Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 14,15.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, del ministro dell'istruzione - ma potremmo già dire della pubblica istruzione, stando al decreto-legge sullo «spacchettamento» dei ministeri, che è in corso d'esame al Senato -, Giuseppe Fioroni, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Voglio formulare al ministro Fioroni i migliori auguri di buon lavoro a nome della Commissione, assicurando a lui e ai sottosegretari del suo Ministero - alcuni dei quali abbiamo già avuto modo di incontrare in Commissione - la più ampia collaborazione da parte della VII Commissione della Camera dei deputati.
ANTONIO PALMIERI. Presidente, intervengo sull'ordine dei lavori, anche a nome del nostro capogruppo di Forza Italia, per formulare una domanda in tema di audizioni. Visto che è prevista, in contemporanea a questa, un'audizione del ministro Gentiloni presso la Commissione trasporti e visto che una parte dell'attività di quel Ministero compete anche a noi, chiederei se possibile di organizzare un'audizione con il ministro Gentiloni anche presso la nostra Commissione, qualora non fosse già prevista.
PRESIDENTE. Sì, infatti è già prevista. Anzi, avrebbe dovuto avere luogo qualche giorno fa, ma per varie ragioni abbiamo dovuto rinviarla. Ad ogni modo, tale audizione è già calendarizzata per giovedì 6 luglio, alle ore 14.
Del resto, abbiamo teso a sottolineare il fatto che questa Commissione è pienamente competente su molte materie che fanno riferimento all'attività del ministro delle comunicazioni, in modo particolare per ciò che riguarda i contenuti. Quindi, ripeto, posso già anticipare che la prossima settimana, il 6 luglio, avremo anche questa audizione.
Do ora la parola al ministro Giuseppe Fioroni, rinnovandogli gli auguri di buon lavoro.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Ringrazio il presidente e i colleghi parlamentari.
Mi auguro di avere con la Commissione - questo è il mio intendimento - un rapporto franco e chiaro di collaborazione e di confronto. Un confronto che spero possa essere foriero di soluzioni condivise nell'interesse della scuola italiana.
Il sistema educativo italiano sta vivendo una fase di difficoltà: le conseguenze delle politiche scolastiche dell'ultima legislatura si sono abbattute su un insieme di criticità irrisolte e su ritardi accumulatisi nel
tempo in diversi campi strategici. I colleghi parlamentari e l'opinione pubblica conoscono le indagini internazionali, da cui emergono profili non precisamente lusinghieri dei risultati scolastici del nostro paese; e più in generale la notevole distanza che ancora ci separa dai traguardi fissati per il 2010 dalla Conferenza di Lisbona.
Di queste criticità, delle più antiche e delle più recenti, non intendo in questa sede presentare l'elenco, né sintetico né dettagliato. E neppure attardarmi in un'illustrazione delle specifiche responsabilità dei diversi attori; o delle sottovalutazioni di varia natura e di diversa origine, recenti e non recenti, che si sono scaricate su questo sistema così complesso e così delicato, di importanza strategica per la qualità dello sviluppo civile, sociale ed economico del nostro paese. L'attenzione di tutti, e la mia in particolare, oggi deve concentrarsi piuttosto su quello che è necessario e possibile fare, fin da subito e nel corso di questa legislatura.
Voglio invece dirvi quello di cui mi sono convinto cominciando a praticare il metodo che mi farà da bussola per tutto lo svolgimento del mio incarico, cioè l'ascolto attento e quotidiano di chi la scuola la vive e la fa concretamente - del suo corpo professionale, degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, degli studenti, delle famiglie -, prima e più dei molti che ne discutono da fuori e dall'alto. Voglio dirvi, in sintesi, che a mio parere non ha orecchie per sentire né occhi per vedere chi dalle pagine dei giornali proclama che la scuola italiana è morta, o comunque che le sue malattie, di natura ormai cronica, sarebbero inguaribili.
Non è affatto così. Sebbene ci troviamo di fronte alla necessità di mettere in campo interventi capaci di innalzare il suo livello medio di qualità - in tempi ravvicinati e in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale -, è assolutamente evidente che nella scuola italiana c'è una grande presenza di energie professionali positive, che si manifestano in una crescente capacità di lettura dei bisogni formativi dei giovani e anche del mondo dell'adulto, in un diffuso impegno nell'innovazione, in una significativa disponibilità alla ricerca didattica sul campo e a pratiche di sperimentazione. E, voglio sottolinearlo, in una sensibilità preziosa - spesso più acuta e reattiva di quella di altre strutture e servizi pubblici - nei confronti di fenomeni complessi, come l'immigrazione e il massiccio ingresso dei suoi figli nelle nostre strutture formative, nella nostra cultura, nella nostra vita sociale, o come l'integrazione nella scuola di tutti, dei ragazzi diversamente abili.
Spesso tutto ciò si realizza anche dove le condizioni strutturali della scuola e le condizioni stesse del lavoro che vi si svolge - dalla prolungata mortificante precarietà di troppi insegnanti ai modesti livelli retributivi - potrebbero alimentare, se non giustificare, uno stato di scoraggiamento e di inerzia. Non è tutto così, ma è anche così: ed è da qui, da quello che nonostante tutto si riesce in moltissime scuole a realizzare, e dal tessuto fitto e vitale di alleanze tra scuola e territorio che caratterizza numerose realtà del nostro paese, che bisogna muovere. Perché l'ottimo o l'eccellente indica con chiarezza quello che occorre contrastare e quello che occorre mettere in campo, per costruire le condizioni e gli strumenti di uno sviluppo effettivo e generalizzato delle risorse della scuola e delle potenzialità dell'autonomia scolastica. Perciò non ho in animo di elaborare l'ennesima riforma complessiva del sistema, a cui legare il mio nome. Il mio proposito è diverso. Il mio metodo è un altro.
Migliorare le condizioni di funzionamento della scuola e dell'autonomia scolastica è un obbiettivo di straordinaria importanza per il paese, per il suo sviluppo e per la sua stessa identità. Il ruolo della scuola non riguarda solo la trasmissione del sapere essenziale alla cittadinanza attiva e la formazione delle competenze culturali e professionali necessarie all'inserimento nel mondo del lavoro. La scuola non è solo il più importante degli strumenti di riproduzione e di sviluppo della comunità nazionale, è o può essere essa stessa un contesto comunitario e
identitario per i milioni di persone giovani e adulte che vi operano e che la vivono direttamente. Una comunità in cui si realizzano percorsi di crescita culturale ed umana, prove concrete di solidarietà e di coesione sociale, esperienze di inclusione ed integrazione di alto valore civile ed etico. Non è un caso, infatti, che l'Italia dei mille campanili è anche l'Italia che, accanto alle autonomie locali, può far crescere una forte autonomia scolastica.
Nei quartieri metropolitani più difficile è questa esperienza comunitaria che, in molti casi, costituisce il presidio più importante contro l'isolamento e la solitudine urbana. Ed è qui, quando la scuola è progetto condiviso e patto di responsabilità, che si tessono la trama e l'ordito di appartenenza ed identità che rispondono alle domande di senso di giovani e adulti.
Se si creano le condizioni perché questa dimensione comunitaria possa svilupparsi pienamente e serenamente, senza l'ossessione di trasformazioni epocali e col sostegno delle autonomie locali e in primo luogo dei comuni, la scuola può diventare l'anima laica della società, dove si impara a porsi le domande giuste e a trovare come rispondervi, e a misurarsi con le responsabilità e le prove della vita adulta, come in una terra di mezzo in bilico tra tutela e autonomia; dove i concetti e i valori della partecipazione civile e democratica possono uscire dalle affermazioni astratte e farsi comportamenti concreti. Non sfugge a nessuno, e ne abbiamo numerose prove concrete anche nelle aree territoriali in cui il tessuto democratico è più a rischio, che l'esperienza scolastica può divenire la palestra più importante per lo sviluppo di una cultura, e perfino di una passione, democratica dei giovani.
L'autonomia scolastica, l'unica illuminata, e anche per questo costituzionale, riforma degli ultimi anni, ha in sé tutte le potenzialità necessarie allo sviluppo della dimensione comunitaria della scuola. Ma in questi anni è stata soffocata, mortificata, non implementata. È importante, in questo quadro, un'azione del Parlamento sugli organi collegiali di gestione dell'autonomia: attualmente, sono anche nello scarto tra modalità di gestione della scuola e autonomia scolastica le ragioni del suo inadeguato o lento sviluppo. È urgente invertire la rotta: passa anche da qui il recupero di quella credibilità sociale e di quella dignità professionale a cui giustamente aspira il personale della scuola, e a cui noi dobbiamo dare una risposta.
L'autonomia scolastica e l'interazione, nei contesti locali, tra le diverse autonomie, costituisce il quadro di riferimento principale dei processi di innovazione e di riqualificazione, di cui l'intero sistema educativo ha bisogno. Pretendere di imporla dall'alto, con atti dirigistici, legislativi o amministrativi, sarebbe un grave errore, condannato in partenza all'incomprensione e all'inefficacia. Ciò che occorre non è una logica abrogativa, che sarebbe connotata inevitabilmente da rischi conservativi, né tanto meno la restaurazione - evocata da non poche cassandre - di una scuola del passato, che non può esserci perché è scomparso il suo mondo di riferimento. Ma, d'altro canto, bisogna evitare la pretesa, ancora una volta, di cambiare tutto e subito, anche se il nostro sistema educativo ha senza alcun dubbio bisogno di molte profonde innovazioni.
La via giusta, in un sistema fondato sulle autonomie, è quella dell'attivazione di processi di trasformazione condivisi: da un lato smontando, con il metodo del «cacciavite», ciò che li frena o li ostacola, dall'altro mettendo in campo ciò che occorre perché quei processi abbiano come traguardo una maggiore efficienza e una maggiore equità.
È allo Stato che spetta definire gli indirizzi e gli obiettivi formativi, ed è lo Stato che ha la responsabilità di indicare i criteri di riferimento dell'azione delle autonomie scolastiche funzionali e di costruire i dispositivi di verifica oggettiva e scientifica dei risultati del sistema. Ma il metodo, che è sempre sostanza anche della politica, deve essere quello della concertazione con le scuole e tra le scuole e delle intese con gli attori istituzionali - le regioni e le autonomie locali - che hanno competenze sul sistema educativo. La filosofia della concertazione non deve rinchiudersi
nel solo ambito dei rapporti interistituzionali. Abbiamo bisogno di processi larghi e plurimi di condivisione delle scelte; quindi del contributo attivo delle organizzazioni sindacali, delle associazioni professionali, delle associazioni dei genitori e degli studenti. Quanto maggiore sarà la loro rappresentatività e la loro capacità di dialogo, superando logiche autoreferenziali o di nicchia, tanto più efficaci saranno i processi e i risultati della concertazione.
È stato questo l'approccio che ha guidato il primo incontro del 15 giugno scorso con le regioni, in cui sono stati concordati i primi impegni comuni. L'obiettivo è di procedere ad intese, che devono coinvolgere anche le province e i comuni, per la qualificazione di un sistema educativo unitario, di validità nazionale, fuori e contro ogni rischio di segmentazione territoriale, che produrrebbe insostenibili diseguaglianze dei giovani e delle famiglie nell'accesso all'istruzione e nella qualità dei suoi processi formativi e dei suoi risultati. La declinazione dell'offerta formativa secondo i bisogni formativi del territorio, che è necessaria, non può però in nessun modo e in nessun caso dar luogo ad un diritto all'istruzione diversificato secondo il luogo di residenza e secondo le caratteristiche economiche e sociali dell'origine familiare.
La nostra Costituzione è assolutamente chiara a questo proposito: il diritto all'istruzione, come il diritto alla salute, è universalistico, e deve essere assicurato dalla Repubblica indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche, dal sesso, dalle opinioni politiche, dalle scelte religiose. A maggior ragione, in questo quadro, il diritto all'istruzione deve essere indipendente dal luogo in cui alle persone sia capitato di nascere o di risiedere.
All'indomani del risultato referendario, possiamo dire con soddisfazione che la grande maggioranza del paese ha capito perfettamente il significato del diritto costituzionale, di tipo universale e solidaristico, all'istruzione e la portata della minaccia, a questo come ad altri diritti universalistici, rappresentata dalla cosiddetta devolution.
La scuola che vogliamo è una scuola capace di coniugare equità ed eccellenza, capace di garantire le pari opportunità di tutti nell'accesso all'istruzione e nella possibilità di successo formativo, l'eccellenza dei risultati, la valorizzazione dei meriti individuali. La scuola deve tornare a svolgere un ruolo decisivo rispetto alla mobilità sociale, assicurando non solo che ogni studente possa realizzare appieno le proprie potenzialità, seguendo in libertà e responsabilità le proprie propensioni ed attitudini, ma anche accompagnando al successo formativo e ai percorsi di istruzione superiore i giovani migliori, quale che sia la loro condizione di partenza.
Sono segni inquietanti per le prospettive di sviluppo del paese i fenomeni di stagnazione sociale su cui il Censis è tornato con una sua recente indagine, il peggioramento delle condizioni dei figli rispetto a quelle dei padri, la riproduzione incessante, fin dalla scuola di base, del peso dei condizionamenti del contesto familiare di appartenenza sul successo scolastico e formativo.
Don Milani scriveva, nei primi anni sessanta del secolo scorso, che doveva esserci qualcosa di sbagliato in una scuola e in una società in cui i figli dei poveri risultavano essere, immancabilmente, «i più cretini». Come commenterebbe oggi, a 43 anni dall'istituzione della scuola media unica e obbligatoria e a distanza di trent'anni dall'avvio della scolarizzazione di massa, il fatto che solo l'8 per cento dei figli dei ceti popolari arriva a laurearsi? E il fatto che sul successo scolastico dei ragazzi incide, ancora di più delle condizioni economiche della famiglia, il titolo di studio dei genitori?
In una società in cui l'apparire vale più dell'essere, l'essere meno dell'avere, le appartenenze più delle competenze e le fedeltà più dei meriti individuali, è importante che almeno nella scuola si sappia andare controcorrente e che i giovani imparino a rispettare valori diversi. Ma questo non può avvenire se le capacità e
l'impegno individuale dei singoli non vengono riconosciuti e valorizzati. Dobbiamo sostenere ed incentivare l'impegno dei giovani a raggiungere l'eccellenza, dentro la scuola e nei percorsi formativi superiori.
Ho voluto, fin dai primi giorni del mio incarico, tornare alla definizione del Ministero come Ministero della pubblica istruzione, per precisare un concetto - e un valore - a cui tengo molto e a cui tutti dobbiamo tenere: in democrazia l'istruzione è una funzione pubblica, è un servizio pubblico, perché riguarda tutti e perché le sue finalità sono decise dalla comunità, e tale è e resta, indipendentemente dalla natura del soggetto che gestisce l'offerta formativa, sempre che il soggetto gestore risponda a quelle finalità e alle regole che ne derivano. Tutto ciò è già scritto nella legge n. 62, varata dal centrosinistra, sulla parità scolastica. Sono molto preoccupato del taglio pesante, di 167 milioni di euro, che il precedente Governo ha operato su questo capitolo. Il rischio maggiore riguarda il diritto dei bambini e delle famiglie alla scuola per l'infanzia, per il peso specifico in questo campo che hanno le scuole paritarie, in particolare in molti piccoli centri e nelle zone di montagna. Queste risorse dobbiamo recuperarle e orientarle su questa priorità.
Funzione pubblica significa anche, scavando più a fondo, che la scuola non può lasciare indietro nessuno; che deve prendersi cura anche e soprattutto di chi ha problemi, di chi non ce la fa da solo. Anche qui soccorrono le parole della Lettera a una professoressa di Don Milani, che ironizzava spietatamente su una scuola che ritenesse di essere fatta solo per quelli capaci di apprendere da sé: proprio come un ospedale che ritenesse di doversi occupare dei sani, invece che dei malati.
Voglio dire qualcosa, a questo proposito, su tre temi della massima importanza per il ruolo e la qualità del nostro sistema educativo: l'integrazione scolastica dei diversamente abili, gli immigrati stranieri e l'interculturalità, l'educazione degli adulti.
Tra le nostre specificità positive in ambito europeo c'è l'integrazione dei disabili nella scuola di tutti. Nessun altro sistema educativo ha a questo proposito norme così perentorie come le nostre. Dobbiamo esserne orgogliosi. Nel 2003-2004 gli allievi diversamente abili erano 161.159: l'1,8 per cento del totale degli studenti, il 2,3 per cento nella scuola primaria, il 2,8 per cento nella scuola media, l'1,2 per cento nella scuola superiore. Un significativo aumento di questi allievi si è avuto negli ultimi cinque anni, anche nelle scuole non statali (0,5 per cento): l'inserimento di questi allievi, infatti, è uno dei requisiti richiesti per il riconoscimento di scuola paritaria. Ma dobbiamo anche migliorare le condizioni e gli strumenti di una integrazione scolastica efficace, rivedendo l'organico degli insegnanti di sostegno, i criteri della loro distribuzione e la loro preparazione professionale, perché siano funzionali ai bisogni effettivi dei ragazzi diversamente abili e alla classe in cui essi sono inseriti; ottenendo dalle ASL diagnosi effettivamente funzionali; superando le difformità dell'integrazione scolastica tra scuola di base e scuola secondaria superiore; costruendo le condizioni per un'organizzazione della didattica più flessibile ed aderente ai bisogni individuali e alle classi di appartenenza; dotando le scuole della strumentazione tecnologica necessaria. Dobbiamo anche, utilizzando le anagrafi sanitarie, portare dentro la scuola i ragazzi diversamente abili che ancora ne sono fuori.
La specializzazione degli insegnanti di sostegno deve essere pienamente valorizzata e sottratta al rischio che vada dispersa per convenienze di vario tipo. Ma è evidente che, per l'integrazione dei ragazzi in difficoltà, è importantissima anche la competenza e l'impegno professionale degli insegnanti curricolari, e di questo dobbiamo prenderci cura. Come primo intervento su questo insieme di problemi, ritengo importante rimuovere il bizzarro, e privo di ogni fondamento scientifico, criterio di definizione degli organici degli insegnanti di sostegno, che era stato introdotto recentemente: quel criterio che, con logica tipicamente aziendalistica, calcolava
il numero degli insegnanti di sostegno necessari sul numero totale degli allievi, invece che sul numero degli allievi disabili. Per l'approfondimento degli altri temi è stato immediatamente attivato il rapporto con l'Osservatorio sull'handicap e con le associazioni che se ne occupano (Commenti dell'onorevole Aprea). È la malattia dell'aziendalismo! (Commenti dell'onorevole Aprea).
PRESIDENTE. Onorevole Aprea, la prego di non interrompere il ministro. Più tardi avrà la possibilità di intervenire e di dire ampiamente tutto ciò che pensa e che ritiene. Prego, ministro.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Il termine «recente» indica un periodo inferiore agli ultimi 15 anni. Siccome l'aggettivazione non la faccio io, ma la dà la storia, la collega Aprea mi insegna che si fa così!
Tornando al tema, anche a questo proposito è essenziale il rapporto con la scuola reale, sia per avere il quadro esatto delle criticità sia per raccogliere nuove proposte. Se l'integrazione scolastica dei diversamente abili è sempre un vantaggio per i ragazzi che non lo sono, perché possono nell'incontro quotidiano con loro maturare capacità di rispetto e di relazionalità importantissime per la propria formazione umana, bisogna trarre, da una pratica di integrazione ormai trentennale, tutte le indicazioni utili a migliorare l'inserimento dal punto di vista della sua efficacia sulla crescita dei ragazzi in difficoltà.
Un tema strategico è costituito anche dall'impatto nella nostra scuola dell'inserimento dei figli dell'immigrazione: nel 2003-2004 erano più di 300 mila, presenti ormai nel 52,9 per cento degli istituti scolastici. La maggior parte degli stranieri si iscrive nella scuola statale (271.718), solo 31.556 sono in quella non statale. Il maggiore addensamento di iscrizioni è nella scuola primaria (4,7 per cento) e nella scuola media (4,1 per cento), mentre siamo solo all'1,9 per cento - ma in crescita, evidente, negli ultimi anni - nella scuola secondaria superiore. I valori più alti sono nelle regioni del nord: il più alto è in Emilia-Romagna (6,4 per cento), seguita da Lombardia, Veneto, Marche. Il più basso in Sardegna (0,5 per cento).
Se l'accoglienza è, nell'insieme, di buon livello, è però evidente che il percorso scolastico dei ragazzi stranieri si presenta più difficile che per gli studenti italiani. I ritardi e gli insuccessi sono più numerosi fin dalla scuola di base: già nella scuola elementare si riscontra un 3,4 per cento in più di non promossi tra gli stranieri, e un 7,1 per cento in più nella scuola media. Lo scarto è ancora più vistoso nella scuola secondaria superiore, dove raggiunge il 12,6 per cento. Tutto ciò incide non poco sugli indici di passaggio dalla scuola di base ai percorsi scolastici e formativi successivi e costituisce un pericolo evidente per l'integrazione sociale e professionale dei giovani immigrati di seconda generazione.
È invece sostenuto l'incremento di allievi stranieri nei percorsi di formazione professionale successivi alla scuola media, nei corsi serali per lavoratori studenti della scuola secondaria superiore e nei corsi dei centri territoriali per l'educazione degli adulti.
Sono dunque necessari alcuni interventi di miglioramento delle condizioni dell'integrazione, a partire dall'apprendimento della lingua italiana come lingua seconda per i ragazzi e per i loro genitori. Se per il successo scolastico dei ragazzi italiani conta moltissimo - e in verità troppo - il livello di istruzione dei genitori, il fatto che in molti nuclei familiari immigrati gli adulti non padroneggino la lingua italiana è un fattore di forte svantaggio per i loro figli. La scuola come comunità deve significare una responsabilizzazione anche nei confronti delle famiglie dei ragazzi stranieri.
Anche alcuni contenuti culturali della scuola dovrebbero ampliarsi ed arricchirsi. Se l'asse culturale della nostra scuola deve avere al centro le radici culturali europee e sviluppare tra i giovani la comprensione e l'interiorizzazione della nuova dimensione europea e delle tradizioni, storie e
culture, che vi sono sottese e che la rendono possibile, i contenuti dell'apprendimento devono essere tali da facilitare il rapporto e lo scambio anche con le altre culture e le altre identità. È un problema che, nel mondo globalizzato di oggi, riguarda la formazione di tutti. Devono inoltre essere messe in campo politiche, anche di formazione degli insegnanti, che favoriscano attraverso la didattica il dialogo e la formazione interculturale.
Dobbiamo sapere che passano largamente dalla scuola le possibilità di costruire una società insieme plurale e coesa, in cui gli stranieri non siano considerati come ospiti in prova perenne, ma come nuovi cittadini, con diritti e doveri, e in cui anche il paese che accoglie sia disponibile e in grado, pur senza rinunciare alle proprie specificità, di misurarsi con l'apporto delle culture degli altri. Un proposito difficile e tuttavia essenziale, che ha bisogno di una scuola che faccia da ponte tra le culture di provenienza e quella di arrivo e che sia capace di contribuire al mantenimento delle lingue e delle culture di appartenenza. È grande la responsabilità del sistema educativo nel favorire, a partire dal riconoscimento delle nostre comuni radici europee, la crescita tra le nuove generazioni di un nuovo umanesimo, la transizione ad una società sempre più umanizzata ed aperta.
In questo quadro, sono grandi le potenzialità positive, che possono avere le istituzioni educative italiane e i giovani che le frequentano, per costruire rapporti di dialogo e di pace nel Mediterraneo, con i paesi dell'altra sponda, con il Medio Oriente, con le popolazioni arabe e con l'Islam moderato. Devono essere valutate con attenzione e rispetto le richieste delle comunità di aprire la nostra scuola anche ad occasioni di apprendimento delle lingue e delle culture di origine.
Voglio, infine, sollevare un tema di straordinaria importanza, che è invece solitamente relegato in posizione marginale nel dibattito e nelle politiche scolastiche, cioè l'educazione degli adulti come elemento essenziale della strategia dell'apprendimento lungo tutto il percorso della vita.
Sviluppare l'educazione degli adulti dentro il nostro sistema di istruzione e formazione ci interessa per vari ordini di motivi: perché il basso livello di istruzione dei genitori ha un'influenza determinante nell'insuccesso scolastico dei ragazzi; perché i limiti gravi, che ancora registriamo nella diffusione delle competenze di base ed alfabetiche nella popolazione adulta, anche di fasce di età giovani, è un ostacolo fortissimo per lo stesso accesso dei lavoratori alle opportunità di formazione professionale continua e, più in generale, per l'esercizio della cittadinanza attiva; perché in un mondo del lavoro caratterizzato da processi di trasformazione tecnologica e produttiva, la presenza di quote molto consistenti di lavoratori con modestissimi livelli di competenze di base e funzionali si traduce in rischi molto forti di marginalizzazione professionale e sociale, in contraddizioni per il paese, in ostacoli alla sua crescita.
Non dobbiamo dimenticare che solo nel 2003 siamo per la prima volta scesi al di sotto del 30 per cento di cittadini adulti con al massimo la licenza elementare; che il possesso di un diploma - che oggi è la soglia di istruzione considerata essenziale (come è stata la licenza elementare negli anni cinquanta e la licenza media negli anni settanta) - riguarda solo poco più del 40 per cento degli adulti in età da lavoro; che tornano in formazione da adulti soprattutto le persone che hanno già un livello di istruzione di livello medio ed alto, perché «la formazione chiama formazione» e perché le aziende investono soprattutto, se non unicamente, sui lavoratori meglio dotati culturalmente e meglio collocati professionalmente.
E neppure dobbiamo dimenticare quello che una recente indagine Eurostat ci segnala, cioè che, dopo anni di retorica sull'importanza fondamentale nella vita e nel lavoro del linguaggio dell'informatica, la gran parte degli adulti non è in grado
di aprire un personal computer e fra questi compare anche un 28 per cento riferito ai più giovani.
Le strutture scolastiche italiane dedicate all'educazione degli adulti sono una realtà già oggi piuttosto importante. Nel 2003-2004 gli iscritti ai nostri centri territoriali per l'educazione degli adulti sono stati 470 mila, di cui il 26 per cento erano stranieri immigrati, per un terzo almeno diplomati e laureati, che imparano l'italiano e che conseguono, in mancanza di riconoscimento del loro titolo di studio, la licenza media. Mentre gli iscritti ai corsi serali della scuola superiore per il conseguimento di qualifiche professionali e diplomi hanno ricominciato a crescere e sono oggi più di 60 mila.
Anche in questo caso abbiamo esperienze di straordinaria vitalità e qualità; ma anche qui occorre sviluppare, qualificare, innovare sia con interventi e dispositivi specifici, sia promuovendo, come previsto nel programma del Governo, una norma-quadro basata sul diritto dell'apprendimento lungo tutto il corso della vita come diritto soggettivo di tutti, lavoratori e non lavoratori. Occorrerà anche riattivare l'accordo del 2 marzo 2000 della Conferenza unificata, rimasto da allora congelato.
L'offerta per adulti di cui attualmente disponiamo è infatti largamente inadeguata a una domanda potenziale in continua crescita; non è ancora sufficientemente coordinata ed integrata; è troppo limitata e rigida sul versante del conseguimento dei diplomi, che costituisce oggi la nuova frontiera per i giovani adulti, italiani e immigrati; ha urgente bisogno di criteri di riferimento oggettivi e validi dovunque per la certificazione delle competenze acquisite per via non formale e per il riconoscimento dei crediti; non è sostenuta, come dovrebbe, da efficaci servizi di orientamento sul territorio e di bilancio delle competenze. Nel corso della legislatura sarà necessario promuovere, d'intesa con le autonomie locali, una campagna di sviluppo della domanda di istruzione e di formazione degli adulti, in particolare dei genitori di ragazzi in età scolare.
Ma dobbiamo, contestualmente, evitare il rialimentarsi continuo del bacino dei troppo pochi istruiti. A questo proposito, la madre di tutte le battaglie consiste nel contrastare le patologie dell'insuccesso scolastico, della demotivazione all'apprendimento, degli abbandoni. Patologie che portano, com'è noto, a un indice di diplomati pari al 72 per cento dei ventenni, contro l'80 per cento della media europea, ma inferiore anche di 15-20 punti percentuali rispetto ai paesi con le performance migliori.
Non c'è una ricetta unica e nessuna ricetta è semplice. Il funzionamento della scuola e i suoi risultati non dipendono solo dalla sua fisionomia strutturale e neppure solo dalla sua durata. Se fosse così, il nostro paese, che diploma i suoi giovani dopo 13 anni di scuola e a 19 anni, mentre altrove il percorso scolastico è più corto e l'età di uscita è a 18 anni, dovrebbe essere in vantaggio. Ma le indagini internazionali comparate ci dicono cose diverse. Per avere chiaro il quadro della complessità dell'impresa è importante sottolineare tre dati incontrovertibili. Il primo è che già nella scuola media più del 2,5 per cento dei ragazzi ne esce ogni anno senza aver conseguito il titolo: una condizione che rende impossibile accedere a qualsiasi ulteriore percorso formativo di carattere formale, anche nella formazione professionale, e che condanna, se non si predispongono percorsi di recupero dei titoli di studio (oggi l'unica strada è, notoriamente, nei corsi dei centri per l'educazione degli adulti, finalizzati al conseguimento della licenza elementare e media), a rischi molto alti di marginalità lavorativa e sociale. Non solo. Quasi la metà dei licenziati della scuola media ne esce con la valutazione di «sufficiente», che significa aver già accumulato deficit di vario tipo nelle competenze di base e affrontare in condizioni difficili la scuola secondaria superiore, nelle cui prime classi, infatti, esplodono i più gravi fenomeni di dispersione.
Il secondo dato è che il tasso di passaggio dei licenziati dalla scuola media alla scuola media superiore ha raggiunto il 97 per cento, con un andamento in ulteriore crescita. La situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando l'obbligatorietà dell'istruzione era lo strumento principe, simbolico e fattuale, per forzare la resistenza di quote ancora importanti delle famiglie ad investire nell'istruzione lunga dei figli. Oggi, il nostro problema è quello di quel 25 per cento di 14-18enni, che alle superiori ci è andato, ma che poi le ha abbandonate o ne è stato espulso. È dunque indispensabile assicurare le condizioni di una prevenzione e di un recupero della dispersione, attraverso azioni didattiche e percorsi capaci di motivare e di rimotivare, di compensare i deficit accumulati, di assecondare e valorizzare le propensioni, gli interessi, gli stili di apprendimento, le intelligenze, i talenti di ogni ragazzo e di ogni ragazza. È un problema fatto principalmente di fisionomia e di flessibilità dei curricula, di qualità e specializzazione della didattica, di capacità delle autonomie scolastiche di integrazione dei percorsi, di orientamento, che non si risolve con scelte di tipo esclusivamente ordinamentale e che richiede di agire contestualmente su molti e diversi fronti.
Il terzo dato è che in Italia, come in tutti i paesi dell'Unione europea, si ha diritto di entrare nel lavoro anche prima dei diciotto anni e che sono una percentuale non insignificante i ragazzi che utilizzano questa possibilità: per le più diverse ragioni, non riconducibili unicamente all'insuccesso o alla dispersione scolastica o a difficili condizioni economiche, ma anche all'attrazione del lavoro come strumento di autonomia e come via per raggiungere un'identità adulta. Nel programma del Governo abbiamo previsto l'innalzamento dell'età dell'ingresso al lavoro dai quindici ai sedici anni, in coerenza con il prolungamento di due anni dell'obbligo scolastico. È un obiettivo importante, ma è evidente che non basterebbe, se non venisse accompagnato dalla predisposizione di percorsi misti tra formazione e lavoro in grado di assicurare il conseguimento di qualifiche professionali e, comunque, di crediti per il conseguimento dei diplomi. Dobbiamo tornare, quindi, sulla questione dell'apprendistato formativo, che non è stata affatto risolta da quanto prevede in proposito la legge n. 30 del 2003, e dobbiamo negoziare le condizioni perché non ci sia attività lavorativa, al di sotto dei diciotto anni, che non abbia una prevalente dimensione formativa e che non conduca al conseguimento di qualifiche professionali e/o di crediti riconoscibili per il proseguimento in percorsi formativi ulteriori di carattere formale.
Contrastare la dispersione, dunque, significa agire sia sul versante della prevenzione, che su quello della compensazione. Significa non solo concentrare l'attenzione sulla fascia d'età dei 14-16 anni, ma agire anche prima ed anche dopo, accogliendo l'indicazione dell'Unione europea che considera strategico l'intervento per il conseguimento dei diplomi e delle qualifiche nella fascia di età fino ai venticinque anni. Significa adottare l'approccio del lifelong learning, tipico di una società democratica ed aperta, che significa non dare mai per scontato che la prima volta è quella definitiva e che le scelte e i risultati siano irreversibili. Significa prendere sul serio le strategie dell'orientamento. Significa intervenire sul cuore dell'apprendimento, che è la qualità della relazione educativa, e quindi sulla cultura professionale degli insegnanti e sulla qualità della didattica. Significa non lasciare mai sola la scuola, favorendone l'alleanza con le forze vive e con le risorse del territorio. Ed infine significa non dimenticare, anche in questo caso, quella splendida lezione che ci dice che non c'è ingiustizia peggiore che presentare la stessa identica minestra a persone con gusti e stomaci diversi: il risultato sarà che molti non digeriranno o smetteranno di mangiare.
Anche su questo tema, non mancano nel sistema educativo italiano le esperienze di eccellenza, da prendere come base di partenza per l'elaborazione di nuove strategie.
Ci sono piste e risultati interessanti anche nei discussi percorsi sperimentali triennali, attivati a partire dal 2003-2004 dalle regioni, che integrano variamente scuola e formazione professionale; apprendimenti teorici e apprendimenti in laboratorio e in contesti operativi; sapere, saper fare, saper essere; scuola, formazione, orientamento, esperienze di laboratorio e di lavoro. In diverse realtà, infatti, la dispersione sta diminuendo ed una percentuale consistente degli allievi, conseguita la qualifica professionale, rientra nei percorsi di istruzione. Si tratta, anche dal punto di vista quantitativo, di un'esperienza non molto significativa, ma di certo non insignificante. Gli allievi dei percorsi triennali sono, oggi, 74 mila, più nelle prime che nelle classi successive, con un evidente incremento della domanda, in diverse realtà non soddisfatta, per l'insufficienza delle risorse destinate dal nostro Ministero e da quello del lavoro. Allo stesso motivo si deve il fatto che solo in tre regioni sia stato attivato il previsto quarto anno di specializzazione professionale.
Non si tratta assolutamente di modelli generalizzabili su scala nazionale, sia perché le tipologie attivate dalle regioni sono piuttosto diversificate nelle diverse realtà territoriali, sia perché non dovunque i sistemi locali di formazione professionale sono adeguati per quantità e qualità ad integrarsi con la scuola o a sviluppare percorsi autonomi con le prerogative richieste. Si tratta, però, di esperienze rivelatrici di logiche e metodi interessanti, di esperienze che mettono in atto dispositivi innovativi di orientamento, certificazione dei crediti, definizione degli standard, formazione congiunta degli insegnanti e dei formatori, da cui è possibile e necessario trarre stimoli ed indicazioni concrete per mettere sui binari giusti la lotta alla dispersione.
La priorità che dobbiamo attribuire alla lotta alla dispersione - lo ripeto ancora una volta - non può lasciare in ombra il traguardo dell'eccellenza. Equità ed eccellenza vanno sempre di pari passo. Il sistema educativo deve saper promuovere le intelligenze migliori. E la Repubblica, come dice la Costituzione, deve sostenere l'impegno dei singoli al raggiungimento dell'eccellenza. In altri paesi europei questo è un elemento decisivo delle politiche educative: dovremo anche noi predisporre incentivi adeguati in questo senso per i nostri studenti.
Vengo al tema della scuola per l'infanzia. Per una scuola che non lasci indietro nessuno e che sviluppi, fin dai primi anni di vita, la capacità di apprendimento di tutti, assicurando una crescita equilibrata dei bambini anche dal punto di vista affettivo e relazionale, è indispensabile intervenire sulla scuola per l'infanzia. Dobbiamo garantire, infatti, in tutte le aree del paese, a partire dal Mezzogiorno, un pieno equilibrio tra domanda ed offerta. Si tratta di un diritto fondamentale per i bambini dai tre ai sei anni, ma anche per le famiglie, in particolare per le mamme che lavorano o vorrebbero lavorare. Le politiche per la scuola dell'infanzia - il suo sviluppo quantitativo, la sua qualità - fanno parte a pieno titolo delle politiche per le pari opportunità tra uomini e donne rispetto al lavoro.
Oggi, la partecipazione dei bambini alla scuola per l'infanzia, tra scuole statali, comunali e paritarie, è molto alta e supera il 97 per cento (il 58 per cento dei bambini sono nelle scuole statali). Se consideriamo che la scuola dell'infanzia non è una scuola obbligatoria, ci rendiamo facilmente conto di che cosa questa partecipazione significhi. Essa è il segno di una diffusa consapevolezza delle famiglie dell'importanza della socializzazione dei bambini - tanto più acuta in una società di «figli unici» - e dello sviluppo delle capacità espressive, motorie e cognitive anche prima dell'infanzia nella scuola di base. Ma è anche il segno di un forte bisogno delle famiglie, non più concentrato solo nelle aree urbane, di contesti affidabili e di qualità, per la protezione e l'educazione dei figli, anche nei primi anni di vita. Dietro a tutto ciò ci sono anche le nuove famiglie, sempre più prive delle reti familiari allargate di una volta, e la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una scuola per l'infanzia
di qualità, d'altro canto, è un efficace strumento per intervenire per tempo sulle disuguaglianze derivanti dalle condizioni sociali, economiche e culturali delle famiglie di origine, ma anche sui deficit sensoriali e linguistico-comunicativi dei bambini.
Ma non in tutte le scuole per l'infanzia c'è la possibilità del servizio anche postmeridiano e serie carenze - edilizie e di servizi - si registrano nei piccoli centri e nelle aree urbane di recente insediamento. Lo sviluppo della scuola per l'infanzia rende necessario un impegno condiviso tra Stato e comuni, a cui spetta l'attuazione dei servizi di mensa e di trasporto, oltre che la predisposizione degli edifici, e un miglior coordinamento tra scuole statali, comunali e paritarie. Anche l'anticipazione dell'età di iscrizione alla scuola per l'infanzia si inserisce, con tutta evidenza, in questo quadro. Come è noto, essa richiede l'attivazione da parte dei comuni di condizioni logistiche, di servizi e di figure professionali aggiuntive e ciò non è facilmente realizzabile dovunque in tempi brevi. Per questo ho proposto il rinvio dell'entrata a regime dell'anticipazione, ritenendo che questa appartiene alla riforma di quella scuola che ancora i nostri comuni non sono in grado di potersi permettere.
Per quanto riguarda il tempo pieno e il tempo prolungato nella scuola di base, tra gli impegni dell'oggi c'è il ripristino delle condizioni che consentano alle autonomie scolastiche di attuare il tempo pieno e il tempo prolungato come un modello didattico declinato sulla domanda delle famiglie e sui bisogni educativi degli allievi nei diversi contesti territoriali. Lo spacchettamento del monte-ore nella somma di attività diverse, determinato nella precedente legislatura, oltre a provocare rischi di privatizzazione familistica del curriculum, ha riproposto una divisione tra il tempo dell'istruzione e il tempo dei servizi, che la scuola italiana aveva superato da trent'anni, mortificando le prerogative e le responsabilità dell'autonomia scolastica e della comunità-scuola.
Sulle caratteristiche del modello didattico, così come sulla strutturazione dei curricula, l'impegno ad evitare qualsiasi forzatura statalista e dirigista è totale. In questo quadro, è da rivedere anche la logica implicita nell'emanazione delle «indicazioni nazionali».
Lo Stato non è portatore di una sua pedagogia e di una sua metodologia didattica. Il suo compito è un altro, quello di definire gli obiettivi formativi, sulla cui base diventa possibile anche una seria e scientifica valutazione dei risultati del sistema e delle singole istituzioni scolastiche, mentre è alle autonomie scolastiche e alla capacità professionale dei docenti che spetta la progettazione dei curricula.
Anche sui dispositivi introdotti dal Governo precedente, come il portfolio e il tutor, l'azione del Governo non riguarda solo l'emendamento di ciò che è inadeguato o non praticabile. La nostra bussola sta nel restituire all'autonomia scolastica le scelte che le spettano e la sua piena responsabilità.
Sottolineo, inoltre, la necessità di rendere pienamente attuativo ciò che è già previsto nelle norme, cioè lo sviluppo della continuità educativa all'interno della scuola di base. Un principio, quello della continuità, espressamente previsto per legge, che dovrà trovare strumentazioni efficaci anche nei percorsi ulteriori: di tipo verticale, tra scuola di base e secondo ciclo, tra questo e l'istruzione e formazione superiore; di tipo orizzontale, tra i diversi indirizzi, le diverse opportunità formative, l'istruzione, la formazione, il lavoro.
Quanto al tema del superamento del precariato, l'altissimo numero di insegnanti precari costituisce un'emergenza di primaria importanza. Sono iscritti nelle graduatorie permanenti 313.842 insegnanti non di ruolo, di cui 157.830 - i cosiddetti «precari storici» - hanno un'anzianità di servizio di almeno trecentosessanta giorni. A questi ultimi si aggiungeranno, nel 2007-2008, altre 67 mila docenti, che stanno ultimando i corsi speciali abilitanti previsti dalla legge n. 143 del 2004. Sempre nello stesso anno, ai 152.850 aspiranti con meno
di trecentosessanta giorni di servizio se ne aggiungeranno altri 20 mila, che nel frattempo concluderanno i corsi delle scuole di specializzazione di istruzione secondaria.
Nel 2006-2007, i posti disponibili e vacanti sono 62.461, di cui 29.463 da turn-over. Con decreto interministeriale sono state autorizzate 20 mila nomine per il 2006-2007 e 10 mila nomine per il 2007-2008. Per altre 20 mila nomine, è stata richiesta l'autorizzazione il 31 maggio del corrente anno.
Sono numeri che danno l'idea dell'enorme sproporzione tra aspiranti e posti effettivamente disponibili, ma insieme dell'abnorme sviluppo di un precariato alimentato incessantemente da alcune regole vigenti, relative alle supplenze brevi e alla loro copertura, alla fisionomia delle cattedre e alle modalità di assegnazione dell'organico. Sappiamo, d'altro canto, che le esigenze che si determineranno per i pensionamenti dei prossimi anni sono anch'esse imponenti e che vi sono potenzialità interessanti di aumento dei posti disponibili connesse allo sviluppo di alcuni settori strategici, dall'educazione degli adulti all'istruzione tecnico-professionale superiore, dalla generalizzazione della scuola per l'infanzia agli incrementi di scolarità derivanti dall'immigrazione straniera.
Ma intanto il precariato costituisce un'emergenza per la stessa qualità del sistema educativo. Non si può pretendere, infatti, di coinvolgere tutti gli insegnanti nella ricerca didattica e nei processi di modernizzazione ed innovazione del sistema, di contare - come modo principale per migliorare la scuola - sulle loro capacità, se una parte di essi non avverte situazioni di stabilità e di certezza. La mortificazione professionale non è mai una buona compagnia nel lavoro, tanto meno lo è in una professione che richiede comportamenti attivi, capacità relazionali, investimento continuo e di lunga durata sugli altri e su sé stessi.
Abbiamo bisogno, inoltre, di un ricambio generazionale, in una categoria con un livello medio di età molto alto, ed anche di una maggiore presenza nell'insegnamento, soprattutto nella scuola per l'infanzia, di docenti maschi. La stabilizzazione progressiva del precariato, dunque, non è solo un problema, è anche una risorsa, e fa parte di una strategia che comincia ad essere fortemente caldeggiata anche in ambito europeo ed internazionale: quella di rendere più attraente la professione per i nostri laureati. L'immissione in ruolo di quote importanti degli aspiranti, se sostenuta da efficaci interventi di formazione e lavoro, può contribuire al miglioramento della qualità media del nostro sistema educativo.
Occorre affrontare il problema in diversi modi. Si tratta, in primo luogo, di procedere alla stabilizzazione progressiva degli insegnanti precari su posti disponibili e su quelli che, via via, si libereranno per i pensionamenti, ma anche di dar vita ad un piano pluriennale che, agendo sui criteri di assegnazione degli organici, sull'ampliamento delle aree disciplinari di riferimento, sulla gestione delle supplenze brevi da parte delle autonomie scolastiche, consenta il contenimento della riproduzione e dell'espansione del precariato.
Ci sono, poi, connessioni importanti tra il superamento del precariato docente e la realizzazione di efficaci percorsi di formazione iniziale. È un campo molto problematico, che richiede un approfondimento preliminare all'assunzione di adeguate decisioni.
Meno problematica, ma molto drammatica, e anch'essa importante, è la situazione del precariato non docente: nel 2006-2007, gli aspiranti non di ruolo sono 66.009, su un totale di 78.288 posti disponibili e vacanti (di cui 8.167 da turn-over). In questo settore di lavoro è, peraltro, urgente una ridefinizione dei fabbisogni professionali effettivi nella scuola dell'autonomia. Per il momento, abbiamo chiesto, oltre ai 3.500 posti già concessi, un ampliamento di altre 3.500 immissioni in ruolo.
In materia di edilizia scolastica e sicurezza degli edifici da qualche anno la legge n. 23 del 1996 - anno quindi recentissimo - non è stata più finanziata. Eppure, è di
tutta evidenza che l'edilizia scolastica ha un'importanza determinante per una piena fruizione del diritto allo studio e per un buon funzionamento del sistema educativo. Allo stato attuale, le carenze strutturali sono assai estese, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno, e si riferiscono, oltre che all'insufficienza ed inidoneità dei locali, anche al mancato rispetto delle norme di sicurezza. È noto, inoltre, che le carenze edilizie costituiscono un vincolo rilevante al processo di generalizzazione della scuola per l'infanzia e, più in generale, ad una didattica che valorizzi le attività di laboratorio, che dia spazio e significato alla creatività e all'innovazione.
Ma l'emergenza è la sicurezza. Non è più sostenibile una situazione di potenziale rischio per gli allievi e per il personale delle nostre scuole. Stiamo lavorando, a questo proposito, ad un patto per la sicurezza dei nostri ragazzi, attraverso un nuovo accordo tra Ministero, regioni e autonomie locali, che renda disponibili nuove risorse in un ambito pluriennale e che elimini definitivamente la prassi delle proroghe, nel rispetto di quanto previsto dalla legge n. 626.
Per uscire dall'emergenza riguardante la spesa per l'istruzione, il mio intendimento è quello di analizzare a fondo il bilancio del Ministero. Lo farò anche con il supporto di tecnici esterni - state tranquilli, senza aggravio di spese! -, perché voglio verificare gli eventuali sprechi di risorse e i motivi dell'incessante diminuzione delle risorse attribuite dalla legge n. 440 all'autonomia scolastica. Inoltre, voglio impedire che esistano sprechi, per giungere insieme alla consapevolezza che non è il Ministero della pubblica istruzione il dicastero dove si spende comunque troppo e comunque male. È un'operazione preliminare della massima importanza, per poter poi avviare politiche di razionalizzazione e di qualificazione della spesa. Ci sono molte diversità nell'allocazione delle risorse tra le diverse aree territoriali e tra le diverse regioni ed anche tra i diversi segmenti dell'istruzione, di cui occorre approfondire l'entità e le cause.
È certo, comunque, che il sistema educativo non può più sopportare tagli indiscriminati. La penuria provoca asfissia e pericolosi ripiegamenti o, viceversa, un disordinato e concitato muoversi delle autonomie scolastiche, per trovare, attraverso i più diversi progetti, le risorse necessarie ad un funzionamento decente delle istituzioni scolastiche. È anche insostenibile, per la dignità stessa del ruolo dell'istruzione pubblica nel nostro paese, che ci si debba rivolgere, in molte realtà, al contributo economico delle famiglie, per far fronte alle spese di ordinario funzionamento, dalla carta per le stampanti a quella per i servizi igienici, dalle carte geografiche alla manutenzione delle attrezzature informatiche. Perfino per la retribuzione delle commissioni degli esami di maturità, ho trovato una situazione, che non esito a definire scandalosa, di prolungata non assegnazione delle risorse necessarie, a monte di un'erogazione di lavoro certa e prevista per legge. Ho dovuto intervenire - come sapete, con un provvedimento che il Parlamento si accinge ad approvare - con la logica del tappabuchi. Una situazione di questo tipo, aggiunta alle restrizioni finanziarie piovute in questi ultimi anni sugli enti locali - che sostengono una parte importantissima di spese per il funzionamento della scuola -, deve riuscire a trovare un rimedio.
Uscire dalle emergenze è obbligatorio. Per farlo è, però, necessario innanzitutto eliminare, se ci sono, gli sprechi di risorse, dislocando tutto ciò che non è indispensabile all'azione dell'amministrazione sulle autonomie scolastiche; in secondo luogo, razionalizzare e riqualificare la spesa, tenendo conto sia di specificità preziose del nostro sistema educativo (come l'integrazione dei diversamente abili), sia di alcune emergenze e priorità (come l'integrazione scolastica degli immigrati e lo sviluppo dei livelli di istruzione degli adulti); in terzo luogo, modificare, in questo quadro, la fisionomia del bilancio della pubblica istruzione, non basandolo più solo sulla spesa corrente, ma anche sugli investimenti strategici.
Tutto ciò comporta la definizione, in base a criteri oggettivi e scientifici, dei livelli appropriati o essenziali delle prestazioni del sapere, e quindi della spesa pro capite per studente necessaria per raggiungere questi obiettivi formativi.
Anche per questa via, dunque, si torna inevitabilmente al grande ritardo del nostro sistema, relativamente alla definizione degli standard di riferimento dell'azione educativa e alla necessità di superarlo in tempi brevi. Le autonomie scolastiche hanno bisogno di questo salto di qualità, per poter passare dalla scuola dei programmi e delle procedure ministeriali a quella della progettazione dei curricula, per poter valutare i risultati ottenuti e per potersi autovalutare. Si tratta di un punto di grandissima importanza, decisivo per la qualità della scuola, a cui dobbiamo dedicare il massimo impegno. Attenzione ed indirizzo necessitano anche di fondi strutturali che riceviamo dall'Unione europea e di tutti gli altri fondi che riceviamo da altre fonti, perché siano inseriti a pieno titolo nel sostegno all'autonomia scolastica e alle vere esigenze di una scuola che è in marcia verso l'eccellenza.
La definizione degli obiettivi formativi, dei livelli appropriati delle prestazioni, degli standard di riferimento - che è compito dello Stato - è la sola via possibile per realizzare quello che ci chiede anche l'Europa, cioè la trasparenza e la compatibilità dei percorsi e dei risultati del nostro sistema educativo. Un passaggio, del resto, indispensabile per fondare su basi solide la validità legale dei titoli di studio e il loro riconoscimento in ambito europeo.
A questo obiettivo hanno un interesse diretto le famiglie, che hanno il diritto di conoscere i risultati del sistema e delle singole scuole, misurati in modo scientifico sulla base di parametri definiti, ma anche le autonomie scolastiche e gli insegnanti, per poter orientare la loro azione, superare le criticità, misurarsi con la ricerca dei possibili miglioramenti e leggere con chiarezza i risultati.
I dispositivi di valutazione finora attivati, che hanno avuto comunque il pregio di sviluppare una familiarizzazione delle scuole con le tematiche della valutazione, hanno molti limiti: quello strutturale di non riferirsi ad obiettivi formativi chiari e condivisi e quelli tecnici intrinseci alle modalità di somministrazione delle prove e ad altri aspetti non secondari. Occorre, dunque, contestualmente all'impegno principale - che riguarda l'individuazione degli standard di riferimento dell'attività formativa -, rivedere alcuni elementi specifici delle tecniche di valutazione.
Gli obiettivi da perseguire - lo ripeto per evitare ogni possibile fraintendimento - sono comunque quelli di approdare alla definizione dei criteri scientifici di valutabilità del sistema e delle singole istituzioni scolastiche, anche come supporto all'autovalutazione professionale degli insegnanti. La valutazione delle singole scuole è propedeutica a qualsiasi tipo di altra valutazione, che comunque non è, oggi, al nostro ordine del giorno.
Affronto ora il tema della scuola secondaria superiore. Se per il primo ciclo di istruzione c'è bisogno di modifiche mirate, da realizzarsi con il metodo del «cacciavite», e di un processo di rivisitazione, supportato dai pareri e dalle competenze di chi opera concretamente nella scuola, di specifici dispositivi e delle indicazioni nazionali, per il secondo ciclo abbiamo bisogno di più tempo. Le questioni in campo, infatti, sono molto complesse e più lungo e complesso sarà l'ascolto degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. È decisivo, in questo quadro, attivare l'ascolto attento degli studenti e dei genitori, sentire le loro proposte, coinvolgerli nella definizione delle loro scelte.
Per questo, oltre ad aver bloccato una sperimentazione che era stata contestata dalle regioni e che non poteva, in effetti, disporre di tutte le condizioni necessarie ad una realizzazione significativa per l'intero sistema, abbiamo presentato al Parlamento una proroga di diciotto mesi per i decreti legislativi non scaduti della legge-delega n. 53 del 2003 e per il conseguente differimento al 2008-2009 dell'entrata in vigore. È un tempo necessario per impostare
correttamente e in progress la realizzazione degli obiettivi contenuti nel programma di Governo.
Circa la volontà di elevare l'obbligo d'istruzione scolastica, due anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di tutti, ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di percorso ad una età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive. Non si può scegliere, come è noto, ad occhi chiusi, né solo sulla base delle aspettative dei nuclei familiari e delle aspirazioni connesse con le condizioni sociali di appartenenza. Costringere i ragazzi a scegliere troppo presto significa esporli al rischio non solo di decisioni che appartengono più al destino sociale che alla maturazione di un livello sufficiente di autorientamento, ma anche di scelte che ignorano o rimuovono i talenti effettivi di ciascuno. E una scuola che mette al centro i diritti della persona questa cosa non può e non deve mai farla. Né deve farlo una società democratica che vuole essere una società aperta.
Due anni in più di istruzione significano anche, come ho già accennato, innalzare dai quindici ai sedici anni l'età minima per l'ingresso al lavoro. Una decisione, del resto, in linea con il rispetto che dobbiamo alla delicata età dell'adolescenza, oltre che con la riluttanza di gran parte del mondo imprenditoriale all'inserimento nella struttura produttiva di ragazzi troppo giovani. È passata molta acqua sotto i ponti - e per fortuna - rispetto ai tempi in cui i figli dei ceti sociali più modesti passavano direttamente dall'infanzia alle responsabilità e alle durezze della vita adulta, anche se il dramma del lavoro minorile nel nostro paese riguarda ancora 145 mila unità. Tra i sedici e i diciotto anni, come si è già sottolineato, ogni attività lavorativa - come in altri paesi dell'Unione europea - deve essere integrata da una forte dimensione formativa. Se il diritto all'istruzione, a partire da una certa età, non può annullare il diritto al lavoro, è però il lavoro che deve declinarsi sulla necessità che anche i giovani che si inseriscono presto nel mercato del lavoro abbiano le stesse opportunità degli altri di conseguire qualifiche professionali e titoli di studio.
Passa di qui, come è noto, l'incremento dell'occupabilità delle persone - cioè la loro forza soggettiva di misurarsi con successo con le difficoltà e le incertezze che caratterizzano oggi il lavoro - e la loro stessa possibilità di continuare ad apprendere per tutto il corso della vita.
Per ciò che riguarda il nuovo biennio, la sua fisionomia dovrà essere tale da contemperare diverse esigenze: l'innalzamento delle competenze di base per tutti; lo sviluppo e la verifica degli orientamenti e delle propensioni di ciascuno; l'abbattimento drastico dell'insuccesso scolastico, della demotivazione e degli abbandoni, attraverso una didattica capace di valorizzare le attitudini cognitive e le aspettative dei ragazzi e delle ragazze.
Una scommessa non semplice, come è dimostrato dal fatto che proprio sulla difficoltà di individuare soluzioni culturali ed organizzative equilibrate, attente alle esigenze di ciascuno, si è arenata da più di trent'anni un'ipotesi di riforma del secondo ciclo che fosse sufficientemente condivisa. Occorrono, dunque, un monitoraggio attento delle esperienze in atto, il supporto di idee e di proposte del sistema educativo reale, l'analisi dei fabbisogni professionali del sistema produttivo e dei servizi.
È, comunque, evidente che un biennio rigidamente scolastico, in cui la realizzazione dei suoi diversi compiti fosse affidata unicamente all'articolazione del curriculum in discipline generali e di indirizzo, rischierebbe di riprodurre i fenomeni di dispersione scolastica e di esclusione formativa che vogliamo invece contrastare. È, dunque, importantissimo che il nuovo biennio, utilizzando soprattutto la quota di monte-ore affidata all'autonomia scolastica, che, come sapete, ho riconfermato al 20 per cento sui curricula, e attivando linguaggi e metodologie didattiche diverse da quelle tradizionali, sappia valorizzare le diverse intelligenze e
i diversi talenti dei ragazzi. Ed è altrettanto importante, anche nel quadro del Titolo V, che le autonomie scolastiche e gli attori istituzionali responsabili della programmazione dell'offerta formativa, sappiano predisporre i percorsi più adatti a rendere attraenti ed efficaci i percorsi formativi, tenendo conto sia delle diverse tipologie della dispersione in questa fascia di età, sia delle risorse formative attivabili nel territorio.
Il nostro paese, infatti, non è affatto omogeneo dal punto di vista delle risorse locali del sistema educativo e tale omogeneità non è immediatamente realizzabile.
D'altro canto, anche la dispersione non è un fenomeno che presenti, sempre e dovunque, le stesse caratteristiche: l'insuccesso scolastico di Scampia e dei quartieri spagnoli di Napoli non è la stessa cosa degli abbandoni precoci determinati dall'attrattività di un inserimento immediato nel mercato del lavoro di alcune aree del nord-est, e neppure la stessa cosa della rinuncia di tanti figli dell'immigrazione, dopo la scuola media, a proseguire in qualsiasi ulteriore percorso formativo. C'è, inoltre, un rischio di dispersione che può essere contenuto e limitato con una didattica più attenta e con l'integrazione di attività di orientamento e formazione professionale dentro il percorso di istruzione. Mentre in altri casi ci si deve misurare con un rifiuto netto di qualsiasi tipo di aula, anche la più arricchita di attività di laboratorio. È, in ogni caso, evidente che è il livello locale quello che consente di avere il quadro preciso dei diversi bisogni formativi, il contesto privilegiato della progettazione organizzativa e didattica.
Decisiva, a questo proposito, è l'attivazione di anagrafi regionali e provinciali, complete e aggiornate di tutti i soggetti «in obbligo» e di efficaci servizi di orientamento delle famiglie e dei ragazzi. I ritardi che si sono accumulati su questo punto in diverse aree regionali sono tra le criticità più acute del nostro sistema.
Non si possono attivare gli interventi di recupero degli abbandoni se non si accerta, scientificamente e in modo aggiornato, l'entità e i bisogni formativi dei drop-out: quelli che escono dalla scuola media senza licenza o in tale ritardo scolastico da rinunciare ad ogni proseguimento dell'apprendimento per via formale; quelli che si disperdono nel passaggio dalla scuola media alla superiore; quelli che cadono nei primi anni della scuola superiore; quelli che abbandonano i percorsi di formazione professionale o che escono precocemente dall'apprendistato; i tanti «minori stranieri ricongiunti», o arrivati da soli nel nostro paese, di cui il nostro sistema scolastico non ha traccia.
In tema di valorizzazione dell'istruzione tecnica e professionale, voglio dire che gli istituti tecnici e gli istituti professionali costituiscono, insieme, oltre il 60 per cento del secondo ciclo di istruzione. La loro importanza non è però solo numerica, perché essi costituiscono il canale attraverso cui la maggioranza degli studenti consegue titoli che consentono sia il proseguimento degli studi nell'istruzione superiore, accademica e non accademica, sia le competenze professionali per l'inserimento nel mondo del lavoro.
Storicamente, sono stati gli istituti tecnici ad assicurare le figure e i profili professionali indispensabili alla nostra industria manifatturiera e molti di essi sono tuttora i «fiori all'occhiello» di singole aziende o di distretti industriali. Il calo di iscrizioni, che li caratterizza ormai da una decina di anni, deriva da un insieme di fattori, tra cui è della massima importanza la crisi, nell'immaginario stesso dei giovani e delle famiglie, anche nel nord-ovest, del prestigio sociale dell'industria e delle figure professionali che vi fanno riferimento. Ma gli istituti tecnici restano un percorso formativo della massima importanza per il paese e per i giovani. È importante che i titoli finali consentano anche l'iscrizione all'università, ma lo è altrettanto che la maggioranza dei diplomati entri direttamente nel mercato del lavoro.
La valorizzazione dell'istruzione tecnica, di cui lo sviluppo del paese ha grandissimo bisogno, non passa dall'improbabile «licealizzazione» decisa nell'ultima legislatura. In questa scelta vi è la
perdita del valore professionalizzante dei titoli finali e la riduzione della parte di curriculum destinata alla formazione di tipo laboratoriale. Si tratta di una scelta - non a caso duramente contestata da tutte le associazioni di impresa del paese -, in cui sono del tutto evidenti culture antiche ed obsolete che non riconoscono il profilo e la complessità della cultura tecnologica e neppure la sua densità culturale, umanistica e scientifica. Gli istituti tecnici e professionali, dunque, devono essere modernizzati nell'impianto culturale e didattico; devono però essere tenuti lontani da processi di assimilazione, tout court, ai licei generalisti.
Anche l'istruzione professionale statale - che rappresenta il 23 per cento circa della scuola secondaria superiore e che, a differenza degli istituti tecnici, non ha subito in questi ultimi anni un calo di iscrizione - ha bisogno urgente di modernizzazione ed innovazione, a partire dal carico eccessivo di discipline e di saperi segmentati, che è causa non secondaria dell'alto tasso di dispersione che si verifica nei primi due anni. Tra le sue caratteristiche più interessanti, che ne fanno un'area di attrazione dei giovani che all'uscita dalla scuola media non sono propensi a percorsi formativi lunghi e tantomeno a percorsi che conducono obbligatoriamente al post-secondario, c'è ormai una lunga tradizione di rapporto con i mercati del lavoro locali e la possibilità di conseguire una qualifica professionale di validità nazionale, la duratura esperienza di integrazione tra scuola e formazione professionale, tra formazione e lavoro.
Quello che abbiamo scritto nel programma del Governo, cioè il proposito di valorizzare l'area formativa tecnico-professionale - nell'ambito di una più generale valorizzazione dei percorsi di carattere scientifico - conduce necessariamente ad averne una visione unitaria, che escluda lo spacchettamento tra tecnici e professionali, che deriverebbe, a mio avviso, da una lettura riduttiva di quanto disposto dal Titolo V. Dobbiamo, al contrario, ricondurre in un'unica area gli istituti tecnici e professionali, integrarne le risorse - come già stanno facendo numerose sperimentazioni - anche con l'apporto dei sistemi locali di formazione professionale, flessibilizzarne il funzionamento in modo da assicurare la possibilità di conseguimento di qualifiche e di diplomi professionalizzanti di più livelli diversi. Tutto ciò senza alcun pregiudizio delle competenze in merito a tutto ciò che è titolo professionalizzante da parte delle regioni.
La valorizzazione dell'area tecnico-professionale richiede, per esser davvero tale, interventi importanti, sia monte, sia a valle. A monte, significa che anche nella scuola di base le discipline e le attività di carattere tecnologico non devono essere considerate - come del resto auspicavano gli stessi programma degli anni settanta - puro spazio applicativo delle conoscenze teoriche, cioè figli di un dio (culturalmente) minore. A valle, significa che occorre sviluppare percorsi formativi di tipo tecnico-professionale di alta specializzazione, post-secondari, ma non necessariamente di natura accademica. L'esperienza di corsi di formazione e istruzione tecnica superiore e la progettazione regionale di poli formativi «di campo», collegati con la ricerca scientifica e con i sistemi produttivi di riferimento, sono già passi in avanti in questa direzione, passi a mio avviso molto importanti.
Sono passaggi cruciali anche per contrastare il calo delle cosiddette vocazioni scientifiche. Tale calo, infatti, non è solo il risultato delle scarse prospettive di impiego dei giovani che si formano in questi campi, in un paese in cui la ricerca pubblica è stritolata dalla penuria di investimenti politici ed economici, la ricerca privata è ridotta al lumicino e le aziende preferiscono assumere diplomati e licenziati della scuola media, piuttosto che laureati (come ci segnalano incessantemente le indagini Excelsior). La distanza cresciuta negli ultimi anni dal sapere scientifico e tecnologico dobbiamo assolutamente colmarla.
Su questi temi, assolutamente strategici per una moderna configurazione del secondo ciclo, il nostro impegno deve essere
altissimo. Non sfugge a nessuno, infatti, la loro importanza per un nuovo sviluppo del paese, e noi dobbiamo, in questo settore, investire.
L'attenzione alla cultura e alla formazione tecnico-professionale va, però, coniugata con quella dedicata alla riqualificazione, alla modernizzazione e al rilancio degli indirizzi di carattere umanistico, anch'essi decisivi per lo sviluppo di un paese. Mi ostino a ritenere ancora che la scuola debba avere un ruolo essenziale come artefice di un processo di umanizzazione delle nuove generazioni. Il nostro paese, caratterizzato non solo da un patrimonio eccezionale di beni culturali, ma anche da produzioni artistiche e culturali di grandissima importanza, anche dal punto di vista economico, non può non avere un ruolo decisivo nel sistema educativo in questi campi. A tale proposito, svilupperemo un impegno comune tra il Ministero dell'istruzione e quello dei beni e delle attività culturali.
In questo quadro, l'educazione musicale e artistica deve essere valorizzata nel ciclo di base e nel secondo ciclo, sia all'interno dei curricula di ogni indirizzo, sia con l'istituzione di percorsi specialistici finalizzati al conseguimento di qualifiche professionali e di diplomi. Gli stessi poli di istruzione e formazione tecnica superiore, collegati alla ricerca, che oggi stanno progettando le regioni, devono essere declinati anche in questo senso.
Per ciò che riguarda gli esami di Stato, la composizione attuale delle commissioni di esame ha confermato e rafforzato la fisionomia di un sistema educativo che rischia, se non corretto, di andare progressivamente ad attenuare, in tutto il percorso degli studi, il valore formativo delle prove, l'importanza dell'impegno nello studio e il significato del merito individuale.
Il dispositivo dei «debiti» e dei «crediti», non sostenuto da strumenti efficaci ed in tempi certi di recupero dei deficit accumulati, può avere effetti qualche volta diseducativi, proprio come un esame finale in cui c'è perfetta coincidenza tra chi ha erogato la formazione e chi ne giudica i risultati finali. Le critiche di moltissimi studenti, che denunciano l'«inutilità» delle prove di maturità, sono il segno di desideri positivi di cambiamento. Anche qui, dunque, bisogna cambiare, restituendo valore e dignità al lavoro dell'apprendimento e dell'insegnamento, in primo luogo ripristinando la presenza dei commissari esterni nelle commissioni degli esami di Stato.
Tra i modi per restituire tutto il loro significato ai percorsi di studio, c'è anche la valorizzazione delle politiche di orientamento, che riguardano l'implementazione sia dei rapporti tra il sistema educativo e il mondo del lavoro e delle professioni, sia di quelli con l'università e con i percorsi di istruzione superiore non accademica. Occorre riflettere inoltre sulla possibilità di inserire, all'interno delle commissioni che valutano gli accessi alle facoltà universitarie, insegnanti della scuola media superiore.
Dal prossimo settembre avrà inizio una campagna di ascolto delle scuole su tutti i temi di maggiore importanza e, in particolare, su quelli che riguardano il secondo ciclo. Gli insegnanti, i dirigenti scolastici, gli studenti, le famiglie saranno coinvolti nell'approfondimento dei cambiamenti necessari ed auspicabili.
Con gli studenti e con le famiglie, discuteremo in particolare anche proposte innovative di sviluppo dell'educazione motoria, sanitaria, ambientale e alla legalità. Si tratta di campi importanti per la responsabilizzazione dei giovani rispetto a sé stessi, agli altri e ai beni comuni. Una cura particolare sarà data al rapporto tra educazione e salute, alla prevenzione delle dipendenze e dei disturbi alimentari.
Avremo bisogno di costruire le condizioni, a partire dal prossimo DPEF, per tenere aperte le scuole anche di pomeriggio, coinvolgendo le famiglie e gli attori del territorio (enti locali, fondazioni, imprese): è un modo importante per far crescere la responsabilità dei ragazzi rispetto alle proprie scuole e per dare loro spazi di incontro e cooperazione.
A questa campagna di ascolto tengo molto. Io stesso mi impegno a partecipare
a eventi e incontri regionali, perché sono certo che è solo attraverso un processo di condivisione che si possono affrontare questioni così vaste e di tale complessità.
Non ci saranno, dunque, nuove edizioni di «Stati generali» un po' verticistici e neppure altri manifesti evocativi di un nuovo mondo o di perentoria rottura con un mondo considerato vecchio o da buttare. Sono convinto che la scuola italiana apprezzerà anche un lavoro teso a dare una quotidianità dignitosa agli insegnanti ed un sapere al passo con l'Europa ai nostri studenti.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro Fioroni per la sua ampia esposizione.
Considerato il numero elevato di colleghe e colleghi iscritti a parlare, possiamo anche decidere - come abbiamo fatto in occasione dell'incontro con il ministro Rutelli - di proseguire il dibattito in un'altra occasione, sulla base delle disponibilità, molto ampie, del ministro Fioroni.
Come di consueto, il presidente cercherà - nel dare la parola - di garantire un'espressione plurale di tutte le posizioni politico-parlamentari, nel corso dei successivi giri di intervento.
NICOLA BONO. Presidente, le chiedo come intende procedere, perché o stabiliamo un orario oppure il numero degli interventi che si possono fare.
TITTI DE SIMONE. Forse, presidente, sarebbe opportuno fissare un termine temporale per gli interventi che ci accingiamo a svolgere nella seduta odierna, anche in considerazione del fatto che abbiamo ulteriori lavori di Commissione nella giornata odierna.
La pregherei, quindi, di comunicarci come intenda procedere.
PRESIDENTE. Se il ministro Fioroni è d'accordo, proporrei di proseguire l'audizione fino alle 16,30, per consentire ai colleghi che lo desiderino di intervenire. In seguito, potremmo stabilire un successivo appuntamento con il ministro. In questo modo, alle 16,30 potremmo tenere la sede consultiva ed esaminare i diversi provvedimenti all'ordine del giorno.
GUGLIELMO ROSITANI. Sempre sull'ordine dei lavori, vorrei far presente un dato oggettivo che dovrebbe essere considerato, ovvero che la relazione del ministro Fioroni - che ringraziamo - è stata di un'ampiezza unica. La qual cosa, pur facendoci piacere ovviamente, ci porta ad aver bisogno di tempo per poterla ulteriormente approfondire (Commenti del deputato Aprea). Stavo giustificando la richiesta degli onorevoli Bono e De Simone di rinviare ad altra seduta la discussione. Un rinvio sembrerebbe opportuno perché, a parte le esigenze di tempo legate ai lavori di Commissione da svolgere oggi, bisogna considerare l'elemento oggettivo rappresentato dal fatto che la relazione del ministro Fioroni è stata abbastanza ampia e che, dunque, necessita di un approfondimento da parte nostra.
NICOLA BONO. Salvo chi vuole intervenire!
GUGLIELMO ROSITANI. Certamente.
ANDREA MARTELLA. Intervengo sull'ordine dei lavori. Anche a me la relazione del ministro Fioroni è sembrata molto ampia, articolata e meritevole di una riflessione. Capisco, dunque, le ragioni dei colleghi, anche del centrodestra, che ritengono necessaria una fase di riflessione prima della riapertura del dibattito. Considerando che abbiamo anche altri lavori da affrontare più tardi, vorrei proporre di prevedere per questa seduta - se si ritiene opportuno - lo svolgimento di un numero limitato di interventi. Tuttavia, forse, bisognerebbe fissare un limite di tempo antecedente alle 16,30, oppure addirittura decidere l'aggiornamento del dibattito ad un'altra seduta, affinché sia possibile per tutti intervenire compiutamente, lasciando spazio alla replica finale del ministro Fioroni.
PRESIDENTE. Per contemperare diverse esigenze, il presidente ritiene che
oggi possiamo lavorare comunque fino alle 16,30. Pertanto, saranno invitati a parlare solo alcuni colleghi, per poi proseguire in un'altra seduta. Ad ogni modo, mi sembra opportuno cominciare gli interventi, che termineranno, secondo la proposta avanzata, alle 16,30. Dopodiché, la Commissione si dovrà riunire in sede consultiva, essendo chiamata ad esprimere il proprio parere su una questione importante di cui ha parlato il ministro Fioroni, vale a dire sulla proroga termini.
ANDREA MARTELLA. Presidente, naturalmente lei può decidere e disporre come meglio ritiene. Tuttavia, mi pareva di interpretare che ci fosse un orientamento più generalizzato a rinviare il seguito della discussione in una seduta ventura (Commenti del deputato Aprea). Dico questo, perché, stando all'intervento dell'onorevole Bono, dell'onorevole Rositani e di altri, mi sembrava che questa fosse la volontà della Commissione. In considerazione del fatto che qualche nostro collega deve partire o comunque allontanarsi, ci sembrava utile rinviare la discussione.
VALENTINA APREA. Anch'io dovevo partire alle 13!
ANDREA MARTELLA. Se poi lei, presidente, ritiene che la seduta debba concludersi comunque alle 16,30, noi possiamo anche evitare di intervenire e di dire la nostra opinione. Lei ovviamente può disporre come ritiene.
PRESIDENTE. Rimane stabilito che svolgeremo un primo giro di interventi nel corso della seduta odierna. Del resto, poiché alcuni gruppi parlamentari hanno chiesto di intervenire già oggi, non c'è unanimità nella richiesta di rinviare.
Do pertanto la parola alla collega Aprea e, a seguire, alla collega Sasso.
VALENTINA APREA. Intervengo oggi, anche perché esistono già due decreti di cui parlare. Siamo in presenza di una situazione abbastanza gravida di questioni e, dunque, abbiamo fin troppi elementi sui quali intervenire in questa audizione. Del resto, ministro Fioroni, gli auguri glieli abbiamo rivolti in altre occasioni.
Oggi, purtroppo, il clima è già teso. È dal 22 maggio, infatti, che leggiamo ripetutamente sulla stampa nazionale le sue dichiarazioni che hanno anticipato le scelte che oggi è venuto qui a formalizzare.
Non le nascondo che alcune di queste dichiarazioni - come peraltro parte del suo intervento di stasera - mi sono sembrate minimaliste o addirittura semplicistiche. Tra l'altro, lei oggi ha confermato la mia impressione, affermando che è meglio abrogare che riformare, come se fossimo all'anno zero dei cambiamenti per quanto riguarda la scuola o anche soltanto la gestione di fenomeni complessi.
Mi creda, ministro, le questioni dell'integrazione degli handicappati, degli stranieri, o anche dei musulmani - a cui lei ha dedicato ampio spazio in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera - non sono all'anno zero. I Governi, e non solo il nostro, il Ministero e le scuole hanno da tempo elaborato strategie di intervento e didattiche che sono divenute persino modelli in Europa e nel mondo.
Quindi, questa non è la prima legislatura che si occupa di questi temi.
A proposito della questione dell'handicap, ad esempio - non volevo interromperla mentre ne parlava -, lei non può dire che recentemente è stato introdotto un criterio «aziendalistico». Semmai, in relazione a tale criterio, le suggerisco di usare i termini «ragionieristico» e «statalistico».
Dico questo perché, quando il Governo di centrosinistra e l'allora ministro Berlinguer introdussero questo sistema basato sul calcolo di un insegnante di sostegno ogni 128 alunni, con la prima finanziaria del Governo Prodi, lo fecero con la volontà ben chiara di sistemare e stabilizzare gli insegnanti di sostegno che, prima di quell'epoca, erano davvero molto precari. Il criterio di assegnare un docente di sostegno ogni 128 alunni, quindi, non è assolutamente aziendalistico, ma ragionieristico! Inoltre, consentiva, in modo abbastanza
giusto, la stabilizzazione degli insegnanti di sostegno. Peccato che, come noi avevamo già immaginato allora, esso sia diventato un boomerang per gli alunni disabili.
Tale intervento, dunque, è stato di tipo ragionieristico e statalistico e non ha niente a che fare con le aziende, con l'efficienza e soprattutto con la buona integrazione degli alunni disabili.
Apprendiamo comunque con piacere che lei voglia andare a rivedere questo calcolo che, lo ripeto, fu introdotto allora per raggiungere quel determinato obiettivo.
Da ieri, alle parole sono seguiti i fatti. Ovviamente, mi riferisco alle scelte contenute nel decreto «mille proroghe» presentato al Senato, che ha confermato l'unica politica del fare dei primi 100 giorni di questo Governo, ossia la politica del disfare. Il vostro modello, ormai, è Penelope. Con la differenza che quest'ultima disfaceva la tela per una causa nobile, mentre nel vostro operato c'è poca serietà, ma soprattutto tanta irresponsabilità e scarsa lungimiranza.
E non si propongano paragoni con quello che facemmo noi nel 2001, con riferimento alla legge n. 30 del 10 febbraio 2000 di Berlinguer-De Mauro. A quell'epoca, infatti, la norma era stata da poco approvata - anno 2000 -, la Corte dei conti aveva mosso rilievi finanziari, la legge era completamente priva di copertura finanziaria, ma soprattutto erano pervenuti dalla Corte dei conti rilievi sulle condizioni di fattibilità, relativi all'attuazione del primo ciclo di sette anni. Sto parlando della famosa onda anomala, che avrebbe portato, in prima applicazione, due generazioni di età a frequentare la stessa classe per un certo numero di anni, con evidenti e insopportabili costi per il bilancio dello Stato.
Per di più, immediatamente dopo l'approvazione di tale norma, la modifica del Titolo V della Costituzione, con l'introduzione della legislazione concorrente in materia di istruzione, aveva reso di fatto incostituzionale la legge n. 30. Infatti, noi, avendo deciso di proseguire nella riforma degli ordinamenti, abbiamo dovuto inaugurare una nuova stagione di legislazione scolastica.
Tuttavia, da questa sua audizione, mi sembra di capire che lei vuole immediatamente interrompere tale percorso. Noi abbiamo previsto delle norme generali per l'istruzione, in omaggio alle competenze esclusive dello Stato, e livelli essenziali di prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, in omaggio alla competenza esclusiva delle regioni in questa materia.
Invece, ho sentito che lei pensa di investire nuovamente nell'istruzione professionale statale. Ebbene, le rivolgo i miei auguri. Poi vedremo che cosa le diranno gli organismi istituzionali, in modo particolare la Corte costituzionale, in proposito.
Peraltro, le nostre leggi sono state immaginate e portate avanti in continuità con le migliori esperienze della scuola italiana - che meritava e merita di superare una fase sperimentale che dura ormai da decenni - e, soprattutto, in linea con le politiche europee. Mi riferisco, ad esempio, al processo di Lisbona che ha degli obiettivi precisi e che non può valere per tutte le stagioni e per tutti i sistemi; o al processo di Copenhagen, di Maastricht, a favore della convergenza tra sistemi di istruzione education e formazione professionale, il vocational training, nel VET (vocational educational and training).
In ogni caso, sono trascorsi anni dall'approvazione della legge delega n. 53, durante i quali le scuole sono state impegnate a misurarsi con le nuove sfide. In alcuni casi, come quello del tutor o dello stesso portfolio, tali sfide sono state ritenute particolarmente difficili, ma in altri casi sono state accolte con grande soddisfazione. Penso, ad esempio, all'alternanza scuola-lavoro, all'introduzione dell'inglese fin dalla scuola primaria, allo studio obbligatorio di due lingue comunitarie, al potenziamento dello studio dell'informatica e, infine, ai nuovi licei.
Prima di entrare ancor più nel merito delle vostre politiche scolastiche - e ribadire la distanza tra queste scelte e la
nostra visione di scuola, di società, ma prima ancora di persona - non posso non lasciare agli atti di questa Commissione il nostro profondo dissenso sulla decisione, assunta dal vostro Governo, di aver affossato il MIUR, che peraltro è una vostra creatura, e di aver riportato la filiera dell'educazione nel solo Ministero della pubblica istruzione.
Come ebbi già modo di ricordarle nel dibattito sulla fiducia, il processo di accorpamento previsto dal decreto legislativo n. 300 del 1999 ha richiesto ben due anni e mezzo. L'emanazione del regolamento istitutivo del sopprimendo MIUR è durata ben due anni e mezzo. Quindi, questo processo si è rivelato lungo e laborioso e ha visto susseguirsi diversi interventi della Corte dei conti, finalizzati ad adeguare alle effettive esigenze dell'azione amministrativa la norma a regime del decreto legislativo n. 300.
L'operazione di accorpamento si è protratta fino al febbraio 2005. Questo in corso è stato il primo anno in cui l'unificazione delle due ex amministrazioni è stata pienamente operante. Appena arrivata l'unificazione, quindi, si riporta l'orologio indietro di dieci anni.
Nel momento in cui si procede ad una nuova separazione, appare evidente che - a prescindere dall'atto legislativo che stabilisce tale evento, di cui parleremo nei prossimi giorni qui alla Camera - dovranno essere predisposti una lunga serie di atti amministrativi, dall'organizzazione degli uffici dell'amministrazione centrale agli uffici scolastici regionali, che paralizzeranno l'azione amministrativa per altri anni.
Come lei avrà saputo, ministro Fioroni, è stata messa in dubbio anche la possibilità per lei di firmare decreti: mi riferisco a quello relativo all'aumento del tetto di spesa per i commissari. Nelle Commissioni bilancio e affari costituzionali, infatti, è stato messo in discussione che lei potesse firmare questo decreto, visto che lei, al momento, risulta ministro di un dicastero che ancora non esiste. Dico questo, per dire come, giustamente, siamo all'anno zero del Ministero della pubblica istruzione.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Non voglio interromperla, ma ritengo necessario chiarire alcuni aspetti della questione, altrimenti non ci capiamo. Quando un decreto viene emanato dal Consiglio dei ministri e firmato dal ministro, esso è legge della Repubblica.
VALENTINA APREA. È vero, ma questo non vale per il bilancio. Lei deve leggere il parere, ministro. In questo caso non si tratta di una mia invenzione.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Consiglieremo un diverso corso di scuole superiori!
VALENTINA APREA. Alla Commissione!
È una questione di bilanci. In seguito, chiaramente, hanno dato comunque il via libera. Tuttavia, lo ripeto, il discorso non me lo sono inventato, altrimenti avrei lasciato perdere.
Tutto ciò dimostra come la macchina dello Stato venga messa in difficoltà da una decisione politica. Come appare chiaro, non basta tirare un tratto di penna su provvedimenti e operazioni precedenti, ma occorre faticosamente costruire un altro assetto. Per farlo è necessario del tempo, ma intanto il paese perde tempo.
Avevamo proprio bisogno di vanificare il precedente processo di unificazione, varato peraltro da un vostro passato Governo? Il paese no, la maggioranza sì.
Il Presidente Prodi ha sacrificato, sull'altare della lottizzazione politica e partitica della sua maggioranza, una nuova efficace organizzazione di un Ministero, il MIUR, che è stato guidato per cinque anni da un unico ministro, Letizia Moratti. Come vedete le avete riservato comunque un posto nella storia della Repubblica, visto che Letizia Moratti in assoluto resterà, almeno per altri cinque anni, il ministro che per cinque anni ha guidato un Ministero così ampio.
Il MIUR aveva al suo interno viceministri e sottosegretari con deleghe piene. L'organizzazione di tale dicastero ha consentito di valorizzare e rilanciare un'unica filiera della conoscenza che riunisse scuola, università e ricerca, a servizio della persona, della famiglia e della società. Insomma, tramite il MIUR, nella scorsa legislatura, abbiamo ottimizzato l'apporto delle due strutture ministeriali, quella dell'istruzione e quella dell'università. A proposito, quando verrà in Commissione il ministro Mussi?
PRESIDENTE. Il 4 luglio. Sono preparatissimo.
VALENTINA APREA. Benissimo. Ho fatto questa domanda, perché una parte di questo discorso, ovviamente, vale anche per il ministro Mussi (così ottimizzo anche le mie energie).
Come dicevo, la nostra visione dell'istruzione e dell'università era quella di due strutture che fossero in grado di trasmettere, generare e consolidare in piena sinergia tra loro la conoscenza come risorsa strategica per lo sviluppo e la coesione sociale, in coerenza con gli obiettivi della agenda di Lisbona del 2000.
Persino la CGIL scuola da qualche anno ha unificato i tre settori e ha dato vita al sindacato dei lavoratori della conoscenza, includendo in una stessa categoria i docenti della scuola, i professori universitari e i ricercatori.
Dunque, la scelta operata dal Presidente Prodi, oltre a determinare problemi che saranno di non facile soluzione sul piano amministrativo e contabile - come presto lei verificherà, ministro Fioroni - delude proprio, e soprattutto dal punto di vista strategico e riformista. Non vi è dubbio, infatti, che scindendo le competenze del MIUR tra due Ministeri, si perderà la visione di insieme che rimanda alla più ampia società della conoscenza, si annacquerà la spinta riformista e sarà più difficile per gli stessi ministri resistere alle pressioni corporative e alle logiche di basso profilo.
In particolare, con questo modo di operare, ci sembra più nitida l'immagine della conservazione che connoterà il vostro Governo.
Queste scelte, infine, ci allontanano dall'Europa, dove abbiamo deciso che bisogna puntare sulla formazione lungo tutto l'arco della vita. Lei ha accennato all'educazione degli adulti, ma capisce che ha perso tutta una filiera importantissima. Dovrà collaborare e lavorare almeno con altri tre o quattro ministri, forse cinque, visto che c'è anche il Ministero per le politiche giovanili da qualche altra parte, oltre che quelli del lavoro, che hanno suddiviso le loro competenze. Insomma, un disastro. Bisogna dirlo: Letizia Moratti è stata proprio fortunata.
Ministro Fioroni, ritorniamo sul suo programma, innanzitutto sul metodo. Tutti i ministri dell'istruzione, all'inizio del loro incarico, vogliono dialogare e ascoltare. Questo va bene, si adatta ad un ministro che arriva a viale Trastevere. Ciò che invece non possiamo condividere è il metodo secondo il quale sono gli addetti ai lavori che determinano le riforme.
Le riforme noi le abbiamo fatte ponendo al centro lo studente e i suoi bisogni, la persona e le sue aspirazioni, e le famiglie. Inoltre, nella riforma della scuola, abbiamo cercato, senza avere successo o molto successo - lo riconosco - la complicità dei docenti e dei dirigenti.
Se lei pensa di far riformare i settori agli addetti ai lavori, non cambierà nulla. Tra l'altro, dal momento che lei viene da un settore altrettanto spinoso rispetto alla sua storia politica, ossia quello della sanità, sa bene a che cosa voglio riferirmi.
Lei non ci ha convinto, signor ministro. Appare troppo preoccupato di dare risposte politiche alla sua maggioranza, quindi si rifugia in logiche restauratrici e prospettive del passato, piuttosto che chiarire cosa intende fare realmente rispetto alla necessità di continuare. Infatti, occorre continuare e completare il processo riformatore di stampo europeo avviato faticosamente.
Vedrà, ministro, come è difficile spostare anche una sola virgola in un settore
come quello dell'istruzione. Tra l'altro, è con ritardo che abbiamo messo mano a questo settore.
Oggi lei ha affermato che non c'è bisogno di riformare e che non sono necessarie delle trasformazioni epocali. È un peccato, ministro. Speravo davvero, invece, in una spinta, ancora una volta, di stampo riformistico. Non abbiamo bisogno di normalità o di serenità in questo settore. Mi riferisco a quella serenità che prelude al riposo. Sicuramente, la pace sociale, la soddisfazione e la gratificazione sono importanti, ma quello che non possiamo fare è addormentarci. Non possiamo farlo, ministro. Lo vedrà.
Lei è già stato in Europa, a Mosca, e avrà potuto verificare come siano avanzate le politiche scolastiche educative degli altri paesi europei. Dicendo questo, inoltre, penso ai paesi emergenti al di fuori dell'Europa e, soprattutto, alle politiche, che potremmo valutare persino aggressive, dei paesi dell'est. Vi cito il caso di un solo paese per tutti, la Polonia. Parlando col ministro polacco, si renderà conto che le cose stanno davvero così. In Polonia, infatti, è stato introdotto lo studio obbligatorio dell'inglese in tutti gli ordini di scuola da un decennio ormai, da quando il paese si preparava ad entrare nell'Europa dei 25.
Ebbene, l'obiettivo della padronanza linguistica dell'inglese è stato già raggiunto da tutti i cittadini polacchi, mentre noi siamo ancora a metà del guado. Noi l'abbiamo scritto, ma se oggi ci fermiamo non raggiungeremo questo obiettivo.
La prego, prima di stracciare la nostra riforma la legga. Verifichi cosa era stato previsto, addirittura in modo obbligatorio, per tutti gli studenti dell'ultimo anno dei licei. Era previsto il CLIL, ossia lo studio obbligatorio di una materia in lingua inglese.
Oggi queste esperienze si fanno solo nelle scuole private, a pagamento, oppure nelle scuole migliori, quelle che decidono di portare avanti tale progetto. Tuttavia, il nostro intervento è stato mirato a generalizzare questo obiettivo.
A questo punto, dunque, dobbiamo decidere se vogliamo puntare all'eccellenza, come ha detto lei, ma cambiando, oppure se vogliamo accontentarci della solita sporadica eccellenza di chi ce la fa, rinunciando a coloro che, invece, non ce la fanno. Noi abbiamo cercato di generalizzare le esperienze migliori e le eccellenze.
Pertanto, per questa ragione di scenario, prima ancora che di scelte di politica valoriale - evidentemente ci sono anche queste, e presto le richiamerò, sia pur di sfuggita -, Forza Italia la interroga su tre questioni. Questioni che, a nostro avviso, rappresentano la sfida del cambiamento, per proseguire nella modernizzazione del sistema educativo nazionale, in coerenza con gli standard europei, per coniugare diritti e doveri, opportunità e responsabilità. Questa è una sfida alla quale lei non può e non potrà sottrarsi, signor ministro, neppure in ossequio alle attese della sua maggioranza o del nuovo vangelo, ossia il programma dell'Unione.
La prima questione è quella istituzionale, la seconda è quella ordinamentale, la terza è quella relativa alla professionalità degli insegnanti.
Per il primo aspetto, la questione è subito posta. I lavori della Costituente - sì, la Costituente del 1946-1947 -, con gli articoli 5, 33 e 34 della Costituzione del 1948, imponevano di costruire un sistema educativo dove la Repubblica dettasse per legge solo le norme generali sull'istruzione, non i programmi di insegnamento, non le circolari dei dirigenti ministeriali. Sulla base di queste norme generali, poi, le istituzioni scolastiche dovevano gestirsi in autonomia, in nome della libertà di scuola, della parità tra scuole statali e non statali, del trattamento equipollente per gli alunni delle scuole statali e non statali e della libertà di insegnamento. Nella Costituzione del 1948, infatti, vi è anche questo: una concezione professionistica e non impiegatizia della funzione docente.
Gli esami di Stato, che allora non erano pochi - vi ricordo quelli di quinta elementare, di terza media, dell'ultimo anno delle superiori, a cui si aggiungevano anche quelli di ammissione ad alcune
scuole -, dovevano infine servire a controllare la qualità e l'efficienza del sistema, e a verificare se e quanto tale sistema restasse coerente alle norme generali sull'istruzione stabilite dalla Repubblica. Ai risultati degli apprendimenti veniva conferita una sanzione ufficiale, mediante il valore legale dei titoli di studio.
In realtà, per ragioni storiche ben troppo note - come i veti incrociati, che conosciamo, delle forze politiche di allora, dalla corrente laico-liberale, da Benedetto Croce ai comunisti di allora -, per timore di una forte clericalizzazione della scuola pubblica, si decise che forse era meglio lasciare intatta l'organizzazione ministeriale, che era stata di stampo napoleonico, ma poi sostanzialmente di stampo fascista. Si depurarono i programmi e così cominciò l'avventura dell'istruzione statale, di fatto tutta incentrata sul ministerialismo statalista.
Il paradosso è derivato proprio dal fatto che una cultura sociale e politica quale quella della Costituzione del 1948, che era nata con il popolarismo, per l'autonomia, la sussidiarietà, il regionalismo, il decentramento, la parità, si è trovata invece in questo modo a praticare scelte e strategie esattamente opposte.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Esprimo un particolare apprezzamento per l'utilizzo del termine «popolarismo». Mi sembra un caso di lessico ritrovato per lei; il che è una buona cosa.
VALENTINA APREA. La stupirò con un effetto speciale alla fine del mio intervento, così capirà come è difficile interpretare, a volte, anche il cattolicesimo. Abbiamo dovuto aspettare prima il 1973, con la partecipazione delle famiglie alla gestione ministeriale della scuola, e poi gli anni a cavallo del nuovo millennio, per vedere riproposto, in un nuovo e più maturo contesto, proprio l'impianto istituzionale della Costituzione formale, che prevede l'autonomia delle istituzioni scolastiche, la parità e la sussidiarietà, con il Titolo V, che oggi tutti fanno finta di dimenticare.
Dopo la vittoria del «no», in realtà, anche tra noi politici c'è una sorta di dimenticanza di questo Titolo V che rimane lì, invece, a ricordarci che sussidiarietà e federalismo fanno parte dell'organizzazione della Repubblica.
Infine, un ritorno - perché noi abbiamo preso sul serio il Titolo V - alle norme generali sull'istruzione con la legge n. 53 del Governo Berlusconi.
Insomma, con la nostra riforma lo Stato dà gli indirizzi generali, verifica l'acquisizione dei livelli di apprendimento, assicura ad ogni famiglia e studente pari opportunità di accesso ai percorsi di istruzione e di successo formativo, senza più gestire in maniera completamente centralizzata i percorsi di studio.
Ministro, lei ha fatto riferimento continuamente all'autonomia. Tuttavia, mi preme sottolineare che se non cambiano i curricula, intendendo con ciò l'introduzione di flessibilità, l'autonomia non ha senso.
Il cambiamento introdotto dalla legge n. 53 parla di personalizzazione dei piani di studio; di flessibilità organizzativa e didattica; di alternanza scuola-lavoro; di certificazione di competenze; di un nuovo concetto di equità espresso dal diritto-dovere di istruzione e di formazione fino ai 18 anni; di pari dignità di tutti i percorsi; di innalzamento al 20 per cento della quota di autonomia riservata alle scuole, che lei, ministro, ha confermato.
Anche in questo caso, tuttavia, avremmo gradito una maggiore onestà intellettuale nella sua comunicazione istituzionale, avremmo apprezzato il riconoscimento al Governo Berlusconi di questa importante modifica organizzativa. Invece da più parti, anche sulla stampa, è stato detto che il ministro Fioroni, appena è arrivato, ha portato l'autonomia dal 15 al 20 per cento.
Per carità, siamo ben lieti che lei si faccia garante di questa innovazione. Forse però deve considerare che anche a noi è costato qualcosa averla introdotta nel decreto precedente. Comunque, va bene così. Non è questo il punto.
Del resto, queste modalità organizzative dell'istruzione appartengono già da tempo ai più efficaci sistemi educativi europei ed internazionali. In Svezia, Finlandia, Canada e Inghilterra, tanto per citare qualche esempio, non esistono orari annuali di lezioni. Le scuole sono tenute a garantire i risultati al termine dei periodi didattici. È assolutamente indifferente che gli studenti arrivino ai livelli attesi in un certo numero di ore piuttosto che in un altro, o che lo facciano con percorsi di apprendimento formale o informale. Queste scelte, in quei paesi, competono esclusivamente alle scuole che, come si può intuire, hanno un livello elevato di autonomia e non hanno un Ministero come il nostro, né le graduatorie permanenti di cui ha parlato il ministro prima.
Noi, a fatica, abbiamo aperto la strada ad un impianto educativo meno rigido e più attento alle reali esigenze dei singoli studenti e delle diverse realtà territoriali, per far sì che la nostra scuola sia non solo di massa ma anche di qualità. Noi vogliamo una scuola che garantisca non solo e non più l'accesso all'istruzione, ma il successo educativo e formativo. E questo non lo si può fare solo aumentando gli anni scolastici.
Cosa ha fatto lei, invece, ministro Fioroni? Come primo atto ha bloccato la sperimentazione dei licei e dei campus tecnico-professionali. Non è vero che lei era tenuto a render conto alle regioni. Questa era una sperimentazione tutta ministeriale. La leggerezza con cui lei e l'amministrazione avete impedito alle scuole interessate di sperimentare nuovi modelli organizzativi didattici, volti a qualificare e differenziare l'offerta formativa secondo le richieste degli studenti e delle famiglie, ci ha sconcertato.
Tutto ciò ci è apparso ancora più scandaloso ripensando alle creative, e fin troppo disinvolte, sperimentazioni che il Ministero ha promosso e sostenuto negli ultimi decenni nella scuola superiore. Non primi e non ultimi, quei licei tecnologici, voluti da Berlinguer come anticipazione della sua riforma, e naturalmente sopravvissuti a lui e alla sua riforma, vengono attaccati dalla sinistra, solo perché ad introdurli nell'ordinamento - ironia della sorte - è stato un ministro del centrodestra e non più un ministro omologato a sinistra. Corsi e ricorsi storici.
Lei, ministro Fioroni, con quel suo primo atto, ha dimostrato di aver ceduto alle pressioni di quella parte della coalizione e di quei sindacati che hanno condotto una battaglia ideologica contro la riforma Moratti. Abbiamo letto sui cartelloni, in campagna elettorale, l'espressione «abrogare la Moratti», in cui tra l'altro si faceva anche uso del nome del ministro. Non sarebbe bello - credo - leggere una scritta che reciti «abrogare Fioroni».
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Ci sarebbe anche qualche rima peggiore!
VALENTINA APREA. Non la faremo, stia tranquillo! Non è nel nostro stile. La incalzeremo su altre questioni.
Voglio aggiungere, inoltre, che ha cominciato proprio male, se pensava di migliorare il sistema educativo italiano, mortificando la libera e autonoma progettualità delle scuole e ogni forma di innovazione didattica dei percorsi. Preoccupa e rattrista la visione dell'autonomia che affiora da queste prime mosse del nuovo esecutivo. Un'autonomia che viene usata solo per respingere ciò che non coincide con le sue idee, secondo la vecchia dottrina leninista e gramsciana dell'egemonia culturale.
Tra l'altro, non è assolutamente vero, ministro, che le scuole interessate sarebbero state solo 54 in tutta Italia. A noi risulta che molte delle richieste avanzate alle direzioni scolastiche regionali non siano state prese in considerazione né a quei livelli, né a livello centrale. Guardi ministro, posso capire la povertà, la miseria umana di chi ha paura del nuovo ministro e, quindi, nasconde anche le carte; non capisco, invece, chi ha le nuove responsabilità e non esige di avere quelle carte.
Le hanno fatto credere...
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Stando a ciò che lei dice, quindi, io dovrei pensare che la dirigenza generale del Ministero, nella sua totalità - da me ereditata e rispetto alla quale ho sempre creduto nella terzialità - abbia operato su una riforma con convinzione e poi, con la stessa convinzione, l'abbia insabbiata?
VALENTINA APREA. È amministrazione, ministro. E siccome era una sperimentazione...
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. La inviterei a non pensare una cosa del genere, perché mi sembra di cattivo gusto. Oppure potevate sceglierli bene!
VALENTINA APREA. Non ne faccio una questione di persone. Le dico soltanto che a noi risultava, e risulta, che molte scuole hanno fatto deliberare dai propri collegi docenti la volontà di procedere alla sperimentazione. Tra l'altro - sono presenti colleghi che sanno benissimo che sto dicendo la verità -, molte di queste richieste, in particolare, riguardavano la possibilità di sperimentare, negli attuali licei, l'indirizzo del liceo musicale e coreutico. Mi scusi, ministro, ma glielo devo dire: quella che lei ha scelto è la strada sbagliata...
ALBA SASSO. Con quale titolo uscivano dalla scuola questi ragazzi?
VALENTINA APREA. Con il titolo del liceo scientifico con la sperimentazione musicale e coreutica. Come avete sempre fatto per cinquant'anni con le vostre sperimentazioni, inclusa quella di Berlinguer che - lo ripeto - continuiamo ancora a mantenere! Le scuole superiori non sono più quelle del 1923. Sono quelle della proposta Brocca o sono tutti i licei sperimentali, come il liceo scientifico con indirizzo musicale e coreutico. La soluzione amministrativa l'avete trovata voi in questi cinquant'anni! Quando noi siamo arrivati al Governo tali sperimentazioni erano già in corso da tempo.
Non ho qui il tempo di ripercorrere (Commenti)...
PRESIDENTE. Prego i colleghi di non interrompere, anche per consentire una resocontazione della seduta che risulti comprensibile.
Onorevole Aprea, la invito ad avviarsi alla conclusione.
VALENTINA APREA. Devo svolgere il mio intervento per intero, perché in seguito il mio gruppo avrà solo uno o due iscritti a parlare.
PRESIDENTE. Tuttavia, sarebbe importante dare la parola anche ad altri, dal momento che lei sta parlando da mezz'ora...
VALENTINA APREA. Abbiamo stabilito che proseguiremo i lavori in un'altra seduta e, quindi, la discussione non si conclude oggi.
PRESIDENTE. La seduta terminerà alle 16,30, però devo dare la parola anche ad un altro collega.
VALENTINA APREA. Va bene, cercherò di essere veloce. Tuttavia, la invito a tenere presente non solo la ricchezza di informazioni e posizioni prese dal ministro, ma anche i decreti, gli atti che sono stati già depositati. In questa occasione non ho il tempo di ripercorrere tutte le motivazioni che portarono, allora, a decidere dell'istituzione di questo liceo. Certo è che, senza questo percorso di studio, i ragazzi che già frequentano le scuole medie a indirizzo musicale e che hanno intenzione di frequentare l'AFAM - i cui rappresentanti oggi incontrano il ministro Mussi -, dovranno continuare a coltivare gli studi musicali e artistici in aggiunta alle lezioni del mattino e a proprie spese. Non mi pare molto democratico e neanche molto di sinistra questo percorso.
Per queste ragioni, chiedo a lei ministro, in questa circostanza, di ripensare alla possibilità di autorizzare, di intesa con la direzione generale dell'alta formazione artistica musicale e coreutica, per il prossimo anno scolastico, l'avvio di percorsi liceali musicali e coreutici e di colmare questo buco nella formazione dei nostri ragazzi. Tra l'altro, molte amministrazioni di sinistra (dell'Emilia-Romagna, come delle regioni del centrodestra) come si è detto ieri col ministro Rutelli, hanno questa vocazione e questa aspirazione.
Veniamo alla decisione contenuta nel decreto cosiddetto mille proroghe. Onestamente, eravamo pronti ad una revisione del decreto del secondo ciclo ma, come dice la saggezza popolare, evidentemente al peggio non c'è mai fine. Così abbiamo dovuto prendere atto...
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. È stata dura!
VALENTINA APREA. È stata dura per noi! So che lei fa battute, e mi auguro di essere citata nel libro che scriverà alla fine di questa legislatura, tuttavia, in questo caso, credo veramente che ci sia poco da ridere.
Come dicevo, abbiamo dovuto prendere atto, con preoccupazione e sconcerto, che non solo si blocca tutto il processo riformatore fino all'anno scolastico 2008-2009, ma che dentro questo blocco finiscono istituti innovativi, come l'alternanza scuola-lavoro, il diritto-dovere, e persino il primo ciclo che ormai era prossimo alla messa a regime.
Nel dibattito che si svolgerà tra qualche giorno su questo decreto, avremo modo di illustrare minuziosamente le conseguenze di tale scelta. Oggi, invece, in questo dibattito, mi preme lanciare l'allarme su due aspetti che ritengo particolarmente gravi. La prego di seguirmi, ministro, perché questo è un passaggio molto delicato.
Vorrei sottolineare che lo slittamento temporale previsto dai decreti inficia e annulla gli sforzi compiuti dal nostro Governo per rincorrere e raggiungere gli obiettivi di Lisbona e, insieme a quelli, i benchmark internazionali dell'istruzione.
Infatti, tanto l'Europa, quanto i contesti internazionali hanno previsto, per il 2010- 2013, l'arco di tempo in cui dovrà essere raggiunta tutta una serie di obiettivi, attraverso degli indicatori comuni.
Tuttavia, se il sistema educativo nazionale non riconosce questi indicatori, nel senso che non crea le premesse per misurarne gli effetti, non solo non ci sarà la possibilità per la scuola italiana di affermarsi come scuola europea, ma ciò che è più grave è che i nostri studenti non saranno messi nelle condizioni di competere con i coetanei europei e faranno fatica ad utilizzare strumenti come Europass o ad accedere alla mobilità europea, come cittadini e come lavoratori.
La certificazione delle competenze non è un'invenzione nostra o dei nostri pedagogisti, ma è un processo europeo.
Per essere più concreta, ministro Fioroni, anche sul Il Sole 24Ore di oggi si parla del debutto dei nuovi licei dal 2008. Ammesso e non concesso che riusciate a far partire i nuovi percorsi per l'anno scolastico 2008-2009 - sul fatto poi che siano nuovi lasciatemi dubitare -, si arriverebbe comunque all'anno scolastico 2012-2013 con le prime classi quinte riformate!
Ci rendiamo conto del danno che stiamo arrecando alle giovani generazioni? Possiamo davvero pensare di perdere i primi 15 anni di questo secolo, svolgendo ancora discussioni sulla scuola superiore, mentre la casa brucia e i 670 indirizzi sperimentali gridano vendetta? Le ricordo, infatti, che abbiamo 670 indirizzi sperimentali della scuola superiore, che lei, stando a quanto ha dichiarato, intende confermare tutti: quello tecnico, quello professionale e via dicendo.
Ci pensi, ministro Fioroni, accorci quel tempo maledettamente lungo che si è dato per apportare modifiche e correttivi - come ipocritamente avete dovuto scrivere nel decreto - e decida presto sul da farsi rispetto al processo riformatore.
L'unica cosa che non può fare lei, perché non glielo permetteremo noi, ma soprattutto le scuole e il paese, è stare fermo e agire come se si trovasse in una
palude. Se volete cambiare, fatelo subito. Assumetevi le vostre responsabilità, ma non fino al 2009! È davvero pazzesco questo!
Per quell'anno, voi sarete a metà legislatura e anche oltre, ma intanto il paese e la scuola avranno perso le sfide del 2010 e del 2015. Si ricordi, ministro Fioroni, che ogni giorno rubato alla riforma è un giorno perso per il futuro dei giovani! Ne risponderà a noi, ma soprattutto a loro.
Il secondo allarme che intendo lanciare in questa sede riguarda le dubbie note, da lei prodotte, sullo strumento del portfolio, sulla figura del tutor e sull'anticipo negato nella scuola dell'infanzia. Ancora una volta, ministro, le faccio notare che nel caso del portfolio, del tutor e via dicendo, si tratta di leggi!
Se lei intende cambiarle, lo può fare legittimamente, ma venga in Parlamento a farlo, non scarichi sulle scuole la responsabilità di adottare o meno strumenti che sono nelle leggi! Lei non lo può fare, lei è un ministro politico! Lei sa bene che peso abbia una legge. Se una legge è entrata in vigore, lei deve farla rispettare! Non può invitare le scuole a scegliere come meglio credono, nell'ambito della loro autonomia.
Che paese è questo? Non riesco a capire. È davvero una delusione.
Venga in Parlamento e ci informi circa la sua decisione di abolire questo o quel provvedimento, come ha fatto con l'anticipo, e con tutto il resto, ma non si nasconda dietro la via amministrativa, che è pericolosissima, dal momento che quella è un'amministrazione antica.
In seguito parleremo di tutti gli altri argomenti rimasti in sospeso, come quello del tempo pieno, del tempo prolungato e via discorrendo.
Inoltre, ministro, a proposito della deriva familistica, le voglio dire che quella se la poteva risparmiare! Proprio da lei vengono parole di queste genere! Possibile che anche lei, che è cattolico, parla di deriva familistica circa la libertà di scelta delle famiglie su un pezzetto di orario, un pezzetto di tempo a scuola e un pezzetto di materie! La prego! Quando le suggeriscono i discorsi, cerchi almeno di non riportare queste derive. Onestamente, non credo che l'amico e collega Fioroni - la sua storia parla - possa accettare di considerare una libertà di scelta da parte delle famiglie come una deriva familistica.
Vengo velocemente alla seconda e alla terza questione, in quanto, evidentemente, ci torneremo dopo.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Bisogna sempre tener presente che il figlio è un essere umano e non un oggetto. Quindi, la deriva non sta nel non valorizzare la famiglia, ma nel consentire alla stessa di dare al figlio la dignità che gli compete.
FABIO GARAGNANI. Non compete allo Stato!
VALENTINA APREA. Esatto, non compete allo Stato.
La seconda questione a cui accenno fungerà da cartina al tornasole riguardo all'effettiva volontà del Governo di non interrompere questo processo. Sto parlando della grande questione relativa al fatto che i percorsi liceali e quelli di istruzione e formazione professionale secondari superiori abbiano pari dignità. I detrattori della riforma insistono nel sostenere che abbiamo reintrodotto il canale dell'avviamento professionale. Questa posizione è pretestuosa. Il nostro paese sta seguendo un percorso nazionale che, con riferimento agli impegni assunti in ambito europeo, è cominciato con la legge n. 196 del 1997, è proseguito con la legge n. 144 del 1999, articoli 62 e 69, con la riforma del Titolo V e via discorrendo e, infine, è stato ampliato con la nostra riforma, che ha ricondotto, con il decreto legislativo n. 76 del 2005, la formazione professionale nel sistema educativo unitario di istruzione e formazione destinato ai giovani fino ai 18 anni.
Con la nostra legge, noi abbiamo consentito al Ministero, della pubblica istruzione oggi, di presidiare questo aspetto che era del Ministero del lavoro e della formazione professionale. Noi l'abbiamo riportato
nell'istruzione, senza però annullarlo nella scuola, nel canale scolastico.
I percorsi di FP, come i percorsi liceali, si riferiscono ai risultati dell'apprendimento, e non a quelli della prestazione professionale, come il vecchio addestramento professionale. Si introduce una nuova cultura del lavoro, si offre la possibilità ai giovani di scegliere in base alle loro diverse intelligenze creative, ai loro interessi e alle loro vocazioni. Attraverso la diversificazione dei percorsi, è inoltre possibile contrastare la dispersione scolastica e formativa.
Una recente indagine, condotta da Unioncamere, indica un fabbisogno di oltre 440 mila operatori specializzati, che il nostro sistema formativo non è in grado di preparare allo stato attuale, e di 85 mila tecnici superiori. Le riforme Moratti e Biagi hanno aperto nuove frontiere per corrispondere a queste esigenze del mercato del lavoro, della crescita e della coesione sociale, attraverso competenze professionali sempre più flessibili e indirizzate a promuovere l'innovazione.
Inoltre, non si può continuare a ignorare che lo sviluppo della formazione professionale è una priorità sempre più strategica per l'Europa.
Dal 2000 al 2013 - questo è il processo di cui parlavo prima, quello della VET -, l'Italia deve colmare una distanza di almeno 25 punti rispetto alla media dei paesi europei. Viceversa il percorso scolastico è offerto come unico percorso di formazione, anche nell'istruzione tecnico-professionale, e continua a mietere vittime innocenti, come ci confermano i recenti risultati degli scrutini di fine anno scolastico.
Ministro, si faccia consegnare gli esiti degli scrutini degli istituti tecnici e di quelli professionali. Se ha sfogliato la rassegna stampa, non le sarà sfuggito il titolo che parla di promozioni record nei licei e di una stangata negli istituti tecnici. Ciò che da anni seguo con passione e interesse, e che purtroppo non riesco a superare - la politica a volte deve registrare fallimenti -, è l'insuccesso nell'istruzione professionale statale.
Sa cosa è successo a Milano, nelle classi del Caterina da Siena, che è un istituto professionale? Ebbene, dal 34 al 36 per cento degli studenti sono stati bocciati. Allo stesso modo, si è verificata una strage anche all'istituto tecnico Giorgi, dove vi sono state 96 bocciature. Se questo accade è perché questi istituti sono diventati - così come li abbiamo ereditati dalle varie riforme, dai progetti Brocca, sperimentali e via discorrendo - dei veri licei senza esserlo.
Non è necessario, quindi, cambiare il nome di queste scuole, intervenendo dal punto di vista nominalistico. In realtà, infatti, anche l'istituto professionale è diventato un liceo per il tipo di studio e di cultura che sono proposti.
Evidentemente, abbiamo bisogno di dare delle possibilità di formazione e di realizzazione anche con altre modalità di apprendimento. L'Europa parla addirittura di apprendimenti informali che possono valere per il raggiungimento di competenze certificabili e certificate. E noi vorremmo costringere nell'unico recinto scolastico tutti gli studenti fino a 16 anni? Forse ciò che sfugge è che siamo nel 2006.
Alcuni giornali che seguono il mercato del lavoro, presentano addirittura dei titoli che recano: «Saldatori corteggiati più degli ingegneri. Tornitori, infermieri e contabili: professioni introvabili per guadagnare e per non rimanere disoccupati». Nonostante questo, noi continuiamo a costringere tutti gli studenti a restare nelle scuole, e facciamo finta che questi discorsi non ci riguardino.
L'unica luce che ho potuto intravedere nel discorso del ministro è la possibilità di far proseguire i percorsi triennali, sperimentali, di istruzione e formazione professionale, anche se poi, subito dopo, egli ha affermato che non può trattarsi di un modello nazionale. Lo faccia decidere alle regioni, signor ministro! Non possiamo noi, come Stato, decidere se un provvedimento deve valere o meno per le regioni, a seconda che queste siano più o meno più avanzate.
Voglio aggiungere solo una considerazione, in riferimento ai percorsi sperimentali.
Che si siano date nuove opportunità di formazione ai giovani, è dimostrato dai risultati conseguiti - che per la verità sono stati richiamati anche nel discorso del ministro - da coloro i quali hanno già concluso il primo triennio sperimentale. In Lombardia, ad esempio, nel 2006, sono raddoppiati i ragazzi che tra i 14 e i 18 anni si sono iscritti a questi percorsi regionali e si preparano a diventare, con qualifiche riconosciute a livello nazionale ed europeo, operatori alimentari, grafici artigiani con indirizzo artistico, operatrici della moda, tecnici elettronici, elettricisti, operatori edili e via dicendo. In alcune regioni, inoltre, è stato possibile attivare anche il quarto anno. In definitiva, dunque, non si capisce perché si debba parlare di discriminazione.
Le preannuncio a questo proposito - questione che poi presenteremo in Commissione e discuteremo col presidente - l'intenzione di Forza Italia di proporre un'indagine conoscitiva sull'istruzione e formazione professionale nel paese, affinché non cada nel nulla questa tensione a dare la dignità di percorso formativo anche a studi di questo genere.
La terza ed ultima questione rimanda a una nuova professionalità dei docenti, senza la quale nessuna riforma potrà essere efficace.
Il primo strumento per realizzare questo obiettivo è costituito, dal nostro punto di vista, dall'accelerazione dell'attivazione dei nuovi percorsi in area magistrale, quelli che lei, ministro, ha bloccato fino al 2010. Ripensiamoci! E fate in fretta! Vi prendete due anni di tempo, ma mi auguro che argomenti come quello del percorso di formazione vengano affrontati presto.
È pur vero che dovremo interrogare il ministro Mussi su questi aspetti ormai, ma avrete capito che, se non diamo alle giovani generazioni la possibilità di formarsi diversamente come insegnanti, non resterà altro che quel canale che lei non vuole più, ossia la supplenza. O li formiamo nelle università, li abilitiamo e li immettiamo in ruolo quando sono ancora giovani, favorendo il ricambio generazionale, oppure creiamo più precariato attraverso i supplenti. Non c'è via di uscita. La diagnosi ormai è chiara.
Oltre a questa formazione iniziale, occorre riformare lo stato giuridico degli insegnanti, che è vecchio di trent'anni; introdurre una progressione di carriera, necessaria per far decollare l'autonomia delle scuole; istituire un'area di contrattazione autonoma e separata; valorizzare anche il forum istituito nella scorsa legislatura, ma questo l'avete fatto anche voi.
Peraltro, da quando il Governatore Draghi ha parlato di merito e dell'importanza di introdurre il merito nella carriera dei docenti e dei ricercatori universitari, è nato un dibattito. Come al solito, sulle prime si è aperta una bellissima discussione sulle pagine dei giornali, e poi ce ne siamo dimenticati.
Presidente Folena, credo che presenteremo questa proposta di legge e che chiederemo di riprendere una discussione che, tra l'altro, era arrivata anche a un punto avanzato nella scorsa legislatura. Mi auguro che il ministro possa apprezzare questo tipo di volontà della nostra forza politica.
Nel suo discorso, lei, signor ministro, ha anche promesso agli insegnanti degli stipendi europei. A questo punto, dovrebbe avere anche l'onestà di spiegare loro che stipendi e professionalità europei sono possibili solo con una riforma all'europea della scuola e della professione docente e che, per fare questo, sono necessari enormi investimenti. Diversamente, si tratta di pura demagogia, buona solo a gettare fumo negli occhi e nulla più.
Sugli esami di Stato, ho avuto modo di affrontare in Assemblea le ragioni della mia contrarietà, ma anche di Forza Italia, sul fatto di intervenire semplicemente sulla modifica della commissione. Siccome ritorneremo ad esaminare il provvedimento in Assemblea, la inviterei a partecipare alla discussione di quel provvedimento, per comprendere le nostre ragioni.
Inoltre, sempre a tal proposito, è sbagliato dire che col Governo Berlusconi abbiamo cambiato solo la commissione. Noi abbiamo previsto, nella riforma della
scuola, tutta una serie di modifiche, che vorremmo vedere almeno sperimentate prima di ritornare solo e soltanto alla vecchia commissione.
Insomma, non vi è dubbio, ministro Fioroni, che i nodi da me richiamati rimandano alle leggi approvate nella scorsa legislatura dal Governo Berlusconi. Tuttavia, deve essere chiaro che metterle in discussione, del tutto o in parte, non significherà soltanto modificare le politiche educative rispetto a un Governo che non c'è più, ma vorrà dire anche mettere in discussione la strategia europea dell'apprendimento, che è finalizzata a porre al centro non i sistemi educativi, ma gli individui e, quindi, il loro diritto soggettivo all'education. Non parliamo solo del sapere individuale, inteso come acquisizione di conoscenze, ma soprattutto del diritto allo sviluppo di competenze per la cittadinanza e l'occupabilità.
Lei ha citato Don Milani. Per me, resta importante la figura di Don Sturzo, che credo possa essere un riferimento anche per lei.
PRESIDENTE. Questa è una affinità con la deputata De Simone!
VALENTINA APREA. Ci dobbiamo confrontare con la deputata De Simone. Devo regalarle prossimamente questo libro, così lo leggeremo insieme e potremo confrontarci. Sturzo, nel 1947, affermava che finché la scuola in Italia non sarà libera, nemmeno gli italiani saranno liberi, come ricordiamo tutti. Ma, soprattutto, nel 1952, ricordando Maria Montessori della quale fu amico, Sturzo affermava di essersi più volte domandato perché, da 45 anni ad allora, il metodo Montessori non fosse stato diffuso nella scuola italiana. Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta. Si tratta di un vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà, si vuole l'uniformità, quella imposta da burocrati e sanzionata dai politici; manca anche l'interessamento pubblico ai problemi scolastici, alla loro tecnica e l'adattamento dei metodi alle moderne esigenze. Forse c'è anche di più: c'è una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che sono alla base del metodo Montessori.
Si parla tanto di libertà, e di difesa della libertà, ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata, a cui mette mano lo Stato: dall'economia, che precipita nel dirigismo, alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla scuola monopolizzata dallo Stato e, di conseguenza, burocratizzata.
Ministro, lei non può dire che lascerà l'autonomia alle scuole, quando poi tutto è già deciso, e il 100 per cento del curriculum è bloccato da una rigidità che nessun paese europeo ormai mantiene.
Pertanto, prevedere - come alcuni settori della maggioranza vorrebbero e come lei ha confermato - di definire sulla Gazzetta Ufficiale un tempo scolastico uguale per tutti, impedendo qualsiasi altra scelta di carattere formativo e negando la possibilità di riconoscere qualsiasi percorso, non aiuterebbe a contrastare l'abbandono scolastico. Anzi, farebbe aumentare tale fenomeno, come di fatto l'attuale sistema della secondaria, non ancora riformata, ha dimostrato. Inoltre, mortificherebbe le attitudini e le vocazioni dei giovani e impedirebbe di collegare, in un'unica filiera formativa, i diversi livelli di formazione e specializzazione professionale.
Se il Governo deciderà, dunque, di proseguire nella modernizzazione del sistema educativo nazionale, in coerenza con gli standard europei, per estendere le opportunità di accesso all'educazione di ogni studente, coniugando diritti e doveri, opportunità e responsabilità, non mancherà il nostro convinto apporto e la nostra condivisione.
Viceversa, se la scelta sarà quella di tornare indietro, se si vorrà cancellare pregiudizialmente e ciecamente tutto il lavoro svolto, per tornare, come in un gioco dell'oca bizzarro, al punto di partenza, mettendo a rischio di implosione il sistema e il futuro delle giovani generazioni, la nostra opposizione sarà determinata in Parlamento e nel paese.
Sta a voi, a lei, ministro, decidere. Non c'è molto tempo a disposizione. Lei si è preso troppo tempo.
Inoltre, e soprattutto, al punto in cui siamo, dobbiamo ricordare che le scelte che si compiranno saranno irreversibili. I processi di cambiamento dei sistemi educativi durano decenni. Purtroppo, in Italia, da troppi decenni si discute del cambiamento, ma non si riesce ad attuare definitivamente nulla. La scuola, i giovani e l'Italia non possono più attendere.
In questo quadro, lei, oggi, non ha fatto altro che produrre una frenata a una macchina in corsa. Se lo ricordi: si va a sbattere molto facilmente, ma poi non esiste rimedio, ed è necessario buttare la macchina.
Grazie. Chiedo scusa ai colleghi se ho rubato del tempo.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. È la prima volta che sento dire che frenando si va a sbattere! Di solito questo capita quando si sbaglia piede e si pigia sull'acceleratore.
PRESIDENTE. Sono stato di «manica molto larga», ma inviterei le colleghe e i colleghi a contenersi nei loro interventi.
Rimango dell'opinione che in queste nostre audizioni debba vigere un principio di autoregolamentazione. Ritengo inoltre che, in occasione degli incontri con ministri, sia nostro compito privilegiare un confronto aperto e appassionato fra posizioni contrapposte o diverse. Tuttavia, inviterei le colleghe e i colleghi a non abusare di questo spirito di autoregolamentazione, per permettere a tutti di intervenire.
Do ora la parola alla deputata Sasso.
GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione. Per sette minuti? Credo che ormai non abbia senso.
PRESIDENTE. Può anche intervenire in un'altra occasione.
ANTONIO PALMIERI. Presidente, un'emozione non si può comprimere in sette minuti!
PRESIDENTE. Se l'onorevole Sasso vuole dire qualcosa ora su qualche aspetto, può benissimo farlo, e poi magari può riprendere anche la parola. Se invece vogliamo chiudere qui la seduta, non ho nulla in contrario.
ALBA SASSO. Presidente, credo che nei sette minuti che mi restano potrei fare un grande sforzo di sintesi. Tuttavia, dopo aver ascoltato la relazione puntuale e approfondita del ministro, nonché la controrelazione dell'onorevole Aprea, credo di dover preparare il mio intervento.
L'unica cosa che posso fare da subito è ringraziare il ministro Fioroni per avere aperto il suo intervento dicendo che la scuola italiana non è morta. La scuola italiana è viva, vivissima e, se mi posso permettere una battuta, è anche un po' «incazzata»!
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro ed i colleghi per i loro interventi.
Rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.
La seduta termina alle 16,25.