fatta eccezione per la Lombardia, oppure che in Friuli, diversamente da altre regioni, sopravvive lo stesso registro degli esercenti il commercio, che pure è stato soppresso con la riforma Bersani-Visco.
Le incertezze del Governo e delle regioni non giovano certamente alle imprese. Il problema della trasversalità di alcune materie rispetto ad altre conduce a tentennamenti che procrastinano importanti decisioni o, nel caso limite del ricorso alla Corte costituzionale, possono condurre addirittura al blocco delle attività.
Non può sottacersi il caso del turismo, materia di competenza esclusiva delle regioni, senza però che la legge quadro del 2001 sia mai stata abrogata, ma anche senza che questa conferisca effettivamente al sistema una omogeneità tale da dare rinnovato impulso al comparto. È universalmente riconosciuto che, senza una politica unitaria del turismo, l'Italia può scendere sempre di più ed incredibilmente nei paesi a maggior afflusso turistico, ciò che effettivamente sta avvenendo. Gli interventi previsti a sostegno del settore nel disegno di legge finanziaria per il 2007 rischiano di essere un palliativo rispetto alle attese.
In definitiva, il sistema di riparto delle competenze basato sull'elencazione analitica delle materie prefigura una visione del diritto fittizia e utopistica. La trasversalità di alcune e, in non pochi casi, gli incerti confini tra una materia e l'altra - si pensi, ad esempio, alla tutela dell'ambiente, alla valorizzazione dei beni ambientali, al governo del territorio - creano problemi difficilmente superabili se non si adottano clausole di chiusura importanti, che conservano allo Stato la funzione di intervenire ogni qualvolta sia necessario per riaffermare la propria unità giuridica ed economica e per garantire equivalenti misure di vita e pari opportunità per imprese e cittadini sul territorio nazionale. Ciò, naturalmente, al di là delle soluzioni migliorative e dei processi di codecisione, che verranno affrontati nella terza sessione di questo lavoro.
Quanto alla materie di legislazione concorrente, ai fini delle attività del settore terziario, interessano, soprattutto, la tutela e la sicurezza del lavoro, la ricerca scientifica e tecnologica, il sostegno alla innovazione per i settori produttivi, la tutela della salute, l'alimentazione, il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e l'organizzazione di attività culturali. In tali materie, come noto, spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali.
Senza fare questioni dei confini, sia pur labili, fra la potestà dello Stato di dettare leggi cornice e il potere delle regioni di provvedere con norme attuative, il sistema che sembrava porre la legge n. 131 del 2003, cosiddetta legge La Loggia, poteva, in un certo modo, risolvere queste problematiche. Tale occasione è andata sostanzialmente fallita, perché i decreti legislativi, che si attendevano dalla delega prevista nella legge n. 131, non sono stati approvati.
Questa previsione andata fallita può considerarsi per noi un'occasione perduta, specie per le conseguenze di alcune materie,
come la tutela della sicurezza del lavoro, in cui l'abortito tentativo, nella passata legislatura, di adottare un testo unico non meramente compilativo ha fatto perdere tempo prezioso, oltre che - non possiamo escluderlo - vite umane, alle regioni che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente alla predisposizione di norme al passo con i tempi e più vicine alle problematiche del territorio.
Infine, per quanto concerne l'applicazione del principio di sussidiarietà - altra tematica che ci viene richiesto di affrontare -, vale la pena di segnalare la sentenza della Corte costituzionale n. 43 del 2004, che ha riconosciuto, in tema di legislazione turistica, la legittimità dell'esercizio del potere sostitutivo regionale in presenza di comportamenti inerti da parte degli organi locali chiamati a svolgere determinate funzioni di pianificazione urbanistica. La Corte ha considerato la legittimità degli interventi sostitutivi di carattere ordinario, che trovano fondamento nell'articolo 118 della Costituzione e che, dunque, sono espressione del principio di sussidiarietà ed adeguatezza. La loro previsione viene operata sulla base dei richiamati parametri costituzionali dall'ente titolare della competenza legislativa ai sensi dell'articolo 117 e, quindi, in questo caso, dalla regione, che provvede alla locazione delle relative funzioni amministrative.
Ribadita la possibilità, da parte delle regioni, di disciplinare anche interventi di tipo sostitutivo, la Corte ha enucleato limiti e condizioni, fra i quali la previsione di congrue garanzie procedimentali nel rispetto del principio di leale collaborazione.
Riteniamo che una cristallizzazione dei principi fatti propri dalla Corte costituzionale, attraverso il loro recepimento in un testo di legge, potrebbe essere utile, ma non si ritiene opportuna, perché, essendo da considerare quello di sussidiarietà come un principio dinamico, costringerlo in ambiti predefiniti potrebbe rivelarsi, alla fine, una limitazione, anziché un'utilità per il sistema giuridico.
PRESIDENTE. Signori, vorrei informarvi che sono le 15. Abbiamo ancora nove interventi e avevamo stabilito alle 16 di aprire un dibattito rapido. Quindi, vi invito a mantenere gli interventi nell'ambito temporale di circa sei-sette minuti ciascuno.
BRUNO BUSACCA, Rappresentante della Lega nazionale delle cooperative. Ringrazio i presidenti Violante e Bianco. Cercherò di restare nei tempi previsti. Rimandando al contributo scritto che abbiamo depositato, vorrei limitare il mio intervento alla risposta secca alle domande che lei, presidente Violante, ci ha rivolto e a un paio di considerazioni.
Sì, è opportuno rivedere l'elenco delle materie della legislazione concorrente, riportando alla concorrenza statale - peraltro, l'onorevole Boato ci ricordava che su questo punto nella scorsa legislatura si era raggiunta un'intesa di larga massima - materie come quella dell'energia, delle grandi vie di trasporto, e similari, ossia materie per le quali, ai fini della competitività generale del sistema, la frammentazione della competenza è ostativa.
Da ciò nasce l'idea di rafforzare la funzione di ultima garanzia da parte dello Stato. Nell'elenco delle domande viene richiamata la nuova clausola della Costituzione tedesca, ossia la clausola della supremazia dell'interesse nazionale. Troviamone una e scriviamola bene, perché uno dei problemi delle riforme costituzionali, non solo di quella del 2005, ma anche di quella del 2001, era l'insufficiente chiarezza rispetto alla lapidarietà del testo del 1948.
In realtà, per quel che riguarda le considerazioni, l'iniziativa delle Commissioni è estremamente positiva e serve ad arrivare a modifiche costituzionali condivise. Il difetto delle riforme del 2001 e del 2006, al di là della loro qualità intrinseca, si è rivelato proprio quello di essere state approvate a maggioranza dagli schieramenti allora al Governo. Serve, invece, un orientamento condiviso.
Il nostro mestiere è quello di rappresentare gli interessi di parte. Ovviamente,
il Parlamento, nella sua sovranità, decide come procedere.
Una sollecitazione da parte delle parti sociali credo possa servire, se, ovviamente, il Parlamento vuole raccoglierla.
Speriamo che, da queste audizioni, emergano non solo le opinioni e le idee, ma anche gli umori delle parti sociali, al fine di capire come l'effettiva realizzazione delle riforme istituzionali possa calarsi nella vera realtà del Paese.
Dunque, occorre tenere conto di diverse esigenze, quali la competitività generale del sistema, l'efficienza del funzionamento delle istituzioni, legata al gioco non solo delle ripartizioni delle competenze, ma anche della leale collaborazione, e la riduzione dei costi della pubblica amministrazione. Ricordo una preoccupata ed impressionante analisi, non so quanto fondata, sui costi che avrebbe avuto la riforma del 2005 (l'ISAE fece preoccupanti valutazioni dei costi).
Per quanto riguarda il dubbio sulle limitate o non limitate riforme, in realtà servirebbero riforme più ampie che non riguardino solo la revisione del Titolo V della Costituzione. Peraltro, lo stesso articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che contiene la riforma del Titolo V, prefigurava una riforma anche del Titolo I della parte seconda della Costituzione.
Nel richiamare la clausola tedesca, ricordiamo come la stessa sia presente in un ordinamento in cui l'ordinamento dello Stato, ossia del livello centrale delle istituzioni, è diverso. Siamo certi che un modello, come quello previsto dal Titolo V della Costituzione, pur con queste modifiche, che possono prefigurare funzioni con un bicameralismo perfetto a livello centrale, sia il più efficace possibile all'interno del nuovo sistema comunitario e della competizione globale cui il Paese è chiamato a dare risposte?
Si tratta di questioni che inseriamo solo in questa prima tornata, perché è quella di apertura. Non vorremmo buttarla troppo in politica, noi, organizzazioni sociali, tuttavia l'idea di una revisione più ampia del sistema istituzionale, andando oltre il campo chiuso del Titolo V della Costituzione, se ne esistono, si diceva prima, le condizioni nella forma, probabilmente, sarebbe utile.
LUIGI VELTRO, Funzionario del dipartimento politiche territoriali della UIL. Signor presidente, ringraziamo i presidenti Bianco e Violante per l'occasione di oggi. Nel corso dell'intervento, potrete capirne il perché. Non si tratta, dunque, di una frase di circostanza. In ogni caso, come UIL, cercheremo di rispettare i tempi che ci ha indicato il presidente, anche perché abbiamo svolto il compitino che avete mandato: abbiamo risposto a tutte le domande. Vorremmo soltanto aggiungere alcuni concetti di fondo.
Come UIL, auspichiamo che questa legislatura sia improntata alla realizzazione di riforme costituzionali ampiamente condivise. Infatti, non è più pensabile fare riforme costituzionali a colpi di maggioranza e che ogni volta che cambia questa maggioranza si riprenda a discutere di riforme costituzionali. Sono vent'anni - forse più - che questo Paese discute di riforme costituzionali, senza mai arrivare alla fine. Credo che la «sconfitta» della riforma del precedente Governo al referendum rappresenti un'occasione per riprendere il percorso di modernizzazione del Paese attraverso le riforme costituzionali.
Ricordo che durante la campagna elettorale per il referendum per il «no» furono avanzate proposte per un tavolo condiviso di revisione della Costituzione, lanciato dall'onorevole Tremonti. Quindi, credo che questa possa essere una strada.
L'aria che un po' tutti questa mattina abbiamo respirato è quella di una revisione costituzionale o di riforme istituzionali minime. Come UIL, riteniamo che, forse, questo Paese, per essere ammodernato e per competere nello sviluppo, abbia bisogno di riforme più ampie. Mi ricollego alle osservazioni del collega della Lega delle cooperative: si parla tanto del modello tedesco, ma il modello tedesco è basato su un diverso assetto istituzionale e di Governo. Ma non vorrei entrare nel merito, non è oggi la giornata.
Per quanto riguarda, specificatamente, il tema di oggi, ricordo che, nel 2001, abbiamo condiviso la riforma del Titolo V, avanzando perplessità che riguardavano l'attribuzione di alcune materie alla legislazione concorrente. Mi riferisco, ovviamente, alla tutela della salute, ma, in modo particolare, al sistema energetico.
Credo che, ove si considerino anche le crisi energetiche dello scorso anno, l'energia sia un settore strategico della nazione e che debba rimanere una materia esclusiva della legislazione statale, ma non solo. Un altro settore strategico per lo sviluppo del Paese riguarda le reti dei trasporti. Si parla tanto di fare dell'Italia la piattaforma del Mediterraneo, ma credo che le grandi reti di trasporto debbano rientrare nella legislazione esclusiva dello Stato; così come la sicurezza del lavoro, la previdenza complementare, perché sono diritti fondamentali dei lavoratori e dei cittadini e devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Già nel 2001 mostrammo un'ulteriore perplessità: in documenti ufficiali e nelle audizioni, affermammo che questa riforma era un po' zoppa, in quanto non prevedeva una vera camera delle autonomie locali quale luogo di compensazione dei conflitti. Un altro punto su cui occorre riflettere è l'istituzione di una vera seconda camera che sia espressione delle autonomie locali, per evitare il sistema dei conflitti di competenza tra Stato e regioni e con le autonomie locali.
Per quanto riguarda il tema della sussidiarietà, stamattina avevo sentito interventi da parte dei rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni. Non vorremmo che il sistema di sussidiarietà venga inteso come un neo centralismo regionale. Sia ben chiaro: il sistema di sussidiarietà non si deve fermare alle regioni. Le regioni devono svolgere il loro compito istituzionale, che è quello di programmare e legiferare, e gli enti locali devono amministrare i servizi.
Proprio perché questo è il nostro intendimento, un altro punto fondamentale ed essenziale è la riforma del Testo unico degli enti locali. Sappiamo che nel Governo vi è l'intenzione di rivedere il Testo unico degli enti locali, affiancato a quello dei servizi pubblici locali (un altro tema abbastanza importante rispetto alla sussidiarietà).
Ebbene, anche in questo caso, diciamo che è urgente una riforma del Testo unico degli enti locali, anche perché è dall'approvazione della legge n. 142 del 1990 che si tenta di fare una riforma istituzionale degli enti locali. Ad oggi, la citata legge n. 142, nella sua parte migliore, vale a dire quella che prevedeva l'istituzione delle città metropolitane, non è stata attuata: sono sedici anni che se ne parla, ma le città metropolitane non sono state ancora attuate. Certo, si pone un problema di competenza con le province, ma noi siamo convinti, come UIL, che l'istituzione delle città metropolitane possa risolvere anche l'annoso problema se servano o meno le province. Partiamo dall'istituzione delle città metropolitane, per poi estendere la riflessione al ruolo delle province.
All'interno di ciò...
PRESIDENTE. Lei approfitta dell'assenza dell'UPI in questo momento (Si ride)...
LUIGI VELTRO, Funzionario del dipartimento politiche territoriali della UIL. No, signor presidente, non approfitto dell'assenza dell'UPI: semplicemente, mi sembra che l'argomento...
LUIGI VELTRO, Funzionario del dipartimento politiche territoriali della UIL. ...dopo vent'anni, meriti un minimo di riflessione.
All'interno di ciò, va distinto quello che è veramente il ruolo di Roma capitale, una volta per tutte. Ciò va fatto all'interno della riforma costituzionale, perché dobbiamo stabilire ordinamenti adeguati ai compiti di una capitale mondiale; non dimentichiamo che Roma è due volte capitale del mondo: è capitale d'Italia ed è capitale della cristianità cattolica.
L'ultimo tema riguarda il cosiddetto federalismo a geometria variabile. Noi non siamo contrari, per principio, al federalismo a geometria variabile, purché l'articolo 119 della Costituzione riceva, finalmente - e domani lo specificheremo bene anche in sede di audizione sul federalismo fiscale -, quell'applicazione senza la quale sarebbe molto pericoloso, per la garanzia dei diritti essenziali, attuare il federalismo a geometria variabile
Mi fermo qui, sperando di avere rispettato il tempo a mia disposizione. Ringrazio di nuovo le Commissioni riunite per questa iniziativa: strumento di revisione condivisa della Costituzione può essere, per la UIL - lancio qui la proposta -, quella convenzione di cui questa assemblea richiama un po' le caratteristiche.
PRESIDENTE. È una convenzione di fatto, diciamo così...!
La ringrazio molto per aver rispettato i tempi ed anche per il contenuto del suo intervento.
GIORGIO BUSO, Rappresentante della Confagricoltura. Signor presidente, nel rispondere alla domanda rivoltaci in via preliminare, Confagricoltura auspica che, in una eventuale modifica della Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia dell'agricoltura venga posta tra quelle di competenza concorrente e che tra le materie di competenza esclusiva dello Stato venga individuata, com'è avvenuto nella scorsa legislatura, l'organizzazione comune dei mercati. Queste sono le due richieste di Confagricoltura.
PRESIDENTE. Mi scusi, ma mi è sfuggita la seconda.
GIORGIO BUSO, Rappresentante della Confagricoltura. L'organizzazione comune dei mercati, signor presidente, materia che era stata enucleata nel testo elaborato nella passata legislatura. A nostro avviso, essa è funzionale non soltanto alle responsabilità del nostro Stato sul piano degli impegni comunitari, ma anche alle responsabilità economiche connesse alle azioni che vengono intraprese su base comunitaria.
Di tali richieste illustrerò le motivazioni, non senza aver premesso che avvertiamo l'esigenza di una riforma profonda (che, sostanzialmente, non necessita, forse, di modifiche costituzionali), di una riforma strutturale, organizzativa e, se vogliamo, anche culturale della pubblica amministrazione. Senza tale trasformazione, anche le riforme costituzionali più interessanti e meglio congegnate si scontrerebbero, al momento della loro attuazione, con una struttura che va rinnovata dalle fondamenta. Una buona legge può essere approvata dal Senato della Repubblica o dal Senato federale, ma poi passa nelle mani di una burocrazia che, nel corso degli anni, esprime sempre le stesse logiche sia a livello territoriale sia a livello centrale.
Ci preoccupa il potere della burocrazia ministeriale anche nei confronti dello stesso procedimento legislativo. È noto che tutti i Governi che si succedono, senza distinzioni, utilizzano sempre più spesso gli strumenti del decreto-legge e della richiesta di deleghe al Parlamento (che poi devono essere attuate). Tuttavia, anche per quel che riguarda lo svolgimento concreto dell'attività parlamentare, tutti sanno, ad esempio, quanto tempo deve aspettare la Commissione bilancio per ricevere una relazione tecnica del Governo. In termini concreti, questo può essere anche, valutandolo con un po' di malizia, un modo per rallentare l'attività parlamentare. Evidentemente, c'è bisogno di un intervento strutturale.
Veniamo, ora, alle ragioni per le quali abbiamo individuato i due fini che ho innanzi indicato. Una prima motivazione riguarda le regioni, un'altra lo Stato.
Nei confronti delle regioni, abbiamo constatato che la riforma del Titolo V, almeno per quanto riguarda il settore dell'agricoltura, è passata senza grandi sommovimenti. In altre parole, una delle «pecche» la cui esistenza è possibile rilevare a livello regionale nei confronti del settore agricolo è sempre stata costituita
dalla scarsa disponibilità a destinare risorse alle imprese. Di contro, è stato sempre più forte l'intervento pubblico nell'economia attuato attraverso enti vari, anche di tipo economico, talvolta addirittura concorrenti, impropriamente, delle aziende agricole (il problema è presente anche nell'apparato statale, perché attorno al Ministero delle politiche agricole proliferano enti che svolgono attività agricola e che vengono finanziati con risorse del bilancio del ministero).
Ebbene, le «pecche» delle regioni in materia agricola si sono protratte nel tempo, anche dopo la riforma del Titolo V, che pure ha fornito spunti anche estremamente interessanti. Penso, ad esempio, agli accordi con gli Stati di imprese ed enti territoriali appartenenti ad altri Stati; si trattava di un'opportunità che poteva coinvolgere fortemente l'agricoltura. Penso anche ad una appropriazione maggiormente locale dell'attività e della materia agricola.
Forse, a questo punto, bisogna fare una considerazione di ordine generale (che vale per l'agricoltura, ma anche per altre materie). L'agricoltura è una materia senza confini. A questo proposito, mi piace citare un brano del parere che, nella precedente legislatura, la Commissione affari costituzionali ha reso sul disegno di legge n. 2122-ter, poi diventato legge n. 38 del 2003, recante interventi nel settore agricolo. La Commissione affermava: «Si sono individuati settori di intervento che, pur presentando una stretta attinenza funzionale con i settori dell'agricoltura e della pesca, tuttavia, rientrano, in alcuni casi, nell'ambito di materie demandate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e, in altri, nell'ambito di materie che lo stesso articolo 117 della Costituzione demanda alla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni». In sostanza, abbiamo assistito ad interventi legislativi statali che hanno attratto la materia agricola, di competenza regionale. Nel rapporto con lo Stato, le regioni si sono molte volte premurate di far valere la propria competenza - obiettando: «questo devo farlo io!» -, ma non hanno colto le indicazioni della Corte costituzionale, che noi abbiamo apprezzato (soprattutto quelle in tema di materie trasversali).
Quindi, di fronte all'atteggiamento regionale, permangono le richieste di semplificazione degli adempimenti e di riduzione dei costi aziendali. Noi abbiamo creduto e crediamo nella sussidiarietà, anche istituzionale e sociale, ed abbiamo chiesto la conoscibilità e l'efficienza della spesa in agricoltura.
Alle regioni abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere un trattamento omogeneo sul territorio complessivo delle situazioni soggettive comparabili. Molte volte, le regioni si sono comportate come delle piccole repubbliche, nel senso che non hanno nemmeno riconosciuto titoli, attività e situazioni soggettive che si sono determinate in altre regioni. Quindi, per quanto riguarda il nostro rapporto con le regioni, rimaniamo sostanzialmente delusi, perché le regioni non hanno saputo cogliere gli spazi ampi che la riforma del Titolo V del 2001 ha dato loro.
Venendo alla parte che riguarda lo Stato - ovviamente, il dibattito che c'è stato nella scorsa legislatura sulle riforme istituzionali è sotto gli occhi di tutti -, noi abbiamo assistito ad un mutamento strutturale dell'intervento legislativo in agricoltura da parte della legislazione statale. Abbiamo assistito al fatto che Governi di diversa natura hanno chiesto, prima e dopo l'entrata in vigore del nuovo Titolo V, deleghe al Parlamento, per entrare pesantemente nella regolazione del settore agricolo. Queste deleghe sono state chieste preventivamente alla Conferenza Stato-regioni, cioè l'assenso dell'iniziativa governativa è stato posto prima sul tavolo della Conferenza Stato-regioni e, mutata anche la composizione di tale Conferenza a seguito di nuove elezioni regionali, il risultato è stato lo stesso. Dunque, Titolo V o non Titolo V, lo Stato è intervenuto nel settore agricolo con il beneplacito della Conferenza Stato-regioni, sia sotto la vigenza di un determinato Governo, sia quando esso è poi cambiato.
Prendiamo dunque atto che si è andato delineando un modo di fare legislazione,
su una materia sia pure complessa e trasversale come l'agricoltura, in cui le regioni hanno assentito sul fatto che lo Stato intervenisse con disposizioni nazionali, seppur attraverso lo strumento della delega. Tuttavia, le regioni sono state anche «buone» nei confronti di iniziative parlamentari. Penso alle ultime leggi approvate sul finire della passata legislatura in materia di agriturismo, apicoltura ed OCM vino (e non si tratta di materie agricole). Sostanzialmente per pochi aspetti la disciplina dell'agriturismo è stata impugnata dalle regioni.
Allora noi giungiamo alla conclusione che, non solo per esigenze che fanno parte della nostra esperienza e che sono volte a tutelare principalmente le situazioni soggettive in tutte le regioni, ma anche per la volontà di accordo tra Stato e regioni su questa materia, sia sostanzialmente proponibile - e quindi lo abbiamo detto e lo dico anche in conclusione - che questa materia torni ad essere, perché già lo era, una materia concorrente tra Stato e regioni.
GIULIO BAGLIONE, Responsabile del dipartimento territorio e impresa della CNA. Ringrazio i presidenti delle Commissioni riunite e tutti i componenti delle stesse per l'invito. Il mio intervento, in qualità di rappresentante di un'organizzazione che si occupa di artigianato e di piccole e medie imprese, non può che essere nel solco dell'efficacia dei provvedimenti, valutando come le riforme costituzionali abbiano influenzato la vita delle aziende e come possano farlo, immaginiamo noi, nel futuro.
Abbiamo di fronte una situazione economica che è molto diversa da quella di qualche anno fa. Oggi, vi è un'evoluzione dei mercati; questi hanno allargato i campi di competenza, le aree in cui operare, hanno introdotto l'obbligo di nuove produzioni ed hanno aumentato la velocità di azione con cui realizzare le scelte che vengono decise a livello aziendale. Non si va lontano dal vero se, in maniera sintetica, si afferma che si va verso un nuovo ordine economico mondiale, in cui la competizione è fra sistemi, non soltanto fra imprese o sistemi solo di imprese, bensì appunto fra sistemi integrati.
La gestione delle aziende, soprattutto di quelle piccole e medie, che in Italia, ricordo, sono il 94 per cento del totale delle aziende che agiscono sul mercato, oggi è più complicata rispetto al passato: c'è un livello maggiore di difficoltà, rispetto agli anni passati, perché si impone un livello di integrazione notevole e soprattutto la necessità di guardare a mercati più lontani, insieme a quelli più domestici. L'attuale disciplina costituzionale non è funzionale ad un esercizio ottimale dell'attività imprenditoriale, perché nell'applicazione della riforma costituzionale del Titolo V, che pure qualche entusiasmo e qualche speranza all'inizio aveva suscitato, sono emerse difficoltà e sono aumentate quelle che già esistevano.
L'esperienza maturata all'interno del mondo dell'impresa, in particolare di quella piccola e media, suggerisce di definire in maniera più precisa le competenze, eliminando o riducendo al massimo le sovrapposizioni attribuite ai diversi livelli dello Stato. La conseguenza di questa situazione è doppia: da una parte, un aumento dei costi diretti, che per le piccole imprese e per la struttura organizzativa che esse hanno, si traduce in maggiori costi in consulenze, in assenza di una struttura amministrativa propria (questa peraltro è una voce non più secondaria nel bilancio delle piccole e medie imprese, rispetto al passato); dall'altra, un costo indiretto, che è dato dal tempo. Per fortuna, vediamo segnali, anche se soltanto iniziali, da parte dell'attuale Governo, che àncora alcuni provvedimenti in corso d'opera al concetto del costo determinato dal tempo impiegato nel procedimento amministrativo.
Perciò, ridurre la complessità e semplificare il sistema istituzionale, per noi, significa una chiarezza di attribuzioni, pur naturalmente nella considerazione del concerto attraverso il quale realizzare questo meccanismo. Ciò emerge con grande forza rispetto ad un tema che voglio introdurre, quello relativo alla determinazione
delle competenze che debbono essere attribuite ad un livello, piuttosto che ad un altro. Questo è il concetto dell'economia di scala. Rispetto ad argomenti come la sicurezza sul lavoro o come le norme ambientali o la promozione del commercio estero, la valutazione non deve essere - secondo il mio modo di vedere - quella dell'immagine, che è pure importante, bensì quella dell'efficacia. Che valore ha, in termini di costi e benefici, una missione all'estero di un livello piuttosto che di un altro, e su una materia piuttosto che su un'altra? Credo che il ragionamento che dovrebbe animare il legislatore nella definizione del livello cui attribuire una competenza debba tener conto di questo elemento. Infatti, vediamo che, quando si va all'estero, per esempio per talune materie, con il Governo, è una cosa; diversamente, la situazione diventa più difficile.
Circa l'esempio che è stato fatto precedentemente e sul quale ci è stata chiesta un'opinione, cioè se si possa accedere, laddove si manifestino indispensabili esigenze unitarie, ad un interesse rispetto alla legislazione tedesca, credo si possa dare una risposta positiva, in termini generali e di principio.
Colgo l'occasione per introdurre anche l'elemento dei procedimenti amministrativi, che pure avevano una qualche rilevanza in previsioni costituzionali passate. In Italia, lo ricordo soltanto a titolo informativo, solo per attivare un'azienda sono necessari circa 80 adempimenti e 20 amministrazioni od enti con cui avere un rapporto. Ripeto, 20 enti o amministrazioni con cui avere un rapporto, a diverso titolo, per varia natura, per obblighi previsti dalla legislazione!
Perciò, c'è una enorme quantità di adempimenti, i quali derivano da una enorme quantità di norme che, nel caso della piccola e media impresa dell'artigianato, si moltiplicano sul territorio e, soprattutto, si differenziano tra loro. Non è infrequente il caso di imprese che operano sul confine di una regione e che hanno necessità di produrre adempimenti diversi e modulistiche diverse e anche di rispondere, per così dire, a parametri diversi. Mi riferisco non ad ambiti secondari ma, ad esempio, al rispetto delle norme in materia ambientale. Penso che si debba ragionare anche su questo terreno, nel senso che anche il tema dei procedimenti amministrativi, che rappresentano, oggi, un elemento di grave difficoltà per la piccola e media impresa, ritengo debba essere affrontato.
Da ultimo, vi è la questione della sussidiarietà. La mia organizzazione concorda perfettamente con le previsioni che individuano nella sussidiarietà istituzionale uno dei passaggi importanti per mettere ordine nella legislazione e favorire, come nel nostro caso, l'attività delle imprese. Aggiungo, però, che a me piacerebbe anche una sussidiarietà che si estendesse ai singoli cittadini e ai cittadini associati, come era stato scritto. La mia idea, infatti, è quella di uno Stato più snello, in cui alcuni compiti, anche in campo amministrativo, siano affidati a strutture gestite, per così dire, da cittadini, singoli o associati, o comunque - per non nascondersi - dai privati. Ritengo che questo possa configurare un miglioramento della situazione e che si possa definire, in tal modo, una funzione dello Stato che sia di indirizzo e di controllo.
Su quest'ultimo elemento penso si possa riflettere, anche sulla base di esperienze. Siamo un paese che, spesso, nasconde i propri primati, ma bisogna ricordare che l'Italia detiene il primato, in campo fiscale, nella trasmissione di atti di carattere fiscale, atti anche delicati, in formato elettronico e per via informatica. Tutto questo è stato possibile perché si è attivato un meccanismo che ha introdotto elementi di privatizzazione. «Privatizzazione» non è una parola magica; ma, in questo caso, ha funzionato.
GIUSEPPE SVERZELLATI, Direttore della Confservizi. Anch'io ringrazio, come molti altri, per l'opportunità che ci è stata offerta di partecipare a questo incontro. Riteniamo che un confronto di questa natura abbia in sé notevoli potenzialità, particolarmente per il raccordo più stringente
che può crearsi con quanto accade nel sistema paese. In questa discussione sugli assetti istituzionali, infatti, si può tenere meglio in conto tutto quanto esiste, e in tal modo si attribuisce anche a noi, rappresentanti del sistema delle imprese, nuove responsabilità delle quali dobbiamo assolutamente farci carico.
Sono convinto del fatto che la riforma attuata nel 2001 e la riscrittura del Titolo V della Costituzione abbiano sollevato numerosi problemi interpretativi ed operativi che hanno interessato, in diverse occasioni, l'attività delle imprese operanti nel sistema dei servizi pubblici locali. Si è registrato un numero molto elevato di contenziosi sollevati dinanzi alla Corte costituzionale tra il 2002 ed il 2004 e ciò ha messo in evidenza come la disciplina costituzionale in materia sia caratterizzata da una elevata complessità, non rispondente alle esigenze di funzionalità proprie del sistema. Sono numerosi gli ambiti di incertezza e di sovrapposizione delle competenze legislative e regolamentari all'interno dell'attuale assetto costituzionale. Rinvio alla relazione, del gennaio 2005, del presidente Onida, per poter cogliere questi elementi.
Appare evidente, perciò, la necessità di un intervento di semplificazione del sistema, che potrebbe essere ottenuto attraverso una riformulazione più dettagliata delle competenze riservate allo Stato e, conseguentemente, di quelle concorrenti. Siamo d'accordo anche noi sul fatto che non è opportuno riaprire il «cantiere» di una nuova e complessa riforma e che è necessario dare attuazione a quella in vigore, onde procedere a quegli aggiustamenti che consentano di avere, nel minore tempo possibile, il massimo di certezza sul piano delle istituzioni. Questo serve, complessivamente, al sistema paese. Noi tutti chiediamo una semplificazione amministrativa, ma è necessario anche qualcos'altro.
Mi permetto una brevissima digressione. Ad avviso di Confservizi, anche il sistema di rappresentanza, in particolare quello delle parti sociali, può impegnarsi in processi di semplificazione e di ricomposizione utili per le stesse organizzazioni e utili per il Paese. Chiaramente, questo deve avvenire senza intaccare minimamente il principio della libera associazione dei cittadini. Contemporaneamente, è necessario, a nostro avviso, che da parte delle istituzioni siano definite procedure certe di consultazione, analogamente a quanto accade a livello delle istituzioni europee, in grado di identificare e valorizzare la concertazione. La sede in cui ci troviamo, a nostro avviso, è idonea per valutare questa provocazione, perché la ritengo effettivamente tale.
Per tornare al tema della ripartizione delle competenze, dai contenziosi costituzionali è emersa la trasversalità di alcuni ambiti, riservati alla legislazione esclusiva statale, in grado di interessare le competenze che sono affidate alla potestà legislativa regionale. La categoria delle materie trasversali genera numerose incertezze interpretative, che si sommano alle ulteriori difficoltà di definizione dei rispettivi ambiti di intervento nelle materie di legislazione concorrente. Queste difficoltà sfociano in altrettanti ricorsi costituzionali. Si ritiene opportuno, pertanto, che tali questioni siano affrontate in una competente sede politico-istituzionale che, in via preventiva, sia in grado di esercitare un'azione di filtro e di indirizzo rispetto all'attività legislativa e giurisprudenziale. Si ritiene che una possibile soluzione delle attuali incertezze che caratterizzano il riparto di competenze fra Stato e regioni possa discendere da una risistemazione degli elenchi delle materie e da un chiarimento della portata delle espressioni utilizzate per la definizione delle materie di competenza concorrente. L'abolizione dell'istituto delle competenze concorrenti, infatti, non risponderebbe all'esigenza di chiarezza, semplicità e organicità sollevata dalla concreta applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione.
L'applicazione dei principi che regolano la competenza concorrente nel sistema tedesco e, in particolare, della cosiddetta clausola di necessità al sistema italiano potrebbe condurre, a fronte delle rilevanti differenze tra i due ordinamenti,
rinvenibili nel sistema delle garanzie assegnate alla legislazione nazionale tedesca, ad attribuire al legislatore statale italiano poteri di intervento più ampi ed incisivi di quelli propri dei legislatori federali tedeschi. Non mi pare che la discussione in atto nel nostro Paese renda possibile questo.
Un'ultima considerazione risponde anche ad un preciso quesito del presidente Violante. Appare evidente, infatti, che la giurisprudenza sia intervenuta in senso orizzontale sulla modulazione del sistema delle competenze. Sebbene gli indirizzi elaborati dalla Corte costituzionale rappresentino un autorevole punto di riferimento e di supporto per le scelte legislative in itinere, si devono sottolineare alcuni profili di debolezza che una simile impostazione potrebbe manifestare. Infatti, il puntuale esercizio della potestà legislativa dello Stato su alcune materie, quali quelle afferenti al sistema energetico nazionale o al recupero di energia e calore dai rifiuti, nonché al periodico adeguamento dei corrispettivi tariffari relativi ai servizi di evidente contenuto industriale, è di fondamentale importanza.
L'ultima questione che intendo affrontare concerne la sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà orizzontale, a nostro avviso, sottende una flessibilità endogena nella organizzazione delle attività di interesse generale. Sorprende, tuttavia, che lo stesso principio venga invocato (come è accaduto oggi) quale misura dirigistica per restringere il set di modalità organizzative utilizzabili per fornire servizi alla collettività.
Il sistema delle imprese che gestiscono i servizi pubblici locali è formato da soggetti oggi molto diversi tra di loro, nonché differenti rispetto a dieci anni fa, poiché sono cambiati radicalmente. Vorrei osservare che, molto spesso, ci confrontiamo sulle forme organizzative: esse sono sì importanti, tuttavia sono ancora più rilevanti gli effetti in termini di benessere collettivo, di crescita complessiva della qualità della vita e di esercizio della libertà positiva dei cittadini. Tali effetti vanno però misurati: da qui, la necessità di sviluppare puntuali attività di regolazione.
Signor presidente, ho evidenziato solamente alcuni aspetti. Informo che abbiamo predisposto un documento, il quale, purtroppo, è stato consegnato solo questa mattina; anche se non è ancora disponibile per tutti, tuttavia lo sarà prossimamente.
CARMINE MASONI, Rappresentante dell'ufficio legislativo della CIA. Signor presidente, la Confederazione italiana agricoltori si riserva di svolgere degli interventi nelle quattro sedute programmate nell'ambito dell'indagine conoscitiva in corso. Preannuncio che, alla fine delle audizioni previste, presenteremo un documento completo su tutti i temi affrontati, in modo tale che possa risultare più ricco rispetto al dibattito che verrà sviluppato in questi quattro giorni di lavoro.
Mi sembra che, da questa mattina, stiamo svolgendo una riflessione di carattere generale per valutare se e cosa vada modificato all'interno del Titolo V della II Parte della Costituzione. Anche se, ovviamente, non spetterà alle parti sociali o alle organizzazioni di categoria stabilire, dopo che verrà compiuta tale riflessione, come e in quali materie intervenire, mi sembra tuttavia, a sentire gli interventi pronunciati questa mattina, in particolare quelli delle associazioni che rappresentano il mondo delle imprese, che si avverta l'esigenza di modificare qualcosa. Ribadisco, comunque, che le modalità attraverso cui si giungerà a modificare determinate materie o funzioni non compete certamente a noi.
Rispondendo velocemente alle domande che ci sono state poste, vorrei innanzitutto dire, con la massima franchezza, che non riteniamo che l'attuale riparto di competenze tenga conto sia della complessità dei processi normativi, sia delle esigenze di funzionalità del sistema. Non reputiamo neanche utile o necessario operare un parallelismo tra i processi di ingegneria costituzionale e le esigenze delle istituzioni di offrire risposte a processi di riaggregazione macroeconomica. Una commistione tra questi due
argomenti, a mio avviso, sarebbe deleteria e determinerebbe la necessità di apportare continui aggiustamenti delle norme principe della Costituzione.
Ricordo che l'attuale riparto delle competenze legislative è basato su analitiche elencazioni di materie. A nostro giudizio, bisogna avere il coraggio di cambiare: perché, anziché mantenere una ripartizione per materie, non si pensa di procedere ad una ripartizione di funzioni all'interno delle singole materie? Ciò, infatti, potrebbe risolvere numerosi problemi, considerando soprattutto che, per quanto riguarda il settore agricolo, vi è una serie di intersecazioni della nostra attività con altre materie, o comunque con altri aspetti che sono regolati in maniera diversa all'interno della ripartizione delle competenze.
Vorrei osservare che il modello multifunzionale dell'agricoltura europea, che anche il comparto italiano sta sposando, coniuga l'agricoltura stessa con l'ambiente, con il territorio e con la salubrità degli alimenti. Pertanto, una ripartizione delle competenze tra i diversi livelli istituzionali non per materie, ma per funzioni all'interno delle singole materie, potrebbe parzialmente risolvere il problema.
Per quanto concerne l'esperienza tedesca, vorrei rappresentare che siamo favorevoli a tale modello, anche se occorre tuttavia considerare (come hanno già fatto alcuni oratori che mi hanno preceduto) che il Governo federale tedesco ha un'esperienza completamente diversa dalla nostra. Bisogna che, nell'ambito di una soluzione simile a quella adottata nella Repubblica federale di Germania, si trovino altre forme di «compensazione» politica, anche se ritengo che attuare la condivisione e la concertazione non sempre significa pervenire alla soluzione migliore. A volte, infatti, determinate decisioni vanno comunque assunte.
In ultimo, con riferimento alla questione della sussidiarietà, riteniamo che anche il processo di ripartizione delle competenze amministrative debba procedere di pari passo con la suddivisione delle competenze in materia legislativa. Infatti, negli ultimi tempi, abbiamo assistito, anche per quanto riguarda l'agricoltura, l'ambiente o altre materie di nostro interesse, ad una serie di «strappi». Vorrei altresì rilevare che lo stesso decreto legislativo n. 112 del 1998 è stato più volte emendato, ed alcune modifiche sono addirittura proposte dal disegno di legge finanziaria per il prossimo anno.
Pensiamo, dunque, che la ripartizione delle competenze legislative e quella delle competenze amministrative debbano procedere di pari passo, al fine di creare un clima in cui le istituzioni riescano ad individuare le soluzioni più adatte per l'esercizio delle loro funzioni.
In conclusione, riteniamo vi sia bisogno di svolgere una considerevole riflessione. Nel corso delle audizioni che avranno luogo i prossimi giorni, si affronteranno altri aspetti, in particolare quello relativo alle sedi di concertazione interistituzionale. Crediamo, comunque, che un elemento di riflessione, quale quello che ci è stato proposto, non possa essere poi lasciato a considerazioni di carattere squisitamente politico che lascino tuttavia il mondo della produzione in una situazione come quella attuale, che non è certamente ottimale.
NAZARENO MOLLICONE, Segretario confederale della UGL. Signor presidente, vorrei innanzitutto ricordare che anche la nostra organizzazione aveva deciso di votare «no» al referendum sulla riforma costituzionale che si è celebrato nel 2006. Lo abbiamo fatto non in base ad una motivazione politica (come invece è avvenuto, per le stesse ragioni, in occasione dello svolgimento dell'altro referendum), ma perché riteniamo che materie così complesse, come una riforma costituzionale che prevede una serie di modifiche che possono risultare tra loro contrastanti, non possano essere affrontate a colpi di referendum. Alla fine, infatti, ciò comporta soltanto una divisione politica, poiché si può essere d'accordo con un determinato articolo della riforma senza tuttavia condividerne un altro.
Riteniamo opportuno, quindi, l'avvio di questo ciclo di audizioni con le parti sociali e con i rappresentanti delle autonomie locali, perché offre la possibilità, per lo meno in via preventiva, di lasciare esporre le opinioni dei rappresentanti dei cittadini ai diversi livelli su argomenti tanto importanti. Tali questioni, infatti, vanno a mio avviso sottratte alle maggioranze che di volta in volta possono determinarsi in Parlamento: pertanto, accogliamo di buon grado questa iniziativa ed auspichiamo che prosegua in futuro.
Per quanto riguarda la Costituzione vigente, riteniamo che il principale motivo di contestazione, ormai lamentato sotto tutti i punti di vista, sia quello relativo alla ripartizione delle competenze tra lo Stato e le regioni. Infatti, è stata stabilita una ripartizione farraginosa, dal momento che le diverse competenze si accavallano e si intersecano. Ciò comporta che, alla fine, a stabilire l'attribuzione delle competenze, oppure a lasciare «la porta aperta» a qualsiasi tipo di ripartizione dei poteri, non è più il legislatore costituzionale - vale a dire, il Parlamento e, eventualmente, i cittadini che intervengono attraverso la consultazione referendaria -, ma sono i giudici della Corte costituzionale, le cui pronunce possono essere di volta in volta mutevoli. Si avrebbe, quindi, una Costituzione non più rigida (come lo è quella italiana), ma «aperta». Pertanto, vorremmo che vi fosse, quando mi auguro si procederà a riformare tale ambito, una puntualizzazione molto precisa degli articoli (soprattutto l'articolo 117) che riguardano la competenza dello Stato e delle regioni.
Per quanto riguarda la parte che ci interessa, quella del lavoro, del sindacato, riteniamo che non possa essere attribuita alla regione la tutela e la sicurezza sul lavoro in senso generale, perché la funzione primaria dello Stato è assicurare condizioni e regole generali per la tutela del lavoro e della sicurezza. La regione potrà organizzare come controllare, aiutare, intervenire ed apportare miglioramenti, ma la base di intervento è rappresentata dalla legge statale.
La stessa incongruità riguarda la previdenza complementare. Tra l'altro, sulla previdenza complementare è intervenuta una legislazione compiuta, che deve essere attuata. Tuttavia, non solo è ora mai superata, ma non si capisce come la regione potesse portare avanti tale discorso, anche perché, al massimo, la regione si potrà occupare dei fondi pensione territoriali, ma non può sovrapporsi alla libertà negoziale delle parti o del lavoratore, che può destinare dove vuole la pensione.
In sintesi (vi invieremo un documento più dettagliato al riguardo), vorremmo che la legislazione esclusiva dello Stato e delle regioni venisse precisata dettagliatamente, eliminando quell'area grigia di confusione rappresentata dalla legislazione concorrente, perché è quella che comporta i maggiori problemi dal punto di vista operativo: nessuno, infatti, legifera, perché si attende che sia l'altro a farlo.
Come rilevato nel corso della discussione, oltre alla tutela e alla sicurezza del lavoro, è assurdo che, per la tutela della salute, dell'alimentazione e della protezione civile, sia attribuita alle regioni la legislazione concorrente. Come si può legiferare in via concorrente nell'ambito della protezione civile con emergenze che investono più regioni, lo Stato e via seguitando? Vi sono delle incongruenze che vanno sicuramente modificate. Come pure va modificata la parte dell'articolo 117 della Costituzione che risulta del seguente tenore: «Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Si tratta di una disposizione generica che lascia una porta aperta, perché, come qualcuno ha ricordato nel corso degli interventi, per il futuro (fra cinquanta o sessant'anni) potrebbero esservi delle materie impreviste. Se le cose rimanessero come risultano scritte, le regioni potrebbero deliberare a proprio piacimento e lo Stato potrebbe apparire inerte di fronte alle nuove emergenze, anche perché non vi è la clausola, ricordata precedentemente, dell'interesse nazionale o degli interessi generali (il termine
«nazionale» può dare fastidio), che dovrebbe far superare queste emergenze.
Per quanto riguarda in particolare il mondo del lavoro, siamo piuttosto perplessi in ordine al concetto della sussidiarietà, perché non vorremmo che, sotto questo termine, si nascondesse la rinuncia da parte dello Stato, e magari anche da parte delle regioni, ad esercitare alcune funzioni proprie nel campo sociale, delegandole alla spontaneità, alla libera volontà di qualche organizzazione, mentre, invece, compito primario dello Stato, anche in base alla prima parte della Costituzione, è quello di assicurare i diritti del lavoro e della sicurezza sociale a tutti i cittadini, a prescindere dalla legislazione che ne segue.
Non vorremmo che, dietro la dizione della sussidiarietà, che viene spesso ripetuta, si nascondesse una tendenza verso l'individualismo, le cosiddette leggi del mercato che si sovrappongono, cancellando il principio della tutela dello Stato sociale.
A conclusione del mio intervento (riservandomi di inviare un documento completo al riguardo), credo che indubbiamente vada riformato questo aspetto della Costituzione, come deve essere riformata, anche culturalmente, la concezione, che oramai viene ripetuta insistentemente, di federalismo.
L'Italia non è una Repubblica federale. Non è nata dalla fusione di più Stati autonomi; è nata per annessione, per debellatio, ma comunque vi è stato sempre uno spirito unitario. Non vorremmo che, sotto questa dizione, si nascondessero tentativi larvati di autonomia. Tra l'altro, di fronte alle sfide mondiali della globalizzazione, anche con riferimento alla nostra presenza nell'Unione europea, mal si comprende un federalismo spinto. Piuttosto, bisogna parlare di decentramento amministrativo, operando a livello locale e territoriale nei confronti dei cittadini, dei lavoratori, delle persone che hanno bisogno della pubblica amministrazione in modo efficiente e tempestivo, non meramente burocratico, per far funzionare meglio tutto il sistema paese.
Pertanto, riteniamo sia opportuno anche rettificare l'orientamento in ordine a tale impostazione. Ci auguriamo, quindi, che questa legislatura voglia avviare un cammino di approfondimento, tenendo conto di tutte le esigenze, delle impressioni, delle osservazioni che sono state espresse in questa sede per migliorare una Costituzione che deve essere calata nella realtà e nella vita quotidiana di tutti i giorni.
SARA AGOSTINI, Segretario generale dell'UNCI. L'UNCI è da sempre attenta a tutte le riforme legislative, in particolare a quelle che hanno connessione con i diritti della società civile. Dal momento che abbiamo proposto un documento per meglio presentare la nostre osservazioni, mi limiterò ad alcune sintetiche considerazioni.
Sull'argomento oggetto del presente incontro, si ritiene innanzitutto che l'attuale disciplina costituzionale del riparto delle competenze non sia funzionale alle esigenze del sistema. È per questo che la soluzione che ci permettiamo di proporre è quella di procedere ad una migliore definizione degli ambiti di competenza dello Stato e degli enti locali interessati, ma anche di prevedere delle procedure derogatorie e successivi interventi sostitutivi, in caso di mancata ottemperanza da parte delle regioni, delle province e dei comuni rispetto alle prerogative loro affidate. Ma, per rendere più semplice il sistema, per rendere più chiari e definiti gli ambiti di competenza dell'amministrazione centrale e di quelle locali, sarebbe opportuno creare dei testi unici condivisi ed approvati da ambo le parti. Questa necessità è tale perché, in caso di finalità che sottendano molteplici interventi da svilupparsi a livello territoriale, è necessario operare attraverso l'innovazione trasversale ed onnicomprensiva.
Sulla clausola, invece, di chiusura, di ispirazione tedesca, ci dimostriamo favorevoli e, rispondendo al quesito che ci avevate posto, la valutiamo positivamente. Ciò che per noi è importante è che le procedure di cooperazione e di concertazione suggerite, di cui si è parlato molto
oggi, tra lo Stato e le regioni, non sono solo da considerarsi in modo positivo, ma dovrebbero essere codificate in un testo unico, in modo che tutte le parti coinvolte le condividano e sappiano ciò che devono realizzare.
ISABELLA MARIA STOPPANI, Vicepresidente dell'ALP. Non abbiamo predisposto un documento sull'argomento oggetto dell'incontro odierno non solo per un problema di tempo, ma anche perché, probabilmente, riteniamo che la problematica sia molto vasta e difficilmente affrontabile con risposte secche. Proprio per questo, farò riferimento solo ad alcuni profili.
Noi ci occupiamo di professioni intellettuali; si tratta, quindi, di un settore molto specifico. Al riguardo, possiamo anticipare quello che abbiamo sempre affermato, vale a dire che è una materia che va riservata alla competenza statale, soprattutto perché gli interessi tutelati sono interessi pubblici generali.
Questo criterio credo possa essere posto comunque a base anche della ripartizione fra le competenze, nel senso che, probabilmente, si tratta di decidere quali sono i criteri sulla base dei quali procedere ad una ripartizione di competenze fra Stato e regioni. Se si tratta di diritti fondamentali garantiti costituzionalmente e di interessi pubblici generali, essi possono avere, da questo punto di vista, una valenza nazionale e, quindi, essere attribuiti alla competenza statale. Per quanto riguarda l'organizzazione ed altri tipi di tutele, sicuramente può aversi una competenza regionale, e così via.
Da avvocato che si occupa di contenziosi e che dunque si preoccupa di prevedere i conflitti, ritengo che né il criterio di sussidiarietà né quello di concorrenza possano evitare un conflitto a livello di Corte costituzionale. Anzi, probabilmente, è più facile che sia ridotto con un'indicazione precisa delle competenze e sulla base di criteri precisi di ripartizione. Ovviamente, sussistono problemi in ordine ai quali si registra una confluenza di competenze o altro che dovrebbero essere regolamentati secondo la specificità della materia.
Ciò che mi preme, in quanto avvocato amministrativista, è di far rilevare come sarebbe importante una semplificazione e un decentramento dell'attività amministrativa. Infatti, una semplificazione dei procedimenti amministrativi e un chiarimento delle competenze appaiono fondamentali per fornire certezze ai cittadini, nonché per garantire tempi e costi ridotti alle imprese.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai parlamentari che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.
WALTER VITALI. Come ha rilevato il collega Vizzini, credo che la seduta di oggi sia stata particolarmente rilevante al fine di ascoltare il punto di vista di chi vive nella società, per comprendere cosa il legislatore deve fare per far funzionare le istituzioni.
È evidente che il «no» costituzionale al referendum di giugno ha costituito uno spartiacque. Anche oggi, nessuno ha invocato grandi riforme costituzionali e molti - anche di coloro che hanno valutato la necessità di modifiche della Costituzione - si sono soffermati su punti molto particolari. Sicuramente, bisogna fare molto e non è detto che tutto quello che occorre realizzare consista nel mettere mano alla Costituzione; anzi, mi permetto di affermare che, nella giornata di oggi, il piatto della bilancia pende più sull'attuazione che sulla revisione. A dire la verità, ciò è stato maggiormente evidente negli interventi svoltisi nella mattinata, mentre gli interventi del pomeriggio si sono soffermati su alcune revisioni, anche se queste ultime si sono concentrate soprattutto sul punto relativo al riparto delle competenze, sul quale a mio avviso è opportuno agire in diverse direzioni, senza escludere qualche limitata revisione.
Mi vorrei ora soffermare sui tre punti oggetto di richieste di revisione. Per quanto concerne l'interesse nazionale, ricordo che la legge fondamentale tedesca, all'articolo 72, stabilisce che, nell'ambito
della legislazione concorrente, i Länder hanno competenza legislativa solo quando e nella misura in cui il Bund non faccia uso del suo diritto di legiferare. Tuttavia, tale clausola di supremazia è equilibrata dall'articolo 71, nel quale si prevede che, nell'ambito della legislazione esclusiva del Bund, i Länder hanno competenza legislativa fino a quando e nella misura in cui vi siano espressamente autorizzati da una legge federale. Quindi, vi è un bilanciamento: da un lato, la supremazia e quindi la possibilità di intervenire anche sulle materie di legislazione concorrente e, dall'altro, la possibilità di riservare una competenza legislativa regionale all'interno della competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Non credo che ciò ci possa aiutare per quanto riguarda il discorso dell'unitarietà dell'intervento pubblico. Faccio presente che la recente riforma non è intervenuta su questo punto, ma ha modificato il numero di leggi che devono essere approvate anche dal Bundesrat, perché è stato ritenuto eccessivo il numero delle leggi approvate in entrambe le Camere, individuando in ciò una forma di ostruzionismo nei confronti della maggioranza parlamentare.
PRESIDENTE. Si è parlato di potere di veto.
WALTER VITALI. Esattamente. La recente riforma è intervenuta anche sulle leggi quadro, ma non su questo.
Ritengo che, molto più semplicemente, si tratti di attuare quanto previsto dall'articolo 120, come ricordato anche dal collega Boato. Infatti, non è vero che nel nostro ordinamento non vi è il principio di interesse nazionale. Il potere sostitutivo dello Stato si può esercitare quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e, in particolare, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Il problema è che questi livelli essenziali delle prestazioni, che costituiscono uno dei cardini della riforma federalista del 2001 e del federalismo cooperativo del quale stiamo parlando, non sono stati stabiliti. Quindi, è inutile pretendere, attraverso ulteriori e a mio avviso dannose modifiche costituzionali, il giusto rispetto del principio di unitarietà senza fare leva su quanto la Costituzione prevede.
Con riferimento alle competenze concorrenti, si sostiene, a torto, che l'esistenza di un lungo elenco di materie di legislazione concorrente sarebbe alla base del contenzioso tra regioni e Stato dinanzi alla Corte costituzionale. È stato calcolato che il numero di leggi impugnate dinanzi alla Corte dalle regioni nei confronti dello Stato sia stato il seguente: 48 nel 2002; 66 nel 2003; 60 nel 2004 e 25 nel 2005. Negli anni, si registra pertanto una diminuzione di tale contenzioso, che era dovuto anche all'avvio di un processo senza che il legislatore nazionale avesse provveduto, attraverso norme transitorie, ad attuare i meccanismi necessari per mettere in moto il nuovo riparto delle competenze. Lo Stato, invece, ha impugnato le leggi regionali nel seguente modo: 61 nel 2002; 37 nel 2003; 56 nel 2004 e 84 nel 2005. Il sospetto è che lo Stato usi il ricorso alla Corte costituzionale esattamente come usava il potere di rinvio delle leggi alle regioni, che è stato superato con unanime consenso nel 2001.
Emerge dunque un evidente problema, che riguarda la regolazione dei rapporti e che può essere affrontato attraverso la costruzione di sedi efficaci di concertazione. La Corte costituzionale, rispetto a tale conflitto, evidenzia di aver dovuto esercitare una supplenza non gradita e non dovuta, invitando il legislatore - con la sentenza n. 50 del 2005 - a definire i principi fondamentali della legislazione concorrente, che costituiscono la lacuna storica del regionalismo italiano. Inoltre, con le sentenze n. 219 e n. 231 del 2005, la Corte invita a creare sedi di concertazione e, con la sentenza n. 370 del 2003, a realizzare il sistema di autonomia finanziaria e fiscale previsto dall'articolo 119 della Costituzione. Mi pare ve ne sia abbastanza per affermare che, nella materia del riparto delle competenze, la questione fondamentale sia quella dell'attuazione dei principi fondamentali previsti
dall'articolo 117. Poi, come ricordava il collega Pastore, vi è ormai una giurisprudenza consolidata della Corte con la quale si fa presente che non esiste più un confine così netto tra una competenza e l'altra, quindi molto deve essere affidato al meccanismo della concertazione.
Infine, non avrei alcun dubbio a votare le modifiche proposte in questa sede, quelle più largamente condivise - e penso anche ai testi presentati nel corso delle precedenti legislature - con riguardo all'energia, alle infrastrutture ed alla sicurezza del lavoro, come proposto dalla CGIL. Queste mi sembrano le competenze che potrebbero essere rimesse alla legislazione esclusiva dello Stato.
Per quanto riguarda l'attuazione, ho già espresso il mio pensiero in merito ai principi fondamentali, al federalismo fiscale ed a tutto ciò che riguarda le sedi di cooperazione. Su questo punto, però, mi permetto di dire al collega Vizzini una cosa molto chiara: lui ed io abbiamo vissuto l'esperienza della Commissione per le questioni regionali, lui come presidente, io come semplice componente, nella XIV legislatura. Il punto vero di tale Commissione è che il parere, se negativo, porta a rafforzare il quorum in aula. Dunque, è evidente che la Casa delle libertà, maggioranza nella XIV legislatura, abbia proposto il meccanismo del voto per componenti che, comunque, gli avrebbe sempre dato la possibilità di evitare il ricorso a tale meccanismo. In questa legislatura noi abbiamo lo stesso problema in modo ancor più rafforzato, visti i numeri al Senato. Quindi, delle due l'una: o si conviene sul fatto che, in attesa della riforma del sistema parlamentare, e quindi di un Senato delle regioni e delle autonomie locali, si adotta quella soluzione, oppure non se ne farà nulla. Infatti, senza l'appoggio del collega Vizzini e della Casa delle libertà sia chiaro che l'Unione, su questo punto, non è in grado da sola di fare nulla perché i regolamenti parlamentari è bene che siano approvati a larga maggioranza, soprattutto con il numero che abbiamo al Senato, in particolare senza i senatori a vita: sarebbe difficile fare una proposta che non vorremmo a semplice maggioranza.
È già stato detto del Testo unico degli enti locali e del federalismo amministrativo. Si tratta delle questioni che il collega Pastore ha trattato nelle ultime dieci righe della sua relazione, che io sottoscrivo pienamente. Su questo mi pare che anche dalla seduta odierna sia emersa una larga convergenza, come si dice oggi, bipartisan.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai rappresentanti che intendano replicare.
EDOARDO GARRONE, Presidente del Comitato tecnico per le riforme istituzionali e il federalismo della Confindustria. L'onorevole Russo ha colto il mio intervento sui servizi pubblici locali, in merito alla tendenza ad espandere l'attività pubblica anche in economia a livello locale, come uno slogan. In realtà, mi pare che il problema sia stato messo in evidenza da altri interventi. Non si tratta di fare un bilancio degli ultimi dieci anni sulle privatizzazioni, se siano andate bene o male. Non mi pare nemmeno il caso di tirare fuori esempi come quello relativo alla Telecom, che è un problema di natura totalmente diversa, piuttosto che quello di Autostrade. È vero che Autostrade Spa è un autorevole associato in Confindustria, ma lo è anche ENEL, lo è anche ENI. Il problema di Autostrade non riguarda il merito di un intervento di un esponente di Confindustria che esprime considerazioni su un associato. Confindustria deve curare gli interessi della collettività degli associati e se Autostrade è, come rilevano alcuni, un caso particolare di monopolio privato semmai vi sono le authority competenti: non spetta a me entrare nel merito di tali questioni, spetterà all'Antitrust. Per fortuna vi sono authority competenti nell'ordinamento istituzionale del nostro Paese.
Dunque, lungi da me fare qualsiasi polemica. Ricordo solo che quando parliamo, come Confindustria, di esigenza di riprendere un processo di privatizzazioni anche locali, parliamo sempre pure di liberalizzazioni. Le privatizzazioni senza
liberalizzazioni sono pericolose, siamo i primi a dirlo: lo abbiamo chiarito più volte e vorrei ribadirlo.
PRESIDENTE. In quel caso, con la semplice privatizzazione, cambia il titolare del monopolio.
EDOARDO GARRONE, Presidente del Comitato tecnico per le riforme istituzionali e il federalismo della Confindustria. Peraltro, personalmente sono convinto che allora è meglio avere un monopolio pubblico che privato.
PRESIDENTE. Forse questo tema metterà d'accordo anche l'onorevole Russo.
DAVIDE GARIGLIO, Presidente del Consiglio regionale del Piemonte. Signor presidente Violante, riallacciandomi all'ultima affermazione del dottor Garrone, dico che anche un mio illustre concittadino, Luigi Einaudi, sosteneva che, se il monopolio ha da essere, è meglio pubblico che in mano privata.
Stravolgendo l'intervento che pensavo di fare, vorrei proprio dire che il problema che abbiamo nei servizi pubblici locali, che veniva sollevato dalla Confindustria, deriva anche da un fatto: il trasporto pubblico locale, i rifiuti e la gestione ambientale sono campi riservati alla competenza legislativa delle regioni, ma su cui lo Stato interviene arrogandosi, giustamente, la competenza legislativa a dettare norme in materia di tutela della concorrenza. Tale duplicità di interventi, tale sovrapposizione ed anche un eccesso di produzione dello Stato ha creato una difficoltà di regolamentazione del settore. Nel trasporto pubblico locale, che ho frequentato per ragioni professionali per una decina d'anni, in quel periodo abbiamo avuto otto interventi normativi da parte del legislatore statale che le singole regioni hanno attuato oppure no. La sovrabbondanza di produzione legislativa e le contraddizioni tra legislazione di settore e legislazione di sistema, come ben sanno gli amici di Confservizi, in particolare il dottor Sverzellati intervenuto prima, creano problemi enormi. Quindi, anche i meccanismi di normazione creano problemi su un settore economico producendo alcuni danni.
Tornando all'intervento originario, il senatore Vizzini chiedeva se i consigli regionali siano consapevoli del nuovo ruolo attribuito loro dalla Costituzione. Penso di rispondere, a nome dei consigli regionali, che sì, sono consapevoli. È chiaro che risentono di un cambio di forma di governo avvenuto con le riforme costituzionali che hanno stravolto un meccanismo di elezione, in particolare dei presidenti delle giunte regionali. Si sa che quando si stravolge il sistema di investitura diretta a capo del governo questo ha una ricaduta anche sull'attività di tutto l'ente, in particolare sul rapporto giunte-consigli. Del resto, mi pare che lo stesso problema lo abbia attraversato il Parlamento nazionale nei confronti del Governo nazionale con il passaggio dal sistema parlamentare classico ad un sistema in cui il premier è sostanzialmente investito direttamente dal popolo. Comunque, stiamo tutti quanti lavorando per attuare gli statuti: tante regioni lo hanno fatto, alcune no. Vi è il problema dell'attuazione delle nuove disposizioni costituzionali con la creazione del consiglio delle autonomie locali. È una complicazione forse non complessivamente felice ma, come dice il Vangelo, gli alberi verranno giudicati dai loro frutti.
Per quanto riguarda le materie riservate alla competenza legislativa regionale, nel documento che abbiamo consegnato alla presidenza e distribuito questa mattina abbiamo già dato la disponibilità a ragionare su alcune delle materie citate: grandi reti di trasporto e navigazione, produzione e trasporto di energia, disciplina dei rapporti di lavoro. Non ci approcciamo al problema con rivendicazioni di tipo sindacale, con tutto il rispetto per i sindacati, sia chiaro. Siamo consapevoli della delicatezza di intervenire su un sistema costituzionale. Siamo convinti che la Costituzione non vada banalizzata e non vada continuamente stravolta: si deve procedere con aggiustamenti chirurgici. Siamo disponibili, nell'interesse della collettività,
anche a dare il nostro assenso affinché alcune materie possano rientrare nell'ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato. Facciamo presente, tuttavia, che su alcune questioni, come quelle relative alle grandi infrastrutture e alle grandi reti di trasporto - nella mia regione, il Piemonte, su tali questioni abbiamo avuto qualche problema nell'ultimo anno -, probabilmente se i livelli regionali avessero avuto storicamente maggiori competenze amministrative nella gestione dei rapporti con il territorio, alcuni problemi che la collettività nazionale ha avuto si sarebbero potuti affrontare per tempo e magari risolvere senza ricorre eccessivamente a strumenti di ordine pubblico.
Detto questo, noi chiediamo anche al legislatore statale - e lo facciamo con sommo rispetto in quest'aula parlamentare - di esercitare le proprie funzioni tenendo conto che la competenza legislativa dello Stato viene ridefinita dall'articolo 117 della Costituzione. Come assemblee regionali abbiamo avuto alcuni problemi - ed è un eufemismo - con la questione dei principi fondamentali in materia di coordinamento e di finanza pubblica. Essendo una materia di cui all'articolo 117, comma 3, lo Stato dovrebbe limitarsi a dettare principi. Tuttavia, alcune norme della legge finanziaria scorsa - e speriamo non anche di questa - hanno esorbitato dai principi, tant'è che su questo siamo andati in contenzioso costituzionale e la Corte Costituzionale ci ha dato sostanzialmente ragione.
Condivido le affermazioni fatte poc'anzi, circa il fatto che l'articolo 120 della Costituzione attuale, quindi già in vigore, garantisce l'unitarietà dell'ordinamento. Anche qui, con un'operazione maieutica ed interpretativa si possono risolvere tanti problemi, senza modificare ulteriormente la Costituzione. Riguardo ad un'osservazione del senatore Vizzini sull'articolo 116, comma 3, ossia sulla possibilità di alcune regioni di avviare trattative con lo Stato per avere un'autonomia differenziata, se non ci sono iter formali avviati, è presente un intendimento nell'assemblea regionale di Lombardia, Veneto e Piemonte (ma penso anche ci sia un movimento in gran parte dell'Italia, in particolare di quella del centro nord) allo scopo di ragionare su questi temi e perseguire il bene collettivo. Apriremo delle trattative e anche in questo caso la procedura è tutta da sperimentare e, per certi versi, da inventare; ci accingiamo a farlo in una logica di leale collaborazione.
Siamo qui anche noi consapevoli di quanto diceva la Confindustria e il dottor Garrone: le pubbliche amministrazioni sono un costo per la collettività e devono rappresentare un'opportunità di sviluppo ed un sostegno allo sviluppo economico. Dunque, vogliamo ragionare sapendo che le nostre azioni devono concorrere allo sviluppo dei nostri cittadini e delle nostre imprese. Su questo, vogliamo anche noi fare un salto culturale: la Conferenza nazionale dell'artigianato diceva che siamo ad una competizione tra sistemi ed è vero. Da questo punto di vista, le regioni, con loro potestà legislativa, possono fare molto.
Quanto a neocentralismi regionali che sono stati invocati, io penso di poter dire che siamo assolutamente contrari a sostituire un centralismo ormai passato dello Stato con un centralismo regionale. Non vogliamo sostituire ai ministeri gli assessorati regionali e penso che i consigli regionali possano essere il miglior alleato delle autonomie locali per evitare che ciò succeda. Del resto, è sempre facile criticare gli altri, ma quando poi le responsabilità gravano su se stessi, la tentazione di tenersi quattrini e competenze vi è di sicuro. Da questo punto di vista, accogliamo la sollecitazione che è stata fatta e vigileremo su noi stessi per non cadere in questo vizio.
Infine, sulla Commissione parlamentare per le questioni regionali, mi permetto di dire che vi è il problema di definire bene come tale Commissione interviene nel procedimento legislativo, sapendo che peraltro la prassi dei rapporti tra esecutivi ha sviluppato fortemente l'attività della Conferenza permanente Stato-regioni, della Conferenza unificata e della Conferenza Stato-città. Avere vari canali di dialogo,
anche a livello parlamentare e a livello di Governo, è una cosa importante: può essere coerente, ma può creare anche dei problemi nell'avere un indirizzo unitario ai vari tavoli. Traduco a livello regionale: varie regioni hanno istituito in questi anni la Conferenza permanente regioni-autonomie locali; la nuova Costituzione ci chiede di istituire il Consiglio delle autonomie locali. Alcune delle nostre regioni si sono orientate nel mantenere il primo strumento come organismo concertativo tra esecutivo regionale ed esecutivo degli enti locali, mentre il secondo strumento come organo di consultazione tra parlamento regionale ed enti locali. È chiaro che avere una pluralità di tavoli in cui gli enti locali, da un lato, e le regioni, dall'altro, si confrontano, crea anche dei problemi di coordinamento e di sovrapposizione. L'esperienza ci dovrà insegnare a gestire tutto questo in maniera unitaria.
Noi non abbiamo preclusioni acchè nella Commissione parlamentare per le questioni regionali partecipino i presidenti delle giunte regionali che, peraltro, sono consiglieri regionali a tutti gli effetti, in quanto eletti sulla base di un programma di Governo e quindi hanno ottenuto la fiducia dei cittadini. Il problema è che non abbiamo alcuna intenzione che i nostri parlamenti regionali vengano svuotati della loro prerogative.
Dunque, sentiamo la necessità di raccordarci con il Parlamento nazionale per esercitare bene le nostre funzioni e per far sì che ciò che dev'essere l'attività di indirizzo e di controllo del parlamento e di guida politica della collettività regionale venga esercitato dai parlamenti. Del resto, su questo siamo stati autorevolmente richiamati dal Presidente Napolitano in una recente visita che ci ha concesso e quindi, su questo, intendiamo esercitare fino in fondo le nostre funzioni. Probabilmente, ragionare su nuovi meccanismi di raccordo tra parlamenti potrà aiutarci anche a uscire dalle difficoltà derivanti dalla sovrapposizione tra legislazioni statali e legislazioni regionali.
LUIGI GILLI, Coordinatore vicario della commissione affari istituzionali generali nell'ambito della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Sarò breve, presidente, poiché l'intervento delle senatore Vitali ha già chiarito alcune cose che è inutile ripetere, anche per ragioni di tempo. Intanto, vorrei ringraziare per l'opportunità offerta ed esprimere un apprezzamento sull'impostazione.
Sugli articoli 117 e 119 della Costituzione e le loro applicazioni, mi sembra che sia materia della seduta di domani e credo che dobbiamo rimandare la risposta su questo tema specifico, tenendo presente che sono due articoli che, a nostro avviso, devono essere affrontati unitariamente rispetto ad una visione della loro applicazione.
C'è stato posto - e mi limito solo ai quesiti posti dagli onorevoli parlamentari - il tema del federalismo cooperativo e dell'attuazione del Titolo V attraverso la condivisione per gli accordi e le consultazioni. La materia è abbastanza complessa e dipende anche da come la si affronta. Certo è che se la si affronta con uno spirito di semplificazione e di determinazione nell'offrire una soluzione ai problemi, anche il rito di una condivisione, di una partecipazione e di una concertazione, può portare a dei risultati, come si è cercato di fare in questi giorni da parte delle regioni con il Governo per la legge finanziaria. Infatti, per quest'ultima abbiamo trovato soluzioni condivise in un senso di responsabilità comune, senza arrivare a dei contrasti. Noi ci sentiamo parte dello Stato e non controparte del Stato.
Un altro esempio, già citato in altri interventi, concerne materie quali l'energia e le infrastrutture che, sebbene di competenza concorrente, sono tali che la stessa Conferenza delle regioni e delle province autonome ritiene necessarie per esse decisioni generali assunte a livello centrale. Non è, infatti, possibile che singolarmente e senza concertazione ogni regione vari il proprio piano energetico;
perciò, già sussiste una disponibilità a riflettere sull'applicazione in concreto del Titolo V.
Mi sia consentito di suggerire delle indicazioni circa le sedi più opportune nelle quali affrontare tali questioni; si tratta delle conferenze, secondo sistema della concertazione. Anche se è in atto un percorso di revisione delle conferenze, e anche se lo strumento può essere perfettibile, in effetti esse consentono di trovare le soluzioni ai problemi. Pende, del resto, dinanzi al Parlamento l'esame di un provvedimento (mi sembra di iniziativa parlamentare) per la riorganizzazione e la ristrutturazione delle conferenze; si tratta di un'iniziativa lodevole. Sembra inoltre che una proposta del Governo vada anch'essa in tale direzione.
Questa mattina, invero, con l'intervento della presidente Lorenzetti, abbiamo manifestato talune perplessità non tanto perché non siamo d'accordo sul punto ma perché contemporaneamente è all'esame un'ipotesi di adozione di un nuovo codice sugli enti locali. Ci sembra doveroso, pertanto, operare una valutazione complessiva alla luce di tale circostanza perché certamente, se dovesse essere approvato questo testo, la gestione delle conferenze unificate necessiterebbe di essere ricalibrata rispetto all'attuale esperienza.
Siamo convinti che l'approdo finale della riforma debba essere la Camera delle autonomie, pur nella consapevolezza della difficoltà di trovare soluzioni di rappresentanza dei vari soggetti istituzionali. Certo è che la soluzione dell'integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali può intanto rappresentare un percorso idoneo per dare applicazione al Titolo V della Carta costituzionale.
La difficoltà, forse, anche per noi rappresentanti degli enti regionali, è dovuta alla diversità sussistente tra le diverse regioni e tra le loro competenze. A mio avviso, stamattina, si sono erroneamente citate talune regioni in ragione delle loro competenze; faccio osservare a chi è intervenuto sul punto che bisogna tenere presente che si tratta, in quei casi, di regioni a statuto speciale, e non a statuto ordinario. La complessità della situazione è singolare perché vi sono regioni che hanno sviluppato un sistema di cooperazione vero, di sussidiarietà autentica nel quadro di un sistema positivo di rapporti tra i diversi livelli istituzionali. Vi sono poi regioni che stanno costituendo e sviluppando tale sistema.
A mio avviso, questi anni dall'introduzione delle modifiche apportate alla Costituzione dal nuovo Titolo V ci hanno consentito di individuare luci ed ombre della riforma. Bisogna approfittare dell'opportunità - dobbiamo, infatti, pensare che sia un'opportunità - di dare applicazione al Titolo V nel migliore modo possibile per rendere lo Stato sempre più funzionale.
GAETANO SATERIALE, Sindaco di Ferrara. Ringrazio le Commissioni dell'invito rivoltomi. Intervengo molto rapidamente sulle questioni poste così puntualmente questa mattina.
Quanto all'integrazione delle materie di competenza esclusiva dello Stato, mi sembra di poter condividere le tesi emerse circa i due o tre settori più importanti, a partire dai diritti e dalla sicurezza del lavoro.
Quanto al quesito circa il tipo di legislazione da adottarsi per le materie di competenza non esclusiva, a me sembra ragionevole che spetti allo Stato centrale l'indicazione degli obiettivi da perseguire e delle relative procedure mentre aspetti più specifici potrebbero essere lasciati ai successivi momenti.
Quanto alla clausola di chiusura, condivido la motivazione esposta secondo la quale lo Stato dovrebbe intervenire, seppure in senso contrario al principio di sussidiarietà, laddove si determini nel Paese un eccesso di disaggregazione o di disomogeneità legislativa. Dove, per così dire, si verifica una situazione a mo' di vestito di Arlecchino, il legislatore centrale interviene a garantire almeno il mantenimento dei principi più importanti.
Sul tema dei servizi pubblici locali affrontato in mattinata e nel pomeriggio, a me parrebbe ormai più opportuno partire,
anziché dalla discussione sul Titolo V, dalla riflessione sul disegno di legge delega, ufficialmente presentato in Parlamento, sul riordino dei servizi pubblici locali. Noi l'abbiamo esaminato e personalmente, sotto tale riguardo, vorrei svolgere una considerazione non troppo storming e tuttavia alquanto diversa dalle posizione espressa dal rappresentante di Confindustria. Sono, infatti, convinto che liberalizzazione e privatizzazione siano elementi che debbano essere tenuti in equilibrio tra loro; probabilmente, si tratta di processi che devono essere portati avanti contemporaneamente. Però, in tal caso, si fa un salto logico che, come socio di aziende pubbliche, non posso accettare in quanto non voglio rinunciare alle mie aziende in nome della liberalizzazione. Sono per la liberalizzazione, estesa anche alle materie per le quali oggi non è prevista dal disegno di legge, ad esempio il servizio idrico. Considerato che non si discute della proprietà dell'acqua ma della gestione della distribuzione della potabilizzazione, ritengo si possa liberalizzare anche tale ambito; però, una volta che si decida la liberalizzazione - che si risolve nella concessione tramite gara - non vedo perché le aziende pubbliche debbano uscire dal mercato. Chiaramente, fino a quando rimarranno piccole, non saranno in grado di reggere la concorrenza; tuttavia, non comprendo perché non si potrebbero rafforzare le aziende pubbliche per farle restare sul mercato liberalizzato. Quindi, condivido che si proceda alla liberalizzazione ma senza una privatizzazione automatica di tutte le aziende pubbliche esistenti; ciò non avrebbe alcun senso. L'esperienza, se mai, dimostra il contrario: quando si aggregano tra loro, le aziende pubbliche trovano anche i capitali privati per poter essere competitive.
Una considerazione finale riguarda la previsione, recata dall'articolo 123 del nuovo Titolo V, del consiglio delle autonomie locali; ebbene, il testo costituzionale, alquanto sintetico, ha determinato per noi taluni dubbi interpretativi nel senso che stabilisce che tale nuovo organo svolga una funzione consultiva nei confronti della regione. Ora, però, l'ente regione è espresso sia dall'assemblea sia dall'esecutivo; chi ha provato a specificare la disciplina sul consiglio delle autonomie locali - l'assessore Gilli lo sa bene - si è trovato dinanzi alla difficoltà di tenere in equilibrio i rapporti con l'esecutivo e con l'assemblea legislativa. È quasi una scommessa persa in partenza, uno sforzo molto complesso da realizzare perché in questi anni è cresciuta una competizione non sempre motivata tra assemblea legislativa ed esecutivo regionale. Ritengo peraltro che all'interno del consiglio delle autonomie locali debbano avere voce entrambe tali istituzioni, sia pure con funzioni distinte. Questo è lo sforzo che stiamo cercando di compiere.
ENZO BIANCO, Presidente della 1a Commissione permanente del Senato. Vorrei intervenire brevemente a tale proposito. Ho visto che nella discussione di oggi ha fatto prorompente apparizione il tema dei servizi pubblici locali; evidentemente è un tema di grande interesse e rilevanza, anche se, ovviamente, con l'attuazione delle modifiche introdotte dal nuovo Titolo V ha relativamente poco a che fare. Si tratta infatti di un tema di esclusiva competenza del legislatore ordinario. Ebbene, volevo informare chi non ne fosse al corrente che il disegno di legge delega del Governo è già stato presentato al Senato della Repubblica; ne abbiamo già iniziato l'esame in Commissione affari costituzionali. Il presidente del Senato ha autorizzato la Commissione affari costituzionali a deliberare un'indagine conoscitiva specifica su questo tema dei servizi pubblici locali. Quindi, avvertirei coloro i quali tra i presenti fossero interessati ad essere auditi di farne richiesta tempestivamente anche perché intendiamo procedere abbastanza rapidamente. L'esame del disegno di legge è stato già incardinato ed abbiamo già ascoltato la relazione del collega Sinfisi.
ROBERTO ZACCARIA. Intervengo molto rapidamente anche perché, come è stato osservato anche da altri colleghi,
abbiamo già avuto modo di trattare questa materia in più di un'occasione.
Vorrei precisare che lo schema che stiamo seguendo è fatto di tre fasi: un dibattito già svoltosi nelle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato; questa fase conoscitiva che consiste in una serie di audizioni, fase complessa che si concluderà quando, poi, verranno auditi successivamente anche i docenti che rifletteranno su questi risultati; infine, la fase di carattere propositivo.
Giudico positivamente l'esperimento di questo tipo di audizioni; devo infatti riconoscere di essere incondizionatamente favorevole alla modalità seguita, perché rispetto alla ritualità delle audizioni individuali, nelle quali si ascolta un singolo soggetto, qui si coglie un elemento decisivo, il clima. Il clima non si coglie solo leggendo o ascoltando una singola persona, bensì dall'insieme degli interessati.
È chiaro che non tutti gli interventi possono essere sulla stessa linea, ma complessivamente mi pare che sia stata recepita la necessità di procedere con una sorta di strabismo. Da un lato, dobbiamo modificare quanto necessario, ma allo stesso tempo dobbiamo anche attuare, perché non possiamo permetterci nei confronti del sistema delle autonomie e degli operatori in generale di dar vita ad un altro quinquennio di sostanziale inattuazione del Titolo V. Ho sentito ritornare questi due concetti nel corso di diversi interventi.
Abbiamo inoltre la necessità di ricercare una condivisione, perché il limite di quella riforma era proprio tale mancanza. Nel momento di attuare una riforma costituzionale, questo difetto va in qualche modo recuperato. Per questo diventa indispensabile una verifica con tutte le forze politiche presenti in Parlamento dei punti che si ritiene utile e necessario modificare.
Quindi, vi è un doppio tipo di atteggiamento: modifica ed attuazione. A mio avviso nella riunione odierna tale impostazione è stata in qualche modo capovolta: come dire, attuazione e modifica. Non si tratta di un inversione soltanto lessicale, bensì concreta. In proposito mi ha colpito l'affermazione secondo cui bisogna dapprima attuare e, nel far questo, verificare quello che occorre modificare. Vi è allora una sorta di pregiudizialità logica nell'attuazione.
In una battuta vorrei poi trattare il problema della «messa in sicurezza» della Costituzione con la modifica dell'articolo 138. Ci siamo posti questo problema anche nel dibattito svolto in sede di Commissione. In proposito, l'onorevole Boato ha affermato che occorre calibrare con attenzione il rapporto tra l'elevazione del quorum e il ricorso al referendum. In ogni caso nel corso del dibattito non ho avvertito un accordo generale perché alcuni membri della Commissione hanno affermato di non sentire l'urgenza di modificare l'articolo 138. Semmai, tale modifica sarebbe potuta arrivare a coronamento di altre modifiche ritenute indispensabili. Comunque, il senso del referendum è quello che non modificheremo la Costituzione in termini unilaterali. Si tratta di un concetto assolutamente assimilato, ma non possiamo forzarlo in modo paradossale fino ad affermare che, se non vi è l'accordo generale, si mette in sicurezza la Costituzione, irrobustendo il quorum di cui all'articolo 138. Tale modifica non ci è consentita perché sarebbe davvero una sorta di inversione dei fattori. Condivido l'impostazione secondo cui la Costituzione non si modifica in modo unilaterale, in particolare per quanto riguarda articoli importanti; certamente l'eventuale modifica dell'articolo 118 può essere fatta solo qualora sia stato registrato un consenso molto ampio. Su questo punto sono d'accordo, ma tutti lo devono essere egualmente.
Entrando nel merito, ritorno sul concetto di attuazione e modifica. Il primo punto da segnalare a mio avviso è quello della cosiddetta «bicameralina». Molti ne hanno parlato e non devo aggiungere molto altro, perché è un classico caso di attuazione. Mi ha colpito l'osservazione del senatore Vizzini, ripresa da altri parlamentari, secondo cui si tratta di un organo parlamentare che rischia «un'iniezione di esecutivo», senza peraltro dimenticare
il rapporto con le altre conferenze. Mi rendo conto che sia un problema come quello dei diversi livelli di concertazione che si sommano a quelli con le regioni e gli enti locali. Comunque, dobbiamo affrontarlo ed introdurre la modifica prevista dall'articolo 11 della legge del 2001. Sulle modalità di introduzione occorre discutere, ma resta comunque un'esigenza perché l'obiettivo da raggiungere è la Camera delle autonomie, traguardo di cui condivido il raggiungimento. Purtroppo tale obiettivo sfonda il tetto del Titolo V, coinvolge la forma di Governo e tocca altri equilibri. Vi è disponibilità a discutere, ma visto che si era detto di procedere a tappe, se la Camera delle autonomie sfonda gli ambiti del Titolo V, si rischia come in passato di restare bloccati. Quindi, dapprima attuiamo l'articolo 11 con la «bicameralina», in modo da contemperare, trattandosi di organo parlamentare, presenze di Governo e presenze di rappresentanza. Mi pare che ciò appartenga al lessico e quindi condivido la preoccupazione del senatore Vizzini.
Nei dibattiti cui ho partecipato nel corso di questi mesi ho registrato una conversione molto brusca sull'articolo 116, terzo comma, da parte di alcune forze politiche che erano state sostenitrici della modifica costituzionale precedente e che perciò avevano tenuto una determinata posizione sul referendum. Improvvisamente, dopo lo svolgimento del referendum, vi è stato un adeguamento perfino eccessivo. Non è che questo mi dispiaccia, perché naturalmente in democrazia le dimostrazioni di realismo fanno comunque piacere. Tuttavia, non posso non nutrire preoccupazioni per alcune posizioni molto diffuse al nord e sintetizzate nell'intervento dall'onorevole Cota in merito all'attuazione dell'articolo 116, terzo comma. Vorrei ricordare che tale norma non prefigura l'autodeterminazione delle competenze normative delle regioni, ma è inserita in un provvedimento complesso. Non vorrei che si dicesse per amore di semplificazione che si autodeterminano le funzioni e di conseguenza si autodeterminano le ricadute economico-finanziarie, costruendosi il proprio federalismo fiscale a due velocità, a mio avviso molto pericoloso. Invece, dobbiamo essere consapevoli che l'intera impostazione del Titolo V, articolo 119 compreso, è informata al principio di solidarietà e del federalismo solidale. Non si può attuare il terzo comma dell'articolo 116 prendendo soltanto le parti che ci piacciono e dimenticando le altre. Peraltro, non sfugge a nessuno che l'articolo 119 configura un caso assai preciso, in cui con un plurale si dice meno del singolare: le compartecipazioni ai tributi erariali sono meno della compartecipazione ai tributi erariali, perché vuol dire che vanno fatte delle scelte, frutto di un complesso procedimento di intesa. Vi è quindi grande disponibilità, ma non vorrei che, dopo la forte eccitazione dovuta alle riforme proposte nel corso della scorsa legislatura, si passasse ad una sorta di blocco totale sul Titolo V, per concentrarsi soltanto sul terzo comma dell'articolo 116 e sulla velocità maggiore del federalismo fiscale che ci fa comodo. Se si attua il Titolo V, lo si deve attuare nella sua completezza.
In merito al federalismo torneremo domani, ma ricordo che esiste una delega già richiesta del Governo. Si tratta di un disegno importante, tra l'altro collegato alla legge finanziaria. Come sempre le difficoltà emergono nel momento in cui si affronta il problema perché sul federalismo fiscale a parole siamo tutti d'accordo, ma ho la sensazione che a livello centrale, tra i vari ministri, non vi sia grossa sintonia nel momento in cui bisogna scegliere cosa si sposta in concreto.
Sono particolarmente sensibile, da tempo, al discorso del trasferimento delle funzioni. Si tratta apparentemente di un problema secondario, però in Italia le varie questioni sul versante del rapporto Stato-regioni si sono originate in quei momenti ciclici in cui si è affrontato il tema del trasferimento delle funzioni amministrative. Anche la Corte costituzionale avrebbe fatto un minore sforzo, un minor lavoro di supplenza se si fosse trovata di
fronte ad un disegno di trasferimento delle funzioni un po' più incisivo, mentre noi siamo rimasti molto indietro.
Tra le cose da attuare, secondo me, c'è anche questo capitolo, una premessa apparentemente secondaria, ma decisiva, considerato il rapporto tra centro ed autonomie. Infatti, ciò fa capire in concreto le statuizioni comprese nell'articolo 117, poiché è inutile scrivere certe cose se poi a queste non seguono corrispondenti funzioni trasferite. Si tratta di tre elementi che mi trovano d'accordo ma che, secondo me, si inquadrano nel clima che voi ci avete consegnato: prima attuate e poi, in corso d'opera, modificate.
PRESIDENTE. Il senatore Vizzini mi aveva chiesto di poter replicare brevemente sulla base delle considerazioni svolte sulla materia di cui si occupano le Commissioni. Prego, senatore Vizzini.
CARLO VIZZINI. Signor presidente, interverrò molto brevemente.
PRESIDENTE. Si tratta di un tema che le sta a cuore.
CARLO VIZZINI. Vi è una questione relativa alle cose che si possono fare. Mi riferisco, ancora una volta, all'allargamento della Commissione bicamerale per le questioni regionali.
Affermo chiaramente che il mio intervento non intende mettersi di traverso rispetto ad un problema, anzi debbo dare atto ai colleghi del centrosinistra di aver tenuto, nella scorsa legislatura, un atteggiamento positivo e concorrente al raggiungimento di quell'obbiettivo, che non si è realizzato per motivi che non riguardano certamente il rapporto tra maggioranza ed opposizione. Vi è, però, una questione che non può non essere posta, visto che nel dibattito sulla forma di governo tutti abbiamo concordato - al di là delle sfumature e degli atteggiamenti - circa la natura parlamentare della nostra democrazia.
Tale questione, concernente la composizione della rappresentanza delle regioni, non è indifferente. Non mi si venga a dire che chi governa una regione è anche consigliere regionale, perché dovrei far rilevare che anche il Presidente del Consiglio è deputato. Inoltre, prego il rappresentante delle regioni che ha parlato di non confondere il contenuto dell'articolo 114: le regioni non sono lo Stato, né debbono concordare con esso. Le regioni, in base all'articolo 114, concorrono autonomamente a costituire la Repubblica, assieme ai comuni, alle province ed allo Stato. Si tratta di soggetti istituzionalmente collocati in una logica propria del federalismo, senza dipendenze gerarchiche e funzionali, con compiti diversi sul territorio sulla base delle loro responsabilità e con pari dignità dal punto di vista istituzionale. Quindi, le regioni non discutono con lo Stato perché fanno parte di esso, ma concorrono a costituire la Repubblica: Il concetto, che mi pare largamente condivisibile, espresso dal Titolo V - peraltro approvato senza il voto della mia parte politica - è questo.
Quindi, la questione dell'allargamento - che si può risolvere con un regolamento di cui, al di là delle giunte, si potrebbero occupare direttamente le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, sempre che vi sia l'intenzione di confrontarsi su questo - va esaminata fino in fondo. Tutto ciò per comprendere che, soprattutto in questa legislatura - in Senato, tanto per essere chiari, vi è una maggioranza che dipende anche dall'ora in cui si vota e da quante volte ciò avviene nello stesso periodo di tempo -, il giorno in cui vi sarà da respingere un parere rafforzato (è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti l'Assemblea), in Senato non si avranno mai i numeri per poter assolvere a questo compito.
Se a ciò si aggiunge la possibilità che prevalgano interessi appartenenti agli stessi soggetti che partecipano alla Conferenza Stato-regioni, francamente ho l'impressione che verrebbe fuori un bel «pastrocchio». Dico questo con grande franchezza, poiché intendo partecipare al dibattito volto all'allargamento della
Commissione bicamerale per le questioni regionali per fare una cosa che abbia un senso.
Nella scorsa legislatura, ho vissuto il dibattito tra i consigli regionali e la Conferenza dei presidenti delle regioni sulle modalità dell'allargamento della suddetta Commissione. Si è trattato di un dibattito che si è concluso con grandi mediazioni, il che comunque ha significato che i rappresentanti degli esecutivi, tramite l'accordo raggiunto, ne avrebbero fatto parte. Su questo chiedo una riflessione sincera e leale, senza nascondermi dietro a motivazioni non possibiliste. Credo si debba affrontare e risolvere la questione se si intende contare su di un organismo che assolva alla funzione cui il legislatore costituente ha pensato. Tra l'altro, non è facile dire ai componenti di un ramo del Parlamento che si debbono «suicidare» senza anestesia, come abbiamo tentato di fare nella scorsa legislatura: infatti, i senatori sapevano cosa votavano e quello rappresentò il massimo per persone che, sino ad oggi, hanno avuto gli stessi poteri speculari rispetto all'altro ramo del Parlamento. Essi, quindi, si votavano ad una scomparsa anche se ritardata nel tempo, come qualcuno potrebbe farmi osservare. In ogni caso, ognuno di noi, me compreso, quando fa politica non pensa mai al momento in cui dovrà smettere.
PRESIDENTE. Anche perché, in genere, non è lui che lo decide.
CARLO VIZZINI. Signor presidente, l'ultima volta che pensai di smettere mi consultai con il senatore Andreotti e, come vede, sono ancora qui!
Detto questo, tutte le altre questioni - compresa quella relativa all'articolo 116 - vanno collegate a quella concernente l'articolo 119. Non voglio introdurre un argomento che verrà discusso domani, quando ascolterò con religiosa attenzione ciò che si dirà. In ogni caso, per esperienza di vita e di professione (ho insegnato finanza pubblica), debbo dire in premessa - avendo ascoltato tutti i ministri senza portafoglio che fanno parte di questo Governo e che hanno già attuato il federalismo fiscale - che fino a quando non saprò dal ministro dell'economia e delle finanze in carica come pensa di affrontare la questione, il dibattito mi parrà simile ad una tavola rotonda, poiché nessuno di noi ha facoltà di aprire e chiudere i cordoni della borsa, senza i quali è inutile parlare di federalismo fiscale.
MARCO BOATO. Intervengo solamente per un'interlocuzione, essendo già intervenuto questa mattina. Poiché tutti i nostri ospiti hanno ringraziato noi - in particolare, lei ed il presidente Bianco - intendevo, a mia volta, ringraziare loro per il modo in cui si stanno svolgendo queste audizioni, e mi auguro che ciò caratterizzi anche le prossime tre sessioni.
Credo che i parlamentari debbano evitare di tramutare queste audizioni in quello che, indubbiamente, sarà il dibattito che si svolgerà nell'ambito delle due Commissioni affari costituzionali; in questo modo, infatti, rischiamo di snaturarne le finalità ed il ruolo.
Anche oggi sono state evidenziate due questioni, la prima delle quali riguarda l'articolo 116, terzo comma della Costituzione. Mentre ascoltavo, e mentalmente interloquivo, mi sono accorto che si tratta dell'ultimo punto all'ordine del giorno dell'audizione di domani. Quindi, forse, ci sarà occasione - sempre che, me lo auguro, si sia tutti presenti - di raccordare questo tema con la prossima discussione. In ogni caso, ha fatto molto bene il collega Zaccaria a ricordarne l'importanza. Io sono uno di quelli che ha contribuito ad introdurre questo comma in Costituzione; se ne parlò fin dalla Bicamerale presieduta dal ministro D'Alema, quando in questa stessa aula lo votammo in tre e tre anni dopo, invece, venne approvato a maggioranza. In ogni caso, la questione fece fatica ad entrare nel dibattito costituzionale. Al riguardo, il consigliere regionale del Piemonte - almeno così mi pareva - ha svolto un intervento molto intelligente.
Il principio, se fosse una sorta di self service - tra l'altro, la tematica è stata
ripresa anche da Zaccaria - grazie al quale ogni regione (che non faccia parte delle cinque a statuto speciale, le cui competenze vengono attribuite con legge costituzionale) si prendesse le competenze e si autoattribuisse le percentuali fiscali, sarebbe pura follia dal punto di vista del funzionamento di un sistema.
Domani avremo occasione di riparlarne: il testo del terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione, testo rivoluzionario dal punto di vista del funzionamento istituzionale del nostro Paese, risponde ad una spinta più o meno forte proveniente da alcune regioni. Ho già citato questa mattina il Veneto, ma potrei far riferimento anche alla Lombardia; meno forte è la spinta proveniente del Piemonte, mentre qualche iniziativa venuta dalla Toscana mi pare non sia stata ulteriormente coltivata.
Durante la pausa del pranzo ho riletto le cronache recenti del consiglio regionale del Veneto (lei, signor presidente, saprà che i giornali locali arrivano verso l'una): in tale sede si sta svolgendo un dibattito letteralmente allucinante, non su questo punto, di cui si continua a parlare pubblicamente senza fare assolutamente nulla, ma su una sorta di legge costituzionale, che sta paralizzando totalmente da settimane lo stesso consiglio regionale del Veneto. Ciò al fine di far rientrare il Veneto nell'ambito di applicazione del primo comma dell'articolo 116, con una situazione a dir poco allucinante, a leggere le cronache.
Tuttavia, il terzo comma dell'articolo 116 è molto complesso: presenta molti paletti, contiene l'indicazione delle possibili competenze e un riferimento al rispetto dei principi di cui all'articolo 119. In altri termini, non è un self service né dal punto di vista delle competenze nè dal punto di vista della ripartizione delle risorse. L'articolo 116, terzo comma, stabilisce, infatti, che la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata. Quindi, prima di tutto, occorre che vi sia l'intesa - e mi auguro che vi possa essere - e, poi, bisogna che le Camere l'approvino a maggioranza assoluta dei componenti. È un tema molto complesso, che potremo riprendere domani.
Vi è un'altra questione, che ormai è stata ripresa più volte, cui - se me lo permette, signor presidente - vorrei far riferimento (anche se è stata inserita dagli uffici di presidenza nell'ordine del giorno della terza sessione dell'indagine conoscitiva, che si svolgerà nella giornata di giovedì della prossima settimana). Essa riguarda due articoli conclusivi della legge costituzionale che ha introdotto la riforma del Titolo V, ossia l'articolo 10, sulla salvaguardia delle clausole di maggior favore per le cinque autonomie speciali, e l'articolo 11, riguardante la possibile integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Anche il nostro dibattito resterà agli atti ed essendo stato, insieme al collega Pastore, relatore nelle Giunte per il regolamento di Camera e Senato riunite congiuntamente, che hanno affrontato questo tema, vorrei ricordare che quel testo fu di difficile gestione. Mi rivolgo anche all'amico Vizzini, con cui parlai di tale questione più volte, anche informalmente. Tale testo non poteva essere elaborato dalle Commissioni affari costituzionali, bensì solo dalle Giunte per il regolamento, che propongono modifiche al regolamento, che poi vengono sottoposte all' Assemblea. Tale testo fu di difficile e laboriosa gestione, ma alla fine si trovò l'accordo. Bisogna dirlo esplicitamente, altrimenti ci prendiamo in giro: ad un certo punto, i due presidenti di Camera e Senato, con rispetto parlando (sollecitai entrambi molte volte), dissero di non voler più procedere nell'attuazione dell'articolo 11, perché la propria coalizione intendeva realizzare una riforma generale della seconda parte della Costituzione. Quindi, l'approdo dell'accordo regolamentare fu molto complesso: fu un lavoro molto lungo e devo dire che lavorammo bene. Il senatore Vizzini, anche se non era membro di quell'organo parlamentare, sa che all'epoca ci fu qualche resistenza a trovare l'accordo da parte del senatore Mancino. Ma anche quast'ultimo, alla fine, diede la
sua disponibilità. Trovammo l'accordo, ma esso fu bloccato per ragioni politiche. Si disse che, se si fosse proceduto all'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali attraverso l'attuazione dell'articolo 11, non si sarebbe più realizzata la riforma costituzionale. Il risultato è stato che la riforma costituzionale è stata approvata, ma è stata poi bocciata dall'esito referendario e l'articolo 11 non è stato attuato. In questa legislatura, se aspetteremo troppo tempo, si correrà lo stesso rischio. Infatti, passerà del tempo tra la definizione del testo, la sua approvazione in Assemblea alla Camera e al Senato e la sua attuazione.
Credo che, se riuscissimo, nel giro di un anno, a compiere questa operazione - che compete ai presidenti e alle Giunte per il regolamento di Camera e Senato, e poi alle Assemblee di Camera e Senato cui spetta l'approvazione - si risolverebbero molte delle questioni emerse oggi di raccordo e non di sovrapposizione - su questo il senatore Vizzini ha totalmente ragione - fra potere legislativo statale, incarnato dal Parlamento, potere legislativo regionale ed esecutivi regionali nelle diverse forme individuate in quella ipotesi regolamentare. Sarebbe una prima importantissima esperienza.
Il senatore Vizzini nella scorsa legislatura e, prima di lui, la senatrice Casellati, se non ricordo male, e ancora in precedenza una sequela di altri presidenti di quella Commissione di cui ho fatto parte anch'io, sanno che quella Commissione, che sarebbe potenzialmente importantissima, è svuotata di potere, se non si arriva a realizzare questo passaggio. I pareri di quella Commissione - non per chi la presiede o la compone, ma per il suo ruolo attuale - purtroppo hanno pochissima incidenza.
Signor presidente, vorrei svolgere un'ulteriore considerazione su un argomento che affronteremo domani o, forse, giovedì. Oggi sono emerse «di striscio» due questioni. La prima riguarda le autorità di garanzia. Chiedo ai nostri interlocutori - non perché rispondano oggi, ma perché insieme si possa riflettere nelle prossime sessioni - se non si debba considerare l'ipotesi di un riconoscimento costituzionale delle autorità cosiddette indipendenti: ciò darebbe loro maggiore forza e, forse, si riuscirebbe anche a rendere i rispettivi ordinamenti più omogenei.
La seconda questione è se non possa avere un senso il riconoscimento costituzionale, senza definizioni tecniche, ma solo di principio, delle conferenze per i rapporti Stato-regioni-autonomie locali, senza definirlo nel dettaglio. Allora, l'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 sancirebbe un raccordo fra i poteri legislativi e le conferenze rappresenterebbero un raccordo fra i poteri esecutivi. È un tema che pongo all'attenzione dei colleghi, senza pretendere che oggi si diano risposte al riguardo.
FRANCO RUSSO. Signor presidente, la ringrazio moltissimo per avermi dato la possibilità di intervenire. Questa mattina ho avanzato dei quesiti e ringrazio il rappresentante di Confindustria per le sue risposte. Comunque, sono molto interessato, soprattutto in vista dell'esame del provvedimento di delega sui servizi locali, ad una loro opinione complessiva sui processi di privatizzazione in Italia. Infatti, la loro voce è autorevole, nel senso che, gestendo le imprese, sanno effettivamente come stanno le cose.
Signor presidente, dopo questa giornata intensa e molto ricca, vorrei svolgere alcune riflessioni e consegnarle a queste Commissioni riunite di Camera e Senato e innanzitutto ai loro presidenti.
Concordo, ovviamente, sull'attuazione della Carta costituzionale, compreso il Titolo V. Trattandosi della Costituzione, ognuno di noi, in qualità di legislatore, è tenuto a dare attuazione a quanto essa ci prescrive. Vorrei, però, sollevare una questione di natura politico-istituzionale.
Signor presidente, nella passata legislatura il Titolo V è stato approvato a maggioranza, sebbene in seguito sia stato sottoposto a referendum ed approvato dai cittadini italiani. Comunque, ci troviamo di fronte ad un atto di maggioranza, che ha modificato la Carta costituzionale. Lo
dico perché, pur facendo parte oggi della maggioranza, si pone un problema di natura istituzionale. In altri termini, si dà attuazione a qualcosa su cui tutti siamo d'accordo nel non dover più ripetere: decidere a maggioranza le modifiche della Carta costituzionale. Certo, dobbiamo andare avanti nell'attuazione - questo è ciò che il Parlamento ha deciso -, però facendo i conti con alcuni problemi che mi ero permesso di sollevare con la prima domanda che ho rivolto. È chiuso il sistema previsto dal Titolo V? È una domanda che pongo a me stesso, ma anche ai rappresentanti delle associazioni e delle istituzioni qui rappresentate. Riteniamo, davvero, che l'attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 renderà possibile il federalismo cooperativo? Oppure - mi pare che l'onorevole Zaccaria lo accennasse, sia pure con le dovute cautele -, dobbiamo fare uno sforzo per cui, mentre mettiamo in sicurezza la Costituzione, ossia i principi fondamentali, l'assetto parlamentare e il Governo, contemporaneamente, dobbiamo sviluppare e dare attuazione al federalismo cooperativo, prevedendo - lo dico anche io con molta cautela e sommessamente - di ripensare ai rapporti tra autonomie locali, regioni, Camera e Senato e, dunque, rivedere, senza accontentarsi della «bicameralina», l'insieme delle relazioni tra le istituzioni?
Lo dico sommessamente, perché, mentre dico che bisogna mettere in sicurezza la Costituzione, sto prevedendo, contraddittoriamente, la necessità di rivedere la funzione della seconda Camera, che potrebbe essere la Camera dei deputati o il Senato, ma ciò ha poca importanza.
Per dirlo esplicitamente. penso che dovremmo rivedere, ritoccando la forma di Stato e anche il processo legislativo, il rapporto con le autonomie locali, prevedendo una seconda Camera di compensazione, di natura federale.
Solo così possiamo risolvere quello che - vengo così alla seconda questione - contraddittoriamente prevedono gli articoli 116 e 119. Ovviamente, non posso che apprendere da quel che dice l'onorevole Marco Boato, perché ha fatto un'esperienza in tutto il processo di revisione costituzionale. Egli ha spiegato lo stretto rapporto che c'è fra l'articolo 116 e l'articolo 119, ma è un paletto, oppure il terzo comma dell'articolo 116 costituisce una infelice scrittura del legislatore dell'epoca?
Penso che dobbiamo riflettere molto bene, perché, quando si aprono i vasi di Pandora, molto spesso gli effetti non vengono controllati. Oggi quel che avviene nelle regioni del nord-est e del nord-ovest testimonia che il vaso di Pandora è stato aperto.
Così come non dobbiamo far sì che la Corte costituzionale ci tolga le castagne dal fuoco, come ha fatto finora. Apprezzo il riferimento quantitativo che ha dato l'onorevole Vitali, ma oggi c'è una diversa relazione fra regioni e Governo centrale e, forse, c'è anche maggior saggezza da parte del Governo nel non impugnare tutte le leggi regionali e, viceversa, delle regioni nel non impugnare, a loro volta, le leggi dello Stato. Però, la Costituzione è un testo aperto, onorevole Vitali, non è un testo chiuso. Quindi, essa non ci preserva dalla possibilità di avere un federalismo cooperativo, ma è sempre affidato alle contingenze. Una Carta costituzionale non può essere affidata permanentemente alle contingenze, anche se ritengo, come ci hanno insegnato i più illustri costituzionalisti, che sia un testo aperto ed in evoluzione, affidato alla comunità degli interpreti.
Infine, credo che vada raccolto - ovviamente, come è stato spiegato stamattina, sarà oggetto di successivi incontri - quanto ha sostenuto Troffa sulla interlocuzione con il comitato per il referendum. Però, presidente, io non metterei sullo stesso piano un organo come il comitato che ha chiesto il referendum e tutti gli altri comitati, che hanno sostenuto tesi diverse. Io sono assolutamente aperto ad ascoltare tutti, però un conto è chi ha proposto e chiesto un referendum, rivestendo così una caratteristica istituzionale, un altro conto sono gli altri comitati, che hanno una natura strettamente politica.
Inoltre, va raccolto, pur se non in questa sede, il discorso sulla sicurezza
della Costituzione, perché pone un problema che cozza politicamente con l'esigenza di rivedere alcune parti della nostra Carta costituzionale, come il Titolo V di cui stiamo discutendo.
Lei sa, presidente Violante, perché ne abbiamo discusso più volte, che noi, per la mia parte politica, non solo siamo non favorevoli alla lettera dell'articolo 116, terzo comma, ma abbiamo molte perplessità anche sulla lettera m) del secondo comma dell'articolo 117, così come sull'ultimo comma dell'articolo 118, riguardante la sussidiarietà orizzontale.
Sono temi che non possiamo non affrontare nel momento in cui ci siamo posti il compito di esaminare quanto del Titolo V è stato attuato e quanto fosse possibile attuare.
PRESIDENTE. Signori, abbiamo fatto un buon lavoro e abbiamo lavorato per otto ore. Abbiamo fatto dei passi in avanti - ne parlavo adesso con il presidente Bianco -, innanzitutto, come osservava il collega Zaccaria, in relazione al metodo: «attuazione» mi pare sia l'aspetto dominante dei ragionamenti che abbiamo svolto. Naturalmente, anche le correzioni che vanno apportate si collocano nell'ottica dell'attuazione, ossia ciò che, nell'attuazione, si è rivelato necessario di correzioni va fatto.
Mentre pensavo a queste pochissime parole di conclusione, mi è venuto in mente che voi vi siete posti nell'ottica di San Giovanni Bosco, il quale diceva ai suoi ragazzi: state calmi se potete. Mi sembra che l'invito sia: fate il meno possibile.
Da questo punto di vista, mi pare che un uso sobrio e funzionale del potere legislativo limitato a ciò che serve davvero è stato auspicato da tutti, anche perché la stabilità delle regole e dell'ordinamento giuridico costituisce un grande valore, che riguarda anche la competitività.
In questo quadro, mi pare che la ricollocazione di alcune competenze in capo allo Stato, come, peraltro, aveva fatto la riforma approvata nella scorsa legislatura, sia ampiamente condivisa, perché questo, infatti, non costituì un punto di discussione.
La possibilità di introdurre una clausola di salvaguardia degli interessi della Repubblica, in ordine alla ripresa nelle mani dello Stato di alcune competenze, laddove si verifichino discrepanze tali o ci sia un interesse all'unità della legislazione, mi pare sia importante. Per esempio, ho colto con interesse un accenno di uno degli intervenuti in ordine alla differenza delle legislazioni in materia ambientale, tale che comporta che le imprese sono messe a mal partito quando devono passare da una regione all'altra. Sono certamente materie sulle quali possiamo riflettere. I contenuti sono chiarissimi.
Sul terzo comma dell'articolo 116 mi rifaccio a ciò che ha detto il collega Boato con grande chiarezza, come al solito. Quindi, sono necessari pochi interventi mirati. Questo è il quadro.
Sul problema dei rapporti consigli regionali-governi regionali, vorrei fare solo un accenno. Il problema della rappresentanza è generale e riguarda il Parlamento nazionale, i consigli regionali, comunali e provinciali. Nel momento in cui la decisione ha un peso rilevantissimo sulla competitività e sulla capacità di un paese di essere all'altezza dei suoi bisogni e dei suoi problemi, è chiaro che la decisione pesa di più della rappresentanza. Questo è il problema. È necessario far sì che le assemblee si carichino di una capacità di decidere pari alla capacità di rappresentare. O si caricano di queste esigenze e rispondono ai bisogni del Paese, oppure sono ècartè necessariamente. Quindi, sta alle stesse assemblee porsi obiettivi, compiti, problemi e ristrutturazioni.
Mi rivolgo al presidente dei consigli regionali. I regolamenti interni delle assemblee regionali non sono idonei a farli funzionare. C'è poco da fare. Se così è, è indubbio che c'è un declino, perché laddove si chiede una decisione e la decisione non può arrivare, perché il meccanismo non favorisce la decisione, ma favorisce esclusivamente la rappresentanza (sappiamo anche per quale ragione; abbiamo tutti
la nostra parte di colpa in quel tipo di regolamenti interni), c'è poco da fare. Se si può fare un gruppo con un solo componente, non è più un gruppo, è un miracolo. Non appartiene all'ordine del regolamenti. Quindi, questo è un punto.
Guardate che più la regione si carica di competenze legislative, più questo problema conta, nel senso che la separazione dei poteri, che è un principio dello Stato nazionale, diventa un principio anche dello Stato federale, a livello regionale, per ovvi motivi; altrimenti ciò che democraticamente è difeso a livello nazionale, viene svuotato a livello regionale. E siccome questi sono principi che valgono per i cittadini e non per i poteri, è evidente che va difeso il principio della separazione anche a livello delle regioni.
Qualcuno ritiene che chiamarsi Parlamento, di per sé, riqualifichi il soggetto. È un orpello. Il problema vero è se quel soggetto sia poi capace di funzionare o meno. Oggi, ci troviamo di fronte ad un punto delicato. Non riprendo gli argomenti posti in ordine al rapporto Conferenza Stato-regioni, mi pare lo dicesse l'onorevole Boato, rapporto tra esecutivi e Conferenza, Commissione, rapporti tra legislativi. Questo, se potessimo procedere su quella strada, potrebbe essere un punto per cominciare a riqualificare il rapporto consigli-assemblee.
Infine, sul problema della messa in sicurezza, credo che il tema sia stato posto. Dobbiamo rifletterci su e vedere come affrontarlo. Condivido con l'onorevole Boato un punto delicato. Dobbiamo stare molto attenti al rapporto tra maggioranza qualificata e referendum: più la maggioranza è qualificata, più il ricorso al referendum porta ad un conflitto tra rappresentanza e rappresentato, quindi, ad un problema di crisi istituzionale. Infatti, se un Parlamento approva con ampia maggioranza una legge e poi deve andare al referendum e lo stesso lo boccia, il Parlamento deve andare a casa. Quindi, più si eleva il quorum, più bisogna stare attenti a come si congegna il referendum. Praticamente, è possibile, anche seguendo lo stesso meccanismo costituzionale attuale, elevare le quote, passare ai tre quinti per esempio (so che ci sono delle proposte in questo senso), e valutare se, ad un certo punto, raggiunta una quota maggiore, non si possa bloccare il ricorso al referendum. Comunque, sono cose di cui parleremo.
Certamente, la messa in sicurezza è un tema, anche se oggi credo sia una clausola politica. Ho l'impressione che dopo l'errore che fece il centrosinistra due legislature fa e quello che fece il centrodestra (visto che ci siamo divisi equamente gli errori), a questo punto, possiamo smetterla, e cercare di non farne più. Mi pare che questo sia l'orientamento che potrebbe prevalere. In ogni caso, consolidare in una formula costituzionale la necessità di non incorrere in altri errori potrebbe essere un fatto positivo.
Bene, signori, vi ringrazio. Domani ci vediamo alle 9,30 nell'aula Convegni del Senato, via degli Straderari.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 17,25.