COMMISSIONE XII
AFFARI SOCIALI

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 23 gennaio 2007


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MIMMO LUCÀ

La seduta comincia alle 10,35.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro della salute, Livia Turco, sugli orientamenti programmatici del suo dicastero, con particolare riferimento ai temi del governo clinico e attività intramoenia, dell'uso terapeutico della cannabis, dell'indennizzo a favore dei soggetti di cui alla legge n. 210 del 1992, nonché della situazione igienico-strutturale degli ospedali italiani.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro della salute, Livia Turco, sugli orientamenti programmatici del suo dicastero, con particolare riferimento ai temi del governo clinico e attività intramoenia, dell'uso terapeutico della cannabis, dell'indennizzo a favore dei soggetti di cui alla legge n. 210 del 1992, nonché della situazione igienico-strutturale degli ospedali italiani.
Ringrazio, anche a nome della Commissione, il ministro Turco per la disponibilità manifestata a partecipare ai lavori della Commissione. Avverto che il ministro potrà rimanere con noi fino alle ore 13. Mi auguro che il dibattito possa esaurirsi entro tale termine e che tutti coloro che lo desiderano abbiano la possibilità di svolgere il loro intervento.
Do ora la parola al ministro Turco.

LIVIA TURCO, Ministro della salute. Vi ringrazio per questa opportunità, che mi consente di fare con voi il punto su alcuni problemi rilevanti. Mi avete posto molte questioni, quindi la mia relazione non sarà brevissima.
La prima questione riguarda il governo clinico e l'attività intramoenia. Premetto che l'attività che stiamo svolgendo su questo tema - più precisamente mi riferisco alla predisposizione, come avevo detto, di uno strumento legislativo - si inquadra nell'ambito del lavoro più consistente che abbiamo portato avanti, ossia il patto per la salute con le regioni, per la cui promozione e sviluppo siamo adesso impegnati.
Ciò che abbiamo definito con le regioni è una metodologia di lavoro, sulla base del principio della cooperazione istituzionale. Tale metodologia consiste nell'istituire un tavolo tecnico paritetico Governo-regioni e nel prevedere un incontro mensile con tutti gli assessori, sulla base di un'agenda condivisa. I temi che abbiamo affrontato finora sono le cure primarie, le liste d'attesa, il governo clinico. Ritengo che la cooperazione e la definizione comune, non solo degli indirizzi ma anche dell'agenda, sia una metodologia molto utile.
All'interno della definizione del patto per la salute, vi è un altro aspetto rilevante sul quale abbiamo lavorato in questi mesi, cioè l'azione di affiancamento nei confronti delle regioni che vivono situazioni di gravi deficit o, comunque, problematiche. Tale azione di affiancamento ci ha portato a siglare il patto di rientro del debito con


Pag. 4

la regione Campania e un'importante iniziativa con la regione Lazio (che, come saprete, deve estinguere un debito di 20 miliardi). L'azione di affiancamento, però, coinvolge anche altre regioni che vivono una situazione debitoria. Tutto questo ci vede impegnati (oggi stesso avrò un incontro con il presidente Loiero) a costruire sinergie ed alleanze più ravvicinate anche con altre regioni che hanno manifestato esigenze di aiuto nella realizzazione delle loro politiche.
Questa azione di affiancamento è un'iniziativa condivisa, nell'ambito del patto per la salute, che desidero sottolineare perché sta dando risultati proprio sul tema dell'efficienza per quanto riguarda la spesa (che è l'altra faccia della politica dell'equità).

DOMENICO DI VIRGILIO. Scusi, ministro, lei ha parlato di 20 miliardi!

LIVIA TURCO, Ministro della salute. Cancello la cifra, scusate. Mi limito a parlare dell'atto d'intesa Governo-regione Lazio per il rientro del debito della regione Lazio.
Entrando nel merito della questione del governo clinico e dell'attività intramoenia, abbiamo iniziato da tempo un lavoro di consultazione insieme alle organizzazioni delle professioni mediche e sanitarie (è a vostra disposizione anche il calendario di questi incontri, che vi lascio) per affrontare la definizione di uno strumento legislativo attinente al governo clinico.
In questa sede mi sembra giusto parlare dell'impostazione con cui intendiamo affrontare questa elaborazione. In ogni occasione, a partire dalla presentazione delle linee programmatiche di attività del dicastero (avvenuta in questa Commissione ad inizio legislatura), ho fatto riferimento al decreto legislativo n. 229 del 1999 e alla necessità di procedere nella direzione della sua attuazione. Ho sempre sostenuto che, per quanto ci riguarda, vi è un problema non di riforme in campo sanitario bensì di attuazione delle stesse.
Questa conferma, tuttavia, non esclude la necessità di prendere atto del fatto che l'evoluzione del contesto sanitario e della stessa sensibilità di operatori, decisori e cittadini verso obiettivi di qualità e sicurezza delle cure richiede uno sforzo ulteriore per garantire soluzioni che siano percepite come un segnale di concreto miglioramento delle risposte ai bisogni assistenziali e di salute.
Ci appare necessaria un'azione di ammodernamento del sistema sanitario, quindi un intervento di manutenzione sulla stessa legge di riforma del 1999 - o, piuttosto, di ammodernamento di alcune sue parti - per individuare e perseguire priorità che erano già presenti nel suo impianto ma che oggi vediamo con maggiore chiarezza.
Lo strumento legislativo che stiamo elaborando sul tema del governo clinico non è, dunque, una nuova riforma bensì un ammodernamento del decreto legislativo n. 229, un'opportunità per introdurre miglioramenti - Governo e regioni insieme - all'insegna della nuova stagione di corresponsabilizzazione e di collaborazione che è alla base del patto per la salute.
Questo intervento di ammodernamento tocca, in primo luogo, la missione, quindi gli stessi obiettivi che presiedono alla piena ed effettiva garanzia del diritto alla salute. Siamo assai più consapevoli, rispetto al passato, del fatto che alla tutela di questo diritto non concorrono soltanto i sistemi sanitari.
Abbiamo assistito ad un vero e proprio cambiamento di paradigma, con lo spostamento dall'attenzione pressoché esclusiva verso la malattia e la guarigione alla considerazione della qualità della vita come parte integrante dei percorsi assistenziali, anche quando si sa che restano pochi mesi di vita o si sarà costretti a convivere con una patologia cronica. Abbiamo imparato, a nostre spese, quanto sia indispensabile valorizzare salute e benessere nell'accezione più ampia, e a non considerare prevenzione e stili di vita come la cenerentola dell'impegno dei sistemi sanitari pubblici.
Gli esempi citati sono solo alcuni dei tanti che avremmo potuto richiamare, ma sono indicativi della maturazione di una


Pag. 5

nuova consapevolezza su ciò che bisogna intendere oggi per tutela del diritto alla salute; di ciò non possiamo non tenere conto se vogliamo provare ad orientare sempre di più il sistema verso i cittadini e i loro bisogni.
Per questo, intendiamo il governo clinico come uno strumento di promozione della qualità del sistema. Il governo clinico e assistenziale deve riguardare ospedale e territorio. Esso può contribuire ad integrare una serie di elementi e questioni ormai giunte a maturazione, che cito: l'esigenza di assicurare omogeneità, per qualità e quantità, nonché per requisiti minimi di sicurezza e garanzie di efficacia, alle prestazioni erogate su tutto il territorio nazionale; la necessità di passare speditamente a percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali costruiti sull'appropriatezza e sulla centralità del paziente; il dovere di procedere con rapidità all'innalzamento dei livelli di sicurezza delle prestazioni, attraverso l'introduzione di tecnologie di prevenzione del rischio clinico; l'urgenza di cominciare a costruire il secondo pilastro della sanità pubblica, quello della medicina del territorio, a partire dalla riorganizzazione e promozione delle cure primarie e dell'integrazione socio-sanitaria, con particolare riferimento alla presa in carico e alla continuità dell'assistenza nell'arco delle ventiquattro ore e sette giorni su sette; l'opportunità di aprire il sistema, nella sua interezza, alla cultura della valutazione, puntando con decisione sull'utilizzazione di indicatori di esito e valutazione in termini di obiettivi di salute conseguiti, più che di mera sommatoria di prestazioni erogate; l'esigenza di aumentare la trasparenza del sistema, a cominciare dalla rivalutazione del merito professionale e dalla ridefinizione delle norme sul reclutamento della dirigenza e sulla progressione delle carriere (si tratta di una condizione imprescindibile per assicurare alla sanità pubblica le migliori competenze, rilanciare le politiche del personale, incidere sul rapporto perverso tra sanità e cattiva politica, ridare fiducia ai cittadini); l'urgenza di dare effettività alla tanto declamata centralità del paziente, nella consapevolezza che il sistema è chiamato ad un impegno che va al di là della corretta informazione nei suoi confronti.
È ragionevole immaginare che gli interventi ai quali abbiamo fatto cenno si ottengano reclutando e coinvolgendo le intelligenze, le volontà e le capacità delle risorse professionali delle quali il sistema sanitario dispone, medici e non, dell'ospedale e del territorio, nessuno escluso, per garantire ai cittadini prestazioni adeguate della più elevata qualità possibile nel contesto dato.
Nessuno ha in mente, quindi, di creare un contropotere clinico o delle professioni per contrastare quello gestionale del direttore generale, ma piuttosto si intende sollecitare e promuovere una proficua e indispensabile dialettica ed utilizzare il contributo di tutti. Solo da questa sintesi possono venire soluzioni utili.
Il governo clinico è dunque inteso come promozione della qualità delle prestazioni e come governance che stabilisca un maggiore equilibrio tra il potere e il ruolo del direttore generale e valorizzi fortemente le professioni, stabilisca una funzione di forte programmazione da parte della politica - e l'indirizzo da parte delle regioni -, promuova il ruolo degli enti locali e la partecipazione dei cittadini. Questo è l'aspetto cruciale attorno al quale vorremmo sviluppare lo strumento legislativo che stiamo predisponendo.
Per elaborare questo strumento legislativo abbiamo coinvolto categorie e ordini professionali, oltre che le regioni. In particolare, abbiamo tenuto i seguenti incontri: il 3 luglio 2006 con la dirigenza medica e veterinaria, il 4 luglio 2006 con gli ordini professionali, il 17 luglio 2006 con la dirigenza medica e veterinaria sanitaria, il 14 dicembre 2006 con la dirigenza sanitaria, i medici di medicina generale e i pediatri, il 22 gennaio di quest'anno con la dirigenza del Servizio sanitario nazionale. Sono previsti, nei prossimi giorni, gli incontri con i medici di medicina generale, con gli ordini professionali e con i direttori delle aziende.
Sulla base di questa azione di concertazione, pensiamo di pervenire, a breve,


Pag. 6

alla predisposizione di un testo che vorremmo poter consegnare al Parlamento - come ci eravamo impegnati a fare - entro la primavera (fine marzo, inizio aprile).
Insieme alla predisposizione di uno strumento legislativo relativo al governo clinico, abbiamo affrontato il tema dell'intramoenia. Per quanto attiene alle norme relative all'esercizio della libera professione all'interno delle strutture sanitarie, vorrei segnalare in particolare due aspetti. Il primo riguarda lo stato dell'arte della realizzazione di spazi preposti a tale attività nelle aziende sanitarie ed ospedaliere. A seguito dell'emanazione del decreto-legge n. 223 del 4 luglio 2006, che ha previsto la proroga di un anno della possibilità di esercitare la cosiddetta intramoenia allargata, le regioni sono state chiamate dal Ministero a presentare entro il prossimo 31 gennaio i relativi programmi per la realizzazione degli spazi dell'intramoenia, usufruendo degli appositi finanziamenti previsti e ancora non utilizzati per la somma complessiva di 327,847 milioni di euro.
In occasione di questa proroga - voglio ricordarlo - è stato anche stabilito che il monte quantitativo di prestazioni sanitarie erogate in regime di libera professione intramoenia non può superare quello relativo all'attività ordinaria, e ciò anche al fine di scongiurare impropri allungamenti dei tempi di attesa per l'erogazione delle prestazioni sanitarie ai cittadini.
Segnalo che tale attività è oggetto di costante confronto con le categorie interessate, al fine di trovare una soluzione operativa condivisa. Siamo contrari a richiedere, a luglio, un'ulteriore proroga. Pensiamo che per quella scadenza si debba presentare una soluzione condivisa, che consenta di salvaguardare, in ogni caso, il diritto alla libera professione intramoenia quale opportunità per il professionista nonché a garanzia di una maggiore disponibilità di offerta da parte del servizio pubblico nei confronti del cittadino.
Abbiamo tenuto un incontro con la dirigenza medica e i sindacati nel corso del quale sono state rappresentate, da parte dei soggetti interessati, soluzioni diverse. Abbiamo convenuto che cercheremo di presentare al Parlamento una soluzione condivisa dall'insieme delle categorie professionali e dei sindacati. Ovviamente, sarò ben lieta se, prima della scadenza di luglio, vi sarà la possibilità e l'opportunità di un incontro preventivo in questa sede.
Siamo impegnati a fondo per far sì che le risorse stanziate per l'intramoenia vengano impiegate. Su questo punto saremo molto esigenti con le regioni. Proprio la settimana scorsa abbiamo inviato una lettera di sollecito perché sia rispettato il termine del 31 gennaio, entro il quale si devono presentare i piani per l'attivazione dell'intramoenia e per l'utilizzo delle risorse stanziate.
Il secondo aspetto che desidero segnalare riguarda l'obiettivo di ripristinare l'esclusività di rapporto. Su questo abbiamo, come Governo, stabilito un indirizzo che è stato ribadito anche recentemente d'intesa dal ministro della salute e dal ministro dell'università. Ritengo che questa condivisione rappresenti un fatto importante. Tale indirizzo, che è stato discusso con le organizzazioni mediche, con i sindacati, con gli ordini, consiste nel ripristinare l'esclusività di rapporto, legata alla durata dell'incarico (quindi reversibile) per i dirigenti di struttura complessa del servizio sanitario (ex primari e attuali capi dipartimento), mantenendo comunque per queste figure la possibilità di svolgere attività libero-professionale ma solo in regime di intramoenia.
Pensiamo che questo indirizzo debba trovare la sua sanzione nell'ambito della legge delega sul governo clinico. Non riteniamo di dover compiere interventi straordinari, urgenti, poiché abbiamo scelto la strada della concertazione, quindi con gli ordini professionali e i sindacati l'indirizzo è chiaro. Per quanto riguarda il contesto in cui inserire quest'ultimo, pensiamo che non debba trattarsi di un provvedimento d'urgenza o altro, bensì di uno strumento legislativo che, in modo compiuto, affronti la questione del governo clinico.


Pag. 7


Per ciò che concerne tempi e liste d'attesa - tema rilevantissimo -, sapete meglio di me che all'origine del problema vi è una molteplicità di cause, tra le quali cito le seguenti: l'insufficienza della capacità di produzione di prestazioni delle strutture sanitarie rispetto al bacino di utenza; la produttività inadeguata delle stesse strutture a causa di problemi organizzativi (numero di ore di operatività insufficiente, inadeguato o mancato coordinamento delle attività di prenotazione); il ricorso eccessivo ed inappropriato alle prescrizioni; la disomogeneità della capacità di attrazione dei cittadini da parte delle strutture erogatrici, in relazione alla diversa qualità delle prestazioni garantite e dei professionisti impegnati, che determina eccesso di richieste per alcune strutture e marcata sottoutilizzazione di altre (solo alcune).
Questi sono solo alcuni degli elementi che si riconoscono alla radice del problema delle liste d'attesa. Il problema è stato oggetto di attenzione da parte del legislatore attraverso una serie di norme, già a partire dalla fine degli anni novanta, che, tuttavia, non sono riuscite a portare a soluzione il rispetto di tempi di attesa ragionevoli per le principali prestazioni di diagnostica e di specialistica.
L'ultimo intervento in ordine di tempo risale alla scorsa legislatura e, in particolare, all'intesa tra Stato e regioni del 28 marzo 2006, quando è stato adottato, in attuazione dell'articolo 1, comma 280, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, il piano nazionale di contenimento dei tempi di attesa per il triennio 2006-2008.
Il nuovo Governo ha ritenuto responsabilmente di applicare questa normativa e, soprattutto, di dare corso all'intesa, riservandosi di verificarne la fattibilità insieme alle regioni. Ovviamente, è stato istituito un tavolo tecnico sulle liste d'attesa e abbiamo predisposto più occasioni di incontro con le regioni fino a pervenire ad una diversa articolazione del piano. Le regioni nel loro insieme, anziché definire una lista di prestazioni sanitarie per le quali adottare tempi massimi di attesa, hanno suggerito l'individuazione di «pacchetti» di prestazioni relativi a precisi e completi percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali, a partire da due gravi patologie, quelle tumorali e quelle cardiovascolari. Ciò al fine di garantire al cittadino tempi d'attesa certi, non solo per una singola prestazione ma per l'intero percorso diagnostico-terapeutico relativo alla sua patologia.
L'altro punto contenuto nel provvedimento, reso attuativo nel piano, consiste nel generalizzare i CUP come strumento di trasparenza e di informazione per i cittadini. Il piano nazionale per il contenimento delle liste d'attesa, in attuazione della normativa della precedente legislatura, si orienta in una duplice direzione: definire tempi massimi per le patologie più gravi, scegliendo - anziché l'elenco di prestazioni - il percorso diagnostico-terapeutico, e generalizzare l'esperienza dei CUP.
Le regioni si sono impegnate a presentare al Ministero della salute i piani regionali di attuazione della normativa nazionale entro il 31 gennaio 2007, cui faranno a seguito, entro il prossimo 28 febbraio, i piani aziendali locali.
In considerazione del fatto che la materia è difficile da governare, il metodo scelto consiste nel non fare propaganda (è inutile fare annunci se poi le cose restano come sono in quanto troppo complicate da governare), lavorando insieme, individuando quelle cose che assolutamente si possono fare e quei diritti che assolutamente si devono garantire ai cittadini.
A questo proposito, due dei diritti che riteniamo assolutamente praticabili e da garantire (intendiamo avviare una campagna informativa rivolta ai cittadini, perché essi devono conoscere i loro diritti prima di potere eventualmente sporgere dei reclami a fronte di carenze o inefficienze) - sono il diritto alle informazioni e quello a tempi certi nel caso delle patologie più gravi.
La terza questione che mi è stata posta (trattandosi di un argomento particolarmente complesso, rinvio ogni approfondimento al testo scritto che vi lascio) riguarda l'uso terapeutico della cannabis.


Pag. 8

Sono numerose le norme internazionali che riconoscono e promuovono l'uso medico della cannabis indica. Solo per citare le più importanti, ricordiamo la Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961, ratificata dall'ordinamento italiano con legge 5 giugno 1974, n. 412. Preliminarmente, è opportuno ricordare che nel nostro paese è già previsto l'utilizzo di sostanze stupefacenti e psicotrope ad uso medico previa attività terapeutica dimostrata. I farmaci di scelta come antalgici per il dolore severo sono gli oppiacei di derivazione naturale e di sintesi.
È ben noto che la volontà delle istituzioni, in particolare del Ministero della salute, è quella di garantire un accesso più facile ai farmaci necessari a curare il dolore severo in quei malati che non rispondono ai comuni trattamenti antalgici effettuati con i classici antinfiammatori. Infatti, la scienza medica considera il dolore come una patologia a sé stante, che deve essere curata in quanto tale, indipendentemente dall'eventuale malattia primaria che lo determina. A tal fine, negli ultimi tempi, a partire dalla legge n. 12 del 2001, numerosi sono stati gli interventi normativi volti a semplificare e intensificare la prescrizione da parte dei medici degli analgesici oppiacei.
Da alcuni anni si sta affermando anche un riconoscimento a livello scientifico del valore terapeutico della cannabis indica, dei suoi principi attivi e degli analoghi di sintesi, come adiuvante nella terapia del dolore. I risultati scientifici disponibili documentano un'innegabile efficacia di queste sostanze sia come analgesici, sia come adiuvanti al fine di contenere i dosaggi dei farmaci oppiacei, permettendo di ridurre gli effetti indesiderati, la tolleranza e la dipendenza indotte da tali medicinali.
Inoltre, la cannabis e i suoi principi attivi si sono rivelati efficaci nel contrastare gli effetti indesiderati delle terapie farmacologiche prescritte per i malati di cancro e di AIDS, nonché nel trattamento di patologie neurodegenerative, quali la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l'epilessia e altre ancora, quali il glaucoma e l'artrite reumatoide. L'efficacia farmacologica è associata ad un accettabile indice rischio/beneficio, sia per l'assenza di eventi letali da sovradosaggio, che per gli effetti indesiderati, inferiori ad altri farmaci di comune impiego.
Allo stato attuale, in Italia l'uso medico della cannabis indica e le ricerche scientifiche sugli effetti terapeutici dei suoi principi attivi registrano un ritardo rispetto al panorama internazionale a causa della complessità e delle caratteristiche della normativa. Per questo abbiamo definito un testo di legge di semplificazione, in questo momento all'attenzione del Senato, che mi auguro possa essere rapidamente approvato.
Un'altra questione che mi è stata posta riguarda l'indennizzo in favore dei soggetti danneggiati da emotrasfusione. Il Ministero della salute, attraverso l'ufficio VIII della Direzione della programmazione sanitaria, eroga gli indennizzi ai soggetti danneggiati in modo irreversibile da vaccinazioni, trasfusioni e somministrazione di emoderivati infetti, ai sensi della legge n. 210 del 1992 e successive modificazioni.
Nell'anno 2001 è avvenuta, come previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 maggio 2000, l'attribuzione delle competenze in materia di indennizzi alle regioni a statuto ordinario, mentre le pratiche relative ai soggetti residenti nelle regioni a statuto speciale, secondo quanto previsto dall'articolo 10 del decreto legislativo n. 112 del 1998, sono rimaste di competenza statale. Pertanto, in tali casi, l'ufficio provvede al completamento della procedura amministrativa di riconoscimento del diritto all'indennizzo e all'adozione del relativo provvedimento di liquidazione delle somme dovute, ai sensi della citata legge n. 210.
Inoltre, in base all'accordo raggiunto in Conferenza Stato-regioni l'8 agosto 2001, spetta al Ministero anche la gestione degli indennizzi già concessi al momento del trasferimento delle funzioni tanto delle regioni a statuto ordinario che di quelle a statuto speciale. Più precisamente, l'ufficio si occupa di tutte le variazioni intervenute


Pag. 9

relativamente agli indennizzi, come le cancellazioni per decesso, gli aggravamenti, le doppie patologie.
Va detto che nel corso degli ultimi anni si è registrata una crescita particolarmente rilevante del contenzioso giurisdizionale, tanto che questa attività è, al momento, la più gravosa per lo stesso ufficio. L'attività consiste in primo luogo nella predisposizione di una grande quantità di relazioni da inviare all'Avvocatura dello Stato (in media da 60 a 100 al mese) per la difesa in giudizio dell'amministrazione nelle cause civili pendenti davanti ai tribunali italiani, quindi nell'adozione dei provvedimenti esecutivi delle sentenze di condanna dei decreti ingiuntivi e degli atti di precetto, che pervengono in numero elevatissimo.
Oltre alle cause per ottenere in via giurisdizionale l'indennizzo, gli interessi legali e gli altri benefici previsti dalla legge, sono state proposte moltissime cause di richiesta del risarcimento del danno biologico ex articolo 2043 del codice civile, per le quali spesso il Ministero è condannato a corrispondere ingenti somme. Recentemente, è stata liquidata una somma di 13 milioni di euro, disposta con sentenza del tribunale di Bari, nei confronti di 53 talassemici che avevano citato in giudizio l'amministrazione. Attualmente, sono oltre 1.500 le sentenze in lista d'attesa per essere liquidate, con relative spese legali.
Un altro settore di grandissima importanza è quello dei ricorsi proposti contro il giudizio delle commissioni mediche ospedaliere, ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 210 del 1992. L'ufficio svolge la necessaria istruttoria, la invia all'ufficio medico legale per l'acquisizione del parere prescritto e predispone il decreto ministeriale che decide il ricorso stesso. Anche in questo caso i numeri sono molto alti, con una media di 3 mila ricorsi l'anno.
Vi è poi l'attività connessa alle istanze di richiesta di notizie, di accesso e/o di copia della documentazione, ai sensi della legge n. 241 del 1990, da parte di singoli cittadini, avvocati, patronati, associazioni, nonché quella legata al rapporto diretto e telefonico con l'utenza. Per gestire questa attività sono stati utilizzati i fondi stanziati sul capitolo 2400 del bilancio del Ministero della salute. Nel 2007, questo stesso capitolo di bilancio ha potuto contare su uno stanziamento di 107.191.084 euro.
La disciplina normativa alla base dell'attività istituzionale dell'ufficio è in continua evoluzione in quanto, ormai, ogni anno vengono approvate nuove norme in materia. Ad esempio, la legge 20 giugno 2003, n. 141 ha consentito al Ministero di porre fine a numerosi contenziosi pendenti in materia di risarcimento del danno biologico. Attraverso una procedura innovativa, avviata già nel corso dell'anno 2004 e proseguita nel 2005, si è provveduto alla conclusione di oltre 700 transazioni e alla predisposizione di provvedimenti di liquidazione delle somme pattuite in favore di altrettanti soggetti emofilici delle somme concordate con atti di transazione.
Bisogna poi menzionare il decreto legislativo n. 250 del 2005, convertito con legge 3 febbraio 2006, n. 27, che ha previsto pagamenti, a titolo di ulteriore indennizzo, in favore di circa 800 soggetti emofilici, che non avevano potuto stipulare transazioni con il Ministero, ma che erano in possesso dei requisiti previsti dalla citata legge n. 141 del 2003. Nel corso del 2006, l'ufficio ha provveduto alla liquidazione delle somme spettanti a tali soggetti.
La legge n. 229 del 29 ottobre 2005 ha apportato importanti integrazioni alla legge n. 210, in particolare nella parte in cui viene assegnato a coloro che sono stati danneggiati da vaccinazione obbligatoria un indennizzo ulteriore rispetto a quello già corrisposto, pari a sei, cinque o quattro volte la somma già percepita, in relazione alla categoria assegnata a suo tempo. A tali soggetti spetta altresì un assegno una tantum, fino alla misura massima di dieci annualità, per il periodo ricompreso tra il manifestarsi dell'evento dannoso e l'ottenimento dell'indennizzo. Inoltre, nel caso in cui dalla vaccinazione obbligatoria sia derivato il decesso, successivamente all'entrata vigore della legge, l'avente diritto può optare tra l'ulteriore indennizzo e un assegno una tantum di 150 mila euro. La


Pag. 10

norma appena citata ha previsto uno stanziamento annuo di 30 milioni di euro sul capitolo 2400.
Con decreto ministeriale del 6 ottobre 2006, sono state definite le modalità procedurali di applicazione della legge stessa. Attualmente, l'ufficio sta effettuando le operazioni necessarie per la predisposizione e l'adozione dei provvedimenti individuali di liquidazione dei benefici previsti dalla legge n. 229. Nel mese di dicembre sono stati definiti circa 80 provvedimenti. Dopo la necessaria sosta per la chiusura dell'esercizio 2006 e le operazioni per l'apertura dell'anno finanziario 2007, verrà ripresa la procedura di erogazione dei benefici previsti nei confronti degli altri beneficiari (circa 250).
Ci sono poi due questioni per le quali sarebbe auspicabile un intervento del legislatore nel corso del 2007. La prima fa riferimento alla necessità di garantire, attraverso nuovi stanziamenti economici, benefici risarcitori - analoghi a quelli ricevuti dagli emofilici e ora dai vaccinati - anche ai talassemici (questione che abbiamo affrontato in finanziaria) che, pur presentando molte caratteristiche simili agli emofilici, non sono stati destinatari di analoghi benefici.
La seconda questione è relativa all'esigenza di regolamentare alcune situazioni sulle quali, nel corso degli anni, è stato registrato un intervento giurisprudenziale particolarmente significativo, tale da modificare sostanzialmente la disciplina rispetto all'originaria interpretazione data alla norma.
La principale di tali situazioni è quella relativa alla rivalutazione dell'indennizzo operata sull'intero importo dello stesso, comprensivo dell'indennità integrativa speciale, principio ribadito ormai costantemente dai giudici. Introdurre nell'ordinamento una norma di questo tipo significherebbe non solo assicurare parità di trattamento fra i danneggiati che hanno ottenuto una pronuncia giurisdizionale e quelli che non hanno ancora intrapreso il giudizio, ma anche poter realizzare un notevole risparmio sulle spese legali attraverso la cessazione della materia del contendere fra tutti i giudizi pendenti in materia.
Questi sono i due punti che richiedono un aggiornamento e, a mio avviso, un approfondimento legislativo (peraltro, mi pare che il tema sia già stato posto anche all'attenzione della Commissione).
Per quanto riguarda la situazione igienico-strutturale degli ospedali italiani - altra questione che mi avete posto - il problema è stato oggetto, com'è noto, di una specifica iniziativa ispettiva disposta dal ministro della salute e attuata dai NAS dei carabinieri. In particolare, le ispezioni sono state condotte dai NAS l'8 e il 9 gennaio scorsi ed hanno riguardato 321 ospedali sul totale dei 672 nosocomi pubblici italiani, così distribuiti: 89 al nord, 113 al centro, 119 al sud e nelle isole. Si è trattato di un'azione ispettiva straordinaria per la sua unicità, rapidità di effettuazione ed estensione.
La scelta degli ospedali da ispezionare è stata operata dai NAS in autonomia. Le ispezioni sono state rivolte alla verifica di eventuali carenze igieniche e strutturali; rispetto delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; eventuali irregolarità di natura assistenziale; conservazione dei medicinali; smaltimento dei rifiuti ospedalieri e umani; presenza di fenomeni di assenteismo.
È stata ispezionata la quasi metà degli ospedali pubblici che, per dimensioni e capacità operativa, assorbono oltre il 70 per cento delle attività assistenziali ospedaliere. Dall'esame dei dati risultanti dalle ispezioni fin qui svolte emerge un quadro complessivamente positivo. Il 46,1 per cento delle strutture non ha presentato alcuna irregolarità, il 36,4 per cento ha fatto rilevare alcune violazioni amministrative e il restante 17,4 per cento irregolarità che prevedono, in base alle normative vigenti, la segnalazione all'autorità giudiziaria.
In primo luogo, è bene sottolineare che non è stata predisposta alcuna chiusura per gravi carenze, fatta eccezione per due locali deposito non aperti al pubblico, ai quali sono stati posti i sigilli; che in tutte


Pag. 11

le strutture che hanno presentato irregolarità di qualsivoglia natura è stato, comunque, verificato che non sono pregiudicati i livelli di qualità e sicurezza delle prestazioni sanitarie erogate ai cittadini.
Le carenze sul piano dell'igiene, pulizia e conservazione degli ambienti sono state registrate nel 7,5 per cento della totalità degli ospedali ispezionati, tutti concentrati in quattro regioni. La carenza dei requisiti minimi strutturali è stata rilevata nel 2,5 per cento delle strutture ispezionate, concentrate in una regione. La carenza di adeguamento degli impianti di prevenzione, infortuni ed incendi è invece stata registrata nel 5,3 per cento dei casi, concentrata anch'essa in una regione.
È da segnalare, poi, la presenza di alcune partite di farmaci e reagenti diagnostici scaduti nel 2,5 per cento dei casi, concentrati in sette regioni.
Tra le infrazioni non segnalate all'autorità giudiziaria sono state riportate alcune irregolarità riguardanti il rispetto delle norme di divieto di fumo, intonaci con parti scrostate, superfici in linoleum con piccole lacerazioni, pavimentazioni non livellate.
I dati emersi sono stati valutati congiuntamente con gli assessori regionali alla sanità e con il presidente della Conferenza delle regioni, Vasco Errani. Le regioni, in un'ottica di collaborazione, intendono adottare provvedimenti per venire incontro alle irregolarità che sono state riscontrate, da indirizzare nei confronti delle strutture che sono risultate non pienamente conformi ai requisiti previsti dalla normativa di legge.
Abbiamo scelto la strada di portare avanti un'operazione di trasparenza massima insieme alle regioni. Dal momento che il governo della sanità e soprattutto delle strutture è posto in capo alle regioni, atti di imperio da parte del Governo (che peraltro lasciano il tempo che trovano) sono inutili. Più utile ci è sembrata la strada consistente nel chiedere alle regioni di assumere esse stesse determinati provvedimenti.
Per quanto riguarda il Governo, abbiamo promosso tre iniziative (non riguardanti, naturalmente, le ispezioni dei NAS). Intanto, l'attività dei NAS è un'attività ordinaria. Abbiamo chiesto di proseguire tale attività ispettiva (sia rispetto all'insieme delle strutture ospedaliere pubbliche, sia a quelle private convenzionate) come attività ordinaria.
Il tema della qualità e della sicurezza delle cure e dell'igiene richiede, però, interventi strutturali costanti e un'azione costante.
Pensiamo che i temi su cui si debba concentrare l'attenzione siano tre: la gestione del rischio clinico, la prevenzione delle infezioni ospedaliere e gli investimenti strutturali.
Permettetemi, ora, di fare un cenno (rimando al testo scritto per maggiori approfondimenti) ai programmi che erano attivi da tempo al Ministero e che quindi non sono in relazione né con le recenti vicende dell'«Umberto I», né con l'indagine dei NAS.
Per quanto riguarda la gestione del rischio clinico, sapete che le cause possono essere diverse e tra loro interconnesse: l'errore umano propriamente detto e l'errore causato da insufficienze organizzative di sistema. In realtà, l'errore umano è quasi sempre legato a carenze organizzative del sistema (ad esempio, carenza di formazione, scarsa comunicazione, mancata manutenzione delle apparecchiature e altro).
Vi cito brevemente alcune delle azioni in atto che, come Ministero della salute, abbiamo promosso: il monitoraggio e l'analisi degli eventi avversi, con l'attivazione del «Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità» (quello dei dati, come sapete, è un aspetto cruciale); le raccomandazioni, che servono a fornire indicazioni per prevenire il verificarsi di eventi avversi; l'attività formativa importante, condivisa con gli ordini medici, per diffondere strumenti uniformi per aumentare le competenze degli operatori; il coinvolgimento dei cittadini, pazienti e utenti, per renderli protagonisti della propria salute e dei propri percorsi assistenziali (a tale riguardo, stiamo predisponendo una campagna informativa per


Pag. 12

chiarire ai cittadini quali diritti devono poter esigere quando vanno in ospedale); gli aspetti medico-legali ed assicurativi, che pensiamo debbano trovare una soluzione nell'ambito del provvedimento legislativo relativo al governo clinico. Indicazioni più dettagliate al riguardo sono contenute nel testo scritto.
Segnalo che è attivo il Centro di riferimento nazionale sulla sicurezza dei pazienti - che abbiamo istituito nel mese di luglio - con la funzione di coordinare l'insieme delle azioni promosse. Il Centro rappresenta il tramite con l'Unione europea e, soprattutto, insieme alle regioni, ha il compito di dare un impulso, affinché tutte le aziende sanitarie si dotino della strumentazione necessaria per prevenire il rischio clinico.
Veniamo ora al capitolo delle infezioni ospedaliere. Come sapete, le cure mediche non sono prive di effetti collaterali: ogni atto medico porta con sé, a fronte del beneficio della cura o della diagnosi, un rischio di effetti collaterali. In ospedale il cittadino si sottopone a trattamenti diagnostici e terapeutici che includono manovre invasive, quali cateterismo, endovenose ed altro; una metà dei cittadini che va in ospedale lo fa per sottoporsi ad un trattamento chirurgico. Queste invasività interrompono temporaneamente l'equilibrio immunitario del paziente, aprendo ed entrando in spazi solitamente chiusi e sterili.
Inoltre, il cittadino ospedalizzato spesso si trova, per la sua malattia, in condizione di debolezza immunitaria ed è, quindi, più suscettibile alle infezioni. Infine, la vita di comunità dell'ospedale espone il singolo individuo a rischi di contagio dagli altri individui con lui ricoverati, ma anche dal personale ospedaliero, abitualmente colonizzato da germi ormai residenti nell'ambiente ospedaliero e spesso selezionati per resistere ad antibiotici e disinfettanti utilizzati in quell'ambiente. Tutto questo rende ineluttabile e mai completamente evitabile il rischio di acquisire un'infezione ospedaliera.
Nei nostri 672 ospedali ogni anno vengono effettuati circa 9 milioni di ricoveri ordinari, quasi la metà di questi per intervento chirurgico. Dal 4,5 al 7 per cento di questi pazienti acquisisce un'infezione ospedaliera. Si tratta di infezioni della ferita chirurgica, infezioni urinarie, infezioni dell'apparato respiratorio e, più raramente, setticemie. La stragrande maggioranza di queste infezioni è trattabile con successo, ma circa l'1 per cento degli infettati ne riceve conseguenze mortali. Un terzo di queste infezioni sono dimostratamente prevenibili con misure semplici: il lavaggio delle mani degli operatori, la riduzione dei cateterismi non indispensabili, la disinfezione preparatoria della cute e la profilassi delle ferite, la mobilizzazione precoce del paziente allettato e la ginnastica respiratoria.
Organizzativamente è dimostrato che la presenza di un comitato ospedaliero per il controllo delle infezioni, la presenza di un buon sistema di sorveglianza e l'attività di almeno un'infermiera addetta al controllo delle infezioni riducono sensibilmente il rischio dei pazienti.
La pulizia ambientale, lo stato delle strutture, il decoro dell'ospedale non sono direttamente correlati al rischio infettivo, anche se sono indicatori di cattiva qualità di gestione. Il controllo delle infezioni non è dipendente da drastiche ristrutturazioni ambientali, nemmeno dipende da sofisticate tecnologie diagnostiche e microbiologiche, bensì è praticabile con successo ovunque, come dimostra l'esperienza di molti ospedali di prima linea (per esempio in Africa e non soltanto nella civilissima e attrezzatissima Europa).
Da oltre vent'anni, nel nostro paese sono state emanate linee guida e indicazioni sulla sorveglianza e il controllo delle infezioni ospedaliere. In particolare, è stato raccomandato di costruire, in ogni ospedale, un comitato per il controllo delle infezioni ospedaliere e di dedicare un infermiere al sistema di sorveglianza interno. Un'indagine del 2000 rilevava che solo un ospedale su due aveva istituito questo comitato e che solo nella metà era presente un infermiere addetto al controllo delle infezioni.


Pag. 13


Anche al fine di rinnovare una strategia di contrasto efficace nei confronti delle infezioni ospedaliere, il 10 ottobre scorso è stato avviato, in 14 regioni italiane - d'intesa e su input del Governo -, il «Progetto nazionale cure sicure» (vi consegno il relativo allegato) di prevenzione e lotta alle infezioni ospedaliere, con l'obiettivo di puntare ad una riduzione significativa dell'incidenza delle infezioni ospedaliere in rapporto ai ricoveri. Il 9 gennaio 2007 hanno aderito al progetto anche le restanti regioni. Oggi posso dire che questo «Progetto nazionale cure sicure» è stato adottato da tutte le regioni, tuttavia è sviluppato sul territorio nazionale in modo disomogeneo.
Tale progetto prevede, in particolare, di sviluppare un sistema di segnalazione rapida di eventi sentinella ed epidemie; sviluppare sistemi di monitoraggio delle infezioni associate alle diverse forme di assistenza sanitaria e socio-sanitaria, residenziale e domiciliare, e costruire un quadro epidemiologico delle infezioni associate all'assistenza sanitaria a livello nazionale; definire specifici requisiti per l'autorizzazione e l'accreditamento delle strutture sanitarie e socio-sanitarie, relativi alla prevenzione e al controllo delle infezioni; promuovere l'adozione di pratiche assistenziali basate su valide e certificate conoscenze scientifiche, attraverso la diffusione di linee guida, la definizione di programmi formativi per il personale addetto al controllo delle infezioni associate all'assistenza sanitaria e socio-sanitaria; realizzare programmi di comunicazione e gestione del rischio relativamente alle infezioni in strutture sanitarie e socio-sanitarie e nei programmi di assistenza domiciliare.
Insieme al progetto «Cure sicure» - ad esso attribuiamo moltissima importanza in quanto segue le indicazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità -, abbiamo attivato un'indagine conoscitiva sul rispetto delle regole e dei protocolli di sicurezza ed igiene negli ospedali italiani, che integra l'attività ispettiva svolta dai NAS.
Le informazioni di carattere generale che vorremmo recuperare da questa indagine conoscitiva sono le caratteristiche della struttura ospedaliera; l'affidamento dell'attività di pulizia e sanificazione degli ambienti; la classificazione degli ambienti in aree a rischio differenziato. Dall'indagine dei NAS, con riguardo ai problemi su cui intervenire, emerge sicuramente la disomogeneità territoriale e, quindi, l'importanza di costruire l'unitarietà del sistema. Altrettanto importante risulta la valutazione attenta delle norme relative all'accreditamento e il controllo degli appalti.
Il processo delle esternalizzazioni è ineludibile, ma bisogna controllare molto attentamente i criteri e i requisiti che sono posti nel bando degli appalti assegnati per svolgere le attività di manutenzione. Per questo, nell'ambito dell'indagine conoscitiva, intendiamo approfondire tali aspetti e vogliamo far ciò in modo scientifico, in tutte le strutture ospedaliere del nostro paese.
Un ultimo aspetto da affrontare riguarda gli investimenti per l'ammodernamento delle strutture sanitarie. Questo è un tema molto importante nel nostro paese. A mio parere, è fra quei temi che richiedono la massima collaborazione tra i diversi livelli istituzionali e il più alto grado di partecipazione delle professioni (ma anche il massimo di impegno e di partecipazione da parte dei cittadini).
Soprattutto, l'ammodernamento delle strutture sanitarie ci impone di prestare attenzione - me ne sono convinta sulla base dell'esperienza - ai tempi di attuazione. Non è solo un problema di quantità di risorse, ma di tempi entro i quali tali risorse vengono impegnate ed utilizzate. È un problema di qualità della progettazione, di capacità dei governi regionali di realizzare la progettualità che viene loro affidata dalle leggi. Peraltro, già l'indagine della Commissione del Senato, nella scorsa legislatura, segnalava questi elementi, ma il tema dei tempi, della capacità di progettazione, della struttura tecnico-amministrativa risulta assolutamente decisivo.
Su questa scia, abbiamo avviato un lavoro che è contenuto nella legge finanziaria,


Pag. 14

nel patto per la salute. La legge finanziaria 2007 ha elevato da 17 a 20 miliardi di euro i finanziamenti previsti a partire dalla legge n. 67 del 1988 per il programma pluriennale di edilizia e ammodernamento del nostro sistema sanitario.
Di tale ammontare risultano essere stati finora spesi 14,5 miliardi, con una disponibilità residua di 5,5 miliardi, di cui 3 stanziati appunto nella finanziaria 2007. Di questi ultimi, sono già disponibili in tabella D della finanziaria un miliardo di euro, ai quali vanno ad aggiungersi ulteriori 500 milioni che, in base alle disposizioni vigenti, sono stati recuperati in quanto non ancora utilizzati. Questa somma va impegnata e stanziata nel 2007. L'impegno che abbiamo assunto con le regioni è quello di dimostrare il recupero di una capacità di efficienza, di stanziamento delle risorse, di progettualità, per far sì che ciò che è previsto per il 2007 sia davvero utilizzato e impegnato, con tanto di accordi di programma.
I rimanenti 4 miliardi di euro saranno invece erogati una volta presentati i programmi di investimento per la quota parte di 1,5 miliardi fino al completamento degli accordi di programma con le regioni. È da rilevare, tuttavia, che ai fini di un completo e pieno adeguamento di tutte le strutture sanitarie pubbliche ai requisiti minimi strutturali previsti dal decreto del Presidente della Repubblica del 14 gennaio 1997, l'ammontare dei fondi residui ex articolo 20 risulta, ovviamente, insufficiente.
Il problema vero che abbiamo di fronte è quello di procedere ad una ricognizione del fabbisogno finanziario per quanto attiene all'ammodernamento delle strutture ospedaliere, ragionando in termini di rete ospedaliera e di rapporto col territorio. Pensiamo, però, che sia ancora più necessario definire una progettualità condivisa. Qual è il progetto di rete ospedaliera? Quali sono i requisiti minimi, sia in termini di struttura, che in termini di funzionamento? Non possiamo più avere un paese a tante velocità: è fondamentale che si verifichi e si costruisca l'unitarietà del sistema.
Abbiamo chiesto alle regioni - ci incontreremo l'8 febbraio - di discutere insieme non soltanto sulle risorse che sono necessarie, ma anche sui tempi di attuazione di tali risorse e su quale progetto di rete ospedaliera sia necessario nel nostro paese. Per fare questo, cercheremo di realizzare - le forze del Ministero sono puntate in questa direzione - quell'attività di affiancamento che abbiamo iniziato con alcune regioni, innanzitutto quelle che sono risultate deficitarie, con la disponibilità ad estendere tale attività anche ad altre. Oggi incontrerò il presidente Loiero per stabilire come rendere concrete queste misure nei confronti della regione Calabria.
Infine, si è detto che la sanità è un investimento. Se questo è vero, essa va considerata come una grande infrastruttura del nostro paese. La rete ospedaliera, la rete dei servizi sanitari è una grande infrastruttura del nostro paese, quindi deve essere posta sul tavolo degli investimenti, non soltanto su quello del Ministero della salute. Da questo punto di vista, bisogna portare avanti un'operazione culturale, perché non è ancora acquisito che le strutture ospedaliere, le strutture sanitarie sono una grande infrastruttura del nostro paese.

GIUSEPPE PALUMBO. L'industria della salute!

LIVIA TURCO, Ministro della salute. Esatto! Penso che sia importante stabilire - sarebbe la prima volta -, nell'ambito dei fondi strutturali 2007-2011, che i servizi e le strutture sanitarie rappresentano un filone di investimento, al pari degli investimenti in agricoltura, nelle infrastrutture e via dicendo.
È importante, altresì, che una simile linea di finanziamento, presente in un programma di investimenti nel nostro paese, sia stata condivisa con le regioni interessate e che i progetti richiedano alle regioni di fare sistema. Su questa linea,


Pag. 15

abbiamo chiesto a ciascuna regione di indicare un punto di eccellenza che sia valido, però, per l'insieme delle altre regioni. Occorre, dunque, superare la logica del campanile: le risorse sono importanti, ma lo è anche la progettualità!
Pensiamo che si debba procedere su questa strada. Partendo da un'azione di definizione di una progettualità condivisa sul tipo di rete ospedaliera utile in questo paese, possiamo giungere al traguardo: quello della prossima legge finanziaria. Tuttavia, spendere bene le risorse stanziate - primissimo tema ma anche il più difficile - e attivare le progettualità e le capacità amministrative necessarie, certamente, non sarà sufficiente. Occorrerà che, sulla base di una valutazione attenta del fabbisogno, ciò diventi il tema della prossima legge finanziaria.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per la sua relazione, dalla quale mi sembra siano emersi numerosi argomenti per la nostra discussione, in linea con le nostre segnalazioni.
Do ora la parola all'onorevole Di Virgilio sull'ordine dei lavori.

DOMENICO DI VIRGILIO. Intanto, ringrazio il ministro per l'ampia relazione. In alcuni casi si è trattato di un elenco di problematiche e il ministro ha, giustamente, rinviato più volte alla lettura della sua ampia relazione.
Signor presidente, le chiedo come intenda organizzare il giro degli interventi affinché questa audizione risulti proficua per i cittadini, per il ministro e per noi. È evidente che i suggerimenti debbano pervenire al ministro non solo dai sindacati, non solo da una concertazione - giustissima e necessaria - ma anche da un confronto in ambito istituzionale, come avviene in questo momento.
Spero, dunque, che non saremo limitati ad interventi di 3 o 4 minuti, perché gli argomenti sono tanti e tali da richiedere un approfondimento. Personalmente, ad esempio, avverto che non impiegherò meno di 15 minuti per svolgere il mio intervento.
Segnalo che se pure abbiamo a disposizione un'ora e mezza, a mio avviso, non esauriremo tutta la discussione entro tale tempo. Potremmo, forse, prevedere un rinvio della discussione per esaminare a fondo la relazione del ministro oppure prevedere un suo ritorno in Commissione, quanto prima, per continuare il dibattito, in modo che ognuno di noi abbia l'opportunità di illustrare le proprie posizioni e dare suggerimenti su alcune delle problematiche emerse.

PRESIDENTE. Manteniamo l'impegno di concludere i nostri lavori per le ore 13, anche perché il ministro ha già preso un altro impegno. Disponiamo di un'ora abbondante di tempo per discutere. Nel caso in cui l'audizione non dovesse esaurirsi entro questo termine, chiederemmo al ministro la disponibilità - che mi pare già assicurata - per una seconda seduta della Commissione. Se siete d'accordo possiamo procedere in questo modo.
È chiaro che quella di oggi è una discussione impegnativa, gli argomenti sono seri, di grandissima portata e attualità; dunque, non è mia intenzione fare il «castigamatti» sui tempi; mi appello però al senso di responsabilità di ognuno di voi.
Cerchiamo di cogliere questa occasione, evitando, se possibile, di andare oltre i 15 minuti per ciascun intervento.
Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIUSEPPE PALUMBO. Signor ministro, ho ascoltato con molta attenzione la sua lunga relazione. Del resto, gli argomenti affrontati sono numerosi. Mi soffermerò, quindi, solo su alcuni di essi, in particolare sul problema dell'intramoenia e del governo clinico. Anche nel corso della passata legislatura ci siamo occupati per molto tempo di tali questioni (vi è anche un bel volume, a disposizione di tutti, sullo stato di attuazione della normativa e l'esercizio della libera professione medica intramuraria, che riporta le audizioni degli enti che abbiamo sentito sull'argomento).


Pag. 16


Nel corso di tale lavoro - durato più di un anno, ovvero dall'inizio della legislatura fino al luglio 2003 - abbiamo ascoltato in quest'aula circa 24 rappresentanti di varie associazioni, per un totale di oltre dieci sedute. Alla fine, siamo giunti ad alcune conclusioni che pregherei il ministro di esaminare, anche perché potrebbero accorciare i tempi del suo lavoro. Mi riferisco, in particolare, alle audizioni e ai nuovi incontri che lei sta programmando e organizzando al Ministero e che noi abbiamo già svolto proprio nell'ambito di questa Commissione.
Non credo che le cose in Italia siano cambiate nel giro di tre anni...

LIVIA TURCO, Ministro della salute. Vogliono essere sempre ascoltati!

GIUSEPPE PALUMBO. Lo so, però si potrebbero comprimere i tempi di lavoro esaminando quanto è stato già fatto; in caso contrario, rischiamo di parlare senza mai arrivare ad alcuna conclusione. Dovremmo riascoltare i rappresentanti dei medici, il sindacato dei medici e tutte le organizzazioni sanitarie, quando abbiamo già un documento che raccoglie i risultati delle precedenti audizioni?
Si giunse alla conclusione che la legge n. 229 - legge Bindi - che avrebbe dovuto migliorare la situazione, in pratica, era stata applicata solo in funzione dell'aumento stipendiale di tutti i colleghi medici, i quali, per il 96 per cento, passarono all'attività esclusiva intramoenia (al riguardo esistono dei dati riportati in tabella nel volume che ho citato). In questo modo, infatti, i medici avevano la possibilità di fare carriera - altrimenti non l'avrebbero fatta - e di percepire uno stipendio maggiore.

GIACOMO BAIAMONTE. Non potevano fare altro, altrimenti venivano tagliati fuori!

GIUSEPPE PALUMBO. L'agenzia regionale dei servizi sanitari riferì che questa operazione era costata 3 mila miliardi di lire lorde, a fronte di un incasso totale, per l'esercizio dell'attività intramoenia, di appena 180 miliardi di lire. L'attività intramoenia, introdotta come novità per migliorare l'introito delle aziende sanitarie, era stata solo una spesa.
Ora, lei sostiene che bisogna riattivarla e migliorarla - è questo il primo punto che lei ha posto - e ciò significa che, se obblighiamo i medici all'esclusività del rapporto nell'arco dei cinque anni legati al loro incarico, dobbiamo anche dare loro la possibilità, come previsto obbligatoriamente dalla legge, di svolgere la loro libera attività professionale intramoenia. È questo il problema cruciale, il punto più importante che si pone anche nell'ambito del governo clinico.
Proprio sul governo clinico abbiamo presentato una proposta di legge - di cui sono primo firmatario - che contiene alcuni suggerimenti (che sicuramente possono essere migliorati e rivisti), derivanti dal lavoro svolto nella passata legislatura.
Come ho già detto e ripeto, nessun medico, nessun primario, nessun aiuto o nessun assistente - mi fermo alla vecchia nomenclatura, poiché vi sono affezionato - svolgerebbe la propria attività fuori dall'ospedale se l'ospedale gli offrisse le strutture necessarie per poterla condurre in maniera adeguata all'interno (un ambulatorio come quello attrezzato privatamente, sale operatorie, personale e via dicendo). Ribadisco che negli ospedali (lo ha visto anche lei, signor ministro, ed è emerso dall'indagine) in cui si è attuato questo principio, l'attività intramoenia è stata portata avanti con vantaggio da parte dei pazienti, della struttura e anche degli stessi medici.
Quanto, invece, all'obbligo del rapporto per i cinque anni, si tratta di una scelta che il Governo attuale intende compiere: noi l'avevamo fatta per un anno ma, dopo l'approvazione della legge sulla possibilità di scelta fra intramoenia ed extramoenia, la percentuale di medici passati al rapporto esterno è stata minima.

GIUSEPPE ASTORE. Perché stavano bene!


Pag. 17


GIUSEPPE PALUMBO. Esatto, ma non è questo il problema. Il problema è di ordine organizzativo!
Quanto al governo clinico, abbiamo avanzato una proposta di legge sul reclutamento (si è posto il problema del reclutamento delle figure direttive e non) proprio al fine di disciplinarne le modalità. Come è stato sottolineato in una precedente audizione, se prima il reclutamento lo stabilivano i cosiddetti «baroni» della medicina, adesso si è passati ad un'altra situazione, in cui esso è spesso governato dai politici, i quali, a loro volta, condizionano i manager. Questa è la verità ed è sufficiente pensare alle modalità di messa in atto del concorso per la dirigenza sanitaria: direi che è inutile farlo, poiché c'è una commissione che dichiara tutti i candidati idonei e un manager che poi sceglie sulla base di determinati criteri. Non accade mai che una commissione dichiari idoneo uno dei candidati (che invece viene scelto sulla base di vari criteri che non intendo elencare, fra cui anche quello dell'appartenenza politica). È necessario davvero passare alla meritocrazia e, in questo senso, la nostra è una proposta che, pur già valida, può senza meno essere anche migliorata.
Sull'intramoenia allargata, lei ha detto che non si vuole stabilire alcuna proroga a luglio. Vorrei capire, allora, quali meccanismi saranno attuati. Lei ha affermato che siete ancora in una fase di studio e che state cercando di capire come si possa fare, ma vorrei sapere come faranno a svolgere la propria attività tutti i colleghi che attualmente operano in attività di intramoenia allargata.

LIVIA TURCO, Ministro della salute. Ho detto che lo decideremo con i sindacati dei medici, insieme.

GIUSEPPE PALUMBO. Siamo qui per cercare di capire, anche perché già quando svolgevamo il nostro lavoro non si avevano le idee troppo chiare. Nel corso delle audizioni, erano emersi infatti molti pareri contrastanti.
Pertanto, gradirei che quando le relative ipotesi di lavoro verranno discusse, lei fosse così cortese da portarle a conoscenza di questa Commissione (la quale ha maturato una certa competenza non solo per l'esperienza sul campo, ma anche dal punto di vista legislativo) affinché possano essere esaminate e valutate.
Per quanto riguarda le liste di attesa, il primo problema da risolvere riguarda i CUP. I centri di prenotazione vanno attivati al più presto in tutte le regioni, almeno a livello regionale. A dire il vero, io ne proporrei l'istituzione anche a livello provinciale, così il sistema risulterebbe organizzato meglio (posto che a livello regionale risulta un po' più dispersivo).
Non sono poi d'accordo con lei sul discorso riguardante i pacchetti di prestazioni: è il medico che deve decidere il percorso diagnostico e terapeutico. Il medico deve potere decidere secondo scienza e coscienza e secondo i protocolli terapeutici che gli dettano la sua attività e la sua esperienza e non a caso, sulla base di pacchetti (anche se, ad onor del vero, a volte alcuni test diagnostici o alcuni esami vengono effettuati per altri motivi).
Un altro tema che lei ha citato riguarda il rapporto, importantissimo, tra manager e medici. Questo è il punto fondamentale di una riforma dell'attività sanitaria, soprattutto ospedaliera. Se non si attua, infatti, una collaborazione, la più stretta possibile, tra il direttore generale, il manager, il direttore sanitario e il personale sanitario e parasanitario di un dato ospedale, quest'ultimo non migliorerà mai.
Inoltre, quasi tutte le aziende - come lei saprà - vengono istituite secondo indirizzi specifici, anche al fine di evitare gli sprechi. Per esempio, una certa azienda avrà un indirizzo emergenza-urgenza, un'altra un indirizzo oncologico, un'altra ancora un indirizzo grandi specialità e via dicendo. Accade però - signor ministro, può avviare un'indagine, se crede, per verificare quanto le sto dicendo - che le aziende, nelle stesse province, si facciano concorrenza e, anziché dirigere la loro attività verso l'indirizzo al quale sono state destinate, istituiscano, ad esempio, un nuovo servizio di chirurgia toracica, di ostetricia, sebbene ve ne sia un altro


Pag. 18

vicino. Questo è un problema molto importante perché se un'azienda è nata con l'indirizzo oncologico, deve sviluppare quell'indirizzo, e non, ad esempio, l'emergenza-urgenza. Si tratta di un criterio che, però, non viene seguito in tutta Italia.
Sulla questione della cannabis non mi dilungherò. Sarebbe bene, tuttavia, che i medici utilizzassero maggiormente le direttive esistenti per la terapia del dolore. Ricordo che, quando ero presidente della Commissione, i medici che venivano in audizione dichiaravano di non utilizzare neanche i ricettari speciali - che rimanevano accatastati presso il Ministero - per prescrivere i farmaci antidolore, i derivati degli oppiacei e così via. È necessario, quindi, sensibilizzare maggiormente la categoria.
Vengo infine ai recenti casi delle ispezioni. Si tratta di una questione che colpisce tutti, anche perché ogni giorno ne sentiamo una nuova: oggi in Calabria, domani in Sicilia, dopodomani nel Lazio, poi, ancora, in Lombardia o in un'altra regione. Ritengo che, al di là dell'indagine dei NAS, che hanno condotto ispezioni igienico-sanitarie, vi sia anche un problema di ordine organizzativo, importante quanto quello igienico-sanitario.
A ciò si collega un'altra questione, altrettanto importante, sulla quale ho avanzato la richiesta - che, purtroppo, non ha avuto seguito - di istituire una Commissione d'inchiesta, quella degli errori in medicina. Faccio notare che l'errore certamente si può verificare, ma spesso è legato ad un problema di ordine organizzativo generale presente nella struttura. Non so, onestamente, che cosa sia successo nel caso della bambina entrata in coma - sarà la magistratura ad occuparsene - ma i problemi organizzativi giocano sempre, a mio avviso, la loro parte (non vorrei, ad esempio, che si scoprisse che l'anestesista si stava occupando contemporaneamente, di qualche altra cosa e via dicendo). Le mie sono solo ipotesi, per carità, ma avendo vissuto per decenni in sala operatoria so cosa può accadere. Una Commissione d'inchiesta in questo senso sarebbe importante: tranquillizzerebbe i pazienti e, soprattutto, i medici.
Un altro tema, che lei non ha citato, riguarda i problemi assicurativi. È una questione importante, che tutte le aziende evidentemente si pongono, poiché determina conseguenze economiche gravissime: alcune, infatti, non riescono nemmeno più a fare le assicurazioni obbligatorie.
Infine, un'ultima questione, sebbene non sia presente nella relazione, concerne l'ECM. Ribadisco l'importanza di un aggiornamento continuo - elemento fondamentale per il medico, ma soprattutto per i pazienti -, a patto che esso sia realizzato diversamente da come avviene attualmente.

DOMENICO DI VIRGILIO. Ringrazio ancora il ministro per la sua lunga e apprezzabile relazione, in parte, ma solo in parte, condivisibile. Vorrei partire da due considerazioni, legate ad argomenti che il ministro ha affrontato nella parte finale del suo intervento. La prima riguarda la centralità del paziente: tutti dovremmo lasciare questo luogo se non fossimo convinti che la sanità deve mettere al centro il paziente. In questa materia non esiste ideologia che tenga, altrimenti, davvero, non saremmo - per me è così - degni di sedere in questo posto, a rappresentare le istituzioni.
In secondo luogo, i politici devono capire che la sanità deve essere inserita nell'ambito di una programmazione di investimenti, come avviene per altri settori, poiché essa costituisce un settore fondamentale da sviluppare in un paese civile. I cittadini chiedono allo Stato, prima di ogni cosa, lavoro e salute: il resto viene dopo. La salute non può essere considerata indipendentemente dalle risorse economiche.
Tutti i paesi del mondo hanno problemi di risorse economiche da destinare alla sanità. Nell'ambito di un incontro sulla sanità (in occasione di un G8), il ministro della salute statunitense riferì di uno studio secondo cui per soddisfare appieno le esigenze della sanità bisognerebbe dedicare


Pag. 19

ad essa il 16 per cento del PIL, quota che neppure gli Stati Uniti possono permettersi. Questo esempio la dice lunga sulla vastità del problema.
Signor ministro, certamente lei dirige un Ministero molto delicato. Il Presidente del Consiglio e gli altri ministri devono comprendere che la sanità non può essere il fanalino di coda delle risorse che uno Stato destina ai diversi settori.
Mi permetta ora di richiamare rapidamente i diversi argomenti che sono stati trattati. Sul governo clinico, ritengo che esso sia il punto focale, di partenza, per ottenere, come cittadini, risposte concrete ai tanti problemi oggi ingigantiti dai mass media.
Proverò a dimenticare di essere un medico - non vorrei essere tacciato di fare Cicero pro domo sua -, ma non posso omettere una considerazione: gli interventi che lei deciderà, ascoltando tutti, devono sì mettere al centro il cittadino, ma devono, soprattutto, tenere conto di un principio, cioè che nell'ospedale lavorano operatori sanitari, ognuno con il proprio ruolo, la propria responsabilità, la propria formazione, la propria scienza e coscienza, i quali non possono essere completamente succubi del direttore generale.
Come ha sottolineato l'onorevole Palumbo, nella precedente legislatura abbiamo presentato (l'abbiamo riproposto nella legislatura attuale) un progetto di governo clinico, un nostro contributo, perché nella giusta ripartizione delle responsabilità in rapporto alla capacità e alla professionalità vediamo una soluzione ai tanti problemi esistenti.
Oggi, domina la figura del direttore generale, il deus ex machina. Non mi interessa sapere chi lo abbia nominato. I criteri stessi di nomina, probabilmente, vanno rivisti - come lei ha giustamente detto - e non possono limitarsi soltanto all'appartenenza politica, ma devono includere prevalentemente caratteristiche quali la professionalità e la capacità, da tutti i punti di vista.
Il direttore generale non può essere l'unico responsabile di tutto e capace di tutto. Occorre affidare ad ognuno le responsabilità nel proprio campo: bisogna ridare ai medici quello che hanno perduto, chiedendo loro, però, anche di assumersi la responsabilità totale di ciò che fanno. Nelle decisioni, per esempio, abbiamo prospettato l'intervento del Consiglio di direzione, formato dai medici, dai capi dipartimento, dai dirigenti di secondo livello, i quali dovrebbero dare, obbligatoriamente, nel campo di loro applicazione, giudizi e consigli al direttore generale. Diverso è il Consiglio dei sanitari, di cui - giustamente - devono far parte tutte le componenti dell'ospedale (infermieri e via dicendo ), il cui compito consiste nell'esaminare ciò che la direzione, il Consiglio di direzione, il direttore generale propongono da vari punti di vista.
Bisogna ridare ai medici il loro ruolo, chiedendo ad essi il rispetto di tutte le norme e - come dirò in seguito a proposito della libera professione intramuraria - il rispetto di tutte le leggi, comprese quelle fiscali.
Lei ha detto che entro la fine di marzo e l'inizio di aprile intende presentare in Parlamento un progetto di governo clinico al quale saranno affiancati e abbinati gli altri provvedimenti presentati, al fine di una giusta valutazione. Non ci ha spiegato, però, quali siano queste linee fondamentali, a cui ha solo accennato! Leggerò, a questo proposito, molto attentamente la sua relazione, tuttavia non possono non essere previsti, fin da subito, alcuni principi, per esempio, quello secondo cui l'ospedale deve funzionare h 24, non h 12. Chiunque di noi abbia visitato gli ospedali esteri nei paesi più sviluppati, avrà avuto modo di constatare che alle 22 essi funzionano alla stesso modo che alle 9 del mattino.
Oltretutto, questo è un sistema che abbatte le liste di attesa. Non è concepibile che il cittadino italiano, pagando, ottenga una prestazione entro pochi giorni mentre, non pagando, sia costretto ad aspettare mesi. Ciò dipende dalla disponibilità, dall'accesso ai servizi che l'ospedale presta. Se l'ospedale lavora a tempo pieno fino alle 14, al 50 per cento fino alle 20 e, di


Pag. 20

notte, solo per le emergenze, non può rispondere alle richieste dei cittadini.
La domanda di salute cresce sempre di più, perché il cittadino - giustamente - è meglio informato. La prevenzione - lo dico da quando sono medico, cioè da quarant'anni - costa allo Stato ma dà risultati in termini di risparmi successivi. È giusto che il cittadino prevenga le patologie in rapporto a tanti fattori e non si sottoponga ad indagini soltanto quando una data patologia si presenta, scelta che può diventare più rischiosa dal punto di vista psicologico, economico e delle prestazioni.
Penso, quindi, ad un ospedale che funzioni completamente, come detto, h 24. Una soluzione simile comporta una disponibilità di personale; ma i medici, in Italia, sono in eccesso, lo sappiamo. Manca, invece, il personale infermieristico (invito il ministro a tenere presente questo fatto). L'OCSE, in occasione di un incontro nel 2005, ha riportato un dato allarmante: in Italia mancavano 50-60 mila infermieri. In parte, abbiamo fatto fronte a questo problema reclutando infermieri in tutti i paesi dell'est europeo (anche se, secondo me, senza ottenere le risposte ottimali che ci saremmo attesi).
La riforma sulla professione degli infermieri, dal Governo di centrodestra realizzata, ha dato a questa categoria qualcosa in più rispetto al passato. Tuttavia, ancora di più deve essere dato loro, per far sì che i giovani intraprendano questa professione che, peraltro, oggi richiede una laurea, la frequenza di master, eccetera, risultando, quindi, tutt'altro che degradante.
Dal punto di vista economico, poi, i riconoscimenti sono troppo bassi, di conseguenza la carenza di personale infermieristico e tecnico può essere superata attraverso incentivi, che migliorerebbero anche la professionalità.
Per quanto riguarda il problema del risk management, in realtà esso è già stato inserito nel precedente contratto. È un problema serio. Spero che lei sia a conoscenza della quantità di denunce che sono state fatte in Italia. Come si dice, un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce e noi abbiamo il vezzo - chiamiamolo così - di ingigantire gli episodi di malasanità. Non vogliamo certo minimizzare la gravità degli episodi di malasanità accaduti. Se però l'errore umano è sempre possibile, questo si riduce conoscendo i fattori di rischio, migliorando la preparazione e incentivando l'educazione medica continua di tutto il personale.
Tale educazione deve essere resa obbligatoria e dovrebbero essere presi provvedimenti punitivi - o simili - verso chiunque non si aggiorni. Del resto, la tecnologia e la scienza progrediscono, quindi il medico, quando si fa sera, non può sempre starsene tranquillo davanti alla televisione; o meglio, può farlo, ma deve anche dedicare una parte del proprio tempo, al di fuori dell'ospedale, al proprio aggiornamento.
È il sistema del teaching by doing, partecipando, per esempio, ai congressi non soltanto per apprendere ma anche per mettere in pratica. Si pone, quindi, il problema dell'obbligatorietà dell'educazione continua. Avendo partecipato, in prima persona, a tanti congressi, so bene che limitarsi ad ascoltare senza poi mettere in pratica quanto appreso non apporta alcun beneficio ai cittadini pazienti: bisogna sapere fare e questo discorso vale per qualsiasi specialità.
Tutto ciò riguarda il governo clinico. Relativamente alle attività libero-professionali, non citerò la mia esperienza, vorrei però fare notare quanto segue. L'intramoenia allargata è stata una costrizione, perché la legge n. 502 parlava già chiaramente in proposito: dobbiamo distinguere un'attività libero-professionale di tipo ambulatoriale ed una di ricovero.
La legge n. 502 prevedeva che ogni ospedale potesse avere da un numero minimo pari al 5 per cento fino ad uno massimo del 10 per cento di posti letto per la libera professione, aspetto di cui era responsabile il direttore generale. Perché non sono stati presi provvedimenti verso i direttori generali che non hanno ottemperato


Pag. 21

a questa norma ben precisa? Perché non sono stati richiesti i fondi, che sono rimasti nei cassetti del Ministero?
Non intendo piangere sul passato, ma rilevo un dato di fatto che riguarda tutti, anche noi deputati al Governo nella precedente legislatura.
Nessuno obbliga i direttori generali a diventare tali. Se però c'è un concorso per tale ruolo e una persona si presenta, significa che è disponibile a fare ciò e questo nella sua disponibilità include il rischio di pagare se sbaglia in maniera grave. Non si tratta soltanto di raggiungere gli obiettivi e i premi economici: non può essere solo quella la spinta di chi opera nel settore della sanità!
Mi riferivo al problema dei ricoveri per l'attività libero-professionale: quando le strutture saranno in grado di porre al servizio dei cittadini il 5 o il 10 per cento dei letti? A quel punto vi sarà un giusto dualismo con il privato e il cittadino sarà libero - guai se non fosse così - di scegliere dove curarsi! Soltanto una parte dei professionisti hanno scelto - costretti - l'extramoenia o l'intramoenia allargata. Nella mia esperienza, infatti, non è vero che il medico porta i malati fuori dall'ospedale; al contrario, il grande professionista che vede nel proprio studio i pazienti, li indirizza verso l'ospedale! Tuttavia, spesso i cittadini mi domandavano dove sarebbero stati sistemati in ospedale o in quanto tempo sarebbero potuti entrare: a volte essi si trovavano costretti - loro malgrado - a scegliere la struttura privata.
Rimane però il problema della libertà di scelta di dove curarsi. Sono a favore del servizio pubblico nonostante abbia svolto la mia libera professione fuori dagli ospedali, perché costretto. I medici, secondo me, trovano giovamento nell'esercitare la libera professione solo nell'ospedale, quindi dobbiamo dare loro la possibilità di farlo. Non è possibile che si ritrovino in un «buco» dove fare le visite senza neanche un infermiere.
Cito un esempio relativo al settore della chirurgia: il chirurgo che fa l'intramoenia obbligatoria dentro l'ospedale, fuori dall'orario di servizio, deve avere attorno a sé l'istologo che possa compiere un esame istologico in contemporanea, il radiologo che svolga le sue mansioni e via dicendo. E questo è sempre possibile?
La questione è complessa ed è per questo che il 31 luglio sarà necessario verificare quali provvedimenti possano essere attuati. Potrebbe trattarsi anche di un intervento graduale. Non penso che da adesso a luglio le regioni meno virtuose - ma non solo queste - siano in grado di mettere a disposizione dei cittadini - quindi dei medici - strutture adeguate sia per il ricovero, sia per le visite ambulatoriali in modo tale da poter ottemperare a quanto previsto dalla legge n. 502.
Questo è un problema critico, anche per quella minima parte di coloro - come ricordava l'onorevole Palumbo - che hanno scelto la non esclusività di rapporto. Peraltro, considero tale questione un falso problema e, personalmente, non penso che l'esclusività del rapporto abbia aiutato ad una soluzione concreta. È chiaro che chi sceglie il servizio pubblico deve fare ciò stando in ospedale. Il medico, però, non avendo il dono dell'ubiquità non può trovarsi contemporaneamente in ospedale e nella struttura privata nello stesso momento.
Non può esserci alcuna difesa per coloro che operano in malafede: dobbiamo dare delle garanzie ai cittadini e ai medici in questo senso.
Quanto alla medicina del territorio, si tratta di un capovolgimento inevitabile che interessa i medici di medicina di base. Ministro, ho chiesto la stessa cosa la volta scorsa e lo rifaccio a nome dei cittadini: in Italia ci sono 2.500 persone in stato vegetativo persistente, così come emerge da un'indagine ufficiale condotta in tutti i centri italiani. È stato prodotto un documento - penso che sia ora all'attenzione della Conferenza Stato-regioni - contenente le linee-guida operative per venire incontro a questi cittadini e alle loro famiglie.
Come possiamo pretendere che una famiglia abbia in carico un soggetto in tale stato, senza essere aiutata sotto altri punti


Pag. 22

di vista? È necessario che essa possa contare su un medico, un infermiere a casa, un riabilitatore, uno psicologo e su un bonus (che mi auguro inseriremo nel fondo per l'autosufficienza, in modo che si possano pagare le prestazioni che non sono previste nei dispositivi medici e nel prontuario). Diversamente, ci limiteremo, tutti quanti, a chiacchierare e a fare solo della demagogia, cosa che non giova ad alcuno. I cittadini ci giudicheranno in rapporto a quello che sapremo concretamente dare loro.
Inoltre, anche se il tema non era all'ordine del giorno, vorrei domandarle a che punto è il contratto per gli specializzandi, visto che i fondi ci sono ma rischiamo di perderli. Questo contratto avrebbe dovuto partire con l'inizio dell'anno accademico, a novembre (non conosco l'iter, quindi, mi domando a che punto sia tale contratto che, peraltro, è finanziato, per i prossimi anni, con 300 milioni di euro aggiuntivi).
Quanto ai talassemici e all'indennizzo, lei ha fornito un'ampia risposta. Io, però, ho presentato un emendamento in occasione dell'ultima finanziaria - d'accordo anche con molti colleghi dell'attuale maggioranza - che prevedeva 80 milioni di euro per l'anno 2007 e 60 milioni per il 2008 ed il 2011, al fine di indennizzare i circa 1.500-1.700 aventi diritto che non sono stati indennizzati - come gli emofilici - dalla legge 20 giugno 2003: questi cittadini hanno diritto all'indennizzo e al risarcimento! Le vorrei chiedere specificamente in che tempi ciò - anche se è un tema complesso e le richieste aumentano - avverrà.
Inoltre, riaprirei i termini per i cittadini che non hanno potuto fare, per diversi motivi, richiesta di risarcimento e di indennizzo. Per esempio, recentemente, 30 trasfusi occasionali, in seguito all'intervento della Cassazione, hanno avuto ragione e diritto al risarcimento ma non so a che punto sia il procedimento. Questi soggetti, peraltro, si aggiungono agli altri prima citati.
Per quanto riguarda la cannabis, lei ha fatto una giusta distinzione riguardo all'uso terapeutico. Esiste già una commissione ministeriale che ha dato alcune risposte sul giusto utilizzo della cannabis. La terapia del dolore è fondamentale, ma noi medici non siamo adeguatamente formati perché prima non ci insegnavano ciò. Il decreto Sirchia ha rappresentato un passo in avanti, visto che la prescrizione di farmaci antidolorifici oppiacei è aumentata di 60 volte, tuttavia i medici devono essere formati ad applicare pienamente la terapia del dolore (essendo, tra l'altro, un loro compito quello di togliere il dolore ai pazienti).
Da cattolico, mi permetta una citazione. Quando non si parlava di bioetica, nel 1957, ad un congresso mondiale degli anestesisti, il presidente chiese se fosse lecito usare farmaci antidolorifici per lenire il dolore, anche se l'effetto secondario avrebbe potuto portare all'abbreviazione della vita. Pio XII, in quella occasione, rispose che, una volta espletati i propri doveri, era lecito ricorrere a questo metodo. Io mi sono sempre comportato in questo senso e sono dell'avviso che i medici non sappiano utilizzare appieno i farmaci antidolore.
Molte domande - ma non mi addentro nel problema - di eutanasia cadrebbero se fossimo più vicini al malato. Un conto è la terapia di una patologia che, ad un certo punto, può risultare inutile, o perché non esiste una terapia specifica o perché si è fatto tutto quello che si poteva fare, altra cosa è prendersi cura del paziente. Ciò non significa usare farmaci specifici, bensì farmaci antidolorifici e, soprattutto, stare accanto al paziente e alla famiglia: sono due cose diverse. Questa risposta ai cittadini è fondamentale.
L'assunzione di cannabis per uso personale è una questione diversa. Si tratta, indubbiamente, di due argomenti nettamente distinti. Sono favorevole all'uso della cannabis per progetti scientifici ben sperimentati. Mi permetta di richiamare, ancora una volta, la sua decisione di aumentare la dose minima che una persona può detenere senza incorrere in infrazioni.


Pag. 23

Mille milligrammi sono una dose sproporzionata, nel senso che l'effetto di uno spinello...

DONATELLA PORETTI. Perché fa confusione apposta!

DOMENICO DI VIRGILIO. Non faccio speculazioni, ma accetto la critica dell'onorevole Poretti. Chiedo però a lei, signor ministro, di concedermi un minuto alla fine di questa audizione per dirle cosa penso in merito a questo argomento.
Infine, un rapido cenno alla ristrutturazione degli ospedali. Signor ministro, lei ha girato in Italia, per gli ospedali, più di quanto abbia fatto io: non è possibile che ci siano ancora camere a sei, otto, dieci letti, con i bagni lontani cento metri! È veramente assurdo! Metta in pratica ciò che ha prima affermato, cioè mandi via i direttori generali che non utilizzano i fondi e coloro che non presenteranno progetti di ristrutturazione e di ammodernamento degli ospedali.
Nessuno va volentieri in ospedale. Come diceva un cardinale, passano più persone negli ospedali che in chiesa. Ciò significa che, volenti o meno, si tratta di un luogo con cui - ahimè - prima o poi tutti dobbiamo prendere contatto. Tutti vorremmo incontrare maggiore umanità non solo da parte dei medici ma nelle strutture stesse, che dovrebbero potere disporre di un livello terapeutico efficiente.

GIACOMO BAIAMONTE. Signor ministro, formulerò alcune osservazioni in riferimento a quanto da lei ha affermato nelle linee generali. In alcuni punti, se riterrà il mio intervento un po' aspro, non lo prenda come un fatto personale, perché la stimo veramente. È il concetto organizzativo a cui vogliamo dare peso nell'organizzazione della sanità che, da certi punti di vista, non condivido. Non affermo ciò per pura posizione politica. Infatti, sono stato critico nei riguardi della mia parte politica e del ministro Sirchia - proprio lui, da tecnico, avrebbe dovuto meglio considerare la situazione - quando non ha attuato alcune iniziative.
Inizio il mio intervento con il tema del governo clinico, cui lei fa spesso riferimento. Nella passata legislatura non solo la mia parte politica non ha considerato seriamente il problema, malgrado fossero stati presentati dei progetti di legge sul governo clinico (mi riferisco, in particolare, a quello presentato dall'onorevole Palumbo, che io stesso ho firmato), ma alcuni della sua parte politica, proprio in quest'aula, hanno fatto di tutto per non attuare quel disegno di legge che lei, giustamente, oggi, ritiene debba essere modificato.
La figura del manager è sorta con la legge n. 229 perché c'erano situazioni amministrative veramente gravi: negli ospedali la spesa non era contenuta. Nella legge n. 229 è stata quindi prevista la figura del manager, che doveva - anzi, era il suo compito fondamentale - controllare la parte amministrativa. Invece, il manager avendo ricevuto un potere enorme, ha cercato di mettere il naso in questioni che non avrebbe dovuto prendere in considerazione, prima di tutto perché non aveva la giusta esperienza, in secondo luogo perché si sarebbe dovuto attribuire tale responsabilità, sia civile che penale, ai tecnici competenti nei vari ambiti. Penso principalmente al direttore sanitario, ma anche ai primari, i quali - signori miei, diciamolo fuori dai denti, non perché sono medico e professore universitario - hanno oggi una preparazione nozionistica. Essi acquistano un potere enorme nella conduzione di determinati reparti, senza una preparazione anatomica e fisiopatologica fondamentale. Ciò accade perché sono stati collocati in posizioni apicali da persone che non conoscono le conseguenze per la vita del cittadino che lei, giustamente, definisce protagonista. Purtroppo, però, il cittadino è protagonista perché ci rimette la salute: quando va in ospedale, non lo fa per passeggiare ma perché ha bisogno di essere curato da medici che dovrebbero avere la giusta preparazione!
Tuttavia, oggi vedo solo una preparazione nozionistica. Per esempio, i policlinici universitari - questo è l'errore che abbiamo commesso - non devono essere


Pag. 24

convenzionati con il Servizio sanitario nazionale per fornire delle prestazioni. Devono garantire la formazione, in modo che gli ospedali possano avere medici preparati dall'università. I policlinici universitari devono avere un numero limitato di posti letto, da utilizzare soltanto per la formazione e la preparazione e non per altro (magari per accontentare Tizio o Caio). Il professore universitario deve fare il suo mestiere, deve preparare le nuove generazioni di medici, deve continuare nella sua attività di formazione, non offrire prestazioni sanitarie, compito che spetta agli ospedali. Ci sono scuole che sono, purtroppo, scomparse e anche questo aspetto sta alla base della nostra organizzazione sanitaria.
Si sono attaccati i «baroni» universitari per certi aspetti, ma essi costituivano la base della formazione, della cultura che doveva avere un medico quando arrivava alle funzioni primariali, ossia quando aveva la responsabilità di portare avanti non solo un reparto, ma anche gli assistenti che lo seguivano nella cura dell'ammalato (il quale si aspetta di essere curato, non di ricevere delle nozioni).
A tale proposito, mi permetta di non accettare il concetto dei pacchetti di prestazioni. Signor ministro, il medico deve essere libero, secondo scienza e coscienza. Ogni malato è un caso a sé. Non posso, in quanto medico, avendo davanti un malato che viene da me per un tumore al pancreas, proporgli un pacchetto di prestazioni. Quell'ammalato, oltre ad avere quell'affezione, ne avrà altre al fegato, al polmone, al sistema cardiocircolatorio e via dicendo. Non si tratta, quindi, di concetti schematici: di fronte al malato il medico deve avere la preparazione giusta.
L'altro giorno un collega parlamentare è venuto da me protestando perché il suo nipotino di due-tre mesi è stato portato in ospedale per un'alveolite (malattia molto seria nei bambini) e gli sono stati somministrati dei fluidificanti (in base ad una conoscenza nozionistica), senza sapere che la sua malattia si era trasformata in una polmonite settoriale perché il muco era rimasto lì. Si tratta di concetti fisiopatologici: il medico non può fermarsi all'aspetto nozionistico. Ecco perché affermo che le scuole devono esistere e ciò non va considerato in senso negativo.
Abbiamo visto scene veramente vergognose per un paese civile, riguardanti l'igiene negli ospedali. Signori miei, una volta l'igiene negli ospedali veniva affidata al direttore sanitario che, per sua formazione, doveva essere un igienista: non sono i NAS a dover controllare se c'è la spazzatura dietro la porta!
Quando ero in attività, invitavo due volte al mese il mio direttore sanitario, che era un igienista molto serio - la professoressa Valentino -, a mettere le piastre per la disinfezione del complesso operatorio: ciò rientra in una prevenzione che è ineludibile. Nei reparti ci deve essere un'igiene assoluta. Non possiamo assistere a scene così degradanti, vergognose, anche dal punto di vista della dignità professionale del medico che è costretto a operare in un determinato contesto. Non deve accadere che i NAS vengano a controllare le strutture ma poi, quando se ne vanno, tutto riprende nella stessa maniera! Deve essere responsabilizzata una persona che si occupi dell'igiene nell'ospedale!
Mi ricollego ad un'affermazione importante del professor Veronesi, il quale, giustamente, ha detto che è necessario distinguere l'aspetto alberghiero dall'aspetto sanitario. È su questo che dobbiamo spendere i nostri soldi, signor ministro, per offrire degli ospedali organizzati! Una volta superata la fase acuta, la fase alberghiera si svolga fuori, ma la struttura fondamentale deve comunque avere requisiti igienici di un certo tipo.
Per quanto attiene all'attività intramoenia, questo è un argomento sul quale dobbiamo riflettere attentamente. Tale attività, che è un diritto del medico e del cittadino, non si esaurisce soltanto nell'ambulatorio dove si svolge la prestazione medica. L'attività intramoenia deve essere legata, in un ospedale, anche alle strutture operatorie, radiologiche, rianimatorie, che devono avere un'organizzazione tale da venire incontro alle assistenze privatistiche. Si rende conto, signor ministro, di


Pag. 25

quello che potrebbe succedere, per esempio, se ad una determinata ora, quando il medico Tizio sta svolgendo l'attività privata in ospedale, arriva un caso urgente ma la sala operatoria è occupata dal privato e non può, quindi, essere utilizzata per il malato proveniente dal pronto soccorso? Si creerebbero e si creeranno dei contrasti medico-legali molto seri.
Perché il medico non deve essere costretto a svolgere in ospedale, nelle ore in cui è necessario, la sua attività pubblica, con tutte le conseguenze? Radiamolo dall'albo se si comporta male o se assume comportamenti sbagliati! Però, quando lavora fuori, nell'interesse sia del cittadino, sia del medico stesso, che svolga la sua attività privata senza compiere atti disonesti o immorali che possano inficiare la dignità di tutta la categoria professionale, non da ultimo la prestazione alla quale il cittadino paziente ha diritto.
Riguardo all'università, signor ministro, dovremmo rivedere con il ministro dell'università gli aspetti riguardanti le specializzazioni. Attualmente, nell'organizzazione dei servizi sanitari del paese, come il 118, è necessario avere molti specialisti di rianimazione che possano dare risposte alle esigenze del territorio. Porto un esempio banale: sappiamo che nell'ambulanza che deve prestare soccorso è prevista la presenza di un medico generico, il quale non ha la giusta preparazione per intubare (inserire un tubo nelle vie respiratorie) l'ammalato in una situazione grave, mentre dovrebbe esservi un anestesista rianimatore, perché in pochi secondi in quell'ambulanza si può decidere della vita di una persona.
Non è un'inchiesta che risolve i problemi come nel caso dell'ospedale calabrese, dove abbiamo appreso di una spina non collegata al gruppo elettrogeno. Come è possibile che avvenga un fatto simile in una struttura ospedaliera? È una questione di responsabilità! Non voglio addentrarmi nell'argomento - su questo problema ho le mie idee ma non intendo esprimerle qui perché c'è un'inchiesta in corso - tuttavia, signor ministro, queste sono responsabilità serie, che dipendono soltanto dalla mancanza di cultura di chi deve seguire l'ammalato che necessita di cure!
Non possiamo permettere che in una sala operatoria ci sia una spina non collegata al gruppo elettrogeno. Ma scherziamo? Magari quella spina potrebbe essere inserita da un inserviente che fa le pulizie e che, non rendendosi conto della differenza tra le diverse prese, utilizza quella sbagliata. Sono errori determinati dalla mancanza di responsabilità precise, da gente che non ha la cultura ospedaliera.
Le chiedo nuovamente, signor ministro, di riflettere su tali questioni nell'interesse di tutti noi cittadini: io per primo domani mattina, potrei avere bisogno di queste attenzioni (non dico ciò egoisticamente). È importante cambiare le cose: ne va della dignità di un paese civile come il nostro. Non dobbiamo più assistere a scene come quelle riferite dalla televisione (anche se ingigantite).
La ringrazio e mi fermo qui, perché i problemi sono tanti e tali da richiedere un'attenzione particolare.

DONATELLA PORETTI. Innanzitutto, ringrazio il ministro Turco per la relazione - che suggerisco a tutti di leggere - e per la parte riguardante la cannabis terapeutica.
Ho invitato l'onorevole Di Virgilio a separare i due aspetti: si tratta di una pianta che può essere usata in diverse maniere. Per esempio, con lo stesso coltello da cucina si possono tagliare le patate o ammazzare qualcuno. Un discorso analogo dovrebbe valere anche per la cannabis indica. Purtroppo, per una certa confusione, più o meno volontaria, l'uso terapeutico della cannabis ha incontrato non poche difficoltà nell'applicazione pratica (ma anche negli studi scientifici). Questa, senza ombra di dubbio, è una conseguenza della criminalizzazione della sostanza usata per scopi ludici. È utile avere richiamato il fatto che le stesse Convenzioni dell'ONU criminalizzano quella sostanza come stupefacente ma ne promuovono e incentivano l'uso terapeutico.


Pag. 26


In Italia abbiamo difficoltà estreme - siamo tra gli ultimi paesi nel mondo - per quanto riguarda le terapie del dolore. Inoltre, alcune leggi rendono ulteriormente difficoltoso l'utilizzo di queste sostanze anche se, per certi versi, il loro impiego è stato ora semplificato grazie ai ricettari speciali. Che vi sia bisogno di un'ulteriore azione a livello culturale sugli stessi medici affinché prendano coscienza della questione, è un altro discorso ancora.
Tuttavia, leggendo il suo testo scritto, si apprende che ulteriori difficoltà sono oggi date dalla legge Fini-Giovanardi, che avendo tolto i derivati sintetici della cannabis da una delle tabelle e avendoli lasciati soltanto in un'altra...

GIUSEPPE PALUMBO. Lasciamo perdere questo argomento!

DONATELLA PORETTI. Mi riferisco all'uso terapeutico. Sto parlando delle tabelle che permettono o meno l'importazione dei derivati sintetici della cannabis terapeutica.
La legge Fini-Giovanardi è intervenuta - proprio per la confusione che si crea per proibizionismi vari - ad eliminare i derivati sintetici della cannabis da una tabella, rendendo difficoltosa l'importazione degli stessi. Lei ricordava che sono state emanate due ordinanze e che si spera di reinserire tali sostanze in quelle tabelle, ma, ovviamente, si parla sempre di importazione, quindi occorre il passaggio successivo, un atto dovuto che permetterebbe all'Italia di essere alla pari degli altri paesi. Bisogna consentire una normale diffusione di tali sostanze, ovviamente attraverso debita ricetta medica. Auspico, come lei, una rapida approvazione di questo testo da parte del Senato.
Per quanto riguarda i derivati sintetici della cannabis, le chiedo di fare un passo in avanti. Infatti, sono utilissimi i derivati sintetici ma ulteriori studi certificano come l'assunzione della pianta naturale, in alcuni casi, sia ancora più efficace. Ad esempio, se il Marinol impiega da una a quattro ore per fare effetto, in alcuni casi, per alcune patologie, l'assunzione della cannabis di tipo naturale può essere maggiormente consigliata.
È incredibile come, in questa materia, si debba imparare a separare l'uso terapeutico da quello ludico. Il primo è consentito in alcuni paesi, come gli Stati Uniti e il Canada, anche con la coltivazione della pianta naturale, il secondo in alcuni regimi proibizionisti. La invito a prendere in considerazione e a verificare quegli studi secondo cui tale sostanza è consigliata non soltanto in alcuni casi per i suoi effetti, ma anche da un punto di vista dei costi che il sistema deve sopportare. I costi delle piante, infatti, sono decisamente inferiori rispetto a quelli di un derivato sintetico.

LUIGI CANCRINI. Vorrei, innanzitutto, ringraziare il ministro per l'esposizione ampia, lucida e chiara, che condivido nella grandissima parte. Mi permetto di dare alcuni suggerimenti su certi punti, alcuni dei quali affrontati, mentre altri non lo sono stati.
Tra le questioni affrontate vi è quella degli indennizzi, che vorrei sottolineare. Alcune norme sulla prescrizione relativa agli indennizzi fanno risalire il diritto all'indennizzo ai tempi in cui si è verificato l'evento, ad esempio la vaccinazione. Tuttavia, bisognerebbe tenere conto del fatto che la diagnosi che permette il collegamento a volte avviene dopo molti anni, soprattutto per quanto riguarda le vaccinazioni. Ritengo che sarebbe opportuno ragionare sul fatto che la prescrizione debba essere collegata al momento in cui la persona apprende che ciò che le è accaduto dipende dalla vaccinazione e al momento in cui è avvenuta la vaccinazione. Si tratta di un piccolo suggerimento, ma è anche richiesto dalle associazioni dei familiari.
La seconda questione che vorrei sollevare riguarda un argomento che il ministro non ha affrontato anche se so che, in questa fase, il Governo si sta muovendo in tale direzione. Sto parlando del passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Pregherei il ministro di immaginare un incontro in Commissione affari sociali per discutere di un


Pag. 27

tema così delicato ed importante. Ci troviamo di fronte ad una legge del 1999 - che non è stata attuata da allora - che a mio avviso aveva un punto di debolezza, relativo alla necessità di immaginare che il passaggio avvenisse senza aggravio di spesa. Ritengo che questo sia un punto debole, soprattutto per alcuni aspetti della medicina penitenziaria.
Fornisco un dato che è stato reso noto recentemente dal Ministero della giustizia. Fra gli indultati c'erano 2.400 pazienti definiti come psichiatrici cronici e 7.000 tossicodipendenti, di cui la metà non aveva rapporti con i SERT. Si tratta di numeri che, anche se forniti dal DAP (quindi, forse, devono essere rivisti con attenzione), comunque rendono la dimensione dei problemi psichiatrici e di tossicodipendenza presenti nelle carceri.
A questo punto, immaginare che questa enorme concentrazione possa passare ai rispettivi dipartimenti o servizi delle ASL, senza che queste ultime prevedano un piano di potenziamento, mi sembra quantomeno rischioso. È un aspetto su cui riflettere attentamente. Un esempio drammatico a Roma è rappresentato dal carcere di Regina Coeli, dove non c'è uno psichiatra strutturato e le consulenze sono esterne (provengono dall'ospedale San Giacomo).
Dobbiamo tenere conto del fatto che c'è una debolezza strutturale della medicina penitenziaria su alcuni settori e che il semplice passaggio al Servizio sanitario nazionale non assicura ai detenuti il diritto di poter usufruire delle stesse prestazioni degli altri cittadini. Mi permetto di segnalare l'importanza del passaggio, attraverso questo decreto interministeriale, del personale che lavora negli ospedali psichiatrici penitenziari, perché si tratta di medici specialisti. In quell'ambito, la carenza dal punto di vista quantitativo è ancora più grave. Penso che se la Commissione dovesse recarsi in visita, per esempio, ad Aversa o a Barcellona Pozzo di Gotto, si renderebbe conto che questi medici sono veri e propri eroi che lavorano in condizioni estremamente precarie e hanno notevoli carichi assistenziali e di responsabilità.
Tra l'altro in questi giorni, a seguito della legge finanziaria, c'è stato un decremento delle ore disponibili per gli specialisti che lavoravano negli OPG. Anche questo è un grave problema perché le ore erano già scarse. Ritengo che questa sia una materia che valga la pena di discutere ampiamente, tenendo conto delle esigenze che vi stanno dietro.
L'onorevole Baiamonte ha segnalato alcuni aspetti sui quali mi trovo abbastanza d'accordo, forse perché abbiamo una provenienza comune (vengo anch'io dall'università). Mi riferisco, in particolare, alla questione dei policlinici universitari, che hanno la capacità di concentrare su di sé problemi che altri ospedali non hanno. Ancora una volta, abbiamo parlato di policlinico universitario e mi pare non solo di quello romano.
Permettetemi di proporvi un ricordo di quando ero responsabile regionale alla sanità nel vecchio partito comunista (ne discutevo con Petroselli, un bel ricordo per me). Il Policlinico Umberto I a Roma costituisce da allora un problema che non è mai stato affrontato nella sua interezza. Intendo dire che il grande problema del Policlinico Umberto I - in cui ho passato 35 anni della mia vita - è quello di una doppia gestione, universitaria e ospedaliera. Esiste del personale che svolge le stesse mansioni, per conto dell'università o per conto dell'azienda ospedaliera, ma con diverso stipendio, diverso orario di servizio e nessuna organizzazione comune.
Sono più di venti anni che mi dico: ci sarà un Governo che affronterà il problema dei policlinici universitari con una legge. In realtà, non si può sperare di affidare la risoluzione della questione alla convenzione tra regione ed università, perché le convenzioni sono stiracchiate fra interessi particolari. Infatti, da una parte c'è una facoltà di medicina che vuole aumentare i primariati, i servizi - ed è naturale che sia così -, perché tutti i suoi professori vogliono il primariato, dall'altra


Pag. 28

parte c'è una regione che deve contenere le spese; nel mezzo ci sono poi le strutture, che sono deboli.

GIACOMO BAIAMONTE. C'è anche lo studente che si deve formare, dall'altra parte ancora...

LUIGI CANCRINI. Sui policlinici universitari è dunque necessaria una riflessione ampia (il policlinico dove avviene l'insegnamento universitario, in Francia, è una cosa seria).
Altra questione è quella dei concorsi, di cui si era parlato in sede di programma e che è stata riproposta da alcuni. Non è pensabile che il responsabile di un servizio complesso sia nominato da un manager tra una serie di persone. A mio parere, nel mondo siamo solo noi a fare una cosa del genere! Mi pare che lo stesso ministro avesse accennato a questo problema. Dobbiamo immaginare un sistema diverso. Personalmente, conosco quello spagnolo e mi sembra interessante. Si tratta di graduatorie nazionali, che consentono alla persona che sta in alto di scegliere la sede quando si libera un posto. Questo meccanismo riguarda anche coloro che fanno il concorso per le specializzazioni. Per esempio, poniamo il caso che per le specializzazioni in chirurgia ci siano mille posti in tutta la Spagna, si bandisce un concorso nazionale e chi vince sceglie il luogo.

GIUSEPPE PALUMBO. Era stata avanzata questa proposta, ma poi non vollero...

LUIGI CANCRINI. Benissimo, ma io dico che questi sono aspetti su cui occorre riflettere nuovamente. Ho fatto parte di commissioni universitarie in cui si decideva chi sarebbe entrato nella scuola di specializzazione ed era chiarissimo che sarebbe entrata solo una persona per ognuno dei membri della commissione. Il bando nazionale e una riflessione più ampia consentirebbero di ridare dignità alle scelte che si compiono, a partire dagli specializzandi.
Un'altra questione riguarda i tempi di attesa, problema di cui ci occupiamo da venti anni senza essere mai riusciti a trovare una soluzione definitiva. È stato già sollevato il problema dei CUP, che rappresentano sicuramente il punto centrale da cui partire. Il CUP non può essere né tutto regionale, né tutto provinciale, nel senso che ci sono alcuni servizi attivi a livello regionale (ad esempio, il servizio di neurotraumatologia non può esistere in ogni provincia) e altri che devono essere più provinciali o, addirittura, distrettuali. Tuttavia, il vero problema è l'accesso ai CUP da parte del medico di base, che dovrebbe avere a disposizione un computer attraverso il quale verificare quali esami un suo paziente possa o meno fare e in quali giorni. Questo sarebbe un sistema che potrebbe funzionare.
Il CUP a disposizione diretta del cittadino è un problema innanzitutto di capacità di accesso, perché non tutti sono in grado di utilizzarlo. Dovremmo immaginare un sistema che possa veramente funzionare e posto che i medici e i pediatri di base ci sono, proprio essi possono costituire una chiave importante per la soluzione.
Un'ulteriore questione - anch'essa già affrontata dal suo Ministero e attuata in Francia a livello di sperimentazione - riguarda la cartella elettronica del cittadino. Noi abbiamo un enorme ritardo sulla ripetizione degli esami: se un paziente avesse nella sua cartella la diagnostica per immagini e dall'ospedale o dalla struttura in cui si reca potesse richiamare con facilità gli esami cui si è già sottoposto, non ci sarebbe motivo di ripeterli! La ripetizione degli esami costituisce uno degli aggravi enormi di spesa sanitaria nel nostro paese: in ogni ospedale in cui si entra si ricomincia tutto da capo, per la difficoltà di acquisire la documentazione precedente.
La decisione francese è interessante da questo punto di vista: ognuno dispone di una cartella elettronica su cui sono riportati tutti gli esami effettuati. Questa soluzione porterebbe ad una enorme diminuzione delle analisi inutilmente ripetute e


Pag. 29

consentirebbe al medico, che ha di fronte a sé il paziente, di avere sottomano un dossier completo con tutti gli esami.
Forse vale la pena di ragionare sull'idea - eventualmente cominciando con una sperimentazione in alcune regioni - di mettere in piedi questo sistema. Penso infatti che la diminuzione delle liste di attesa passi più attraverso provvedimenti di questo tipo, che non di tipo strutturale.
Accenno ad un'altra questione. Sarebbe interessante per noi tutti capire meglio che cosa concretamente può accadere per modificare l'equilibrio tra gestione amministrativo-politica e gestione professionale, nell'ambito del nuovo sistema sanitario. Spero che il ministro Turco possa dirci qualcosa di più in sede di replica per poi aprire un ampio dibattito in merito.
Infine, il personale sanitario non è composto solo da medici, i quali, a mio parere, non hanno neppure un ruolo privilegiato nell'ambito dell'organizzazione. Si tratta di un punto molto delicato. Penso che la nostra sanità sia debole, in tante situazioni, proprio perché sono deboli la posizione e il livello del personale infermieristico.
L'infermiere inglese è un personaggio importante nella struttura ospedaliera, mentre nella struttura italiana l'infermiere non conta nulla e ciò costituisce un danno per il paziente. La differenza riguarda aspetti stipendiali e di livello, come il riconoscimento. L'infermiere è un laureato - seppure con una laurea breve, di tre anni - e dovrebbe ricevere un certo tipo di riconoscimento. A mio avviso, si tratta di rivedere l'organizzazione del sistema sanitario anche da questo punto di vista. Sono convinto che l'igiene di un ospedale dipenda da come lavorano gli infermieri, più che da come lavorano i medici. Considerare il lavoro ospedaliero come un lavoro di équipe, a cui diverse professionalità concorrono, è un punto su cui è importante riflettere, anche in sede di apertura di tavoli di trattativa. Privilegiare troppo i medici (stando alla mia esperienza del passato), significa stringere in un imbuto le soluzioni organizzative. Ciò riguarda anche l'intramoenia, che non è solo medica. Si tratta comunque di un tema sul quale spero che avremo modo di tornare in maniera più ampia.

GERO GRASSI. Mi consentirà di procedere per flash, considerata anche l'ora tarda. Ringrazio il ministro, soprattutto, per la passione civile e la speranza trasmesse, che mi sembrano elementi intrinseci importanti nel suo intervento. Mi consentirà, però, di pungolarla su qualche tema.
La descrizione che il ministro fa del governo clinico è, per certi versi, una speranza, per altri una situazione localizzata semplicemente nell'area centro-settentrionale d'Italia. Tale descrizione, se ricondotta al sud, appare eccessivamente ottimista, soprattutto nella sua concreta realizzazione. Ritengo che il ministro abbia fatto benissimo a utilizzare i NAS. Dovrebbe, però, aggiungere a questa altre azioni (qui la pungolo pesantemente). Innanzitutto, le regioni, soprattutto quelle del sud, devono essere indotte a spendere bene e subito il denaro a disposizione, anche con la minaccia di poteri sostitutivi: quello della sanità non è un campo nel quale posizioni asettiche o di terzietà possono lasciare alla deriva il settore.
Oltre a ciò, è necessario che, su iniziativa del ministro, si riveda il problema della quota capitaria. Mi rendo conto che è materia di Conferenza Stato-regioni, ma mi rendo altrettanto conto che i criteri maggiormente indicativi, allo stato attuale, della divisione del denaro tra regioni sulla quota capitaria continuano a penalizzare il Mezzogiorno d'Italia. Ciò non può avvenire, perché non si realizza un criterio distributivo di giustizia; al contrario, nella Conferenza Stato-regioni, vuoi per alleanze localistiche, vuoi per input derivanti dai decreti ministeriali precedenti, si realizza il massimo dell'ingiustizia, considerato anche che l'Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato che uno dei criteri da tener presente nella discussione generale della malattia e della sanità è la povertà. A me non sembra invece che la povertà sia stato un criterio preso in considerazione.


Pag. 30


Proseguendo per grandi linee, rivolgo un invito al presidente Lucà, che so essere sensibile a certi temi. Insieme ad alcuni colleghi abbiamo ripresentato una proposta di legge - la D'Alema-Turco della precedente legislatura - adeguata agli ultimi avvenimenti. Quella proposta di legge pone il problema delle strutture sanitarie e dell'edilizia sanitaria nel Mezzogiorno. Ebbene, invito il presidente Lucà a porla quanto prima in discussione.

PRESIDENTE. Mi scusi, ma quella proposta non è stata ancora assegnata. Risulta infatti essere ancora nelle mani del primo firmatario, l'onorevole Dorina Bianchi.

GERO GRASSI. Va bene: la recuperiamo subito. Quella proposta di legge interviene sulle carenze strutturali del Mezzogiorno, il quale non ha bisogno di provvedimenti-tampone. Sono d'accordo con il ministro quando afferma che la sanità è un investimento, ma ritengo che questo assunto si debba trasformare in provvedimenti legislativi. Da questo punto di vista, il sud non ha bisogno di pannicelli caldi, bensì di capovolgere una visione della sanità che lo rende molto arretrato. Non voglio combattere una battaglia localistica, né aspiro a diventare un leghista al contrario. Parto invece dall'idea che il problema del deficit sanitario del Mezzogiorno non permette di realizzare un'efficienza nemmeno nel settentrione d'Italia. Infatti, se noi paghiamo la migrazione sanitaria in termini economici, il nord la paga in termini di sovraffollamento e questo non mi sembra giusto. Abbiamo il dovere di una deospedalizzazione della sanità.
L'ultimo punto che vorrei affrontare è relativo ai policlinici e mi collego a quanto già detto dall'amico Cancrini. Un'idea potrebbe essere quella di creare delle fondazioni. Uno dei motivi per i quali i policlinici tardano a mettersi in riga con una sanità efficiente consiste nella vexata quaestio dell'ente locale che resta fuori dalla gestione. Si potrebbe immaginare una fondazione, alla base dei policlinici, che tenga al suo interno l'università, l'ASL e l'ente locale comunale sul quale il policlinico insiste. È chiaro che questa è solo una proposta, ma l'affido al ministro, così come rimetto al ministro, sensibile a questo tema, un'iniziativa sulla quota capitaria.
So che nelle ultime Conferenze Stato-regioni il ministro ha rappresentato una posizione di equilibrio e qualcosa si è messo in moto, ma sono altrettanto consapevole del fatto che, senza un'iniziativa forte da parte sua, il rallentamento sarà costante.

PRESIDENTE. Onorevole Mazzaracchio, le do la parola per l'ultimo intervento, invitandola però ad essere breve: tenga conto che il ministro si sarebbe dovuto allontanare per le ore 13.

SALVATORE MAZZARACCHIO. Potrei limitarmi esclusivamente alla premessa del mio intervento. Se volessimo aggiungere altre voci alle carenze esistenti, basterebbe l'elenco citato dal ministro, che è esauriente, ma gli altri colleghi sono stati ancora più minuziosi nell'elencare le cose che non vanno.
Signor ministro, vedo che lei impiega tutta la sua buona volontà: ci rivedremo forse martedì, forse il mese prossimo, ma la verità è un'altra. I problemi della sanità, ma non solo quelli, sono in questo momento insolubili a causa della normativa generale. Parliamo di uno Stato che è, di per sé, in un momento di grande confusione. Si è avviata la riforma del pilastro costruttore della vita di un paese, la Costituzione. Bassanini ha fatto la sua parte, noi abbiamo capito - o meno - quali sono i compiti dello Stato, delle regioni, delle autonomie, e abbiamo realizzato un altro pezzo di riforma. Sta di fatto che oggi - con tutta la buona volontà del ministro e di noi tutti - non si può muovere un calamaio perché subito diventa materia concorrente. Lei lo sa benissimo. Sono certo che quando incontra i suoi assessori, anche se sono in prevalenza amici, essi non si tirano indietro quando si tratta di difendere le loro prerogative.
Il problema è questo: se non facciamo chiarezza sui compiti dello Stato, delle


Pag. 31

regioni, delle province, dei comuni, se la riforma costituzionale non viene realizzata, non usciremo mai da queste problematiche. Non si tratta di spendere e di farlo bene: sappiamo tutti che per spendere un centesimo ci sono procedure infinite. Basta un ricorso al TAR e si blocca tutto, per mesi, per anni. Inoltre, non c'è solo il TAR, ci sono i comuni, le province e tutta una serie di atti amministrativi che bisogna portare avanti per spendere le risorse a disposizione.
Non si tratta, quindi, di un problema di risorse. Non voglio enfatizzare la nostra situazione ma, ormai, siamo quasi a livello degli altri paesi europei. Nel 2001 il 4,6 per cento del prodotto interno lordo era a disposizione della sanità, come fondo sanitario; oggi siamo al 6,7 per cento circa, mentre gli altri paesi sono tra il 6,5 e il 7,3 per cento circa. Ci stiamo, quindi, avvicinando molto agli altri paesi europei, anche a quelli più progrediti. Il problema - lo ripeto - non sono le risorse, che oggi esistono.
La verità è che tutta la complessa normativa esistente - per cui non si sa quali siano le competenze del ministro, del presidente della regione, dei direttori generali delle ASL, delle province e del sindaco - crea una situazione di confusione e ci pone in condizioni allarmanti, magari perché un ignoto giornalista scrive quattro cose su un periodico più o meno importante, sollevando una polemica che travalica i confini nazionali. Tutto questo non è serio: non è possibile! Non è attraverso lo Stato poliziesco, i NAS - se pure necessari - che possiamo risolvere problematiche di questa portata.
Oggi, signor ministro, possiamo intraprendere azioni molto più modeste, fermo restando che il problema non possiamo risolverlo né lei, né noi, da soli. Alcuni aspetti, però, possono essere risolti, cercando di comportarci in modo coerente con quello che diciamo. Non possiamo essere rigidi e affermare che la responsabilità è delle regioni che splafonano esigendo che automaticamente scatti per loro l'aumento dell'IRPEF e dell'IRAP senza poi farlo realmente.
Se si parla di affiancamento, significa che sono state chiamate delle regioni che hanno splafonato. Al momento, non so neanche quali siano le regioni in questione ma, sicuramente, i loro rappresentanti si saranno recati presso di lei e al Ministero del tesoro. Questo è l'altro aspetto della questione: il ministro della sanità ha le sue competenze, ma è con il Tesoro che è necessario fare i conti!
Comunque sia, le regioni avranno redatto un piano di rientro e, anche se questo non ha un fondamento, saranno state addirittura premiate (basta un colpo di spugna per cancellare la penalizzazione). Procedendo in questo modo, non risolveremo mai il problema.
Quanto alla prevenzione, come possiamo portarla avanti se poi immediatamente pensiamo di aumentare i ticket, di introdurne di nuovi, se ogni giorno cambiamo politica e non abbiamo una direzione unica in base alla quale orientare i cittadini? Questi fattori, logicamente, contribuiscono a creare uno sfascio nel disastro generale: diventiamo così uno «sfasciume» tale per cui non si riesce a capire nulla.
Poiché il ministro ha un impegno - ed io ho detto che avrei fatto solo una premessa -, non mi addentro negli altri aspetti contraddittori, che pure potrei sottolineare. Semmai, se la vostra cortesia me lo consentirà, lo farò nella prossima seduta. Le contraddizioni che rilevo sono innumerevoli ma non voglio addebitarle a nessuno: questa politica schizofrenica del Governo, che cambia linea quasi ogni giorno, contribuisce però a creare ulteriore confusione.
Dobbiamo approfondire i problemi, dai quali però usciremo solo se la riforma sarà radicale. Non mi riferisco alla riforma della sanità: penso a quella dello Stato, alla costruzione del nuovo Stato, ai suoi strumenti, alla statualità nel senso più vasto, quindi, nella sostanza, alla nuova Costituzione. Se non procederemo in questa direzione e lasceremo la situazione in uno stato ibrido, senza capire chi dirige questo paese e quali sono i centri di


Pag. 32

responsabilità, penso che, nonostante la buona volontà dei nostri ministri, non risolveremo mai i problemi.
Grazie, signor ministro, e arrivederci a presto. Speriamo di poterci dare una mano reciprocamente.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Mazzaracchio, anche per la sua cortesia. Siamo già d'accordo con il ministro Turco nel concordare una data, la prossima settimana, per proseguire questa discussione, alla quale seguirà la replica del ministro.
Nel ringraziare nuovamente il ministro Turco, rinvio pertanto il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 13,10.