COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di luned́ 12 marzo 2007


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE

La seduta comincia alle 9,45.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizioni di rappresentanti delle autonomie locali, di organizzazioni operanti nel settore, nonché di esperti della materia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in materia di diritto di cittadinanza, le audizioni di rappresentanti delle autonomie locali, di organizzazioni operanti nel settore, nonché di esperti della materia.
Per quanto riguarda l'organizzazione dei lavori, seguirà una breve introduzione dell'onorevole Bressa, relatore del provvedimento. Nella cartella troverete un modulo per gli interventi che vi prego di farci pervenire per organizzare i nostri lavori, che interromperemo alle ore 11,00 per riprenderli alle ore 11,30. È prevista un'ulteriore sospensione di seduta tra le 13,30 e le 14,30 per consentire una colazione. Se ci sarà ancora da lavorare, continueremo subito dopo.
Do quindi la parola all'onorevole Bressa per l'introduzione.

GIANCLAUDIO BRESSA. Grazie, presidente. Molto brevemente, poiché considero noto il contenuto del testo unificato, cercherò di indicare i criteri direttivi che ne hanno orientato la predisposizione.
Il primo e fondamentale riferimento è quello alla nostra Costituzione. La dottrina prevalente e la giurisprudenza costituzionale concordano nel sostenere che i costituenti abbiano optato per una concezione civica della nazione, secondo cui, come il professor Bartole ha finemente sintetizzato, l'appartenenza alla nazione non si fonda sul legame etnico, che, pur implicando un riferimento alle tradizioni storiche-culturali, rinvii a legami di terra e sangue, bensì si identifica con l'accettazione volontaria di valori civici costituzionali della nostra comunità statale. Questo ha rappresentato il primo punto di riferimento costante nella predisposizione del testo.
In secondo luogo, la cittadinanza viene intesa come rapporto politico fondamentale tra un individuo e l'ordine politico giuridico in cui si inserisce, per cui il Parlamento, massima espressione della rappresentanza politica, deve costruire le condizioni per eliminare la sorta di lotteria sociale che sottrae alle persone la libertà di perseguire una compiuta realizzazione della propria vita. Modificare la disciplina della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia significa quindi restituire loro quella eguaglianza di opportunità che deriva dalla pari capacità giuridica, ovvero dall'eguale capacità di essere titolari di diritti e di doveri, che costituisce la sostanza dell'articolo 3 della Costituzione.
Il terzo punto fondamentale è il diritto di ciascun individuo di condurre un'esistenza libera e dignitosa. Trattare di cittadinanza significa proprio riconoscere a ciascun individuo il diritto di condurre


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un'esistenza libera e dignitosa. Non si tratta quindi di un interesse legittimo concesso da una benevola autorità, ma di un diritto, seppur sottoposto ad alcune essenziali condizioni. Per questo motivo la Repubblica, attraverso le sue massime espressioni esecutive e di garanzia, può attribuire la cittadinanza e non più solo concederla. L'attribuzione della cittadinanza costituisce l'elemento di novità del testo unico, innovativo anche rispetto ad altre esperienze europee.
Il quarto punto è il riconoscimento di come il diritto di cittadinanza sia basato sul diritto all'uguaglianza, perché sull'uguaglianza dei diritti si fonda la percezione degli altri come eguali e consociati. Tale concezione della cittadinanza viene espressa dal principio del reciproco riconoscimento dei cittadini come eguali. Secondo tale principio, i cittadini beneficiano di un'eguaglianza derivante non tanto da comuni legami di sangue, quanto piuttosto dal comune perseguimento di soluzioni comuni per problemi comuni. Qui si torna dunque al principio fondante ed ispirativo della nostra Carta costituzionale.
Poiché questi sono i punti che hanno orientato la riflessione, gli elementi costitutivi della cittadinanza non possono più essere costretti entro i limiti dello ius sanguinis o della semplice concessione dell'autorità statale. I nuovi elementi costitutivi della cittadinanza sono dunque il principio dello ius soli, l'appartenenza fisica e sociale ad una comunità, l'adesione ai principi costituzionali della nuova comunità di appartenenza, la possibilità di una doppia cittadinanza.
Attraverso questa serie di definizioni, la cittadinanza viene intesa come un atto di volontà da parte di una persona, che impegna lo Stato a verificare e accompagnare tale atto volontario, fino all'attribuzione di un diritto soggettivo, se pure affievolito.
In questa prospettiva, la polemica politicistica, imperniata sull'interrogativo se la cittadinanza debba essere premessa o conclusione di un processo di integrazione, risulta completamente infondata.
La cittadinanza è l'attribuzione di un diritto da parte dello Stato ad una persona che vuole essere a pieno titolo partecipe della comunità italiana.
La legge sulla cittadinanza non deve pertanto essere confusa con altri provvedimenti relativi all'immigrazione o con le politiche necessarie a garantire un'integrazione compiuta. La cittadinanza rappresenta infatti un tassello rispetto ad un più ampio panorama, che prevede il diritto di voto alle elezioni amministrative e le questioni di politiche d'integrazione concernenti la casa, il lavoro, il welfare e soprattutto la scuola, provvedimenti che devono affiancare la legge, evitando di considerare la cittadinanza strumento regolatore dei flussi migratori verso il nostro paese. Non c'è nulla di più ipocrita e meschino dell'accettare i processi di globalizzazione più favorevoli sul piano economico e dell'inibirli sul piano dei diritti.
La proposta contenuta nel testo unificato non asseconda questa visione, ma anzi si fa promotrice di una scelta innovativa anche rispetto ad altre esperienze europee. Questa proposta definisce la cittadinanza come un diritto, che la volontà della persona straniera e della Repubblica possono rendere premessa indispensabile alla maturazione di un senso di appartenenza e di identità collettiva di una comunità fondata sul valore della tolleranza e sul ripudio di reciproche esclusioni generate da identità etniche, nazionali, religiose o linguistiche.
La legge sulla cittadinanza non è costituzionale in senso stretto, ma in senso compiuto, nonché misura della civiltà e della democrazia di un paese.
L'Italia è gravemente in ritardo rispetto ad altre comunità europee e internazionali, ma probabilmente, tesaurizzando esperienze e fallimenti, è possibile definire un percorso innovativo, pur nella continuità della storia e della tradizione giuridica italiana.
Ritengo che il compito sia estremamente impegnativo e che il Parlamento abbia profonda consapevolezza del senso


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di responsabilità che, nel discutere una legge come questa, è chiamato a dimostrare.

PRESIDENTE. Grazie. Possiamo dare inizio all'interlocuzione. Ringrazio tutti gli intervenuti per avere aderito al nostro invito. Do ora la parola al professor Bonetti.

PAOLO BONETTI, Membro del Consiglio direttivo ASGI. Buongiorno, intervengo in rappresentanza dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, che ha inviato alla Commissione una lunga memoria, elaborata in 15 giorni. Si tratta di un'associazione nazionale che raccoglie docenti universitari, avvocati, giuristi e operatori che si occupano di tematiche concernenti la condizione giuridica dello straniero e della redazione di una rivista in collaborazione con Magistratura democratica.
La memoria contiene una serie di emendamenti che auspichiamo utili in questa sede. Tutte le osservazioni emergono da ponderate riflessioni sul funzionamento della legge del 1992 e sulle lacune da essa provocate.
Ci siamo posti l'obiettivo di evitare che questa nuova legge seguisse il percorso delle precedenti, perché immigrazione e cittadinanza sono aspetti ovviamente distinti, ma le ipotesi di naturalizzazione devono essere - come in questo testo -, seppure indirettamente, collegate alla disciplina della condizione giuridica dello straniero.
Precedenti studi, anche commissionati dal CNEL e dalle due commissioni del Governo sulla legge sull'immigrazione del 1993 e del 1996, avevano espressamente individuato nell'acquisizione della cittadinanza il gradino finale dell'integrazione sociale dello straniero, come espressamente accennato in numerose parti.
Tralascio quella parte del testo - in particolare l'articolo 13 - che elimina completamente le residue discriminazioni tra uomo e donna, derivanti da una discutibile interpretazione giurisprudenziale successiva all'entrata in vigore della Costituzione.
Per quanto concerne la questione dei minori, considerare ciascuna osservazione isolatamente differisce dal considerarle insieme, perché, spostando alcuni tasselli, il quadro diviene più organico. Si condivide il principio del doppio ius soli, contenuto nella lettera d) del comma 1 emendata, che riguarda i nati nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno titolare di cittadinanza in Italia e ivi legalmente residente, seguendo un criterio di civiltà che presuppone un'integrazione familiare sul territorio nazionale ed è previsto nelle leggi di paesi quali Belgio, Francia, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna.
Più opinabile ci è sembrata la prima lettera, che fa discendere l'acquisto del diritto dalla mera nascita nel territorio della Repubblica da straniero regolarmente residente da almeno tre anni.
Qui si tratta di questioni di carattere pratico, perché da un lato esiste una giurisprudenza della Corte costituzionale che ha cercato di esaltare, come segnalato dal relatore, la volontarietà dell'acquisto. Il minore non è capace di intendere e di volere e i genitori che, in base alla Costituzione, hanno il dovere di istruirlo, educarlo e mantenerlo, lo rendono in tal modo partecipe del progetto migratorio della famiglia.
Ci siamo posti il problema concreto e verificato nella prassi di stranieri appartenenti a paesi nei quali esista il divieto della doppia cittadinanza, il cui il figlio, riconosciuto alla nascita come italiano, diventerebbe straniero, creando una situazione assurda per cui la famiglia non potrebbe tornare senza ottenere visti per il figlio, oppure sarebbe costretta a farlo nascere nel paese d'origine per evitare questa situazione.
Ci occupiamo inoltre sempre più frequentemente di stranieri comunitari, che aderiscono a un progetto migratorio di alta qualificazione e risiedono in Italia per un periodo di tempo non breve, ma assolutamente determinato, per poi ritornare con la famiglia.
Esistono anche casi clamorosi di flussi migratori di questo tipo da alcuni paesi.


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Dinanzi a tale problematica, ci si pone l'interrogativo dell'opportunità di acquisire il diritto in base alla mera nascita in presenza di un genitore regolarmente residente da tre anni, o piuttosto di prevedere una manifestazione di volontà del genitore rispetto all'acquisizione della cittadinanza per la condizione giuridica del genitore, combinata insieme alla nascita.
Dal punto di vista pratico, l'attuazione risulterebbe estremamente semplice, perché, come nella dichiarazione di nascita il genitore deve indicare il proprio nome e cognome, quello della madre e del figlio, basterebbe mettere una firma o barrare una casella per dichiarare come il nato acquisti la cittadinanza evitando così di passare dall'automaticità di uno ius sanguinis, che escludeva lo ius soli, ad uno ius soli così radicale da generare problemi.
L'altra questione che ci ha lasciati perplessi è il mancato collegamento con la normativa sull'immigrazione per quanto riguarda la residenza ed il soggiorno. Se si considerano le norme comunitarie che hanno prodotto il soggiorno di lungo periodo - appena attuate nell'ordinamento italiano -, il termine è di cinque anni e si rilascia il permesso di soggiorno per lungo residenti, la certificazione anagrafica per i cittadini comunitari. Si ipotizzava dunque che, nell'ottica di questa progressiva integrazione sociale dello straniero regolarmente soggiornante, invece che indicare il criterio dei tre anni di residenza regolare - laddove si può essere regolarmente soggiornante da anni ma non residente per motivi di varia natura, quindi magari soggiornante da otto anni in Italia, ma residente solo da tre -, fosse più opportuna l'inclusione non di una temporizzazione collegata alla residenza, bensì del possesso di un titolo di soggiorno di lungo periodo, per quanto riguarda i genitori. Le riforme in vigore da gennaio prescrivono infatti per tutti cinque anni di soggiorno regolare. In alcuni casi, per quanto riguarda il parente di comunitario, è sufficiente il legame con costui.
Nell'articolo 2, il testo unificato si riferisce ad altri criteri di acquisto della cittadinanza collegati all'iscrizione scolastica. Collegandosi agli articoli 33 e 34 della Costituzione, sembrava più opportuno riferirsi all'iscrizione alla scuola statale o paritaria e, come la Costituzione prescrive, all'eventuale superamento dell'esame di Stato.
Per quanto riguarda i corsi di formazione professionale, dovrebbero intendersi, nei limiti della potestà legislativa regionale, i corsi legalmente autorizzati della durata di almeno un anno con superamento dell'esame finale.
È stato tralasciato il contratto di apprendistato. Viene citato il contratto di lavoro, ma vi è un contratto finalizzato all'inserimento nel mercato del lavoro che si rivelerebbe estremamente utile perché finalizzato a minorenni, che entrerebbero così nel mondo del lavoro non solo con il diploma ma anche con la cittadinanza.
Sono stati tralasciati casi che riguardano vicende familiari e possiedono una notevole rilevanza nella vita delle persone. La legge sulla cittadinanza attualmente vigente, all'articolo 1, comma 1, lettera b), prevede il caso di colui che acquisti la cittadinanza non seguendo la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale appartengono. Questa ipotesi è, nella prassi, assai ostacolata perché richiede una prova ardua ai genitori, ovvero dimostrare che ciò venga loro impedito. L'ipotesi poteva invece essere rovesciata. Innanzitutto, invece di parlare di entrambi i genitori, basterebbe riferirsi a un genitore noto, giacché questa norma potrebbe riguardare il caso in cui un solo genitore fosse noto e, se la legge del genitore noto impedisse di acquistare la cittadinanza perché si ignora la cittadinanza dell'altro, costui non acquisterebbe la cittadinanza. Esiste dunque una serie di casi da considerare.
Un'altra questione è stata posta all'attenzione dal ministro dell'interno con una circolare del gennaio 2007, tentando un'interpretazione estensiva e dovrebbe essere definitivamente incorporata nella legge. Mi riferisco al caso in cui lo straniero maggiorenne - fino a questa interpretazione - non acquistava di diritto la cittadinanza italiana per effetto del passaggio in giudicato


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di una sentenza di adozione di minore straniero ottenuta da parte del genitore italiano che ne avesse fatto richiesta quando era minore. Se questo caso fosse definitivamente consacrato in un testo legislativo, eviteremmo per il futuro una serie di questioni.
Per quanto riguarda l'adozione, in molte parti del testo deve essere inserita una clausola generale che equipari definitivamente i figli biologici e i figli legalmente adottati, laddove per legalmente adottati non ci si riferisce esclusivamente alla legge italiana, ma anche a quelle degli altri paesi.
Si pone il problema del legale affidamento. In Italia, i minori stranieri legalmente affidati a stranieri regolari o - molti di più - a cittadini sono estremamente numerosi, perché nel paese d'origine si trovavano in stato di abbandono o i genitori non erano in grado di occuparsene. Ci si chiede se chi in minore età sia stato legalmente affidato a cittadini italiani da più di cinque anni possa godere dell'estensione delle norme dell'articolo 2 seppur, trattandosi di affidamento familiare, con l'autorizzazione del tribunale per i minori e le debite relazioni dei servizi sociali.
Per quanto riguarda la trasmissione per iuris comunicatio, si rilevano situazioni assurde, nelle quali, se il genitore ha chiesto la cittadinanza quando i figli avevano 16 anni e la ottiene quando i figli ne hanno 19, per un lasso di tempo il genitore diventa italiano, mentre i figli restano stranieri. Si chiede pertanto di prevedere un'estensione per quanto concerne questa situazione, consentendo di ottenere la cittadinanza in tempi brevi dopo l'acquisto della stessa da parte del genitore.
L'altra situazione molto più vasta di quanto può sembrare riguarda le coppie miste. La legge sulla cittadinanza indica come cittadino il figlio di un genitore italiano, il che implica che l'altro genitore possa essere straniero. In base alla legge sull'immigrazione, questo genitore straniero, ancorché clandestino, ha diritto ad avere un permesso di soggiorno, per istruire, educare, mantenere e provvedere alla crescita del figlio. Ci si chiede perché non si possa completare con un'acquisizione di diritto, da parte del genitore che conviva con il proprio figlio, della cittadinanza italiana.
L'altra questione riguarda la recente legge sull'affidamento condiviso. In molte parti della legge si ribadisce la questione della convivenza. Secondo la nuova legge, la convivenza andrebbe resa flessibile, perché il genitore che ha l'affidamento condiviso non convive, ma provvede strutturalmente all'educazione e all'istruzione del figlio. Aprire dunque a questa ipotesi dello straniero regolarmente soggiornante e genitore di un figlio di cui, ancorché non convivente, abbia il legale affidamento condiviso, sembrava un giusto adeguamento alla modifica dell'ordinamento.
Per quanto riguarda le ipotesi di naturalizzazione, abbiamo sottoposto ad una critica radicale il testo proposto, perché nelle leggi degli altri paesi europei la concessione è da realizzarsi il prima possibile, prima degli altri casi, con standard culturali e di reddito più elevati, mentre l'attribuzione è prevista in seguito e con una durata di residenza maggiore a titolo di diritto soggettivo, salvo preclusioni derivanti da precedenti penali.
Era pertanto doveroso riformare queste ipotesi prevedendo un acquisto della cittadinanza per concessione, cui sia possibile accedere previa valutazione discrezionale, dopo un periodo di residenza legale inferiore - quale i cinque anni derivanti dal possesso del permesso di lungo periodo, ma senza indicarli esplicitamente -, previa verifica di inesistenza dei requisiti preclusivi dell'articolo 6 e con requisiti culturali più elevati di quelli previsti, che abbiamo individuato nella conoscenza della lingua italiana pari a quella richiesta per la licenza media.
A questa si affianca un elenco di ipotesi di attribuzione non discrezionale della cittadinanza dopo un soggiorno leggermente più lungo o a causa di situazioni giuridiche più protette, quali il matrimonio con un cittadino italiano, lo status di


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rifugiato, lo status di apolide, l'italiano non appartenente alla Repubblica ovvero colui che riacquista la cittadinanza.
Per quanto riguarda la certificazione della lingua, esiste già con il Ministero della pubblica istruzione, collegata alle prescrizioni del Consiglio europeo, una certificazione che ha ricevuto validazioni in Italia, cui fare riferimento, invece che riferirsi soltanto ad un titolo sostituito dalla conoscenza della lingua derivante del livello di istruzione certificato con procedure già attualmente in vigore.
Per quanto riguarda il requisito reddituale, se ne propone il totale superamento. Nel momento in cui si collega, per le ipotesi di concessione, l'acquisto della cittadinanza alla titolarità del soggiorno di lungo periodo, questo requisito reddituale è già stato verificato.
Nei casi nei quali, poiché lo straniero non accede a prestazioni assistenziali, si vorrebbe esigere un reddito più alto, questo requisito è totalmente superato dalla nostra legislazione, perché il requisito reddituale è superfluo o del tutto inutile rispetto al cambiamento dell'ordinamento.
Oggi, lo straniero regolare ha una parità di lungo soggiorno riguardo al trattamento assistenziale.
Nel testo si chiede l'introduzione di una cittadinanza per attribuzione non solo in caso di matrimonio, dopo due anni, ma di soggiorno regolare ininterrotto. Un soggiorno regolare ininterrotto senza residenza è una situazione che potrebbe superare questo periodo, perché la residenza può interrompersi per vari motivi oppure non essere neppure acquisita.
Ci sono i casi dello straniero apolide che durante la minore età abbia frequentato in Italia il ciclo di istruzione, del maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente da almeno tre anni - ci siamo chiesti perché nel testo unificato questo fosse passato ad una circostanza più discrezionale, quando invece un tribunale aveva già verificato i forti legami esistenti - e di rifugiati apolidi dopo tre anni di soggiorno sul territorio nazionale.
I motivi preclusivi dell'attribuzione della cittadinanza verrebbero estesi anche alla concessione della cittadinanza. Abbiamo esaminato singolarmente questi motivi e individuato una serie di problemi, in base all'esperienza di molte domande respinte.
Nel testo, si parla di riabilitazione dimenticandosi di includere tutte le situazioni di estinzione del reato, che è diversa dalla riabilitazione, ma ha un significato ad essa equivalente.
Tra i motivi preclusivi dell'attribuzione della concessione andrebbero incluse le condanne per crimini internazionali, perché obblighi internazionali impongono di collaborare con le corti internazionali e si tratta di reati estremamente gravi.
Il testo prevede la sospensione del procedimento in caso di avvio del procedimento penale. La Corte costituzionale con una sentenza del 2005 ha affermato che la mera iscrizione nel registro degli indagati non può far ritenere potenzialmente colpevole uno straniero.
La sospensione potrebbe essere collegata ai casi nei quali l'ordinamento italiano e internazionale preveda un ragionevole elemento di colpevolezza, seppur di presunzione, quali le misure cautelari o il mandato di cattura da parte delle corti penali internazionali.
L'obiettivo è sopprimere la norma che prevede la reiezione per motivi di sicurezza. Esiste già oggi nell'ordinamento l'espulsione dello straniero per motivi di sicurezza nazionale da parte del ministro dell'interno, quindi non si comprende perché lo straniero non soggetto all'espulsione dovrebbe discrezionalmente essere destinatario di un provvedimento che per cinque anni ne sospende l'acquisizione, perché, se i motivi di sicurezza esistevano già, doveva essere espulso prima. Si ipotizza dunque la soppressione, oppure la previsione di un'ipotesi eccezionale, come già è nel testo delle norme sull'immigrazione, in base alla quale, qualora lo straniero abbia presentato domanda di cittadinanza, il provvedimento sia sospeso qualora venga disposta nei suoi confronti l'espulsione per motivi di sicurezza nazionale. Questo è diverso, perché la persona con problemi di sicurezza si vede sospendere


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il procedimento, però restando sul territorio nazionale, situazione paradossale, perché è l'unica ipotesi in cui anche lo straniero lungo residente deve essere espulso, se c'è questo motivo. Questa è una questione particolare.
Per quanto concerne il giuramento, la formula proposta ci ha lasciato perplessi perché indica un requisito di riconoscimento di pari dignità sociale di tutte le persone già contenuto nell'articolo 3 della Costituzione e, se si giura sulla Costituzione di riconoscerlo, appare quasi superfluo.
Per quanto riguarda la cittadinanza ottenuta per matrimonio, è un elevamento arrivare a due anni, tuttavia l'ipotesi che il genitore di cittadino italiano possa richiedere la cittadinanza italiana ne tempererebbe la gravosità.
Se, nonostante una separazione legale o un divorzio, si provvede o si ha l'affidamento condiviso del figlio, si evitano situazioni di elusione, ma non una situazione in cui la prole subisce una conseguenza negativa.
Non aggiungo altro per quanto riguarda i rifugiati apolidi. Per quanto attiene invece al riacquisto della cittadinanza, si rileva una difficoltà logistica derivante dalle leggi sul soggiorno di coloro che intendano riacquistare la cittadinanza. Le leggi sulla cittadinanza hanno infatti sempre tralasciato l'aspetto per cui colui che richiede la cittadinanza italiana non ha diritto a un soggiorno, se non dopo aver presentato la domanda di cittadinanza. Si chiede pertanto l'introduzione di un'apposita norma per garantire un soggiorno - seppur ad altro titolo - a colui che abbia fatto richiesta di riconoscimento di cittadinanza.
Per quanto riguarda la doppia cittadinanza, si propone che nella legge sia prevista l'autorizzazione alla ratifica della Convenzione europea sulla cittadinanza del 1997, promossa dal Consiglio d'Europa, che prima di questa legge non era ancora ratificata. Si propone dunque che, collegata a questa norma, ve ne sia una che autorizzi alla ratifica del Presidente della Repubblica.
La semplificazione dei procedimenti amministrativi costituisce buona parte della legge sulla cittadinanza. Normalmente si parla di tre-cinque-dieci anni per l'ottenimento della cittadinanza, ma nel momento in cui esiste un procedimento amministrativo, queste stime divengono irrealistiche, perché bisogna aggiungervi almeno due-tre anni. Già nel provvedimento individuato, due anni rappresentano un tempo enorme, laddove nella pratica attuale essi non sono mai utilizzati dal Ministero dell'interno, che compie gli accertamenti solo negli ultimi tre mesi. Auspichiamo dunque una maggiore riduzione e una più ampia certezza per chi proponga l'istanza.
L'ultimo aspetto riguarda l'adozione di un unico regolamento di attuazione di norme transitorie e una campagna di pubblicizzazione delle nuove norme per diffondere tale importante riforma. Mi scuso per essermi dilungato, ma la relazione è frutto di una lunga analisi.

PRESIDENTE. La ringrazio. Ho omesso di rilevare che abbiamo un'unica giornata di lavoro, quindi dovremo contenere gli interventi intorno ai 10 minuti, anche per poter poi interloquire sulle singole posizioni. Do la parola al professor Lippolis.

VINCENZO LIPPOLIS, Ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università di Napoli. Concordo con il relatore, onorevole Bressa, allorché afferma che la cittadinanza nel mondo contemporaneo non può più fondarsi solo sullo ius sanguinis. Anche la Germania, paese che ha tradizionalmente fondato su questo principio la sua legislazione in materia, ha operato un'apertura allo ius soli con la legge di riforma del 15 luglio 1999. La cittadinanza tende a scolorirsi nel mondo moderno, perché i diritti un tempo esclusivi del cittadino oggi sono riconosciuti all'uomo in quanto tale grazie a una serie di convenzioni internazionali. La stessa Corte costituzionale italiana ha riconosciuto agli stranieri la titolarità di una serie di situazioni giuridiche prima attribuite ai soli cittadini.


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Ci interroghiamo dunque sul significato di cittadinanza, dal momento che diritti civili e sociali sono riconosciuti anche allo straniero legalmente residente in Italia. Nucleo irriducibile della cittadinanza rimangono i diritti politici, il cui esercizio influisce sulla vita dell'intera collettività. Essenziale nella cittadinanza è quindi la percezione dell'appartenenza ad una comunità politica, che è ancora rappresentata dallo Stato nazionale, e un sentimento di condivisione di un destino comune. È, di conseguenza, assolutamente indefettibile il riconoscimento, da parte dello straniero che intenda acquistare la cittadinanza, del sistema di valori civili e politici alla base della società che lo accoglie. Ciò tanto più se si considera che alla cittadinanza, oggi spesso ed erroneamente considerata solo una lista di diritti, sono connessi importanti doveri.
La mia contrarietà al disegno di legge in esame non deriva tanto dall'analisi delle singole regole - di ognuna delle quali potrebbe individuarsi una giustificazione -, bensì dal loro complesso, dalla loro combinazione che prefigura un'apertura all'acquisto della cittadinanza priva di riscontro nella legislazione di altri importanti paesi europei. Ad esempio, il termine di cinque anni di residenza perché lo straniero possa avanzare la richiesta di cittadinanza è previsto in Francia, ma in quel paese vigono regole diverse, più restrittive, per l'acquisto della cittadinanza da parte dei figli di stranieri nati sul territorio nazionale: non è prevista l'applicazione automatica dello ius soli, come nel disegno di legge in esame, ma l'interessato può richiedere l'acquisto della cittadinanza francese al compimento della maggiore età. La Germania e la Spagna prevedono periodi di residenza di durata maggiore per l'acquisto della cittadinanza (rispettivamente otto e dieci anni) e non consentono la doppia cittadinanza, che invece trova un riconoscimento nel testo unificato.
Per migliorare l'insieme che non appare convincente, bisogna operare su punti specifici. Ad esempio, per quanto riguarda la situazione di chi nasce nel nostro territorio da genitori stranieri, proprio in relazione alla considerazione dell'onorevole Bressa per cui la cittadinanza deve essere concepita come adesione volontaria ad un sistema di valori, probabilmente potrebbe avere una sua validità la regola dell'ordinamento francese che prevede la scelta al compimento della maggiore età da parte dell'interessato. In una proposta di legge della scorsa legislatura, la n. 1463, primo firmatario l'onorevole Livia Turco, ma sottoscritta anche dal Presidente Violante, questa era la regola prevista.
Per quanto riguarda la durata della permanenza in Italia, ritengo che la riduzione da dieci a cinque anni sia eccessiva. La stessa proposta di legge Turco, prima citata, prevedeva un periodo di sette anni.
Al di là di questo, vorrei sottolineare come il disegno di legge non preveda un sistema valido - anche se ne percepisco la difficoltà di realizzazione - di verifica dell'adesione ai valori del nostro ordinamento. Ci si limita in alcuni casi a prevedere il requisito reddituale, in altri la conoscenza della lingua italiana e poi il giuramento.
Riguardo al giuramento, concordo con quanto prima affermato dal professor Bonetti, perché mi lascia perplesso, nella formula prevista dal testo unificato, il richiamo alla dignità sociale delle persone. Ritengo invece importante - come è stato detto in sede di discussione del disegno di legge - che nella formula del giuramento sia richiamato anche l'articolo 52 della Costituzione, ovvero il dovere di difesa della patria.
Personalmente, in generale non ritengo che la doppia cittadinanza debba essere favorita, perché crea o fa permanere un doppio legame di appartenenza, nonché obbligazioni nei confronti di due Stati diversi. Rispetto al passato, in cui vi era una tendenza alla sua restrizione, si evidenziano tendenze recenti più tolleranti verso tale fenomeno.
Vietare la doppia cittadinanza è tuttavia consentito proprio dall'articolo 15 della Convenzione europea del 1997 sulla nazionalità, che l'Italia non ha ancora ratificato, pur avendola sottoscritta. L'articolo


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15, alla lettera b) prevede di subordinare alla rinuncia dell'altra nazionalità l'acquisto o la conservazione della cittadinanza. La rinuncia alla cittadinanza di origine mi pare un elemento importante per dimostrare la volontà di chi richiede la cittadinanza italiana di inserirsi completamente nel nostro tessuto sociale.
La questione della doppia cittadinanza ha anche un altro risvolto sul sistema della nostra rappresentanza se si considera anche il versante del voto dei cittadini italiani residenti all'estero, la cui prima applicazione non mi pare abbia dato esiti soddisfacenti. Attraverso un indiscriminato allargamento del corpo elettorale a soggetti in una situazione di doppia cittadinanza, si corre il rischio di causare deterioramenti - alcuni già evidenti - sul sistema complessivo della rappresentanza nel nostro paese. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Lippolis. Do ora la parola al professor Frosini.

TOMMASO FROSINI, Ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università di Sassari. Grazie, presidente, a lei e alla Commissione per questo invito.
Vorrei partire da un breve riferimento storico. Presso questa Commissione nella scorsa legislatura, esattamente il 30 marzo 2004, si tennero alcune audizioni informali alle quali venni invitato, per discutere del diritto di voto ai cittadini stranieri e dell'eventuale riforma della legge sulla cittadinanza.
A distanza di una legislatura, non si è più associato il problema del diritto di voto agli stranieri, mentre si è mantenuto l'obiettivo di riforma della legge sulla cittadinanza.
Suppongo che puntare sulla riforma della legge sulla cittadinanza, riducendo i termini per l'acquisizione della stessa, significhi bypassare il problema dell'eventuale introduzione del diritto di voto ai cittadini stranieri. Anche nelle audizioni del 2004, infatti, emerse la consapevolezza di come, per ampliare i diritti politici in favore degli stranieri, fosse necessario intervenire su norma costituzionale, quindi attraverso il procedimento di revisione ex articolo 138.
Riducendo fortemente, come questo progetto di legge propone, i termini per l'acquisizione della cittadinanza, si vuole forse consentire agli stranieri di diventare cittadini e automaticamente, in quanto tali, di acquisire il diritto di voto, in particolare per il Parlamento nazionale. Sul problema relativo ai comuni, infatti, si rileva oggi una tendenza giurisprudenziale testimoniata da alcune pronunce del Consiglio di Stato, che consentirebbero di introdurre il diritto di voto attraverso la legge senza passare attraverso la modifica costituzionale.
Lo spirito di questa riforma si identifica nel tentativo di aggiornare la legge del 1992 alla luce delle trasformazioni sociali subentrate, così come di sanare la questione che, nella scorsa legislatura, ha impegnato fortemente questo Parlamento, ovvero quella dell'attribuzione del diritto di voto agli stranieri non attraverso la modifica costituzionale e l'affermazione di un principio costituzionale, quanto piuttosto aggirandola attraverso la legislazione ordinaria in materia di cittadinanza.
Questo pone però alcuni problemi. Se inizialmente il Parlamento si era posto il problema di dover scegliere se assegnare il diritto di voto agli stranieri attraverso una modifica costituzionale, ciò significa che si riteneva che la valorizzazione della presenza straniera nel nostro territorio dovesse passare attraverso un'integrazione di tipo normativo costituzionale, mentre qui passa invece attraverso un'integrazione di tipo legislativo, rendendo cittadino uno straniero e quindi attribuendogli diritto di voto dopo una permanenza per un periodo di tempo significativamente ridotto rispetto alla legge del 1992.
Volevo richiamare la vostra attenzione sull'attribuzione della cittadinanza nei termini dell'attribuzione dei diritti politici, principio contenuto in una pronuncia della Corte costituzionale del 1975, secondo cui «la cittadinanza è uno stato giuridico costituzionalmente protetto che


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importa una serie di diritti nel campo privatistico e pubblicistico e, inoltre, in particolare, diritti politici».
Poniamo dunque il problema della cittadinanza innanzitutto dal punto di vista dei diritti politici, ovvero del riconoscimento in favore dei nuovi cittadini del diritto di eleggere ed essere eletti in tutti gli organi collegiali rappresentativi ad ogni livello, Parlamento nazionale e organismi regionali.
Questo pone alcuni problemi, uno dei quali segnalato nell'intervento di Vincenzo Lippolis, relativo all'articolo 48. Ho letto anche i resoconti dei vari interventi svolti nel dibattito in Commissione, ma ritengo sia stato tralasciato il problema relativo all'interpretazione dell'articolo 48 della Costituzione, che riconosce il diritto di voto ai cittadini residenti all'estero. Nell'ipotesi di un ampliamento della cittadinanza, quindi, ho letto nell'intervento del sottosegretario che 3 milioni di cittadini stranieri residenti in Italia potrebbero diventare cittadini. Ciò significherebbe dunque ampliare notevolmente il quadro di riferimento del collegio elettorale dei cittadini residenti all'estero, perché i neo-cittadini italiani sarebbero tutti ipoteticamente cittadini che, in base alla doppia cittadinanza, potrebbero poi risiedere all'estero, allargando notevolmente il collegio di cittadini residenti all'estero.
Ritengo che su questo punto sia necessario riflettere attentamente e verificare come collocare il profilo dell'articolo 48 relativo ai cittadini residenti all'estero nel momento in cui il loro numero si ampli di 3 milioni, garantendo loro la possibilità di essere cittadini italiani e risiedere all'estero in quanto dotati della doppia cittadinanza.
La doppia cittadinanza costituisce un punto cruciale, che si potrebbe provare, se non a eliminare, almeno ad attenuare fortemente, perché crea problemi d'ordine sistemico. Mi riferisco per esempio all'intervento dell'onorevole Bressa di martedì 26 settembre 2006, in cui afferma: «Affrontare il tema della cittadinanza mette a nudo la visione che ciascuno ha della forma di Stato, dei modi in cui si estrinseca la potestà sovrana e quindi dei rapporti che intercorrono tra cittadini e detentori del potere».
Questa definizione è perfetta, però ritengo contrasti con la doppia cittadinanza, perché consentirla - e infatti molti paesi europei come la Germania, la Danimarca, la Spagna la vietano - significa non riconoscere pienamente l'adesione ai principi della forma di Stato, cui si richiama l'onorevole Bressa. Il fenomeno della doppia cittadinanza rischia di generare momenti di condivisione di valori contraddittori fra quelli che sovrintendono alla società italiana e quelli che sovrintendono alle altre società delle quali il cittadino si sentirebbe comunque parte. Su questo problema occorre riflettere per individuare una soluzione. Non ritengo ammissibile che un cittadino si trovi costretto bon grés malgrés a condividere valori fra loro contrastanti nel momento in cui aderisce ad una doppia visione della cittadinanza, ovvero in cui, essendo cittadino integrato e partecipe di una certa forma di Stato, rischi di condividerne due opposte, alternative o comunque non con un comune patrimonio di valori.

GIANNI FERRARA, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Se giura sulla Costituzione?

TOMMASO FROSINI, Ordinario di diritto pubblico comparato presso il dipartimento di scienze giuridiche dell'Università di Sassari. In merito avrei qualcosa da aggiungere, per cui ringrazio il professor Ferrara per questo intervento. Il giuramento avviene nella prefettura o ufficio territoriale del Governo e viene fatta pronunciare la seguente formula: «Giuro di essere fedele alla Repubblica...» contenuta nell'articolo 54. Ma, o si condividono i valori della Costituzione senza bisogno di giurare o bisogna conoscere prima la Costituzione. Mi chiedo che senso abbia giurare altrimenti.

GIANNI FERRARA, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università


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La Sapienza di Roma. Evidentemente chi giura la conosce.

TOMMASO FROSINI, Ordinario di diritto pubblico comparato presso il dipartimento di scienze giuridiche dell'Università di Sassari. No, non la conosce, perché poi, in occasione del giuramento, viene contestualmente consegnata al nuovo cittadino copia della Costituzione della Repubblica italiana. Forse non è un passaggio particolarmente significativo, ma anche le questioni formali hanno rilevanza, soprattutto se si tratta di valori costituzionali, ovvero di quello che la dottrina tedesca chiamerebbe «patriottismo costituzionale», che non si acquisisce nel momento in cui in prefettura si giura e si riceve copia della Costituzione. Si potrebbe quindi disciplinare meglio con legge anche questo passaggio formale, visto che stiamo occupandoci di valori costituzionali della Repubblica italiana. Su questo, mi permetto di esprimere un piccolo richiamo procedurale, perché anche la tempistica non mi sembra coincidere con l'obiettivo di promuovere, attraverso una riforma della legge sulla cittadinanza, la condivisione dei valori.
Vorrei aggiungere un accenno al problema dell'interpretazione dell'articolo 1. Il nostro punto di riferimento sulla cittadinanza è la Costituzione, che si occupa di cittadini, di individui, di uomo, di varie categorie e anche del «popolo» nell'articolo 1, comma 2, stabilendo che: «La sovranità appartiene al popolo». Ci chiediamo se la ratio, la finalità di questo progetto di legge sulla cittadinanza sia integrare cittadini che diventerebbero italiani ma rimarrebbero comunque anche cittadini di un altro paese, oppure consentire loro di integrarsi nella misura in cui potrebbero diventare parte dello status di «popolo» e quindi detentori della sovranità. Ritengo che l'attribuzione al popolo della sovranità abbia un valore maggiore, perché ha poi una ricaduta sul piano dei diritti politici. Da questo punto di vista, quindi, il problema della cittadinanza andrebbe rafforzato nella sua procedura di acquisizione, in quanto momento in cui si configura un'identità di popolo, laddove essere cittadino comporta acquisire diritti - ovvero, come diceva il Presidente Warren della Corte suprema, la cittadinanza è «The right to have the rights», il diritto di avere diritti - ma anche diventare parte di un popolo e quindi partecipare alle sue scelte politiche. Grazie.

PRESIDENTE. La ringrazio. Do la parola al rappresentante della Conferenza episcopale italiana, Gian Romano Gnesotto.

GIAN ROMANO GNESOTTO, Rappresentante della Conferenza episcopale italiana. Onorevole presidente, mi permetta anzitutto una considerazione di carattere generale. Il successo delle politiche di immigrazione dipende dall'attuazione di strategie finalizzate al conseguimento dei diritti di cittadinanza sociali e politici dei migranti. La loro piena ed effettiva integrazione riguarda la coesione sociale.
In tal senso, il testo unificato elaborato dal Comitato per le modifiche «Nuove norme sulla cittadinanza» si fonda su due aspetti condivisibili, la concezione della cittadinanza come strumento volto a favorire l'integrazione - anche attingendo all'esperienza di altri paesi europei, e ferma restando la distinzione tra disciplina della cittadinanza e politiche di integrazione - e come atto di volontà individuale che, in presenza di determinate condizioni, impegni lo Stato.
È singolare che l'Italia con la legge del 1992 abbia aumentato e non ridotto il periodo di residenza richiesto, passando dai cinque ai dieci anni per i non comunitari rispetto alla disciplina previgente risalente al 1912. I dieci anni stabiliti dalla legislazione italiana e spagnola costituiscono infatti il limite massimo previsto dalla Convenzione europea sulla cittadinanza del 1997.
Prevedere, dunque, l'acquisto della cittadinanza dopo cinque anni significa adeguarsi agli standard internazionali ed esprimere un forte segnale di inclusione e di piena partecipazione sociale.


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Molti paesi europei hanno inoltre ridotto i tempi di attesa burocratica con pratiche più semplici e standardizzate sul territorio, cui si è aggiunta la riduzione della discrezionalità delle decisioni e competenze accentrate in organi in grado di decidere in fretta. È dunque importante stabilire procedure chiare, ragionevoli e rapide che garantiscano la naturalizzazione degli immigrati soggiornanti di lungo periodo e dei loro figli, abbattendo i tempi di un'istruttoria che, attualmente, richiede mediamente tre anni dalla presentazione della domanda in prefettura all'accettazione e al superamento di interpretazioni e applicazioni discrezionali.
La preminenza del principio dello ius sanguinis e l'eccezionalità del legame rappresentato dall'essere nati nel territorio italiano, affermati dalla disciplina vigente in tema di cittadinanza, di fatto comportano l'esclusione da un'immediata e piena integrazione degli immigrati nella comunità nazionale.
A fronte di un'immigrazione che presenta sempre più il carattere della stanzialità e di una crescente sensibilità verso i diritti dei minori, quasi tutti gli stati europei hanno introdotto o rafforzato l'elemento dello ius soli. Su tale specifico punto, nel corso della passata legislatura sono state presentate numerose proposte per riformare la legge n. 91 del 1992, tanto che finalmente i tempi sembrano essere maturi per il passaggio allo ius soli, che sana l'incertezza per i figli degli immigrati di risiedere in Italia una volta raggiunta la maggiore età.
Per quanto riguarda la doppia cittadinanza, con il decreto ministeriale del 22 novembre 1994 la rinuncia della cittadinanza originaria veniva posta come condizione per la naturalizzazione. Essa però costituisce non solo un taglio doloroso del legame con le proprie radici, ma può comportare conseguenze rilevanti anche sul piano giuridico riguardanti la sfera familiare, personale e patrimoniale dell'immigrato.
Opportunamente, con il decreto del Ministero dell'interno del 2004, «Nuove norme sulla cittadinanza», è stato abrogato il punto 3 del citato decreto ministeriale del 1994. In linea di continuità, l'articolo 11-bis, in cui si afferma che ai fini della cittadinanza non è richiesta la rinuncia della cittadinanza straniera, è opportuno perché rappresenta una formula di tutela dell'identità composita dei migranti.
Altre soluzioni implicherebbero che l'Italia giustificasse una società a 2 livelli, come nell'Atene del V secolo a.C. dove i meteci erano esclusi dai privilegi connessi con il diritto di cittadinanza, scelta che contrasterebbe con i nostri valori fondamentali.
Con riferimento all'inscindibilità tra diritti e doveri, risulta corretto che chi intende diventare cittadino italiano intraprenda un percorso di cittadinanza, che imponga come requisiti il sufficiente possesso della lingua e della cultura italiana e la sottoscrizione della Carta costituzionale.
Si tratta di acquisire e consolidare un insieme di valori che appartiene alla tradizione occidentale, quali, ad esempio, il senso della democrazia e la parità di genere.
Per garantire tali condizioni, diventeranno importanti percorsi non solo di pubblicizzazione, ma di advocacy e di educazione civica promossi a livello territoriale.
In questo quadro, la riduzione dei tempi necessari per ottenere la cittadinanza si sostanzia anche attraverso la partecipazione politica con il diritto al voto, che diventa espressione e ulteriore incentivo per un progressivo percorso di inclusione nel territorio italiano.
La capacità dell'Italia di gestire l'immigrazione e garantire l'integrazione dei migranti avrà enorme influenza sulla possibilità di governare la trasformazione economica e rafforzare la coesione sociale nel breve e nel lungo periodo.

PRESIDENTE. Do, quindi, la parola al professor Angiolini.

VITTORIO ANGIOLINI. Ordinario di diritto costituzionale della facoltà di giurisprudenza


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dell'Università di Milano. Ritengo prioritario esprimere la mia condivisione delle premesse culturali e dell'impostazione che emergono dal testo unificato.
Dai costituzionalisti finora intervenuti, mi sembra di riscontrare un consenso su come la nostra Costituzione richiami un concetto di cittadinanza civica, in base al quale cittadini sono coloro che partecipano effettivamente alla vita culturale, sociale e politica del paese, concetto che non mi pare possa essere modificato dal richiamo ai doveri. Come la cittadinanza non è stata ritenuta decisiva per impedire l'estensione di diritti, non lo è neppure per impedire l'estensione di doveri. In campo fiscale è così da sempre e ricordo come nella sentenza n. 172 del 1999 la Corte costituzionale abbia esteso agli apolidi - non ai cittadini stranieri - l'obbligo del servizio militare.
Ritengo dunque necessario essere coerenti rispetto a questa concezione e doveroso intervenire sulla legge del 1992, che è invecchiata precocemente in quanto aggiornamento di quella del 1912. Essa non ha quindi considerato come l'Italia sia diventata un paese di immigrazione, aspetto di cui ora si è consapevoli, così come della serie di conseguenze tra cui il ricorso al criterio dello ius loci combinato a quello dello ius sanguinis. Lo ius sanguinis, infatti, era nella legge sulla cittadinanza italiana non perché la concezione italiana della cittadinanza fosse di tipo etnico-territoriale - l'impasto di terra e di sangue di certa dottrina tedesca -, bensì perché l'Italia era un paese di emigranti.
Vorrei rapidamente considerare alcuni punti fondamentali non solo nel testo unificato, ma anche nel dibattito che l'ha preceduto. L'idea della cittadinanza civica ovvero inserimento sociale e culturale evoca il problema delle prove di tale inserimento, ma è necessario non spingere queste prove oltre la conoscenza sufficiente della lingua italiana e di alcuni elementi che connotano l'Italia, tra cui la Costituzione. Vorrei sottolineare al professor Frosoni come gli stranieri giurino non di conoscere la Costituzione, ma di osservarla.
Comunque, al di là di questa polemica, considero difficile esulare da questo, se non richiamandosi a un'esigenza di omogeneità culturale di impossibile realizzazione, perché non esiste più nemmeno in Italia. Nel dibattere di multiculturalismo, infatti, si tralascia di rilevare come le stesse società nazionali diventino multiculturali e il problema non sia più costituito esclusivamente da un intervento esterno. Chi riceve la cittadinanza italiana deve dar prova del rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione italiana, che devono essere osservati. Tale problema esiste anche per i cittadini italiani, perché, quando si è trattato di minori figli dei testimoni di Geova, la stessa Corte costituzionale ha decretato come si trattasse del diritto fondamentale alla salute e come il genitore non potesse sostituirsi al figlio.
Problemi di questo tipo esistono. È quindi necessario intervenire alla radice e ritenere ostativi all'acquisto della cittadinanza comportamenti assunti in violazione di diritti fondamentali naturalmente accertati nelle debite forme, ovvero dal giudice.
Questo aspetto è molto complicato, perché laddove per la sicurezza si può far riferimento a categorie di reati, per la tutela della persona nella lesione dei diritti fondamentali risulta più complesso, sia per l'intervento di una cospicua legislazione anche penale sul tema, sia per l'impostazione del nostro codice penale su questo punto.
Ritengo però possibile individuare una formula, senza pretendere di educarli tanto da renderli immacolati per diventare cittadini italiani, come i cittadini italiani non sono tenuti ad essere e non sono.
Si rileva il problema della strumentalità rispetto al diritto di voto. Poiché sostengo la tesi secondo cui l'articolo 48 consentirebbe l'estensione con legge ordinaria del diritto di voto, non raccolgo la provocazione del dottor Frosini se non per un aspetto. Se questa legge serve anche a ricondurre a ragionevolezza, più di quanto


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lo sia oggi, il nostro ordinamento sul punto, ben venga, nonostante questo retropensiero sul diritto di voto. Da questo punto di vista, citare il tema degli italiani all'estero è francamente temerario. Abbiamo oggi un ordinamento in cui una persona straniera, che da anni soggiorni in Italia e che magari non acquisti la cittadinanza solo per un problema di appartenenza ad un ordinamento molto severo sulla doppia cittadinanza, può non votare mai, e in cui una persona che è nata e vissuta in Argentina - che non ha mai visto l'Italia ed ha solo delle ascendenze italiane - non solo vota per il Parlamento, ma vota a domicilio.

PRESIDENTE. La pregherei di concludere con la sottrazione di cittadinanza complessiva.

VITTORIO ANGIOLINI. Ordinario di diritto costituzionale della facoltà di giurisprudenza dell'Università di Milano. Sì, chiudo questo argomento. Desidero aggiungere come non debba essere trascurato un altro aspetto della trasformazione della cittadinanza. Il relatore ha sottolineato come la cittadinanza sia un rapporto, e questo rappresenta già un progresso rispetto alle dottrine dello status, ma mi spingerei oltre, perché la cittadinanza oggi non è di per sé un diritto - anche se ci può essere un diritto alla cittadinanza - bensì un criterio selettivo ed obiettivo di accesso ad alcuni diritti che, come tale, deve essere ragionevolmente regolato. Il legame tra cittadinanza e sovranità in senso antico si è da tempo snaturato, basti pensare alla cittadinanza europea, a cui l'Unione ricollega determinati diritti senza poter fissare criteri di attribuzione della cittadinanza, aspetto fondamentale sul piano della trasformazione dell'istituto. È dunque necessario considerare che la cittadinanza comunque mantiene, come premessa al godimento di determinati diritti, il carattere di status che si acquisisce con continuità. Esiste una differenza fondamentale fra il permesso di soggiorno anche dei lungo soggiornanti e la cittadinanza, perché la cittadinanza si può perdere per ragioni che non si ricollegano alla perdita dei requisiti iniziali, bensì a situazioni subentrate, laddove, invece, i permessi di soggiorno si revocano quando si perdano i requisiti di concessione. Tale ragione risulta decisiva per eliminare la verifica del reddito, assolutamente ridicola come prova di inserimento sociale - oltre che irragionevole anche da un punto di vista costituzionale - perché si effettuerebbe una tantum, individuando il reddito in quel momento. Diversa è la valutazione, come per la carta di soggiorno e i lungo soggiornanti, tramite una verifica permanente del requisito. In realtà, anche in questo caso il requisito del reddito è discutibile, nonostante sia consentito e non imposto dalla direttiva comunitaria. Ritengo che qui sia assolutamente fuori quadro.
Vorrei sottolineare ulteriormente che, se la cittadinanza modernamente intesa è appunto una premessa al godimento di certi diritti da accordarsi a determinate condizioni, è necessario ridurre estremamente la discrezionalità. Questo testo compie molti progressi in questa direzione, ma forse andrebbe superato l'articolo 9 della legge del 1992, che fa riferimento alla concessione di tipo discrezionale. È stato già modificato, ma andrebbe superato, perché, se è premessa del godimento di certi diritti, mentre altri li godono a prescindere dalla cittadinanza - non si rinuncia a valutare la ragionevolezza della disciplina di chi è cittadino e di chi non lo è -, considero pericoloso ammettere un'ampia discrezionalità.
Sotto questo profilo, per quanto concerne la sicurezza, tema delicato e ineludibile in cui deve esistere un margine di discrezionalità, inviterei a riconsiderare il comma 2 dell'articolo 9: «Qualora risulti necessario acquisire ulteriori informazioni in ordine alla pericolosità per la sicurezza della Repubblica». Se non si richiede una comprovata necessità di richiedere ulteriori informazioni, questa diventa prassi comune solo perché consente il rinvio.
Ritengo fondamentale - aspetto su cui il testo compie un passo in avanti -, proprio in relazione alla riduzione della


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discrezionalità, ridurre i tempi del procedimento e renderli certi in legge, perché la prassi è disperante e, combinando la discrezionalità dell'amministrazione con la lunghezza del procedimento e la difficoltà di rimedi all'inerzia, si creano situazioni che si trascinano per anni.
Se la cittadinanza non è più l'espressione della soggezione al potere sovrano, deve essere abbandonato anche il tradizionale disfavore del diritto internazionale verso la cittadinanza, che la stessa convenzione del 1997 esprime in modo molto soft e prudente. Non condivido che la doppia cittadinanza possa essere un ostacolo, perché considero possibile essere compartecipi dei valori di più di una società, rispettando sempre le norme più che i valori della società, aspetto, però, da garantire distintamente.

PRESIDENTE. La ringrazio. Interrompiamo i lavori per una breve pausa.

La seduta, sospesa alle 11.05, è ripresa alle 12.05.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori; nel farlo, domando scusa per il ritardo. Sono davvero mortificato, ma la visita del vicepresidente del Bundestag si è protratta più a lungo di quanto non fosse prevedibile.
Do quindi la parola al professor Rossano.

CLAUDIO ROSSANO, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di economia e commercio dell'Università La Sapienza di Roma. Dagli interventi che mi hanno preceduto, mi convinco sempre di più che la cittadinanza sia, in effetti, un valore prima ancora di essere uno status di diritti e - aggiungo - di doveri. La cittadinanza, infatti, esprime l'appartenenza di un soggetto ad uno Stato, un'appartenenza di tipo politico, ovvero un'identità tra il cittadino e la comunità popolare nella quale egli opera: questa è la mia idea di cittadinanza. Condivido le considerazioni espresse precedentemente dal professor Lippolis, sulla distinzione tra la partecipazione del soggetto straniero - e non solo - alla vita sociale ed economica del paese, in quanto tale, nonché il godimento dei diritti fondamentali e, invece, la posizione che egli assume nel momento in cui diventa cittadino italiano, o di qualsiasi altro Stato. In questo caso, infatti, si hanno una partecipazione ed una integrazione, non dal punto di vista etnico nazionale - perché si può appartenere ad una nazionalità diversa, come noi sappiamo, ed essere cittadini di un determinato paese -, ma da quello politico, ovvero della coscienza di far parte di una comunità politica, che è ciò che identifica il cittadino rispetto a qualsiasi altro soggetto che abbia rapporti con una comunità statale. In Italia, il problema che oggi si pone, per quello che riguarda la cittadinanza, è il fatto politico, poiché, a seguito di convenzioni internazionali e dell'Unione europea, il godimento dei diritti fondamentali è assicurato a tutti, come, allo stesso modo, è assicurato a tutti il godimento dei diritti sociali. Infatti, colui il quale lavora in Italia e necessiti di prestazioni da parte dello Stato, perché in questo consistono i diritti sociali, ne trova a disposizione. Quindi, in effetti, la concessione della cittadinanza diventa un surplus rispetto al problema dell'inserimento del lavoratore e dello straniero nella comunità sociale ed economica del paese. Se è questo di più, mi sembrano calzanti le critiche mosse a quanti sostengono che non dovrebbe esserci un rapporto privilegiato di fedeltà verso la comunità di appartenenza. Nella nostra Costituzione questo, invece, è presente nell'articolo 54, che stabilisce l'obbligo della fedeltà alla Repubblica da parte del cittadino italiano: ciò incide, naturalmente, sul problema della doppia cittadinanza, che è vista con favore dal provvedimento, ma che in realtà dovrebbe essere vista con disfavore, poiché l'appartenenza di un soggetto ad una comunità politica dovrebbe comportare una restrizione, una diminuzione di eventuali legami con altre società politiche. La doppia cittadinanza - nel passato, proprio per evitare la rottura dei legami con il paese di appartenenza, c'è stata anche per i


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cittadini italiani che andavano all'estero - è un'eccezione rispetto all'idea della cittadinanza unica. Con questo non voglio dire che il progetto di legge dovrebbe vietare la doppia cittadinanza, ma certamente non favorirla, o comunque limitarla, per quanto possibile.
Quanto al problema dell'attribuzione della cittadinanza, così come si presenta in questo progetto di legge, mi permetto di formulare alcune valutazioni di carattere prettamente personale. Lo straniero, secondo l'articolo 1 del testo in esame, semplicemente per nascita, se è figlio di genitori stranieri, di cui almeno uno sia legalmente residente in Italia senza interruzione da almeno tre anni, diventa automaticamente cittadino italiano anche se la famiglia non ha nessuna intenzione di chiedere la cittadinanza italiana. Inoltre, anche se, nel corso degli anni, questo straniero, che ha acquisito automaticamente - perché di questo si tratta - la cittadinanza italiana, va all'estero e non ha nessun legame in Italia, può, dopo trent'anni, vantare la sua cittadinanza italiana e, se ha figli, essendo cittadino italiano, può trasmettere loro tale cittadinanza. Sottolineo quindi che, a seguito della norma dell'articolo 1, pur non avendo nessun legame con il paese, cioè con l'Italia, egli diventa cittadino italiano. Mi pare che questa norma sia troppo elastica e troppo aperta. Inoltre, essa, senza neppure considerare una espressione, in senso positivo, della volontà da parte di colui che nasce su suolo italiano, gli attribuisce la cittadinanza per il solo fatto di essere figlio di uno straniero che è legalmente in Italia da almeno tre anni, oppure che è nato in Italia, ove «legalmente risiede», definizione, quest'ultima, da chiarirsi in termini di tempo. Sulla base della norma, infatti, questo straniero, che si trova legalmente in Italia dalla nascita e non ha mai richiesto la cittadinanza italiana, per il solo fatto di essere nato in Italia, può trasmettere la cittadinanza italiana, che lui non ha, al figlio: trovo, in questo, una distorsione nel meccanismo dell'attribuzione della cittadinanza ius soli. La cosa strana è, infatti, che, eventualmente, lo straniero, residente in Italia, ha la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana per attribuzione.
Vi è un'altra norma che merita alcune considerazioni, ovvero l'articolo 4, come modificato dal provvedimento, in cui si prevede che il minore, figlio di genitori stranieri, di cui almeno uno residente legalmente in Italia, possa ottenere la cittadinanza su richiesta del genitore. In questo caso, il genitore chiede per il figlio la cittadinanza, poiché esso segue un corso scolastico, senza che lo stesso genitore la abbia ottenuta. Si avrebbe, dunque, una famiglia in cui vi sono il figlio minore, per il quale viene chiesta la cittadinanza e il genitore che non la chiede; si ha, così, un problema di rapporti familiari nel senso che, il genitore, ad esempio, può lasciare il figlio in Italia e andare all'estero. Sottolineo, pertanto, che, sulla base di questa norma, senza apportare ad essa correzioni e interventi, potrebbero determinarsi situazioni anche spiacevoli nei confronti di chi, come il figlio, acquisti la cittadinanza. Questa norma, forse, potrebbe essere richiamata nell'ipotesi di chi nasce in Italia, poiché, in questo caso, anziché l'attribuzione automatica della cittadinanza, si potrebbe prevedere un'attribuzione su iniziativa del genitore, il quale richiede, anche lui, la cittadinanza, mantenendo, in ogni caso, la dichiarazione di volontà confermativa - e non negativa, come invece previsto dall'articolo 1 - della cittadinanza medesima al raggiungimento della maggiore età. La cittadinanza si può attribuire - io credo - a chi nasce in territorio italiano o in altro Stato e, facendo parte di un'altra comunità di appartenenza ius sanguinis, conserva quell'appartenenza, ma questi, se vuole far parte dell'altra comunità, deve manifestare, al raggiungimento della maggiore età, una volontà in tal senso. D'altra parte, la nostra Corte costituzionale ha sempre battuto molto sulla manifestazione di volontà che, eventualmente, potrebbe anche essere considerata implicita dal fatto che, ad esempio, colui che è nato in territorio italiano, alla maggiore età, continua a conservare la residenza ed a lavorare in Italia, mostrandosi,


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in tal caso, perfettamente integrato. Sono convinto, comunque, che la manifestazione di volontà, dopo un certo periodo, al raggiungimento della maggiore età, dovrebbe sempre essere tenuta in considerazione per l'attribuzione a un cittadino straniero della cittadinanza definitiva, per il solo fatto che sia nato in Italia.
Mi rendo conto che, ormai, il problema dell'allargamento dell'ipotesi della cittadinanza agli stranieri deve essere affrontato, anche perché, come è stato detto, l'Italia non è più un paese di emigrazione ma di immigrazione, quindi lo ius sanguinis, come tale, non vale più e, di contro, deve essere preso in considerazione un collegamento con il suolo, ovvero lo ius soli.
Non vorrei, in questa audizione, affrontare tutte le singole norme, perché mi pare che, e su questo sono d'accordo con quanto affermato dal professor Lippolis, la modifica della legge sulla cittadinanza debba essere vista nel complesso. In questo senso, non è sufficiente, per l'attribuzione della cittadinanza, la diminuzione da dieci anni a cinque anni del tempo per il suo ottenimento, oppure i tre anni, secondo il primo comma, per chi nasce, su territorio dello Stato, da genitore residente; questi, cioè, non possono essere gli unici criteri da seguire, ma devono, piuttosto, essere affiancati da altri che dimostrino, effettivamente, l'appartenenza del soggetto alla comunità italiana. In Italia, ad esempio, abbiamo l'obbligo scolastico, che vale per tutti e non soltanto per il cittadino italiano. Se lo straniero è tenuto, nel momento in cui risiede in Italia, ad assolvere tale obbligo, nel senso che i genitori devono assolverlo nei confronti del figlio, cittadino straniero, quando questi vive in Italia, allora, proprio perché ormai abbiamo anche un problema di partecipazione sociale alla vita del paese, l'assolvimento dell'obbligo scolastico, insieme alla conoscenza della cultura italiana, può essere considerato un criterio. Specifico che, quando parlo della lingua italiana e della cultura ovvero del problema culturale - e non dobbiamo pensare ad un criterio di cultura del tipo elementare, media, o alta -, faccio riferimento ad un problema di conoscenza dell'ordinamento e, soprattutto, di conoscenza dei valori e dei principi su cui si fonda l'ordinamento e di accettazione di tali valori e principi, a prescindere dalla nazionalità, dall'etnia e dalla religione di appartenenza. Quale che sia la religione di appartenenza, l'etnia, o i valori di nazionalità del soggetto, questi, nel momento in cui si integra politicamente nell'ordinamento italiano, deve accettarne anche i principi. In tale contesto, si pone anche il problema dell'impedimento all'acquisto della cittadinanza. Credo, infatti, che, in tale ambito, forse, si pongano i casi in cui è possibile perdere la cittadinanza; e questo va, inoltre, collegato con il problema della doppia cittadinanza. Il cittadino italiano può perdere la cittadinanza nei casi previsti, mi pare, dall'articolo 11 e 12 dell'attuale legge che, su questi punti, non viene variata dal progetto di modifica della legge intervenuta in materia.
Credo che le cause di cessazione e di revoca della cittadinanza italiana dovrebbero essere altrettante cause di impedimento all'acquisto della cittadinanza stessa. In altri termini, lo straniero, che è nato in Italia e potrebbe, per lo ius soli, con una manifestazione di volontà, acquisire la cittadinanza italiana ma che, contemporaneamente, mantiene la sua cittadinanza di origine, esplica il servizio militare e acquisisce un impiego pubblico nel proprio paese di origine, si trova di fronte ad un impedimento, poiché la causa di revoca della cittadinanza non può essere soltanto una causa di revoca nei confronti di chi già lo è, ma deve valere, contestualmente, anche come causa di impedimento all'acquisto per chi potrebbe averne diritto sulla base dello ius soli.
Quanto al problema del reddito, condivido quanto detto da chi ha sostenuto che esso non dovrebbe valere, poiché si tratterebbe di una discriminazione: in effetti, il problema del reddito viene già valutato nel momento in cui si ha il permesso di soggiorno di lungo periodo. Questo, quindi, non è un problema. Il problema, invece, è se cause di impedimento possano essere soltanto quelle della


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sicurezza pubblica e quelle legate all'aver commesso dei delitti - indicati nell'articolo previsto nel progetto - o se si debba pensare, invece, più che alla sicurezza pubblica, che è un minus, all'ordine pubblico più in generale. Nel senso che per colui che vuole diventare cittadino italiano, vi è anche un principio di ordine pubblico inteso come quel complesso di principi caratterizzanti l'ordinamento giuridico italiano, cioè i valori su cui si fonda la Costituzione e l'ordine italiano in generale, che è già di impedimento - noto - all'ingresso in Italia di legislazioni straniere quando queste siano in contrasto con esso. Anche qui, quindi, quella norma sulla sicurezza in quanto tale credo sia abbastanza restrittiva, mentre l'ordine pubblico, tra l'altro, impedisce anche, se non erro, la possibilità di concedere il permesso di soggiorno di lungo periodo al lavoratore straniero.
Questi profili e questi aspetti, a mio avviso, dovrebbero essere presi in considerazione nell'ambito di un quadro complessivo in cui - pur volendo consentire e facilitare, da parte di chi risiede o di chi è nato su suolo italiano, la possibilità dell'acquisto della cittadinanza - i medesimi non costituiscano, comunque, gli estremi per un'apertura facile, senza controllo e senza identificazione della reale volontà, da parte dello straniero che aspiri a diventare cittadino italiano, di far parte della comunità politica italiana.

FRANCESCO SAVERIO MARINI, Ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma. Ringrazio lei, presidente, e la Commissione dell'invito che mi è stato rivolto. Sarò estremamente sintetico, avendo provveduto a depositare, presso la Commissione, un elaborato scritto nel quale ho analizzato, in modo specifico, alcuni articoli della proposta di legge. Mi limiterò, dunque, nel corso di questa audizione, ad alcune annotazioni di carattere generale.
Per una valutazione della proposta occorre, ovviamente, determinare, in primo luogo, il parametro di giudizio: non mi soffermerò sulla nozione e sugli effetti della cittadinanza perché autorevoli colleghi hanno già chiarito tale aspetto. Al riguardo, mi limiterò solo ad aggiungere che la disciplina della concessione della cittadinanza, sulla base della residenza, sembra da configurare come un mezzo giuridico inteso a realizzare l'integrazione degli immigrati. Tale integrazione - e qui sono d'accordo con il collega Lippolis - dovrebbe realizzarsi, sulla base della nostra Costituzione, anzitutto, attraverso un processo di condivisione, o quanto meno di rispetto, da parte del neo-cittadino, dei valori giuridici, sociali e culturali propri della nostra comunità nazionale.
Del resto, in diverse norme costituzionali, dall'articolo sulla bandiera a quello sull'unità e indivisibilità dell'Italia fino a quello sul patrimonio storico-artistico della nazione - e si potrebbe continuare - si riscontra la tutela dei fattori della nazionalità italiana. Rispetto a tale obiettivo, ossia l'integrazione per condivisione dei valori italiani, l'attribuzione della cittadinanza e la definizione dei requisiti per la concessione rappresentano aspetti, seppur qualificanti, di natura meramente strumentale. Nella proposta in esame, non sembra emergere tale nesso di strumentalità, limitandosi essa a rendere più agevole l'ottenimento della cittadinanza, senza però prevedere mezzi adeguati a garantire l'effettiva integrazione del neo-cittadino. In questo senso, appare debole, infatti, la previsione sulla conoscenza della lingua italiana equivalente al terzo anno della scuola primaria, come anche quella del giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, di cui già si è parlato, che rischia di essere una mera formula di rito.
Prendendo spunto da soluzioni sperimentate in altri Stati, si potrebbero allora formulare, in relazione al tema della concessione della cittadinanza, ipotesi di maggiore impatto e radicare territorialmente lo straniero. In proposito, in luogo della mera attestazione della conoscenza della lingua italiana, si potrebbe introdurre un test di conoscenza che andrebbe esteso, oltre che ai rudimenti della lingua italiana, anche alla cultura italiana e, soprattutto,


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ai diritti e ai doveri propri dei cittadini. In alternativa, o in aggiunta alla previsione dei test, si potrebbe introdurre, sulla base del modello tedesco, anche la previsione di corsi di integrazione o di formazione: posso testimoniare che a tali corsi gli immigrati sono molto interessati, come ho avuto modo di constatare nell'ambito di un corso tenutosi presso la mia università, l'università di Tor Vergata, e finanziato dalla regione Lazio, cui gli immigrati hanno partecipato con moltissimo interesse. Ritengo, quindi, che tali corsi andrebbero istituzionalizzati rappresentando, forse, uno dei mezzi migliori per realizzare l'integrazione degli aspiranti neo-cittadini.
L'altro punto che meriterebbe una riflessione, e l'abbiamo sentito, è quello che riguarda la doppia cittadinanza. A livello di diritto comparato, vi sono alcuni paesi che, almeno in linea di principio e salvo alcune eccezioni, impongono, al neo-cittadino, la rinuncia alla cittadinanza d'origine. Sotto questo profilo, concordo con chi mi ha preceduto, il professor Lippolis, il professor Frosini ed il professor Rossano, sul fatto che questa seconda soluzione implichi una volontà piena da parte dello straniero che aspiri alla nostra cittadinanza e, soprattutto, implichi la volontà di integrarsi nel nostro paese, quindi, ritengo che essa rappresenti la scelta, forse, preferibile. Ciò non toglie che la doppia cittadinanza possa essere ammessa, in presenza di valori giuridici meritevoli di tutela, ad esempio nel caso di coppie sposate, come accade nella Repubblica Ceca, o per i cittadini di uno stato membro dell'Unione europea, come accade, a condizioni di reciprocità, in Germania.
Un diverso aspetto, cui occorre prestare attenzione, riguarda l'articolo 1 della proposta di legge. Il criterio dello ius soli è rafforzato, in questo articolo, da fattori come la residenza del genitore o il doppio ius soli, che dovrebbero assicurare un minimo di radicamento e la connessa integrazione dello straniero nel territorio della Repubblica. Il rischio di comportamenti elusivi, cioè di persone che poi, in verità, risiedono all'estero, consigliano di condizionare la concessione, ai fini dell'integrazione, ad un minimo di residenza da parte dell'aspirante cittadino.
Sotto il profilo infine della tecnica redazionale - rinviando, ancora una volta, relativamente ai singoli articoli, ad osservazioni scritte -, può notarsi che la proposta in discussione, non solo non sana i difetti ma, forse, aggrava alcune sovrapposizioni concettuali. Mi riferisco, in particolare, alla duplicazione procedimentale per l'attribuzione del diritto di cittadinanza. In questo senso, a me non convince, lo dico subito, la differenziazione fra concessione ed attribuzione, perché ritengo che anche l'attribuzione - se pure vi è meno discrezionalità - sia, comunque, un procedimento di concessione, ovvero la natura giuridica dell'atto è la stessa, dal momento che quello che cambia è la forma, nel senso che, in un caso, vi è il decreto del ministro dell'interno e, nell'altro, quello del Presidente della Repubblica su proposta del ministro medesimo. Questo, a mio avviso, non risponde ad esigenze di natura sostanziale, né di natura organizzativa e, quindi, per ragioni di semplificazione, andrebbe forse unificato il procedimento. Se vi sono delle ipotesi in cui manca del tutto la discrezionalità, il riconoscimento non dovrebbe passare attraverso un decreto, ma dovrebbe rientrare nella categoria del riconoscimento ex lege. Il problema, da un punto di vista procedimentale, è semmai un altro, e lo abbiamo sentito, ovvero quello di ridurre i tempi dei procedimenti di concessione, che sono troppo lunghi e che aumentano di gran lunga il termine previsto dalla legge.

PAOLO MOROZZO DELLA ROCCA, Rappresentante dell'ufficio legale della Comunità di Sant'Egidio. Come Comunità di Sant'Egidio, abbiamo già avuto occasione, e lo vorrei ribadire oggi, di esprimere il nostro favore per questo testo unico di riforma in materia di cittadinanza: il nostro favore prende motivo da una ragione di fondo, ovvero la necessaria connessione tra cittadinanza sociale, ovvero civica e cittadinanza politica.


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Credo che un paese, dove ci sia una troppo grande sfasatura tra cittadinanza civica e cittadinanza politica, sia un paese che rischia in termini assoluti di funzionamento della democrazia. In questo senso, mi sembra che il disegno di legge contenga, in sé, una giusta opzione culturale. Vorrei anche sottolineare - prima di dire poche cose e non abusare troppo del tempo concessomi - che condivido l'idea che la cittadinanza dovrebbe essere in sé ridotta - rispetto all'alternativa cittadino o straniero - all'esercizio dei soli diritti politici. Credo, però, che oggi - per quanto questo rappresenti, in prospettiva a venire, la giusta misura della differenza - non sia così. Fa parte, infatti, del nostro cassetto dei sogni il fatto che la differenza, tra cittadino e straniero, risieda solo nell'esercizio dei diritti politici e, in particolare, del diritto di voto, poiché, purtroppo, la differenza è anche altro, e temo che si manterrà ancora per molto tempo. Dico questo per dare una valutazione di concretezza, a chiosa di un discorso teoricamente anche giusto, ma che non ritengo inverato nella nostra realtà.
La cittadinanza è, certamente, in molti casi e in primo luogo, esercizio di un atto di volontà profonda, solenne e consapevole, ma bisogna anche distinguere le diverse situazioni. La cittadinanza è, anche, una fattispecie, in formazione progressiva, esistenzialmente e culturalmente. Credo, ad esempio, che, nel caso di un bambino arrivato in Italia all'età di due anni e che a dieci o dodici tifi per una certa squadra, mangi in un certo modo, frequenti tutte le settimane certi amici e viva e si formi in una cultura, sia irrealistico dire che egli non rappresenti, nella sua esperienza esistenziale, un cittadino. Certo, il discorso dell'opzione di volontà nei termini dell'esercizio del diritto soggettivo è importante e va salvaguardata, ma il disegno di legge salvaguarda questo aspetto con la possibilità di rinunciare alla cittadinanza italiana successivamente al compimento della maggiore età.
Ultimo punto su cui vorrei soffermarmi, anche perché mi sento sollecitato dai precedenti discorsi, riguarda la doppia cittadinanza: sono tendenzialmente scettico sull'idea di affermare l'obbligo di rinuncia alla seconda cittadinanza. Mi sembra, in realtà, che l'orientamento prevalente sia quello di assecondare e rendere possibile il mantenimento della doppia cittadinanza, perché questo corrisponde, all'incirca, ad un mutamento globale del nostro sistema planetario, in termini di mobilità e molteplicità di esperienze culturali che una persona vive, soggettivamente, nel corso della propria vita e che non creano, sempre o necessariamente, ma casomai eccezionalmente, una contrapposizione tra due identità nazionali. Se passasse questa linea, che mi lascia scettico, si porrebbe un problema di applicazione del principio di eguaglianza, poiché l'obbligo di rinunciare alla doppia cittadinanza dovrebbe valere anche per il signor Joe Cannizzaro, pronipote cittadino italiano, che vive a Montreal e che, ovviamente, avrebbe, a maggior ragione, lo stesso problema, essendosi recato in Italia due volte e avendo ordinando, come fanno i turisti giapponesi, gli spaghetti insieme al cappuccino (e non dico questo per sopravvalutare la cucina quale elemento di identità nazionale).
È vero che i dati Istat non vanno molto di moda e che, soprattutto a livello giornalistico, si preferisce utilizzare altri dati, ma vorrei fornirvene alcuni poiché li considero affidabili, perlomeno su certi elementi verificabili proceduralmente. Al primo gennaio 2006, in Italia, si avevano 2 milioni e 670 mila stranieri residenti (sono gli stranieri residenti quelli che ci pongono il problema dell'acquisto della cittadinanza e, quindi, questo è un dato certo ed inequivocabile): di questi, circa 500 mila sono cittadini comunitari e quindi, a mio parere, non interessano, poiché non incidono, in modo qualitativo e significativo, sul problema che ci poniamo oggi. Si tratta, pertanto, di una popolazione ridotta, soprattutto con riferimento alla popolazione adulta. Dico ciò per smentire l'idea dei circa 3 milioni e mezzo di soggetti adulti che potrebbero, dopodomani, acquisire la cittadinanza per naturalizzazione. Di questi due milioni e poco


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più di cittadini stranieri, in realtà, circa un quarto sono minori: si parla, sempre sulla base dei dati Istat, di 585 mila minori regolarmente residenti in Italia. Di questi minori, circa 350 mila sono propriamente nati in Italia.
Voglio ribadire che i minori stranieri nati in Italia sono 350 mila, per evidenziare anche che, a nostro parere, l'elemento strategico è, certo, la cittadinanza per naturalizzazione degli adulti, ma ancora di più lo è quella per i minori stranieri, che rappresentano una fetta importante sia dell'immigrazione sia dei cittadini che, di fatto, saranno i cittadini italiani di domani. Essi, per la società italiana, rappresentano o una bomba ad orologeria (poiché chi nasce in Italia non sarà mai espulso, in via amministrativa, dal nostro paese, ma sarà, comunque, un nostro concittadino di fatto, con cui convivremo, sempre, anche senza renderlo cittadino italiano), oppure una chance di crescita, seria ed importante, del paese. In questo campo, la scelta, a mio parere, non è negoziabile; al limite, vi sono più margini di negoziabilità sulla fascia adulta, ma, ribadisco, sull'acquisto della cittadinanza da parte dei minori, vi è una fascia etica assolutamente di non negoziabilità.
Vorrei, ora, commentare tre punti, in dettaglio, della legge. Il primo punto riguarda l'utilizzo - come periodo probatorio, cioè come periodo di residenza in Italia, necessario quale predizione di effettivo inserimento del futuro cittadino e, secondo le fattispecie, variabile - di un periodo che, come è stato già giustamente sottolineato, fa riferimento all'essere legalmente residenti. Vorrei sottolineare che la dizione di «legalmente residente» è ambigua e, a mio avviso, pericolosa, perché è una formula che non ha precisione in sé e che può essere letta in vari modi, tra cui, più frequentemente, come «residenza anagrafica». La residenza anagrafica, però, ubbidisce a regole e discipline che oggi, e non solo da oggi, vivono una seria sofferenza applicativa, soprattutto nelle grandi metropoli, dove le strutture degli uffici anagrafici non permettono il controllo puntuale sul territorio, tanto che, da alcuni decenni, tutte le funzioni anagrafiche nelle metropoli, in luogo dell'accertamento, di fatto, della residenza, utilizzano, in via di soccorso, l'esibizione di certificazione impropria, dimostrativa e sintomatica, della presenza; questa, però, contiene delle rigidità e rende impervio, più difficile e più lungo l'acquisto della residenza anagrafica da parte di una persona che, di fatto, è già da tempo legalmente soggiornante in Italia. A tutto ciò si aggiunge anche il problema delle distonie di tipo ortografico. È una sciocchezza, ma una «Olesia» che viene dall'Ucraina può avere, dopo averlo chiesto al suo arrivo in Italia, il permesso di soggiorno e impiegare tre anni per riuscire a far combaciare tutti i dati ortografici e avere, così, la residenza. L'idea di un periodo probatorio, giustissima, al di là della quantificazione temporale - cinque, sei, sette, due o un anno -, pone il problema che tale periodo sia certo, generale e di facile applicazione. E, in tal senso, la cosa più semplice è riferirsi alla continuità del soggiorno legale in Italia, che è cosa diversa dalla residenza anagrafica, anche perché la cittadinanza è uno status nazionale, che non serve ad identificare l'appartenenza di uno specifico straniero al comune, ad esempio, di Ostia, ma a certificare la presenza continuativa dello straniero, in termini produttivi e di partecipazione civile, nel nostro tessuto che, quando si parla di uno status nazionale, è nazionale.
Il secondo punto, che vorrei sottolineare, riguarda l'attribuzione di cittadinanza al minore straniero che ha percorso un ciclo scolastico in Italia e che possiede un periodo di regolare soggiorno (spero che si intenda regolare soggiorno, non residenza). In questo ambito, credo che andrebbe valutato il caso di quei minori che non terminano il ciclo scolastico al diciottesimo anno, ma al diciannovesimo o al ventesimo. Questo, infatti, dipende dal fatto che molti minori stranieri non vengono inseriti, nella scuola italiana, nella loro classe di età, poiché ciò è pericoloso, in termini didattici, per la loro formazione, dato che soffrono un dislivello linguistico superabile solo dopo uno, due o


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tre anni. Essi, dunque, vengono spesso inseriti in una classe inferiore, con il conseguente rischio di tagliare fuori liceali che terminano la scuola a 19 anni. Pertanto, credo che questa norma, giustissima nel pensiero, andrebbe tecnicamente riformulata, immaginando una traslazione di due anni, al termine dei quali considerare il compimento del ciclo scolastico e i cinque anni pregressi (cinque o quanti saranno) di regolare soggiorno.
Il terzo punto su cui desidero fare alcune precisazioni riguarda, nell'ambito del testo Bressa, l'introduzione dell'articolo 5-bis alla legge del 1992 che è, mi sembra, quello relativo ai casi di cittadinanza per attribuzione, compreso quello di cui ho appena parlato. Inserirei, qui, un'altra previsione, legata al rapporto di genitorialità col cittadino italiano: anche questo - ripeto una cosa che mi sembra abbia detto il professor Bonetti - esiste effettivamente ed è un caso ricorrente; basti pensare, ad esempio, a molte donne che hanno un figlio con un cittadino italiano, ma per le quali non sempre tale rapporto di procreazione è custodito da un regime di convivenza coniugale. Credo che il rapporto di procreazione, la genitorialità responsabile, debba avere una valenza di per sé, valenza, mi preme specificare, di grande rilevanza costituzionale. La donna o l'uomo, che si sono occupati di un cittadino italiano minore, hanno diritto, se non ad una cittadinanza di diritto in senso stretto, forse ad un percorso, facilitato e privilegiato, di acquisto della cittadinanza, proprio sulla base di questo indice, piuttosto significativo, di essere genitori, non decaduti dalla potestà, di un cittadino italiano. Proporremmo, quindi, anche questo, inserendo eventualmente, come requisito probatorio, rispetto al momento dell'acquisto della cittadinanza, un periodo di soggiorno legale da parte del genitore di cittadino italiano - noi immaginavamo tre anni, ma lascio, a chi più di me deve ragionare su questo, la decisione dei termini quantitativi.
Vorremmo esprimere anche il nostro favore per la norma introdotta dall'articolo 9 che, a nostro avviso, sembra essere una norma significativa, ovvero quella che riguarda, sostanzialmente, i minori apolidi come fattispecie più frequente, i quali condividono con gli altri minori la stessa situazione, cioè l'aver frequentato, per intero, un ciclo scolastico ed essere quindi, di fatto, inseriti nella società italiana. Sappiamo che le problematiche dell'apolidia relativamente alla cittadinanza inducono a una certa irregolarità che si sana, spesso o quasi sempre, nel tempo; credo, quindi, che l'aver previsto un canale concessorio, e quindi lasciato anche alla prudenza valutativa dell'amministrazione che sarebbe - immagino -, come sempre in questi casi, il Ministero dell'interno, sia una norma oculata e saggia. Vorremmo, pertanto, manifestare, anche su questo, la nostra forte approvazione.
Se ho ancora del tempo, vorrei aggiungere due ultime riflessioni. Quanto alla prima, sarò forse troppo pessimista, ma credo che, oggi, in Italia, solo i ragazzi sotto i 16 anni credano ancora che, quando la legge prevede, per un procedimento, tempi certi, questi siano effettivamente tali. I tempi certi, in un procedimento, si fanno in base alle disponibilità di organico dell'amministrazione procedente o, in termini disciplinari più duri, quando la violazione dei tempi è sanzionata severamente nei confronti del funzionario inadempiente. Quindi, poiché non saranno i tempi ordinatori a dar certezza di quelli procedimentali, proporrei che, soprattutto in materia di acquisto della cittadinanza, valga il più saggio principio di civiltà giuridica, secondo cui il diritto da valutare deve essere considerato con riferimento al momento della domanda e non al momento della emissione del provvedimento concessorio o costitutivo o attributivo del diritto; diversamente, rischiamo di aggiungere ai tempi di legge un tempo aleatorio e indeterminato durante il quale, effettivamente, maturano i diritti. Non dico ciò solo rispetto alla riforma dell'articolo sulla cittadinanza per matrimonio, ma lo pongo quale regola generale valida in ogni procedimento amministrativo; e infatti penso, in particolare, ai procedimenti per i rinnovi dei soggiorni e a tutti


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gli altri che riguardano gli stranieri, ma che, in realtà, riguardano tutti, stranieri e cittadini italiani.
Infine, quanto alla seconda riflessione, sono anch'io convinto che gli stranieri abbiano una grande aspirazione di formazione culturale. Come comunità di Sant'Egidio, noi siamo molto impegnati su questo fronte e, anch'io, come il professor Francesco Saverio Marini, ho sperimentato che, quando si propone agli stranieri un corso di formazione, questi vi aderiscono. Per gli adulti, i veri problemi, in genere, sono legati alla rigidità degli orari formativi, soprattutto per chi lavora e ha liberi due giorni a settimana. Credo, dunque, che nel momento in cui dobbiamo valutare l'inserimento dello straniero, non dobbiamo porci in termini valutativi di esame, anche perché questo è scarsamente predittivo dell'effettivo inserimento, ma dobbiamo porci, semmai, un problema di formazione che è un problema drammatico relativo anche ai giovani italiani: il giorno in cui chiediamo l'esame sulla Costituzione ad un giovane straniero, rischiamo di scoprire che, se lui ne sa quanto un giovane italiano, non supererà l'esame ma questo, forse, è un problema anche per i giovani italiani.

LILIANA OCMIN, Rappresentante dell'associazione nazionale Oltre le frontiere. Vorrei, innanzitutto, ringraziare la Commissione per l'occasione di poter intervenire in una sede istituzionale di tale prestigio e di tale importanza, su un tema che penso stia a cuore a molti stranieri e a molti immigrati. Chi vi parla è la responsabile nazionale del coordinamento donne immigrate e degli studenti universitari dell'ANOLF. L'ANOLF è un'associazione presente a livello nazionale, da anni impegnata, in particolare io personalmente, nelle pratiche di cittadinanza. Badate bene che la legge in discussione, su cui è stata presentata questa proposta di modifica, ha offerto, ad oggi, veramente con il contagocce, le possibilità di concessione della cittadinanza agli aventi diritto. E questo vale soprattutto per alcune particolari fasce, poiché lo spazio di discrezionalità, che tanto penalizza, è limitato da questi parametri rigidi per cui, per alcune migliaia di euro che i soggetti interessati non possono dimostrare, viene negato un diritto. Quando la domanda di concessione di cittadinanza viene rigettata per via, appunto, della scarsità o della carenza di mezzi di sostentamento, è frustrante dover dire alle persone che non possono diventare cittadini italiani perché manca loro proprio questo requisito.
Abbiamo elaborato un documento dove chiediamo, in particolare - sarò molto succinta su questo, anche perché le motivazioni degli autorevoli professori che mi hanno preceduta, ovviamente, ne hanno già data vasta motivazione - alcune modifiche che passerò ad illustrare.
Per quanto riguarda l'attribuzione della cittadinanza per nascita, chiediamo che all'articolo 1, comma 1, lettera c) si sostituiscano, quanto alla residenza legale, le parole «senza interruzioni» con le parole «anche cumulabili». E questo perché il riferimento ai tre anni di residenza senza interruzione è un parametro rigido, a causa del quale si può andare incontro al fatto che venga penalizzata - negandole il diritto alla cittadinanza - la persona, ovvero l'immigrato che potrebbe allontanarsi dal territorio italiano, indipendentemente dalla propria volontà, per un certo periodo di tempo, a causa di problemi familiari, di salute e quant'altro.
Quanto al matrimonio, al comma 1 dell'articolo 5, chiediamo che vengano aggiunte due eccezioni. Il primo intervento consiste nell'aggiungere, dopo le parole «risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica», le parole «salvo che dal matrimonio sia nata prole». In questo caso la residenza legale richiesta potrà essere quella di sei mesi, oppure dopo tre anni se è all'estero. La seconda correzione consiste nell'aggiungere al comma 1 dello stesso articolo, dopo le parole «non sussista separazione dei coniugi», le parole «ad eccezione dei casi in cui dal matrimonio sia nata prole». Quanto alla motivazione di tale integrazione, faccio riferimento ai dati forniti dall'onorevole Bressa il 26 settembre 2006,


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secondo cui le concessioni di cittadinanza sono salite a 19.226 per il 2005, di cui 11.854 per matrimonio e 7.412 per residenza. A questo dato ne aggiungiamo un altro: da recenti pubblicazioni, infatti, si evince che il 70 per cento di tali domande sono, sostanzialmente, presentate da donne straniere coniugate con cittadini italiani. Facciamo, quindi, riferimento alla prole, proprio per concedere un trattamento di parità, perché, naturalmente, il fatto di essere costretta a vincolarsi alla dimostrazione dei requisiti al momento dell'emissione del decreto è penalizzante per la parte più debole che deve, quindi, pensare di conservare e portare avanti un legame - perché un matrimonio può anche non funzionare - anche in vista dell'affidamento dei minori. Se in un matrimonio, quindi, vi sono figli, è assurdo che venga, poi, negata la cittadinanza alla madre - i cui figli sono cittadini italiani - a causa della richiesta, al momento del decreto, di questa solidità del vincolo. Quindi, quanto alla particolare attenzione ai casi in cui è presente la prole, riteniamo e ribadiamo la necessità di mantenere i sei mesi di residenza legale sul territorio italiano ai fini della presentazione della domanda, senza chiedere, al momento del decreto, l'intervento di scioglimento o, almeno, che questo sia escluso per coloro che si sono separati o quant'altro.
Quanto all'attribuzione della cittadinanza, all'articolo 5-bis, comma 1, lettera a), si chiede, la seguente modifica: «La cittadinanza italiana può essere concessa, con decreto del ministro dell'interno su istanza dell'interessato, allo straniero che risiede legalmente, da almeno cinque anni, nel territorio della Repubblica, e che è in possesso di un reddito sufficiente al proprio sostentamento». E questo perché, come ho ribadito più volte, si sta parlando, ovviamente, di uno straniero con un soggiorno di lunga durata, per ottenere il quale sono già stati compiuti innumerevoli accertamenti riguardo alla sua stabilità economica. Riteniamo, pertanto, che sia discriminatorio e non corrispondente ai principi democratici sanciti dalla nostra Costituzione prevedere, ai fini dell'attribuzione della cittadinanza italiana, oltre i cinque anni di residenza italiana, il criterio del reddito ( inferiore dell'importo annuo dell'assegno sociale: riguardo a quest'ultimo requisito, chiediamo, peraltro, che si considerino anche redditi diversi, ma sufficienti al proprio sostentamento).
Quanto all'articolo 5, relativo alla conoscenza della lingua italiana, chiediamo che l'articolo 5-ter, comma 1, sia così riformulato: «L'acquisizione della cittadinanza italiana, nell'ipotesi dell'articolo 5-bis, comma 1, è condizionata alla partecipazione ad un percorso formativo, della durata di sei mesi, durante i quali sono insegnati la lingua italiana, la storia dell'Italia ed i principi fondanti della Costituzione italiana». Il motivo di tale modifica risiede nel fatto che non condividiamo la necessità di sostenere un esame per la verifica del livello della conoscenza della lingua italiana, né la validità dei titoli scolastici che la attestino. Infatti, nella realtà dell'immigrazione, che ben conosciamo, vi sono anche molti soggetti che provengono dalle campagne dei propri paesi e che sono analfabeti, ma che, a nostro avviso, non possono essere esclusi dal diritto di cittadinanza italiana. Inoltre, con quel principio, si rischia di scatenare una mercificazione dei titoli di studio dimostrativi, come la licenza di scuola primaria. Si suggerisce, piuttosto, la partecipazione, da parte di tali soggetti, a percorsi formativi - che molto ben volentieri gli immigrati seguirebbero -, vincolante, appunto, all'esito della domanda.
Quanto all'articolo 14, laddove si tratta la disciplina del procedimento amministrativo per la concessione e per l'attribuzione della cittadinanza, noi condividiamo pienamente la necessità di regolamentare e disciplinare il procedimento, con l'auspicio, però, che venga superata, in tal modo, la lungaggine burocratica cui, fino ad oggi, abbiamo dovuto far fronte. In questi ultimi anni, infatti, per ottenere la cittadinanza italiana si sono, in molti casi, raddoppiati i tempi di attesa (la legge n. 91 stabilisce 730 giorni, cioè due anni, termine che non viene mai rispettato): si attendono, attualmente, anche quattro


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anni e in alcuni casi cinque dalla data di presentazione delle istanze alle prefetture. Queste, infatti, trasmettono la domanda per residenza o per matrimonio al Ministero dell'interno e così il percorso, già dalle fasi iniziali, è diventato, in questi anni, sempre più lento. I tempi raggiungono, addirittura, il termine di un anno per la sola attribuzione del protocollo; specifico che tale difficoltà si riscontra più nel caso delle richieste per residenza, ossia delle naturalizzazioni ordinarie, che di quelle per matrimonio, le cosiddette naturalizzazioni agevolate, per le quali i tempi di attesa raggiungono in media i tre anni. Se, dunque, la disciplina del procedimento è efficace ed efficiente e viene accompagnata, come ribadito anche nella relazione introduttiva, da sanzioni, essa può, certamente, offrire una certezza; diversamente, che la legge richiami, da regolamento, un termine poi non è rispettato, credo non aiuti a superare la lungaggine esistente.
Infine, appoggiamo pienamente gli emendamenti proposti dall'onorevole Merlo, in particolare all'articolo 1 e all'articolo 13, poiché si tratta di aggiustamenti resi necessari ai fini della eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, le quali, ad una attenta lettura del testo proposto dall'onorevole Bressa, continuerebbero, in parte, a rimanere escluse dai benefici dei cambiamenti proposti dall'attuale legge.
Nel ringraziarvi ancora dell'attenzione, mi limito a far presente che il nostro documento resterà a vostra disposizione per ogni chiarimento ulteriormente necessario.

FABRIZIO MOLINA, Presidente dell'associazione «Nessun luogo è lontano». Vorrei ringraziare la presidenza e la Commissione per averci dato l'opportunità di far sentire la nostra voce, che si unisce a quelle ben più autorevoli dei professori e degli esperti intervenuti e a cui possiamo dare il contributo, unicamente, della nostra esperienza sul campo, sulla quale, però, non perdiamo il vizio di elaborare qualche considerazione.
La mia riflessione oggi si coniuga, in linea di continuità, con quella espressa nel 2004, durante la precedente legislatura, anche se, in quel caso, il tema era sostanzialmente diverso ed anticipato rispetto a questo; la nostra linea è, praticamente, rimasta invariata rispetto ad allora. Vorrei dividere la mia esposizione in due parti. La prima - cosa che credo vada ribadita - riguarda i valori presenti dietro questa proposta di riforma unica, perché, molte volte, l'impianto teorico sotteso all'articolato è un po' come la prefazione dei libri e le relazioni di accompagnamento ai disegni di legge che, spesso, poiché si bada alla sostanza, vengono saltate. Credo, invece, che l'articolato non sia innocuo e non sia assolutamente una tecnicalità assurta ad articolato di legge ma, piuttosto, la conseguenza di un assunto. Quindi vorrei brevemente, in questa circostanza, verificare che abbiamo capito bene quello che si propone, poiché ritengo che sia importante. Del resto, poiché il professor Angiolini ha inaugurato una prassi, che intendo seguire, secondo cui siamo in fase di «dichiarazione di voto», affermo di essere d'accordo su gran parte delle proposte insite in questo disegno e vorrei tentare di spiegarne le ragioni.
La proposta di testo unificato - a nostro avviso - introduce rilevanti novità, che rappresentano significativi passi in avanti, nella normativa vigente. Rendere più flessibile - aspetto sul quale vorrei intrattenermi brevemente - il sistema di acquisto della cittadinanza italiana, secondo il principio dello ius soli, valorizzare l'appartenenza fisica e sociale alla comunità e, infine, l'adesione ai principi costituzionali, costituiscono elementi fondanti della disciplina proposta, in un contesto in cui la mobilità - come sappiamo tutti - rappresenta, ormai, un fenomeno strutturale. Pertanto, in una società sempre più multietnica e multiculturale, non ha più senso ancorare diritti di cittadinanza alle sole nazionalità e nascita. Si potrebbe dire, forse, che l'idea di perseverare nell' unicità dello ius sanguinis, più che essere sbagliata, sia sostanzialmente priva di significato, avendo perso, anche


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rispetto a pochi anni fa, molto del suo senso comune. Occorre scindere questi due concetti, vale a dire il concetto di nazionalità e quello di nascita e presenza, attualizzandoli e considerando la cittadinanza nella sua dimensione pragmatica e dinamica. Essa va intesa come status soggettivo, che denota l'appartenenza ad una comunità politica e che comporta la titolarità di una serie di diritti, riconosciuti e garantiti dalla comunità medesima, in un proficuo compromesso tra diversità e coesione. Una nuova forma di cittadinanza, quindi, che leghi l'acquisto di tale diritto all'effettiva partecipazione degli individui alla vita economica, sociale e politica del paese, nonché al rilevante apporto di ciascuno allo sviluppo della società civile in cui vive, secondo l'insieme dei diritti e dei doveri che fanno di una donna e di un uomo un cittadino di questo Stato
Prima di passare alla seconda parte delle mie osservazioni, di natura più tecnica, vorrei sottolineare che vi è un motivo aggiuntivo per cui condividiamo questa impostazione, pur pensando che ci possano ancora essere dei margini di miglioramento (come in tutte le cose, siamo uomini, quindi condannati all'imperfezione), ovvero che, per la prima volta, dopo un primo forte e decisivo tentativo in questo ambito, con la legge Turco-Napolitano del 1998 sull'immigrazione, assistiamo al tentativo di dare una governance al problema della cittadinanza, con tutto quello che ne deriva, ovvero di sistematizzare alcune questioni. Finora, infatti, si è proceduto in termini assolutamente sconnessi e, a dimostrazione, mi basta citare qualche esempio, pur sapendo - e ve ne chiedo scusa in anticipo - che potrei turbarvi (so fare molte cose male e, tra queste, il provocatore). Nel modo assolutamente sconnesso di questi ultimi anni, si è anche verificato, infatti, di aver portato ad esito finale la legge sul voto degli italiani all'estero; abbiamo osteggiato questa legge, a mani nude, senza riuscirci, poiché la trovavamo esattamente contraria al motivo per cui, invece, chiediamo il voto degli immigrati presenti in Italia, in certe condizioni. Ma allora trovammo molte distrazioni, in primo luogo perché non si può dire ad un uomo che dal 1953 fa una cosa soltanto, ovvero lavora per il riconoscimento del voto degli italiani all'estero, che non deve e non può più farlo; e, in secondo luogo, perché - devo sommessamente ammetterlo - anche l'altra parte politica - secondo un principio un po' leninista per cui, quando non si possono cambiare le opinioni dell'avversario, è meglio appropriarsene - scelse di mettere il cappello su quella medesima questione (e avendole portato bene, forse sono io ad avere torto). Mi preme aggiungere, però, che, da questo punto di vista, vi sono stati anche atteggiamenti molto nobili.
Un'altra questione che ci ha molto colpito riguarda - chi si occupa di enti locali lo sa - i tentativi spesso molto generosi (sottolineo «generosi») che, fatti per favorire la partecipazione, attraverso le istituzioni di consulte e di consiglieri aggiunti, hanno segnato, talvolta, una difficoltà. Segnalo, in tal senso, il fatto che, secondo un concetto nostro di democrazia occidentale, italiana, si può stare in un'assise e si può motteggiare, ma non si può votare, vi si può stare in un certo modo, ma non in un altro, oppure, sempre secondo il medesimo concetto di democrazia, si fanno delle consulte chiamate strumenti di rappresentanza quando - tutti lo sanno - sono strumenti di partecipazione. Chi si occupa professionalmente di questa materia sa che confondere la partecipazione con la rappresentanza può costituire un grave errore. Ho fatto due esempi e ne potrei aggiungere altri, ma quello che voglio dire è che, per la prima volta - sono grato a chi ha fatto questo sforzo - si comincia a normalizzare ed a dare organicità ad un reale piano di intervento.
Quanto all'analisi di questo piano - seconda parte del mio intervento - procederò rapidamente, trattandosi solo di alcune riflessioni: non abbiamo, su ciò, grandi certezze e vorremmo, dunque, introdurre unicamente alcuni elementi di valutazione. Il testo unificato modifica (se non erro all'articolo 10) la vigente disciplina in materia di concessione della cittadinanza con decreto del Presidente della


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Repubblica e istituisce un secondo percorso di attribuzione della cittadinanza con il decreto del Ministero dell'interno (data l'autorevolezza dei presenti, dico ciò sommessamente, solo per segnalare un problema rimasto aperto). Si delinea, in tal modo, la predisposizione, almeno apparente, di due procedimenti differenti, ovvero quello di attribuzione della cittadinanza con il decreto del Ministero dell'interno e quello di concessione, con decreto del Presidente della Repubblica, che presuppongono una previsione di requisiti, almeno stando a ciò che si legge, diversi, probabilmente anche nei tempi. Nel caso di attribuzione della cittadinanza con decreto ministeriale, in particolare, è richiesta la verifica della conoscenza della lingua italiana, con tutte le riflessioni già sollevate, equivalente al terzo anno di scuola primaria, e sono previste alcune clausole ostative (articolo 6) e motivi legati alla sicurezza della Repubblica (articolo 9), quali ostacoli che determinano il respingimento dell'istanza. Tali criteri non sono esplicitati, forse sottintesi, nel caso di concessione con decreto del Presidente della Repubblica. Alla luce di quanto abbiamo esaminato, sembra si sia attuata la predisposizione di un sistema a doppio binario relativamente all'acquisizione. La previsione del doppio binario potrebbe giovare, in termini di snellimento - non è una critica, è un rilievo che ci pare di poter fare - e semplificazione delle procedure, soprattutto con un più intenso coinvolgimento del Ministero dell'interno. Il rischio, però, potrebbe essere quello di dar vita a due livelli differenti di accesso, l'uno regolato da criteri prestabiliti e l'altro legato ad una maggiore discrezionalità, che naturalmente non vuol dire arbitrio - credo di capire la differenza esistente tra l'uno e l'altro termine e mi limito, quindi, a dire «discrezionalità». Tale perplessità, tuttavia, può, ad ogni modo, essere fugata con una rigorosa specificazione dei requisiti richiesti e, in generale, dei percorsi di attuazione, ovvero del regolamento a cui il testo di riforma sembra fare riferimento. A questo proposito - anche se qualche mio amico, più esperto di me, mi ha detto che tutto quello che non è previsto dalla legge ed è semplicemente (ne parlavamo anche prima con alcuni colleghi) affidato al regolamento, diventa un'altra materia difficilmente afferrabile -, noi confidiamo molto che il regolamento intervenga in tempi brevi e che, magari, nella legge si inserisca ciò che potrebbe essere doloroso affidare alla speranza di un regolamento.
Infine, alcune questioni che ci paiono davvero fondamentali sono le politiche - come detto anche dal collega di Sant'Egidio e, pressoché, da tutti - di accompagnamento alla piena cittadinanza. In questo settore, rileviamo, infatti, il problema della mancanza, aldilà dei singoli aspetti citati anche da me, di un criterio di governance (ho visto che il professor Bonetti quasi ha fatto un salto dalla sedia a causa della mia affermazione: sono pronto a rivedere la mia posizione, non dico a confrontarmi con lui su questo, perché di dottrina troppo superiore; sottolineo, però, la mancanza di quel criterio). Soffermandomi ulteriormente su casi specifici, mi domando come si possa sperare in una forma di cittadinanza o nel diritto di voto, cosa che chiediamo da tre anni - quindi, tiro il pallone dalla mia -, se non vi sono politiche, tendenzialmente contemporanee, di modifica dell'accesso al mercato del lavoro, ovvero della legge n. 30, o anche di riforma della scuola. Il nostro esercizio teorico-pratico di vedere se la terza elementare sia, o non sia, sufficiente come livello, non può ignorare che, nella legge varata dal precedente Governo sulla scuola, si sono depotenziati i fondi e gli stanziamenti per i facilitatori, con la conseguenza che abbiamo lasciato alla sensibilità del «fai da te» di tanta brava gente, di tanti bravi insegnanti, le politiche sull'intercultura e sulla lingua. Se noi, da un lato, diamo la cittadinanza e, dall'altro, però, depotenziamo lo stanziamento per far sì che i requisiti previ possano essere, legittimamente e rapidamente, acquisiti, facciamo inevitabilmente poca governance, dal momento che non diamo l'idea di un affresco all'interno del quale vi sia lo spazio per la presenza e quant'altro. Se noi facciamo finta di ignorare che, nei


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molti capitoli che sono dietro la legge Biagi, relativa al mercato del lavoro, l'immigrazione accede spesso e con fatica ai ranghi più bassi del reclutamento facciamo finta di ignorare che vi è bisogno di una politica di vera governance. Mi preme sottolineare che parlo di politica di governance e non chiedo, invece, leggi, perché, personalmente, mi ritengo di formazione liberale - anche se, oggi, questo dirsi di «formazione liberale» è una affermazione un po' generica - e credo, quindi, che non servano molte leggi, nel senso che non abbiamo bisogno di normare tutto, abbiamo piuttosto bisogno, a mio avviso, di eliminare gli ostacoli che impediscono la parità - so che è difficile - e lasciare poi fare ai cittadini.
Ciò che dobbiamo fare è eliminare gli ostacoli al raggiungimento della cittadinanza, non normare la vita dei cittadini indicando per chi devono votare, con chi si devono sposare, in che cosa devono credere: questo non fa parte di uno Stato di cultura liberale.
Mi soffermo su un ultimo aspetto, per noi assai importante. Non voglio promuovere l'ultimo disco, né l'ultimo libro, ma sono tre anni che lavoriamo sul diritto di voto e abbiamo, con favore, visto che oggi siamo in tanti a ritenerlo questione importante, mentre allora eravamo in pochi, ovvero quasi tutti i presenti e pochi altri. Parto da un sospetto: è come se, talvolta, anche nella cultura politica maggioritaria, vi sia tutto, ma il voto resti sospeso. Non dobbiamo cadere nel trabocchetto che vi siano altre urgenze; conosco perfettamente - ha ragione il collega di Sant'Egidio - il problema della casa e del lavoro, ma sbagliamo se confondiamo i diritti primari con i diritti di cittadinanza, che fanno di una donna e di un uomo, una donna e un uomo liberi: è il voto che sposta il consenso. Se riteniamo di risarcire questa mancata attribuzione attraverso i diritti primari, commettiamo un errore che profuma, molto a distanza, di un vago razzismo, un razzismo democratico - ammesso che l'ossimoro possa essere valido -, ma pur sempre razzismo.
È un tema molto suggestivo, a cui la destra politica e culturale, negli anni passati, ha fatto riferimento sostenendo, più volte, che il voto era certamente importante, ma che, prima, era necessario occuparsi di cose serie, come la casa, di cui gli immigrati hanno bisogno. Quanto alla casa, lo diciamo spesso ai nostri amici immigrati (consentitemi una battuta, anche se so che gli scienziati poco prediligono le cose liquidate a battute): se con casa, lavoro, sanità si intende rimuovere gli ostacoli per accedere a una parità di diritto con i cittadini italiani, saremo sempre dalla loro parte, ma se il problema è avere una corsia preferenziale, nel senso che una famiglia italiana monoreddito, o con un reddito precario, debba venire dopo, allora siamo contrari, decisamente contrari, dal momento che non dobbiamo creare una doppia legalità, quanto piuttosto una legalità aperta, secondo certi criteri oggettivi. Sottolineo ciò, perché molte volte abbiamo un buonismo di fondo che rischia di fare parti uguali tra diseguali o parti diseguali tra uguali, quindi, credo che questa questione sia importante.
Quanto al diritto di voto, vorrei che mi si asciugasse la lingua per sempre, ma prevedo alcune difficoltà per l'esito di questa legge e credo che, in Parlamento, sarà dura (i numeri li conosciamo tutti). Penso, pertanto, che tale iniziativa debba andare avanti e, per la parte che a ognuno di noi è richiesta, dobbiamo imprimerle il massimo slancio. Vorrei, però, che, a questo proposito, non dimenticassimo la ratifica del capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992; penso, infatti, che l'iter della legge sulla cittadinanza non sarà facile - è obbligatorio, è necessario, ma non sarà facile - e, senza la ratifica della Convenzione di Strasburgo, rischiamo di avvicinarci, tra un mese e mezzo, alle elezioni che vedranno al voto 12 milioni e mezzo di nostri concittadini, senza che nessuno di essi sia un «regolarmente soggiornante», pur esistendo una Convenzione che 15 anni fa, non ieri l'altro, stabiliva che, in Europa, chi è regolarmente soggiornante da cinque anni può esercitare, quanto meno, il diritto di


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voto amministrativo. Altri 12 milioni e mezzo, circa, andranno a votare l'anno prossimo, e temo che, anche in quel caso, non saremo pronti a far votare alle amministrative i regolarmente soggiornanti. Appartengo ad una generazione che inseguiva e aspirava al cielo ma, credo che aspirare ad una buona strada sulla terra, nel frattempo, sia una cosa buona e giusta. Dico questo perché mi sembra che la battaglia sia un po' in contraddizione, considerando legge sulla cittadinanza e legge sul voto, come se fossero due cose distinte; mi permetto di dirlo, anche in riferimento alla parte politica - so bene che questa è un'assise istituzionale e che, quindi, nessuno qui rappresenta la politica -, poiché credo che questa sarebbe davvero una cosa buona.

PRESIDENTE. Vorrei informare i nostri interlocutori che la Conferenza dei presidenti di gruppo ha stabilito che il 30 marzo comincerà, in Assemblea, la discussione di questo provvedimento.
Do, quindi, la parola al professor Giorgis.

ANDREA GIORGIS, Ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino. Ringrazio lei, presidente, e la Commissione per questo invito.
Mi soffermerò, nel corso del mio breve intervento, su tre profili trattati nell'ambito del provvedimento di riforma, ovvero l'attribuzione, il giuramento e la conoscenza della lingua. Il primo profilo che intendo affrontare, che a me sembra di particolare pregio e di particolare novità, è la previsione di un istituto che sottenderebbe una sorta di configurazione della posizione soggettiva dello straniero, in qualche misura riconducibile alla sfera del diritto soggettivo. Ciò avverrebbe attraverso la previsione di un procedimento, appunto, definito per attribuzione anziché per concessione. Si potrà obiettare che la differenza, se si guardano i condizionamenti posti alla procedura per l'attribuzione, assuma un pregio prevalentemente simbolico; a coloro che sollevano tale obiezione, risponderei che, innanzitutto, non bisogna trascurare, su una materia come questa, i profili di carattere simbolico, sui quali tornerò successivamente, e che, in ogni caso, la distinzione tra il procedimento per concessione, che rimane vigente, e il procedimento per attribuzione è, in realtà, una differenza molto significativa, riguardando, in ultima analisi, la certezza dei tempi e, soprattutto, un onere di motivazione in capo alla pubblica amministrazione, la quale può, certamente, in presenza di motivi di sicurezza, ritardare o negare l'attribuzione, ma è tuttavia chiamata a motivare - ed a motivare in maniera adeguata - le ragioni per le quali ritiene che non sussistano i presupposti giuridici per l'espletamento della procedura di attribuzione medesima. A questo proposito, se posso dialogare con coloro che mi hanno preceduto, vorrei segnalare l'obiezione sollevata, ad esempio, dal professor Bonetti, in ordine all'inutilità di prevedere questa condizione, dal momento che la legislazione vigente prevede già l'espulsione per motivi di sicurezza e, dunque, sarebbe contraddittorio, laddove vi è una esplicita previsione di espulsione, riprendere la stessa ipotesi di nocumento o pericolo per la sicurezza come causa, invece, di non conseguimento del percorso di attribuzione.
Questo rilievo, a mio avviso, è un po' troppo rigido e non considera le diverse sfumature che ci possono essere in una delicata materia qual è quella dei comprovati motivi di sicurezza. Inoltre, soprattutto, mi sembra che non sia affatto pacifico, o affatto scontato, che in presenza, in un certo senso, di sospetti od indizi tutti da approfondire, in ordine alla sicurezza, la soluzione più ragionevole sia quella di procedere all'espulsione. Se, infatti, la ragione che giustifica una non attribuzione della cittadinanza consiste nella necessità di meglio verificare se vi siano ragioni di pericolo, uno Stato che voglia ancora dirsi tale, e dunque esercitare la sovranità e naturalmente garantire il rispetto di quelle condizioni di sicurezza e di libertà, è bene, forse, che non si limiti a rimuovere il problema, espellendo lo straniero che presenta


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profili di sicurezza: al contrario, in un contesto globalizzato, dovrebbe farsi carico di meglio approfondire queste condizioni di incertezza. Trovo, dunque, ragionevole considerare i profili di sicurezza alla luce non soltanto, come prevede la legislazione vigente, di una causa di espulsione ma, soprattutto, come causa di maggiore attenzione e, dunque, di rinvio della procedura.
Se posso, prima di concludere queste prime considerazioni sull'attribuzione, spendere delle osservazioni di carattere generale, vorrei dire che la novità di questa procedura, oltre alla certezza e al ribaltamento, naturalmente, dell'onere di motivazione in capo alla pubblica amministrazione, è soprattutto da un punto di vista culturale. Come hanno messo in luce tutti gli studiosi che si sono, negli ultimi anni, occupati del tema della cittadinanza, ci si accorge, nel riflettere su questa, che vengono immediatamente in rilievo due profili, ovvero un primo profilo verticale, e cioè di relazione diritti-doveri fra il singolo e l'autorità, secondo cui la cittadinanza sarebbe la posizione giuridica in cui si trovano coloro che sono sottoposti ad un insieme di relazioni giuridiche di tipo verticale, profilo che, nell'ottocento, assume prevalenza, ed un secondo profilo, molto più antico, che risale alla polis greca, di carattere orizzontale, secondo cui il concetto di cittadinanza, inevitabilmente, rinvia ad una comune appartenenza ad una comunità (e questa idea di comune appartenenza, nella Grecia classica, rimanda, immediatamente, all'idea della comune partecipazione alla vita politica, cioè alla vita pubblica, all'interesse generale). Questi due profili sono stati, nel corso del tempo e sin dalle epoche più antiche, sempre intrecciati e, soltanto in certe fasi della storia, si sono divaricati per ragioni di politica o, meglio, di controllo e per ragioni di espansione delle potenze europee: ebbene, oggi, assistendo ad una situazione sostanziale e materiale determinata dai flussi migratori, si pone il problema di riportare a coincidenza questi due profili, quello verticale e quello orizzontale. Come hanno ricordato molti interventi che mi hanno preceduto, oggi il tema della cittadinanza viene, infatti, percepito, innanzitutto, come un problema di appartenenza orizzontale e di esercizio dei diritti politici. In questa prospettiva, la novità dell'istituto dell'attribuzione, mi sembra che stia proprio nel recuperare quella fortunata idea che venne, elaborata con una certa organicità, per la prima volta - così a me risulta -, dal filosofo e scrittore Renan, il quale sottolineava l'esigenza di scommettere sul carattere volontario e sulla comune cultura alla quale le persone desiderano appartenere. La cittadinanza per Renan, dunque, è la cittadinanza di quell'insieme di persone che desiderano vivere insieme, ovvero una sorta di plebiscito quotidiano che si attua, come lui spiega, non attraverso il voto, ma attraverso la costruzione e la volontà di costruzione di relazioni sociali. Il testo al nostro esame mi sembra scommetta proprio su questa idea che muove da un'antropologia positiva dell'essere umano. Alla base di ogni legge, come alla base di ogni ordinamento, vi è sempre un'antropologia e, in questo provvedimento, vi è un'antropologia positiva, vale a dire la scommessa di immaginare le persone come capaci di muovere, se si consente loro di vivere in un contesto legislativo di un certo tipo, anche verso pulsioni di carattere positivo e, quindi, capaci di costruire relazioni.
La previsione di un termine di sette anni (cinque più due), accompagnata alla dichiarazione di volontà, è proprio questo, ovverosia la necessità di un momento di fatto, quei sette anni (cinque più due), durante il quale la persona decide se vuole, o non vuole, far parte della comunità: il punto centrale è, quindi, il desiderio di volerne far parte. Da questo punto di vista, il professor Bonetti e il professor Rossano hanno sollevato delle obiezioni che mi sembrano particolarmente condivisibili e che, forse, andrebbero accolte, integrando di conseguenza il testo. Da un lato, il professor Bonetti, nell'ambito di questa prospettiva volontaristica, rileva, giustamente, come sarebbe opportuno aggiungere una dichiarazione di volontà da parte dei genitori, allorché il minore acquisisca


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la posizione di cittadino; e dall'altro, il professor Rossano, similarmente, sostiene tale concetto laddove, all'articolo 2, evidenzia che sarebbe preferibile non avere un automatismo.
Se si cambia prospettiva culturale ed antropologica, si può obiettare che, a questo punto, chiunque lo voglia potrebbe entrare a far parte della nostra comunità. Ma - rilevo - questo vorrebbe dire immaginare che, in tutto il mondo, milioni di persone non desiderino altro che diventare cittadini ed entrare, così, a far parte della comunità politica. Bisogna, invece, ragionare in maniera diversa perché, alla base di questa legislazione, abbiamo un altro complesso sistema normativo che governa i flussi e che prevede lo stato legale di residenza. Quindi, coloro ai quali rivolgiamo questa ipotesi di legge non è l'insieme dei cittadini del mondo, ma è l'insieme di coloro che sono regolarmente residenti o a lungo soggiornanti - su tale punto, decideranno i parlamentari come intervenire, accogliendo, eventualmente, alcune sollecitazioni emerse -, ovvero persone che potrebbero, tranquillamente, non desiderare affatto essere cittadini perché, essendo legalmente residenti, essendo a lungo soggiornanti, potendo esercitare la stragrande maggioranza dei diritti, magari non hanno nessun motivo per desiderare di perdere la propria cittadinanza originaria. In conclusione, dunque, tornando alla domanda che giuristi e legislatori si pongono, magari senza verbalizzarla, ovvero quale sia la ratio di una legge sulla cittadinanza, quale sia l'obiettivo che deve perseguire una legge sulla cittadinanza, risponderei che uno degli obiettivi principali, da conseguire nell'attuale contesto storico - la legge, ovviamente, va contestualizzata -, è quello di promuovere una coesione, naturalmente, improntata al rispetto dei principi fondamentali. A questo proposito, sottolineo che il modo migliore di promuovere una coesione è chiedere alle persone di farsi carico dell'interesse pubblico.
Mi sembra che il grande problema che hanno le società contemporanee sia quello di un individualismo e di un privatismo così esasperati che il legislatore dovrebbe porsi il problema di come promuovere forme di responsabilità, ovvero di come promuovere, nei cittadini, il desiderio di farsi carico della cosa pubblica. In questo senso, il percorso verso la cittadinanza e, quindi, il percorso che porta all'esercizio dei diritti politici e all'appartenenza alla comunità, dovrebbe essere fortemente agevolato, perché si dovrebbe chiedere, il più possibile, alle persone - temo che sia molto difficile ottenerlo - di farsi carico, mentre vivono e lavorano in quel certo luogo, dell'interesse pubblico e di prendersi cura della cosa pubblica. Questo - a mio avviso - è il problema del nostro e di tutti i paesi dell'Europa occidentale, poiché non è soltanto l'Italia ad avere un problema di repubblicanesimo, se vogliamo usare le categorie classiche. Questa legge, che scommette sulla volontà e sul desiderio di «far parte», a me sembra un modo ragionevole - nei fatti, non certo foriero di chissà quali conseguenze, se si guardano le condizioni - per riuscire a promuovere l'idea, in base alla quale è bene, secondo l'ordinamento, occuparsi della cosa pubblica ed è bene chiedere di far parte della nostra comunità civile.
E sempre a questo proposito, passando al secondo profilo, ovvero al giuramento, faccio notare che, se pure è vero che giurare di rispettare la Costituzione e le leggi sia un po' come giurare di riconoscersi in tutti gli articoli, e quindi potrebbe sembrare pleonastico - come affermato dal professor Bonetti, che domandava il perché di tale previsione -, è altrettanto vero che i simboli contano, specialmente in una materia che rinvia più direttamente al senso di appartenenza, ovvero al senso del sentirsi, a tutti gli effetti, gravato del dovere di curarsi della cosa pubblica. Partendo dal fatto che le persone - ed io scommetto su questo e vorrei un ordinamento che facesse altrettanto -, sicuramente, sentono e prendono sul serio il giuramento, non solo sotto il profilo burocratico - alcuni di noi pensano al giuramento come ad una sciocchezza, ma altri, per fortuna, lo pensano ancora più impegnativo di altre cose, perché dare la


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propria parola impegna nel profondo -, sarei persino favorevole ad un giuramento più solenne, «pomposo», il quale, oltre a dichiarare di sottostare ai principi della Costituzione, richiami, anche, il concetto di vita libera e dignitosa. Vita libera e dignitosa, ovvero «dignità» come riportato nel testo, è, del resto, la sintesi del nostro ordinamento costituzionale e di tutto il costituzionalismo contemporaneo e mi sembra, pertanto, una cosa da non trascurare, sempre nella prospettiva in cui immaginiamo di avere davanti a noi persone che, quando dichiarano solennemente ciò in cui credono, lo fanno in scienza e coscienza: si tratta, naturalmente, di una scommessa.
Quanto al terzo profilo, quando pensiamo alla conoscenza della lingua, siamo portati ad avere davanti a noi l'immagine del minore per il quale l'istruzione obbligatoria è una forma di tutela e, in questo senso, ben venga qualsiasi forma di vincolo e di cogenza nei confronti di corsi di formazione ed educazione civica per minori. È qualcosa di giusto, poiché rappresenta quel dovere di educazione che compete, oltre che alla famiglia, anche allo Stato nel suo insieme. Tuttavia, quando, anziché di un minore, si tratta di un adulto che risiede e lavora regolarmente, tutto il giorno, in ambiti anche di una certa difficoltà - vi è un presupposto che la legge non può esplicitare, ma la legalità e la regolarità della residenza rinviano ad una capacità di lavoro permanente -, allora, a mio avviso, è giusto rappresentarsi il rischio a cui può condurre una legislazione eccessivamente razionale in astratto. È ovvio che la conoscenza della lingua faccia parte di quei presupposti che consentono di convivere e condividere, ma è altresì vero che, se proviamo a rappresentarci cosa le potenziali implicazioni di una prova di esame, eccessivamente faticosa, relativa alla conoscenza della lingua e della nostra storia, potrebbe succedere, come scriveva Brecht in quella poesia degli anni quaranta, che, ad un certo punto, un legislatore molto razionale debba sperare di avere dei giudici molto democratici.

PRESIDENTE. Cambiando la domanda...

ANDREA GIORGIS, Professore ordinario di diritto costituzionale pressola facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino. Esatto. La poesia narra il compito di questo giudice democratico che deve applicare una legislazione molto ragionevole, in astratto, perché chiede la conoscenza della lingua. «A Los Angeles, davanti al giudice che esamina coloro che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti, venne anche un oste italiano. Si era preparato seriamente, ma a disagio per la sua ignoranza della nuova lingua, durante l'esame alla domanda: che cosa dice l'ottavo emendamento? Rispose esitando: 1492. Poiché la legge prescrive al richiedente la conoscenza della lingua nazionale, fu respinto. Ritornato dopo tre mesi, trascorsi ulteriori studi, ma ancora a disagio per l'ignoranza della nuova lingua, gli posero la domanda: chi fu il generale che vinse nella guerra civile? La sua risposta fu: 1492. Mandato via di nuovo e ritornato una terza volta, alla terza domanda: quanti anni dura in carica il Presidente? Rispose di nuovo: 1492. Orbene, il giudice, che aveva simpatia per l'uomo, capì che non poteva imparare la nuova lingua, si informò sul modo in cui viveva e venne a sapere che viveva con un duro lavoro. E allora, alla quarta seduta, il giudice gli pose la domanda: quando fu scoperta l'America? E in base alla risposta esatta, 1492, l'uomo ottenne la cittadinanza».
Ecco, secondo me, sarebbe desiderabile che il legislatore non dovesse auspicare che, di fronte a casi, pur singolari come questi, ci fosse un giudice così sensibile.

OLIVIERO FORTI, Responsabile dell'ufficio immigrazione della Caritas. Ringrazio la Commissione per questo invito e spero di fare cosa gradita anticipandovi che il mio intervento sarà molto breve, quasi telegrafico, anche perché i colleghi che mi hanno preceduto sono stati particolarmente esaustivi. Ringrazio, comunque, tutti per questa opportunità.
La Caritas italiana ha più volte richiamato l'attenzione sulla necessità di modifica


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dell'attuale normativa in materia di cittadinanza, in quanto chiaramente inadeguata al mutato contesto migratorio nazionale, nel quale è crescente il fenomeno di stabilizzazione dei cittadini stranieri. Ben venga, quindi, un'attenta discussione su di un tema che, più di altri, si appresta ad approcci multiformi e non di rado distanti dalla complessa realtà in cui si muove. Innanzitutto, è opportuno evidenziare, da parte nostra, il sostanziale accordo circa l'impianto della proposta di modifica, che riprende questioni cardine quali l'ampliamento del novero dei casi in cui la cittadinanza è attribuita in base al criterio dello ius soli, nonché la maggiore attenzione all'acquisizione della cittadinanza more uxorio, rispetto alla disciplina vigente.
In particolare però, tra gli altri, mi preme sottolineare un aspetto sul quale chiediamo un supplemento di riflessione - peraltro già richiamato ampiamente dai colleghi -, ossia il contenuto dell'articolo 5-bis, comma 1, facente riferimento al requisito reddituale. A nostro avviso, il percorso verso la cittadinanza in nessun caso può essere legato alla dimensione reddituale del richiedente; diventare cittadino a pieno titolo, infatti, significa, prima di tutto, essere consapevole dei diritti e dei doveri, nonché essere in grado di partecipare alla vita sociale, indipendentemente dalle proprie capacità reddituali. La cittadinanza attiene alla titolarità dei diritti e al loro godimento effettivo da parte dei cittadini, i quali sono, o diventano tali, non in quanto detentori di una ricchezza materiale, ma in quanto parte di una comunità di persone che legittimano l'esistenza di un paese. Peraltro, in molti casi, la cittadinanza è vissuta, ancora oggi, dal migrante come un semplice escamotage per liberarsi dalle pastoie burocratico-amministrative a cui è costretto anche colui che soggiorna da lungo tempo nel nostro paese. I dati, e quanto anche ricordato questa mattina, ci dicono come, a tutt'oggi, larga parte dell'acquisizione di cittadinanza avvenga per matrimonio e la cronaca racconta di molti casi in cui questi matrimoni sono solo il pretesto per avere un passaporto italiano.
È necessario, dunque, andare oltre questa visione strumentale della cittadinanza, che deve richiamarsi, invece, ai più alti valori sociali, culturali e politici del nostro paese, così lontani dalla semplicistica dimostrazione di possedere un reddito non inferiore all'importo dell'assegno sociale. Coloro che intendono vivere la loro esperienza migratoria nel nostro paese, per un lungo periodo, non devono essere costretti a diventare cittadini per riuscire a soggiornare con tranquillità, serenità, svincolati da estenuanti procedure amministrative. A questo proposito, eventualmente, già esiste il permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo che viene rilasciato dopo cinque anni, gli stessi necessari per l'attribuzione della cittadinanza per residenza. Si è creata, dunque, una sorta di doppio binario che, da un lato, permette a chi vuole rimanere in Italia, mantenendo la propria identità nazionale di origine, di avvalersi della carta di soggiorno e, dall'altro, riconosce a coloro che si sentono integrati nel tessuto sociale italiano al punto da identificarsi con i valori sociali, politici e culturali del nostro paese, di diventare cittadini anche laddove, noi chiediamo, fossero privi di quelle risorse economiche che la legge richiede.
Se non si torna su questo punto, si rischia di giungere ad un nuovo testo appesantito, ancora una volta, da un approccio meramente utilitaristico all'immigrazione, in cui l'esistenza di un individuo viene sempre e comunque legata al suo valore economico.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i presenti tutti, sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 13,35, è ripresa alle 14,40.

PRESIDENTE. Colleghi, riprendiamo i nostri lavori.
Do subito la parola ai nostri ospiti non ancora intervenuti, a cominciare da Mohamed


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Tailmoun, portavoce della rete G2 seconde generazioni.

MOHAMED TAILMOUN, Portavoce della Rete G2 seconde generazioni. Faccio parte della Rete G2 seconde generazioni, che raccoglie la realtà di figli di immigrati, le cosiddette seconde generazioni. In quanto tali, abbiamo deciso di cominciare ad organizzarci e a vederci soprattutto per la questione di cui si dibatte oggi, ovvero quella dei diritti. Un punto fondamentale di tale questione è la legge sulla riforma della cittadinanza italiana. Siamo già intervenuti e abbiamo incontrato parlamentari e ministri per sollecitare il mondo politico italiano a rimettere mano alla legge sulla cittadinanza, poiché essa, come si è detto nel corso di questa mattina, è una legge molto vecchia che, a sua volta, ne ha riformata addirittura una, se non erro, risalente al 1912. La legge del 1992, quindi, si era trovata a disciplinare una realtà, ovvero quella della società italiana, che era in cambiamento, essendosi l'Italia trasformata da paese di emigrazione in paese di immigrazione.
Ora, il testo di riforma al nostro esame, accoglie, secondo noi, molte delle sollecitazioni delle seconde generazioni che fanno parte della nostra realtà, fra cui quella di prevedere un percorso privilegiato e separato per chi nasce, o cresce, in Italia; o quella legata al fatto di aver eliminato, sempre nel caso di bambini nati o cresciuti in Italia, il requisito del reddito come criterio fondamentale per l'ottenimento della cittadinanza. La questione che, invece, come seconde generazioni, pensiamo vada affrontata in questo testo è relativa all'inserimento di una disciplina transitoria a favore di chi, pur godendo dei diritti sanciti all'articolo 1, comma 1, lettere c) e d), non ricade nella fattispecie, perché maggiorenne da qualche anno. Sottolineo, però, che questi avrebbero avuto gli stessi diritti se la legge fosse stata approvata in precedenza. Intendo, cioè, fare riferimento a tutti coloro che sono nati e cresciuti in Italia e che non hanno potuto, con la vecchia disciplina, ottenere la cittadinanza italiana, ma che la otterrebbero facilmente con la nuova, ovvero i casi previsti nell'articolo 1 e nell'articolo 2 del testo richiamato.
Vorrei osservare, inoltre, che, per quanto riguarda l'articolo 1 - laddove si afferma che è cittadino italiano chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno residente legalmente in Italia, senza interruzioni da almeno tre anni -, in primo luogo, riteniamo opportuno modificare la dicitura «residente legalmente», che lascia spazio ad ambiguità e, in secondo luogo, ci domandiamo, soprattutto, quale tipo di automatismo sia presente in questo principio, ovvero ci chiediamo se la richiesta debba essere fatta dal genitore del minore nato in Italia, oppure se, automaticamente, siano cittadini italiani tutti i nati da genitori qui residenti da almeno tre anni.
Un'altra questione sulla quale ci siamo interrogati riguarda l'articolo due. È, infatti, merito di questo testo l'aver previsto dei meccanismi che rendano possibile ottenere la cittadinanza italiana per chi sia venuto da piccolo in Italia - come me, o altri, ad esempio -, tuttavia la formulazione di questo articolo, lascia ampio spazio ad interpretazioni, poiché chi viene a cavallo di due cicli scolastici deve aspettare la fine del secondo per ottenere la cittadinanza italiana. Auspichiamo, in conclusione, che nel testo del provvedimento vengano chiariti alcuni di questi passaggi.

PIETRO SOLDINI, Responsabile immigrazione CGIL nazionale. Anch'io, intanto, ringrazio la Commissione per questo invito e per l'opportunità che ci è stata concessa. Vorrei essere breve perché, in primo luogo, abbiamo già avuto un'occasione, con l'onorevole Bressa, di confrontarci sul testo unificato e, in quella circostanza, la CGIL ha fornito delle osservazioni più specifiche; in secondo luogo, perché lavoriamo su questi temi, in sintonia sia con l'ASGI sia con il professor Angiolini, di cui abbiamo già ascoltato le osservazioni che, pienamente, condividiamo. In sostanza, a me preme, in questa sede, esprimere, da parte della CGIL, un giudizio politico.


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Riconosciamo, dunque, un'importanza fondamentale a questo provvedimento, essendo una delle proposte avanzate nell'ambito dell'ultimo congresso della CGIL, anche da parte dello stesso segretario generale. Riteniamo che sia importante, attraverso questa riforma della cittadinanza, inserire, appunto, lo ius soli, che risolve il problema dei bambini nati nel nostro paese da genitori stranieri. In tal senso, ci pare che questo testo abbia risolto, abbastanza bene, una delle più rilevanti preoccupazioni individuate nel disegno di legge presentato dal Governo, ovvero quella del requisito di reddito da parte delle famiglie. Su tale testo, diamo, quindi, sostanzialmente, un giudizio positivo.
A questo punto, è necessario rivolgere un appello alla Commissione, al Parlamento ed alle forze politiche, perché su tale questione si proceda più speditamente, avviandola a soluzione. È una preoccupazione consistente perché, in considerazione della situazione politica generale, vi è il rischio che le problematiche, così importanti e di principio, che sono state sollevate sui temi dell'immigrazione - e non mi riferisco solo alla riforma della cittadinanza, ma anche al testo unico sull'immigrazione di cui siamo in attesa e che dovrebbe essere presentato a giorni dal Governo - rimangano, sostanzialmente, lettera morta. Pensiamo, invece, che ci sia un'urgenza nella produzione di atti legislativi che diano concretezza ad una fase nuova, rispetto al tema dell'immigrazione, e che possano consentire un nuovo diritto di cittadinanza, anche nell'ambito dell'immigrazione in senso lato, relativamente all'agenda politica ed istituzionale del nostro paese.
Entrando nel merito, vorrei riprendere tre questioni, rispetto ad altre che pure sono state sollevate e che non è mia intenzione riprendere in questa circostanza. La prima riguarda il diritto di voto, su cui ci tengo ad esprimere la posizione della CGIL: riteniamo che non si possa immaginare di risolvere la questione del diritto di voto all'interno dell'estensione del diritto di cittadinanza; una cosa è il diritto di cittadinanza e la riforma della cittadinanza, altra cosa è il diritto di voto, un diritto che va assicurato ai cittadini stranieri extracomunitari, indipendentemente dalla scelta da essi fatta di acquisire la cittadinanza italiana. Probabilmente, ci saranno diverse migliaia di cittadini lavoratori extracomunitari che non faranno la scelta della cittadinanza italiana, ma che avrebbero, comunque, secondo noi, il diritto di esercitare il diritto di elettorato, attivo e passivo, alle elezioni amministrative e alle elezioni europee; tale questione può essere risolta attraverso la strada più lineare, costituita dalla ratifica del capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992, quindi, attraverso una legge ordinaria. D'altronde, vi è anche l'impegno, da parte dei ministri Ferrero ed Amato, con i quali ci siamo rapportati in questa fase istruttoria del disegno di legge di riforma del testo unico sull'immigrazione, ad assumere la questione del diritto di voto anche all'interno del provvedimento di riforma del testo unico.
La seconda considerazione di merito riguarda la questione del matrimonio. Notiamo che, anche rispetto ai dati qui forniti, a legislazione vigente, nel nostro paese, più del 73 per cento delle naturalizzazioni e delle richieste di cittadinanza arrivano per questa via, ovvero per quella del matrimonio. In questo senso, rischiamo quindi il paradosso per cui, nel momento in cui ci accingiamo a riformare la cittadinanza, finiamo con il penalizzare l'istituto, fino ad oggi, più importante nel determinare il percorso di naturalizzazione: crediamo che questo possa essere pericoloso. Del resto, non credo neppure che il legislatore abbia qualche utilità nel penalizzare l'istituto del matrimonio che, a mio avviso, è un veicolo di acquisizione di cittadinanza, di integrazione, di convivenza, forse tra i più efficaci. Ribadisco, quindi, che passare dai sei mesi ai due anni è una penalizzazione secca di questo istituto dal punto di vista dei tempi e dal punto di vista delle procedure. Altra cosa, invece, può essere la necessità di controllare, in modo più efficace, che l'istituto del


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matrimonio non sia usato strumentalmente, ovvero che non vi sia il fenomeno dei finti matrimoni, ma ciò, però, attiene alla sfera del controllo, della prescrizione, di un regime sanzionatorio. Non può essere la norma a penalizzare l'istituto matrimoniale che, invece, è uno degli strumenti e degli istituti più efficaci nel definire un percorso di naturalizzazione, integrazione e convivenza nel nostro paese.
Un'ulteriore considerazione di merito riguarda, invece, le procedure: mi pare di aver capito che, fra l'altro, nell'ultima stesura di questo testo unificato, si è scelto di asciugare ulteriormente ogni riferimento alle procedure, puntando sul regolamento successivo alla legge. Credo che questo possa essere ulteriore motivo di preoccupazione, perché una riforma della cittadinanza, per essere giusta ed efficace, non può prescindere da una attenta riforma anche degli aspetti procedurali e burocratici: si tratta, quindi, di semplificare, rendere esigibile e stabilire tempi certi. E, per fare questo, è necessario che la legge assuma impegni vincolanti, dal punto di vista della durata dell'istruttoria e, se può essere utile a questo fine, facendo anche un'operazione di ulteriore decentramento. Sebbene non suffragato da una dottrina tecnico-giuridica in questa materia, mi sento tuttavia di avanzare tale ipotesi. Infatti, credo che un ulteriore decentramento delle procedure, come anche dell'assegnazione del riconoscimento di cittadinanza, più legato cioè al territorio, nell'ambito di una combinazione di titolarità da parte dei sindaci e dei prefetti, sarebbe doppiamente utile, se fosse finalizzato a snellire ulteriormente le procedure e ad avere un rapporto più stretto fra richiesta di cittadinanza e appartenenza a quella comunità sul territorio.
Un'ultima considerazione, di carattere generale, riguarda la concezione che abbiamo, come sindacato, di cittadinanza, che è molto legata all'acquisizione sostanziale di diritti sociali, civili e politici. È bene che, in questo senso, il Parlamento metta in moto un meccanismo a raggiera di intervento legislativo-riformista sui temi dell'immigrazione, poiché abbiamo ancora, nella nostra legislazione, tante discriminazioni tra lavoratori cittadini italiani e lavoratori cittadini immigrati, che vanno dall'accesso al mercato del lavoro - pensiamo ad esempio al lavoro pubblico, con le norme proprie dei concorsi pubblici, in cui andrebbe rimossa questa discriminazione -, a quelle profonde dell'accesso al welfare, alla previdenza nazionale, agli ammortizzatori sociali, ai trattamenti di disoccupazione e mobilità, fino alle previdenze del welfare aggiuntivo degli enti locali e alle pensioni. Anche il sistema pensionistico, infatti, produce discriminazioni profonde nei trattamenti e nella stessa età pensionabile, tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati.
Credo, dunque, sia necessario e utile portare avanti, con grande speditezza, questo provvedimento, con una forte carica simbolica sulla cittadinanza e che, da parte del Parlamento, vi sia una consapevole disponibilità a mettere in moto una serie di provvedimenti di riforma capaci di toccare tutte le sfere della cittadinanza sostanziale.

MARIA MARTA FARFAN, Esperta del dipartimento politiche migratorie della CISL. Ringraziamo il presidente e la Commissione affari costituzionali della Camera per l'invito rivolto al CISL, affinché possa fornire il proprio contributo in materia di diritti di cittadinanza, ambito del quale ben conosciamo la portata morale e civica oltre che pratica.
Sono trascorsi 15 anni dall'entrata in vigore della legge n. 91 del 1992, disciplina sulla cittadinanza italiana, ed è sentire comune che, soprattutto a causa delle mutate condizioni del contesto italiano, la normativa, nello specifico la legge n. 91, debba essere rivista e aggiornata: non sfugge certamente al legislatore quale apporto economico e culturale abbiano dato, e continueranno a dare, gli immigrati e le loro famiglie all'Italia. Questi, infatti, facendo leva più su paure e pregiudizi, da parte della popolazione, che su dati reali, sono stati troppo spesso, e sono, oggetto di strumentalizzazione politica. Si dimentica che producono ricchezza per il nostro


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paese pari al 6,1 per cento del prodotto interno lordo nazionale, per un valore di oltre 87 miliardi di euro, ed hanno versato, nel 2005, tasse pari a 1,87 miliardi di euro. Spesso, scarsa considerazione è data al loro apporto in settori e mansioni lavorative non più ambite dai cittadini italiani, alle positive influenze demografiche per il nostro paese ed, infine, all'arricchimento che altre culture, in un processo di reciprocità e confronto, possono offrire.
Andando specificamente alla riforma della legge n. 91 del 1992, riteniamo opportuna e adeguata la proposta del testo unificato del relatore, adottato, peraltro, anche come testo base della Commissione poiché, nelle proposte di modifica della legge, troviamo espressi i valori e i diritti che i cittadini italiani, e i lavoratori che la CISL rappresenta, ritengono la base minima della convivenza civile.
Siamo soddisfatti che le nuove generazioni possano acquisire la cittadinanza attraverso l'ampliamento del criterio dello ius soli, o diritto di territorio, e che gli immigrati non comunitari che risiedono legalmente da cinque anni sul territorio della Repubblica possano ottenere l'attribuzione della cittadinanza, e non più la concessione, con requisiti più trasparenti e con una procedura più breve e veloce.
Pertanto, la CISL ha accolto con soddisfazione la posizione espressa anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale, auspicando una larga convergenza delle forze politiche del Parlamento italiano sulle modifiche della legge in materia di cittadinanza, ha individuato nell'attribuzione di tali diritti di cittadinanza il vero asse portante dell'integrazione degli immigrati nel nostro paese. Tuttavia, nonostante la validità della proposta normativa, riteniamo necessarie alcune integrazioni. In primis, sicuramente, andrebbe mantenuta la possibilità di acquisizione della cittadinanza attraverso l'attribuzione dopo cinque anni di residenza legale nel territorio della Repubblica, visto che i tempi burocratici allungano di molto la possibilità di acquisizione della cittadinanza, essendo noto che le procedure durano oltre i tre anni dopo la presentazione dell'istanza.
Inoltre, dovrebbe essere eliminato - è stato ribadito anche questa mattina da autorevoli esponenti - il requisito reddituale, in quanto sappiamo che, per l'acquisizione e la possibilità di avere il permesso di soggiorno CEE per soggiornanti di lungo periodo, già si prevede la verifica del requisito dell'alloggio e del reddito.
Relativamente alla modifica dell'articolo 5, ovvero la naturalizzazione agevolata a seguito di matrimonio con cittadino italiano, non ci convince l'innalzamento del periodo di residenza legale nel territorio italiano da 6 mesi a 2 anni, perché riteniamo che, per quanto riguarda i matrimoni di comodo, chi intende aggirare la legge possa essere disincentivato non da un aumento dei tempi, bensì da controlli preventivi ed in itinere sulle situazioni di fatto e sulle organizzazioni criminali.
Il danno maggiore riguarderà inoltre le famiglie con prole, per le quali dovrebbero invece essere previste procedure abbreviate per l'ottenimento dello status di cittadino.
Suggeriamo dunque di mantenere i 2 anni per quanto riguarda l'acquisizione della giurisdizione agevolata, ma, nel caso in cui vi siano figli all'interno della coppia, di mantenere i 6 mesi di residenza legale in Italia.
Abbiamo accolto positivamente il trasferimento della competenza per la presentazione dell'istanza dalla prefettura al comune, così come previsto dall'articolo 7 della legge, anche se, poiché è stata introdotta una modifica all'interno del comma 1, questo è stato già abrogato nel 1994 dal regolamento di attuazione della legge. Per cogliere l'opportunità di presentazione presso il comune di residenza, tale articolo dovrebbe quindi essere riprodotto integralmente. Riteniamo inoltre molto positiva l'indicazione dei termini per la conclusione del procedimento amministrativo, in quanto negli anni scorsi le istanze di naturalizzazione per matrimonio o per


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residenza hanno seguito un iter molto lungo, superando i 3 anni dalla data di presentazione dell'istanza.
Condividiamo vivamente la proposta contenuta nel testo per quanto riguarda i cittadini italiani all'estero, in particolare la possibilità di attribuzione e di acquisto della cittadinanza da parte dei figli nati da donna italiana prima del 1948, fortemente richiesta dagli italiani all'estero, in quanto elimina la disparità di trattamento prevista anche da strumenti internazionali sottoscritti dall'Italia.
Per quanto riguarda infine il riacquisto della cittadinanza, tema fortemente sollecitato da ex cittadini che abbiano perso la cittadinanza italiana per naturalizzazione straniera o per rinuncia, riteniamo che il riacquisto renda giustizia ai cittadini italiani all'estero.
La doppia cittadinanza è un istituto da riconsiderare alla luce della confluenza di ordinamenti giuridici diversi, in quanto la cittadinanza è oggi ammessa in Italia ai sensi dell'articolo 11, ma ogni cittadino che acquisti la cittadinanza italiana deve poi confrontarsi con la normativa del paese di origine. Non sempre dunque sarà possibile ottenere la doppia cittadinanza, perché tanti cittadini, a causa del divieto nella normativa del paese d'origine, non potranno chiedere la cittadinanza italiana, per cui per noi il problema della doppia cittadinanza non si pone.
Il riacquisto della cittadinanza può essere effettuato anche all'estero e la legge del 1992 prevedeva il riacquisto automatico di fronte alle autorità consolari italiane all'estero. Questo implica anche un rafforzamento della rete consolare italiana, perché molti sicuramente faranno richiesta di riacquisto della cittadinanza nei paesi di accoglienza.

GIUSEPPE CASUCCI, Responsabile nazionale del dipartimento politiche migratorie della UIL. Ringrazio la Commissione e il presidente per l'invito.
Oggi la migrazione italiana presenta una forte tendenza alla stanzialità, giacché quasi il 90 per cento degli immigrati nel nostro territorio ha deciso di rimanerci per molti anni. Gli aspetti relativi alla regolarità della presenza - la cittadinanza, il rinnovo del permesso di soggiorno, la carta di soggiorno - si rivelano dunque vitali per il futuro di questi cittadini e soprattutto dei loro figli.
Qualcuno ha evidenziato come da parte di molti stranieri si riscontri un approccio strumentale al raggiungimento della cittadinanza, che servirebbe loro per risolvere i problemi burocratici, ma sarebbe ingenuo non ritenere che sia così. Forse, però, non si deve considerare il mondo dell'immigrazione come omogeneo, distinguendo tra le prime generazioni e le seconde. Le prime non sono assolutamente intenzionate a rinunciare alle proprie radici e considerano la cittadinanza italiana una parte strumentale del loro vivere in un altro paese, ma buona parte di esse non accetterebbe mai di acquisire la cittadinanza se questo significasse dover rinunciare alla propria. Per i loro figli sicuramente l'approccio è diverso, perché essi considerano l'Italia come il proprio paese e si sentono italiani anche se i loro documenti indicano altro, quindi meritano questa scommessa sul loro futuro.
Alla base di questa proposta di legge, che la UIL condivide ed appoggia pienamente, c'è però, forse, una concezione dell'integrazione a senso unico, quasi «colonialista». In realtà, infatti, l'interazione tra la società italiana e i nuovi venuti è molto più dinamica; non si può chiedere a questi ultimi di aderire in maniera asettica ai nostri valori, perché nella società sta avvenendo qualcosa di diverso e, con l'immigrazione, stanno cambiando l'economia, il mondo del lavoro, l'imprenditoria. È infatti nata l'economia etnica, ci sono le rimesse all'estero, si assiste ad un mondo nuovo giunto insieme a loro.
Da parte nostra, si rileva un approccio ispirato alla pluralità religiosa e alle diverse culture prima sconosciuto; quindi, potrebbe essere limitativo pensare all'integrazione solo dal nostro punto di vista.
L'Italia affronta questo fenomeno non tanto nuovo come data, ma con caratteristiche nuove dovute alla sua estrema velocità. Negli ultimi sei anni, infatti, c'è


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stato un incremento di 400.000 immigrati l'anno - e tale cifra riguarda solo quelli regolari -, a fronte di una concessione di poche migliaia di cittadinanze. Sarebbe quindi ingenuo ipotizzare che la proposta possa essere considerata sostitutiva di una governance dei processi migratori, mentre è importante perché apre un dibattito culturale sull'Italia che vogliamo nel futuro, su come cambierà e sta già cambiando.
Come segnalato dai colleghi del sindacato, esiste poi una quota del 25 per cento di cittadini migranti irregolari in Italia, privi di qualsiasi diritto, per cui dovremmo individuare adeguati provvedimenti, se, come ritengo, continueremo ad avere bisogno di loro.
La cittadinanza è un mezzo di piena fruibilità dei diritti, ma non può essere considerata il mezzo principale, né l'unico, soprattutto perché costituisce una scelta individuale della persona. Questa mattina si è dibattuto del diritto di chiederla per i propri figli, ma comunque resta sempre una scelta per cui non tutti gli immigrati optano, perché magari hanno progetti di vita differenti. Non si possono negare loro i diritti solo perché non vogliono la cittadinanza, né ipotizzare che il godimento pieno dei diritti venga concesso solo qualora si diventi cittadino italiano, magari dopo 10 o 12 anni di attesa.
Come rilevato anche dai miei colleghi di CISL e CGIL, tutto questo è positivo se viene accompagnato da una più generale riforma del processo migratorio. Sono preoccupato, perché nei 12 punti proposti da Prodi manca il tema dell'immigrazione, e tuttavia ritengo che il processo di riforma sia difficile, ma necessario. Mi chiedo dunque perché il Governo non abbia chiesto, in primo luogo, la ratifica del Capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992, rimasta in predicato da molti anni, e, in secondo luogo, perché non promuova la ratifica della Convenzione dell'ONU sui diritti dei migranti, che l'Italia stessa aveva aiutato a definire nel lontano 1990.
Capisco che non l'abbia fatto il Governo precedente, che aveva un'impostazione completamente diversa dalla nostra e sicuramente avversa ad aprire le porte ai cittadini stranieri, ma l'attuale Governo, forse, avrebbe potuto fare di più.
Si auspicano, quindi, una piena fruibilità dei diritti, ma anche una serie di strumenti, primo fra i quali agevolare l'ottenimento della carta di soggiorno. Concordo con il collega che questa mattina affermava come il concetto di residenza legale sia molto ambiguo, perché, anche se venissero portati a 5 o a 3 gli anni per poter ottenere la cittadinanza, con la nostra pubblica amministrazione e con le difficoltà imposte dall'attuale legge per l'ottenimento del permesso di soggiorno, l'iter diventerebbe un percorso più lungo, che andrebbe reso invece più trasparente e più facile.
Un altro tema toccato dal collega della CGIL concerne le norme di discriminazione indiretta. Qualcuno ha affermato come la normativa europea garantisca piena fruibilità dei diritti a chi vive in Italia, anche qualora sia straniero, ma ciò è falso. Esistono numerose norme relative all'accesso al pubblico impiego o alla previdenza che rendono l'esercito dei lavoratori stranieri tendenzialmente di serie b, il che purtroppo è funzionale all'economia malata del mercato del lavoro nero, che, se non verrà contrastata fino in fondo, attrarrà centinaia di migliaia di migranti clandestini. Si auspicano, quindi, l'eliminazione delle discriminazioni, la ratifica della Convenzione dell'ONU, il principio della cittadinanza europea di residenza e, in generale, una coraggiosa riforma dell'immigrazione, che, insieme alla proposta sulla cittadinanza, potrà garantire una risposta più completa ed efficace a questo mondo in mutamento e a questo processo sempre più articolato.

GIANNI FERRARA, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Ringrazio lei, signor presidente, e la Commissione per l'onore di tenere in considerazione la mia opinione su questo testo di legge.
Devo richiamarmi alle posizioni espresse in questa sede quattro anni fa, in


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occasione della prima indagine conoscitiva sulla materia, perché come lei sa, presidente, sono testardo, per cui raramente cambio opinione.

PRESIDENTE. Confermo.

GIANNI FERRARA, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. In quella circostanza, ebbi modo di riferirmi sia all'articolo 15 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, approvata nel 1948 dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, sia ad un principio di politica costituzionale quanto mai adeguato ad un mondo globalizzato, già prima che il mondo fosse ritenuto tale, ovvero alla tesi di Kelsen secondo cui l'ordinamento mondiale e il destino del diritto portavano a considerare vincolato lo strumento più adeguato a rapportare la persona umana al mondo civile organizzato dal diritto.
Sono fermo su quella posizione, cui mi ispiro nell'esprimere le mie considerazioni sul testo in materia, che ritengo encomiabile perché tecnicamente molto ben elaborato e redatto. Proprio per questo, però, mi sembra, ad esempio leggendo l'articolo 1, che emerga qualche contraddizione, che vorrei sottolineare all'attenzione del relatore, causata dalla difficoltà di conciliare ius soli e ius sanguinis.
Sono convinto che gli enunciati normativi abbiano forza, suggestione e valore, e gli stessi, per quattro volte, esordiscono con l'espressione «chi è nato». La sorte di chi è nato nel territorio della Repubblica viene però diversamente considerata, valutata e disciplinata a seconda del protrarsi di uno ius sanguinis riguardante il genitore. La maturazione del diritto differisce a seconda che il genitore sia straniero e legalmente residente senza interruzione da almeno 3 anni, straniero ma nato in Italia e ivi residente, e qualora non sia provata la paternità o la maternità dello straniero stesso.
Poiché l'acquisizione della cittadinanza viene diversificata in base a tali posizioni, riterrei auspicabile, per il rispetto del principio di eguaglianza, l'unificazione delle tre posizioni, senza che la condizione del padre dello straniero possa impedire o differenziare la maturazione del diritto alla cittadinanza.
Cito il diritto alla cittadinanza perché mi riferisco alla definizione dell'ordinamento internazionale attraverso la Carta dei diritti universali dell'uomo, che disciplina la materia di questo progetto di legge. Vorrei quindi evidenziare all'onorevole relatore il dubbio che questa differenziazione non possa garantire il rispetto della pari posizione del nato in Italia per quanto concerne le condizioni per ottenere il riconoscimento della sua cittadinanza.
Analogo discorso riguarda il comma 2 dell'articolo 2, in cui si riscontra un altro forte motivo di perplessità. Spero che il relatore sia già convinto, come mi è sembrato di capire, che la maturazione del diritto alla cittadinanza non possa essere condizionata dall'uso del potere discrezionale del ministro dell'interno, perché di questo si tratterebbe, e sarebbe ben strano che un diritto maturato sia poi condizionato, quanto al godimento, dall'esercizio del potere discrezionale di un ministro. Si tratterebbe infatti di negare il diritto alla cittadinanza.
L'ultima considerazione riguarda il requisito reddituale. Sarebbe facile affermare come non si intenda tornare ad una sorta di diritto elettorale fondato sul censo, ma siamo molto vicini ad una visione di questo genere, che ritengo bandita dalla civiltà del diritto. Questa rappresenta una delle conquiste iniziali del diritto del costituzionalismo già agli inizi del secolo scorso e spero che in questa circostanza non venga incrinata né sminuita.
Anche in questo caso si rileva qualche differenziazione, di cui non si coglie alcuna motivazione. Ad esempio, si prevedono 3 anni di residenza nel territorio della Repubblica per il cittadino di altro Stato dell'Unione rispetto allo straniero non europeo, anche se tale cittadinanza richiesta da un cittadino di un altro Stato dell'Unione sembra un'ipotesi piuttosto remota e comunque molto più irrilevante


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rispetto a quella dello straniero maggiorenne adottato da cittadini italiani. Tra questi mi pare esista una differenza minima e comunque ritengo che il requisito non possa porre la persona nelle condizioni di eguaglianza sostanziale, o almeno accettabile rispetto agli altri.
Sottoscrivo pienamente gli emendamenti proposti dal rappresentante della Comunità di Sant'Egidio, che ritengo possano soddisfare ampiamente le esigenze di uguaglianza e di promozione dell'integrazione degli immigrati all'interno della comunità nazionale.

GIORGIO ALESSANDRINI, Presidente vicario dell'organismo nazionale di coordinamento delle politiche di integrazione sociale degli immigrati del CNEL. Signor presidente, la ringrazio per l'invito a questa audizione.
L'organismo per l'immigrazione che opera presso il CNEL, così come l'intera assemblea, quindi la complessiva rappresentanza delle forze sociali, imprenditoriali e sindacali, si è pronunciato più volte sull'urgenza di una nuova regolamentazione del diritto di cittadinanza, indicando espressamente le esigenze di una seria semplificazione delle procedure, della riduzione dei tempi, dell'introduzione o estensione dello ius soli e, soprattutto, della priorità di risolvere il problema dei minori.
In base alle posizioni espresse dal CNEL, condivido l'impronta culturale che ispira il testo in materia. Vi si individua un segnale forte per promuovere politiche di accoglienza e di integrazione nel nostro paese e soprattutto, qualora approvato insieme all'altro provvedimento di revisione della legge Bossi-Fini, per superare la forte contraddizione emersa nel nostro ordinamento tra la parte sopravvissuta del testo unico della legge Turco-Napolitano, ispirata ad una logica di integrazione e di accoglienza, e l'impostazione di tipo mercantile della legge Bossi-Fini per un'immigrazione sostanzialmente precaria e stagionale.
Il 30 marzo questo provvedimento giungerà in Assemblea, contestualmente al dibattito nell'opinione pubblica e, probabilmente, al testo che il Governo presenterà, nelle prossime settimane o nei prossimi giorni, per la profonda revisione della legge Bossi-Fini, avviando nel paese un confronto complessivo molto difficile, terreno di strumentalizzazioni di ogni genere.
La riforma della cittadinanza è certamente diversa rispetto alle misure per superare i punti critici del conseguimento e del mantenimento della presenza legale nel nostro paese, quindi alla riforma della Bossi-Fini. In particolare, la cittadinanza per attribuzione, autentica novità nel nostro ordinamento, non dovrebbe essere percepita come alternativa alla carta di soggiorno dopo 5 anni. Sono rimasto turbato dalle recenti affermazioni di un rappresentante del Governo, secondo il quale, dopo 5 anni, il lavoratore immigrato sarebbe in condizione di scegliere tra carta di soggiorno e cittadinanza, approccio che si rivela errato e pericoloso, soprattutto nel rapporto con l'opinione pubblica rispetto a questa partita così delicata e complessa. La cittadinanza dovrebbe essere infatti rappresentata come il passaggio definitivo di un percorso progressivo di riconoscimento dei diritti.
Anche i tecnici del diritto hanno sollevato il problema della sequenza concessione/attribuzione, ovvero il problema dei 5 anni, su cui è necessario riflettere.
Il testo unificato risolve positivamente il problema socialmente prioritario dei minori. Vi sono particolari che è tuttavia opportuno riconsiderare. Ritengo che il tema del corso di formazione, a fronte del ciclo di istruzione, sia una svista, perché un corso di formazione può essere anche di 20 o 30 ore e non rivelarsi adeguato, come anche l'anno di lavoro, che, trattandosi di giovani, può significare politiche attive promosse dai servizi per l'impiego o l'apprendistato, che non è un vero rapporto di lavoro.
Una grande attenzione è rivolta al requisito della conoscenza della lingua italiana e all'introduzione del giuramento sull'osservanza della Costituzione, aspetto


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molto delicato e apprezzato. Sul problema del livello della conoscenza della lingua italiana, quello individuato costituisce un punto di riferimento, ma entrambe queste partite richiamano una politica organica seria, sia per quanto riguarda l'apprendimento della lingua italiana, ancora assente nel nostro paese, sia relativamente all'orientamento sociale degli stessi immigrati.
Esiste un livello forse più ambizioso - qualcuno qui citava quello della scuola dell'obbligo -, ma il problema non è costituito dai livelli, quanto dalle politiche da attuare.
Non solo per la precarietà della maggioranza nell'altro ramo del Parlamento, ma anche per la delicatezza dell'impatto che il problema della cittadinanza ha sulla sensibilità popolare - probabilmente apriremo un dibattito che indurrà l'opinione pubblica a riscoprire il valore della cittadinanza, con effetti positivi privi di termini identitari -, ci preoccupa molto constatare come questo testo sia stato adottato senza il consenso dell'opposizione.
Ovviamente, questa è una partita delicata, però auspichiamo in termini politici un lavoro - cui probabilmente potremo contribuire - più trasparente, fattivo, creativo, per coinvolgere anche l'opposizione in questo provvedimento e nell'altro che sarà presentato, proprio secondo l'ispirazione del Presidente della Repubblica di realizzare ampie convergenze in materia.
È necessario evitare di ancorarsi ai testi così come predisposti, aprendosi alla necessità di mediare, affinché il provvedimento vada in porto, dopo che in materia d'immigrazione in questi mesi si sono susseguiti dibattiti, tavole rotonde, confronti con i ministri, e la gente attende il raggiungimento di un obiettivo concreto. Ritengo che questo sia un terreno estremamente difficile ma particolarmente prezioso per verificare fino in fondo le possibilità di convergenza.

PRESIDENTE. La ringrazio anche per i consigli di natura politica.

FRANCA DI LECCE, Direttrice del servizio rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche italiane. La Federazione delle chiese evangeliche in Italia esprime parere positivo sull'impostazione del testo unificato, ritenendo che la cittadinanza sia uno degli strumenti nel percorso di integrazione dei migranti, un percorso a tappe in cui le persone, con la durata della permanenza, acquisiscono un crescente numero di diritti, che ovviamente devono essere accompagnati da misure di inserimento sociale, quali la scuola, il lavoro, la casa, la sanità. Riteniamo quindi la cittadinanza uno strumento complementare, insieme agli altri attualmente presenti nel dibattito politico, quali il diritto di voto, la libertà religiosa, la riforma della legge sull'immigrazione.
La Federazione esprime parere positivo all'impianto del testo unificato, mentre un'annotazione di carattere più generale e quasi stilistico riguarda qualche problema di leggibilità, perché il testo è scritto in modo complicato, per cui riteniamo essenziale prevedere, entro 3 o 6 mesi, un testo unico sulla cittadinanza che, rivolgendosi a nuovi cittadini di cui dibattiamo i livelli di acquisizione della lingua italiana, sia un testo leggibile, contenga tutte le norme e non sia fatto solo di rimandi.
Desidero toccare brevemente solo alcuni punti del testo, anche perché molto è stato già detto.
La semplificazione dei procedimenti amministrativi, e quindi i tempi delle pratiche, costituisce un punto fondamentale per rendere effettivamente più agevole l'acquisto della cittadinanza e perché un iter più snello può garantire efficacia al capovolgimento di approccio che il testo intende introdurre.
Un'altra questione cruciale è quella dei minori, che, come rilevato dal collega della Comunità di Sant'Egidio, sono i nuovi cittadini su cui puntare, che spesso hanno trascorso tanti anni nel nostro paese e su cui anche lo Stato ha «investito», perché hanno avuto un costo in termini economici e in termini di relazioni umane costruite, di radicamento sul territorio e di convivenze consolidate con gli italiani.


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Siamo favorevoli alla possibilità di mantenere la doppia cittadinanza, che riteniamo importante perché non dover rinunciare alla propria cittadinanza originaria implica per i migranti un inserimento più positivo, meno traumatico e meno frustrante nel territorio italiano, e nello stesso tempo un mantenimento di rapporti sereno anche con il paese di origine. Questo potrebbe costituire un elemento favorevole qualora un percorso migratorio implicasse anche un progetto di rientro.

LUCA PACINI, Responsabile ufficio immigrazione dell'ANCI. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'invito a partecipare a questa audizione.
L'ANCI condivide il testo unificato, come abbiamo già avuto modo di esprimere all'onorevole Bressa. Non ribadirò alcuni passaggi più volte citati nel corso della giornata, ma mi soffermerò solo su alcuni aspetti.
Anch'io vorrei sottolineare il taglio culturale di questo provvedimento, molto mirato all'integrazione, in particolare delle seconde generazioni, punto dolente dell'inclusione sociale. I territori e i comuni sono enormemente impegnati su questi percorsi di integrazione, laddove con «territorio» si intende non solo l'ente locale, ma anche le reti locali che si occupano di queste situazioni.
Vorrei evidenziare come questo dovrebbe essere complementare ad altri strumenti per l'integrazione che partano dal diritto e non sostitutivo di altre proposte già in atto da parte dell'ANCI ormai da tanti anni. Qualcuno ha citato la generosa lotta degli enti locali per il diritto di voto; infatti, abbiamo assistito in questi anni ad una modifica degli statuti comunali che ha portato ad una proposta di legge ordinaria per il diritto di voto agli immigrati, da noi presentata anche in questa legislatura a tutti i capigruppo di Camera e Senato. Non vorremmo che questa proposta di cittadinanza si sostituisse all'altro percorso, fondamentale per tutti quei cittadini che non saranno in grado di chiedere la cittadinanza.
Sulla questione riguardante i percorsi di accesso alla cittadinanza, la lingua italiana e i requisiti previsti, condividiamo l'opinione secondo cui questi dovrebbero essere ridotti al minimo. Si tratta infatti di cittadini presenti da anni sul territorio, che hanno dato prova di evidente integrazione, ai quali dovremmo facilitare l'accesso alla cittadinanza. Siamo contrari alla questione del reddito, che ci sembra insostenibile sotto ogni aspetto.
Nell'articolo 4, comma 2, si stabilisce che «il Governo promuove iniziative e attività finalizzate a sostenere il processo di integrazione linguistica e sociale dello straniero cui questi viene invitato a partecipare (...)». La misura si concretizzerà molto sui territori, però non è chiaro se ciò rimandi ad un successivo regolamento di attuazione. Su questo vorrei che si prestasse una certa attenzione, perché molto spesso si enunciano percorsi, che non sono chiari ma sono molto importanti, in questo caso per il passaggio successivo a quello dell'accesso alla cittadinanza.
Vorrei evidenziare, infine, la parte relativa ad un segmento specifico di cittadinanza, costituito dai richiedenti asilo e dai rifugiati.
Per questi cittadini dovrebbe essere previsto un percorso più agevolato per l'accesso alla cittadinanza, in quanto sono nel nostro paese da anni, non possono avere altro tipo di cittadinanza e il nostro Stato ha già effettuato la verifica del loro status. Proponiamo, pertanto, di adottare misure che abbrevino l'attesa per la concessione della cittadinanza, magari da 5 a 3 anni.

FILIPPO MIRAGLIA, Responsabile immigrazione dell'ARCI. Nel ringraziare il presidente e la Commissione per l'invito, esprimo il giudizio positivo dell'ARCI sul testo di legge in tema di cittadinanza.
Condivido gran parte dei rilievi avanzati in questa sede, in particolare quelli della di Comunità di Sant'Egidio e dell'ASGI, con i quali condividiamo gran


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parte dei percorsi di partecipazione in questo periodo di discussione sull'immigrazione.
Vorrei sottolineare un aspetto che ci preme particolarmente, perché abbiamo assistito in questi anni ad una discussione sul tema dell'immigrazione e della cittadinanza estremamente lontana dalla realtà dei problemi degli stranieri. Troppo spesso, infatti, la politica ci richiama ad un realismo molto distante dalla realtà, legato a «salotti» non esclusivamente televisivi. Ritengo che questa proposta di legge riavvicini la politica ai problemi reali dei cittadini e che sia necessario uno sforzo dei partiti dell'Unione che la sostengono affinché sia approvata in tempi brevi, anche come esito dell'impegno sull'immigrazione che l'Unione ha siglato con i suoi elettori attraverso il programma. Sono stati assunti numerosi impegni, ma si è giunti a pochi risultati concreti. Questo sarebbe il primo importante risultato e potrebbe dare un segnale di inversione culturale.
Negli ultimi anni, in particolare negli anni del Governo del centrodestra, quelli della chiusura delle frontiere - almeno in teoria -, si è registrato un aumento della popolazione straniera che, secondo i dati dell'Istat, ammonta a 300.000 persone all'anno, a prescindere - o talvolta a dispetto - della legislazione. Poiché, parallelamente, vi è stato un numero di acquisizioni di cittadinanza molto basso, inferiore al 10 per cento, ovvero 20.000 nell'ultimo anno di cui abbiamo i dati, è evidente che ogni anno, in Italia, si registra un gran numero di stranieri.
Poiché ciò è avvenuto soprattutto negli ultimi 5 anni, periodo della massima chiusura, e i dati dell'Istat indicano come nei prossimi anni l'evoluzione dell'ingresso degli stranieri sarà costante, se non si approverà in tempi rapidi questa legge sulla cittadinanza, si rischia di avere nel paese una quantità enorme di stranieri con minori diritti, aspetto negativo per la nostra democrazia. Ritengo doveroso, quindi, consentire alle persone di scegliere se diventare cittadini italiani, nonché di esserlo a coloro che nascano sul territorio della Repubblica.
Desidero sottolineare, quindi, come la scelta dello ius soli debba essere chiara. Se il legislatore stabilisce che chi nasce in Italia sia cittadino italiano, il legame con la condizione dei genitori deve essere veramente limitato, se non inesistente. Se la Repubblica sceglie di dare la cittadinanza a chi nasca in Italia, ciò deve prescindere dalla condizione giuridica dei genitori, anche perché questa esula dal comportamento delle persone e dalla loro volontà, mentre riguarda la burocrazia, le leggi e la loro interpretazione.
Sarebbe dunque opportuno che la scelta dello ius soli fosse la più netta possibile, e quindi che il legame con la condizione giuridica dei genitori fosse debole o addirittura nullo.
In questo senso, anche per altri aspetti previsti da questa modifica, sarebbe opportuno limitare ostacoli quali la questione del reddito nel caso di acquisizione e la questione della lingua italiana.
I dati del Ministero dell'interno segnalano che il 5 per cento della popolazione italiana, oggi, è di lingua madre diversa dall'italiano. La stessa Costituzione prevede il plurilinguismo nel nostro paese, ed è comunque interesse degli stranieri che scelgono di vivere in Italia conoscerne la lingua.
Una previsione del programma dell'Unione stabilisce che «la persona immigrata è posta in condizione di accedere all'apprendimento della lingua e della cultura italiana attraverso adeguate opportunità concesse dalla scuola pubblica». Andrebbe dunque ribaltata in maniera positiva anche la previsione del corso di formazione o del corso di lingua italiana, nel senso che bisogna dare l'opportunità alle persone di frequentare questi corsi, più che sottoporle eventualmente ad esami, anche se non si capisce - e si rimanda ad un eventuale regolamento di attuazione - in che modo si possa valutare la conoscenza della lingua italiana. Ritengo più


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corretto prevedere azioni tendenti a promuovere la lingua italiana presso gli stranieri, quindi a facilitarne l'accesso.
Le organizzazioni sociali, i sindacati, le organizzazioni della società civile dovranno investire fortemente sul terreno della cittadinanza nelle prossime settimane, per sostenere l'approvazione di questo progetto di legge, che sarebbe segno di un forte legame tra la società civile e il Parlamento, su un terreno delicato e complesso, sul quale è auspicabile emergano scelte molto forti e culturalmente avanzate, per non tornare indietro sul discorso culturale sull'immigrazione.
Il Parlamento deve riuscire ad approvare questa proposta di legge - e, avendo rilevato alcuni errori nel nostro testo, domani farò avere alla presidenza della Commissione le nostre proposte di modifica -, il cui impianto generale consente anche un'inversione di tendenza che coinvolge le organizzazioni della società civile, i partiti, la politica e le istituzioni.

BERARDINO GUARINO, Responsabile progetti dell'Associazione centro Astalli. Il centro Astalli è il servizio dei gesuiti per i rifugiati. Anche noi esprimiamo una valutazione molto positiva sul testo unificato, proprio nella prospettiva, delineata da Miraglia, di un provvedimento che, al di là della mera propaganda, si propone l'inclusione di persone concrete.
Vorrei soffermarmi su un aspetto da tutti considerato quasi ineludibile, ovvero i tempi della concessione.
È assurdo che, oltre ai 2 anni già previsti, occorra altro tempo perché un provvedimento amministrativo abbia un esito positivo. Dobbiamo collaborare per modificare completamente quest'ottica, perché gli immigrati non chiedono politiche di sinistra o di destra, ma semplicemente politiche, ed è profondamente umiliante dover attendere un tempo indefinito per un provvedimento amministrativo. Ritengo opportuno che il Parlamento o la Commissione promuovano un'indagine sui motivi che ostacolano l'abbreviamento dei tempi, perché è un aspetto che mortifica molto le persone.
Siamo molto favorevoli allo ius soli - con meno legami possibili rispetto alla condizione dei genitori - e alla doppia cittadinanza.
Esprimo brevemente le nostre perplessità sulla questione del reddito e sul legare il periodo probatorio alla residenza e non al soggiorno legale, questione di grande rilevanza, su cui desideriamo focalizzare la vostra attenzione.
Per quanto concerne i rifugiati, attualmente, a fronte di un periodo di 10 anni richiesto a tutti gli immigrati per ottenere la cittadinanza, i rifugiati possono chiederla dopo 5 anni, per cui, dato questo abbassamento a 5 anni, mantenendo il principio di equità adottato in passato, chiederemmo di ridurre il periodo a 3 anni, come del resto è già previsto per gli apolidi dall'articolo 9.
Per quanto concerne infine la leggibilità del provvedimento, mi rendo conto che si tratta di un problema di minor conto, però, giacché si tratta di un testo che ciascun immigrato dovrà valutare personalmente per accedere all'istanza, sarebbe opportuno prevedere una norma transitoria che stabilisca che questo provvedimento dovrà essere comprensibile per tutti.

DANESH KUROSH, Responsabile immigrazione CGIL nazionale. Presidente, non volevo intervenire, ma sono stato sollecitato a farlo brevemente dagli interventi di alcuni professori sui punti relativi alla doppia cittadinanza e al giuramento. Mi hanno ricordato il mio vissuto, il percorso di acquisizione della cittadinanza italiana, quindi voglio fare uno strappo alle regole della mia attività quasi ventennale sull'immigrazione e parlare per la prima volta di me stesso, della mia esperienza personale. Non ne ho mai parlato perché, in qualità di immigrato, nel parlare di immigrazione, desidero partire sempre dagli interessi generali del paese, non da quelli dell'immigrato.
La doppia cittadinanza è una scelta positiva, perché è positivo per un paese avere persone con più punti di riferimento e collegamenti. Viviamo in un mondo


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globale e ostacolare questo mi appare anacronistico, proprio del feudalesimo, non attualmente condivisibile.
Molti immigrati, inoltre, incontreranno delle difficoltà, in quanto chiedere la cittadinanza italiana implica riflessioni profonde, perché non si tratta di una scelta facile. Diviene quindi fondamentale il discorso della cittadinanza sostanziale, ovvero della negazione dell'eventuale discriminazione.
Quando si arriva al giuramento - è accaduto a chiunque abbia acquisito la cittadinanza italiana -, dopo il calvario delle procedure durate per anni, si leggerebbe qualunque testo. Ciò che conta non è il testo che si ha davanti, ma il clima creatosi in quel momento. Non ricordo quale testo ho letto, ma ricordo, uscendo, la sensazione di camminare su un marciapiede che mi apparteneva, che non era più di uno Stato estero. Quel clima è importante.

PRESIDENTE. Per una brevissima precisazione, do la parola al professor Bonetti.

PAOLO BONETTI, Membro del consiglio direttivo ASGI. Poiché sono intervenuto per primo, stamattina, vorrei aggiungere che, dal punto di vista della politica costituzionale, credo vi attenda un lavoro durissimo nei prossimi giorni, perché, se il testo verrà perfezionato, emendato, migliorato, al Senato le cose andranno meglio, altrimenti in quella sede si corre un rilevante pericolo.
Vorrei inoltre sottolineare alcuni aspetti che hanno creato equivoci, uno dei quali è la questione concernente la sicurezza della Repubblica. Dalla mia esposizione di questa mattina, infatti, è sembrato che l'unica alternativa alla soppressione della clausola riguardante la sicurezza della Repubblica fosse l'espulsione per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, mentre nel testo vi è già un'alternativa.
Se si è imputati per reati concernenti l'ordine pubblico e la sicurezza, c'è l'autorità giudiziaria, indipendente dal potere esecutivo, che ha già avviato un procedimento penale e, in base al testo unificato, il procedimento di acquisizione della cittadinanza è comunque sospeso.
Si vuole togliere al ministro dell'interno un potere discrezionale improbabile, che inevitabilmente possa essere «quotato» politicamente, autorizzando che, anche senza motivare adeguatamente, queste istanze siano accantonate.
L'altra questione riguarda il ruolo del Presidente della Repubblica. I casi di attribuzione e concessione che sono stati riordinati, e si spera saranno riordinati in logica progressiva, dovrebbero comunque far capo ad un provvedimento presidenziale.
Ritengo che aver trasferito la competenza al Ministero dell'interno rischi di «rendere potenzialmente utilizzabile» da comportamenti disinvolti della maggioranza politica del momento e del suo ministro dell'interno l'attribuzione o la non attribuzione della cittadinanza. Attribuirla al Capo dello Stato significa invece garantire un'imparzialità finale del procedimento ed evitare rischi di questo genere.
È forse a conoscenza di pochi un problema concreto, di cui questa proposta di legge deve assolutamente farsi carico, ovvero la mancanza di un collegamento telematico tra comuni, prefetture, Ministero dell'interno e consolati. Le domande di cittadinanza attendono 2 o 3 anni per questo motivo, in quanto si ricorre ancora alla spedizione cartacea o al corriere diplomatico. Esiste dunque un problema di copertura finanziaria, perché occorre farsi carico non solo del rafforzamento dei collegamenti telematici per la trattazione telematica delle domande, ma anche della campagna informativa, oltre che della formazione linguistica.
Una questione che circola nei corridoi (anche se nessuno l'ha trattata in questa sede) riguarda la perdita della cittadinanza. Mi sono inalberato sentendo citare il voto degli italiani all'estero, perché è necessario scegliere. O si prevede, infatti - come alcune leggi sulla cittadinanza, anche le più avanzate, in altri paesi -, una norma che stabilisce la perdita della cittadinanza


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dopo un certo numero di anni di soggiorno all'estero del cittadino, oppure costui dovrà sempre avere diritto di voto effettivo, attivo e passivo, come cittadino. Disgiungere la cittadinanza dal voto è assolutamente problematico. A chi aveva obiettato, sottolineo dunque che o si ha il coraggio di prevedere la perdita della cittadinanza - e con gli italiani all'estero non avverrà mai, perché esiste una protezione dell'emigrazione -, oppure non può che esserci il voto collegato alla cittadinanza.
Sono lieto che il dottor Alessandrini ed altri abbiano sollevato la questione, inserita in questo testo di legge, riguardante l'individuazione della cittadinanza come alternativa al soggiorno di lungo periodo o piuttosto, invece, come conclusione di un percorso di integrazione di lungo periodo, in cui prima vi sia un'acquisizione del soggiorno di lungo periodo, compresi i comunitari. Continuiamo a ragionare come si faceva prima del 1o gennaio 2007, mentre oggi la prima nazionalità è quella della Romania, quindi si tratta anche di comunitari. Anche la questione relativa al conflitto di fedeltà ovvero di doppia cittadinanza è «scolorita» e quindi deve essere assolutamente mantenuta. Un tempo si parlava di conflitto di fedeltà, ma tra paesi non democratici, mentre oggi la democrazia si è estesa nel mondo, il Consiglio d'Europa ha 35 paesi e i conflitti di fedeltà sono sempre più «scoloriti». Condivido l'idea secondo la quale è nella convivenza anche tra paesi diversi che queste presunte doppie fedeltà si stemperano.
Ritengo che queste precisazioni fossero doverose.

PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Bressa per alcune brevi considerazioni.

GIANCLAUDIO BRESSA, Devo ringraziare tutti voi per il dibattito svoltosi questa mattina e questo pomeriggio, per la qualità delle osservazioni e per le molte indicazioni utili per il nostro lavoro. Ovviamente, non posso rispondere su tutto, per cui mi soffermerò su alcune questioni che esigono ulteriori chiarimenti.
Per quanto attiene alla questione politica del consenso su questa proposta di legge, è stato giustamente richiamato l'appello del Presidente Napolitano affinché si esprimano ampie convergenze sul tema della cittadinanza, impostazione su cui concordo. Oltre ad ampie convergenze, è necessaria però anche una convergenza contenutistica, perché, se le ampie convergenze richiedessero di mantenere la legge e di ritoccarla solo su alcuni aspetti secondari, non si tratterebbe di una legge nuova.
Esistono due approcci, sostanzialmente diversi culturalmente, prima ancora che politicamente, quello di chi considera la cittadinanza un diritto che può essere attribuito e attorno a questa impostazione costruisce un percorso, e quello di chi invece ritiene che sia una sorta di interesse legittimo che l'autorità può riconoscere qualora lo ritenga opportuno, e quindi utilizzabile come strumento per contenere i flussi migratori nel nostro paese.
Se le posizioni - e lo sapremo giovedì, quando verranno presentati gli emendamenti - dovessero essere confermate, sarà difficile trovare ampie convergenze, perché sono opposte, e quindi sarà responsabilità del Parlamento decidere. Affermo questo non per fedeltà al testo che ho faticosamente elaborato, ma perché esso è il frutto di un confronto parlamentare avviatosi ad agosto e costituisce già uno sforzo di sintesi rispetto alle posizioni esistenti.
Vengo brevemente alle singole questioni. Per quanto concerne l'attribuzione e la concessione, non si tratta solo di una diversificazione nominalistica di uno stesso procedimento, bensì di due percorsi completamente distinti. L'attribuzione, ovvero il percorso breve, non è un percorso facilitato, bensì voluto. L'introduzione dello strumento dell'attribuzione implica una scommessa sulla volontà del singolo straniero che vuole diventare cittadino italiano perché si sente pienamente partecipe della comunità in cui è arrivato. La


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cittadinanza non è un percorso scontato, perché si diventa cittadino solo se lo si vuole.
Aver previsto l'attribuzione con un percorso più breve e con alcune condizioni non irrilevanti, ed aver mantenuto il percorso della concessione, cioè i 10 anni, eliminando tutte le condizioni, sta a significare che, con il tempo, si è più liberi di immaginare di poter diventare cittadini. Tengo in modo particolare al mantenimento di questo doppio binario, elemento di novità rispetto al resto della legislazione europea e quindi a modelli che purtroppo non sempre hanno dato risposte positive, come quelli britannico, olandese o francese.
Puntare sulla volontà del singolo che vuole diventare cittadino italiano è una scommessa necessaria. Fino ad oggi, abbiamo gestito la vicenda delle politiche dell'immigrazione e della cittadinanza «all'italiana», con tutti i pregi e i difetti che questo ha comportato. Vorrei però che i pregi della nostra comunità, che ha saputo reagire in maniera positiva a questa esigenza, non venissero dispersi, ma che si puntasse su di essi.
Condivido le considerazioni relative alla residenza e al soggiorno legale, per cui varrà la pena di modificare convenientemente questo punto.
La questione del reddito è quella più delicata. La proposta di legge, che reca come prima firma la mia, non prevedeva il requisito del reddito. Nel momento in cui abbiamo assunto il percorso dell'attribuzione di 5 anni, però, ci siamo trovati di fronte a tempi e condizioni sostanzialmente analoghi a quelli per il riconoscimento del permesso di lungo soggiornante.
Non inserire il requisito del reddito, previsto per il lungo soggiornante, sarebbe stato dunque un errore, perché prevedere modalità sostanzialmente identiche tra lungo soggiornante e cittadino, ma con alcune condizioni più favorevoli per chi chieda di diventare cittadino piuttosto che lungo residente, avrebbe depotenziato il desiderio di volontà di divenire cittadino, che si deve invece manifestare. Il reddito è stato dunque recuperato per garantire una condizione di parità rispetto alla questione. Esistono comunque possibilità di modifica, quali diminuire il tempo per il lungo soggiornante oppure allungare il tempo per la cittadinanza, mentre la coincidenza dei 5 anni porta necessariamente a questo.
Per quanto riguarda la questione della lingua, a parte il fatto che è prevista da parte dello Stato un'attività promozionale relativamente all'apprendimento e alla conoscenza della lingua e della storia, vorrei che questo rimanesse uno strumento di politica per l'integrazione, non una condizione per diventare cittadino. Sarà coinvolto lo Stato in tutte le sue varie manifestazioni, non solo la scuola pubblica, ma anche i comuni, le regioni, le province, il terzo settore e il mondo del volontariato, come già avviene. Scommettere su questa attività di reciproca collaborazione per consentire di diventare rapidamente cittadino è diverso dal prevederlo come condizione vincolante. Non a caso, si lascia al regolamento la possibilità di stabilire i titoli necessari, perché il titolo potrebbe essere anche la partecipazione a corsi riconosciuti.
L'aver individuato la conoscenza a livello della terza elementare significa richiedere la necessità della conoscenza della lingua italiana, perché stiamo parlando di un tempo più breve rispetto ai 10 anni, e quindi la lingua è lo strumento di comunicazione e di integrazione elementare, che esula da ipotesi discriminatorie. La nostra è, infatti, l'unica Costituzione, in Europa, che ha una tutela delle minoranze linguistiche talmente avanzata da consentire di essere cittadino italiano senza conoscere una sola parola della lingua, come indica l'articolo 6. La conoscenza linguistica rappresenta un ulteriore elemento nel percorso della volontà di diventare cittadino.
Mi provoca sempre irritazione l'ipotesi di prevedere dei test, perché il sistema per verificare i valori non viene considerato valido o validante. Personalmente, accederò ad ipotesi di sistemi valutativi per l'adesione ai valori costituzionali per uno straniero dopo la votazione di una legge


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che preveda il superamento di questo test per chi diventi parlamentare della Repubblica. Fintanto che non sarà previsto per i parlamentari un test per dimostrare l'adesione ai valori costituzionali, non consentirò mai l'introduzione di questo tipo di test, perché non si dibatte della licenza di pesca o della patente, ma dell'attribuzione di un diritto per chi desideri davvero diventare cittadino.
Per quanto riguarda la doppia cittadinanza, riconosciuta come una ricchezza nell'ultimo intervento svolto, vorrei sottolineare - soprattutto ai parlamentari dell'opposizione o a coloro che sono intervenuti oggi con tanta convinzione - come si tratti di trasformare in norma di legge quella che è già una norma amministrativa nel nostro sistema, perché un decreto del ministro Pisanu del 2004 ha già cancellato il divieto della doppia cittadinanza.
Abbiamo semplicemente portato a rango di legge una disposizione amministrativa, per cui appare anacronistico riscoprire questa forza del requisito della doppia cittadinanza.
Sono assolutamente d'accordo che lo ius soli debba essere definito in maniera netta, ma è necessario considerare alcuni elementi distorsivi presenti in paesi nei quali lo ius soli è esercitato senza alcuna condizione, quali gli Stati Uniti d'America.
Se ci si reca per motivi di studio o di lavoro per 12 mesi negli Stati Uniti e nasce un figlio, questo diventa cittadino statunitense, torna in Italia ma non ritornerà mai più per ciò che negli Stati Uniti si definisce «cittadinanza a perdere». Per una questione così importante, che vorrei venisse stabilita in maniera netta, ovvero per il riconoscimento del principio dello ius soli, ritengo opportuno prevedere un elemento di cautela per cui esso abbia valore laddove si evidenzi una propensione alla permanenza, che abbiamo identificato in un periodo di 3 anni.
La questione dei rifugiati e della diminuzione dai 5 ai 3 anni costituisce un semplice errore di mancata estensione, perché abbiamo corretto quello per gli apolidi e non quello per i rifugiati, ma la previsione voleva essere identica anche per questi ultimi.
Per quanto riguarda la questione dei tempi, si ha a che fare con l'organizzazione della pubblica amministrazione. Nel corso di questi ultimi due anni, si è riscontrata una significativa accelerazione delle procedure, sebbene si resti lontani da tempi accettabili.
Ritengo condivisibile l'indicazione, emersa da più parti, di considerare il decorso dei due anni per il completamento del procedimento a partire dal momento della data della presentazione e non dell'iscrizione al protocollo, aspetto che potrebbe rendere effettivi i due anni.
Considero giusto prevedere la ratifica della Convenzione di Strasburgo all'interno di questo provvedimento e dare una delega al Governo affinché, entro un lasso di mesi che valuteremo con i Governi, rediga un testo unico sulla cittadinanza garantendo la comprensibilità da voi richiamata.
Vi ringrazio ancora e spero di non dovervi rivedere, perché ciò significherebbe che abbiamo approvato la legge.

PRESIDENTE. Ringraziamo molto i nostri ospiti per il tempo che ci hanno dedicato. Chi lo desideri, potrà collegarsi al sito della Commissione ed inviare eventuali suggerimenti, che accoglieremo molto volentieri. Stiamo cercando infatti di raccogliere le vostre esperienze concrete, estremamente utili per il nostro lavoro.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,20.